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Questioni critiche

relative al VI Rapporto Periodico dell’Italia sulla CEDAW

sottoposto al Comitato per l’applicazione della Convenzione


dalla piattaforma italiana “Lavori in Corsa – 30 anni CEDAW”
Rapporto a cura di:
Barbara Spinelli – Giuristi Democratici

Traduzione dall’inglese a cura di:


Claudia Signoretti – Fondazione Pangea onlus

Contributi di:
Beatrice Costa: ACTIONAID
Oria Gargano, Francesca De Masi, Maria Silvia Soriato: BE FREE
Teresa Manente, Ilaria Boiano, Elisa Ercoli, Chiara Scipioni: DIFFERENZA DONNA
Anna Pramstrahler: D.I.RE Donne in rete contro la violenza
Barbara Spinelli: GIURISTI DEMOCRATICI
Monica Mancini: IMED
Maria Grazia Ruggerini: LE NOVE
Augusta Angelucci: Ospedale San Camillo Forlanini
Claudia Signoretti, Ana Maria Gallareta & Simona Lanzoni: FONDAZIONE PANGEA
Giovanna Piaia: Assessora alle Pari Opportunità del Comune di RAVENNA

Contatti:
Shadow Report Rapporteur: 30YEARSCEDAW@gmail.com
Segreteria Lavori in Corsa: coordinamento.cedaw@womenin.net
Tel: +39 3406248970; +39 3401110199
Fax: +39 051238468; +39 +39 02 29537373

Sito Web: www.womenin.net/web/cedaw/home

Ottobre 2010
SESSIONE PRELIMINARE CEDAW 25 - 29 ottobre 2010

1
Introduzione
“Lavori in corsa – 30 anni CEDAW” è una piattaforma italiana di associazioni e singole donne impegnate nella ricerca,
nell’attivismo e nella formazione sui diritti delle donne e che adotta una prospettiva di genere nella cooperazione
internazionale. Insieme abbiamo deciso di promuovere un progetto di sensibilizzazione e informazione per celebrare il
XXX anniversario della CEDAW (nel 2009): da novembre 2009 abbiamo organizzato una serie di eventi in diverse città
italiane, in collaborazione con gli enti locali. Dal momento che lo scorso dicembre il Governo italiano ha presentato il suo
VI rapporto periodico al Comitato CEDAW, abbiamo deciso di collaborare all’elaborazione dello Shadow Report
(Rapporto Ombra) che dovrà essere consegnato prima della sessione del Comitato CEDAW del 2011, quando verrà
discusso e valutato il rapporto governativo dell’Italia. Il nostro rapporto conterrà un’analisi del VI Rapporto periodico, una
controinformazione, una testimonianza delle principali sfide affrontate dalle donne in Italia, una lista di questioni
problematiche identificate dalle organizzazioni che lavorano per i diritti delle donne così come alcune raccomandazioni
per migliorare le politiche e le pratiche per l’adempimento degli obblighi previsti dalla CEDAW nel nostro Paese.
Con questo documento vogliamo presentare al Comitato CEDAW un breve elenco di questioni critiche che possano
essere prese in considerazione durante l’incontro del gruppo di lavoro della sessione preliminare previsto per il 25-29
ottobre 2010, nel corso del quale verrà preso in esame il VI rapporto periodico dell’Italia, e che possa essere utile per la
formulazione di ulteriori interrogativi al Governo italiano.
On knowledge and awareness of CEDAW in Italy
La diffusione e l’utilizzo della CEDAW in Italia
In Italia la CEDAW non ha visibilità. Nonostante le raccomandazioni generali (n.6 par.2 e n.25 par.2) e le
raccomandazioni specifiche rivolte nel 2005 dal Comitato all'Italia, la Convenzione, le Raccomandazioni Generali e il
Protocollo Opzionale non sono mai stati ufficialmente tradotti in italiano. Il sito ufficiale del Ministero per le Pari
Opportunità fornisce solo un link al sito ufficiale della CEDAW ma non è disponibile una versione italiana dei documenti.
La CEDAW generalmente non è utilizzata nei tribunali e non è presente nei programmi dei corsi di laurea in
Giurisprudenza né nei programmi di formazione forense. Neppure il Parlamento, che ha ratificato la CEDAW quasi 30
anni fa, si è mai impegnato per aumentare la visibilità della CEDAW o per monitorarne l’implementazione.
In occasione del trentesimo anniversario della Convenzione, non è stata organizzata alcuna iniziativa ufficiale per la
celebrazione dell'evento e solo qualche Ente locale ha aderito alla campagna d’informazione “Lavori in corsa - 30 anni
CEDAW” promossa dalla società civile1.

Il rapporto del Governo italiano


Le Raccomandazioni del Comitato n.12, 38, 41 sono state completamente disattese dal Governo: il VI rapporto periodico
non è stato discusso né in Parlamento né in pubblico e il processo di consultazione con la società civile è stato poco
chiaro in termini di finalità, tempistica e soggetti coinvolti.
- Nel 2006, grazie a un appello firmato da circa 100 organizzazioni e singole donne, è stata presentata
un’interrogazione parlamentare a risposta scritta alla Camera dei Deputati indirizzata al Ministero per le Pari
Opportunità2. Il documento denunciava l’inadempienza del Governo nel divulgare la CEDAW e la mancanza di
trasparenza nel lavoro di preparazione e stesura del rapporto ufficiale. Si chiedeva al Governo se avesse
intenzione di dare un'ampia diffusione in Italia dei commenti conclusivi al fine di rendere i cittadini, compresi i
funzionari di Governo, i politici, i parlamentari e le organizzazioni di donne e di diritti umani, consapevoli dei
passi in avanti intrapresi per assicurare, di fatto e di diritto, la parità delle donne, nonché degli ulteriori passi
necessari a tal proposito. Il Governo non ha mai risposto.
- Nel 2010 un gruppo di donne impegnate nell’elaborazione dello Shadow report ha richiesto in un incontro
informale con il rappresentante di competenza del Governo3 la traduzione in italiano e la pubblicazione del VI
rapporto periodico, ma nel corso dello stesso incontro è stato esplicitato che il Governo non può procedere per
assenza di fondi.

1 Si veda il calendario degli eventi alla pagina: www.womenin.net/web/cedaw/home


2 Interrogazione a risposta scritta n. 4/02065 presentata dalle parlamentari De Simone, Deiana, Dioguardi il 4.12.2006 durante la sessione della Camera dei Deputati
n. 090.
3 Beatrice Costa, Titti Carrano, Barbara Spinelli e Simona Lanzoni (per conto della campagna CEDAW) hanno incontrato lo scorso 1° giugno 2010 il Ministro

Valentino Simonetti, ex-presidente del Comitato interministeriale per i Diritti Umani all’interno del Ministero degli Esteri.
2
I fattori chiave relativi alle discriminazioni nei confronti delle donne in Italia
Le organizzazioni che collaborano allo Shadow Report hanno identificato alcuni elementi di cruciale importanza e
propongono che tali questioni siano affrontate nel corso della discussione che si svolge in occasione della Sessione
preliminare.

