Sei sulla pagina 1di 113

INDICE*

I. NOMADISMO E STANZIALITÀ 3 È nota la complessità degli aspetti che riguardano la


città, l’evoluzione nel tempo del suo vólto e signi-
ficato, di quanto comunque essa sia e sia stata sempre,
0. Premessa di metodo. Le 5 definizioni. 3
1. Nomadismo e stanzialità: la rivoluzione neolitica. 3 nelle sue stratificazioni, la rappresentazione fisica della
2. Dalle caverne al villaggio. La specializzazione del società del tempo. C’è dunque l’assoluta necessità cul-
lavoro, la proprietà. 13 turale di conoscerne la natura, lo sviluppo, la struttura
3. Dal villaggio alla città: Uruk e le altre. 14 se si vuol capire la storia, il luogo e il tempo in cui si
4. Forma urbis: fasi e modi di strutturazione. 16 vive oggi la città.**
Morfismi: aggregazioni animali, circuiti elettronici. Dal villaggio alla megalopoli, passando per la città-stato,
5. La matrice reticololare. 17 la città ideale, la metropoli, lungo tutta la storia del-
6. Le città-palazzo, le città di servizio. 26 l’uomo stanziale, questo classico “luogo dell’abitare in
7. La manipolazione umana dello spazio. 28 comunità” raccoglie tutte le caratteristiche dello “stare
Analogie e invarianti. Attrattori e barriere.
insieme” , cioè incarna sistemi politici, corpus legisla-
II. IL SACRO, IL PENSIERO, IL POTERE 32 tivi, credi religiosi, costumi, modi di essere dell’uomo e
1. La costruzione simbolico-geometrica della città. 32 sue idee del mondo. Se si capisce la città si capisce
I riti di fondazione. l’uomo in mens e ars.
2. La città come rappresentazione del potere. 40 Da queste premesse discende la nostra scelta di un metodo
III. I MODI DI TRASFORMAZIONE DEL TERRITORIO 48 didattico e di comunicazione interdisciplinare, che non
1. Geografia e urbanesimo.Le connessioni lineari. 48 s’impernia necessariamente sulla storia, ma va per temi,
2. Le città-territorio: il caso della “città vesuviana”. 51 facce talora inedite, nascoste ma fondanti di quella che è
la massima espressione del lungo processo di antropizza-
IV. CITTÀ E PRODUZIONE: VERSO LA CITTÀ LIQUIDA 55 zione del pianeta. Lo scopo è indurre ad abbandonare gli
1. Dalla metropoli alla megalopoli: la colonizzazione urbana. 55 stereotipi, anche professionali, attraverso cui si è soliti os-
2. Dalla Megalopoli al villaggio globale, alla città liquida. 63 servare il luogo abitato, per scoprire radici e ragioni della
3. Le nuove città ideali e le città pop-up. 72 contemporaneità:
4. I sistemi urbani in Italia, nel Mezzogiorno, a Napoli 78
– radici, rappresentate da tracciati, persistenze di
V. LA CITTÀ DEI SEGNI 80 piano, impianti urbani, ma anche reperti edilizi, mo-
1. Dalla città dei segni alla città segnale. Il genius loci. Tracce. 80 numenti;
2. La città supporto pubblicitario. 86 – ragioni, rappresentate dal corpo fisico urbano di oggi
3. La rappresentazione non metrica della città: 91 che comunica – a saper leggere nei suoi segni – il
la pittura, la fotografia, il fumetto, la letteratura. pensiero della modernità.
4. I diagrammi di flusso. Lo sguardo percettivo:
le mappe mentali, le mappe sociali. Kewin Lynch. 101 Il fine ultimo è stare – e consapevolmente – nello spazio
urbano interpretandone i messaggi ed interagire con
VI. LA CITTÀ AI TEMPI DEL CORONAVIRUS 111 esso.

* I testi delle note sono in parte frutto di elaborazione da vari siti. Nel testo e nelle note le indicazioni [TAV. 0.00.] e [CAP.00.] rimandano rispettivamente alle
tavole e ai capitoli in questo libro ,mentre l’indicazione [BR. 00] ai brani contenuti nel libro-retro “Città raccontate”.
** La parola città deriva dal concetto più astratto della parola civitas. La sua etimologia ha riscontri nella radice indoeuropea ki o ci che significava giacere,
sedere, da cui i significati di insediare e abitare, ed ha riscontri anche nell’osco, con il termine ceus, e nel sanscrito con kevs. Ma già nell’epoca classica assu-
me il senso di città e di città-stato, corrispondente alla polis greca. È comunque nell’accezione di insieme di cittadini che si distingue da urbs, che indicava
invece la città come complesso di edifici e di mura.
La parola urbs deriva dal verbo urvare atto di tracciare il solco, (ad es. delle cinte murarie di una nuova città). A sua volta il verbo urvare si riconnetterebbe alle
parole urvus, che significa curvo, e a orbis, cerchio, a indicare la parte più antica della città, sia con forma circolare che quadrata; la delimitazione originaria, che
aveva anche aspetti religiosi, si identifica con il pomerium (pone-moerum letteralmente significava dopo il muro), la linea sacra che segnava il limite ideale entro
il quale cessava la giurisdizione dell’imperium. In opposizione a urbs, troviamo la parola rus, da cui rusticus, che indicava la campagna e i suoi abitanti, con tra-
dizioni e costumi diversi dal cittadino. In opposizione si rintraccia l’aggettivo urbanus, (educazione e raffinatezza dell’abitante della città). Nell’alto Medioevo il
termine civita è comune, e i riscontri nella toponomastica sono reperibili in tutta l’Italia, con particolare diffusione nelle isole e nell’Italia centro-meridionale.

2
I NOMADISMO E STANZIALITÀ

0 Premessa di metodo. Le 5 definizioni.

S
eguiremo in questa prima lezione lo storico e logico passaggio dal nomadismo1 alla stanzialità,
dal villaggio alla città, per poi abbandonare la linea temporale, perché presuppone una evoluzione
della città che consideriamo sostanzialmente non fondata. Questa tesi fa il paio con l’idea, anch’essa
discutibile, di progresso. Se intendiamo per sviluppo (o per progresso) una linea temporale che produce
miglioramenti qualitativi strutturali, dobbiamo ricordare come l’uomo, il suo pensiero, i caratteri della
società e dei suoi luoghi (le città) non sono mutati. Altrimenti non avremmo più violenza tra gli uomini
e più sobborghi nelle città.
Lungi dal debordare nel sociologismo, da ora in poi presupporremo che la città abbia costanti i suoi
caratteri, il che ci autorizza a comparare stadi trasformativi e caratteri di epoche diverse tra varie città o di
una stessa città, per scoprire sorprendenti invarianti, permanenze, persistenze.
Seguiremo sentieri alla ricerca di significati (diretti o traslati), caratteri, strutture sia per quanto attiene lo
spazio urbano che la società: filosofie sottese alle forme, significati sottesi ai simboli. E giungeremo a cinque
compresenti definizioni ragionate della città, che riteniamo esaustive nell’analisi di questo straordinario
fenomeno umano:
1ª definizione la città è figlia dell’agricoltura
2ª definizione la città è figlia dell’acqua, della terra e del fuoco
3ª definizione la città è figlia del pensiero
4ª definizione la città è figlia dell’architettura
5ª definizione la città è figlia dell’uomo

1 Nomadismo1 e stanzialità: la rivoluzione neolitica.


Nomadismo e stanzialità: nella storia dell’uomo questi due modi di vita hanno convissuto (e convivono).
Partiremo da qui in questo lungo viaggio verso la città, che è la vittoria della stanzialità non transitoria.
nomadismo integrale, regionale, stagionale, semi-nomadismo;
stanzialità stesse forme.
Questo peso è mutato nei millenni a vantaggio della sedentarietà che ha avuto un’impennata nel neolitico
[TAV. I.1], man mano che l’uomo è andato praticando l’agricoltura con tecniche sempre più evolute e con
conseguente aumento di produttività. È esistita anche una fase di agricoltura, per così dire, ‘di rapina’ nella
quale l’uomo ha abbandonato il terreno coltivato, non più produttivo a causa del suo sfruttamento naturale,
1. Nomadismo (dal greco νέμειν, pascolare), è uno stile di vita legato all’allevamento degli animali, che comporta un movimento nello spazio e, per estensio-
ne, qualunque forma di esistenza sociale che implichi spostamenti periodici necessari alla sopravvivenza e alla riproduzione del gruppo umano. Esso è stori-
camente legato alla necessità di procurarsi del cibo. La raccolta di vegetali selvatici, prima, e la caccia di erbivori gregari migratori, poi, sono le attività che, a
partire dal Pleistocene, orientano in senso nomadico la vita umana. Nella storia dell’Homo Sapiens (comparso tra i 50mila e i 40mila anni or sono), il nomadi-
smo di caccia e raccolta ha costituito il tratto più durevole sino alla rivoluzione neolitica (X millennio a.C.). Dato che nessun popolo preistorico praticava l’agri-
coltura, si può pensare che non vi fossero città, e neppure raggruppamenti di centinaia di individui stabili per lunghi periodi. Si pensi infatti che su un chilome-
tro quadrato di tundra potrebbero vivere tutto l’anno al massimo cinque renne, mentre per nutrire un uomo, ce ne vorrebbero più o meno, una decina all’anno.
[da: ANDRÉ LEROI-GOURHAN, La civilisation du renne,1936; trad. it., 1961].

3
cioè senza impiego di tecniche (la concimazione, il sovescio2, l’aratro). Anche l’allevamento degli animali
muta nel tempo, dal seguire semplicemente le mandrie selvagge l’uomo passa alla formazione del gregge,
cioè di una popolazione animale stabile e controllata. Da cacciatore l’uomo diventa anche allevatore, pastore.
Così, passando dalla transumanza3 venatoria all’allevamento transumante, si invertono i ruoli: sono le greggi
a seguire l’uomo. Inoltre il nomadismo in molti casi è solo stagionale (transumanza) e il passaggio da esso
alla stanzialità – o meglio, il prevalere dell’una rispetto all’altro – sarà lento e graduale.
Insieme a tutto ciò e alla maggiore richiesta di cibo in relazione alla crescita demografica dei gruppi, una
serie di invenzioni e scoperte, come sempre in gran parte fortuite (il fuoco, l’osservazione della germinazione
da semi), stimoleranno una maggiore esigenza di stare più tempo in un luogo, fino ad una definitiva
stabilizzazione e alla scelta di un territorio come proprio. C’è una progressione nella pratica della coltivazione
e dell’allevamento che porta ad insediamenti stabili a cominciare dalle caverne4, abitazioni semi-stabili in cui
l’opera ‘costruttrice’ dell’uomo consiste, al più, nell’asportazione del materiale da una caverna naturale [TAV. I.2].
2. sovescio: pratica agronomica consistente nell’interramento di apposite colture allo scopo di mantenere o aumentare la fertilità del terreno. Il s., quindi, è
un mezzo per concimare i terreni, anche nei paesi caldo-aridi, indipendente dalla disponibilità di letame.
3. transumanza: pratica di allevamento basato sullo spostamento del gregge in vari pascoli. «In vari Paesi, come si poteva notare sino a qualche decennio
fa – anche nel nostro e in quelli dell’Europa orientale – l’attività pastorale praticata da ceti sociali e talora da etnie diverse coesisteva con quella più tipicamen-
te agraria che a sua volta implicava, come si è accennato, un seppur limitato allevamento: oltre ai maiali, anche quello degli animali da tiro. Mentre quest’ulti-
mo presupponeva la monticazione (trasferimento delle mandrie all’alpeggio), anche la transumanza non era del tutto indipendente dall’agricoltura, in quanto
vi era un reciproco scambio di prodotti e degli stessi animali allevati. Inoltre anche i pastori, come capita tra i Beduini del deserto, potevano svolgere una par-
ziale attività coltivatoria.» [FORNI, 2015]. Di fronte alla lenta avanzata dei popoli agricoltori, che distruggevano le foreste e modificavano l’ambiente, i popoli
cacciatori si sono a poco a poco ritirati nel nord Europa e ad E nella pianura Sarmatica (Russia europea). La percentuale dei cacciatori-raccoglitori, pari al
100% della popolazione mondiale (10 milioni) nel 10.000 a.C. – ossia alla vigilia della rivoluzione neolitica – si sarebbe ridotta all’1% del totale (350 milioni)
nel 1.500 d.C., per scendere infine allo 0,001% del totale (3 miliardi) agli inizi degli anni settanta del XX secolo (v. Lee e DeVore, 1968).
4. Le grotte furono il primo rifugio dell’uomo e alcune di esse restarono certamente a lungo sede di culti arcaici, a quanto ci documentano le pitture rupestri.

4
La svolta decisiva avviene con una innovativa tecnica di coltivazione che di necessità importa la presenza costante
del coltivatore: il maggese5, “nel quale... le terre a coltura, una volta dissodate, vengono ormai permanentemente
sottratte alla invadenza della vegetazione spontanea, mentre il rinnovo della loro fertilità è assicurato, dopo
ogni ciclo cuturale, oltre che da un anno di riposo, dalle regolari lavorazioni del maggese e dall’eventuale
apporto di letamazioni o stabbiature più o meno abbondanti” (Sereni, 1961). Per cui possiamo enunciare una
prima definizione apparentemente paradossale:
1ª definizione. la città è figlia dell’agricoltura
Il mito di Caino e Abele e quello di Romolo e Remo non sono che la mitizzazione del conflitto tra
agricoltori e pastori, tra stanziali e nomadi. Remo fu ucciso per non aver rispettato il ‘sacro solco’. Il caso di
Caino è più complesso: egli per via del fraticidio è condannato a vagare in eterno, e invece, contro il volere
di Dio, fonda la prima città degli uomini, Enoch, abitata poi dai suoi discendenti (Genesi 4-1) [BR. 1]6. La divinità
biblica è patentemente dalla parte del nomadismo, considera la città come fonte del Male, si accanisce contro
Sodoma, Gomorra, Babilonia [BR. 5-8], vede la costruzione della torre di Babele come un atto contro natura, un
attacco alla sua autorità: “Così il Signore li disperse di là su tutta la faccia della terra ed essi cessarono di
costruire la città”. Il grande conflitto tra agricoltura e città è iniziato dunque già all’indomani della nascita di
5. Maggese: pratica agricola che consiste nella messa a riposo di un appezzamento di terreno per restituirgli fertilità. Il termine indica, per estensione, lo stes-
so terreno sottoposto a tale pratica, nonché il complesso delle operazioni necessarie per realizzare tale pratica. La tecnica della rotazione è utilizzata princi-
palmente in agricoltura in zone a clima caldo-arido. Il maggese rappresenta un’annata di “riposo” del terreno con lavorazioni periodiche capaci di tenerlo puli-
to da erbe infestanti e contemporaneamente mosso in superficie. La sua forma più classica prevede quattro lavorazioni del terreno (arature), distanziate di
circa 45 giorni, da marzo fino ad agosto, e possiedono profondità variabile: molto leggera l’ultima e più profonde la 1ª e la 3ª. Dalla raccolta della coltura pre-
cedente sino alla 1ª si sviluppa nell’autunno-inverno una vegetazione spontanea sfruttata per l’alimentazione animale. [WIKYPEDIA].
6.«Il fondatore della città terrena fu il primo fratricida. Sopraffatto dall’invidia uccise suo fratello, cittadino della città eterna e viandante in questa terra. Non c’è
da meravigliarsi dunque se tanto tempo dopo, nel fondare la città che doveva essere la capitale della città terrena, di cui stiamo parlando, e dominare tanti
popoli, si è avuta una fattispecie parallela a questo primo esemplare che i Greci chiamano ὰρχέτυπος. Anche in quel luogo, nei termini in cui un loro poeta
rammenta quel delitto, le prime mura furono bagnate di sangue fraterno. Roma infatti ebbe origine con un fratricidio. La storia romana narra appunto che
Remo fu ucciso da Romolo, a parte che costoro erano tutti e due cittadini della città terrena. Tutti e due attendevano la fama dalla fondazione dello Stato
romano, ma insieme non potevano averne ciascuno nelle proporzioni di uno solo… I fratelli Caino e Abele invece non avevano in comune una tale aspirazio-
ne ai beni della terra… Abele non esigeva il potere nella città che veniva edificata dal fratello… Ciò che è avvenuto fra Remo e Romolo ha mostrato come la
città terrena abbia delle scissioni in se stessa. Invece quel che è avvenuto fra Caino e Abele ha palesato le inimicizie fra le due città, di Dio e degli uomini.
[AGOSTINO, La città di Dio, Libro XV, cap. 5].

5
quest’ultima e non a caso urbs è quasi l’anagramma di rus , le due radici da cui deriveranno tutti i termini
indicanti il dentro e fuori del ‘recinto sacro’, la città e la campagna. Alla fine – come sappiamo oggi – la figlia
contenderà (freudianamente si può dire) lo spazio del pianeta alla madre, e in modo rapido e implacabile.
La cura da dedicare alle coltivazioni diventa tanto impegnativa da imporre non solo la stanzialità, ma
anche una certa divisione di ruoli prevalenti tra coltivatori, cacciatori e allevatori nell’ambito della stessa tribù.
Ma questa divisione sussisteva anche tra popoli cacciatori (nomadi) e popoli coltivatori (stanziali o semi-
stanziali). E i compascua7 intertribali sono una prova di convivenza tra tribù di coltivatori e tribù di allevatori.
7. «I compascua intertribali sono estesi territori utilizzati da più tribù pastorali (= pagi, con significato gentilizio, non territoriale). I c., verso i quali si trasferivano
durante la stagione primaverile-estiva i vari pagi di una confederazione (conciliabulum), erano situati nei territori molto elevati dell’interno, lontani dai luoghi
d’insediamento invernale a clima più mite, lungo i versanti marittimi, o pluviali. In questi ultimi convivevano con le genti agricole che provvedevano alla semi-
na dei cereali vernini, mentre i grani primaverili potevano essere seminati e coltivati da loro stessi anche nelle fasce di media altitudine» [Forni, 2015].

6
L’assetto abitativo complessivo non è ancora una città, ma un villaggio, cioè un’aggregazione di un certo
numero di rifugi stabili pressoché identici [TAV. I.5.]; il che è già una evoluzione rispetto alla caverna. I casi dei
villaggi preistorici presso Nola e Poggiomarino [TAV. I.3,4] sono indicativi rispetto al discorso del passaggio alla
città: le capanne inscritte in recinti hanno in comune tra loro, oltre che la prossimità, solo alcune funzioni-
base – l’ovile ed il pozzo – avendo i restanti spazi non propriamente un valore infrastrutturale,
urbanistico,’pubblico’, bensì di luoghi residuali: sono più spazi di nessuno che spazi di tutti8
L’elemento fondante, primigenio del villaggio è dunque il rifugio, la ‘casa’, prima del villaggio e,
conseguentemente, prima della città. Ma se il villaggio può rappresentarsi come un insieme di capanne, la
città non è un insieme di case: dove la città lo è diventata, ha perso i suoi connotati, la sua identità, per essere
inglobata in città contigue più potenti, divenenendone sobborghi o, al meglio, zone residenziali. Lo vedremo
quando parleremo di conurbazioni, di città metropolitane e di colonizzazione urbana [CAP. V].
Per tornare al vilaggio, il carattere che maggiormente gli manca è la presenza di un ‘centro’ e, in esso, di
edifici pubblici, cioè di elementi materiali che incarnino ed identifichino la ‘comunità’, dove si possano
prendere decisioni (che è lesercizio del potere). La presenza di questi elementi è l’indice della formazione
delle classi e della ricchezza, che sono proprie di civiltà più mature. Il villaggio ha però già un carattere
comune in cui tutta la tribù si riconosce: la terra e gli armenti sono affidati a ciascuna famiglia da una divinità
suprema per un tramite umano (l’anziano della tribù, lo sciamano): il sacro viene dal profano.
Ma sulla nascita del sacro non c’è una teoria univoca. Noi adotteremo la linea delle con-cause. È valida
l’ipotesi che fa derivare il ‘sacro’ dal culto della terra e dei morti, dal momento in cui il coltivare fa emergere
8. In un villaggio preistorico tipico ciascuna capanna (in legno e fango) era abitata da gruppi composti da 6 o 7 Individui e ogni “clan” delimitava il proprio ter-
reno con palizzate e steccati (probabilmente a difesa di incursioni di animali). Almeno 40 insediamenti simili erano disseminati in poco meno di 6 kmq.L’inse-
diamento, che avrebbe avuto probabilmente la funzione di porto fluviale sulle rive del fiume Sarno, era caratterizzato da tanti isolotti artificiali sostenuti da
robusti tronchi di quercia piantati nel fondale melmoso in modo da consolidarlo. I bordi erano rafforzati da pali e paletti infitti verticalmente (successivamente
sostituiti da travi squadrate) a formare una rete di canali navigabili.

7
la rigenerazione della vita dalla terra. L’osservazione della vita e della morte, del ciclo naturale è la forma
ancestrale del pensiero (‘coltura’ e ‘cultura’, che indicano rispettivamente il concreto e l’astratto, sono la stessa
parola). È dal sacro dunque che origina, nella comunità tribale, il senso del ‘collettivo’, cioè di qualcosa che
unisce tutti, come la morte, il ciclo delle stagioni, in generale il ciclo della natura cui è legata la produzione
alimentare, quindi la sopravvivenza. Le prime regole collettive (antesignane della ‘legge’ in senso maturo)
derivano dal sacro esse stesse, attraverso la ritualizzazione di pratiche quotidiane: il mangiare, il riprodursi,
la conservazione del fuoco Quest’ultimo viene tout court deificato, rappresentato dalla dea Estia9 (da cui la
greco-latina Vesta); il suo culto è nel luogo dove si governa il fuoco, cui attinge tutta la tribù. Estia è la divinità
che vigila su tutta la comunità, è la protettrice della ‘città’. Il fuoco, l’ultimo elemento naturale che mancava
al discorso della scelta primigenia del luogo dell’abitare, ci consente l’enunciazione della:
2ª definizione: la città è figlia dell’acqua, della terra e del fuoco
La traduzione in simboli e rituali accompagna la scelta del luogo in cui il culto deve essere praticato: questo
è un passaggio epocale per la nascita dell’area sacra, primo elemento di una vera e propria area pubblica. Si
individuano, insomma, luoghi per definizione e scelta, interdetti all’uomo’, dove abita il divino: luoghi-simbolo,
riferimenti di tutta la tribù. Essi sono i genius loci.10
Simboli, rituali, tutte prove che l’uomo primitivo è stato capace di un pensiero astratto. Storici delle
religioni hanno ormai definito complesso già dall’origine il pensiero umano, nel cui ambito quello primitivo
adotta logiche di derivazione simbolica, non meno complesse di quelle speculative moderne di derivazione
ellenica. E poichè le liturgie si svolgono in un luogo deputato, cioè sacro, se ne deduce che il villaggio si
avvia verso una formazione urbana più evoluta, fatta non solo di abitazioni ma anche di aree pubbliche.
Ma è la città stessa il sacro, nel momento in cui è il luogo sottratto allo spazio della Natura per fondarla,
e l’operazione di tracciare il confine tra il dentro e il fuori diviene atto sacro, rito di fondazione presente in
tutte le culture [TAV. I. 5.].
Il carattere sacro della città è sintetizzato dal suo centro (il Tempio) e dal suo limite.11 Il solco dell’aratro
tirato dai buoi (strumenti dell’agricoltura) ha anche simbolicamente il significato di divisione tra la terra
coltivata e la terra abitata. Nel momento in cui gli strumenti per arare vengono utilizzati in quel rito, diventano
sacri, non sono più attrezzi. Così, appena nata, la città già sancisce quella separazione dall’agricoltura sua
generatrice (secondo la nostra 1ª definizione) che porterà al conflitto operato dalla civiltà delle macchine.
9. Estia. Ogni città, nell’edificio principale, aveva un braciere comune, il pritaneo, dove ardeva il fuoco sacro di Estia, che non doveva spegnersi mai. Poiché
le città erano considerate un allargamento del nucleo familiare, era adorata anche come protettrice di tutte le città greche. Nelle famiglie, il fuoco di Estia
provvedeva a riscaldare la casa e a cuocere i cibi. Il neonato diventava membro della famiglia cinque giorni dopo la nascita, con un rito (anfidromie) in cui il
padre lo portava in braccio girando attorno al focolare. La novella sposa portava il fuoco preso dal braciere della famiglia di origine nella sua nuova casa, che
solo così veniva consacrata. I coloni che lasciavano la Grecia, portavano con sé una torcia accesa al pritaneo della loro città natale, il cui fuoco sarebbe ser-
vito a consacrare ogni nuovo tempio ed edificio. Un rito che sopravvive anche nelle Olimpiadi moderne. La dea e il fuoco erano una cosa sola, punto di con-
giunzione del sentimento di comunità, sia familiare che civile.
10. Per una possibile definizione di genius loci: cfr. Cap.V §1.
11. Il concetto di “confine” era rivestito di sacralità in varie culture del mondo antico, come testimoniano i kudurru (pietre di confine) in Mesopotamia o il culto
di Termine (divinità) nell’antica Roma che prevedeva anche cerimonie religiose dette Terminalia (festività). Era poi sacro il pomerio, linea di confine delimi-
tante prima le città degli Etruschi e poi le città italiche e Roma. Presso gli antichi Greci il dio dei confini era Ermes.
Con l’espressione città di fondazione vengono identificati i nuclei urbani e abitativi nati non spontaneamente, ma sulla base di una precisa volontà politica e
di un progetto urbanistico e costruiti nella parte fondamentale [nucleo di fondazione], tramite un intervento unitario con una precisa conformazione geometri-
ca. La fondazione di una città o comunque di un insediamento è stato oggetto di particolari riti fin dalle civiltà antiche. Si pensa che a partire dall’epoca della
rivoluzione agricola sia nata l’esigenza, per giustificare e dare legittimo fondamento all’appropriazione di uno spazio che veniva sottratto al dominio della
natura, di sancire un’origine divina per il proprio insediamento stabile. La città era resa sacra insieme al sovrano e contrapposta a quanto la circondava, spa-
zio umano delimitato e sottratto al caos della natura. Sin dal mondo antico la fondazione costituiva quindi un’operazione non solo profana, di carattere politi-
co-militare, ma anche e soprattutto “religiosa”. La fondazione è quindi il momento nel quale, nelle varie epoche storiche, si affermano differenti forme del
Sacro: dai riti pagani di fondazione, caratterizzati dai sacrifici e dall’osservazione delle stelle a quelli cristiani basati sul sangue dei martiri e le loro reliquie,

8
I riti di fondazione, presenti in tutte le epoche, si possono ancora riconoscere oggi nelle ‘prime pietre’, nelle
lapidi commemorative o targhe stradali: dando il nome di santi, eroi, persone illustri ai luoghi della città ed
elevando i santi a protettori della città si replicano quei riti. Possiamo dunque enunciare la 3ª definizione:
3ª definizione: la città è figlia del pensiero
essendo il sacro la primigenia forma di pensiero filosofico, cioè il ragionare sul perché dell’universo e della
collocazione dell’uomo in esso. Non è un caso che i primi esempi di architettura, cioè di opera umana eseguita
con tecniche ripetibili e materiali manipolati, siano dedicate al divino e ai morti.
Prima della nascita dell’architettura, cioè di spazi specifici a loro dedicati, le caverne abitate hanno
rappresentato una fase di coabitazione coi morti, e la ‘festa delle lucerne”12 di Somma Vesuviana, secondo De
Simone ed altri, origina da questa pratica, non più presente nei Sassi di Matera13, che rappresentano il superamento
della precarietà cavernicola, essendo, già dal neolitico, dimore stabili di una popolazione non più nomade che,
nelle epoche successive, costruirà, a livelli altimetricamente superiori, vere e proprie abitazioni [TAV. I.2.]. La nascita
delle necropoli – le domus de janas14 in Sardegna ne sono un esempio – segnano la separazione del sacro dal
profano, il luogo della vita da quello della morte, del divino, del proibito. I templi si edificavano originariamente
in luoghi non adatti all’abitare perché mefitici o collocati, in proiezione, su acque sotterranee o su incroci che oggi
chiamiamo nodi di Hartmann15. Anche il collegamento con l’osservazione del firmamento – pratica tra le più
antiche – l’individuazione dei punti cardinali determinarono collocazione, orientamento e forma degli edifici
religiosi (tra i più noti: le Piramidi, Stonehenge, ecc…) e più tardi dell’intera città (lo schema ippodameo
adotterà questa pratica). In Palmyra (II millennio a.C.) edificare costituiva un atto religioso: la città, il santuario
erano considerati centro del mondo, luoghi del principio della creazione. Tutto comincia su un’altura, dove
avviene il primo contatto rituale con la divinità del Sole, poi si edifica il santuario e la città tutta intorno.
Ma è a proposito della formazione della città che si scopre la comune origine del sacro e del profano: il
tempio non è soltanto il luogo della divinità, ma anche del deposito e amministrazione delle derrate alimentari.
Quando la coltivazione e l’allevamento, con criteri e strumenti sempre più raffinati, hanno cominciato ad elevare
il grado di produttività, le eccedenze alimentari conseguenti al surplus produttivo, utili in tempi di magra, dovettero
essere gioco forza gestite in modo collettivo, affidando questa cura ad alcuni soggetti, i sacerdoti che, nel tempio,
amministrano sia il sacro che il profano. Siamo alla prima forma di economia e di potere.
A partire dal V millennio, con la cosiddetta cultura Ubaid, la Mesopotamia meridionale assume il ruolo
guida nel processo di proto-urbanizzazione caratterizzato dall’ingresso del sacro nelle aree di edilizia pubblica,
cioè nel disegno strutturale dell’aggregato urbano. Da questo momento l’amministrazione del sacro non è più
fino ad arrivare ai santi laici, cittadini meritevoli o caduti in guerra ai quali si dedicano strade e monumenti. La città è così posta sotto la protezione di divinità,
numi o santi tutelari e protettori, in essa si erigono templi, talora nella posizione più elevata (acropoli). Le porte della città segnano un confine spesso demar-
cato non solo da difese fisiche (torri, fossati, cancelli), ma anche da simboli che evocano una protezione magica dello spazio urbano (immagini sacre, corna,
simboli apotropaici, statue minacciose).
12. La festa delle “Lucerne” si svolge ogni quattro anni, il 5 agosto, giorno della Madonna della Neve, nell’antico borgo del Casamale (Somma Vesuviana),
in cui migliaia di fiammelle illuminano li vicoli. In molti (Apolito, De Simone, ecc.) hanno tentato di spiegarne il significato, che in ogni caso non è univoco.
13. Matera. «La città della pietra, centro storico di Matera scavato a ridosso del burrone, è stata abitata almeno dal Paleolitico: alcuni tra i reperti trovati risal-
gono al XIII millennio a.C., e molte delle case che scendono in profondità nel calcare dolce e spesso (calcarenite) della gravina, sono state vissute senza
interruzione dall’età del bronzo (a parte lo sfollamento forzato negli anni cinquanta)».[WIKIPEDIA].
14. Le domus de janas sono delle strutture sepolcrali preistoriche costituite da tombe scavate nella roccia tipiche della Sardegna prenuragica. Si trovano sia
isolate che in grandi concentrazioni costituite anche da più di 40 tombe. Ne sono state scoperte finora più di 2.400, circa una ogni chilometro quadrato.
15. Secondo la geobiologia la Terra sarebbe attraversata da un sistema di linee che formerebbe una rete: i punti di incrocio di tali linee, chiamati “nodi radian-
ti” o “punti cancro” o “nodi di Hartmann”, provocherebbero geopatie. La rete di H. è una griglia 2 X 2.5 m ricoprente l’intero pianeta. Le geopatie sarebbero
causate dallo stare sulle zone di incrocio della rete; ciò sarebbe estremamente dannoso per la salute, soprattutto se sotto al nodo (anche a profondità di cen-
tinaia di metri) ci dovessero essere falde acquifere oppure faglie, che sono ritenute in grado di intensificare le “radiazioni nocive” sviluppate dal nodo.

