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Notes

Forum Italicum
2014, Vol. 48(3) 551–561
L’italiano ha mille anni: ! The Author(s) 2014
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DOI: 10.1177/0014585814542583

sull’origine della lingua e foi.sagepub.com

della letteratura italiane


in occasione della svolta
millenaria del nostro
idioma
Enrico Bernard
Roma, Italia

Abstract
La lingua italiana è nata circa un millennio fa dalla trasformazione della liturgia drammatica
in dramma liturgico. Attori di questo processo sono stati i “comici” che hanno sviluppato
il dramma per la comprensione liturgica e per intrattenere il pubblico su temi religiosi
conosciuti. Si è innescato cosı̀ un processo abbastanza rapido di delatinizzazione e
“involgarimento” delle sacre rappresentazioni che, spostandosi dall’altare alle piazze,
hanno preso la forma meno solenne di laudi e misteri buffi. Questo processo è stato
però messo in ombra dal tentativo – che ha origini lontane, addirittura in Dante – di
nobilitare e idealizzare la genesi dell’italiano distinguendo il volgare dal “dolce stil novo”.
La dicotomia ha scatenato discussioni secolari sul dialetto, in particolare sul fiorentino,
che per Dante rappresenta quell’idioma “illustre, regale, curiale, cardinale” che si diffe-
renzia dal volgare come lingua d’élite, letteraria e burocratica. Questa interpretazione,
contrastata da Petrarca e Machiavelli, finı̀ per eclissare l’origine drammatica,
teatrale, dell’italiano. Ciò ha comportato un’interpretazione puramente letteraria e
“fiorentinocentrica” della nostra storia linguistica e la “miseria” del teatro italiano
sempre considerato, secondo una linea che va da Dante a Croce, come uno strumento
troppo “volgare” e rozzo per sublimarsi in letteratura.

Parole chiave
dolce stil novo, laudi, misteri buffi, sacre rappresentazioni

Autore corrispondente:
Enrico Bernard, Via Maria Giudice 37, 00137 Roma, Italia.
Email: enricobernard@gmx.it
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Secondo una concezione largamente diffusa, il sonetto rappresenta uno dei principali
fattori della formazione delle lingue e letterature europee.1 I testi a uso didattico
amplificano la funzione del “sonetto dell’amor cortese” della Scuola Siciliana, attri-
buendo a Giacomo da Lentini il ruolo di capostipite: “il Notaro” è infatti citato in tal
senso nella Divina Commedia (Purgatorio, Canto XXIV, 56). E sulla – già secondo
Machiavelli – discutibile interpretazione dantesca si fonda un mito letterario difficile
da integrare o rettificare. La vulgata recita infatti, come si legge in un sito online
(digilander) per le scuole: “presso la corte di Federico si sviluppava la poesia cortese
europea in chiave italiana ripresa poi da Dante nel “dolce stil novo” e che arriva sino
a Petrarca.”
Diversi elementi hanno invece contribuito alla formazione del “volgare”, all’ini-
zio del primo millennio, e del “dolce stil novo” alla fine del XII secolo: tra questi, il
teatro ha avuto un ruolo centrale, anche se misconosciuto dallo stesso Dante
(ma non da Petrarca e Machiavelli). La trasformazione delle sacre rappresentazioni
tardomedievali nelle prime laudi costituisce un processo culturale, spettacolare e
linguistico stimolato dalla necessità di rendere comprensibile, con l’uso del “volgare”
che sostituisce il latino, il contenuto morale e religioso delle Scritture. Le messe
cantate si trasformano in stringhe e strofe non più a uso esclusivamente liturgico,
ma anche didattico se non di intrattenimento (vedi ad esempio il fenomeno dei
misteri buffi). I versi dei canti liturgici escono dalle chiese, vengono tradotti per il
“volgo” e diventano laudi teatrali che usano anche il sonetto come modulo
espressivo.
Secondo Agostino Lombardo,

perché un autentico dramma sia possibile, è necessario che il latino della liturgia faccia
luogo ad una lingua magari rozza ed elementare ma più in grado di aderire al
reale . . . Sicché l’avvento del dramma in volgare si delinea come fatto inevitabile e
necessario. (Lombardo, 1962: 50)