1. Carente adozione della prospettiva di genere, del gender mainstreaming e del bilancio di genere
(ARTICOLI 1-4 CEDAW)
I. Nessun progresso è stato fatto in riferimento alle Raccomandazioni del Comitato n. 20-24. Nello sviluppo di politiche
per la parità di genere, il Governo italiano non fa mai riferimento alla CEDAW e non presta attenzione ai temi di
principale preoccupazione e alle raccomandazioni indicate dal Comitato nelle osservazioni conclusive dell’ultimo
rapporto. Sembrerebbe che il Governo non abbia chiare le obbligazioni assunte sotto la Convenzione e non finalizzi
le sue azioni, le politiche e i documenti programmatici utili all'implementazione della Convenzione.
II. Il Ministero per le Pari Opportunità è competente per diversi tipi di discriminazione, oltre a quella di genere. Le
questioni di genere costituiscono solo una delle aree di azione e ciò contribuisce a far sì che tuttora le donne
vengano considerate, alla pari di disabili e minori, una categoria di “soggetti deboli” che lo Stato ha il dovere di
tutelare. Il Governo così come il Ministero per le Pari Opportunità considerano la discriminazione contro le donne
semplicemente come una delle tante forme di discriminazione, senza riconoscere la sua specifica natura di genere.
Di conseguenza, il Governo non è stato in grado di sviluppare una strategia efficace per risolvere il problema della
sotto-rappresentanza e della ridistribuzione del potere e delle risorse tra uomini e donne.
III. Considerando l'assenza di dialogo da parte del Governo italiano con le ONG e le associazioni femminili, l’assenza di
un’istituzione nazionale indipendente di monitoraggio sui diritti umani4 rende difficile per la società civile
interloquire e contribuire alla creazione di una strategia coerente, integrata ed efficace di contrasto alle
discriminazioni di genere e monitorare l’efficacia dei piani d’azione sviluppati dal Governo.
IV. Permane un grande divario tra uguaglianza formale e sostanziale. La definizione di discriminazione contro le
donne contenuta nel Codice delle Pari Opportunità è più ristretta rispetto a quella prevista dall’art.1 della
CEDAW e copre solo la discriminazione in materia di occupazione e impiego, riguardante le condizioni di accesso al
lavoro e a tutti i tipi e livelli di formazione professionale, le condizioni di lavoro (incluso pubblico impiego, carriera
militare, affiliazione e attività in sindacati di lavoratori o datori di lavoro) e l’accesso alle prestazioni previdenziali.
V. Il Codice delle Pari Opportunità ha modificato la legge n.125/91 contro le discriminazioni in termini di minore tutela.
Mentre la legge 125/91 considerava discriminatorio ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di
criteri che svantaggiassero in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell'uno o dell'altro sesso e
riguardassero requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa, il Codice delle Pari Opportunità
considera ora discriminatorio ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che pongono le
donne “in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell'altro sesso”. Pertanto è considerato
discriminatorio solo un trattamento che genera uno svantaggio significativo per le donne e non qualsiasi trattamento
che differenzia il trattamento di uomini e donne.
VI. I procedimenti giudiziari contro le discriminazioni di genere sono possibili solo nel campo del lavoro, della
formazione e sindacale; sono difficili e piuttosto onerosi da azionare. Le leggi antidiscriminatorie sono inefficaci nel
contrastare le discriminazioni di genere al di fuori dell’ambito lavorativo. Le sanzioni sono previste soltanto per le
discriminazioni nell’accesso e nella fornitura di beni e servizi. Non vi è alcuna sanzione, né normativa in ambito
fiscale-tributario, nella materia della rappresentazione dei sessi sui media, nell’istruzione e riguardo all’assenza delle
donne nei processi decisionali. Si tratta di ambiti che erano inizialmente inclusi nella dir. Servizi, 113 del 2004..
VII. Le Consigliere di Parità vedono sempre maggiormente erosi i loro poteri e la loro indipendenza. Con una procedura
contraria alla legge, il Ministro Sacconi, il 4 novembre scorso, ha sollevato dal suo incarico la Consigliera nazionale
di parità Fausta Guarriello, nominata dal precedente Governo. Il decreto di revoca della Consigliera è stato firmato
dal Ministro del Lavoro e dalla Ministra per le Pari Opportunità dopo che la Consigliera aveva espresso parere
negativo sulla abrogazione della legge n.188 del 17 ottobre 2007, una legge voluta dal Governo Prodi, approvata con
voto quasi unanime nella scorsa legislatura su iniziativa delle parlamentari di tutti gli schieramenti politici, per
contrastare le dimissioni in bianco5. La Consigliera di parità segnalava che “l’abrogazione della legge 188 del 17

4 Si vedano anche altre Raccomandazioni rivolte all’Italia: REC 15/2003 CRC, REC. 14/2004 and 32/2004 CESCR, REC 7/2006 ICCPR, REC. 8/2007 CAT, REC
13/2008 CERD
5 Il termine dimissioni in bianco indica una pratica, illegale, tesa ad obbligare i neoassunti a firmare una lettera di dimissioni priva di data, contestualmente alla

sottoscrizione del contratto di lavoro. Il documento può essere usato dal datore di lavoro in qualsiasi momento, a sua discrezione, per licenziare il dipendente: la data
è apposta al momento del licenziamento. Tale pratica è stata utilizzata illegalmente soprattutto a danno delle donne, per le quali le dimissioni in bianco entrano
spesso in vigore durante il periodo di gravidanza e post-parto.
3
ottobre 2007 sulle dimissioni volontarie, legge approvata con voto quasi unanime nella scorsa legislatura su iniziativa
delle parlamentari di tutti gli schieramenti politici, lascia prive di tutela le lavoratrici in un momento particolarmente
critico quale quello della gravidanza e del rientro dalla maternità”. Nel decreto si specificava che, contrariamente a
quanto previsto dalla legge, “la Consigliera di Parità non è un’autorità indipendente” e che il motivo della revoca
consisteva nella “mancanza di sintonia con gli indirizzi politici del Governo” e nel fatto che il Governo riteneva che la
Consigliera nutrisse un “evidente pregiudizio nell’attuazione delle linee di azione che il Governo intendeva perseguire
in materia”.Ad oggi, non sono stati previsti nuovi strumenti di tutela per contrastare il fenomeno delle dimissioni in
bianco.
VIII. Il Governo italiano non ha preso alcun provvedimento per promuovere l’analisi di genere del bilancio e la
valutazione dell’impatto di genere delle politiche pubbliche a livello nazionale. Solo pochi enti locali (alcuni Comuni,
Province, Regioni) hanno introdotto il bilancio di genere6.