9
familiare ma affidata ad un solo gestore16. L’emergere di una struttura templare di respiro comunitario si
ritrova nel sito di Eridu, sede del culto di Ea, che pertanto contende a Uruk (se si esclude la mitica Eroch) [BR.
2,3.] il primato della prima città creata. Le varie stratificazioni indicano la progressiva importanza
dell’architettura pubblica e segnatamente sacra e la sempre maggiore specializzazione delle funzioni fino ad
una divisione di classi sociali.
Il discorso del sacro in relazione alla nascita e al significato di ‘città’ è valido anche per il presente, se lo
allarghiamo a tutto quanto attiene i dettami comportamentali, le regole, la fissazione del limite del lecito, la
detenzione della verità e del potere. Per quanto attiene l’architettura, possiamo dunque dire che essa, in quanto
primigenia rappresentazione del sacro, è nata pubblica, e poiché l’individuazione degli spazi pubblici è la
generatrice dell’urbanistica, possiamo affermare che:
4ª definizione la città è figlia dell’architettura
La costruzione degli edifici sacri non utilizzerà tecniche e forme tipiche dell’abitare: per dimensione,
funzione e rappresentazione, il costruire evolve in tecniche, materiali e forme, fino alla definizione di un
modus, uno stile17. L’architettura, infatti, come ‘intenzione estetica del costruire, è il primo segno della presenza
di un animo collettivo. Così dice Aldo Rossi:
«La città, ... viene qui intesa come architettura. Parlando di architettura non intendo riferirmi solo all’immagine vi-
sibile della città e all’insieme delle sue architetture; ma piuttosto all’architettura come costruzione. Mi riferisco alla
costruzione della città nel tempo…Intendo l’architettura in senso positivo, come una creazione inscindibile dalla vita
civile e dalla società in cui si manifesta; essa è per sua natura collettiva. Come i primi uomini si sono costruiti abi-
tazioni e nella loro prima costruzione tendevano a realizzare un ambiente più favorevole alla loro vita, a costruirsi
un clima artificiale, così costruirono secondo una intenzionalità estetica…Creazione di un ambiente più propizio alla
vita e intenzionalità estetica sono i caratteri stabili dell’architettura... Queste sono le basi per lo studio positivo della
città; essa già si delinea nei primi insediamenti. Ma col tempo la città cresce su se stessa; essa acquista coscienza e
memoria di se stessa. Nella sua costruzione permangono i motivi originari ma nel contempo la città precisa e modifica
i motivi del proprio sviluppo».18
Potremmo aggiungere un’ultima definizione:
5ª definizione la città è figlia dell’uomo
Nicia coì incitava i soldati ateniesi sulla spiaggia di Siracusa: «La città è costituita da voi stessi, dovunque
decidiate di stabilirvi sono gli uomini a fare la città, non le mura» [Tucidide, VII, 77][BR. 139].
Le cinque definizioni da noi qui enunciate, intrecciate alle nostre considerazioni circa la nascita della
proprietà e quindi della ricchezza, della divisione del lavoro e quindi delle classi, costituiscono un tale coacervo
di motivazioni – a vista incoerenti – da rendere alquanto complicata l’individuazione dei caratteri storici e
fisionomici della città. Ci vedremo costretti, quindi, ad analizzarli per aspetti separati, talora insoliti per la
letteratura urbanistica, rimandando la sintesi ad uno studio più profondo che travalica gli obiettivi qui prefissi.
Possiamo azzardare un’ipotesi, condivisa da molti studiosi, sulla nascita della proprietà individuando nelle
16. Recenti ritrovamenti a Gobekli Tepe (SE della Turchia) di enormi recinti sacri in pietra scolpita, costruiti – come sostiene lo scopritore Klaus Schmidt – in
epoca nomadica, sembrano invertire i processi di formazione della città: il senso del sacro precederebbe o addirittura genererebbe la pratica dell’agricoltura
e quindi la nascita stessa della città. Le 5 definizioni da noi date rimangono, con una inversione: pensiero, architettura, agricoltura, acqua-terra-fuoco.
17. Gli stili architettonici classici (dorico,ionico, corinzio) recuperano, nella loro devoluzione in pietra, le forme dell’architettura lignea. La prima codificazione
degli ordini architettonici che ci è pervenuta è contenuta nel trattato in dieci libri De architectura di Vitruvio che descrive i tre ordini che sono stati infatti svilup-
pati nell’architettura greca: il dorico e lo ionico a partire dalle sue origini, al momento delle prime realizzazioni in pietra, diffondendosi già dal VI secolo a.C.,
con una prevalenza del dorico nella Grecia continentale e nella Magna Grecia e dello ionico e eolico nelle città greche dell’Asia Minore, odierna Turchia.
18. ALDO ROSSI, L’Architettura della città, Clup Milano 1973.

10
due attività fondamentali – l’agricoltura e la pastorizia – le condizioni prime per la formazione futura della
città. Nel villaggio ognuno si prende cura di un gregge o di un pezzo di terra. La difesa da agenti esterni
(animali, piante selvatiche, ecc.) che possano compromettere la produzione alimentare e la necessità di seguire
tutti i cicli naturali, obbliga ad un affidamento sine die a componenti specifici (nuclei familiari) del villaggio.
La ‘proprietà’ origina in parte da questo affidamento, nel momento in cui diventa ereditario.
Ma sono le eventuali conflittualità tra vari villaggi a dare il colpo di grazia alla proprietà collettiva,
conflittualità sempre più frequenti in ragione dell’aumento demografico: le zone occupate da ciascuna tribù
entrano in collisione tra loro per le aumentate necessità alimentari; il possesso della terra (sia che si tratti di
coltivi che di pascolo) diventa il movente delle guerre tra tribù. La tribù perdente viene schiavizzata, i terreni
espropriati. La conseguenza delle guerre è duplice: sorge l’esigenza di un capo per guidare l’esercito temporaneo,
sorge la proprietà privata effetto della distribuzione delle terre ai componenti della tribù vincitrice. Un unico
processo evolutivo lega la nascita del potere, della proprietà, delle classi (comprese quella degli schiavi e dei
militari agli estremi opposti della scala). Il processo è lungo e la formazione della città è ancora lontana.
Uno sguardo alla evoluzione delle classi: per il momento abbiamo i sacerdoti, i militari, gli schiavi e le
altre classi (gli agricoltori, i pastori), tutte di egual peso. La ulteriore divisione del lavoro porterà ad una nuova
gerarchizzazione. Man mano che il fabbisogno alimentare cresce con l’aumento demografico, si affinano
anche gli strumenti per lavorare la terra, confezionare il cibo: aratri, roncole, pietre molari, ruote, gioghi,
rendono indispensabile il lavoro progettuale e realizzativo degli artigiani, che con la stessa capacità e tecnica
trasformeranno gli attrezzi in armi per i militari, quando l’offesa e la difesa dei confini le renderà indispensabili.
La costruzione dei templi comporta un affinamento anche delle tecniche costruttive applicate all’edilizia
privata: le capanne somigliano sempre più a ‘case’ ed i villaggi si provvedono di cinta più adatte a resistere
agli attacchi degli avversari; la ‘classe dei costruttori’ si emancipa dal livellamento e sale di quota anch’essa.
Si può dire che all’abaco sociologico delle classi manca solo il ceto medio per competere con la
contemporaneità. Si dovrà attendere soltanto la nascita della città.
A questo punto, è lecito accreditare il recinto quale primo passo verso la città, con tre distinte specifiche:
A. del villaggio per difendersi dagli aggressori esterni;
B. della proprietà privata per difenderla da soggetti della stessa tribù;
C. di spazi dentro al recinto A e fuori del recinto B.
Il primo tipo di recinto rappresenta l’antesignano delle mura urbane, il secondo quello della lottizzazione
abitativa, che, insieme ai percorsi abituali negli spazi non lottizzati, sono i tre elementi basilari dell’urbanistica:
a. il limite della città;
b. l’insula urbana;
c. la viabilità e lo spazio pubblico.
Il passaggio dal villaggio alla città sarà, infatti, lento e graduale; esso presenta una varietà di casi nel
tempo e nello spazio che rendono ardua qualsiasi teorizzazione: ad esempio, non è detto che tribù vicine, in
circostanze favorevoli, non siano entrate in pacifico contatto, magari scambiandosi delle derrate alimentari
derivanti dal surplus di produzione (baratto), mentre dell’uso comune dei pascoli abbiamo già parlato a
proposito dei compascua intertribali.
Si aggiunga che la pratica dei compascua evolverà in un vero e proprio rapporto commerciale e,
indirettamente, ad un sistema ‘federativo’ ante litteram tra più tribù e ad una conseguente visione più ampia
di ‘territorio proprio’, molto pù tardi di ‘nazione’. I gruppi abitativi verranno gerarchizzati fino ad avere una
capitale, un villaggio cioè che accentrerà le funzioni generali. Siamo prossimi ad una visione di “nazione”.
Ciò sarà possibile dal diverso atteggiamento che l’uomo avrà rispetto al territorio circostante il villaggio,

11
dapprima percepito come alieno, denso di pericoli, spazio da cui difendersi, ma che lentamente evolverà
verso la cognizione di ‘circostante’, di “hinterland”, proprio delle città. Già in questa fase – e la città non c’è
ancora – la forma fisica dello spazio rappresenta dunque la forma sociale, politica ed economica del gruppo,
a dimostrare che l’urbanistica è un approccio quanto mai interdisciplinare in cui forma e funzione si
corrispondono.

12
2 Dalle caverne al villaggio. La specializzazione del lavoro, la proprietà.
Per tornare al passaggio dal villaggio alla città, allo sdoppiamento del sacro nel duo sacro/profano,
corrisponde quello architettonico religioso/civile, entrambi componenti essenziali dello stadio evolutivo maturo
dell’area sacra rappresentata dal foro – antenato della piazza medioevale, moderna e contemporanea –
elemento urbano dunque secolare, la cui scomparsa prossima ventura segnerà la fine anche della città stessa
quale produttore-accumulatore-distributore di cultura, economia, politica, pensiero, per poi liquefarsi
definitivamente nel ciber-spazio della post-post-post modernità (due di questi post essendo già stati consumati).
Questa la ragione per cui, unanimemente urbanisti, archeologi, sociologi antropologi, affermano Uruk
[BR.3]19 essere la prima città conosciuta al mondo, non per la sua datazione più antica (i nuclei meno recenti
sono chiamati ancora villaggi), ma per la presenza inequivoca di spazi pubblici aperti e costruiti, che segnano
il passaggio dal residuale spazio non abitato da nessuno allo spazio di tutti. Lo stesso succederà a Micene e
Cnosso20 [BR.11], entrambe insistenti in un’area del Mediterraneo ben precisa, dopo o durante una serie di
migrazioni incrociate [TAV.I.7].
Di Cnosso Omero dice:
«C’è una terra nel mezzo del mare scuro come il vino, Creta, fertile e bella, circondata dall’acqua: in essa vi sono
innumerevoli uomini e novanta città: chi ha una parlata, chi un’altra, un miscuglio, tra loro è Cnosso, una grande
città, nella quale regnò per nove anni Minosse, confidente del grande Zeus» (OMERO, Odissea, XIX, 172 sgg.).
I palazzi di Cnosso, Haghia Triada, Festo, Mallia svolgevano tre precise funzioni:
economica (attività commerciali) e deposito di riserve alimentari (di olio e grano ammassate nel palazzo grazie all’opera
dei contadini che coltivavano le terre circostanti);
politica (sede del re sacerdote);
religiosa.
Una notazione filologica va fatta sulla radice ‘ur’ che si ritrova nei nomi di città Uruk, Ur, Nippur,
Urushalim (il nome di Gerusalemme intorno al 1400 a.C.) [BR. 2,3,4], passata nel latino urbs e in quasi tutte le
lingue moderne. Questo dimostra che la parola nasce con l’oggetto, è da esso necessitata. In quelle città si
sviluppano anche raffinate tecniche e materiali non precari che, insieme alla necessità di ‘rappresentare’ il sacro
e il profano, segnano la nascita dell’architettura: la 4ª definizione – la città è figlia dell’architettura – si conferma.
Ragioniamo ora su alcuni caratteri urbani che, sin dalla nascita della città, la contrassegnano giù giù fino
al presente (non scommettiamo sul futuro). Il surplus produttivo ha ormai trovato la sua sistemazione
organizzativa e logistica, ma l’incremento demografico e di densità abitativa continua a creare/risolvere altri
problemi tipici della convivenza ad alta densità: la viabilità, le infrastrutture, la produzione di nuovi utensili
e oggetti, l’approvvigionamento idrico. Per gli insediamenti in luoghi non prossimi a fiumi o laghi o sorgenti
19. Il sito di Uruk fu occupato per almeno 5.000 anni, dal 4000 a.C. all’inizio del III secolo a.C. Alla fine del IV millennio a.C. era uno dei più grandi insedia-
menti urbani della Mesopotamia, se non del mondo. L’origine della città sembra derivare da due primi insediamenti, successivamente conosciuti come Kullab
(anche Kulaba o Kullaba) ed Eanna. Queste due zone della città erano caratterizzate da ampie piattaforme costruite con mattoni di fango aventi in cima i tem-
pli dedicati al culto: Kullab (al dio Anu), Eanna (alla dea dell’amore Inanna/Ishtar). Uruk, fin dai primi tempi, ebbe un ruolo molto importante. Agli inizi del III
millennio a.C. Uruk, estese la sua egemonia sulla Babilonia e divenne uno dei maggiori centri religiosi del regno. Vedi anche nota ** a pag. 2.
Ur (odierna Nassiryah) fu uno dei primi insediamenti abitati della bassa Mesopotamia (ante 4000 a.C.). Ur da centro agricolo-pastorale si trasformò in una
vera e propria città con lo sviluppo delle attività artigianali e commerciali, nonché il principale centro di culto della dea Inanna. [Wikipedia]
20. Micene era un importante centro politico-economico-militare a carattere anche sovra regionale, con massicce fortificazioni (di cui è rimasta la cittadella),
un importante palazzo e ricche tombe. La città all’epoca si estendeva oltre la cittadella, nella città bassa poco fortificata e costruita con abitazioni deperibili.
Cnosso, abitata già nel neolitico, divenne un florido centro della civiltà minoica verso il 2000 a.C., epoca della costruzione del grande palazzo che, privo di
mura difensive, era sintomo dell’egemonia cretese sul mar Egeo. In questo periodo gli abitanti di Cnosso cominciarono ad avere rapporti economici e com-
merciali con la civiltà egizia. Verso il 1700 a.C. un cataclisma, forse un terremoto provocato dall’eruzione del vulcano dell’isola di Thera (l’odierna Santorini),
distrusse tutti i palazzi dell’isola, incluso quello di Cnosso. Durante il periodo (700 a.C.-1400 a.C., il palazzo venne ricostruito ancora più sontuoso, sempre
privo di mura difensive, il che testimonia la totale assenza di invasioni da parte di altri popoli. Verso il 1450 a.C. C. fu devastata dai micenei, provenienti dal
Peloponneso, finché verso la metà del XIV secolo a.C. cominciò a decadere.

13
l’adduzione dell’acqua [TAV.I.8] e il suo immagazzinamento crea una nuova dipendenza del singolo dal sistema
collettivo. Chi detiene il governo dell’energia aumenta quindi il già considerevole suo potere perché è colui
che stabilisce i modi dell’erogazione attraverso i vari sistemi di prelevamento. Ricordate i pozzi che
comparivano nel villaggio preistorico di Nola [TAV.I.3]? Essi rispondevano ad una logica demografica minimale
che permetteva il prelevamento ad personam, non più possibile negli sviluppi insediativi successivi.
L’individuazione di particolari cittadini che si occupassero solo di ‘amministrare’ il bene comune per tutti
– il primo carattere distintivo urbano – crea la prima consenziente disparità tra i componenti della comunità,le
altre deriveranno presto dal più evoluto modo di produzione. Esso comporta una divisione del lavoro in una
prima forma di specializzazione, che separa i coltivatori dai pastori dagli addetti all’edilizia, dai costruttori di
attrezzi agricoli, di utensili, di armi, di confezione di indumenti (tessitura e trattamento delle pelli). Siamo già
a cinque classi ben distinte: gli amministratori (del sacro e del profano), gli agricoltori, i pastori, gli artigiani,
gli schiavi. Ma questa è solo una momentanea semplificazione, poiché l’interazione tra queste classi si gioca,
nel suo sviluppo, su un nuovo istituto (diremmo oggi ‘giuridico’): la proprietà. Si tratta dell’origine delle
leggi, rese necessarie dal controllo dei singoli in una società diventata più complessa nei rapporti tra le classi.
Nella evoluzione dell’uso di norme codificate si passa man mano dall’applicazione diretta ad una forma di
‘santificazione’ della norma che, in questo modo diventa inviolabile per fede. Il potere costituito si dota di
uno strumento di polizia, cioè alcuni cittadini vengono destinati al mantenimento dell’ordine pubblico, fino
ad una militarizzazione più spinta che genererà l’esercito stabile e regolare, cioè un’altra classe (a difesa del
territorio o per la conquista di quello altrui), e un altro quartiere, quello militare.
3 Dal villaggio alla città: Uruk e le altre.
L’area mesopotamica è dunque la culla della città [TAV. II.2.3]: Uruk, Ur, Nippur, Babilonia, Isin, Nadshaf,
Lagas, Ahaz, Charax-Spasinu, Basra, Sippur, Kerbela, Kisch, Sippar, Bagdad [BR. 24, 25 ] (tra il Tigri e l’Eufrate);
Nuzi, Kirkuk, Assur, Hatra, Mosul, Ninive (Alto Tigri); Wassukanni, Mari (Alto Eufrate); Gerusalemme [BR.
14, 15], Amman, Damasco [BR. 16, 112], Beirut [ 114], Hama, Palmyra, Aleppo (lungo il Giordano) [BR. 21-23;].
Cresce lo spazio destinato alle pubbliche funzioni: al tempio (ormai divenuta ‘area templare’ per la
presenza di pù edifici sacri) si aggiungono gli edifici destinati all’acquartieramento dei militi, all’esercizio e
promulgazione delle leggi, alle decisioni collettive: le funzioni pubbliche si separano da quelle sacre,
raccogliendosi intorno ad uno spazio aperto, che segna la nascita di quello che i greci chiameranno agorà, i
latini forum e i moderni piazza21.
21. Oltre che nella Mesopotarnia centro-meridionale, gli influssi di Uruk raggiungono aree ‘periferiche’ (l’Anatolia sud-orientale, la Siria, l’Iran sud-occidenta-
le) stimolando l’urbanizzazione indigena e stanziamenti prevalentemente commerciali. La città di Malatya, in Anatolia, registra una novità di rilievo rispetto
al sud mesopotamico: l’emergere di un potere di tipo ‘laico’, non più dipendente dal tempio. Motivi politico-commerciali (organizzazione dei traffici, sfrutta-
mento delle materie prime di cui è ricca l’Anatolia e le regioni circostanti, varie esigenze di carattere militare) hanno qui favorito la preminenza di un centro

14
Essendo partiti in questo nostro discorso da un’analisi del preistorico, la genesi della piazza che ne discende
è ovviamente quella dall’area sacra, cioè della logica creazione di uno jato tra il sacro-pubblico e l’abitato-
privato, a cagione del terror sacri. In Uruk è l’Eanna l’area sacra, primo nucleo della città, dove erano ubicati
il tempio di Inanna e altri templi ed edifici. A questo proposito, ancora una volta è esemplificativo il caso-
Uruk per il chiarissimo quadro evolutivo che ci offre: gli edifici crescono nel tempo separando man mano le
funzioni sacro-profano e qualificando una vasta area pubblica. Il cittadino di Uruk è in grado di rappresentare
la sua città tramite un disegno geometrico in scala, prova della reale razionale presa di coscienza dello spazio
costruito e del suo possesso mentale [TAV. I.6].
L’ultimo elemento che distinguerà definitamente la città dal villaggio è la estensione all’edilizia abitativa
del modus costruendi dell’architettura pubblica e la distinzione dei quartieri corrispondenti alle classi sociali.
L’individuazione di un centro (l’area sacra che ora possiamo tout court chiamare pubblica) comporta una
differenziazione di valore di posizione delle proprietà corrispondente all’importanza delle classi. Ma sono
anche gli assi viari principali (sui quali si sviluppa il traffico di merci interne e di scambio con le altre città)
che creano fasce di interesse edilizio privilegiate (prime prove di zonizzazione). Non possiamo con certezza
affermare che la proto-città di Uruk e le altre citate abbiano raggiunto questo stadio evolutivo, ma
sull’estensione dell’uso del ‘mattone’ anche all’edilizia privata ci sono prove di scavo piuttosto evidenti.
A proposito dei materiali edilizi, va sfatato il mito del progresso tecnologico anche in questo campo. Il
mattone crudo di argilla, talora impastato con paglia, non è affatto a tutt’oggi superato; per particolari climi e
strutture, esso è estrememente resistente e dotato di qualità coibenti ed isolanti oltre che meccaniche. Esso ha
permesso la realizzazione di costruzioni anche complesse, dagli ziggurat22 ad altri edifici di dimensioni anche
maggiori [BR.5]. Questi materiali da costruzione vengono usati tuttora in quei luoghi ed altri analoghi e sono
oggetto di studio nell’ambito della più ampia ricerca sui materiali ecologici, economici e di facile produzione
a basso costo e consumo energetico, con impiego di manodopera non specializzata e di attrezzature semplici.
Lo stesso vale per il legno e i vegetali essiccati, tutti materiali in forte recupero. Come dire che l’homo
tecnologicus con il suo ecologismo riscopre ciò che aveva buttato dalla finestra come superato.
Così è in tutta evidenza dimostrata l’alta qualità architettonica dei manufatti giunti fino a noi (specie quelli
relativi all’area delle ziggurat), il che fa pensare a paesaggi urbani non dissimili dai nostri. Con tecnologie
considerate superate fino a poco fa sono state realizzate nel passato opere non inferiori alle contemporanee;
ne sono esempi le ziggurat e la torre di Babele, ad onta della denigrazione biblica. Inoltre la città, sin dalla
sua nascita, ha utilizzato – come abbiamo detto – schemi di zonizzazione che sono giunti invariati fino a noi.
Il che conferma che la città è nata già matura, già provvista dei principali caratteri sia negativi che positivi:
qualità positive: zonizzazione dei quartieri in base alle funzioni
orditura urbanistica regolare.
presenza di stili nell’architettura.
presenza di infrastrutture.
negative: lottizzazioni e insule non geometrizzate.
sovraffollamento-densità edilizia
emarginazione delle classi deboli (ghetti, periferie).
decisionale e operativo libero dall’apparato cultuale; una tendenza che, mutatis mutandis, si ritroverà anche nel nord mesopotamico e poi nell’area siriana,
con conseguenze significative sulla struttura cittadina, nella quale non erano più di assoluta rilevanza i problemi dell’organizzazione interna e della produzio-
ne pianificata. In Siria, tra i vari fattori, gioca la diversa strategia produttiva dovuta alle specifiche condizioni eco-climatiche (diverse da quelle mesopotami-
che), legate alle precipitazioni naturali, mentre un’importante integrazione è l’allevamento, quindi con un più forte peso dell’elemento nornadico-pastorale.
22. Non è certa la precisa funzione delle ziqqurat, anche perché la terminologia sumerica ed accadica fa prevalente riferimento al loro aspetto imponente e
alla forma appuntita. In epoca ormai tarda (V secolo a.C.) Erodoto (I, 181-182) ne parla come di sede delle ‘nozze sacre’ tra il re e una sacerdotessa. La torre
templare era una sorta di ‘legame tra cielo e terra’, luogo privilegiato d’ incontro col sacro, ed era certo adibita anche a osservatorio celeste.

15
Solo dopo l’altra grande rivoluzione, quella industriale (venuta dopo la neolitica e la urbana) si avrà una
vera novità nella composizione del tessuto urbano: le aree industriali iniziano una più spinta divisione in altre
zone monofunzionali (commerciale, residenziale, direzionale, ecc.) disaggregando funzioni urbane prima
frammiste. È l’inizio ancora inconsapevole dello spacchettamento della città in più funzioni.
4 Forma urbis: fasi e modi di strutturazione. Morfismi: aggregazioni animali, circuiti elettronici.
Se nell’istinto e nella razionalità si gioca, in fasi alterne o sovrapposte, tutto ciò che gli animali, compreso
l’uomo, produce, allora la città è uno di questi prodotti. L’istinto di conservazione e il modo più razionale per
delimitare il proprio spazio sono infatti comuni a comportamenti diversi, ma risultato degli stessi stimoli.
Se è vero che l’uomo percorre nella sua vita gli stessi stadi evolutivi della specie cui appartiene, allora ci è utile
osservare come, nei giochi infantili non mediati (cioè pre-confezionati dall’industria del giocattolo), negli spazi che
con vari oggetti il bambino costruisce e delimita, si osservano gli stessi stadi che rappresentano il passaggio dal
villaggio alla città [TAV.V.31]. A tre anni non emerge ancora la cognizione del limite, il circuito spaziale è ancora aperto,
ma si chiuderà a 5 anni, mentre a 6 siamo già alla fase di rappresentazione di uno spazio delimitato e differenziato:
c’è un percorso c’è un centro, cioè la cognizione della gerarchizzazione; l’intervento sempre più presente della
razionalità e dell’esperienza spaziale guida l’istinto su scelte consapevoli.
Lo stesso bilanciamento tra istinto e razionalità guida le costruzioni animali, in una sconcertante analogia con
l’urbanistica umana: nei formicai, il regime fortemente gerarchizzato disegna se stesso specializzando gli spazi in
un modo che a noi può apparire ossessivo ma che si ritrova (abilmente nascosto ai nostri occhi, velati dall’abitudine)
nelle nostre città. Lo stesso, in forme diverse, si può dire dei vespai, degli alveari naturali, dei termitai, e di tutte
le altre costruzioni di animali che vivono in comunità gerarchizzate (e le comunità lo sono sempre) [TAV. I.10].
I formicai sono organizzati in percorsi a rete con sacche-spazi specializzati soprattutto per deposito di
alimenti e loro elaborazione, nonché come aree di sosta nei pochi momenti di pausa dall’incessante lavoro.
Gli alveari hanno invece una struttura regolare ad ottagoni affiancati a formare un unico groppo ad ospitare
una struttura sociale gerarchizzata (il che ci insegna che la rispondenza forma-funzione non è univoca e può
prendere varie strade). L’analogia con gli schema di Haward e Christaller [TAVV. IV.13] è impressionante.