Con le prime laudi drammatiche si manifestano al contempo i contenuti che saranno


poi ripresi e secolarizzati nella poesia amorosa duecentesca come sostiene
Mario Apollonio nella Storia del teatro italiano (1943) la mitizzazione della figura
femminile “celestiale” (vedi ad esempio la lauda La donna del paradiso) e la visita
dell’oltretomba (vedi La discesa di Cristo all’inferno), temi che ispirano la Commedia
dantesca.
Tuttavia il “miracolo” della prima strofa che “sfugge” alla rigida liturgia – non è
ancora il sonetto, tantomeno dell’amor cortese, ma un suo progenitore o prototipo
sia pur meno mondano e cortigiano – avviene in Svizzera, a San Gallo, nel convento
di Notker il Balbo (840– 912), dove si coltiva l’arte del canto e della composizione
musicale. Mi riferisco ovviamente al “tropo” del Quem quaeritis nel dramma litur-
gico Le Marie al Sepolcro. Il mutamento dell’originale liturgia – di qui il termine
trovatore appunto da “tropo” – con un verso modificato e aggiunto, forse per esi-
genze musicali e/o didattiche, ha l’effetto di un’apertura rivoluzionaria alla creatività
drammaturgica e lirica. Da quel momento è infatti possibile “variare”, a fini poetici e
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drammatici, la dizione e il canto delle Sacre Scritture; che non sono più rigide ma
“interpretabili” dai cantori, e poi dagli attori, ossia i teatranti che escono dalle chiese
e trasformano, prima sul sagrato quindi nella piazza del mercato, le sacre rappre-
sentazioni nei “comici” misteri buffi.
Il sonetto moderno, composto di strofe e versi, nasce cosı̀ dalla variante di una
rappresentazione sacra che permette musicalmente, ossia adattando il verso alla
composizione, la versificazione creativa sulla base di quei concetti di Amore ed
Erotismo che Sant’Agostino (anticipando la teoria junghiana del transfert, vedi il
tema dell’amore per Cristo) aveva definito come elementi fondamentali, se purificati
dallo spirito e dalla rappresentazione artistica, della fede cristiana.2
Appoggiandosi a un’ampia bibliografia, alla quale a mia volta rimando, scrive
Paola Cavan a proposito del “tropo”:

Notker il Balbo (840–912) monaco di San Gallo, con una lettera indirizzata al vescovo
di Vercelli Liutwardo, premessa al suo Liber Sequentiarum (libro delle sequenze, cioè
delle modulazioni melodiche), offre un documento molto interessante al fine di indivi-
duare la nascita del “tropo”: “ . . . ogni modulazione del tuo canto deve corrispondere a
una sillaba . . . .” In questa lettera vi è testimonianza della fase nascente dei “tropi”
all’interno del monastero di San Gallo, dove tra l’altro, si trovano monaci, il cui talento
letterario e musicale è noto, come Notker e Tutilone. Ed è proprio quest’ultimo che,
rimaneggiando il testo romano dell’ufficio notturno della Pasqua, che narra la visita al
Santo Sepolcro delle tre Marie e l’annuncio dato dall’angelo dell’avvenuta
Resurrezione, dà vita a un vero e proprio dramma che rappresenta un’innovazione
rispetto alle letture liturgiche ufficiali. È un dialogo in quattro versi, che di norma
viene recitato dai canonici durante l’introito della messa di Pasqua, e in cui tre sacerdoti
che interpretano le tre Marie s’incontrano con un quarto che, fermo accanto all’altare,
sostiene il ruolo dell’angelo. (Cavan, 2011)