2. I ruoli di genere e gli stereotipi sessisti (ARTICOLO 5 CEDAW)


Le raccomandazioni del Comitato n.25 e 26 sono state completamente disattese dal Governo. Persiste una
rappresentazione degradante delle donne nei mass media così come nel dibattito politico.
I. Lo Stato italiano non è stato in grado finora di affrontare il problema della rappresentazione sessista delle donne
ampiamente diffusa in ogni forma di annuncio pubblicitario. I corpi nudi delle donne vengono utilizzati per vendere
ogni tipo di prodotto. Non c’è alcun controllo preventivo per verificare se una pubblicità sia discriminatoria nei
confronti delle donne: di conseguenza le pubblicità maschiliste e offensive restano esposte o vengono trasmesse a
lungo. Sebbene sia possibile ricorrere all'istituto dell'autodisciplina pubblicitaria7, gli stereotipi sessisti non sono
esplicitamente vietati da un’apposita norma del relativo codice di autodisciplina.
II. In molte trasmissioni televisive la presenza della donna risponde a una funzione prevalentemente ornamentale8:
troppo spesso è svestita e in silenzio.
III. I rappresentanti del Governo e del Parlamento sempre più spesso usano espressioni sessiste, sia in modo
metaforico (l’On. Cicchitto, parlamentare nel partito di maggioranza, sulla vittoria del PDL alla Presidenza della
Regione Piemonte, ha dichiarato pubblicamente che la vittoria su Mercedes Bresso “è stata come uno stupro”), sia
stereotipando le donne nel complesso (durante una trasmissione televisiva alla domanda di una ragazza sulle
difficoltà delle giovani coppie di formare una famiglia o affrontare un mutuo, data la situazione di precariato
generalizzata, Berlusconi ha risposto che una giovane con un così bel sorriso avrebbe potuto risolvere ogni
problema sposando suo figlio o il figlio di qualche uomo ricco9). I dibattiti politici sottolineano l’importanza della
bellezza come chiave del successo per le donne in politica e nella carriera professionale (durante una famosa
trasmissione televisiva Berlusconi ha detto all’On. Rosy Bindi – Vice Presidente della Camera dei Deputati – “Lei è
più bella che intelligente”10). Si potrebbero citare molti altri esempi a riguardo ma in sintesi la questione è che troppo
spesso i politici promuovono una mentalità sessista e discriminatoria e le istituzioni preposte alla parità di genere non
esprimono alcun disappunto per questo tipo di dichiarazioni o atteggiamenti.

3. Il numero delle donne nei processi decisionali è ancora troppo basso (ARTICOLI 7-8 CEDAW)
Le raccomandazioni del Comitato n.27-28 sono state completamente disattese dal Governo.
I. Il numero di donne elette sia a livello locale che nazionale è ancora esiguo. Benché la maggioranza dei partiti
politici prevedano nei propri regolamenti interni norme sulla parità di genere o quote per le candidature e le cariche,
molte di queste norme interne non vengono attuate con regolarità.
II. Con la riforma dell'art. 51 della Costituzione, è possibile modificare la legge elettorale per l’elezione al parlamento
nazionale inserendo l’obbligo della parità di genere. Tuttavia il Governo non ha adottato alcuna misura per
promuovere l’uguaglianza sostanziale sul piano della partecipazione politica, nonostante ce ne sia stata la possibilità
con la riforma del sistema elettorale dell'ottobre del 2005, che ha sancito il passaggio dal sistema elettorale
maggioritario misto a un sistema proporzionale a liste chiuse. In quella occasione, un emendamento sulla presenza
nelle liste elettorali di uno dei due sessi di almeno il 30% fu bocciato con voto segreto trasversale maschile in
Parlamento.
III. Sono sempre più frequenti i casi di ricorso al TAR contro le giunte e i consigli degli enti locali che sono composti di
soli maschi (è il caso dei consigli regionali della Calabria e della Basilicata). Tuttavia, ogni caso è affrontato a

6 Si veda ad esempio www.genderbudget.it; www.bilanciodigenere.it


7 Si veda: www.iap.it
8 Si veda il video-documentario “Il corpo delle donne” di Lorella Zanardo: www.ilcorpodelledonne.net
9 http://www.youtube.com/watch?v=WlY5UeYeePs&feature=related
10 http://www.youtube.com/watch?v=NJO5VJvx-rM

4
posteriori ed in via eventuale. Attualmente infatti non vi sono altre misure concrete per assicurare il diritto al rispetto
della composizione di genere negli organismi politici, se non ricorrere giudizialmente per chiedere lo scioglimento
delle Giunte che non rispettano i criteri 11.
IV. Il VI rapporto periodico risponde agli impegni previsti dall’art.8 fornendo solo il numero delle donne nei servizi
diplomatici e nell’esercito, senza tener conto, tuttavia, dell’anzianità e delle posizioni decisionali ricoperte, né di quei
fattori critici che tuttora ostacolano una rappresentanza egualitaria delle donne e la loro partecipazione agli organi
decisionali dei principali organismi internazionali.
V. Per quanto riguarda la presenza delle donne nel settore della Difesa, sulla base dei dati del 200912, il rapporto non
chiarisce cosa s’intenda con l’affermazione “Non vi è dubbio che questo è uno di quei settori in cui vi è il
riconoscimento del ruolo giocato dalle donne sul campo sia in Italia che nelle missioni all’estero”. Crediamo che la
mancanza di un’analisi critica sul tema sia legata all’assenza di una riflessione nel quadro di una visione più ampia
sull’implementazione della Risoluzione ONU 1325/2000 che è molto più articolata. L’Italia è uno dei Paesi dell’UE
che ancora non ha adottato un Piano Nazionale d’Azione per l’implementazione della UNSCR 1325 (e le successive
risoluzioni in materia di donne, pace e sicurezza).
VI. È fonte di grande preoccupazione la generale mancanza di risorse umane e finanziarie per la cooperazione italiana
allo sviluppo e lo scarso mainstreaming di genere all’interno delle diverse strutture e funzioni dell’agenzia. Il rapporto
ufficiale non fornisce alcuna spiegazione su cosa sia stato fatto per supportare la leadership delle donne nelle
istituzioni globali e non fornisce dati completi a tal proposito (ovvero dati disaggregati per sesso per tutte le istituzioni
internazionali in cui l’Italia è rappresentata).