16
Il cibo, cioè l’apparato sociale di sopravvivenza e conservazione come per l’uomo, è la base
dell’organizzazione spaziale. In questi animali sociali la difesa del luogo da essi adottato e costruito assume
talora aspetti violenti, il che rende evidente l’analogia con la territorialità dell’uomo.
Una prova che l’istinto animale non è che espressione spontanea dell’intelligenza (e dunque della
razionalità) si può avere confrontando altre schematiche costruzioni dell’uomo che non hanno nulla a che vedere
con l’urbanistica ma che seguono le stesse leggi di struttura formale: ogni volta che l’uomo deve assemblare
elementi semplici in un insieme complesso s’innescano gli stessi meccanismi speculativi che ordinano le città.
Solo che in quest’ultimo caso la scatola di montaggio (il piano urbanistico) troppo spesso viene disattesa a
vantaggio di una apparente casualità ed un conseguente non apparente disordine.
Il raffronto con alcuni di questi schemi ordinatori (schede elettroniche, circuiti elettrici ed elettronici,
schemi tecnologici) fa scoprire due principali sorprendenti analogie con il disegno urbano [TAV. I.11]:
a. i connettivi principali e secondari (strade);
b. la gerarchizzazione degli elementi semplici.
Le similitudini non sono, quindi, solo formali, ma funzionali: gli elementi principali producono connettivi
maggiori di quelli secondari e la loro posizione centrale ne riduce la lunghezza (e nei circuiti elettronici ciò
fa riduce dispersioni i disturbi accelerando la trasmissione).
Al limite, si potrebbe ragionare allo stesso modo anche sull’apparato di un’automobile che sicuramente
ha un motore che produce il movimento ma ha bisogno di una riserva di energia (carburante) e una serie
complessa di elementi accessori che assicurino il trasporto e la regolazione del movimento e che lo tengano
in efficienza (refrigeratori, lubrificatori), di misuratori dello stato del sistema. Anche in questo caso, per le
stesse ragioni degli esempi precedenti, si tende a dare centralità al motore vero e proprio, mentre le parti
accessorie ed ingombranti (serbatoi, radiatori) sono perifericizzati, così come succede nelle città per i
gasometri, i depuratori, ecc.
5 Forma urbis: la matrice reticolare.
Il fondamentale passaggio dal villaggio alla città libera gradatamente il disegno urbano dalla forma pseudo-
circolare per ragioni di dimensioni, di organizzazione socio-politica e di concezione culturale. Nella maggior
parte delle città antiche a sistema reticolare, esso non è indifferente (come poi è stato in periodi più vicini a
noi), presentando una gerarchizzazione di assi e di crocevia come nel caso della centuriatio [TAV. I.15,16].
Lo schema è geometricamente conservato finché non intervengono limiti orografici o barriere naturali che
costringono a defomazioni del reticolo spesso anche notevoli come nel caso dell’area vesuviana [TAV. I.15a].

17
Il passaggio dal sistema-villaggio al sistema-città rivela come la città non si origina dal villaggio per
graduale evoluzione ma per un salto di qualità che ha accelerato il processo di trasformazione. Ciò è dovuto
a diversi fattori concorrenti e interconnessi, ognuno con caratteri causa/effetto: la divisione del lavoro, il
surplus di produzione alimentare, l’aumento demografico, la nascita della proprietà privata. La matrice
ippodeamea rappresenta spazialmente questo salto, in seguito al quale il villaggio è stato ricostruito, in situ o
meno, rispondendo a criteri di organizzazione socio-politica complessa.
Naturalmente lo schema ippodameo non ha sempre quest’origine: nel castrum romano la regolare
irregimentazione del tessuto in cardi e decumani e la collocazione delle funzioni (il foro, il gymnasium,
l’anfiteatro, le terme, il tempio) sono dettate da ragioni di controllo, mal celando la sua origine militare [TAV.
I.15-19]: siamo lontani dalla concezione religioso-simbolica di Ninive o Babilonia e più vicini a città moderne
come Filadelfia, Chicago, Barcellona [BR. 81,82,40], dove la scacchiera è il sistema per ottimizzare la lottizzazione.
Possiamo già tentare una classificazione in base alla forma-sviluppo, cioè a conformazioni urbane primarie
che, nel loro successivo sviluppo, costituiranno tendenze, matrici espansive:
A. circolare-poligonale B. radiale C. stellare-poligonale D. lineare
E. reticolare o a scacchiera F. ramificato G. nebulare.
La forma circolare A origina direttamente dal villaggio raccolto intorno all’area sacra, ed è quindi la
vera forma primigenia della città, largamente adottata in periodo alto-medievale con l’incastellamento con
due importanti caratteri: uno politico (il castello che domina e difende) e l’altro orografico (la posizione
elevata). Entrambi i caratteri comportano uno sviluppo naturale concentrico. [TAV. II.15].

18
19
La forma radiale B si pone come variante della precedente in condizioni orografiche non acclivi, il che
permette alla struttura urbana uno sviluppo organizzato su assi preferenziali a partire da un centro.
La forma stellare C richiama la geometria delle città ideali che la mutuano, a loro volta, dalle architetture
fortificate. Il disegno non deriva tanto da un processo progettuale urbanistico quanto simbolico, nonché da
una ricerca della perfetta proporzione attraverso relazioni geometrico-numeriche tra le parti. La stellare, nella
crescita della città, non sarà conservata quasi mai [TAV.8].
La forma reticolare o a scacchiera E è di chiara derivazione greco-romana. Lo schema ippodameo (in
uso già prima di Ippodamo di Mileto)23 è strutturalmente di città preordinate, pre-disegnate ed è presente nelle
città nuove della Magnagrecia e nei castra romani come più razionale disposizione di un accampamento
militare (poi presidio di confine e, infine, città di frontiera) [TAV.II.11-13.]. Lo schema prosegue anche sul territorio
extraurbano come centuriatio, determinata dalla lottizzazione dei fondi rustici da distribuire ai veterani. La
legge della permanenza del piano confermerà questa struttura, quando i lotti da agricoli diventeranno edificatori
costituendo le insulæ urbane. Lo schema a scacchiera è pienamente adottato in caso di espansioni dirigistiche
e di contenuto classista. Emblematici: il quartiere murattiano a Bari, la Napoli grecoromana e i quartieri
spagnoli, nonché tutte le città nuove d’America [TAV.II.11-13.]
La lineare D e ramificato F si pongono come forme di parziale sviluppo successivo o si sovrappongono
a forme precedenti a seguito di operazioni di risanamento (Parigi, Roma, Napoli) [BR.58 ]. Queste forme
hanno avuto varia origine e fortuna nella formazione e sviluppo delle città e sono sovente compresenti nella
stessa città. Con ciò si risponde all’eventuale obiezione secondo cui alcune di queste forme sembrerebbero
contraddire l’origine di classe della città (come la lineare, la reticolare e la nebulare) per l’assenza di
gerarchizzazione sociale. In effetti esse – rispetto alla circolare, la radiale e a scacchiera che hanno un centro
23. FILIPPO BARBERA, Ippodamo da Mileto e gli nizi della pianificazione territoriale, Franco Angeli, 2017

20
– non sono di solito forme generatrici in prima istanza, ma derivazioni in fase di sviluppo o elementi
insediativi fuori cinta poi inglobati: lo vedremo bene nell’esame della città vesuviana che le possiede tutte
in modo peculiare.
La forma nebulare G si presenta prima, dopo e compemporaneamente ad altre forme. È lo stato
dell’abitare diffuso, legato:
a. al lavoro agricolo
b. alla residenza in villa (nella fase matura della formazione della città).
c. all’espansione diffusiva e senza matrici di sviluppo della metropoli e, nella sua fase avanzata, della megalopoli.
Il caso c, nella sua forma degenerativa, attaccherà per metàstasi tutto il territorio e porterà, come vedremo,
alla città liquida. Nonostante questa classificazione piuttosto semplice, non è comunque meccanico il
riconoscimento della natura e della datazione di queste forme urbane. Bastano gli esempi di Napoli (in cui
entrambi i quartieri prima citati hanno lo schema a scacchiera, ma origine storica e funzionale diversa) e Bari
(il nucleo romano non è l’ippodameo “quartiere murattiano”) [TAV.I. 21]. Per l’analisi delle città di confine della
colonizzazione romana occorre spesso aiutarsi con elementi critici al contorno, ad esempio:
– la collocazione geografica nel contesto territoriale nazionale (Aosta, Torino, Milano, Bologna, Cremona, Parma)
– la posizione del nucleo rispetto alla città odierna (Bari, Taranto);
– i toponimi, i quali contengono sempre la storia del luogo, ecc.
– il supporto orografico (valichi, pianure, corsi d’acqua, ecc.).
Dal che si deduce che, nonostante in genere lo schema della colonia romana classica ricalchi molto da
vicino l’accampamento militare (castra), non è sempre applicabile alle città di frontiera di impianto romano.
Caso a sè stante è Roma in tutte le sue trasformazioni fino alla sistemazione che ne darà Sisto V nel XVI
secolo. La città caput mundi è paradossalmente la più disordinata del mondo antico, non potendosi riconoscere in

21
essa nessuno schema urbano riconducibile a quelli da noi esaminati. La confusione urbana è tale che non sono
individuabili neppure le posizioni delle classi che pure esistevano. Jérôme Carcopino nel suo libro “Vita quotidiana
a Roma” descrive come nelle palazzate lignee di Roma i piani più ambiti erano gli inferiori, poiché si poteva
fuggire più facilmente dagli eventuali crolli o incendi. C’è, fino alla Roma imperiale, una commistione tra grandi
architetture in sistemazioni urbanistiche pubbliche e un enorme magma edilizio corrente che le circondava. Dopo
l’abbandono post-imperiale e lo spolio dei monumenti usati come cave di pietra per nuove costruzioni, finalmente
la sistemazione di Sisto V dà un assetto urbanistico leggibile attraverso una sequenza di nuove linee prospettiche
accentuate da oggetti urbani in punti nodali percettivamente rilevabili (obelischi, fontane, ecc.) accentuate nell’età
barocca [TAV. V.37]. Sicché una sequenza di segnali stradali (sia pure di valore artistico) nata per guidare i pellegrini
i verso il massimo tempio della cristianità, finisce per costituire la prima griglia identitaria degna di una capitale.
Dal punto di vista cinestetico, l’esperienza spaziale che si ricava dal percorrere le città a schacchiera è
completamente diversa da altre matrici (massime la radiocentrica): qui ogni strada parla per sé, ogni crocicchio
pone altre tre possibilità di percorso, a volte senza gerarchie, a volte su una direttrice preferenziale: sul
decumano massimo, da dove s’intravede in una lunga prospettiva il Foro e la maggior parte delle strutture
pubbliche sacre e profane, la città subisce un’accelerazione tensionale verso quel punto. Il valore cinestetico
di questo viaggio verso il Foro dà conto anche dei valori politici che vi si depositano.
A parte le scacchiere di Mileto, Pompei, Ercolano, abbiamo in Torino un esempio atipico di guscio
rinascimentale cresciuto intorno all’impianto romano.[TAV. I.19]. Ad onta delle successive crescite e degli
elementi percettivi sovrappostisi nel tempo, certe persistenze di piano, dunque, si riescono ancora a leggere:

22
il vuoto improvviso del Foro ancora è percepibile come controvalore spaziale della massa volumetrica degli
edifici pubblici che lo definiscono. Oggi questi pesi sono sconvolti dalla crescita in altezza, in estensione ed
intensità, ma conservano ancora una forte capacità semantica, continuano ad essere luoghi eccellenti, in cui
la città si è accordata con il genius loci. Nella città ippodamea, dunque, i rapporti di gerarchia non si misurano
sull’esistenza di un unico centro (traduzione geometrica di concetti filosofici), ma sulle sequenze di insulæ/incroci24.
La città traduce, nel suo atto di fondazione, questi ruoli (per Roma: in termini di “accampamento con quartier
generale”): un forte segno urbano ancora altamente significante ad una lettura odierna, che ancora assegna al foro
ed ai luoghi eccellenti dell’antica città una capacità tensionale, una potente facoltà attrattiva.
È strano come Roma – portatrice della matrice reticolare di 2ª generazione – non abbia per sé tale matrice,
derivando la sua forma piuttosto da ragioni orografiche, il Tevere e i 7 colli essendone elementi primari, classico
esempio di città orogenetica, come vedremo [TAV. I.29]
Particolare il caso di Cerreto Sannita e Noto, incrocio tra il tipo reticolare e quello orogenetico, poiché il
reticolo segue anche il declivo sviluppandosi a terrazzamenti, con una piazza ad ogni livello [TAV. I.19].25
24. Nelle città moderne fortemente quadrettate, il riferimento allo scacchiere è il modo più semplice per trovare un punto della città. A Tokio, l’indirizzo ha que-
sta forma, ad es.: Tokio,Taito Ku, Ueno, 7-1-2 dove: Tokyo= area metropolitana di Tokyo; Taito-Ku= Prefettura di Taito; Ueno = Quartiere di Ueno (detto
anche circoscrizione), 7= Chome (Blocco o Distretto); 1 = numero Palazzina; 2 = numero civico. Si procede quindi, insiemisticamente, per blocchi in succes-
sive approssimazioni. A New York sono orientativi gli incroci tra una strada importante ed una secondaria.
25. Noto fu ricostruita dopo il terremoto dell’11 gennaio del 1693 a 8 km dal nucleo originario, sul declivio del monte Meti. Al piano urbanistico intervennero
l’ingegnere militare olandese Carlos de Grunenbergh, il matematico netino Giovanni Battista Landolina, il gesuita fra Angelo Italia, l’architetto militare Giusep-
pe Formenti; ma, la città attuale è il risultato dell’opera di numerosi architetti (Rosario Gagliardi, Paolo Labisi, Vincenzo Sinatra, Antonio Mazza), capimastri e
scalpellini, che, durante tutto il XVIII secolo, realizzano questo eccezionale ambiente urbanistico. Cerreto Sannita fu ricostruita dopo il terremoto del 5 giugno
1688 che rase al suolo Cerreto e la maggior parte dei paesi del Sannio. L’edificazione del nuovo centro abitato fu iniziata lo stesso anno, con la squadratura
degli isolati che fece il regio ingegnere Giovanni Battista Manni.

23
Reticoli di origine e datazione diversa possono essere compresenti nella stessa città, il che confonde le idee
agli sprovveduti: è il caso già richiamato di Napoli (Neapolis V sec a.C. e quartieri spagnoli XVI sec.) e di Bari
(città antica III e quartiere murattiano, 1813) [TAV.I.21].
Possiamo finalmente dire che cos’è una città? Rispondiamo con Joseph Rykwert:
«La povertà concettuale del nostro discorso sulla città si manifesta anche se ci riferiamo al passato più recente. I
criteri in base ai quali nel secolo scorso si definiva la terminologia urbanistica erano forse ancor più direttamente

24
25
«concreti» di quanto lo siano oggi: ad esempio, la distinzione fra «città» e «cittadina» poteva essere ricondotta al
tipo di pavimentazione stradale. Il tono del discorso cambia (com’era da aspettarsi) se risaliamo verso il passato:
nel suo dizionario di termini architettonici un teorico francese del Settecento, Charles Daviler, definisce la città «un
insieme ordinato di isolati e di quartieri disposti con ornata simmetria, di strade e piazze pubbliche che si aprono
lungo tracciati rettilinei orientati in modo gradevole e salubre, con pendenze sufficienti per lo scolo delle acque...».
Ma una tale interpretazione segna la fine di tutta una tradizione: secondo un autore moderno, «la citta è innanzitutto
una realtà fisica, un raggruppamento piu o meno esteso di case e di edifici pubblici... La città ha inizio solo quando
i sentieri si trasformano in vie ...». Una simile definizione, che ricalca i precedenti ottocenteschi, appare ben lontana
dalle parole con cui Nicia incitava i soldati ateniesi sulla spiaggia di Siracusa: «La città è costituita da voi stessi, do-
vunque decidiate di stabilirvi sono gli uomini a fare la città, non le mura e le navi senza gli uomini» come scrive Tu-
cidide». [JOSEPH RYKWERT, L’idea di città, a cura di Giuseppe Scattone, Giulio Einaudi editore, 1981].
6 Le città-palazzo, le città di servizio.
Un modulo urbano che attraversa pressoché tutte le epoche è la forma-palazzo, un ibrido che in molti casi
ha originato vere e proprie città: da Cnosso [BR. 11] agli insediamenti abbaziali, ai castelli, l’elenco è numeroso.
La genesi è dunque, in questi casi, monocellulare, poiché tutto nasce da un organismo primario di natura
palaziale intorno e dentro al quale si producono aggregazioni di vario tipo in relazione ai vari tempi storici
(strategico, residenziale, produttivo, di servizio). È questa un’ulteriore e diversa conferma della validità della
4ª definizione precedentemente enunciata: la città è figlia dell’architettura.
Questa matrice è strutturalmente monocentrica nella sua urbanistica e monocratica politicamente, di lettura
quindi estremamente chiara, a parte esempi in cui gli sviluppi successivi ne hanno in varia misura resa più
difficile la lettura. Le città-palazzo non sempre hanno ‘germinato’, rimanendo talora isolate sul territorio.
Facciamo due esempi opposti, temporalmente e spazialmente vicini: il Palazzo Reale di Portici e la Reggia
di Caserta. Il diverso appellativo: pallazzo reale e ‘reggia’ non è casuale ed è in gran parte la ragione della

26
diversa capacità germinativa dei due complessi. Il Palazzo Reale è una sede di Governo, la Reggia una
residenza reale, ciò spiega come sia stato naturale – anche ampiamente favorito dall’autorità reale – lo sviluppo
delle ville vesuviane, mentre la città di Caserta è corpo separato rispetto alla Reggia, nonostante in quest’ultima
(a differenza di Portici) fossero previsti ben tre nuclei urbani: la città Ferdinandea, i Due Quartieri e la
Comunità di San Leucio). Essi avrebbero dovuto favorirne la germinazione, ma in realtà solo San Leucio fu
realizzato (perché strettamente legato alle Seterie) mentre gli altri due non lo furono a seguito dell’interruzione
del finanziamento statale. La ragione primaria di questo mancato sviluppo sta proprio nella natura diversa del
corpo germinatore, qui dimora per così dire ‘privata’, a Portici invece sede di Governo. [TAV. I.23].
Particolare il caso della Città del Vaticano, un ritaglio di Roma che, nonostante ciò, regge bene come sistema
urbano unitario, facendo centro su due grosse reltà, la Basilica e il grande parco a N-W, il tutto perimetrato
dalla murazione leonina (IX secolo). Qui il centro non è una reggia ma un tempio religioso [TAV. I.22].
Altro tipo di città, anch’esso costante storicamente, è la città di servizio, specializzata cioè in determinate
funzioni. In genere si tratta di nodi commerciali importanti (porti ad esempio), di nuclei-cuscinetto (città-
residenze), di centri di funzioni indotte (città nate o cresciute a ridosso di aree produttive). Sono ad esempio
considerate città di servizio le stesse due città ferdinandee (quella presso la Reggia di Caserta e quella presso
le fonderie di Mongiana), San Leucio, le new-town inglesi della prima rivoluzione industriale [BR. L], i grandi
centri agricoli della piana pugliese dopo la riforma agraria, le antiche Ercolano, Pompei, Miseno, il Pireo, Las
Vegas, la Detroit di Ford, le città americane dei cercatori d’oro, Los Alamos, Deir el Medina [TAV. I.26]26. Gli
26. Deir el Medina Il villaggio, in Egitto nei pressi dell’odierna Luxor, è uno dei tre esempi di “villaggio operaio” (oltre Tell el-Amarna e di El-Kahum) che ospi-
tavano le maestranze preposte alla realizzazione e manutenzione delle tombe della Valle dei Re.

27
esempi sono molteplici, equamente distribuiti in tutti i tempi. Queste città sono gerarchicamente dipendenti,
ma, nel corso del loro sviluppo, possono assumere una notevole autonomia, emendandosi dalla originaria
monofunzionalità. Al contrario, non rari i casi di città multifunzionali che per una rilevante funzione successiva
assumono il carattere di servizio, il che capita ad esempio per i grandi centri siderurgici nati a ridosso di nuclei
urbani preesistenti. In genere nelle città di servizio i pesi urbani sono invertiti, essendo rilevante una tra le
varie funzioni, la quale assume formalmente e ponderalmente una indiscussa egemonia, esempio classico è
la Bagnoli (Na) del Novecento che è passata da un carattere di servizio (balneare e ricreativo) ad un altro
(siderurgico), classico anche per la fase di dismissione, comune a molte città di servizio.
La cessazione della monofunzionalità spesso non le conduce ad una normalità urbana, bensì ad uno stadio
di limbo in attesa di riconversioni funzionali non sempre praticabili.
7 La manipolazione dello spazio. Analogie e invarianti. Attrattori e barriere.
Sebbene il processo di antropizzazione del pianeta sia stato all’inizio lentissimo e si sia accelerato solo a
partire dalla prima rivoluzione industriale, tuttavia i caratteri della progressiva urbanizzazione sono invarianti
piuttosto evidenti. Le ragioni sono strutturali alla città stessa, nata com’è sulla divisione del lavoro, da cui
discende la proprietà, il potere costituito (sacro e profano), la legge e tutto il sistema politico (con questo
affermiamo una coincidenza d’origine tra la Città e lo Stato)27[BR.136]. Tutto ciò l’urbanistica (cosciente o
meno) traduce in spazio. Sicché possiamo enumerare già d’ora una serie di principali invarianti urbane:
1. la centralità dell’edilizia pubblica.
2. l’individuazione di assi principali di relazione con il territorio circostante.
3. la prossimità al centro in maniera direttamente proporzionale all’importanza dei ceti sociali.
4. la differenziazione della qualità urbana ed edilizia in rapporto alla prossimintà al centro, come al punto 3.
27. È la concezione di Platone ne: “La Repubblica”.

28
29
Queste invarianti non sono sempre compresenti, poché la traduzione in urbanistica delle divisioni sociali
prende strade diverse. La forma urbis seguirà le mutazioni dell’assetto socio-economico; ma, finché non
incomberà il fenomeno della megalopoli e, più tardi, della città liquida, ciò è sostanzialmente vero; basta
mettere al confronto esempi del passato con quelli più vicini a noi. Naturalmente son fatte salve deviazioni di
percorso a causa di elementi, limiti, barriere fisiche (fiumi, laghi, litorali, formazioni orografiche) o specifiche
scelte del pianificatore (difesa da agenti esterni, superamento di murazioni, avvicinamento ad approdi, fonti

30
ORVIETO S.AGATA DI PUGLIA

S.AGATA DE’GOTI MODICA MORCONE

di energia, direttrici di traffico, ecc.). Infatti la forma urbis perfetta fatalmente si scontra con il limite, naturale
o meno, subendo deformazioni o provocando delle azioni di superamento o modifica della morfologia naturale.
Nel primo caso ricadono le città orogenetiche in cui la forma urbana è totalmente dettata dalla struttura
orografica: Urbino, San Marino, Morcone, Sant’Agata de’ Goti, Sant’Agata di Puglia, ad esempio coprono
urbanisticamente soltanto 3/4 circa del monte su cui sono insediate, sia per ragioni di orientamento sia di
acclività del versante lasciato [TAV. I.29]. Altre volte il rilievo montuoso è interamente utilizzato, talché
l’insedimento assume la forma pseudo-circolare. Il mare, barriera insormontabile, arresta la città che tende a
linealizzarsi lungo la costa, creando sistemi costieri più ampi (Costa Azzurra, Costa Vesuviana, Costiera
romagnola). Ma oggi il mare non è più un ostacolo per lo sviluppo della città, poiché la linea di costa viene
spesso artificialmente avanzata o scavalcata con isole artificiali [TAV. IV.29].
Non sono rari i casi in cui tutti questi limiti, compreso quello idrografico, sono compresenti su una stessa
città che sceglie, lungo il suo sviluppo, di adeguarvisi o di superarli. Ad esempio, Mantova ha nel tempo
conformato il suo sviluppo seguendo il Mincio, poi utilizzandolo come elemento di difesa deformandone il
corso, poi lo ha superato con un sistema di ponti per rispondere alle successive esigenze di sviluppo [TAV. I.26].
Ma esistono anche limiti da trasformazione umana del territorio. Caso sintomatico è la ferrovia, al contempo
limite e generatore di sviluppo. Limite perché essa, non integrabile nel sistema viario, strozza e arresta lo sviluppo
urbano. Solo più tardi l’interramento delle linee ferrate, i cavalcavia o lo spostamento fuori città dei nodi
ferroviari hanno in parte risolto in problema. Generatore di sviluppo al contrario lo diventa per la naturale
tendenza della città ad avvicinarsi alle stazioni ferroviarie quali importanti nodi di scambio, lo stesso accadrà
per i caselli autostradali. Sono i casi di Latina (che, contravvenendo all’originario disegno eptagonale, spinge
un suo tentacolo verso la stazione ferroviaria distante dal centro 8 km) [TAV. I.28] o del borgo Ferrovia di Avellino.

31
II IL SACRO, IL PENSIERO, IL POTERE
1 La costruzione simbolico-geometrica della città: i riti di fondazione.
Ci sono città in parte o in toto originate da un disegno prefigurato: disegnare nuove città è per l’urbanista
40diventare (tranne rari casi) reali, costituiscono lucide anatomie della struttura urbana, vere e proprie
teorie urbane disegnate. Esse sono spesso schemi di strutture filosofiche, sacre, sociologiche, opera di pensatori
(ancestralmente: di sacerdoti) più che di urbanisti. Etimologicamente, ‘disegno’ viene dalla radice -signum,
che ha molteplici significati. Indica ciò che viene mostrato, ciò che si vede, l’immagine, ma significa anche
materialmente incidere, marcare, scolpire, indica la firma di qualcuno, un segnale convenuto, una parola
d’ordine, una traccia o indizio, un particolare distintivo di una fisionomia.
Il segno è soprattutto il tramite di un significato, ed esso diventa simbolo nel momento in cui il sotto-
testo trascende il rapporto segno-significato e si mostra per se stesso.
Il simbolo trasmette un significato, ma rimanda ad un concetto rappresentato dall’immagine stessa del
simbolo.28 [TAV.II.5]: dal ‘simbolo’ al ‘concetto’, dunque. Dice Marchel Foucault ne: “Le parole e le cose”:
«Conoscere è dunque interpretare: procedere dal segno visibile a ciò che attraverso di esso viene detto, e che resterebbe,
senza di esso, parola muta, assopita nelle cose. La divinazione non è una forma concorrente della conoscenza; fa tut-
t’uno con la conoscenza stessa. Ora, i segni che vengono interpretati indicano il nascosto solo nella misura in cui gli
somigliano; e non si agirà sui contrassegni senza operare, a un tempo, su ciò che da questi, è segretamente indicato».
Tutto il disegno urbano, o parti di esso, sono spesso costituiti da simboli portatori di un messaggio che
usa la città come tramite. In questo caso si invertono i ruoli: non è il disegno che rappresenta la città, ma è
quest’ultima che viene usata come disegno-simbolo di altro. Il primo esempio che viene in mente sono i vari
disegni di Gerusalemme, a cominciare dalla Gerusalemme Celeste o Nuova Gerusalemme [BR.14,15 ] [TAV.II.2],
speculare alla Gerusalemme terrestre, il luogo mitico in cui i giusti vengono separati dai condannati all’Inferno.
28. E ciò è proprio nel suo ètimo: “simbolo” viene dal latino symbolum che a sua volta si origina dal greco σύμβολον [symbolon] (“segno”) che, ancora, deriva
dal tema del verbo συμβάλλω [symballo] dalle radici σύν «insieme» e βάλλω «gettare», avente il significato approssimativo di ‘mettere insieme’ due parti
distinte (nel nostro caso: segno e significato).

32
Essa è l’immagine speculare della città terrena, il cui tempio è la congiunzione tra cielo e terra. Le due città si
corrispondono nella costruzione delle loro parti: tutto ciò che viene costruito nella terrena specularmente viene
elevato nella celeste. Le due Gerusalemme, in relazione tra loro, non sono più città (men che mai la celeste)
ma rispecchiano il rapporto tra Mondo Superiore e Mondo Inferiore, sono dunque un concetto espresso, un
simbolo appunto. Infatti la traduzione grafica della Gerusalemme celeste non è la planimetria reale della città,
bensì uno schema molto complesso giocato su virtù e nomi di profeti, ma con orientamenti N-S-E-W tipici di
una mappa (tentativo di rapportarsi ad una categoria spaziale). Del resto anche la Commedia di Dante usa
specifiche spaziali e formali per indicare categorie di condanne e premiazioni divine. Ma la topografia di Dante
meriterebbe un libro a sé.[TAV. II.3]
Similmente, le città ideali, lungi dall’essere indirizzi di tecnica urbanistica e norme di fondazione urbana,
disegnano il percorso esperienziale che l’uomo deve compiere per giungere alla purezza, alla perfezione, allo
stato di una umanità felice, o rappresentano mappe celesti [TAV. II.1]. Il primo simbolo usato in questi casi è la
forma urbis, perfetta figura geometrica: quadrati, ottagoni, cerchi o figure composte in varianti stellari. E le
figure geometriche, pure o composte, sono di per sé simboli, con significati che travalicano la geometria.
Tutte queste figure posseggono un’invariante: forma geometrica regolare con due o più assi di simmetria
centrale. La scelta della figura geometrica (semplice o composta) non è laterale perchè porta con sé significati
che trascendono l’apparenza. Le loro possibili combinazioni e incroci rendono ancora più complesso il
messaggio che si vuol far passare tramite l’apparente descrizione grafica.
Come per Gerusalemme, anche per altre città di cui la storia favoleggia, sono state operate ricostruzioni
che afferiscono più alla filosofia e all’esoterismo che all’urbanistica. È il caso di Atlantide e delle cinque città
bibliche (Sodoma e Gomorra [BR.6 ], Zeboim, Adma e Zoar), distrutte da Dio secondo la narrazione della Bibbia,
(Genesi 19) e raffigurate con immagini dal carattere sacro o filosofico, più che reale. Sicché Atlantide è la
perfezione perduta dall’uomo corrotto, le 5 città sono 5 modi in cui un popolo può perdere la purezza e quindi
vanno distrutte [TAV. II.3]. A cagione della loro forma rigidamente geometrica, sono immutabili, non possono
crescere, perderebbero la loro perfezione.
Le distruzioni di città come anche la demolizione della torre di Babele nascondono indubbiamente altri
messaggi, che somigliano molto a degli avvertimenti, minacce a genti che hanno trasgredito le leggi divine.
Probabilmente si tratta di controversie tra Stati concorrenti, uno dei quali subisce minacce dall’altro in una
contesa territoriale (registrata dalla Bibbia come ira divina), o semplicemente di terremoti o altri cataclismi.