Ciò spiega perché prima Petrarca (nel Secretum3 la polemica “teatrale” con Dante è
esplicita) e poi Machiavelli cercano di mettere in imbarazzo il loro predecessore
sull’origine drammatica della Commedia. In realtà Dante si era, piuttosto, impe-
gnato nella ricerca di una discendenza linguistico-letteraria più nobile. Fatto sta
però che il capolavoro dantesco si fonda su un impianto (teatrale e “parlato”, come
sostenuto da un’ampia bibliografia)4 che l’Alighieri trova, afferma Machiavelli nel
Discorso o dialogo sopra la nostra lingua,5 già in circolazione e pronto per l’uso.
Tuttavia, come accennavo, Dante è in cerca di padri nobili. “Il Notaro” Giacomo
da Lentini gli cade a fagiolo, anche perché gli risulta difficile far risalire il “dolce
stil novo” alla trivialità di menestrelli, comici e saltimbanchi che cominciano
a rielaborare e adattare i misteri definendoli buffi – cioè non più consoni alla
liturgia sacra – dando addirittura vita a un linguaggio “volgare” internazionale,
comprensibile a Milano come a Roma, a Palermo come a Parigi: quel “gramelot”,
un modo di esprimersi efficace per le scene, di cui Dario Fo è divenuto un emblema
vivente – ma spesso scurrile e poco “lirico”. Nasce da qui quella sorta di maledizione e
di condanna6 che il teatro e la drammaturgia italiana si portano dietro – tra alti e bassi
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s’intende, perché buona parte della letteratura italiana è teatrale – dalle origini fino ai
nostri giorni, passando per Benedetto Croce. Il quale, pur amando il teatro, non lo
considerava un mezzo artisticamente valido per raggiungere le vette del sublime e del
puro lirismo: troppa polvere, troppi chiodi e assi pericolanti da fissare e ricoprire di
stracci, per riuscire a cogliere il Bello o l’hegeliano spirito assoluto. La conseguenza
del “crocianesimo” della critica, anche quella marxista dopo Croce, – fatta eccezione
per Antonio Gramsci che, grande studioso di teatro, aveva colto nella drammaturgia
quella funzione educatrice dell’arte, alla quale teneva tanto lo stesso Croce – è stata la
riduzione della letteratura teatrale a una forma di quasi non-letteratura, estromet-
tendola dagli studi: tant’è che a tutt’oggi non esiste una cattedra di “Letteratura
teatrale” e la drammaturgia è relegata, in Italia, tra le cosiddette “Discipline dello
Spettacolo”. È dunque il caso di ricordare la critica avanzata da Domenico
Pietropaolo (attualmente Dean del St. Michael College della Toronto University e
direttore del Drama Center di Toronto) il quale in un intervento congressuale auspica
un risarcimento della cultura accademica7 nei confronti del teatro:

Purtroppo la disciplina degli studi teatrali fa ancora molta fatica a conquistarsi lo


statuto di autonomia scientifica ed istituzionale che ad essa compete, vedendosi
costretta nella maggior parte delle nostre università a farsi spazio all’interno di rigide
strutture concepite per lo studio della letteratura. (Pietropaolo, 2000: 1492)

Tornando a quanto osserva Paola Cavan, proprio il “tropo” drammatico del Quem
quaeritis consentı̀ inizialmente, senza rischiare eccessivamente il collo per motivi di
religione, la possibilità di rielaborare e interpretare le Sacre Scritture attraverso il
canto e la recitazione, cosı̀ gettando le basi formali e contenutistiche (abbiamo già
detto dell’amore per la Donna paradisiaca) del nascente sonetto – che era pur sempre
scritto per essere recitato e cantato teatralmente. Registra Paola Cavan:

Con queste drammatizzazioni dei testi liturgici, i fedeli assiepati nelle navate laterali
delle chiese, per la prima volta vedono i canonici compiere dei “gesti” nuovi. I singoli
cantori che interpretano i personaggi biblici abbandonano i loro stalli nel presbiterio e
avanzano verso l’altare cercando di assumere le caratteristiche dei personaggi di cui
cantano le parole. È importante sottolineare la primaria importanza del coro dei chie-
rici del capitolo che interviene sempre nel dramma liturgico esprimendo la vox populi,
oppure per cantare i ritornelli. La “tropizzazione” dei testi liturgici si diffonde ben
presto in tutti i monasteri benedettini europei e nelle chiese basilicali e cattedrali,
acquisendo via via caratteri sempre più realistici, come ci testimonia lo straordinario
documento contenuto nella Regularis Concordia, in cui il benedettino inglese
Ethelwold, abate di Abingdon nel 954, dopo una premessa che ne illustra il fine peda-
gogico, descrive la cerimonia del “Quem quaeritis” secondo la pratica in uso.
(Cavan, 2011)