4. La mancanza di adeguate politiche per le donne disoccupate o in condizione di povertà


(ARTICOLI 11-13-14 CEDAW)
Il Governo non ha affrontato efficacemente il problema della povertà delle donne e non ha sviluppato una politica
nazionale tesa a ridurre il divario tra le regioni del nord e del sud Italia (si veda anche la Raccomandazione n.29/2004 e
41/2004 CESCR) e per garantire i servizi di base in tutto il Paese.
I. Le donne risultano maggiormente soggette al rischio di povertà. La Raccomandazione n.30 non è stata
sufficientemente implementata dalle politiche governative e la situazione lavorativa e di protezione sociale delle
donne italiane, anche a causa della crisi economica, è peggiorata. In Italia le donne maturano meno anni di contributi
(il 52% è al di sotto dei 20 anni di contributi), percepiscono redditi da lavoro inferiori (l’indagine ISFOL Plus-2005
indica una divergenza media del 22%), hanno una maggior incidenza di lavoro precario o irregolare, e sono quindi
più esposte al rischio povertà. Rispetto all’indice di povertà assoluta, le donne rappresentano il 53,6% e le proiezioni
future prefigurano un aumento di tale rischio dovuto all’introduzione di un legame più stretto tra contributi versati e
benefici previdenziali ricevuti.
II. Uno studio13 evidenzia come la protezione contro l’esclusione sociale delle donne ed in particolare delle madri sia di
scarsa entità e poco efficace. Spesso la povertà femminile economica e socio-culturale è abbinata alla maternità
proprio per mancanza di servizi sociali (quali asili nido, assegni familiari, bonus bebé e altre buone pratiche
fortemente incentivate in altri Stati europei), miranti ad aiutare le donne a mantenere un lavoro o a cercarne uno.
Complessivamente in Italia, le mamme povere con almeno un figlio minorenne sono poco più di 1 milione, pari al
59,7% delle madri povere e all’8,73% delle mamme italiane. L’86,3% vive in coppia, il 7,5% è sola, mentre il restante
6,2% vive in famiglie allargate. Il quadro delineato dall’ultimo Rapporto CISF 200914 evidenzia che la spesa media
mensile per i figli a carico è il 35,3% della spesa familiare totale. I criteri di accesso per gli assegni per il nucleo
familiare in Italia sono molto selettivi rispetto agli altri Paesi europei: infatti, l’assegno al nucleo familiare è destinato
solo a chi ha un reddito prevalentemente da lavoro dipendente, quindi esclude chi non ha un reddito regolare, ma
anche gran parte delle lavoratrici con contratto atipico.
III. Il Piano d’Azione Italia 2020 per promuovere l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro15, elaborato
congiuntamente dai Ministri del Welfare e delle Pari Opportunità nel dicembre del 2009, non risponde alle
raccomandazioni della CEDAW. I dati Istat16 hanno recentemente mostrato che il tasso di disoccupazione femminile
per l’ultimo trimestre dell’anno sono aumentati dall’8,8% del 2009 al 9,4% del 2010. Il 48,6% della popolazione

11 L'associazione UDI (Unione Donne in Italia) ha lanciato una campagna chiamata “50e50 Ovunque si decide” il cui messaggio principale si è tradotto in una
proposta di legge di iniziativa popolare: 120.000 firme sono state depositate al Senato nel novembre 2007, ma l’esame della legge è tutt’ora fermo alla Commissione
Affari costituzionali del Senato.
12 Si veda il National Report che è possibile scaricare dal sito: http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_50327.htm
13 Condotto da Cittaitalia nel 2010 sulla condizione di povertà delle madri in Italia
14 P. Donati “The costs of children: which welfare for the families?” Report CISF, FrancoAngeli, Milano, 2009
15 Per informazioni: www.pariopportunita.gov.it/images/stories/documenti_vari/UserFiles/PrimoPiano/piano_italia_2020.pdf
16 Si vedano i dati: www.istat.it/salastampa/comunicati/in_calendario/occprov/20101001_00/testointegrale20101001.pdf

5
femminile italiana non si presenta nemmeno sul mercato del lavoro (la media europea si attesta intorno al 35,7%). Il
tasso di occupazione femminile in Italia nel 2009 è stato del 46,1% (nel sud Italia scende al 30,6%). I Dirigenti donne
in Italia sono l’11,9% (su una media europea del 33%). I progetti sperimentali sulla conciliazione tra lavoro
professionale e familiare, previsti dall’articolo 9 della legge 53/2000, non vengono più finanziati da febbraio 2009. Il
suddetto Piano d’Azione non prevede misure temporanee speciali per far fronte a questi fatti e l“inclusione delle
donne nel mercato del lavoro” viene ridotta in gran parte al problema della conciliazione famiglia e lavoro. Il “patto
intergenerazionale” è discriminatorio in sé: lo Stato chiede un patto tra mamme di due generazioni in forza nel quale
la nonna deve occuparsi dei nipoti per consentire alla mamma di lavorare per il mercato. La conseguenza è che
anche le opportunità di impiego per le donne nel settore dei servizi si riducono.
IV. Le giovani donne sono le più discriminate nel mercato del lavoro. Nonostante le studentesse conseguano spesso
risultati migliori dei loro coetanei, si registra un divario considerevole tra uomini e donne negli sbocchi occupazionali.
Una recente ricerca17 dimostra che il gap salariale tra laureate e laureati, di uguale produttività, è dell'11% già
all'inizio della carriera lavorativa e, in assenza di azioni positive mirate, tale gap è destinato a crescere con effetti
negativi per le donne e per l'intera società.
V. I dati nazionali aggregati sulla spesa pubblica rivelano che la quota destinata alla famiglia e alla maternità in Italia è
molto bassa (si vedano i dati Eurostat 200518). La gran parte della spesa pubblica è concentrata sulle pensioni (per
invalidità, vecchiaia e superstiti), con una quota del 60,7%, a fronte di una media UE15 del 45,7%. Sebbene le donne
vivano più a lungo, le pensioni in gran parte sono percepite da uomini. Questo perché le donne lavoratrici che
maturano una pensione sono una percentuale molto più bassa rispetto agli uomini, e anche il raffronto tra coloro che
percepiscono le pensioni di vecchiaia mostra marcati differenziali di genere (quasi il 50%), i più alti nell’UE2519.
VI. Le donne nelle zone rurali: il rapporto del Governo non affronta l’articolo riguardante i diritti delle donne contadine.
Non è stata sviluppata alcuna analisi e non è stato fornito alcun dato. Ciononostante è possibile rilevare un gap di
genere anche nella conduzione delle aziende agricole: solo un’azienda agricola su 3 è gestita da una donna20. Inoltre
le aziende a conduzione femminile hanno dimensioni mediamente inferiori a quelle gestite dagli uomini, con
ripercussioni negative sui risultati economici conseguiti rispetto al totale delle aziende agricole21. In Italia le donne
hanno minore accesso al capitale, alla terra e alle tecnologie22.
VII. In Italia le imprese femminili incontrano molte più difficoltà di accesso al credito; dipendono prevalentemente
dall’autofinanziamento (di famigliari e amici) e dal credito bancario. Un recente studio sull’accesso al credito23 ha
rilevato che le donne imprenditrici pagano un interesse più alto di 30-50 punti base. Tale differenziale non può
essere attribuito al maggior rischio di fallimento, dato che si è verificato l’esatto contrario: nel 2004 i tassi di fallimento
erano l'1,9% per le imprese femminili e il 2,2% per quelle maschili. Oltretutto alle donne che gestiscono microimprese
sono richieste garanzie molto maggiori di quelle richieste agli imprenditori uomini.