33
Il paesaggio urbano monocentrico, tipico delle città ideali (da cui deriva la grammatica rinascimentale)
presenta prospettive unifocali e conseguente controllo panoptico dello spazio: giungere nel focus non mette
fine al viaggio ma attiva altri viaggi; uno o più rami sono, in successione, raggi di vari circuiti urbani; gli
incroci sono segnati da elementi simbolici: fontane, obelischi, statue [TAV. II.6-9]. Un lungo discorso è quello
dell’uso dell’oggetto scultoreo come antenna di captazione della percezione. Gli obelischi e le fontane
caratterizzano tutto il percorso della Roma da Sisto V. in un sistema segnaletico ad uso del pellegrino giubilare.
Egli ordina il tracciamento ex novo di grandi assi viari che collegano fra loro le principali basiliche facendo

34
perno sul nodo centrale di S.Maria Maggiore. I cannocchiali prospettici conseguenti sono sottolineati da
quattro obelischi (piazze S.Pietro, Esquilino, Laterano, del Popolo) con valore di emergenza monumentale e
religiosa quasi a piegare classici simboli della paganità al trionfo della Controriforma.[TAV. V.38].
Dunque la città emette segnali sia attraverso la sua complessiva forma urbana sia con grandi oggetti di
arredo urbano. Nonostante non sia leggibile in un unico colpo d’occhio, la forma urbis ci parla dei suoi
significati, della sua storia, della struttura civile che ne sono il sotto-testo. Esempio classico sono le città
stellari del Rinascimento, sia ideali – del Filarete, del Milizia, di Leonardo, ecc. – che reali come Palmanova.
Le forme stellari, in quanto monocentriche e dunque con un unico punto di fuga, posseggono una scala
gerarchica radiale delle funzioni promananti da un unico centro erogatore e costringono alla convergenza dei
percorsi, al riconoscimento dell’autorità rappresentata dal centro geometrico. La simmetria radiale comunica
il valore differenziale del luogo di stazionamento rispetto al centro; aumenta il valore del luogo se ci si avvicina
al centro. Sicchè i tracciati concentrici sono linee equipotenziali, quelli radiali sono linee incrementali di
attrazione magnetica e di importanza socio-politica.
Il concetto di “centro” come parte qualificante del tutto è tanto forte che il Rinascimento ci ha lasciato
innumerevoli rappresentazioni del “centro” della città quali modelli architettonico-urbanistici per tutto il resto
del tessuto urbano. Guardando il centro si comprende l’intera città, se ne riconoscono le gerarchie funzionali.
35
Camminando per Palmanova si avverte la sensazione, ad ogni crocicchio, che qualche forza ci porta verso il
centro, si avverte il centro anche se non lo si vede. Se si resiste a passare dalle strade concentriche a quelle
radiali, si ha la sensazione di “girare a vuoto”, di non conquistare spazi, distanze, in quanto la indifferenza
delle simmetrie azzera l’effetto la conquista dinamica dello spazio, al contrario accelerata sulle strade radiali.
La planimetria stessa delle città rinascimentali, in quanto anche ideogramma (i moderni designer la
chiammerebbero logo), è un messaggio semantico ulteriore a quello che ne riceviamo nel camminarvi
fisicamente: è la differenza che passa dall’esaminare il disegno di un labirinto e il percorrerlo. Le città dunque
parlano anche attraverso la forma urbana in quanto disegno, segno. Città o complessi più antichi o più recenti
rispetto al Rinascimento hanno le stesse qualità pur con intenzioni ideologiche diverse. Le città ideali sono in
molti casi concettuali, filosofiche (“la Città del Sole”[BR.137]) o teologiche, come la già citata Gerusalemme: lì
c’è un luogo fisico (la tomba di Salomone) che è il focus teologico. È la precipua qualità dei santuari, in cui forma
e contesto rappresentano il divino, sono i suoi segni di rivelazione agli uomini.
Paradossale il caso di Palmanova, città ideale realmente costruita; bloccata nel suo rinascimentale poligono,
ha trovato il suo sviluppo fuori dello schema in uno spazio altro. Altre città sono state meno fortunate, assalite
dallo sviluppo successivo che è ha distrutto lo schema (Granmichele) [TAV.II.9].
In verità, le città ideali contemporanee hanno mutuato questo ordo; prosciugate della significanza sacra ed
esoterica, liberate dalla fissità, esse concedono assi o gemmazioni di sviluppo, nel tentativo di candidarsi alla
effettiva realizzazione: è il caso di alcuni progetti per Napoli e della Napoli di Aldo Loris Rossi, in cui si

36
sovrappone una città ideale ad una reale, volendo dare a quest’ultima una ‘pulitura’, una direttrice alla sua
riorganizzazione [TAV. IV.35]. Ma, in molti casi, è cosciente intellettuale provocazione come fa Aymonino nei
“progetti per Napoli” e, più realisticamente, nella rivisitazione di corso Resina a Ercolano.
In due modi la città ideale si è effettivamente materializzata: nelle città fortificate e nelle ‘new town’. In
entrami i casi, però, la perfezione geometrica ha dovuto fare i conti con la fisicità del reale conformandosi ad
essa e perdendo per strada parte della sua purezza. Facciamo due casi rarissimi: Palmanova e Berlage
(Norvegia) [TAV.II.6] che hanno conservato il disegno della città ideale pressoché integro, ma molti altri centri
hanno subito variazioni o in corso d’opera di fronte a problemi pratici, orografici o nel corso del loro sviluppo
specie novecentesco. Alludiamo ad esempio alla già citata Granmichele (CT), conservata nella sua parte
centrale ma successivamente sottoposta ad una espansione che man mano ha tradito la matrice originaria [TAV.
II.9]. Altri tre esempi di città-non città sono San Leucio (CE), Ferdinandea e il villaggio egizio Deir-el-Medina
per gli operai delle piramidi [TAV. II. 25].
Sono città-operaie, di servizio dunque, che, come i conventi, non posseggono intreccio sociale e sviluppo
urbano: oggi si userebbero le urba-tetture del tipo delle Vele di Scampia o dell’Unità d’abitazione di Marsiglia
o altre versioni contemporanee depurate dalla vena utopica del Falasterio di Fourier, del Familisterio di Godin,
della borbonica Ferdinandea presso Mongiana o della sua omonima a Caserta.[TAV.I.24].
Sia nell’ordinamento politico che formale, la città ideale e l’utopia che la sostiene hanno sofferto sempre
di un certo dirigismo, come in “Utòpia” di Tommaso Moro [BR.138 ]:
«Quando poi gli abitanti dell’intera isola divengono troppo numerosi, ne scelgono alcuni che vadano a vivere in una
città costruita sulla più vicina terraferma, dove ci sono molti terreni incolti e abbandonati. La nuova città osserva le
stesse leggi dell’isola e accoglie, qualora lo vogliano, anche gli indigeni del luogo. In tal caso i due popoli, unendosi
e vivendo insieme, s’abituano presto agli stessi usi e costumi, e questo con gran vantaggio di entrambi. Infatti gli
utopiani, con le loro leggi, fanno presto sì che una terra precedentemente inutile e insufficiente a nutrire gli indigeni
arrivi a sostenere entrambe le popolazioni. Ma se gli abitanti della zona non accettano di vivere con loro e secondo
le loro leggi, allora li cacciano dal territorio che hanno preso per sé. Se quelli si rifiutano o si ribellano, li combattono.
Infatti sono convinti che non ci sia guerra più giusta di quella contro chi mantiene una terra improduttiva impedendo
ad altri di possederla e coltivarla, quand’è legge di natura che la si possa sfruttare per ricavarne di che vivere.»

37
Non sono forse questi i principi che hanno condotto alla cacciata degli indiani d’America dalle riserve?
In effetti gli emigrati europei in America erano portatori di una forma di utopismo che, trafilata attraverso
sette e massoneria, si rappresentava in un ordine più dirigistico che libertario, come unico depositario del
giusto. Qualcosa di simile avviene nella “Repubblica” di Platone più simile ad un regime oligarchico che ad
una repubblica così come la intendiamo oggi.
Diamo ora esempi di città ‘pure’, cioè ad unica forma, e ‘composite’ a due o più forme dominanti, che
è il caso più comune. Iniziamo con esempi particolari: le ‘progettate’, cioè quelle la cui fondazione si origina
da un disegno unitario: da Cerreto Sannita a Noto a Gela a Brasilia a Chandigarh ed altre [TAV.IV. 18,19].
Anch’esse mostrano il marchio del potere, che il committente vuole degnamente segnino lo spazio. In questo
senso, quelli di Cerreto e Noto sono casi classici, entrambi avendo risolto i salti di quota con terrazzamenti
[TAV. I.20.]. La centralità è superata con una iterazione di piazze nei nodi del reticolo, cioé ad ogni
terrazzamento; il che aumenta le possibilità di piazzamento delle elite nobiliari e religiose che hanno voluto
e finanziato il piano. In effetti, con il replicarsi dei posizionamenti spazialmente privilegiati, si moltiplicano
anche le zone di maggior valore fondiario: i tre aspetti – urbanistico, politico ed economico – trovano
soluzione in un unico processo.
Al pari, in Chandigrad (Le Corbusier) e Brasilia (Costa, Nyemeier) sono altamente enfatizzati i luoghi
isituzionali (il Parlamento, il palazzo di Giustizia, la sede presidenziale ecc.) che vengono inseriti in vaste
prospettive di viabilità preferenziali. Non era lo stesso con il Foro di romana memoria?
Nei casi di crescita naturale, la matrice centrale è senza dubbio la prevalente, essa finisce per essere, nel
territorio italiano, una invariante del piano. E ciò grazie alle ragioni di difesa conseguenti alle condizioni politiche
durante il Medioevo che, specificamente nel Meridione, portarono al complesso e lungo fenomeno
dell’incastellamento, che si contese il controllo socio-economico del territorio con le comunità monastiche29:
Allora il castello (o villaggio rurale fortificato...) divenne, con le città episcopali che, a causa della loro decadenza,
poco si distinguevano dai castelli maggiori, l’elemento basilare dell’organizzazione militare del potere statale o per-
sonale (di signori laici ed ecclesiastici) e soprattutto il punto di riferimento essenziale della geografia economica e
socio-insediativa. In altri termini, i castelli. con la loro definizione funzionale come modo di organizzarsi in comunità̀
locali specialmente contadine, elaborarono una forma di vita molto diffusa che portò alla riconquista delle sommità
collinari, assumendo importanza e funzioni tali da incidere decisivamente sulle forme del popolamento e dell’utiliz-
zazione e distribuzione delle risorse, sulle gerarchie tra i luoghi e sui modi in cui i potenti creavano le loro capacità
di controllo e di governo del territorio. [prof. Luigi Di Francesco, l’Urbanistica].
I castelli, nel loro maturo sviluppo, in assenza di preesistenze, costituiscono delle vere e proprie città di
fondazione che hanno la loro matrice nel binomio Castello-Cattedrale, intorno a cui si asserraglia il borgo:
ricordate il sacro-profano dei primitivi insediamenti? [TAV. II.10].
Abbiamo dunque la presenza di due sole classi: i contadini-artigiani e il Castellano con la sua corte, oltre
ai religiosi. Nell’Italia meridionale il sistema di castelli corrisponde all’affermarsi, sulle ceneri del longobardo
gastallaggio, del regime feudale, in cui i feudatari rispondono ad un sovrano che con risultati alterni riesce a
mantenere un equilibrio di poteri ed una certa autonomia amministrativa nei feudi governati.
29. La realizzazione di migliaia di insediamenti fortificati non comportò sempre nuove fondazioni: spesso, anzi, il processo consistette nel potenziamento di
villæ e casali (piccoli villaggi aperti o aggregati minimi curtensi), mentre tanti altri villaggi e casali furono abbandonati per fornire popolazione ai nuovi insedia-
menti. In tal modo l’incastellamento significò una diversa dislocazione spaziale delle sedi e della popolazione, una ristrutturazione delle vie di comunicazione
ed un diverso uso delle risorse agro-silvo-pastorali, minerarie, idriche (per forza motrice e comunicazione, irrigazione e pesca), la costruzione di una nuova
geografia sia amministrativa (distretti di castello, base delle nuove comunità, espropriazione dei poteri delle pievi isolate da parte delle nuove chiese castren-
si) sia economica (realizzazione di nuovi equilibri e gerarchie territoriali). Il castello divenne centro di mercato: tale valenza arricchiva il signore con «dazi» e
«gabelle» sulle merci e finiva col beneficiare bottegai e artigiani, contribuendo così alla differenziazione sociale di questo ceto nei confronti degli agricoltori
asserviti e creando le premesse per l’accumulazione dei capitali da investire nella terra quando, con la crisi e disgregazione del sistema curtense, si sarebbe-
ro create le condizioni di un’intensa mobilizzazione fondiaria. [prof. Luigi Di Francesco, l’Urbanistica]..

38
Questo tipo di agglomerazione per poter diventare città dovrà ripercorrere tutto l’iter di formazione delle
classi intermedie che si interporranno anche spazialmente tra le due originarie: i palazzi nobiliari sorgeranno
appena si renderanno loro disponibili le rendite dai fondi rustici derivanti dalle leggi eversive della feudalità30.
Particolari casi di città di fondazione sono quelle create ex novo per il controllo dei confini: da Roma in
su, il Nord Italia ne è denso. Ma, a differenza dei castra, saranno su posizioni orograficamente elevate.
Nel periodo post-medievale, con il consolidarsi della monarchie, si formerà anche una gerarchia tra i
borghi castellati, in base a grandezza fisica e/o a facile accesso, caratteristica quest’ultima originariamente
negativa, rispetto al grado di difendibilità del castello, ma che in seconda battuta si trasformerà in un vantaggio
per le relazioni politico-economico con il circostante ed il suo controllo.
Lo sviluppo di questi centri abitati in genere abbandona presto la concentricità per svilupparsi radialmente
fino a scendere a valle lungo le linee di traffico e successivamente nel territorio agricolo circostante.
Casi singolari sono i Comuni, quale esito di una persistenza autonomistica in alcune parti d’Italia in cui non
prevale una situazione statuale più vasta come prima descritta31. Anche qui la forma segue la funzione, ma la
centralità che la rappresenta è di natura diversa; si conferma il ‘foro’ come centro su cui si affacciano i luoghi del
potere collettivo (il palazzo del Capitano, la Cattedrale, il Palazzo del Popolo. [TAV. II.10]
Nel Comune sono rappresentate tutte le componenti sociali nella classica collocazione gerarchica, ma con la
presenza di una nuova partizione urbana: il quartiere. È probabile che la moltiplicazione e specializzazione del lavoro
30. Le leggi eversive della feudalità iniziano nel Sud Italia con la prammatica del 1792 di Ferdinando IV di Borbone, nella quale si sancisce che ai contadini
dovevano essere assegnate le terre più prossime agli abitati e che erano capaci di coltivare con la propria opera. Durante la successiva dominazione france-
se il legislatore francese non tenendo conto del numero dei componenti della famiglia del contadino assegna le quote indipendentemente dalla composizione
del nucleo familiare; inoltre nessun provvedimento viene adottato per mettere gli assegnatari nelle condizioni di porre a coltura la terra loro assegnata, doven-
do inoltre corrispondere il canone enfiteutico e il pagamento della fondiaria. Il che, aggiunto ai ritardi burocratici degli intendenti non faranno che immiserire
ancor più la classe contadina. Alla fine le terre demaniali vengono invece concesse in locazione ai grandi proprietari terrieri che le chiuderanno anche agli usi
civici: nel giro di pochi decenni i contadini meridionali si vedono negato l’esercizio degli usi civici su queste terre che i possessori usurpano trasformandone il
possesso in proprietà. Ai contadini non sono destinate neppure le terre degli enti religiosi soppressi incamerati dallo Stato.
31. Il Comune medievale non va inteso come una struttura politica unitaria (com’erano le città-Stato antiche), ma piuttosto come un conglomerato di poteri
minori (nobiltà, clero, membri delle arti, ecc.), ciascuno geloso di autonomia e privilegi. Benché quindi la maggioranza dei cittadini godesse dei diritti politici,
questi erano mediati attraverso organismi e corporazioni, che limitavano i pieni diritti individuali.

39
(le ‘arti’) abbia portato a specializzare anche parti della città. La concentrazione in un unico quartiere di abitanti
dediti alla stessa occupazione può essere stata determinata da motivi commerciali (individuabilità, approvvi-
gionamento di materie prime, appartenenza alla stessa ‘corporazione’). Fatto sta che il quartiere finisce per essere
una seconda identità terrritoriale (lo testimonia l’importanza del palio).
Più semplice la spiegazione della formazione di quartieri divisi per provenienza geografica (spesso
degeneranti in ghetti) che hanno la loro espressione moderna nelle newyorkese Little Italy, Chinatown, ecc.,
vere e proprie enclave urbane. I quartieri, nella loro evoluzione, tendono a riproporre, in sedicesimo, lo schema
della città, con un centro in genere coincidente con un luogo sacro, specie se la ragione prevalente è la diversità
religiosa. Ma c’è anche il caso in cui l’edificio religioso segni un’apparetenenza di classe; sintomatico il caso
di Modica, dove le cattedrali sono dedicate a santi protettori di ciascuna congrega (leggi: classi sociali).
2 La città come rappresentazione del potere.
Premesso che la città è per sé stessa la rappresentazione della comunità che l’abita, tuttavia quando il disegno
urbano diventa cosciente e la comunicazione del potere che la esprime determinata, esso acquista una prevalenza
sulle semplici ragioni funzionali. Il potere – cioè quella élite preposta alla regolazione della vita della collettività
– non si limita più ad utilizzare punti di fuga prospettici, situazioni acropoliche, surdimensionamenti
architettonici per significare sé stesso, ma utilizza intere parti della città o la città tutta intera, la forma stessa di
essa. Dalle grandi dimensioni palaziali – da Spalato [BR.104 ] a Versailles – si è passati ad impianti urbanistici
che, attraverso l’uso intensivo di grandi assi viari, prospettive a lungo fuoco, fulcri percettivi monumentali,
attraversano segnicamente tutto il tessuto urbano. Gli esempi più classici sono le città americane, per lo più ‘di

40
fondazione’ (Washington, Philadelphia [BR.86], Indianapolis). In esse si intersecano l’antico sistema reticolare e
i tracciati radiali, dal significato massonico, il tutto tendente a creare prospettive monofocali che conducono ai
punti topici del potere. Particolarmente rilevante l’influsso del Palladio (surdimensionato e monumentalizzato),
nell’architettura pubblica e civile, tanto che con la risoluzione n. 259 del 6 dicembre 2010, il Congresso degli
Stati Uniti d’America ha riconosciuto Palladio come “padre dell’architettura americana”32. Il modello palladiano
è stato utilizzato anche in altre nazioni (Francia, Russia, Inghilterra) sempre nella sproporzionata versione
monumentale, per cui parlare di palladianesimo è qui quanto mai improprio poiché manca una lettura critica e
un corretto uso dei modelli contenuti nei “Quattro Libri dell’Architettura”. Il risultato di questo tipo di riuso è,
sia in termini architettonici che urbanistici, completamente distorcente rispetto all’originaria serena atmosfera
palladiana del territorio del Brenta.
32. I quattro libri dell’architettura (Venezia 1570) di Andrea Palladio definirono i canoni classici degli ordini architettonici, la progettazione di ville patrizie, di
palazzi pubblici e di ponti in legno o muratura, anticipando lo stile neoclassico. Il palladianesimo fu diffuso in particolare nel Regno Unito, in Irlanda, negli Stati
Uniti, come pure in Russia. In Inghilterra tra i primi ad ispirarsi al suo stile furono Inigo Jones e Christopher Wren; un altro suo ammiratore fu l’architetto
Richard Boyle, più noto come Lord Burlington, che – con William Kent – progettò la Chiswick House. Sono neopalladiani molti edifici costruiti nei neonati Stati
Uniti d’America come la Casa Bianca ed il Campidoglio a Washington o certi edifici di Monticello in Virginia. Neopalladiani sono pure la Redwood Library
(1747) e la Marble House a Newport, l’Università della Virginia a Charlottesville, la Piantagione Woodlawn ad Assumption in Louisiana. La Casa Bianca, è in
stile palladiano, come la residenza di Monticello progettata per sé da Thomas Jefferson. [da Wikkipedia, voce: Andrea Palladio).

41
Nei casi in cui questi interventi hanno dovuto comportare trasformazioni del tessuto urbano preesistente,
interi quartieri si sono visti tranciati da indifferenti rettilinei, cancellando stratificazioni storiche, oscurando
il genius loci ove ancora miracolosamente conservatosi, con la conseguente ‘deportazione’ di masse di
residenti. Alludiamo, ad esempio, alla nota operazione dei boulevard condotta a Parigi dal prefetto Eugène
Haussmann [BR.58, 59 ], ai progetti di Hitler (leggi: Albert Speer) per Berlino e Branau (sua città natale), di Stalin
per Mosca33, Cracovia e altre città, di Mussolini per Roma (Fori Imperiali, Eur) e per i paesi coloniali [TAV. 19,
20, 21, 22]. In particolare, il razionalismo adottato dal Fascismo è stato uno strumento indispensabile per
rappresentare il regime, anche in contrapposizione alla tradizione regia che si esprimeva con ben altro stile.
Caso particolare in questo senso è il centro agricolo di Tersigallo (Fe)[TAV. 23]34oggetto, da parte del paesano
Ministro dell’Agricoltura Edmondo Rossoni, di una vera e propria rifondazione, che copre l’originario carattere
di borgo agricolo. L’intervento è centrato su una piazza porticata ma, soprattutto, sui crocevia, occupati ai
quattro angoli da edilizia pubblica, in modo da indicare altezza, stile e allineamenti anche per l’edilizia privata
lungo le rispettive cortine: una normativa urbanistica di fatto.
33. La similitudine stilistica della rappresentazione del potere, al di là delle Nazioni, dei sistemi statuali e delle epoche, è sconcertante: in occasione della
Esposizione Universale di Parigi del 1937 c’è la compresenza – centro la torre Eiffel – del padiglione sovietico e di quello tedesco, perfettamente simili e
ben armonizzati anche con l’ambiente parigino [TAV.II.16].
34. Tresigallo a partire dal 1930 venne completamente ricostruita con architetture razionaliste, come avveniva allora per le città di fondazione: per tale moti-
vo T. ha ottenuto la denominazione di Città d’Arte.

42
Abrasi gli orpelli decorativi, l’impianto urbano delle nuove città può esprimere con maggiore chiarezza
la sua natura di gerarchizzazione dello spazio all’insegna tutta futurista della ‘velocità’: le prospettive
accelerano la individuazione dei punti focali, gli elementi verticali espandono lo spazio nella terza dimensione.
Questi elementi costruttivo-formali, in realtà molto semplici – sono risultato ben adatti all’azione di fondazione
che in quegli anni s’intraprese su larga scala sia nella bonifica pontina, sia nell’ ‘italianizzare’ le città coloniali.
L’uso massiccio di obelischi, mega-statue (collocate talora in posizione centrale su ampi spazi in punti
focali privilegiati), edifici sedi di governo, comporta un deciso surclassamento dell’intervento pubblico su
quello privato. E non sono da meno le sistemazioni urbanistiche dei Paesi a regime democratico.
La contemporaneità, pur abbandonando questo smodato metodo dagli ambigui sapori classici, non rinuncia
a rappresentare il potere spostando l’indice su architetture portatrici di simboli per così dire “depurati”: il
Rockefeller Center, le defunte Torri Gemelle, i grandi ponti di N.Y. e San Francisco ne sono canonici esempi.
Più recentemente la città, nella sua corsa all’elefantiasi, e l’architettura nella sua deflagrazione formale, hanno
subìto una riduzione del potere simbolico: il New Trade Center post 11 settembre 2001 è una soluzione del

43
tutto economico-speculativa che non recupera il ricordo delle storiche presenze delle torri gemelle. Esse, ormai
troneggianti insignificativamente sulle T-shirt, faranno la fine del Che, di cui i giovani non conoscono nulla.
Parigi oggi è forse l’unica eccezione, poiché continua ad utilizzare i grandi interventi per rappresentare il
potere: il Centro Pompidou, la Piramide del Louvre, il teatro de La Bastille, la Defense sono i nuovi simboli
post-torre Eiffel, e funzionano. Del resto Parigi, rispetto alle altre capitali europee, ha una storia piuttosto
recente, si può dire sia nata con la Torre Eiffel e i boulevard haussmanniani, coi quali non poteva decidere di
aver completato il proprio armamentario simbologico per fissare una propria riconoscibile fisionomia.

44
45
46
47
III I MODI DI TRASFOMAZIONE DEL TERRITORIO
1 Geografia e urbanesimo. Le connessioni lineari
Per quanto si vogliano cercare uguaglianze tra le formæ urbis, come si è visto si giungerà tutt’al più a pallide
similitudini, poiché troppi fattori contribuiscono alla loro formazione, in primis il territorio stesso, con tutte i suoi aspetti
(orografia, pedologia, clima, situazione politica, storia). Una scacchiera urbana, ad esempio, sarà sempre impedita
da una orografia più o meno tormentata. Nel caso della città summana, ad esempio, la colonizzazione romana
ha dovuto interrompere questa trama alle falde del Somma-Vesuvio, mentre è presente nelle due valli nolana
e nocerino-sarnese (da Pompei in poi) e in tutta la Terra di Lavoro. Sul litorale vesuviano, invece, sono state
possibili le scacchiere di Ercolano e Pompei per la minore acclività del suolo. [TAV. I. 16-18]
Infine le città lineari, in genere si sviluppano in tal modo o per connettere due centri su una grande direttrice
di comunicazione, o per seguire un litorale (oggi li chiamiamo water-front) e acquisirne così i massimi vantaggi
di esposizione o commerciali che siano. Non sono rari i casi di sviluppo lineare costiero di seconda generazione
rispetto ad un centro generatore montano: la Calabria litoranea ne è piena e, anche altrove, la toponomastica
aggettiva come ‘marina’ questa sua parte, talora anche staccata e distante dal centro (Silvi Marina, Marina di
Camerota, Marina di Pietrasanta, Carrara Marittima, Catanzaro lido, ecc). Rari i casi di città marine nate per
gemmazione da altre interne e poi sviluppatesi autonomamente (Pompei rispetto a Nola, Ostia rispetto a Roma,
Pireo rispetto ad Atene). Lo stesso fenomeno è avvenuto per le stazioni ferroviarie distanti dai centri e da
questi raggiunte con le stesse modalità: qui l’appellativo che si è aggiunto al toponimo è ‘scalo’ (Vairano-
scalo, Tito-scalo, Colleferro-scalo, Latina-scalo) o semplicemente ‘borgo’ (Borgo Ferrovia di Avellino,
S.Felice a Cancello, Torino Porta Nuova), ecc. Le indicazioni ‘scalo’ e ‘marina’ indicano, però, un tipo di
sviluppo autonomo dell’agglomerato con adeguata dotazione di infrastrutture e servizi autosufficienti. In
qualche caso superano di grandezza i centri originari, talché ci correrebbe l’obbligo di esaminare a fondo
l’influenza che, per limitarci all’Italia, ha avuto la ferrovia nello sviluppo urbano dei territori attraversati.
Nei casi citati la soluzione lineare è il sistema connettivo più naturale, tendente a raggiungere due fulcri
urbani nel più breve spazio possibile. In altri casi a determinare la linearità non sono due punti di interesse
ma una connessione nel tempo di filamenti urbani generati da evoluzione di quartieri di una stessa città

48
49
50
originariamente staccarti – come il caso di Recanati e di Isernia [TAV. III.1] – o di cittadine contigue sulla stessa
giacitura (una valle, un fiume, una strada importante): è il caso della catena di comuni sulla costa vesuviana,
di quelli giacenti sulla Valle Caudina, sulla costa adriatica da Pescara in giù, nella piana nolana. Sono città
lineari più o meno compiute, alcune delle quali (la Città Caudina, la Città Nolana, [TAV. III.3,4]) attendono un
intervento progettuale per qualificarsi. Nastri urbani lineari o intere città lineari sono state progettate ex novo,
i primi come soluzioni parziali a problemi di sviluppo di grandi città (tra tutti: Kenzo Tange a Tokio e Skopie)
[TAV. III.2], le seconde come vere e proprie città nuove, come quelle di Soria y Mata [TAV. III.2] e di Leonidov. Lo
sviluppo lineare nella sua accezione autocostruitasi nel tempo ha una facile riconoscibilità e può essere oggetto
di facili e di efficaci interventi, nella versione di progetto unitario la ripetibilità dei suoi componenti,
l’adattabilità a vari tessuti urbani preesistenti, il facile ancoraggio a sistemi infrastrutturali (vie di
comunicazione) anche preesistenti. Lo schema lineare è particolarmente adatto alla riammagliatura di
organizzazioni urbane lineari storiche. Caso emblematico è la conurbazione vesuviana.