Diversi fattori contribuirono dunque, a partire dal XIII secolo, allo sviluppo della
forma letteraria del sonetto che – grazie alla rielaborazione drammaturgica del
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nascente culto “mariano” – si sgancia dalla funzione liturgica per elevarsi al


rango di “media” degli ideali politico-culturali del Rinascimento, che trovano
un punto di forza proprio nel mito della donna idealizzata. La volontà politica,
nella prima metà del Duecento, di Federico II di fondare uno Stato laico anti-
clericale – di qui la scelta del sonetto amoroso, in qualche caso anche un po’
“spinto” (per questo Dante mette “il Notaro” in Purgatorio), in antitesi con gli
argomenti religiosi delle laudi, come forma espressiva delle nuove concezioni;
l’aspirazione di Dante, nel primissimo scorcio del Trecento, di affermarsi come
erede del “nuovo stile” riallacciandosi, con i debiti “distinguo”, alla tradizione
letteraria duecentesca, anziché alla drammaturgia a essa precedente;8 e, infine,
l’editto di Francesco I di Valois che, nel 1539, decretò la nascita del francese
come lingua ufficiale al posto del latino, fondando la langue d’oı¨l proprio sul mito
carolingio esaltato da Turoldo nella Chanson de Roland (che pure qualcuno fa
risalire alla tradizione giullaresca e teatrale): sono questi appunto alcuni dei
fattori che resero possibile l’istituzionalizzazione della sonettistica come incuna-
bolo delle letterature e lingue europee. Un merito che invece, come abbiamo
visto, spetterebbe a maggior titolo al teatro.
Naturalmente la questione non è del tutto secondaria e dovrebbe comportare
almeno un ripensamento circa la storia della letteratura italiana. Non sto a dilun-
garmi sul fatto che la separazione tra “volgare” e “stilnovo” ha implicato la distor-
sione, tipica dell’italiano, della quasi incomunicabilità tra linguaggio “cortigiano” e
“popolare”: cioè tra la lingua della “casta”, incomprensibile, e quella della gente
comune. Lo sforzo del potere politico, da sempre, è quello di impoverire linguisti-
camente (e culturalmente) il “volgo” creando una sovrastruttura linguistica tipica
degli “azzeccagarbugli”, degli avvocati e notari – ecco la fonte letteraria citata da
Dante, “Il Notaro” del Canto XXIV! – che costruiscono una forma di comunica-
zione e di godimento estetico a uso prevalentemente di pochi eletti.
Di certo non s’intende minimizzare la funzione del “dolce stil novo” che apporta
un contributo di raffinamento al flusso spesso torbido e ruvido del volgare che, nella
sua formazione, stenta a imporsi come lingua nazionale frammentandosi in tante
unità dialettali. Ma che il nostro idioma scaturisca da un corto circuito tra la lingua
dei poeti stilnovisti (e degli azzeccagarbugli) e quella del popolo (e dei commedianti
costretti dal loro mestiere a parlare “come si mangia”) è un fatto inoppugnabile e
noto a tutti – Dante incluso. Perfino in Wikipedia si legge che:

Tra tutti i volgari italiani, Dante ne cerca uno che sia illustre, cardinale, regale e curiale:
illustre perché doveva dare lustro a chi lo parlava; cardinale cosı̀ come il cardine è il
punto fisso attorno al quale gira la porta, allo stesso modo la lingua deve essere il fulcro
attorno al quale tutti gli altri dialetti possono ruotare; regale e curiale perché dovrebbe
essere degno di essere parlato in una corte e in tribunale.

Egli non ritiene nessuno dei volgari italiani degno di questo scopo, nonostante alcuni di
essi, come il toscano, il siciliano e il bolognese, abbiano un’antica tradizione letteraria.
Il volgare ideale viene allora definito con un procedimento deduttivo, come una
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creazione retorica che si ritrova nell’uso dei principali scrittori del tempo, incluso lo
stesso Dante. (Wikipedia, De vulgari eloquentia)