5. Nessuna garanzia di libero accesso alla salute sessuale e riproduttiva (ARTICOLO 12 CEDAW)
Le raccomandazioni n.33-34 del Comitato sono state completamente disattese dal Governo. L’accesso alla salute
sessuale e riproduttiva delle donne è fortemente ostacolato da questioni morali e da credenze religiose/personali di un
altissimo numero di medici e ginecologi obiettori di coscienza. Questo rende molto difficile per le donne accedere alla
pillola del giorno dopo e alla pillola abortiva. Di fatto nella maggior parte delle regioni italiane nei reparti di ginecologia ci
sono più obiettori che dottori disposti a praticare aborti24. Ciò nonostante il Governo non ha preso alcun provvedimento
per garantire una presenza regolare nelle strutture ospedaliere anche di medici non obiettori e per tutelare il diritto delle
donne al libero accesso ai servizi concernenti la salute sessuale e riproduttiva.
I. Ru 486 A differenza di molti Paesi europei, in Italia la RU486 è stata definitivamente approvata per uso generico e
per la distribuzione dall’Agenzia italiana per il farmaco il 31 luglio 200925. Le linee guida del Ministero della Salute, su

17 Castagnetti, C. e L. Rosti (2010) “The gender pay gap among Italian university graduates in the early years after labour market entry” in Quaderni del Dipartimento
di Economia politica e metodi quantitativi # 214 - (09/10).
18 Eurostat, Statistics in focus 46/2008, Social Protection in the EU, http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_OFFPUB/KS-SF-08-046/EN/KS-SF-08-046EN.PDF
19 Dati dell’Osservatorio sulle Pensioni, Inps, 2009: i redditi mensili medi relativi alle pensioni di vecchiaia percepiti dalle donne ammontano a circa 630€ contro una

media di 1219€ per gli uomini.


20 Fonte: www.agricolturaitalianaonline.gov.it
21 Veronica Rondinelli, L’imprenditoria femminile nel settore primario: alcune indicazioni dell’indagine sui risultati economici delle aziende agricole dell’anno 2002.

ISTAT.
22 L’ISTAT afferma che le dotazioni fattoriali (credito, terra e macchinari) per le donne sono mediamente pari al 60% di quelle maschili.
23 Alberto Alesina, Francesca Lotti & Paolo Emilio Mistrulli, “Do Women Pay More for Credit? Evidence from Italy”, Nber Working Paper 14202-2008) che prende in

considerazione oltre 150.000 piccole imprese (il 25% delle quali è gestito da donne).
24 Secondo l'agenzia ADNKronos il 59,5% dei ginecologi italiani attivi in strutture che effettuano l’interruzione volontaria di gravidanza è obiettore di coscienza. Con

punte del 92,6% in Basilicata e dell’80,5% del Veneto. E percentuali più basse in Calabria (39,9%) e Valle d’Aosta (20%).
25 Il 5 ottobre 2009 è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale l'autorizzazione al commercio del farmaco. Dopo un acceso dibattito tra i partiti politici e la società civile,

la distribuzione in Italia da parte dell’azienda produttrice è partita solo nell’aprile del 2010.
6
parere del Consiglio Superiore della Sanità interpretativo della legge 194/1978 (sull'aborto), prevedono la
somministrazione del farmaco in regime di ricovero ordinario. Questo significa che per le donne non è facile
accedere alla RU486, dal momento che le condizioni per l’ospedalizzazione e il ricovero variano da regione a
regione26.
II. Fecondazione assistita La legge 40/2004 in materia di fecondazione assistita prevedeva all’art.14, commi 2 e 3, il
divieto di congelamento degli embrioni e la possibilità di impianto di massimo tre embrioni e tutti in una sola volta. Di
conseguenza, a 5 anni dalla promulgazione della legge, i parti di gemelli e trigemini costituiscono il 3% dei nati
contro lo 0,8% della media europea27. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 151/2009 ha dichiarato illegittima
questa norma, ritenendo che comporta un’eccessiva tutela per l’embrione a scapito del diritto alla salute della donna,
sancito dall'art. 32 della Costituzione28. Tuttavia la sentenza non ha avuto efficacia pratica. Non è chiaro in che modo
il Governo voglia intervenire per disciplinare le tecniche di riproduzione assistita e la somministrazione della RU486 e
se verranno salvaguardati i principi dello stato laico, nel pieno rispetto dei diritti e delle esigenze delle donne in
condizioni di difficoltà.