2. Le città-territorio: il caso della “città vesuviana”.


Il litorale vesuviano si può definire un campionario di quasi tutte le città che abbiamo descritto nelle
lezioni precedenti, sicché oggi, nonostante l’edilizia del boom post-bellico e oltre, ne mostra i modelli che,
sedimentandosi e intrecciandosi tra loro nel corso della storia, hanno dato luogo ad una stupefacente fusione
che noi chiamiamo ‘città vesuviana’. [TAV. III.7-9.]
Tutta la storia, insieme naturale e antropica, del complesso è rilevante non solo dal punto di vista
vulcanologico, naturale e paesaggistico, ma anche urbanistico: alle eruzioni cicliche corrispondono le ri-
urbanizzazioni, che si organizzano confermando alcuni codici aggregativi, sono le invarianti territoriali che
costituiscono la struttura di quelle persistenze di cui parla Aldo Rossi ne “L’architettura delle città”:
A. il sistema urbano nebulare
B. la connessione lineare
C. l’espanzione radiale
Il sistema nebulare A, presente da sempre su tutto il territorio vesuviano, ma storicamente più fitto
nell’arco litoraneo, si rivela come il collante di tutti gli stadi di sviluppo. È l’effetto di trasformazione della
centuriatio romana che permane nelle formazioni polarizzate di Pompei ed Ercolano, ma s’infrange contro

51
la struttura morfologia del vulcano non riuscendo a piegarla. Lo sviluppo nebulare, che sembra diffondersi
senza apparenti leggi di crescita, viene regolato, da un lato dalle funzioni attrattive svolte dai poli di Pompei,
Ercolano e Stabia, dall’altro dalle caratteristiche ambientali e fondiarie proprie del modus ædificandi delle
ville patrizie e delle ville rustiche.
La connessione lineare B, consegue un uso del territorio tagliato sulla comunicazione, come dimostra la
persistenza anche ad oggi della via delle Calabrie. Fino all’età romana essa avrà scarsa valenza urbanistica,
costituendo più che altro una direttrice di comunicazione locale. Solo in seguito, con gli insediamenti rustico-
nobiliari cinque-seicenteschi inciderà sullo sviluppo lineare costiero per poi esplodere nel ‘700 con
l’insediamento delle ville vesuviane e di tutto l’indotto lineare di edifici civili.
L’espansione radiale C è caratterizzata soprattutto dal ricalco operato sulla rete alveo-stradale nel tempo,
su cui si è innestata una urbanizzazione secondaria.
La città vesuviana si caratterizza specificamente con l’insediamento delle ville vesuviane in seguito alla
scelta del sito reale di Portici da parte di Carlo di Borbone, nel quadro di un’ampia strategia di costruzione
della città metropolitana napoletana sancita nella Mappa del Duca di Noja del 1775. [TAV. III.7]
L’accelerazione del processo di aggregazione urbana lineare impresso dal sistema delle Ville Vesuviane
e dalla politica urbanistica di Carlo di Borbone, dà impulso ad un uso complesso dell’armatura infrastrutturale
marino-terrestre; il sistema delle difese a mare e degli approdi delle ville si integra con l’aumentata importanza
della strada delle Calabrie a seguito dell’insediamento reale.35
35. Si assisterà al riuso, alla ristrutturazione ed ampliamento dei preesistenti casali cinque-seicenteschi, vestiti delle nuove forme barocche: è la genesi della
quasi totalità delle ville vesuviane, rispondenti a nuovi canoni estetici e soprattutto a funzioni di rappresentanza che sopravanzeranno le residuali agricole. I
casali continueranno a contrassegnare il paesaggio della cintura orientale sommana da San Sebastiano a Terzigno.

52
In meno di mezzo secolo oltre un centinaio di ville si distribuiscono lungo il litorale vesuviano (il “Miglio
d’Oro”), sì da caratterizzare quest’area con l’imposizione di una nuova orditura: la lineare, parallela alla costa
e lungo la strada delle Calabrie (che qui prese il nome di “Strada Regia di Portici”). Inizia da qui il fenomeno
della litoralizzazione della città vesuviana, che vede scomparire per inglobamento o emarginazione i casali
cinque-seicenteschi. Il fenomeno continuò, con altre forme, fino al primo ‘900 con l’insediamento dei ‘villini
di vacanza’ della classe borghese, ma nel secondo ‘900 ebbe ben più tragiche proporzioni.[TAV. III.8,9.]36
Il sistema delle ville revisiona dunque tutta la trama urbana e le forme dell’architettura preesistenti
inglobandole nel proprio corpo fisico, cosa che per primo fa il Palazzo Reale, cucendo in una straordinaria
sintesi più fabbriche precedenti (palazzo Palena e villa Caramanico). È questo un fenomeno indotto da una
serie di operazioni, non solo urbanistiche, afferenti ad una filosofia dello Stato del nuovo Regno dei Borbone
che si può leggere in gran parte nel disegno della mappa del Duca di Noja. La volontà di Carlo di delimitare
una più vasta area metropolitana si concretizza con una intenzionale collocazione di insediamenti reali con
36. La litoralizzazione vesuviana è un fenomeno tipico della urban-coastline che ha interessato l’area a partire dal secondo dopoguerra e in genere riguar-
da le coste mediterranee a forte preesistenza sottoposte a pressione insediativa proveniente dall’hinterland. Ciò ha provocato ingrossamenti lineari del tessu-
to urbano costriero che si sono sovrapposti alla classica ‘macchia d’olio’ e che tende alla sutura di più centri (originariamente distinti) per effetto della recipro-
ca espansione di essi. Il continuum urbano che ne è derivato ha prodotto perdite pesanti di identità storica e antropologica, ma anche di funzionalità e qualità
complessiva della vita [Cfr: ALDO VELLA, FILIPPO BARBERA, Il territorio storico della città vesuviana, Labor.ricerche&studi vesuviani, 2001, 2003, 2005, 2008].

53
annessi parchi ed acquartieramenti militari in una logica di controllo e presenza dello Stato. Inoltre, nella
formazione del nuovo esercito il sovrano privilegia la fanteria (ceti popolari) sulla cavalleria (ceto nobiliare).
Il tentativo di controllo del territorio e di avvicinamento al popolo, scavalcando la nobiltà, è ampiamente
rappresentato nella posizione della Reggia di Portici a cavallo della strada. Appare chiara dunque la contro-
manovra – lucidamente prevista da Carlo – dei nobili che edificheranno nei pressi della Reggia di Portici le
loro residenze di delizia per recuperare quel rapporto e contare nelle decisioni di corte. Il fenomeno ha quindi
una intenzione politica espressa attraverso un disegno urbanistico complesso che recupera tutte le matrici
storiche del litorale privilegiando quella lineare ed assumendo l’asse radiale come duplice cannocchiale
prospettico Vesuvio-Mare. Su questo asse il sito reale sviluppa l’intera sequenza che sarà di modello a tutte
le ville vesuviane costiere, fatta eccezione per la D’Elbeuf precedente all’insediamento reale [TAV.III.8]:
Vesuvio – parco superiore – emi-palazzo superiore – corte/strada – emi-palazzo inferiore – imbarcadero – mare.
Tranne poche decine (tutte quelle di San Giorgio a Cremano, poche di Ercolano, Portici e Torre del Greco),
le ville si dispongono lungo l’asse della strada delle Calabrie sul lato-mare e sul lato-Vesuvio, (che sono le
due metà di cui si compone il Palazzo Reale). Sintomatica è l’adozione, da parte di alcune di esse, della strada
passante (villa Buono, Villa e delizie del Vella a Portici, Villa Monteleone a Barra). Il Palazzo Reale di Portici
e la quasi totalità delle ville vesuviane del ‘700, si pongono come ‘modelli di ville’, espressione di una filosofia
dell’abitare, di cui gli schemi architettonici sono la spaziale traduzione.
A questa particolare conurbazione, che va ben oltre il ‘Miglio d’oro’, vanno attribuite le qualità di città
per la continuità del suo sviluppo, benché manchino espressi luoghi di aggregazione e servizi pubblici, quasi
tutti – eccetto esedre e corti rese successivamente pubbliche – affidati ai centri urbani originari in cui lka
litoralizzazione si innesta con effetto di grande qualificazione.
Uno degli aspetti più interessanti – nonostante il silenzio e la disattenzione degli studiosi – è quello
dell’antropizzazione, un fenomeno di ciclica colonizzazione che allittera in maniera inquietante l’analogo,
post-eruttivo originato dallo stereocaulon vesuvianum, e che evidenzia anche il particolare equilibrio tra ordo
naturæ ed ordo hominis raggiunto grazie alla lunga coabitazione.
Il sistema delle ville rafforza dunque la componente lineare dello sviluppo urbano, confermando il carattere
unitario della conurbazione vesuviana. La sequenza di ville, i parchi annessi, gli approdi che sostituirono gli
ultimi brani di macchia mediterranea, costituiscono un sistematico rimodellamento dello skyline vesuviano.
Le ville vesuviane assumono quindi qualità paradigmatiche, assurgono a modellistica per la formazione
delle conurbazioni lineari di qualità. Dopo Roberto Pane, la grande critica non ha saputo suscitare nessun
dibattito in proposito: le ville vesuviane non sono state analizzate quali contenitori di invarianti tipiche dei
modelli, qualità unanimemente riconosciuta invece alle ville venete del Palladio, progenitrici dell’architettura
civile inglese, francese e proto-americana.
La superiorità del caso vesuviano, rispetto a quello delle Ville Venete, dei Castelli della Loira, delle ville
di Bagheria e di altri casi similari, è l’esistenza di un sistema compositivo urbanistico che nasce
dall’applicazione iterata di un modello architettonico che colloquia con il sistema natutrale. La differenza,
insomma, è che il territorio vesuviano ha nelle ville la sua matrice strutturale, la quale convive con i contesti
ambientali in un regime di reciproco condizionamento. Mentre il Brenta e la Loira sono le determinanti
territoriali cui il costruito si sottopone, il sistema Vesuvio-mare condivide questa funzione in tutta parità
gerarchica con le ville vesuviane.

54
IV CITTÀ E PRODUZIONE: VERSO LA CITTÀ LIQUIDA
1 Dalla metropoli37 alla megalopoli: la colonizzazione urbana.
Ben due rivoluzioni industriali hanno nel tempo stravolto la città: la prima a cavallo dei secoli XVIII e XIX,
la seconda verificatasi nel secondo dopoguerra. Si dimostrerà come i principali caratteri fondanti della città
si ripetono con una permanenza sconvolgente. Nella prima – sviluppatasi da metà del ‘700 a metà dell’800 –
si sono sistematizzati i rapporti capitale-lavoro e quelli produzione-produttore. La città da rappresentazione
dell’Uomo è rapidamente passata a rappresentare ciò che egli produce. Residenza e fabbrica sono al momento
mescolati nello stesso brodo urbano e solo in una fase di maggiore maturazione tecnologica si avrà bisogno
di spazi specificamente dedicati. Lo zoning è condizionato sempre più dalla ricerca di aree industriali, man
mano che procede la meccanizzazione e la dimensione della fabbrica, cioè man mano che le imprese artigiane
che avevano spazio negli interstizi urbani, vengono soppiantate dall’industria, che si presenta come l’unico
livello produttivo che può investire in macchine a vapore e decuplicare la produzione.
37. Il termine metropoli è comparso per la prima volta nel 1750 nella “Lettera ad un amico” di Giovanni Carafa (duca di Noia) che accompagnava la mappa
della città di Napoli (1775): «Altra maniera non v’è per rendere illustri le pubbliche sontuose opere del nostro glorioso Monarca, che sono i primi frutti della
riduzione di Napoli all’antico suo stato di metropoli, se non se o il batterne monete o il farne i disegni e le piante, delle quali due vie, l’una è interamente riser-
bata al principe, l’altra solamente ci è conceduta» GIOVANNI CARAFA duca di Noja, Lettera a un amico, 1775 (l’innominato amico era quasi sicuramente il mar-
chese Nicola Froggiani, molto influente a corte).

55
L’Inghilterra, che è già una potenza coloniale, è conseguentemente anche una potenza industriale
(sopratutto tessile e metallurgica) dovendo procedere alla trasformazione della materia prima raccolta nei
paesi colonizzati. Si ha bisogno di sempre maggiore energia per far andare le macchine, si allargano i porti
perché possano ricevere le grandi navi da trasporto [TAV.IV.2].
In Europa la trasformazione non è simultanea in ogni Paese e, in ciascun Paese, in tutte le regioni. Le
prime città investite da tale fenomeno furono le città inglesi e poi le altre europee: viene sfondato il perimetro
delle mura per la maggior parte rimasto al XVI secolo (Milano, Parigi) o addirittura al XIV secolo (Firenze).
Londra è ormai lontana dalla sua progenitrice di legno bruciata d’un colpo nel 1666 [BR. 44, 45 ][TAV.IV.1] ed
anche dai timidi piani di ricostruazione immediatamente succedutisi. Come altre grandi città inglesi, si gonfia
ed infittisce a causa del surplus di contadini che vi si trasferiscono per diventare operai. D’altro canto, la
trasformazione, già in periodo pre-industriale nelle aree extra-urbane, di fattorie in piccole industrie tessili fa
della capitale una città-regione con problemi infrastrutturali. La macchina a vapore di Watt, liberando la fabbrica
dalla presenza di corsi d’acqua per alimentare le macchine, contribuisce a queste enormi trasformazioni urbane,
poiché permette grandi concentrazioni industriali e infrastrutturali. Canali, ferrovie, ponti, applicazioni spesso
di nuove tecnologie, mutano il paesaggio extraurbano inglobandolo nella metropoli.
La città così ricalca sul suo corpo fisico la concentrazione produttiva e di capitali, che obbligano a profonde
trasformazioni urbane. L’espulsione conseguente dei ceti bassi dal centro della città e la massiccia
immigrazione dalle campagne alimentano i sobborghi. I piani regolatori, dopo il primo periodo di
trasformazioni incontrollate, razionalizzano il profitto sulla rendita fondiaria. Si procede a sventramenti e
trapanazioni del tessuto edilizio antico per liberare rendite di posizione. I casi più notevoli furono quelli di

56
Londra (1848-1865), Parigi (1853-1869), Firenze (1859-1865), Vienna (1857), Bruxelles (1867-1871). Lo
stesso impetuoso sviluppo avviene fuori dall’Europa: negli Stati Uniti, nei Paesi del Commonwealth, nelle
nazioni dell’America Latina, in Giappone, nelle colonie dell’Asia e dell’Africa. In questi luoghi, oltre alla
crescita dei centri urbani esistenti, si assiste alla fondazione di numerosissimi nuovi centri.
I fenomeni che investono le città durante la prima e, analogamente, la seconda rivoluzione industriale
possono riassumersi in due fasi [TAV.IV.7]:
a introflessione: crescita spontanea endogena, cioè aumento della densità abitativa: promiscuità funzionale e d’uso.
b estroflessione: espansione, diretta dal potere pubblico e nuove aree funzionalmente specializzate. Vengono ripresi
brani di soluzioni utopistiche estrapolati dai modelli originari.
Ricordiamo che la 2a rivoluzione industriale a differenza della 1a nasace dalla necessità di ricostruire
l’apparato produttivo dopo gli eventi bellici e riaprire i mercati, ma esita modelli trasformativi urbani analoghi
e rispetta le stesse due fasi; diversa è però la natura della materia urbana che in questo caso è tutta abitativa.
La fase a è in questo caso anche più breve, poiché i grandi programmi statali di ricostruzione, sia del comparto
abitativo che industriale, sono stati più solleciti, di maggiori dimensioni e regolati da una tecnica urbanistica
più raffinata, nonché sostenuta da forti investimenti da parte dei paesi vincitori per accelerare i processi di
rianimazione dei mercati e dei consumi (piano ERP). L’esplosione urbana nel secondo dopoguerra si concentra
nelle città maggiori e quella industriale in poli di sviluppo anche distanti dalle città.
Con qualche variante, potremmo aggiungere alle prime due una terza rivoluzione, non industriale stavolta,
ma determinata dagli eventi sismici che dalla Sicilia alla Campania, al Friuli, all’Umbria, hanno interessato e
interessano tutt’ora la dorsale appenninica. Anche qui ci sono due fasi a e b, questa volta non distinte
temporalmente ma metodologicamente; in esse l’intervento è stato totalmente diretto dal potere pubblico. Le
città colpite hanno avuto – con alterne fortune qualitative – sia una ricucitura del tessuto interno (introflessione
a) sia l’addizione di nuovi quartieri o addirittura brani compiuti di apparenti città nuove (estroflessione b).

57
Gli stravolgimenti urbani sono stati sempre accompagnati da soluzioni utopistiche, in perfetta antitesi
filosofica con gli interventi reali. Nella 1a rivoluzione industriale, il pensiero illuminista (Owen, Claude-Henri
de Saint-Simon, e Fourier) riprende e rinnova il modello di città ideale (le new towns, e le città-giardino). La
risposta teorico-pratica alla pressione sull’urbano dei processi industriali è duplice [TAV. IV 4-6]:
● architettonica attraverso grandi edifici o complessi di edifici comunitari (Falasterio di Fourier, Familisterio di Godin
a Guisa 1859-70, New Lanark e New Harmony di Robert Owen)38: edifici autosufficienti, quali unità di base della
società, di almeno tre piani per alloggiare un migliaio di lavoratori con le loro famiglie. Il tentativo è superare il
modello capitalista cercando di tornare ad una economia a scala di una piccola collettività.
● urbanistica, tramite la fondazione di nuove piccole città: la città lineare (Soya y Mata,1882), la città-giardino (Tony
Garnier) una «città-campagna» autosufficiente. La città-giardino ha una struttura radiocentrica con una popolazione
di 32.000 abitanti su una superficie di 4 Kmq dentro una cintura agricola di 20 Kmq, è divisa in fasce concentriche a
ciascuna delle quali è assegnata una funzione ed è servita da una ferrovia perimetrale.
In entrambi i casi si rinuncia a riformare il corpo fisico delle città esistenti, che invece si avvarranno di
separati provvedimenti legislativo-operativi atti a risolvere i problermi igienici e di sovraffollamento.
La pratica delle città di fondazione giungerà fino al XX secolo con Howard (le città giardino), Soya y
Mata (la città lineare), Tony Garnier, Sant’Elia, le New Towns . Nella contemporaneità la città di fondazione
sarà l’esercitazione degli utopisti di 2ª generazione (Le Corbusier, Costa, Niemeyer) [TAV.V.8. 9]39.
38. Charles Fourier filosofo-economista, in una visione complessiva della storia come cammino verso un tipo di comunità, la Falange, composta da 1620
persone che vivono di un’ economia sostanzialmente chiusa e incentrata sulla produzione agricola e sull’ autoconsumo e risiedenti in un Falansterio . A Fou-
rier si ispira il francese Godin, un imprenditore metallurgico che fra il 1859 e il 1870 realizza per i suoi operai il Familisterio: in tutto l’800 l’opera realizzata e
funzionante più prossima all’ideale di una comunità a gestione cooperativistica. Il Familisterio di Godin è meno ambizioso del Falansterio di Fourier, sia sul
principio della vita in comune e sia nelle dimensioni demografiche ed edilizie. Inoltre se ne differenzia per la natura non agricola ma industriale.
RobertOwen, industriale tessile, sostiene che l’industrializzazione ha messo il lavoratore e la macchina allo stesso livello. Di conseguenza la società si deve
riorganizzare in modi diversi, tali da rimettere il lavoratore, e quindi l’uomo, al centro degli obbiettivi. Nel 1820 Owen concretizza questa vocazione socialista
nei suoi stabilimenti di New Lanark, dove procura alle maestranze salari e condizioni di lavoro migliori della media del tempo, case dignitose e strutture collet-
tive per l’educazione. I principi basilari del villaggio di Owen sono una volitiva rivalutazione economica del lavoro manuale, l’importanza dell’educazione e la
collettivizzazione di diverse funzioni, mentre la sua fattibilità è affidata per metà a un progetto organizzativo concepito con la precisione di una macchina e per
metà alla consapevolezza e all’impegno degli abitanti nella collaborazione e nello svolgimento dei propri compiti. Nel 1825 Owen decide di provarci egli stes-
so acquistando un terreno in America ed erigendovi un villaggio che si chiama New Harmony: New Harmony, (Usa, 1835). Sulla base di una comunità pree-
sistente fondata nel 1815, il sistema è cardo-decumano asimmetrico di derivazione militare. “E il primo piano urbanistico moderno sviluppato in ogni sua par-
te, dalle premesse politico-economiche al programma edilizio e al preventivo finanziario” (Benevolo, 1963).
Ebenezer Howard, mosso dalle idee dei connazionali John Ruskin e William Morris, affrontò alla fine del XIX secolo il problema del sovraffollamento delle
città e il conseguente spopolamento delle campagne a seguito della Rivoluzione industriale. Nella sua opera, “A Peaceful Path to Real Reform” (1898) descri-
ve l’idea di Garden City o città-giardino, un agglomerato urbano di dimensioni precise capace di distribuire in modo organizzato ed equilibrato la popolazione
nelle campagne, consentendo un uso più razionale del territorio. La Garden City doveva essere costituita da un parco centrale attorno al quale si sarebbero
sviluppate le aree residenziali a bassa densità servite da ampi viali puliti e una cinta ferroviaria che chiudeva l’intera città. Howard non considera l’aspetto sto-
rico o formale della nuova città industriale, ma si concentra su aspetti puramente sociali ed economici. Le teorie di Howard non trovarono molti riscontri pratici
(tra questi il più importante Letchworth, garden city fondata nel 1903) e le sue idee furono un importante riferimento per lo sviluppo delle Siedlung viennesi nei
primi del 1900. Arturo Soria y Mata (1844-1920), contemporaneo di Howard, nel 1862 pubblica su un giornale di Madrid la sua teoria della “Ciudad Lineal”.
La città lineare vuole essere un’alternativa radicale al modello di sviluppo della città compatta tradizionale che si accresce intorno ad un nucleo originario Ele-
mento portante della città lineare è un asse infrastrutturale composto da strade carrabili ed una tramvia a doppio binario, sui cui lati si sviluppa in modo sim-
metrico l’insediamento residenziale organizzato per isolati omogenei. All’interno delle triangolazioni vi sono le attività agricole ed industriali.
Claude Nicolas Ledoux progettò nelle saline di Chaux, presso il villaggio di Arc-et-Senans, vicino Besançon. Un’intera città impostata su un anello ellittico
con due serie concentriche di edifici: l’interno riservato agli uffici amministrativi, l’esterno ad edifici per attrezzature, residenze di vario tipo, tra cui un ospizio,
un mercato e un cimitero; e strutture a carattere pubblico: il Palazzo della Concordia, la Casa dell’Unione, il Tempio della Memoria, la Casa della Vita Comu-
ne, la Casa dell’Educazione. Infine l’asse sul diametro minore veniva a coincidere con la casa del direttore e con le officine. I lavori iniziati nel 1775 (quando
a Napoli venne stampata la mappa del Duca di Noja), s’interruppero nel 1779. I pochi edifici realizzati mostrano l’impiego di forme semplici ma imponenti.
Da menzionare, in Italia, il Villaggio Crespi d’Dadda (1878); costruito durante l’ultimo quarto del XIX secolo dalla famiglia Crespi, vicino al fiume Adda, per
costruire un cotonificio con annesse abitazioni di operai e impiegati.
39. La progettazione della nuova città industriale parte da una serie di proposte dell’architetto Sant’Elia, che così si espresse nel Manifesto dell’architettura
futurista: “Sentiamo di non essere più gli uomini delle cattedrali, dei palazzi, degli arengari; ma dei grandi alberghi, delle stazioni ferroviarie, delle strade
immense, dei porti colossali, dei mercati coperti, delle gallerie luminose, dei rettifili, degli sventramenti salutari. Noi dobbiamo inventare e rifabbricare la città

58
59
Le forme urbane contenute in tutte queste esperienze utilizzano gli stessi graticci urbani che vengono
dalla storia se non dalla preistoria della città e, nonostante le diverse motivazioni ideologiche, cercano tutte
un centro. La centralità dunque non è esclusivo simbolo di potere, ma comune esigenza ordinatrice dello
spazio. In Washington, Brasilia, Chandigrad ed altre città ‘democratiche’ sono individuabili luoghi centrali
dedicati all’esercizio della democrazia, che è un potere [TAV. II.23]. Non è un mistero che la gran parte dei
presidenti degli UYSA fossero affiliati alla massoneria, i cui segni si rilevano nella planimetria di Washington.
Il secondo dopoguerra propone interventi parziali analoghi ai precedenti. I quartieri operai, ma anche
quelli borghesi (le due classi cesciute con l’esodo dalle campagne), vengono inquadrate in un programma di
edilizia residenziale pubblica che, all’inizio, è stata anche occasione di interessanti esperimenti di nuova
architettura sociale firmata dai più illustri della storia dell’architettura: Quaroni, Libera, Rogers, ci hanno
consegnato interi quartieri che rappresentano vere mostre di architettura contemporanea [TAV.V.9]. Ma già dopo
gli anni ‘60 gli interventi dell’IACP, dell’INPS e di altri enti hanno via via degenerato e tutto il patrimonio del
razionalismo pre-bellico è andato perduto e con esso l’armonizzazione tra le aggiunzioni urbane e la città.
Paradossalmente anche la stessa architettura, nella sua fase evolutiva complessivamente chiamata “stile
internazionale”, nel riuscito tentativo di superare sia il razionalismo che gli stili regionali, ha contribuito a
decolorare i caratteri fisionomici che distinguevano un paesaggio urbano dall’altro: dal che lo skyline di New
York [BR.84,85 ]e Hong Kong [BR.109,110 ] si somigliano parecchio. Per non parlare dell’edilizia privata che, avendo
a disposizione materiali consenzienti (metallo, cemento armato, plastica) abbandona i tradizionali artigianali
canoni del ben costruire, anonimizzando ancor più le aree urbane e le periferie in particolare.
Si sono riprodotte così quelle già citate forme urbane degenerative introflessione (a), estroflessione (b).
futurista simile ad un immenso cantiere tumultuante, agile, mobile, dinamico in ogni sua parte, e la casa futurista simile ad una macchina gigantesca. La casa
di cemento, di vetro, di ferro…. deve essere sull’orlo di un abisso tumultuante: la strada si sprofonderà nella terra per parecchi piani, che accoglieranno il traf-
fico metropolitano e saranno congiunti, per i transiti necessari, da passerelle meccaniche e da velocissimi tapis roulants”. Nelle tavole della Città nuova (nelle
immagini) eseguite tra la fine del 1913 ed il 1914 gli edifici non sono pensati come elementi a sé stanti, ma sono innestati nel tessuto urbanistico, che coinvol-
gono con la loro presenza e dal quale sono coinvolti, con una globalità di ideazione che si collega all’Art Nouveau. Mentre Howard enuclea un metodo per
l’edificazione generalizzata di città moderne ed autonome, ma di limitate dimensioni e con riedizione in chiave moderna dell’insediamento comunitario medie-
vale, Garnier affronta il problema di una grande città industriale, proiettata nel futuro, da costruire di getto in una località precisa. La città di Garnier, pensata
per 35.000 ab., è articolata per parti funzionali separando la zona industriale da quella residenziale di nuovo impianto, dal centro storico. Il nuovo quartiere
residenziale si organizza intorno ad un viale centrale disposto sull’asse eliotermico E-W e percorso dai mezzi pubblici sul quale si attestano i servizi pubblici.