Il dibattito sul volgare che nasce idioma popolare e dialettale, ma viene poi impre-
ziosito da una e´lite culturale e politica come una “creazione retorica”, è dunque
annoso e ampiamente dibattuto. Sono per altro chiare le finalità del De vulgari
eloquentia che, come ammette lo stesso Manzoni dalla sponda dei “toscanisti”,
affronta la questione del volgare solo per sdoganarne l’uso, al fine di trattare temi
nobili in contesto letterario e per costruire una norma letteraria unitaria, cioè una
lingua unitaria scritta, tant’è che Dante lo redige in latino come era del resto con-
suetudine della trattatistica del tempo!
Anche se non è opportuno mettere il naso in questa complessa materia, bisogna
tuttavia aggiungere che il Cantico delle creature di San Francesco d’Assisi pone un
ulteriore problema interpretativo. Come si sa, la piccola ma importantissima opera
di San Francesco, di quasi un secolo precedente al poema dell’Alighieri, sembrerebbe
comprovare un diverso spunto geografico dell’idioma italico. Non più il fiorentino
ristretto alla città dei Medici e neppure il toscano regionale: a rappresentare il
modello di riferimento sarebbe bensı̀ il volgare umbro – dal momento che San
Francesco è nativo di Assisi.
Questa tesi, che personalmente mi convince e in favore della quale insisterò,
ha trovato però in Vittore Branca, illustre filologo e critico nonché membro
dell’Accademia della Crusca,9 un ostinato negazionista. Secondo Branca certi ter-
mini tipici del dialetto umbro riscontrabili nel Cantico, come “ène” (è), sembrano
più varianti introdotte dai copisti che non di mano di San Francesco, il quale,
proprio in virtù della cultura posseduta, usava – secondo Branca – un lessico
molto più aderente alla lingua latina. Scrive Branca riguardo alla forma dialettale
umbra “ène” :

È più che legittimo . . . il sospetto che tali forme non risalgano all’autore, ma debbano
essere attribuite a singoli amanuensi . . . , per cui è lecito pensare che . . . il testo origi-
nario del Cantico . . . non avesse un forte colorito umbro (umbri furono in maggior
parte i copisti) e che vari degli sporadici fenomeni dialettali . . . risalgano alla tradizione
dei rispettivi copisti. (Branca, 1950: 75)

La conseguenza, secondo lo studioso, è che San Francesco, poeta “culto” di buoni


studi, scrivesse una lingua molto aderente e vicina al latino. La nobilitazione lingui-
stica del Cantico non poteva quindi avvenire con l’adeguamento a un modello
toscano che “ancora non esisteva”, “ma attraverso il suo modellarsi e riplasmarsi
sul latino”. E Branca rileva a questo proposito:

Non poteva essere una lingua quotidiana e volgare quella usata da San
Francesco . . . Quelle orazioni liturgiche, quei salmi che costituiscono il sottosuolo
ideale e verbale del Cantico dovettero influire non solo sulle immagini e sui ritmi, ma
anche sul suo tessuto linguistico. (Branca, 1950: 78)
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In tal senso, per la presenza nel Cantico di numerose forme latine (“laude”,
“laudato”, “aere”, “dignu”, “humile”, “et” ecc.), Branca considera esagerato che
alcune antologie assegnino a San Francesco la paternità della nascita della lettera-
tura italiana. Perché, se ciò fosse vero, significherebbe un coinvolgimento diretto del
volgare umbro nella formazione dello stil novo: l’umbro avrebbe cosı̀ influenzato il
toscano. Infatti Assisi dista poche decine di chilometri dal confine geo-linguistico
della Toscana sia verso nord, in direzione di Sansepolcro, sia a ovest in direzione di
Arezzo. Particolare importante, poiché se è vero che delle cosiddette “Tre Corone”
della letteratura italiana, due, Dante e Boccaccio, sono fiorentini di nascita, Petrarca
è nativo di Arezzo, ossia della città che più di ogni altra, per la sua posizione
geografica, dovrebbe aver subito le mescolanze con l’umbro. Gianfranco Contini,
a proposito della lingua di Petrarca, opera una sottile quanto netta demarcazione
con Dante parlando di “defiorentinizzazione”.10 A parte il fatto che gli influssi e
scambi linguistici tra le due regioni, l’Umbria e la Toscana, data anche l’importanza
del trafficatissimo asse commerciale umbro-casentino per il Centritalia, non sono
indifferenti, non si può del resto ignorare che il modello di riferimento linguistico-
poetico delle “Tre Corone” – di Petrarca in particolare – è proprio il volgare di San
Francesco e delle precedenti laudi umbre, sia sotto l’aspetto linguistico che tematico.
Ed è proprio questa ipotesi che Branca, sulla scia del Bembo,11 i toscanisti e gli
accademici della Crusca, questi ultimi già dalla fine del XVI secolo, scartano un
po’ troppo velocemente e in qualche caso anche con scarsa propensione al dialogo,
come dimostra il caso dei libri di Girolamo Gigli (1717) dati alle fiamme in Piazza
della Signoria perché non in linea con la visione “fiorentinocentrica”.
Oltretutto anche altre semplici osservazioni fanno vacillare certezze che sembra-
vano definitive sull’origine della lingua su base “fiorentinocentrica”. Per prima cosa
c’è il fatto che il latino o almeno le scorie della lingua “morta” riscontrabili nel
Cantico potrebbero essere di carattere reminiscenziale, finanche inconscio, sulla
base della liturgia drammatica che nel primo secolo del millennio si evolve in volgare
proprio grazie alla drammaturgia liturgica – cioè del teatro, come abbiamo visto in
precedenza a proposito del sonetto. E non è neppure un caso che la principale
“scuola” o centro di questa nuova forma di drammaturgia, quella delle laudi dram-
matiche che certamente influı̀ sulla spiritualità di Francesco – un filone poetico
letterario popolare che in Jacopone da Todi, quasi coetaneo e corregionale del
santo di Assisi, trova una delle massime espressioni – sia appunto l’Umbria. Va
da sé, inoltre, che San Francesco non avesse alcuna intenzione di usare una lingua
dotta, curiale e per pochi: piuttosto egli intendeva comunicare esperienze spirituali a
un pubblico più vasto, il popolo dei semplici e degli umili. Per questo motivo è
inverosimile imputare l’uso del volgare umbro, presente con ricchezza nel Cantico,
ai trascrittori amanuensi. Bisognerebbe piuttosto ipotizzare lo sforzo lirico del
santo-poeta di liberarsi definitivamente del modello latineggiante – elitario.
Infatti, anche volendo escludere – ma la questione non sarebbe del tutto fuori
luogo – che il modello latineggiante sia stato casomai introdotto o enfatizzato pro-
prio nelle successive trascrizioni amanuensi, quindi in gran parte ecclesiastiche, va
comunque riconosciuto e sottolineato lo sforzo, nella struttura linguistica del
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Cantico, di sottrarsi al latino per parlare in maniera più diretta possibile con le
creature di Dio. Il Cantico è insomma un monologo teatrale-poetico, una preghiera
che va “recitata” sull’immensa scenografia della creazione e sul palcoscenico del
mondo con tutte le sue storture.
L’italiano ha ormai più o meno mille anni e rappresenta la prima lingua europea
in ordine temporale. Il che significa che essa viene a fungere da modello o base anche
per altri processi idiomatici, come ad esempio il francese. Ma gli studi a proposito
della genesi dell’italiano hanno prodotto un quadro più letterario-accademico che
storico-realistico, posticipando – come fa Dante che ne attribuisce qualche merito al
“Notaro” siciliano – almeno di un secolo la sua data di formazione. Si è cosı̀ messa
tra parentesi la sua origine teatrale, non gradita al potere perché il teatro ha un DNA
ribelle e iconoclasta, e si sono smarrite le sue radici nel volgare dei comici (se non ci
fosse stato Dario Fo a riportare alla luce i Misteri buffi, probabilmente non avremmo
neppure modo di parlare di questo argomento). Il risultato è che si è sminuita
l’importanza dell’evoluzione del nostro idioma, attraverso le laudi umbre, sull’asse
todino-umbro-casentinese, al fine di dar “cardinalità” a quella particolare forma
linguistica a uso della casta – l’idioma regale e curiale di Dante – scarsamente
comprensibile al popolo che invece ha cominciato a parlarlo nelle piazze dei mercati
per bocca e mezzo dei comici itineranti: sotto i palcoscenici traballanti dei primi
commedianti dell’arte e non certo alle corti di Federico II, dei Medici o dei Papi.
Fortunatamente dal dopoguerra, grazie alla letteratura neorealista e al pensiero
gramsciano sull’origine popolare della lingua italiana, gli studi hanno rimesso un po’
le cose a posto a proposito della nostra ricchezza dialettale, che ovviamente rappre-
senta anche un importante patrimonio lirico-letterario, nonché teatrale: basti pen-
sare agli autori in dialetto nella nostra letteratura, da Ruzzante a Goldoni, da Viviani
a Eduardo, per citarne alcuni. Tuttavia, in conclusione, il riconoscimento al teatro del
merito della nascita del nostro idioma comporterebbe, come prima conseguenza, la
revisione di alcune posizioni che purtroppo vanno ancora per la maggiore e che
relegano il nostro teatro – motore della cultura europea e della prima lingua moderna
del Continente – al misero ruolo di una forma di intrattenimento mediatico, colto ma
non abbastanza da poter essere considerato “letteratura nazionale” capace di rag-
giungere, come vuole l’estetica crociana, le vette dello spirito.