6. Le discriminazioni multiple e intersezioni nelle discriminazioni nei confronti delle donne


Le raccomandazioni n.35-36 del Comitato non sono state attuate dal Governo Italiano. Non c’è una protezione legale
per le discriminazioni intersezionali. Molte donne subiscono discriminazioni in diversi ambiti per il semplice fatto di
essere donne, ma sono vittime di ulteriori discriminazioni in quanto disabili, migranti, Rom, Sinti, lesbiche o transessuali.
E’ fondamentale un rilevamento statistico delle discriminazioni con un approccio di genere per poter sviluppare politiche
adeguate.
I. Donne disabili (RACC. GEN. 18) In Italia manca ancora una sufficiente consapevolezza dell’esistenza di questa
duplice discriminazione e i suoi effetti sono scarsamente documentati. Le barriere architettoniche rimangono ancora
oggi uno dei principali ostacoli all'integrazione dei/delle disabili. Poco è stato fatto per fornire assistenza alle persone
disabili in generale e con una prospettiva di genere.
II. Donne migranti Nonostante le donne migranti rappresentino il 49,9% dei migranti regolari29, non è stata posta in
essere nessuna misura specifica per favorirne l'inserimento sociale.
I. Donne vittime di tratta (ARTICOLO 6): Nonostante la legge n.286/1998, art.18, troppe donne sono ancora
trafficate e deportate, e/o non ricevono un’adeguata assistenza perché a livello locale molti sindaci impongono
misure amministrative contro la prostituzione nei luoghi pubblici, senza alcuno sforzo di riconoscere alle
lavoratrici forzate del sesso lo status di vittima di violenza – come raccomandato dalla UE e dall’ONU – e senza
sufficienti azioni di monitoraggio e raccolta dati. A livello nazionale, il Ministero per le Pari Opportunità ha
elaborato una bozza del disegno di legge (A.S. 1079) che punisce la prostituzione nei luoghi pubblici con multe
e condanne alla reclusione. La prostituzione in luoghi chiusi diventa sempre più frequente, implicando notevoli
problemi in termini di applicabilità dell’art.18, dal momento che le donne non possono accedere ai programmi di
protezione.
II. Cittadinanza (ARTICOLO 9): Le politiche poste in essere dal Governo Italiano per garantire il diritto di
cittadinanza rendono difficile alle donne migranti la possibilità di intraprendere percorsi di inserimento sociale
ed economico realmente autonomi. In particolare per la peculiarità della composizione dei flussi migratori in
Italia molte donne arrivano al seguito dei mariti quando questi sono già sistemati, e di fatto le concessioni di
cittadinanza per matrimonio alle donne straniere sono state finora di gran lunga superiori (25.070) rispetto a
quelle per residenza (2.244). A tal proposito, con l’art. 1, comma 11, della legge n. 94/2009 sono state introdotte
alcune disposizioni restrittive in materia di acquisto della cittadinanza italiana per matrimonio, che vincolano
l’acquisto della cittadinanza italiana al requisito di residenza legale in Italia da almeno due anni dalla data di
celebrazione del matrimonio (mentre precedentemente erano sufficienti sei mesi di residenza) e al
superamento di un test di conoscenza della lingua e cultura italiana. Il sistema dei permessi di soggiorno pone
le donne immigrate sotto l’autorità dei propri congiunti maschi o del proprio datore di lavoro. Pertanto,
trovandosi in una situazione di subalternità, le donne tendono a non denunciare episodi di discriminazione,

26 Di conseguenza, in alcune regioni il farmaco viene somministrato in day hospital, in altre con il ricovero di tre giorni. I neo governatori delle regioni Piemonte e
Veneto, del partito di maggioranza della Lega, hanno in un primo momento dichiarato di voler negare l'autorizzazione all'acquisto e all'utilizzo della pillola. Il
Governatore della Regione Piemonte, Cota, ha dichiarato “lascerò la RU486 nei magazzini”, facendo intendere che avrebbe fatto ostruzionismo politico alla
distribuzione della pillola negli ospedali, nonostante le Regioni siano obbligate a erogare questo farmaco.
27 L'Espresso, Embrioni nel caos, di C. Valentini, 04/06/2009, p. 62-63
28 B Spinelli, Un'analisi sulla violenza di genere in Italia alla luce delle Raccomandazioni del Comitato CEDAW, http://femminicidio.blogspot.com; La Repubblica,

Rodotà S., “Sconfitto lo Stato Etico”, p.1, 02/04/2009.


29 Dossier Caritas/Migrantes, 2007

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violenza o molestia, per paura di essere espulse, di perdere il diritto di cittadinanza e perché temono
l’allontanamento dai loro figli.
III. Lavoro (ARTICOLO 11): Le donne migranti in coppia con figli hanno un tasso di occupazione più basso delle
italiane (41,5% contro 48,3%). I problemi di conciliazione lavoro e famiglia sono per le migranti molto più seri a
causa della mancanza di servizi sociali e delle reti di aiuto informale, un fondamentale supporto di cui si
avvalgono invece le donne italiane. Il risultato finale, quindi, è che in Italia le donne immigrate soffrono un
doppio problema e spesso una doppia discriminazione rispetto al lavoro30.
IV. Salute (ARTICOLO 12): Persiste per le donne migranti una grave carenza di informazione in merito alla
salute sessuale e riproduttiva. La nuova legislazione in materia di immigrazione obbliga i medici a denunciare
gli stranieri senza regolare permesso di soggiorno che si recano al pronto soccorso o alle visite mediche per
reato di immigrazione clandestina. Di conseguenza, per paura e disinformazione molte migranti irregolari si
sono allontanate dai servizi, creando circuiti clandestini di cura, con ricadute nefaste sulla loro salute sessuale
e riproduttiva. La garanzia di assistenza pediatrica ai bambini nati in Italia da famiglie di immigrati irregolari è a
rischio31.
V. Mutilazioni Genitali Femminili (RACC. GEN. 19): La legge n.7 del 9 gennaio 2006 “Disposizioni concernenti
la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile” criminalizza e sanziona le mutilazioni
genitali femminili e prevede una serie di campagne informative, iniziative di sensibilizzazione, l’istituzione di un
numero verde e corsi di perfezionamento diretti al personale sanitario e alla popolazione immigrata. Il 6
settembre 2006 si è inoltre insediata la Commissione per la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione
genitale femminile con il compito di elaborare le Linee Guida destinate alle figure professionali sanitarie e
individuare un programma di prevenzione, assistenza e riabilitazione delle bambine già sottoposte a pratiche di
mutilazione genitale femminile. In realtà, il servizio di assistenza e di prevenzione è ben lungi dall'essere fruibile
per le donne migranti: come risulta dal sito del Ministero della Salute ad oggi solo in 7 Regioni e nella Provincia
Autonoma di Bolzano esistono strutture in grado di ricevere ed assistere donne che abbiano subito questo tipo
di pratiche. Il disegno originario della suddetta legge prevedeva anche la possibilità per le donne migranti e per
le loro figlie di ottenere il riconoscimento della protezione internazionale se nel Paese di origine tale pratica non
era criminalizzata. Nel testo definitivo della legge 7/2006 l’articolo che faceva riferimento alla protezione
internazionale non è stato approvato, e ancora oggi in Italia è estremamente difficile ottenere la protezione
internazionale per le donne che, rientrando nel Paese di origine, rischiano di essere mutilate. La Cassazione32,
contrariamente a quanto sancito a livello internazionale dall’ONU e dall’UNHCR (Alto Commissariato ONU per i
rifugiati), ha ritenuto che le mutilazioni genitali femminili non costituiscono una forma di persecuzione basata sul
genere ma una forma di “sudditanza” cui le donne sono soggette in numerosi Paesi del mondo, come tale non
meritevole di protezione internazionale. In Italia dunque per le donne mutilate è estremamente difficile ottenere
asilo, perché le mutilazioni vengono considerate solo come una lesione fisica e non come una forma di violenza
perpetrata sulla base di una discriminazione di genere.
VI. La violenza durante la detenzione nei centri di identificazione ed espulsione (RACC. GEN. 19):
Riguardo ai Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) - in Italia attualmente 13, per 1814 immigrati irregolari
di entrambi i sessi -, diverse organizzazioni istituzionali e umanitarie33 hanno denunciato una serie di questioni
problematiche. Le critiche erano rivolte alle strutture – il tipo di alloggio, il cibo, le bevande, l’assistenza medica,
la sanità e i notevoli problemi umanitari. La Corte Costituzionale (sentenza n. 105/2001) ha dichiarato che il
trattenimento dello straniero presso i CIE è misura incidente sulla libertà personale, che non può essere
adottata al di fuori delle garanzie dell’art. 13 della Costituzione. Per quel che riguarda le donne, sono stati
riportati diversi casi di violenza multipla, tra cui i più comuni sono i casi di molestie sessuali (a settembre 2010
un ufficiale di polizia è stato condannato ufficialmente per abusi nei confronti di alcune donne nigeriane nel CIE
di Ponte Galeria a Roma). Ci sono stati anche molti casi di autolesioni: una ragazza tunisina, Najova, detenuta
nel CIE di Bologna, si è cucita le labbra per protestare contro il rigetto della sua domanda di asilo politico. Nel
suo Paese d’origine, Najova era stata ripudiata e minacciata di morte dalla sua famiglia per la sua relazione con
un uomo e la successiva, illegittima, gravidanza. Nel CIE di Bologna, Faith, una ragazza nigeriana richiedente
asilo, è stata rimpatriata in Nigeria dove rischia di essere condannata a morte34 perché accusata dell’omicidio
del suo datore di lavoro, un uomo anziano molto influente nella sua città, che aveva tentato di stuprarla.