60
Gli effetti recenti del modus a sono stati la congestione urbana, quelli del modus b la creazione di nuove
periferie che, raggiunti i centri minori limitrofi, li ha brutalmente digeriti. A questo proposito, per fare un
esempio a noi vicino, è utile ricordare il fenomeno napoletano della fagocitazione di centri agricoli-operai
che avevano una identità cittadina propria prima della inclusione. Il fenomeno è comune a tutta la cintura
Nord-Nord Ovest di Napoli. Nella fascia litoranea napoletana sono stati risparmiati dalla cancellazione della

61
62
loro dignità comunale i Comuni Flegrei e quelli Vesuviani, i primi per ragioni orografiche, i secondi per
ragioni funzionali e storiche. In ogni caso, anche queste zone sono state colonizzate dalla Grande Napoli, folle
tendenza iniziata nel periodo fascista (per l’esigenza di rappresentare Napoli come la Metropoli del Sud, poi
riconfermata per esigenze di controllo politico di nuclei operai (Barra, San Giovanni, Ponticelli). In entrambi
i casi le nuove urbanizzazioni abitative sono entrate in collisione con gli insediamenti industriali che, fino
all’immediato dopoguerra, si erano collocati appena fuori dell’area urbana napoletana. Ciò è successo molto
prima e in scala maggiore a Torino, Milano [BR.72,73 ] e Roma (caso ben descritto in tutta l’opera letteraria e
filmografica di Pasolini a proposito delle borgate) [BR.71][CAP.V]40
L’intero fenomeno è classificabile sotto il termine “colonizzazione urbana”. Il concetto di colonizzazione
(mutuato dall’operazione di occupazione di territori fuori dalla madre-patria) va esteso ad aree all’interno
dello stesso territorio nazionale (è il caso del Mezzogiorno post-unitario), ma anche a scala regionale (‘la
polpa e l’osso’ di Manlio Rossi Doria), e cittadina: le periferie non sono che colonie urbane sulle quali riversare
tutto ciò che è indesiderato dal centro (rifiuti urbani, servizi e attrezzature ‘pesanti’ come depositi ferroviari,
cimiteri di automobili, impianti di depurazione, campi nomadi, ecc.). E ciò ha sempre impedito alle fasce
periurbane di assumere quella funzione di necessario e gradevole transito da un paesaggio all’altro. La logica
di potere è strutturalmente classista; tradotta in termini urbanistici, i cittadini sono serviti dalla Pubblica
Amministrazione in base alla loro collocazione spaziale. L’armatura urbana, l’arredo, il servizio di polizia, la
gestione dei rifiuti e così via non saranno uguali per tutta la città.
È un sintomo che la criminalità cresciuta nei quartieri popolari, recentemente abbia invaso i ‘quartieri-
bene’ a causa specialmente della crescita esponenziale della delinquenza minorile e dell’insinuazione del
capitale sporco nel sistema immobiliare. Essa, infatti, nella mappa sociale della città, predilige il centro nelle
ore della sera inoltrata e nei fine settimana, poiché le sue azioni hanno preso il posto dello svago di massa che
si limitava alla febbre del sabato sera bene o male circoscritta nei tradizionali locali di ritrovo.
2 Dalla Megalopoli41 al villaggio globale, alla città liquida.
La crescita post-bellica, sia sul piano economico che territoriale ha costretto gli urbanisti e gli economisti
europei ad introdurre il concetto di Città-Regione onde non solo definire, ma governare e pianificare un
fenomeno spaziale senza precedenti, che era già maturo specie negli USA.
Il concetto di Città-Regione si basa su un modello che abbandona i perimetri urbani tradizionali
accettando come reale e razionale l’espandersi della città. Il sistema urbano viene analizzato non più a scala
urbana ma territoriale, se non geografica, spesso utilizzando strumenti derivati da altre scienze, assimilando
ad esempio i sistemi urbani a campi magnetici come fa il geografo ed economista tedesco Walter Christaller
(1893-1969) nella sua “Teoria delle località centrali” [TAV.IV.13]. Christaller, tra gli ultimi a tentare di arginare
la deriva urbana, non parte dall’urbanistica ma dall’economia; egli teorizza la rete di influenza dei mercati – e
quindi della città – individuando un sistema gerarchico di circuiti territoriali. È singolare come il suo schema di
40. Le periferie sono un prodotto storico dell crescita delle città, caratterizzate da edilizia scadente e superaffollata, dove la qualità della vita è bassissima.
Ad esse vengono dati nomi diversi, a seconda del paese in cui si trovano le metropoli, che servono però ad indicare la stessa situazione di degrado: Barac-
copoli o bidonville (termine francese); Favela (portoghese che indica le baraccopoli brasiliane. Slum (termine inglese): viene usato per indicare le baraccopoli
delle ex colonie britanniche (in India e Kenya) ma anche le periferie delle città nord-americane.
41. Il termine megalopoli deriva dal greco μεγαλόπολις (agg. che designa una grande città). La prima megalopoli viene fondata dal generale tebano Epami-
nonda nel 371 a. C. in Arcadia, nel Peloponneso per contrastare la potenza di Sparta. Con megalopoli si intende una vera e propria regione urbanizzata,
risultato della connessione/aggregazione fisica di più aree metropolitane caratterizzate da forti legami territoriali e funzionali. Lewis Mumford è stato il primo,
in epoca moderna, a utilizzarlo nel suo La cultura delle città (1938), per indicare il primo passaggio dello sviluppo abnorme che porta al declino della città.
Esso entra nell’uso corrente del linguaggio di urbanisti, geografi, economisti e sociologi negli anni ‘60 dopo la pubblicazione dell’opera Megalopolis: the urba-
nized northeastern seaboard of the United States del geografo francese J. Gottmann. In Europa non esistono megalopoli e le due città più popolose, Parigi
e Londra, stanno dal ventesimo posto in giù nella graduatoria generale. Viceversa, negli altri continenti, in Asia e in Africa, ma anche in parte del Sud Ameri-

63
rete sia simile in forma e concetto a quello di Howard di un secolo prima. Dopo l’analisi del territorio della
Germania Occidentale, Christaller individua la conurbazione nord-americana WAS-BOS lunga 193 Km da
Washington a Boston passando per Baltimora, Philadelphia e N.Y., confermando che la scala con cui misurare
il territorio è ormai nell’ordine di centinaia di chilometri e va urgentemente governata in quella misura e con
le leggi del mercato e della produzione. Christaller dunque, data per scontata la fine dell’urbanistica, sposta
l’analisi urbana sul fronte dell’economia, passaggio obbligato per due valide ragioni:
a l’inadeguatezza della tradizionale analisi urbanistica che aveva come riferimento la forma urbis, ormai dissolta;
b la presa in carico del territorio da parte dell’economia senza l’intermediazione dell’urbanistica.42
La Città-Regione (prudente traduzione italiana di megalopoli) ingloba in un sol blocco la collezione di
città prima distinte poi raggiuntesi reciprocamente non solo dall’edilizia di vario tipo ma soprattutto dalle vie
di comunicazione, comprese quelle immateriali (linee telefoniche, elettriche, cablate). Ora sono i grandi servizi,
non più la distanza che regolano i rapporti interni e misurano l’abitare. In questo quadro, l’esplosione in
ca, le cosiddette “megacittà”, attraggono abitanti con forza impetuosa. Ivi la percentuale complessiva della popolazione che vive in città è minore del 45% del
totale, ma tendono a formarsi nuclei urbani sempre più smisurati, con 20 milioni e più di abitanti. La Cina ha già 90 città con oltre un milione di abitanti e, nel
corso dei prossimi trent’anni, vedrà spostarsi oltre 400 milioni di persone dalle campagne ai centri urbani. Inoltre, si sta verificando la nascita di “corridoi urba-
ni orientali”, vaste estensioni edificate tra una città e l’altra, come quella tra Shanghai e Hangzhou (75 milioni di ab.), che ricorda la Bos-Wash.
42. La teoria christalleriana presume un centro urbano per lo scambio di beni e servizi (= località centrale) che produca od offra beni o servizi alla popola-
zione dispersa su un territorio omogeneo e isotropo. L’obiettivo è quello di comprendere come prodotti o servizi, ed in particolare funzioni terziarie, si orga-
nizzino sul territorio dando vita a una gerarchia urbana. Christaller introduce i concetti di soglia (distanza che delimita un’area, circolare, nella quale è com-
presa la quantità di popolazione minima sufficiente a garantire un livello di domanda tale per cui il servizio sia prodotto in modo efficiente) e portata (distanza
massima oltre la quale il consumatore non è disposto ad affrontare i costi di trasporto necessari per recarsi ad acquistare il servizio).

64
qualche modo programmata del pendolarismo fa saltare completamente il rapporto residenza-lavoro, il che fa
avanzare sempre più l’uso del non-luogo nelle relazioni interpersonali, oltre a mettere in crisi il sistema
infrastrutturale non previsto per quel carico43.
Samonà negli anni ‘60 apre una nuova strada alla pianificazione territoriale:
«... l’effetto è quello sinteticamente detto di effetto-città o effetto-urbano in tutti i punti abitati del territorio, soppri-
mendo la dicotomia tra centri iperserviti e periferie o borghi sotto-serviti, tra zone aristocratiche e subalterne, tra
città e campagna.»
43. Il superamento del carico di sicurezza dovuto alla successiva produzione non prevista di mega-tir è stata incontestabilmente la causa primaria del cedi-
mento del ponte Morandi, progettato per carichi viaggianti di gran lunga inferiori.

65
La Città-Regione riduce la città ad un quartiere, sia pure strategico, e lo ‘sguardo urbano’ ad una
sottospecifica dell’approccio territoriale. Si apre una fase storica in cui si passa dalla città dell’architetto, del
sociologo, dell’antropologo a quella del geografo, del territorialista, dell’economista. Ma, nonostante la
realizzazione dell’istituto regionale, la Città-Regione in Italia è questione archiviata: si spiega così la crescita
del dibattito sulla “Città Metropolitana” che riduce fortemente la scala dell’analisi territoriale e crea una
ulteriore dicotomia tra città metropolitana e provincie minori sfornite di tale copertura amministrativa44.
Questo ‘ente’ urbano in effetti ratifica la condizione reale del territorio che noi abbiamo prima chiamato
‘colonizzazione’, nel senso che una città egemone, colonizzate sue aree interne periferiche, provvede a fare
lo stesso con le aree esterne ad essa limitrofe. A lungo andare, poiché gli investimenti per le grandi opere
pubbliche, per le infrastrutture e la manutenzione sono gerarchizzate, anche il paesaggio urbano, già abbastanza
gerarchizzato, lo sarà ulteriormente. I Comuni limitrofi, senza reale autonomia di spesa, finiranno per incassare
quanto viene loro concesso con il risultato di una perdita ulteriore di qualità urbana e sopratutto di identità.
Questa sorta di globalizzazione urbana, in cui teoricamente tutti i punti del territorio hanno le stesse possibilità
di sviluppo, favorisce le aree già privilegiate. Il fenomeno è silente, ma sta incidendo notevolmente sul grado
di cultura urbana degli operatori politici e urbanistici periferici.
I sistemi urbani come “rete” incardinata nelle regioni compaiono in Italia con il “Progetto ‘80” di Giorgio
Ruffolo e Luciano Barca che connette i sistemi di città Regione italiani con la politica di pianificazione
econonico-urbanistica, per la prima volta coniugando i due termini in un’ unica azione di intervento pianificato.
Ma la politica nazionale prese poi tutt’altra strada, purtroppo.[TAV. V.12]
44. Cfr: ALDO VELLA, Tra città metropolitane e zone interne, in: le Cronache Meridionali, 03 ottobre 2015.

66
Il tentativo di porre al centro della programmazione economico-urbanistica il super-territorio rappresentato
dalla Città-Regione non è passato dalle pagine delle riviste economiche e dei programmi governativi alla
pratica gestionale, anche per l’inadeguatezza degli effettivi poteri consegnati all’ente-Regione, specie in
termini di programmazione economica. Si torna così – ove mai si fosse smesso – con lo sguardo umano su
brandelli anonimizzati delle città così come ci vengono consegnati dal libero mercato dell’urbanistica,
ricevendone una visione deludente se non allarmante. Sono queste considerazioni che rafforzano in noi la
convinzione che la città moderna non rappresenta in nessun modo un progresso, poiché non cresce nella
direzione di una migliore vivibilità. Essa è veramente la rappresentazione fisica di quel ‘villaggio globale’
lanciato dall’economia mondiale di mercato come la nuova utopia, in cui il più debole soccombe.
La perdita in atto di rapporto con il luogo sarà l’innesco di un perverso meccanismo che porterà alla
Megalopoli e, infine, alla città liquida. Nel 1961 il geografo Jean Gottmann utilizzò per la prima volta il
termine “megalopoli” per indicare un nuovo fenomeno urbano di dimensioni gigantesche, che si era sviluppato
sulla costa atlantica degli Stati Uniti e che comprendeva Boston, New York, Baltimora e Washington e che
chiamò BOS-WASH (Boston-Washington) [TAV. IV.00].
La Megalopoli è questo spazio indifferenziato in cui ogni punto è centro e periferia al contempo, il che
rende impossibile percepire e fruire la città in termini di sguardo umano [TAV. V.13]. Essa è un complesso
correlato di più città, che sarà surclassata da un più generale e complesso fenomeno: la globalizzazione urbana.
Poiché procede in modo esponenziale la sua corsa alla omologazione del territorio e di chi ci vive, non tarderà
– in tempi ovviamente diversi per ciascuna situazione geografica, politica ed urbana – a formare un unico
magma indifferenziato senza neppure più né un centro egemone né relazioni dirette tra centri equipollenti.
Dice Zygmunt Bauman, in: “Vita liquida”:
«Sia il villaggio che la città sono... contesti in cui agiscono forze di portata ben più ampia, che innescano processi
che nessuno – non solo gli abitanti di quel villaggio o di quella città – è in grado di comprendere e tanto meno di
controllare».
La prossima fase, che in termini economici e planetari è già in atto da un bel pezzo, tenderà a cancellare
man mano tutti i luoghi fisici in cui oggi si prendono decisioni per trasferirli, com’è già avvenuto per le
transazioni monetarie e di mercato, in non-luoghi virtuali ed estremamente variabili, regolati da poteri non
identificabili ed anch’essi variabili. Il che non è altro che la teoria del caos applicata all’economia e, in
successione, agli spazi dell’uomo.
Le attività che in questi spazi normalmente si svolgono (abitare, lavorare, comunicare) seguiranno la stessa
legge di instabilità. Già molte attività (specie quelle informatiche) possono tranquillamente svolgersi in un luogo
qualsiasi ed avere effetti in un altro luogo qualsiasi, ma anche le altre attività produttive, seguendo anch’esse il
regime di precarietà di tutto il sistema, aprono e chiudono i battenti, si trasformano, si fondono, si spacchettano,
si delocalizzano, si contraggono, si smembrano, schizzando dappertutto sul pianeta per poi montare propri
componenti in un luogo qualsiasi e vendere il prodotto finito in altri luoghi. Ciò ha portato ad un moltiplicarsi di
ambiti di vita e di lavoro, per cui una persona può appartenere a più luogi nello stesso tempo, il che equivale a
non appartenere a nessuno di essi.
L’agricoltura, l’unica attività produttiva per natura propria non delocalizzabile apparentemente prende i
vantaggi della tecnologizzazione. Ma secondo Zygmunt Bauman, in: “Vita liquida”, non è così:
« Nei quattro anni precedenti il febbraio 2002 le statistiche dell’Ontario hanno registrato una riduzione di 35.000 addetti,
resi superflui dal ‘progresso tecnologico’ e sostituiti da tecnologie nuove e migliori (ossia che fanno risparmiare lavoro).
Il punto è però che, stando ai libri di testo dell’economia e alla logica comune, un progresso così spettacolare avrebbe do-
vuto accrescere la ricchezza dell’agricoltura dell’Ontario, e con essa i profitti degli agricoltori locali: invece, non si è

67
68
visto alcun segno di aumento di benessere. Van Donkersgoed pronuncia l’unica conclusione che viene in mente: “I benefici
della produttività agricola si stanno accumulando in un altro settore dell’economia. Perché? È la globalizzazione».
Come è indifferente ormai il ‘made in’ così lo è la struttura dello spazio (non osiamo più appellarlo urbano)
che ne deriva; la localizzazione della residenza di chi consuma diventerà anch’essa indifferente: intere città,
loro settori urbani si riempiranno e si svuoteranno continuamente per seguire le fluttuazioni delle attività
produttive: è un nuovo inusitato nomadismo a cui dobbiamo prepararci. Nuove concentrazioni investiranno
luoghi urbani fin allora marginali. Dice Zygmunt Bauman:
«Stando alle attuali proiezioni, fra una ventina d’anni ben due terzi dell’umanità abiteranno in città, e nomi pressoché
sconosciuti come Chong-king, Shenian, Pune, Ahmadabad, Surat o Yangon (Rangoon) indicheranno conurbazioni di

69
oltre cinque milioni di abitanti, come altri – Kinhasa, Abidjan o Belo Horizonte – oggi associati più alle vacanze eso-
tiche che alla linea del fronte della modernizzazione. I centri da poco ascesi alla serie A degli agglomerati urbani già
oggi si trovano in seria crisi, ma dovranno affrontare fra vent’anni lo stesso genere di problemi che Londra o New
York hanno impiegato ben centocinquant’anni a gestire con grande difficoltà. È possibile che le preoccupazioni e le
paure che notoriamente tormentano le metropoli più antiche siano destinate a impallidire rispetto ai problemi che si
troveranno di fronte i nuovi giganti».
Certo è che crescerà intorno alle grandi città la popolazione di individui scacciati dal mondo della
produzione globalizzata. Il che alimenta l’insicurezza e la paura:
«Nan Ellin, uno degli studiosi più acuti e attenti delle tendenze urbane contemporanee, sottolinea come la protezione
dal pericolo sia stata “uno dei principali incentivi alla costruzione delle città, i cui confini – nelle antiche città della
Mesopotamia come nelle città medievali o negli insediamenti indigeni in America – erano perlopiù marcati da grandi
recinzioni o cinte murarie”. Le mura, i fossati o gli steccati segnavano il confine tra noi e loro, tra l’ordine e la natura
selvaggia, tra la pace e la guerra... La guerra all’insicurezza, ai pericoli e ai rischi si combatte ormani dentro la
città» [Zygmunt Bauman, Vita liquida, Laterza, 2017]
I parchi residenziali, segno odierno di difesa dal fuori, negli USA si stanno già trasformando in fortezze:
«Le forme più comuni di fortificazione difensiva sono le gated communities, i centri residenziali di accesso riservato,
sempre più popolari, che le agenzie immobiliari promuovono e i residenti vivono, molto più come luoghi protetti (da
guardie private, monitor delle telecamere e così via) che come comunità. Il numero di questi complessi supera ormai
i 20.000 negli Stati Uniti, e coloro che vi abitano sono più di otto milioni. Il significato di gate diventa, col passare
del tempo, sempre più elaborato: un condominio californiano chiamato Desert Island, ad esempio, è protetto da un
fossato che circonda un’area di ben dieci ettari. Brian Murphy ha costruito a Venice, in California, una casa per
Dennis Hopper la cui facciata, in metallo ondulato e senza finestre, somiglia a un bunker. Lo stesso architetto ha co-
struito, sempre a Venice, un’altra residenza di lusso nelle mura di una vecchia struttura fatiscente, ricoprendola di
graffiti e mimetizzandola in un contesto anch’esso uniformemente deturpato»... «Il deliberato e intenzionale sforzo
di non dare nell’occhio è una delle principali tendenze dell’architettura urbana guidata dalla paura; un’altra è l’in-
timidazione, che si realizza attraverso l’ostilità degli esterni, il cui aspetto arroccato è reso ancora più scostante e
umiliante dall’ostentata sovrabbondanza di cheek point e guardiani in uniforme, o da un’arrogante e supponente
profusione di eleganza provocatoriamente opulenta, vistosa ed elaborata».
Il regime di sorveglianza ha invaso anche gli spazi urbani prima riservati all’accoglienza: lo stesso autore
ricorda come in molte città siano scomparse le fontanelle e le panchine sostituite da oggetti urbani su cui un
barbone non potrebbe dormire (Los Angeles), con il caso eclatante della stazione centrale di Copenhaghen
dove sono state tolte le panchine ed è vietato sedersi a terra, o come nel caso dei muretti anti-seduta del Banco
di Napoli in via Toledo a Napoli45. Dice Margherita Manfra:
«La città è più che mai piena di divieti, compartimentazioni e limiti. Ma questa è una tendenza in atto da tempo. Da
un lato gli investimenti privati producono spazi intrinsecamente orientati al controllo e al profitto, dall’altro vengono
usate strategie di trasformazione dello spazio che si rivelano armi di esclusione e segregazione».46
e, ancora, Alessandro Coppola (docente di Urbanistica al Politecnico di Milano):
«L’urbanistica nasce per separare usi ritenuti incompatibili sulla base di ragioni di igiene e salute pubblica, ma
anche per separare usi lesivi degli interessi dei detentori di proprietà»46
Di tutto questo abbiamo già le avvisaglie da molti anni per quanto riguarda due settori essenziali: il
commercio e l’industria. Il primo, attraverso gli iper-mercati localizzati in punti qualsiasi del territorio, stanno
45. Il progettista è Nicola Pagliara.
46. in: TOMMASO GIAGNI, Dopo il virus, riprendiamoci le città. Anzi, cambiamole, in: L’Espresso, 5 luglio 2020

70
71
svuotando di importanza la storica rete di vendita ancorata al quartiere, al vicinato; la seconda, in un regime
di continue fusioni societarie internazionali, smonta e rimonta se stessa facendo perdere la percezione di chi
è il padrone. Marx aveva previsto l’accumulazione progressiva e mondiale del capitale ma già oggi non si
individua più qual è il proletariato e dov’è il detentore dei mezzi di produzione.
Tutto è fluido, compreso la città, e questa, da Uruk in poi, è l’unica vera trasformazione che la città ha
subito nei millenni. Dice Jean-Luc Nancy nel saggio “La città lontana” (2002):
«La città (certamente in nuove forme) resta, magari nella forma di città delle reti o forse anche delle reti di città
dell’arcipelago, il luogo dell’incontro, nell’epoca attuale della solitudine e della paura». Gregotti ottimista aggiunge:
«dell’utopia.»
3 Le nuove città ideali e le città pop-up.
L’esplosione urbana della contemporaneità, mentre procede verso una intensificazione senza precedenti
a causa del progressivo concentrarsi dei centri di potere politici ed economici, rilascia episodi raccapriccianti,
esito dell’ingrossarsi delle classi emarginate. Più grande diventa la città più vaste sono le zone in cui si
accumula l’edilizia-spazzatura: interi quartieri di tal contenuto controbilanciano l’architettura del progresso
che si esprime attraverso i suoi grattacieli.
Lo smembrarsi della forma urbis, ancora in atto ha generato – come già fu nella 1ª rivoluzione industriale
– una reazione culturale tendente ad arginare i processi degenerativi in atto. Anche in questo caso – tranne
pochi brani utilizzati – il disegno urbano dei nuovi utopisti è troppo avanti rispetto alla cultura corrente e alle
pratiche urbanistiche reali. Già i primi utopisti contemporanei avevano intuito la gravità dei processi che poi
sono avvenuti, e hanno utilizzato alcuni aspetti della modernità, (l’altezza, la replicazione) introducendoli in
una logica tendente ad interpretare culturalmente la modernità ed incanalarla verso una nuova urbanistica.
Tranne alcuni casi (Chandigarth, Brasilia) della nuova utopia non si è recuperato che qualche brano di
architettura (l’Immoble Ville di Marsiglia, il quartiere Karl Marx di Vienna [BR. 52, 53 ] e quello Pullion di Algeri,
ad esempio) che galleggiano in contesti che li contraddicono.
72
73
Le megastrutture edilizie (urba-tetture), prodotto residuale dell’utopia urbana, hanno segnato, più in
architettura che in urbanistica, un punto a favore dell’intervento di qualità, sia pure attraverso un tormentato
dibattito che ha sacrificato, ad esempio, le “vele” di Di Salvo47 [TAV. IV.26] demonizzate dall’incolto potere
politico, dal silenzio di intellettuali e accademici e dall’opinione pubblica, sempre in cerca del capro espiatorio.
La seconda ondata di utopisti (dalla 2ª metà del ‘900 in avanti) ha ormai rinunciato a reali indicazioni e
soluzioni, rifugiandosi nell’utopia pura con modelli volutamente irrealizzabili fino a sfociare nel fumettismo
(come fa Archigram): i disegnatori ne trarranno spunti a piene mani: “sembra si voglia sfuggire alle
contraddizioni dell’oggi per mezzo del futuro” dice Vittorio Gregotti.
E a questo sembra tendere anche l’ultimissima nata tra le città ideali, la Woven city [TAV. IV.22D], che la
promotrice Toyota afferma voler inaugurare nel 2021. È una città super-tecnologica che raccoglie ed utilizza
47. Costruite tra il 1962 e il ‘75, le Vele di Scampia sono un insieme di 7 palazzi dalla forma a vela nel quartiere periferico napoletano omonimo. Il progetto
dell’architetto Franz Di Salvo non era nuovo alla realizzazione di edilizia popolare già affrontata nel 1945 nel Rione Cesare Battisti a Poggioreale (Na). Le
Vele, commissionate dalla Cassa del Mezzogiorno, dovevano rappresentare il più grande complesso di edilizia economica e popolare del Sud. Di Salvo si
ispirò all’Unité d’Habitation de Marseille (Le Corbusier,1952), in cui la singola cellula è parte di un organismo più grande, senza reale distinzione tra urbani-
stica e architettura. Il progetto, in fase di realizzazione, fu completamente stravolto per l’adeguamento sismico, e la riduzione dello spazio delle scale interne
comportò un avvicinamento dei due corpi di fabbrica di ciascuna “Vela”, peggiorandone visibilmente l’illuminazione, l’areazione e la vivibilità. Sono state
demolite tra il 2019 e il 2020. Miglior fortuna invece è toccata alle vele simili di Marina Baie des Anges, Costa Azzurra, Francia [André Minangoy,1973]

74
tutti i nuovi ritrovati già separatamente in uso nel mondo (robotica, mobilità personale, case intelligenti,
l'intelligenza artificiale, droni, veicoli elettrici, pannelli solari, domotica, ecc.), una sorta di città-laboratorio
per 5.000 abitanti, in prima fase abitata da tecnici e scenziati per testare recenti e futuri ritrovati. Ma, nonostante
l’impegno di progettisti di livello, sembra che anche qui l’architettura e l’urbanistica siano solo strumenti per
realizzare quanto dettato dalla tecnica e dalla scienza, col risultato di una caduta dell’immagine della città.
Nullo lo studio del rapporto con il luogo, trattato come non-luogo, nonostante sia un’isola (Honshū) con la
presenza inquietante di un vulcano attivo (oltre 3.000 mt).

75
76
Alcune soluzioni finiscono per essere ironici montaggi di pezzi di edilizia reale decontestualizzati ed
inquietantemente simili all’edilizia spontanea sorta in aree marginali. Il che viene confermato dal nome loro
dato di “pop up”, cioè, improvvisate, precarie48[TAV. IV.22-25]. Altre si rifugiano nel green, che è moda recente
e che poco ha a che vedere con un’autentica conversione alla natura. Altre ancora vengono zatterate a mare
(se ne sono realizzate le versioni peggiori). Altre ancora, disancorate completamente dal suolo si vanno a
tradurre in vere e proprie città galleggianti, pronipoti delle grandi navi da crociera [TAV. IV.28,29].
La rinuncia della cultura urbanistica a dirigere il dibattito e la politica sulla città, ha accelerato quei processi
degenerativi – lucidamente prevista da Jean Gottmann nel 1961 – che precipiteranno nella megalopoli.
Si potrà rispondere all’aumento vertiginoso della popolazione mondiale e al suo progressivo concentrarsi
in un altro modo?

77
4 I sistemi urbani in Italia, nel Mezzogiorno, a Napoli.
L’analisi alla Christaller ha fatto scuola tra gli analisti, accelerando il processo di lateralizzazionee
dell’urbanistica tradizionale. In Italia un criterio analitico analogo è stato applicato da Franco Archibugi in
riferimento a varie nazioni europee esoprattutto all’Italia (Centro studi piani economici 1963). Negli anni ‘70
è da segnalare il cosiddetto “Progetto ‘80” di Luciano Barca e Giorgio Ruffolo, allora ministro della
programmazione economica (dicastero oggi sintomaticamente scomparso come quello per il Mezzogiorno).
Il Progetto ‘80, dentro una rete di sistemi urbani a scala regionale, si basava su grandi direttrici e poli attrattori
al fine di dare alle strategie politiche una struttura di pianificazione interdisciplinare nella quale riemergesse
il ruolo dell’urbanistica quale inveramento spaziale dei piani di sviluppo. Lo studio non ebbe seguito, mentre
si preferì spacchettare il territorio in poli di sviluppo con unico carattere industriale, separati tra loro e
disancorati dalle implicazioni di natura urbano-territoriale (il riferimento a Taranto, Bagnoli, Crotone, ecc. è
superfluo). In realtà la città come tale aveva già perso di interesse quale habitat umano, divenuto un punto di
partenza-arrivo del pendolarismo occupazionale, generatore di conseguenza dell’esigenza di grandi
infrastrutture di trasporto, autostrade in primis, i cui nodi di interscambio (leggi: caselli) non possiedono,
come le stazioni ferroviarie, quel rapporto causa-effetto con l’organismo urbano. Più tardi anche gli scali
48. Singolare il caso di Kowloon Walled City, conosciuta in Cantonese come “la città delle tenebre”, un insediamento non governato a Kowloon City, Hong
Kong, una delle strutture più dense mai costruite. Da fortezza militare cinese, la città murata divenne un'enclave dopo che il territorio fu fittato al Regno Unito dal-
la Cina nel 1898. La sua popolazione aumentò drammaticamente a seguito dell'occupazione giapponese di Hong Kong durante la seconda guerra mondiale. Nel
1990 è giunta a contenere fino a 50.000 abitanti in un’area di 126x213 mt per un’altezza media di 11 piani. Dagli anni '50 agli anni '70, è stato controllato da triadi
locali e aveva alti tassi di prostituzione, gioco d'azzardo e abuso di droghe. Nel gennaio 1987 il governo municipale di Hong Kong annunciò i piani di demolizione
della città murata che fu eseguita tra il 1993 e il 1994, dopo un arduo processo di sfratto. Il Kowloon Walled City Park fu aperto nel dicembre 1995.

78
ferroviari sarebbero stati estratti dal tessuto urbano per assumere il ruolo di grandi scambiatori di traffico. Ma
l’alta velocità e la rete autostradale hanno obliterato l’esigenza di rinforzare le reti locali e riportare in primo
piano il trasporto collettivo locale su ferro.
L’unica grande attrezzatura che ha ancora un rapporto con la città e ne caratterizza gran parte della identità
rimane il porto, benché l’abnorme crescita del trasporto containerizzato e l’ingigantirsi delle navi da crociera
ne abbiano reso problematica la convivenza.
Tutti questi processi non procedono uniformemente su tutto il territorio italiano: il Sud è ancora su una
lenta deriva. E, a questo punto, non è detto che ormai non sia un vantaggio..
Per parlare di Napoli, infatti, ci sono recenti studi che attengono ancora (e per fortuna) alla filosofia della
trasformazione possibile urba-governata (Econeapolis, di A.L.Rossi, 1986-92, Progetti per Napoli per il 50enario
della fondazione della facoltà di Architettura, 1987). Come sempre, le trasformazioni reali della città seguono
percorsi che non hanno nulla a che vedere con le ipotesi e le proposte degli architetti. È appunto il caso del
“Centro Direzionale di Napoli” che, per la sua collocazione, disattende l’originaria missione del
decongestionamento per caricare invece di pesanti funzioni un comparto urbano già congestionato. La
discontinuità formale con la Napoli preesistente (storica, ottocentesca, novecentesca) non riesce ad essere
letta come discontinuità programmata (com’è stato all’epoca con la Mostra d’Oltremare e tutto il quartiere
Fuorigrotta) cioè come un moderno contributo ad una organica stratificazione urbana, oppure come una
espressa alternativa, un nuovo ruolo, una nuova svolta egemonica nel quadro di un dignitoso inglobamento
conservativo del pregresso. Essa rimane un’insula aliena con la sola caratteristica positiva della separazione
del traffico veicolare da quello pedonale di leonardesca memoria.