30 ISTAT. Tratto da: http://www.istat.it/istat/eventi/2007/globalforum/lunedipomeriggio/Sabbadini%20italiano.pdf


31 Si ricorda che una donna ha diritto a un permesso di soggiorno valido fino a sei mesi dalla nascita del figlio.
32 Cass. civ. n.24906/2008
33 I rapporti di Medici senza frontiere 2005 e 2009, Amnesty International (AI Index: EUR 30/04/2005); Steffan de Mistura Commission Report 31.1.2007; Comitato per

la prevenzione della tortura, Comitato diritti umani delle Nazioni Unite, Federazione internazionale dei diritti dell’uomo [FIDH]
34 Faith è stata condotta al CIE perché aveva chiamato la polizia dopo aver subito un altro tentativo di violenza sessuale. Ora è in carcere in Nigeria in attesa del

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VII. Le ragazze di seconda generazione (RACC. GEN. 19): L’integrazione dei/delle ragazzi/e di seconda
generazione appare fortemente differenziata per genere35: solo il 7% delle preadolescenti giunte da poco in
Italia frequenta i coetanei italiani al di fuori dalla scuola, contro il 22% dei maschi. Ad allenarsi in una squadra
sportiva è meno di una ragazza su tre, contro il 45% dei coetanei maschi36. Il controllo dei genitori sulle ragazze
di seconda generazione è molto forte nelle comunità marocchine e pachistane, all’interno delle quali si sono
verificati diversi casi di matrimoni forzati e delitti d'onore.
III. Donne lesbiche e transessuali Le donne lesbiche sono considerate invisibili. In Italia parlare di discriminazione
basata sull’orientamento sessuale significa parlare di “omofobia”, in base al presupposto che solo gli omosessuali
subiscono discriminazioni. Sull’orientamento sessuale della popolazione non esistono ancora statistiche sufficienti.
Un’inchiesta recente documenta le gravi discriminazioni nell'accesso alla salute e ai servizi da parte delle donne
intersessuali37. La carenza di dati non permette di capire se per le lesbiche esistono differenze nell’esposizione al
rischio di discriminazione e violenza rispetto ai gay. Il Governo Prodi aveva stanziato 300mila euro per la prima
indagine ISTAT sulle discriminazioni basate sull'orientamento sessuale, ma i fondi sono stati bloccati dalla Ministra
Carfagna38. La discriminazione basata sul genere e quella basata sull'orientamento sessuale, sono le uniche a non
ricevere tutela penale, a differenza della discriminazione razziale, etnica e religiosa o della violenza. La legge
205/1993, c.d. Legge Mancino, infatti, prevede come reato la diffusione di idee discriminatorie o l'incitazione a
commettere atti discriminatori o violenti soltanto su base razziale, etnica e religiosa. A fronte del crescente numero di
aggressioni nei confronti di gay e lesbiche, era in discussione un testo unificato delle proposte di legge n. 1658 e
1882, per estendere la tutela penale alle discriminazioni basate sull'orientamento sessuale. Tuttavia il testo è stato
bocciato perché, poiché la Corte Costituzionale ha ritenuto che, in assenza di una definizione di “orientamento
sessuale”, l'omosessualità e il lesbismo fossero paragonabili all'incesto, alla pedofilia e ad altri comportamenti
sessuali devianti. Non è chiaro se il Governo abbia intenzione di affrontare questa specifica forma di discriminazione,
introducendo una definizione giuridica di orientamento sessuale e prevedendo misure efficaci per proteggere le
donne lesbiche da episodi di violenza e discriminazione basati sul loro orientamento sessuale.

7. Nessuna prevenzione, protezione o compensazione per le vittime di violenza di genere (RACC. GEN. 19)
I. Il rapporto del Governo italiano non dedica una specifica sezione alla violenza degli uomini contro le donne,
poiché il tema è stato relegato dai rapporteurs alle note xix-xxx dello stesso, contrariamente a quanto indicato nella
raccomandazione generale n. 12.
II. L’ordinamento italiano è ancora privo di una strategia globale (Piano nazionale) per combattere tutte le
forme di violenza contro le donne e le bambine, compresa la violenza domestica, così come richiesto dalla Racc.
generale n.19. Di conseguenza anche gli interventi normativi per prevenire e reprimere il fenomeno, nonché
proteggerne le vittime, risultano inadeguati, in quanto sono fondati sulla logica della salvaguardia dell’ordine
pubblico, piuttosto che sul riconoscimento della violenza di genere come grave forma di discriminazione della donna
in quanto donna (raccomandazione generale n.19, 11°sessione 1992, §6 e da ultimo ribadito dalla Corte europea dei
diritti dell’uomo nella sentenza 9 giugno 2009, Opuz c. Turchia).
III. Il Governo italiano non è riuscito a prevenire la violenza contro le donne e a proteggere le donne dalla
violenza domestica e dalle molestie sessuali sui luoghi di lavoro.
I. La nuova legge 39/2009 ha introdotto l'obbligo di informare le donne che denunciano reati di stalking e di
violenza sessuale dell'esistenza dei centri antiviolenza sul territorio. Tuttavia i centri anti violenza non
ricevono finanziamenti stabili e adeguati per poter affrontare anche questo ulteriore carico di lavoro.
II. In Italia solo il 2,8% delle vittime ha accesso ai programmi di protezione e siamo fanalino di coda per il
numero di posti in case rifugio per vittime di violenza: 90% in meno rispetto alla media europea.
III. La formazione degli operatori sociali, sanitari e delle forze dell'ordine sulla violenza domestica è insufficiente,
in quanto affidata a iniziative occasionali, per le quali non è previsto né aggiornamento né follow-up. Molto
spesso sono corsi di auto-formazione che non tengono in considerazione una prospettiva di genere. Il budget
stanziato per le iniziative di formazione è scarso e non c’è alcun meccanismo di controllo per seguire i
risultati. A causa della formazione inadeguata degli operatori, molto spesso viene sottovalutata la situazione di
rischio della vittima che chiede aiuto.
IV. Esiste un’ampia gamma di strumenti giuridici per una protezione tempestiva delle donne vittime di violenza