79
V LA CITTÀ DEI SEGNI
1 Dalla città dei segni alla città segnale. Il genius loci. Tracce.
Ancora a proposito di segni che la città emette, ci facciamo accompagnare da due brani del Calvino delle
“Città invisibili” vero testo di urbanistica [BR.30,31]49. Il primo:
«In due modi si raggiunge Despina: per nave o per cammello. La città si presenta differente a chi viene da terra e a
chi dal mare. Il cammelliere che vede spuntare all’orizzonte dell’altipiano i pinnacoli dei grattacieli, le antenne radar,
sbattere le maniche a vento bianche e rosse, buttare fumo i fumaioli, pensa a una nave, sa che è una città ma la pensa
come un bastimento che lo porti via dal deserto, un veliero che stia per salpare, col vento che già gonfia le vele non
ancora slegate, o un vapore con la caldaia che vibra nella carena di ferro, e pensa a tutti i porti, alle merci d’oltremare
che le gru scaricano sui moli, alle osterie dove equipaggi di diversa bandiera si rompono bottiglie sulla testa, alle fi-
nestre illuminate a pianterreno, ognuna con una donna che si pettina.
Nella foschia della costa il marinaio distingue la forma d’una gobba di cammello, d’una sella ricamata di frange
luccicanti tra due gobbe chiazzate che avanzano dondolando, sa che è una città ma la pensa come un cammello
dal cui basto pendono otri e bisacce di frutta candita, vino di datteri, foglie di tabacco, e già si vede in testa a una
lunga carovana che lo porta via dal deserto del mare, verso oasi d’acqua dolce all’ombra seghettata delle palme,
verso palazzi dalle spesse mura di calce, dai cortili di piastrelle su cui ballano scalze le danzatrici e muovono le brac-
cia un po’ nel velo e un po’ fuori dal velo.
Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone; e così il cammelliere e il marinaio vedono Despina, città
di confine tra due deserti.».
La Despina di Calvino emette due segnali diversi, significa due città: la città-nave e la città-cammello.
Ma ciò dipende dal concorso attivo dell’osservatore che la decodifica secondo la propria esperienza di vita,
il proprio desiderio (Calvino infatti intitola questo brano: «la città e il desiderio»).
49. ITALO CALVINO, Le città invisibili, Einaudi 1958.

80
81
Despina è qui non solo oggetto, ma anche tramite di comunicazione tra due desideri speculari: il marinaio
che aspira a diventare cammelliere e quest’ultimo marinaio. Despina è anche ciò che non è: lo spazio che non
è città, le condizioni del suo contorno (“il deserto a cui si oppone”). La perdita dei contorni è, infatti, che è
uno dei motivi della scarsa definizione fisiognomica della città contemporanea, sia se vogliamo discutere
della “Megalopoli” di Gottmann, che della “città vesuviana”.
Ancora Calvino:
«Finalmente il viaggio conduce alla città di Tamara. Ci si addentra per vie fitte d’insegne che sporgono dai muri.
L’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose: la tenaglia indica la casa del cavadenti, il boccale
la taverna, le alabarde il corpo di guardia, la stadera l’erbivendola. Statue e scudi rappresentano leoni delfini torri
stelle: segno che qualcosa – chissà cosa – ha per segno un leone o delfino o torre o stella. Altri segnali avvertono di
ciò che in un luogo è proibito — entrare nel vicolo con i carretti, orinare dietro l’edicola, pescare con la canna dal
ponte – e di ciò che è lecito – abbeverare le zebre, giocare a bocce, bruciare i cadaveri dei parenti. Dalla porta dei
templi si vedono le statue degli dei, raffigurati ognuno coi suoi attributi: la cornucopia, la clessidra, la medusa, per
cui il fedele può riconoscerli e rivolgere loro le preghiere giuste. Se un edificio non porta nessuna insegna o figura,
la sua stessa forma e il posto che occupa nell’ordine della città bastano a indicarne la funzione: la reggia, la prigione,
la zecca, la scuola pitagorica, il bordello. Anche le mercanzie che i venditori mettono in mostra sui banchi valgono
non per se stesse ma come segni d’altre cose: la benda ricamata per la fronte vuoi dire eleganza, la portantina dora-
ta potere, i volumi di Averroè sapienza, il monile per la caviglia voluttà. Lo sguardo percorre le vie come pagine
scritte: la città dice tutto quello che devi pensare, ti fa ripetere il suo discorso, e mentre credi di visitare Tamara non
fai che registrare i nomi con cui essa definisce se stessa e tutte le sue parti. Come veramente sia la città sotto questo
fitto involucro di segni, cosa contenga o nasconda, l’uomo esce da Tamara senza averlo saputo...».
Illuminante questa Tamara di Calvino, nella quale la forma urbana da una parte e i materiali che la
costituiscono dall’altra (l’architettura, gli elementi di arredo e naturali, gli abitanti, la topografia, il clima)

82
emettono dei segnali che costituiscono un sottotesto rispetto alla fruizione cosciente: un edificio pubblico
‘significa’ la sede di certi uffici che il cittadino riconosce per forma architettonica, collocazione urbanistica,
percorso per raggiungerlo, potere che vi si esercita.
Esiste anche un “linguaggio sociale” che una comunità usa: è il “linguaggio silenzioso” di cui parla Herbert
T. Hall, inventore della prossemica, la scienza che studia il rapporto tra gli individui attraverso lo spazio.50
Nel quadriennio 93-97 della mia esperienza di sindaco a San Giorgio a Cremano ho avuto modo di
osservare da vicino specificamente l’uso dello spazio pubblico, giungendo a scriverne, al limite della
teorizzazione, nel libro: «I segni della città»:
Oltre lo spazio dell’intera città, rimangono due luoghi fortemente evocativi: la piazza e il Municipio che la conclude.
Uno spazio aperto ed uno chiuso, intrisi di simboli collettivi, tendenti a determinare la predominanza dell’Istituzione
sul singolo. Le regole geometriche con le quali sono disegnati questi due luoghi (l’assialità, la simmetria, la centralità,
la sequenza, il codice architettonico semplice) si traducono immediatamente in regole di approccio: la gerarchia, il
rispetto, la subalternità. È l’effetto logico del linguaggio urba-architettonico ereditato dall’estro barocco, digerito e
gerarchizzato dal neo-classicismo, che impregna di sé lo sviluppo otto-novecentesco della città. Nonostante questo ca-
rattere spaziale di subalternità, nonostante esso sia stato così utilizzato, forse inconsciamente, dagli uomini succedutisi
al governo della città, pure esso può facilmente riconvertirsi a messaggero di una nuova dignità istituzionale: l’ope-
razione di traduzione va fatta accentuando la riconquistata permeabilità al cittadino di quegli spazi. La gerarchia del-
l’architettura non serve più a respingere, a stabilire il rapporto di distanza, ma a leggere chiaramente le regole della
sua penetrazione, del graduale processo di identificazione del cittadino con il luogo del governo delle sue cure...».51
Il centro, i luoghi mentali o della memoria o dell’anima rientrano nel concetto più generale di “genius
loci”, sono quei punti in cui si concentra l’essenza energetica del luogo stesso, lo ‘spirito del luogo’, il punto
di massima comunicazione, in cui il ‘segnale’ è più nitido. Si potrebbe dire, facendo un paragone col punto
50. La prossemica è la semiologia dello spazio, ovvero lo studio della valenza comunicativa delle relazioni spaziali tra gli individui nelle situazioni sociali.
L’intuizione originaria da cui la p. trae origine è il programma di ricerca avviato dall’etnoantropologo americano Edward T. Hall negli anni ‘50.
51. ALDO VELLA, I segni della città, T&M, 1998.

83
84
foveale52 della visione, che stando in quel posto si comunica col luogo, che quello è la sintesi del luogo. Nelle
città il genius loci in genere alberga all’interno dell’area di fondazione, dove si invera il principio della
permanenza del tessuto urbano. Queste invarianti rappresentano i tratti fisionomici che la città conserva nel
corso della sua storia, quelli attraverso i quali avviene il riconoscimento: le rughe possono deformare in qualche
modo il volto, ma non si cancellano i tratti fisionomici. Sono quelle che qui chiamiamo tracce. [FIG V.1-4]
Infatti, tutto il delirio trasformativo della contemporaneità non ha impedito ad alcune parti storiche della
città di rivelarsi ancora, non tanto nelle forme originali, quanto nelle impronte, le ‘tracce’ che queste hanno
inequivocabilmente lasciato sul corpo fisico della città. Nel migliore dei casi sono i monumenti – a parte lo
stato di conservazione e le trasformazioni/stratificazioni – le prove dirette di funzioni originarie: è conservata
52. Il punto foveale è quella ristretta zona della visione, fissando l’occhio sulla quale si ha la percezione complessiva dello spazio circostante. Il fenomeno è
possibile perchè in quel punto c’è la massima fusione tra le tre visioni provenienti da tre regioni dell’occhio anatomicamente classificate: la fovea, la macula e
la regione della visione periferica.

85
la forma ma non la funzione, che è diventata un’altra (Teatro di Marcello/Palazzo Orsini, Mausoleo di
Adriano/Castel S.Angelo, Palazzo di Diocleziano/Spalato [BR.104 ]) o nessuna (Colosseo, Foro, Templi, Teatri,
Anfiteatri, ecc.). In altri casi è conservata la funzione originaria (Teatro di Pompei, Siracusa, ecc.), ma il più
delle volte – scomparse forma e funzione – rimane solo l’impronta (teatri di Lucca e dell’Anticaglia a Napoli,
piazza Navona a Roma).53
2 La città supporto pubblicitario
L’aumento del traffico veicolare e della velocità media già all’indomani della prima rivoluzione industriale
ha modificato i termini della percezione urbana e del linguaggio che vi sottende. Il senso della gerarchia
funzionale e di classe viene letta a velocità accelerata, talché i segnali che la esprimono diventano iterativi
per potersi imporre, l’unicum cede il posto ai plurima, l’originale singolo ed irripetibile alle copie, anzi non
c’è un originale: persino l’opera d’arete è oggi ripetibile. È la inquietante rispondenza tra il tipo di produzione
ed il tipo di forma urbana.
Paradossalmente questa rispondenza chiarisce il messaggio urbano, le assegna un carattere di necessità. Il
processo non è recente: già da oltre un secolo e mezzo gli edifici si allineano lungo i boulevard, o abbracciano
le place haussmaniane in una sorta di apoteosi della borghesia emergente, ricopiata in sedicesimo dal
Risanamento napoletano post-unitario. Alle spalle di quegli edifici continua la vita della città antica nei suoi
lacerati brandelli. Sempre più lontano vengono ricacciate, insieme alle fabbriche inquinanti, le classi subalterne.
C’è ormai una lettura diffratta, sezionata, separata in pezzi. La crescita a macchia d’olio (ricorrente in
molte città europee) costringe ad un approccio sempre più rapido e superficiale. Non molto più tardi i nuovi
modi di governo democratico si riflettono in “non-luoghi” del potere: non c’è più bisogno di rappresentarsi
nell’architettura e nella “forma urbis”, ma si utilizza un’urbanistica diffusiva, in cui si riconoscono pure e
semplici funzioni di produzione, di abitare, di mobilità, costrette ad una difficile convivenza risultante dalla
tensione tra pianificazione pubblica e imprenditorialità privata.
Il tradizionale sistema fruitivo dello spazio, basato sulle percorrenze per punti percettivi, focali, barriere
visive proposto da Lynch nell’analisi di Chicago, salta: al segnale puro emesso da una leggibile forma urbana
si sovrappone o si sostituisce a un sistema di insistenti segnaletiche, specializzate e settoriali, a codici
interpretativi elementari, capaci di essere captati a velocità medio-grandi con bassissimi livelli di attenzione.
53. Il teatro di Marcello tuttora parzialmente conservato, fu innalzato da Augusto tra Tevere e il Campidoglio, dedicato a Marco Claudio Marcello, il nipote,
figlio della sorella Ottavia In epoca medioevale venne man mano occupato da piccole costruzioni e si trasformò in un castello fortificato, passato in proprietà
a diverse famiglie; dalla seconda metà del XIV ai Savelli, che fecero ristrutturare da Baldassarre Peruzzi il palazzo tuttora esistente sopra le arcate della fac-
ciata. Nel XVIII ne furono proprietari gli Orsini, fino agli espropri degli anni trenta e ai successivi lavori di liberazione (1926-1932).
Castel Sant’Angelo. Nel 135 d.C. Adriano chiede all’architetto Demetriano di costruire un mausoleo funebre per sé e i familiari, di fronte al Campo Marzio, al
quale fu unito dal Ponte Elio, appositamente costruito. Era composto da una base cubica, su cui era posato un tamburo in peperino e opera cementizia. Al di
sopra di esso un tumulo di terra alberato circondato da statue marmoree. Ultimato da Antonino Pio nel 139, nel 403 fu incluso nelle Mura aureliane, e da
sepolcro diventò fortilizio. Agli inizi del VI secolo fu adibito a prigione di Stato daTeodorico. Nella prima metà del X sec. diventò la roccaforte del senatore
Teofilatto e della sua famiglia, utilizzato anche come prigione, e tale fu fino al 1901. Nel 1365 gli Orsini lo cedettero alla Chiesa, che lo utilizzò come rifugio
nei momenti di pericolo, per ospitare l’Archivio e il Tesoro Vaticano, come tribunale e prigione. Nel 1379 venne quasi raso al suolo dalla popolazione inferoci-
ta contro la guarnigione francese. Nel 1395 Bonifacio IX ne ordinò interventi di ristrutturazione e potenziamento della struttura difensiva. Sulla sommità venne
ricostruita la cappella dedicata a San Michele Arcangelo (donde l’attuale denominazione). Dopo l’Unità venne impiegato come caserma, poi come museo.
Il Colosseo, originariamente conosciuto come Anfiteatro Flavio, il più grande anfiteatro del mondo (tra 50.000 e 87.000 spettatori) fu iniziato da Vespasiano
nel 71/72 d.C. ed inaugurato da Tito nell’80. L’edificio forma un’ellisse con una superficie di 3.357 m². L’altezza attuale raggiunge 48,5 m, ma originariamente
arrivava a 52 m. La struttura esprime con chiarezza le concezioni architettoniche e costruttive romane della prima Età imperiale, basate rispettivamente sulla
linea curva e avvolgente offerta dalla pianta ellittica e sulla complessità dei sistemi costruttivi. Archi e volte sono concatenati tra loro in un serrato rapporto
strutturale. Non più in uso dopo il VI secolo, venne variamente riutilizzato nei secoli, anche come cava di materiale.
Spalato fu fondata come colonia greca di Issa (la moderna Lissa), a sua volta colonia di Siracusa, con il nome di Aspálathos (Aσπάλαθος) oppure Spálathos
(Σπάλαθος),nel III-II secolo a.C. Nel 293 d.C. Diocleziano iniziò la costruzione del Palazzo. La Repubblica di Venezia ne prese completamente possesso nel
1420, inserendovi diverse opere architettoniche. La cattedrale fu costruita nel Medioevo, con materiale proveniente dal mausoleo. Vi sono chiese del XII e del
XIII secolo in stile romanico, fortificazioni medievali, palazzi in stile gotico risalenti al XV secolo nonché palazzi in stile rinascimentale e barocco»

86
Sintomatico, a questo riguardo, il caso della “strada americana” (l’Asse Mediano a NW di Napoli) che
collega la cintura nord dell’area metropolitana napoletana come esempio di “città-segnale pubblicitario”: la
cartellonistica tarata sulla velocità automobilistica sostituisce il paesaggio urbano in una anonimia ed
omologazione ‘americanizzante’.
Che rimane dell’originario messaggio, quello emesso dalla Tamara di Calvino? In che modo le strutture
urbane, e i messaggi che vi sono contenuti rispondono al principio della permanenza e della univoca
interpretazione?

87
La città tende a divenire un complesso palinsesto da leggersi percorrendolo, nel quale sono intrecciate le
varie lingue (compresa quella odierna) con cui la città ha parlato e parla al cittadino con un effetto dissonante.
Solo conoscendo le chiavi interpretative di questi linguaggi è possibile separare le bande di comunicazione,
ascoltare-vedere la città in modo consapevole ovvero riconoscerne i caratteri fisiognomici. Ma questa non è
operazione di tutti: finito il tempio, finita la città rinascimentale, finita la lettura universale degli spazi.
Abbiamo visto come il processo inermedio tra la città policentrica e la città-territorio abbia condotto ad
una complicazione semantica delle linguistiche urbane e come, fondamentalmente, il messaggio dell’autorità
ha via via prediletto altri canali di comunicazione, che noi chiamiamo mediatici o mass-mediali (televisione,
siti informatici, social). Essa ha sostituito l’architettura nella rappresentazione del potere, pertanto anche lo
spazio urbano non riveste più interesse. Contemporaneamente, la vendita di prodotti e servizi è diventata di
gran lunga il carattere preminente imposta al sociale, per cui vediamo retrocedere, nella scala delle priorità
funzionali, aspetti ed esigenze su cui si era costruito nel passato il rapporto sociale ed il luogo di questo
rapporto (il governo, la giustizia, il culto, ecc.).
Oggi la città incassa due colpi critici:
a. non più luogo di relazione;
b. non più autoreferente mediatica.
La prima affermazione si basa sui nuovi modi di socializzazione ed aggregazione subordinati al sistema
spaziale della commercializzazione dei prodotti e dei servizi: i supermercati, gli ipermercati, i centri direzionali,
i supercinema sono le nuove “piazze” che raccolgono una popolazione cosmopolita, occasionale ed
estremamente variabile e labile, senza ancoraggi con il luogo.
La seconda affermazione riguarda il tema della comunicazione sotto un angolo visuale inconsueto, in
certo senso rovesciato: la città non rappresentra più se stessa quale autoreferente, ma supporto pubblicitario
di altro da sé, sistema di segnali: è una città segnale.
La città da un ruolo attivo passa ad uno passivo: da emittente di segnali (consapevoli e no) che notiziano
della sua struttura, del suo carattere, della sua storia, diventa supporto di messaggi commerciali. E tutto ciò
modifica i suoi caratteri formali, fruitivi e d’uso.
In questo contemporaneo e del tutto nuovo ruolo passivo, la città si è vista modificare profondamente i
suoi modi di fruizione che hanno oggi due aspetti contraddittori:
da una parte le insegne degli esercizi commerciali hanno ridotto il cono ottico all’altezza dei piani-terra degli edifici (cioè
la fascia visiva della città che interessa l’offerta che è anche la banda visiva dall’automobile a bassa velocità),
dall’altra intere pareti di alti edifici vengono impiegate come supporto di grandi pannelli pubblicitari (banda visiva dal-
l’automobile ad alta velocità).
Più recentemente, la pubblicità si serve delle stuoie protettive delle impalcature dei cantieri di restauro,
talora in parte finanziati proprio dal supporto pubblicitario. Altre volte, queste stuoie recano l’immagine della
facciata restaurata: siamo al più alto grado della progressiva identificazione dell’immagine con la realtà. Si
ricorderà il caso della “Rinascente” a via Toledo a Napoli e l’indifferenza, o quanto meno la moderata sorpresa,
che segnò la calata del telo e la vista di una facciata che avevamo già assorbito nella mega-foto che l’aveva
sostituita per anni. La visione della facciata restaurata era stata già ‘venduta’, inflazionata dalla stessa pubblicità
che l’aveva celata. L’immagine è la realtà. Così sono tranquillamente accettate le “proiezioni urbane” sui
monumenti, figlie delle più delicate incursioni delle “son et lumière” sui castelli della Loira.
Si può dire che la città affida ormai a simili canali la comunicazione della sua esistenza, non più
rappresentabile col proprio corpo fisico. Essa subisce, così, il processo di identificazione essere-immagine
che ha già coinvolto le persone, divenute personaggi o replicanti di essi.

88
Siamo lontani dalla traduzione in immagine della città che ne hano fatto i pittori contemporanei (Depero,
De Chirico, Sironi) [TAV. V.13-16]. Essi sono gli ultimi a rappresentare un luogo del sentimento, del sogno: nei
loro quadri ci sono le ultime città ideali.
Oggi la città o pezzi di essa (dal Canal Grande di Venezia alla 5a Avenue) viene “trasferita” nella
comunicazione mass-mediale come contesto di storie, location, corti pubblicitari, video-clip musicali: passa
di nuovo una città ideale, questa volta costruita sulla ideologia del vendere (una storia, un prodotto, una notizia,
non ha importanza cosa) [TAV. V.5].
Del resto, la rappresentazione della città non è stata mai fine a se stessa ma funzionale ad uno scopo altro,
a cominciare dalle città degli affreschi due-trecenteschi (ridotte a modelli, torte o panettoni offerti a divinità
o imperatori) fino alle città di sfondo della ritrattistica rinascimentale. Ma, mentre in questi casi il valore
simbologico era denunciato, anzi necessario all’enfasi del racconto o alla esemplificazione di un concetto
filosofico, teologico, politico o sociale, nel caso della rappresentazione contemporanea viene passato il
rappresentato per vissuto. Il gioco è facile dal momento che la città fisica, come abbiamo detto, non riesce
più ad emettere nessun segnale significativo e, al massimo, viene usata come video-game [TAV. V.12].
Il fenomeno di sostituzione mediatica della città virtuale alla città reale è ben evidente: il caos urbano è
ricomposto spesso in una festa di folla intorno alla persona che ha usato un certo dentifricio, un’attesa ad un
semaforo in un suadente ammiccamento all’auto nuova. Le auto viaggiano in ambienti urbani asettici e del
tutto esenti da traffico, confusione, inquinamento, nevrosi, adatti alla massima espressività delle prestazioni
meccaniche: è il livello più alto di falso che la contemporaneità ha finora prodotto. Sia le “location” in
pubblicità, sia il cinema consistono spesso in montaggi di luoghi diversi a creare “luoghi virtuali” aderenti al
prodotto o alla storia. [TAV. V.9,10].
È sintomatico che gli scenari preferiti siano centri storici, edifici monumentali (buoni anche per ingoiare
un’oliva Saclà), i piccoli centri medievali (per arrivarci magari in mongolfiera verso una colazione al Mulino
Bianco) oppure, al contrario, molto moderni. Ambedue subiscono un preventivo lifting per ripulirli dai segni
negativi della speculazione, dell’usura, dell’inquinamento. Molti messaggi televisivi invertono la linea
produttiva logica: non si sa da dove, arriva (con un furgoncino vintage) il prodotto Galbani al negozio del
paesello, da dove una volta, al contrario, partiva il prodotto di qualità.
È interessante come per i centri medievali le prospettive, le angolazioni, i tempi di ripresa vengono
rallentati, mentre le scene metropolitane subiscono un’accelerazione dei punti di fuga, un rigonfiamento
spaziale. Il risultato è la creazione di ambienti poetici e favolosi pieni di gente gaia nel primo caso, nel secondo
invece atmosfere algide in vetro e acciaio, vuote di persone, senza funzioni riconoscibili. Anche le tecniche
di ripresa differiscono enormemente: volo d’uccello, fuoco ad altezza d’occhio, inquadrature ravvicinate,
queste nel primo caso, mentre nel secondo: punto di vista bassissimo, uso del grandangolare molto distorcente.
Tutte queste scelte sono comunque finalizzate sempre a concentrare l’attenzione sul prodotto da vendere: la
città è ormai un supporto commerciale.
Si affidano, così, a due tipi di città, a due ‘location’, le due situazioni canoniche a cui, per comodità di
racconto, è ridotta la condizione umana: il luogo del piacere, della poesia, del sentimento e il luogo del lavoro,
del rapporto sociale, della velocità, dell’ ‘uomo che non deve chiedere mai’. Per essere più espliciti: il luogo
del consumo del tempo libero e il luogo della produzione. Queste sono le ‘città ideali’, le città dei desideri
della contemporaneita, che farebbero inorridire Calvino: la sua Ersilia viene abbandonata dai suoi abitanti
quando i ‘fili’ diventano inestricabili:
«A Ersilia, per stabilire i rapporti che reggono la vita della città, gli abitanti tendono dei fili tra gli spigoli delle case,
bianchi o neri o grigi o bianco-e-neri a seconda se segnano relazioni di parentela, scambio, autorità, rappresentanza.

89
Quando i fili sono tanti che non ci si può più passare in mezzo, gli abitanti vanno via: le case vengono smontate; re-
stano solo i fili e i sostegni dei fili.
Dalla costa d’un monte, accampati con le masserizie, i profughi di Ersilia guardano l’intrico di fili tesi e pali che
s’innalza nella pianura. É quello ancora la città di Ersilia, e loro sono niente.
Riedificano Ersilia altrove. Tessono con i fili una figura simile che vorrebbero più complicata e insieme più regolare
dell’altra. Poi l’abbandonano e trasportano ancora più lontano sé e le case.
Così viaggiando nel territorio di Ersilia incontri rovine delle città abbandonate, senza le mura che non durano, senza
le ossa dei morti che il vento fa rotolare: ragnatele di rapporti intricati che cercano una forma.».
Il ritorno al “centro storico come ‘luogo eccellente dell’abitare e del godimento estetico’ (vedi: “Maggio
dei Monumenti”), in sè positivo, ha avuto bisogno di essere accreditato dai mass-media per diventare moda,
per candidarsi a diventare cultura. Così banalmemte, tutto su una scommessa mediatica, si crede di passare le
consegne dell’eredità della storia alla contemporaneità, ma un conto è visitare, un conto è sentire, un conto è
risiedere, un conto abitare.
Finanche la locandina turistica – da sempre summa di eccellenze di un luogo montate assieme – tende al
falso o quantomeno al trucco pesante pur di vendere la località turistica e le eccellenze sono scelte non con
il metro della cultura ma del mercato. [TAV. V.11]
La città sta, in sintesi, subendo lo stesso processo di estraneazione della comunità, sfaldata dal
pendolarismo e dissolta dal rapporto personale semplificato la cui direzione è orizzontale, superficiale e non
profonda (telefoni, SMS, immagini via e-mail e cellulare). Non passano più i sentimenti ma la modulistica
sentimentale consentita dall’approssimazione semiologica della tecnologia delle ‘faccine’.

90
3 La rappresentazione non metrica della città: la pittura, la fotografia, il fumetto, la letteratura.
Può sembrare un paradosso ma, nella pittura, i paesaggisti non sono i soli ad aver utilizzato la città. Il
verbo ‘utilizzare’ ben rappresenta il processo creativo che ‘si serve’ del soggetto per comunicare altro. Se così
non fosse, il veneziano Ponte di Rialto sarebbe uguale sia per De Pisis, che per Canaletto, De Chirico, Gianola,
Kandiskj, o la napoletana Porta Capuana sarebbe uguale per Ospitali, Gigante, Migliano, Gargiulo. Specie i
colori in questi quadri differiscono di molto, dando sensi diversi allo stesso brano urbano, investito da
sentimenti diversi. Questo aspetto raggiunge il parossismo in De Chirico e Sironi che ‘costruiscono’ una città
loro propria, il primo partendo dalla rinascimentale città ideale, la cui simmetria perde la serena fissità per
assumere un onirico carattere inquietante. In entrambi la città è vuota, fissa in una calma come poco prima o
poco dopo un cataclisma. Anche nelle visioni di Rialto e Porta Capuana c’è un nervosismo represso, una molla
che sta sotto la Venezia e la Napoli dalla apparente vita felice. [TAV. V.14,15]
Nella fotografia si assiste allo stesso fenomeno interpretativo, come anche nel cinema. La fotografia –
per la sua maggiore prossimità tecnica al mondo reale – usa però altri sistemi. Ciò che la pellicola impressiona
non è – come si potrebbe credere – la realtà obiettiva, tra il reale e la lastra c’è una intelligenza critica che
preme lo scatto, che registra ciò che vuol far vedere o vuol comunicare di sé attraverso il brano urbano

91
fotografato. A volte si indugia su un passato-presente, cioè sulle tracce che il passato ha lasciato sul presente,
non per piangervi sopra, ma per far leggere una linea di continuità, cioè la storia del luogo. Altre volte basta
un muro, uno spazio troppo profondo e anonimo, una cortina da cui sbirciare scorci urbani per significare quel
senso di estraneazione che è oggi il dramma interno che vive l’abitante in una città che non riconosce più
come sua (l’autoctono) o che non sarà mai sua (l’immigrato). Oppure la città viene oscurata, schermata,
disturbata da altro: una rifrazione/riflessione, una immagine proiettata o fisicamente collocata in primo piano
tagliano lo spazio che diventa parte,non più principale, di una dissacrante scenografia. La maggior parte degli
scatti – specie quelli riportati da Nicolò Liotta54 – rilasciano un messaggio dissacrante dietro un’apparente
offerta acritica (che è l’inganno abituale in cui ci fa cadere la fotografia d’autore). Sia le foto del primo
dopoguerra che quelle più recenti (diversamente giocando sull’immagine) mal nascondono un giudizio
negativo, ironico talora beffardo sulla condizione urbana, sulle illusioni del benessere, sulle sue già patenti
contraddizioni, laddove insistono sulla commistione tra città, industria e terra edificabile, edificanda o edificata,
alludendo ad un ciclo che annuncia il parto della città debole, con la perdita di fisionomia, di confini, di scopi,
e preconizza l’avvento della metropoli e – ultimo stadio – della città liquida.
54. NICOLÒ LIOTTA, Photometropolis, Le Vespe, 2000.

92
Analogamente alla fotografia, il cinema riusa lo scenario urbano come contrappunto o fondale per lanciare
messaggi, prevalentemente sociali: ma la storia raccontata talora le cede il ruolo principale, inconsapevole il
regista (forse anche). In “Metropolis”55i ruoli infatti si ribaltano (ma Fritz Lang lo vuole): la città è l’indiscussa
protagonista (la cura della fotografia e della scenografia ne sono prova); la città del futuro, in una visione in
tutto marxiana, è una macchina infame che imprigiona l’uomo soggiogandolo ad un padrone occulto.
L’urbarchitettura futurista dunque viene qui utilizzata (ed era nel pieno fulgore) in chiave negativa.
Il cinema neorealista e le scuole immediatamente successive, tenendo fede alle proprie tematiche,
assumono lo scenario urbano come strumento di documento-denuncia, mostrando senza veli i padroni del
mattone, gestori legali o meno dello scempio del dopoguerra passato per risposta dovuta alle urgenze abitative.
La città è il drammatico scenario, se non il protagonista (Roma città aperta, Ladri di biciclette, Le mani sulla
città, Rocco e i suoi fratelli) 56, in cui insomma il “tal quale” urbano, la città nuda, era la visione necessaria
per il racconto della condizione umana o politico-sociale di quel momento.
55. Metropolis è un film muto del 1927 diretto da Fritz Lang, Un capolavoro, la madre di tutti i film distopici di fantascienza. Nell’anno 2026, la città di Metro-
polis è governata da un imprenditore despota Joh Fredersen, arroccato in alto in un mare di grattacieli. La classe operaia viene sfruttata in un sotterraneo
dove un’enorme “M Machine” esplode al loro primo errore. La città coi suoi grattacieli è al centro della scena quasi come personaggio principale, rappresen-
tando un potere che annienta e soggioga. Fritz Lang tratta l’argomento della schiavitù e della Torre di Babele ispirandosi ai paesaggi notturni di New York.
56. Roma città aperta. Regia di Roberto Rossellini con Anna Magnani, Aldo Fabrizi, Maria Michi, Marcello Pagliero, Nando Bruno, Vito Annichiarico, Italia
1945, durata 98’. Nella Roma occupata dai tedeschi si incrociano alcune storie. Ladri di biciclette, (Italia 1948). Regia: Vittorio De Sica. Soggetto: Cesare
Zavattini, dal romanzo omonimo di Luigi Bartolini. Sceneggiatura: Oreste Biancoli, Cesare Zavattini, Suso Cecchi D’Amico, Adolfo Franci, Gherardo Gherardi,
Vittorio De Sica, Gerardo Guerrieri. Prodotto da: Vittorio De Sica. Fotografia (b/n): Carlo Montuori. Montaggio: Eraldo Da Roma. Musiche: Alessandro Cico-
gnini. Scenografie: Antonino Traverso. 92’. Le mani sulla città, Italia1963, 105’, B/N. Regia: Francesco Rosi. Soggetto: F. Rosi, Raffaele La Capria. Sceneg-
giatura: Enzo Forcella, R. La Capria, Enzo Provenzale, F. Rosi. Produttore: Lionello Santi per Galatea Film. Fotografia: Gianni Di Venanzo. Montaggio: Mario
Serandrei. Musiche: Piero Piccioni. Scenografia: Angelo Canevari. Ambientato a Napoli, il film esplora il conflitto di interessi tra immobiliare, politica e ammi-
nistrazione. Fu La Capria a dichiarare: “Napoli è una delle città più devastate dalle oscene pratiche immobiliari; era una città bellissima e sono riusciti a rovi-
nare tutto, anche la salute e la vita dei suoi abitanti”. Rocco e i suoi Fratelli, diretto da Luchino Visconti, 1960.Vi si mostra Milano da un seminterrato a Lam-

93
La città-luogo sociale è ormai assente, i continui campi lunghi della macchina da presa, come posizionata
nei luoghi dell’emarginazione, della periferia lasciata a sé stessa, uno skyline urbano che sbiadisce in una
sorta di nebbia/polvere, come in un miraggio.
La filmografia contemporanea prenderà due strade: quella della finale dissacrazione e quella dell’uso
favolistico, forma paludata di dissacrazione anch’essa: la N.Y. di Woody Allen in “Manhattan” (1979) e quella
di Terry Gilliam in “La leggenda del re pescatore” (1991)57sono due modi opposti di fare poesia sullo stesso
luogo, confermando ciò che dice Kevin Lynch circa la soggettività della forma urbana dal punto di vista
psicologico. In entrambi i casi si tratta di rappresentazioni urbane del tutto costruite: ne “La leggenda del re
pescatore” si rappresenta una New York irreale, forse surreale, che, con le altre New York altrettanto irreali,
forma ormai un deposito mnemonico e cognitivo superiore a quello che la città reale ormai può fornire. Un
uso simbolico diverso dalla Napoli di Mario Martone, che gioca non sulla distorsione ma sulla accentuazione
non oleografica di specifici aspetti urbanistico-ambientali per dare una mano la “storia”.
brate, dove la famiglia Parondi è costretta a vivere. Dalla cima del Duomo alla palestra di boxe, passando per l’idroscalo e la stazione centrale, è Milano attra-
verso una lente in bianco e nero.
57. Manhattan, diretto da Woody Allen, è il film con la migliore inquadratura di un ponte in bianco e nero. No, non è Brooklyn, ma il ponte di Queensboro che
collega Manhattan a Long Island City passando per Roosevelt Island. Notevoli gli alti e i bassi dei grattacieli e tutta la scenografia della città.

94
95
96
Alfred Hitchcock ne “La finestra sul cortile” (1954)58, proprio sul dettaglio urbano poggia la credibilità
e la suspense della storia: la città ‘normale’ è vista da una finestra (unico punto vista) in una stretta prospettiva
sostenuta per tutto il film: eppure si ‘muove’ e c’è tutta: un uomo conversa con uno strillone, passa un’auto,
nella bottega di fronte c’è un avventore o un commesso... quella strettoia è sufficiente a reggere tutta la storia.
58. La finestra sul cortile (Rear Window) è un film del 1954 diretto da Alfred Hitchcock. È uno dei capolavori della storia del cinema. Nel 1997 il film è stato
scelto per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli USA. Un fotoreporter di successo, costretto su una sedia a rotelle
per un incidente di lavoro, passa il tempo a osservare i suoi vicini di casa, servendosi di un binocolo e della propria macchina fotografica con teleobiettivo.

97
Quanto al rapporto tra la città e il fumetto è illuminante una intervista del 2010 di Elena Sommariva a
Francis Rambert, co-curatore della mostra “Archi et BD, la ville dessinée” (9 giugno 2010 – 2 gennaio 2011,
Galleria superiore di mostre temporanee, Paris):
D. Visto che i nuovi autori di fumetti si nutrono sempre più dell'architettura contemporanea, il fumetto potrebbe diventare
per gli architetti quello che il cinema è stato in passato?
R. Quello che è certo è che oggi c'è una trasversalità molto più forte rispetto a prima. Ma rimangono gli autori di fumetti
a nutrirsi dell'architettura e della città contemporanea (anche se vivono fuori dalle città più grandi) più che viceversa.
Dalle riviste di architettura prendono le ambientazioni per le loro storie. Ci sono però anche esempi di fumetti che
hanno influenzato l'architettura... Tra le utopie gli Archigram sono i campioni del mondo, ma in mostra troviamo anche
un sorprendente disegno dello studio Ettore Sottsass, The planet as festival.
D. Ci sono architetti che hanno scelto di usare il fumetto come mezzo per presentare i loro progetti? Perché?
R. Si, ce ne sono alcuni. Rem Koolhaas, per esempio, a Euralille negli anni 80, usa il codice del fumetto per fare passare
la sua idea di ipermodernità. Per fare in modo che le persone (e gli amministratori pubblici) capiscano e si approprino
di un progetto molto concettuale, la città in rete, non usa planimetrie, prospettive e prospetti, ma adotta il linguaggio
del fumetto. Con “Yes is more”, Bjarke Ingels decostruisce il mito del supereroe e integra i codici del fumetto nelle
sue tavole. È lui stesso a spiegare i suoi progetti, come una sorta di conferenza, un Power Point a fumetti molto ludico,
che però al tempo stesso racconta una storia, una sceneggiatura. Anche Herzog & deMeuron hanno fatto un album

98
molto interessante. Hanno preso Jean Seberg e Jean Paul Belmondo da un film di Godard e li hanno usati per raccontare
il loro progetto urbano di Basilea, Metrobasel. Il loro obiettivo è, ancora una volta, quello di farsi capire bene da un
grande pubblico... I giapponesi Bow Wow sembrano invece mescolare il disegno [tecnico] al fumetto, aggiungendo
personaggi e illustrazione in una sezione tecnica con tanto di quote.
D. Quali sono i momenti salienti di scambio e di incontro tra architettura e fumetto?
R. Nella storia delle due discipline Archigram ha un ruolo importante perché negli anni Sessanta ha decostruito il supe-
reroe, creando l'album “Amazing Archigram”, che attinge alla pop art e usa tutti i codici del fumetto. Il secondo mo-
mento di scambio molto importante è il 1958, anno della Grande Esposizione di Bruxelles. È in questo momento che
ci si rende conto che gli autori di fumetti hanno scoperto la modernità. È l'epoca dell'architettura eroica – i padiglioni
dell'esposizione universale e l'Atomium lo provano – sono gli anni dello sviluppo dell'Europa. In questo periodo l'ar-
chitettura influenza molto gli autori di fumetti.
D. Perché gli autori di fumetti si interessano alla città contemporanea?

99
R. Forse perché il 60% della popolazione mondiale vive nelle città. Comunque è molto raro trovare dei fumetti ambientati
in campagna. A volte, è il paesaggio costruito a creare lo sfondo del fumetto più dei personaggi. François Schuiten, per
esempio, è uno dei più grandi autori del fumetto belga che si interessa molto all'architettura (di formazione è architetto).
D. New York, Parigi e Tokyo sono le tre metropoli icona dei fumetti: tre città così diverse sono rappresentate con modalità
altrettanto diverse?
R. New York, con Chicago, è la città dei fumetti, gli autori la usano come sfondo per le avventure dei loro supereroi. Un
lavoro straordinario è quello di David Mazzucchelli sulla Città di vetro di Paul Auster, nel quale il protagonista cam-
mina sulla trama urbana di Manhattan. Non si tratta dell'architettura come disciplina, ma piuttosto, ancora una volta,
della città: come è vissuta, abitata e immaginata... Parigi, invece, si identifica con un grande autore come Jacques
Tardi, per niente interessato però alla modernità... tutti i suoi personaggi si muovono nella città di Haussmann…
D. Quello del fumetto è anche un mondo in cui non è facile entrare se non vi si è abituati fin da piccoli.
R. È vero, e in più non tutti i giovani oggi leggono, conoscono i fumetti. La mia cultura è legata a Tin Tin, un reporter e
un grande viaggiatore. Le sue avventure fantastiche in tutto il mondo hanno formato il mio immaginario. Sarà inte-
ressante vedere come reagiranno i giovani di oggi, cresciuti a televisione e internet.
D. Qual è la tavola che preferisce?
R. Il lavoro (piuttosto intellettuale) di Francesc Ruiz, catalano di Barcellona, che ha preso la planimetria del Barrio gotico
e il Plan Cerdà a Barcellona e su queste forme ha disegnato una storia, rifiutando l'ortogonalità della tavola per adattarsi
alla planimetria urbana. È un lavoro che riassume la mostra in modo straordinario. La trama urbana è un palinsesto...
Naturalmente anche in letteratura c’è uno stretto rapporto tra narrazione ed ambiente urbano sia che si
tratti di pagine di viaggio, dove la città è diretta protagonista, sia che essa venga usata come ambientazione,
sfondo, che, accentuandone la situazione psicologica. Sono città dunque a loro modo oniriche, irreali forse,
ma che contengono ‘parti’ di città nascoste, ignote all’urbanista che forse farebbe bene a leggere. Ma questo
accade anche nelle pagine di viaggio (quelle della letteratura, non dei baedeker turistici) costruite sull’umore,
il carattere, la sensibilità e la cultura dello scrittore, che rimane comunque il protagonista di quelle pagine: la
città che descrive lo descrive. Ciò non esclude la veridicità, ancorché non pedissequa, della descrizione. Vien
subito in mente la Venezia di Thomas Mann [BR. 13], città che contiene quegli elementi di tristezza (e morte),
di cui Mann si è servito per descrivere gli stati d’animo del protagonista, che forse è egli stesso. Su questa
linea è anche la diaristica di viaggio, piena di ghiotte occasioni letterarie per viaggiatori speciali: il valore
100
descrittivo contenutovi riveste grande interesse per la ricaduta psicologica ed emotiva che vi traspare, le qualità
urbane (di qualsiasi segno) che vi traspaiono possono in parte essere attribuite anche alla città visitata, ma
vanno trafilate attraverso la particolare struttura narrativa se non attraverso il carattere umano dello scrittore.
Inoltre molto incide il fatto che chi scrive sia autoctono, abitante, frequentatore abituale o fortuito
visitatore: la sua mappa percettiva cambia notevolmente come ben insegna Lynch [cfr. §4].
4 I diagrammi di flusso. Lo sguardo percettivo: le mappe mentali, le mappe sociali. Kewin Lynch.
Alcune mappe sono costituite da disegno libero con cui enfatizzare, mettere in secondo piano, omettere
riferimenti spaziali a seconda dell’indirizzo di lettura che, consapevolmente o meno, si dà [TAV. V.30.31]. Altre,
che per semplicità chiameremo ‘mappe sociali’, attengono alla sociologia urbana, poiché sono molto espressive
dei movimenti e delle preferenze di gruppi. Esse ci danno una visione della città derivante da un processo
critico sull’uso che questi gruppi fanno degli spazi urbani. Ne deriva che lo stesso spazio può essere oggetto
di più interpretazioni e generare più mappe.
Altre mappe ancora possono essere considerati i diagrammi di flusso, specie quelli che schematizzano
funzioni urbane specifiche (linee metropolitane, percorsi preferenziali). Essi registrano caratteri reali dello
spazio urbano estrapolando punti (nodi) e linee (flussi) secondo una precisa gerarchia. Ne risulta uno schema
semplificato della città che costituisce la mappa dei percorsi del trasporto pubblico, sotteso ma non evidente
alla mappa completa della città. Ad esempio il diagramma di flusso della Circumvesuviana di Napoli disegna
lo schema lineare della città vesuviana, e di quella anulare della città summana, evidenziando molte delle
connesioni principali del sistema. Così il diagramma di flusso della metro di Manhattan è una sintetica
rappresenazione della forma urbis di superfice. Ma sono mappe uguali per tutti, a loro modo obiettive.
Diverso il discorso della visione diretta che ci fa lèggere gli spazi. Ma le cortine edilizie, gli elementi
emergenti possono orientare o disorientare la percezione. Punti focali certi (campanili, obelischi), corridoi
visivi (strade a prospettiva unica) ecc. sono in grado di dare un codice certo di lettura anche ad una osservatore
distratto o non abituale. Viceversa, elementi ambigui possono rendere non immediato e facile la lettura dello
spazio urbano: emergenze fuori fuoco prospettico, doppie o multiple, o assenza di esse, barriere multiple o
assenza delle stesse ecc. possono fuorviare o disturbare questa lettura. Ancor più devianti sono le emergenze
improprie, nelle quali segno e significato non coincidono: i grandi serbatoi, le ciminiere, ad esempio, possono
portare ingannevolmente fuori contesto urbano l’interesse percettivo, poiché non segnano punti topici della
città, non essendo stati collocati per essere punti di riferimento ma per ragioni altrimenti strumentali.
Ci sono luoghi adottati – molte volte senza un giustificato motivo – da specifici gruppi sociali che lo
usano in modo prevalente e talora esclusivo e da cui spesso non si può obiettivamente prescindere. Luoghi,
gruppi, tempi e orari, intensità di frequentazione determinano letture della città del tutto diverse da quelle
della tecnica urbanistica, ma che a questa dovrebbero dare il giusto apporto quando si prendono decisioni
sulla pianificazione e sulle norme impartite.
Presento 4 esempi oggetto della mia diretta osservazione: Portici, San Giorgio a Cremano, Lacedonia,
Nola, su cui provo a memoria a costruire le rispettive mappe sociali.
A Nola la mappa sociale più interessante è costituita dal percorso seguito dai gigli durante la festa di S.
Paolino del 22 giugno, che contiene specifici punti di particolari difficoltà che il giglio deve superare per non
flettersi o rompersi. Il passaggio dei gigli rende intoccabile l’assetto dei vicoli e delle strade interessate: più
che i regolamenti edilizi e le norme urbanistiche può il rito59. [TAV.V.38]

59. La Festa dei Gigli è una festa popolare che si tiene ogni anno a Nola in occasione della festività patronale dedicata a San Paolino. Con questo evento i
nolani ricordano il ritorno in città di Ponzio Meropio Paolino dalla prigionia ad opera dei barbari avvenuto nella prima metà del V secolo. La festa rientra nella
Rete delle grandi macchine a spalla italiane inserita dal dicembre del 2013 nel Patrimonio orale e immateriale dell’umanità dell’UNESCO.

101
102
Portici ha due luoghi topici di aggregazione: Piazza San Ciro e Via Leonardo da Vinci. La piazza, fino
gli anni ‘80 ha avuto una tripartizione di uso[TAV.V.38]:
1. sagrato della Chiesa di S. Ciro: vecchi, pensionati.
2. palazzo Capuano (sede storica del PCI): comunisti, extraparlamentari.
3. emiciclo tra corso Umberto a corso Garibaldi. Al primo piano sopra il bar: Elleniké fonìa, un club giovani dell’estrema
destra (regime dei colonnelli).
L’adozione era talmente consolidata che i gruppi dello spazio 2 e quelli dello spazio 3 entravano spesso
in conflitto territoriale, ma in sostanza per divergenze ideologiche (da osservare che a Portici si era radunata
una folta schiera di greci – siamo all’epoca dei colonnelli – che si iscrivevano alla facoltà di Agraria per
ragioni del tutto lontane da quelle accademiche, e inoltre venivano a rifugiarvisi terroristi di destra). La
topografia della piazza è ora notevolmente mutata, pur rimanendo la zona 1 la preferita degli anziani (spaziosa,
fornita di gradini su cui sedersi, soleggiata).
Viale Leonardo da Vinci è utilizzata per shopping, ma anche dai giovani per incontrarsi. Precisamente,
l’incrocio con via Libertà (luogo quanto mai anonimo) per lungo tempo è stato il luogo di ‘quelli del muretto’.
Oggi le zone sono aumentate in rapporto all’aumento della popolazione giovanile, che oggi predilige di gran
lunga Piazza Bellavista, in seguito al suo nuovo assetto che privilegia la pedonalità. Giustamente la
progettazione ha conservato lo chalet-bar centrale per lunga tradizione punto di riferimento di tutta la piazza.
San Giorgio a Cremano ha i seguenti punti topici per costruire una mappa sociale: [TAV.V.36].
1. piazza Municipio (appannaggio di pensionati e politici a spasso).
2. piazza Troisi suddivisa in sottozone:
2a. parcheggio lato N: giovani di varie bande spesso in conflitto tanto da richiedere l’intervento della forza pubblica.
2b. angolo via cavalli di Bronzo: intellettuali a spasso (tra cui l’autore), attori, artisti vari.
2c. angolo via S. Anna, area antistante il demolito palazzo Bruno: pensionati, habituée.
2d. angolo via Bachelet-bar Troisi: giovani non in conflitto.
2e. centro piazza: bambini e genitori, pensionati, habituée.
3. piazzetta Giordano Bruno-via Manzoni: molto promiscua, passeggiatori abituali, residenti in zona.
Per un certo periodo i giovanissimi si sono riuniti sotto il muro di villa Bruno all’altezza della ex-libreria
Vesuviolibri, poi sono scomparsi.

103
Lacedonia ha due spazi storicamente importanti di relazione [TAV. V.37]:
1. piazza de Sanctis, divisa in sottozone:
1a pro-loco–Palazzo Diaferia (pensionati in maggioranza);
1b sotto palazzo Ferrarelli (politici di sinistra);
1c tra bar Zichella e bar Castello (abituée della discussione, giocatori di carte);
1d gradini della chiesa di S.Filippo (angolo via G.B. Vico)
2. Istituto Magistrale (giovani) con 2 sottozone:
2a. parco antistante l’Istituto.
2b palestra scoperta dell’Istituto
Da osservare che le scale della chiesa di S. Filippo [1d] costituivano, a cavallo delle due guerre, un vero
e proprio mercato bracciantile, dove i caporali potevano assoldare alla bisogna. Nel secondo dopoguerra lo
stesso luogo è stato appannaggio dei maestri elementari disoccupati, anch’essi facilmente lì reperibili per
evenutali supplenze. È sintomatico che su quei gradini, visibilmente usurati, non si è seduto più nessuno per
lungo tempo, presumo perché considerati reietti. Inoltre, la loggia al piano superiore del palazzo Ferrarelli
[TAV.V.44.1B.X] veniva utilizzata come tribuna elettorale per i comizi dei partiti di centro-destra (vi abitava un
prelato), mentre la loggia per palazzo adiacente per quelli di sinistra [rispettivamente X,Y in TAV. V.37].
Le mappe mentali sono rivelatrici del grado non sempre alto di rispondenza tra uso e prescrizione
normativa, il che è la prova inconfutabile della spontaneità (ed apparente irrazionalità) con cui la città si
articola nel tempo e nello spazio e come sia inafferrabile, praticamente non pianificabile. Usi dello spazio,
praticati nel passato ed estinti, lasciano in genere impronte di sé sul corpo fisico della città che possono
condizionarne fortemente il futuro: i gradini della chiesa di S. Filippo ne sono un esempio. E ciò è ancor più
vero quando gli usi dello spazio sono ancora praticati dalla comunità, come nel caso dei gigli di Nola.
Approfondendo l’alalisi testè fatta sulle mappe sociali, è utile esaminare i principi costitutivi delle mappe
di Kewin Lynch, esito di interviste e ricerche di natura comportamentale e percettiva degli abitanti di alcune
città (Boston, Yersey city, Los Angeles), tramite le quali egli analizza la natura della città e delle sue parti.
[TAV.V.39]50. Lynch individua alcuni principali elementi percettivi:
– i percorsi abituali ossia gli assi portanti della mappa ambientale;
– i margini, ossia le barriere permeabili, impermeabili, semi-permeabili (quali fiumi, colline, linee ferroviarie) che in-
terrompono o variano percorsi e canali percettivi di osservazione e fuizione;
– i quartieri, blocchi urbani riconoscibili dal fuitore quali entità precise con caratteristiche e fisionomia loro proprie;
– i nodi, luoghi emergenti, cerniere di collegamento di altri elementi tra loro (stazioni metropolitane, piazze, rotatorie,
incroci stradali) talora con valore direzionale;

104
105
– i riferimenti, elementi puntuali che fanno da bussola per orientarsi nell’immediato intorno (obelischi, monumenti,
chiese, campanili).
Individui o gruppi di fuitori con diverse modalità (pedonale, automobilistica, ciclistica) sortiscono mappe
ambientali diverse, ugualmente concorrenti alla costruzione dell’immagine della città nel suo insieme. “Una
città è una costruzione nello spazio che è possibile percepire solo in lunghi periodi di tempo. Essa non è solo
oggetto di percezione, ma è il prodotto di innumerevoli operatori che ne modificano l’immagine mentale”
dice Lynch. La diversa percettibilità degli spazi urbani deforma l’impedenza spaziale fra due luoghi, che non
è più, in modo deterministico, dipendente dalla loro distanza geometrica o, almeno, non solo.
L’immagine ambientale è dunque il risultato di un processo reciproco tra l’osservatore e il suo ambiente
e di conseguenza varia da un osservatore all’altro. Tuttavia essa risulta essere coerente tra i membri di uno
stesso gruppo; viene in questo caso detta immagine pubblica, ed è quella di cui si interessano gli urbanisti.
Secondo Lynch, l’immagine ambientale può venire scomposta in tre componenti:
identità: capacità dell’oggetto di distinguersi da altre cose;
struttura: relazione schematica o spaziale dell’oggetto con l’osservatore;
significato: relazione emotiva o pratica che l’oggetto ha con l’osservatore, collegato o meno alla forma fisica dell’oggetto.
Esempi applicativi del metodo di Lynch possono considerarsi due analisi da noi condotte su Lacedonia
(Av) [TAV.V.40] e San Paolo Belsito (Na)[TAV.V.41]: si tratta di due mappe (entrambe dell’autore), di cui la prima
registra i luoghi di un autoctono, l’altra è il prodotto di uno studio condotto da un architetto non nativo.
Entrambe individuano punti, cerniere percettive, emergenze e barriere tipiche dell’analisi lynchiana. In
particolare la prima riguarda un luogo (Lacedonia) in parte mutato morfologicamente: non esiste più il serro
del vento (Serro di Zunzolo in IGM), mangiato dalla fabbrica di laterizi ivi collocata e anch’essa scomparsa.

106
107
Inoltre compaiono nella mappa delle barriere, non fisiche ma ugualmente rilevanti, dovute a divieti familiari o
sociali verso luoghi ritenuti pericolosi come torrenti, burroni, o troppo lontani da raggiungere a piedi.
Quanto a San Paolo Belsito e alla chiesa omonima, è interessante ricordare che il campanile fu edificato
sull’asse prospettico della preesistente strada (importante già allora come legamento tra due nuclei urbani e
via commerciale), il che fa, di questo, un caso quanto mai calzante per l’applicazione dell’analisi di Lynch.
Non considerate da quest’ultimo sono alcune emergenze per così dire non visibili, che attengono ad altri
sensi quali l’olfatto o l’udito o lo stato dell’aria. Il serro del vento [TAV. V.33.8] a Lacedonia, oltre ad un’emergenza
orografica lo era anche per la corrente d’aria che costantemente faceva volare gli aquiloni, Ivi un altro
toponimo, “il mulino a vento” (il mulino era scomparso da tempo) segna la stessa pneumo-emergenza. A
Monteverde (AV) una pneumo-emergenza sta sotto le mura del castello a NW. Un’altra si trova a San Giorgio

108
a Cremano [TAV. V.40.2F] in un punto di piazza Troisi; qui la corrente d’aria è determinata dal trovarsi il punto
2F sulla corrente d’aria mare-atrio del cavallo (tra il Vesuvio e Monte Somma), per cui è frequentato d’estate
e rifuggito d’inverno. A Mirabella (AV) una processione religiosa che si svolgeva in primavera si diceva si
fermasse sotto il Castello nei pressi di una fontana in un largo detto dei 4 venti.
Ma anche le emergenze olfattive sono fondamentali per entrare in empatia coi luoghi: pensate ai forni, o
alle friggitorie, che fanno dell’odore emanato anche un’efficace comunicazione pubblicitaria. Una volta l’odore
dell’albero del canforo ancora esistente al bordo del parco Vennucchi a San Giorgio a Cremano si avvertiva

109
dalla strada ed era il posto dove sostavano i vecchi o gli affetti da malattie respiratorie L’olezzo della canapa,
coltivata fino al 1975 in Terra di Lavoro, avvertiva il viaggiatore proveniente da Napoli che Caserta era vicina.
Questi modi di vedere la città, che chiunque può usare in rapporto alla propria cultura e sensibilità, hanno
il merito di restituire al fruitore le ragioni profonde del suo spontaneo ‘sentire il luogo’, alimentandolo con
l’uso contestuale di diversi linguaggi. Di certo questi modi di vedere hanno radici profonde e lontane, se si
pensa che erano già in nuce nel saggio di uno studioso come Bruno Zevi. Il suo “Saper vedere l’architettura”
è del lontano 1948, quando non tutti avevano cura di ricostruire il paese immateriale oltre quello materiale,
quando chi ha scritto queste 111 pagine aveva appena otto anni e, inconsapevole, costruiva quella mappa del
suo paese che dà oggi contenuto alla TAV. V.33 di questo volume.

110
VI LA CITTÀ AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

Di certo non è la prima volta che le città sono costrette ad affrontare una pandemia. In un interessante
articolo di di Tommaso Giagni su: L’Espesso del 5 luglio 2020: Dopo il virus riprendiamoci le città: Anzi,
cambiamole, si citano vari periodi storici in cui, nelle città a causa di colera, peste colera e similia, sono state
forzatamente chiuse locande, bettole, chiese, interi rioni e piazze e mutate abitudini e usi, comportamenti
sociali che hanno alla lunga trasformato le città stesse. Le piazze del Rinascimento non sono diverse da quelle
medievali solo perché rispondevano a dei modelli: la dilatazione degli spazi, la limitazione del numero di
piani e quindi dell’affollamento, il generale diradamento urbano, l’aumento di opere pubbliche quali
acquedotti, irregimentazioni delle acque superficiali, pavimentazioni stradali, tutto questo era dettato anche
da esigenze di igiene. Le quali obbligano anche ad una distanza interpersonale che, per una cultura come la
nostra, rappresenta sempre un mutamento forzato del gradiente di fisicità nelle relazioni sociali. Dice Giovanni
Semi che insegna Culture Urbane all’Università di Torino:
«L’essere umano ha vissuto uno shock globale, mediato dalle differenze interculturali: il distanziamento in alcune
culture asiatiche o nordeuropee era più accettato, mentre lo era meno nel Sud Europa o in America Latina. Si è tem-
poraneamente distrutta la fiducia interpersonale, moneta di scambio di ogni relazione. Se scompare la fiducia tra
persone, crolla il capitale sociale e diventa più rigido e complicato parlarsi, stare e fare cose assieme.»
E la già citata Margherita Manfra:
«Sembra ci si sia accorti del ruolo essenziale degli spazi pubblici nella vita urbana proprio quando questo è stato ne-
gato. Nel momento in cui abbiamo finalmente ricominc. Iato ad abitarli, lo abbiamo fatto in modi nuovi.»
Ma il portato più importante in seguito al Coronavirus deve ancora venire e riguarda le conseguenze della
riduzione e costrizione in corridoi della mobilità. Per Coppola molto riguarderà le forme spaziali
dell’organizzazione sociale:
«Su scala globale si parla di accelerazione dei processi di de-globalizzazione. Potyremmo immaginare una relativa
re-industrializzazione di alcuni territori e in generale una maggiore ricchezza funzionale». Ridurre la mobilità pro-
durrebbe impianti considerevoli, come sta già facendo sui flussi di merci e quelli turistici [Giagni] «È evidente la crisi
di quelle città che hanno riconvertito intere zone e pezzi di economia urbana al turismo: si pensi a quanto sono
spettrali oggi i nostri centri storici».
Giovanni Semi è più cauto di fronte a ipotesi di discontinuità:
«Due forze spingono per il ripristino del mondo come lo conoscevamo: da un lato il capitalismo a cui servono la
continua circolazione di merci e il loro consumo per potersi riprodurre, dall’altro il bisogno umano di stare assieme.
Credo che vedremo ristrutturazioni di entrambe le dinamiche. In fondo la questione riguarda il motore del capitalismo:
si è solo temporaneamente fermato o è anche danneggiato?»
Si tratta di vedere se il nuovo uso dello spazio indotto dalla pandemia resisterà alla restaurazione dei
comportamenti di prima e se sarà utile all’economia del consumo, che certo non arretra di fronte a norme
imposte, ma solo a nuovi modi di vivere. Sarà una difficile partita.

111

Potrebbero piacerti anche