processo.
35 http://www.kila.it/archivio-notizie-in-primo-piano/donne-migranti-pi-integrate-e-pi-discriminate.html
36 http://www.kila.it/archivio-notizie-in-primo-piano/donne-migranti-pi-integrate-e-pi-discriminate.html
37 Si veda: M Bonarrigo, “Non chiamateci ermafroditi”, Panorama 1/10/2009. Intersexual women’s association: http://www.sindromedimorris.org/
38 L'Espresso, “Questo non è un paese per gay”,di R. Bocca e C. Cerno, 17/09/2009, p. 66-70.

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maschile, ma essi risultano nella pratica scarsamente applicati, così come evidenziato dalla Rete nazionale
delle avvocate dei centri antiviolenza. Il divario nell’applicazione è dovuto in particolar modo alla formazione
inadeguata degli avvocati e del personale giudiziario sui meccanismi della violenza di genere e alla mancanza
di una prospettiva di genere. I radicati stereotipi patriarcali, condivisi anche da chi dovrebbe proteggere le
donne che decidono di ricorrere al sistema penale, spesso si traducono in concreti ostacoli all’accesso alla
giustizia.
V. Si evidenzia un’assenza di statistiche disaggregate sui “crimini neutrali” che vedono vittime le donne che
subiscono violenza domestica (lesioni, violazione di domicilio, mancato pagamento degli assegni familiari,
maltrattamento).
VI. Mancano inoltre statistiche disaggregate relative agli esiti dei procedimenti penali.
VII. A causa di una cultura ancora fortemente patriarcale, la violenza sessuale da parte di conoscenti è punita
meno della violenza sessuale commessa da sconosciuti. L'atteggiamento nei confronti delle vittime di
violenza sessuale è ancora molto colpevolizzante. Le molestie sessuali molto spesso non vengono percepite
come forme di violenza sessuale. Alcune sentenze in tema rispecchiano una mentalità sessista.
VIII. Il Governo italiano è inadempiente nell’attuazione della decisione quadro 220/2001/Gai relativa alla posizione
della vittima nel processo penale. In particolare, il Governo italiano non ha provveduto ad adottare specifiche
forme di tutela che l’art. 2 della decisione quadro impone per le vittime particolarmente vulnerabili, come sono
le donne vittime di violenza di genere. Infatti il D.L. del 23/02/2009 n.11 che estende alle vittime di alcuni
reati39 la possibilità di anticipare l’esame durante le indagini, non estende alle vittime di questi reati anche le
modalità protette di audizione, previste dall’art. 498 c.p.p. esclusivamente per le vittime minorenni o inferme di
mente, per le quali l’esame viene effettuato, su richiesta sua o del suo difensore, mediante l'uso di un vetro
specchio unitamente ad un impianto citofonico. Sempre lo stesso D.L., predispone una tutela incompleta
anche per le stesse vittime minorenni o inferme di mente che, se vittime dei reati sopra citati, possono
ricorrere a modalità protette di esame, ma non possono farne richiesta se sono vittime di maltrattamenti in
famiglia, perché la legge ha omesso di prevederlo.
IX. Uno dei rischi più gravi per i procedimenti penali in materia di violenza di genere (stalking, maltrattamenti in
famiglia, violenza sessuale) è quello della prescrizione, che vanifica qualsiasi richiesta di giustizia da parte
delle vittime di reati gravi come questi contro la persona. Con la legge ex Cirielli, infatti, questi reati, pur
essendo reati gravi, si prescrivono in soli sette anni e mezzo, troppo pochi, considerata la complessità che
presentano, per due gradi di giudizio di merito ed il controllo di legittimità in cassazione. Quasi sempre i
processi finiscono con una sentenza di non doversi procedere in sede di appello per intervenuta prescrizione
del reato40.
IV. Il Governo italiano è inadempiente nel garantire il risarcimento per le vittime di violenza di genere. La direttiva
2004/80/CE prevede che lo Stato debba risarcire le vittime di tutti i reati dolosi quando i colpevoli non siano in grado
di farlo, ma lo Stato italiano è inadempiente nell’attuazione della direttiva. Il Tribunale civile di Torino ha condannato
la Presidenza del Consiglio a risarcire 100mila euro ad una ragazza di 25 anni che fu vittima di violenza sessuale,
sequestrata e violentata per una notte da due rumeni che, ottenuti gli arresti domiciliari, fuggirono e ad oggi sono
latitanti, condannati in via definitiva dalla Cassazione. L'Avvocatura dello Stato si è difesa dicendo che la direttiva
europea non copre anche i reati di violenza sulle donne (ma non è vero, perché la direttiva copre tutti i reati dolosi) e,
ad oggi, il Governo italiano si rifiuta di risarcire il danno alla vittima. La direttiva europea non è ancora stata
pienamente recepita, per cui tutte le donne vittime di violenza (nei casi in cui l'imputato sia irreperibile o altrimenti
incapace di risarcirle) sono costrette, per essere risarcite, a promuovere un procedimento nei confronti del Governo,
con ulteriore aggravio di costi.

39 Articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 612-bis, 600, 600-bis, 600-ter, anche se relativo al materiale pornografico di cui all'articolo 600-
quater.1, 600-quinquies, 601 e 602 del codice penale.
40 Sarebbe opportuno da un lato un intervento del legislatore che raddoppi i termini di prescrizione così come già previsto in altre ipotesi di reato, quali ad esempio

l’omicidio colposo, oppure predisporre una corsia preferenziale nella celebrazione del giudizio che tenga conto della specificità di tali delitti.
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