Funding
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commercial, or not-for-profit sectors.

Note
1. Questo saggio sviluppa alcune considerazioni che ho avanzato nella mia recensione di un
convegno sul sonetto tenutosi all’Università di Zurigo l’8–9 dicembre 2013. In questa
nuova stesura ho ampliato il discorso alla genesi millenaria e all’origine teatrale della
lingua italiana, cfr. Bernard (2013). In un mio precedente scritto ho affrontato la
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“questione teatrale” della lingua italiana, cfr. Bernard (2009). Del tutto nuove sono le
osservazioni sul Cantico di San Francesco come elemento di trasmissione poetico, spiri-
tuale e drammaturgico delle Laudi Umbre alle “Tre Corone” Dante, Petrarca e Boccaccio
della letteratura italiana del Trecento.
2. Scrive Mario Bonfantini: “Anche il metro dell’ottava, che domina ovunque, ed era tipica-
mente narrativo e proprio dei poemi romanzeschi, è indizio significativo . . . Chiamiamo
più propriamente ‘romanzesco’ quel tipo di Sacra Rappresentazione nel quale l’elemento
profano ormai predomina: perché il miracoloso è quasi completamente trapassato in
meraviglioso, e l’interesse per gli strani casi dei protagonisti e per le trovate sceniche
viene a soffocare quasi del tutto lo scopo edificante del dramma” (AA VV, 1942: 619).
3. “Ed io, acciò che, come dice Tullio, non si interponga troppo spesso dissi e disse, e acciò che
la cosa paia davanti agli occhi e rappresentata da uomini presenti, le sentenze dell’egregio
collocutore e mie non ho separato con altro circuito di parole, ma con la propria descri-
zione de’ propri nomi: e questo modo mio di scrivere io l’ho imparato dal mio Cicerone: e
lui prima da Platone l’aveva imparato” (Petrarca, 1947: 6).
4. Il rapporto tra Dante e il teatro medievale è stato trattato, ad esempio, da Mario Manlio
Rossi (1962–1963), Umberto Bosco (1977), Rino Mele (2006), Paolo De Ventura (2007),
Peter Armour (1991).
5. “Ma perché io voglio parlare un poco con Dante, per fuggire ‘egli disse’ ed ‘io risposi’,
noterò gl’interlocutori davanti” (Machiavelli, s.d.). Luigi Blasucci (2005: 76) commenta
cosı̀ il brano: “Sottolineiamo quel un poco, che è la spia più significativa della metamorfosi
concetto-personaggio. Il dialogo che segue non è affatto un espediente didascalico,
come si può ritrovare in tanti trattatisti del tempo, ma ha i caratteri di un vero colloquio
tra persone vive.”
6. Quale sia questa “maledizione” è presto detto. La drammaturgia rinasce alla fine del
medioevo come strumento iconoclasta e dissacrante per la liturgia e il potere religioso. Il
teatro italiano diventa, all’inizio del Cinquecento, licenzioso con Machiavelli e pornogra-
fico con l’Aretino – ma non se lo potrà permettere a lungo negli anni che precedono Riforma
e Controriforma. Con Giordano Bruno il teatro è una vera e propria mina vagante per la
teologia: il drammaturgo e filosofo nolano finisce sul rogo con tutte le sue opere di pensiero e
teatrali. Nel Settecento il teatro (Goldoni e Da Ponte) anticipa gli ideali libertari (e libertini)
della Rivoluzione francese. Nel primo decennio dell’Ottocento scoppia in Italia la moda del
teatro giacobino: altro spavento per il potere temporale della Chiesa e dei regnanti.
A cavallo tra le due metà del XIX secolo, in pieno periodo rivoluzionario (1848), Pietro
Cossa diventa lo spauracchio della quieta borghesia italiana che spera in una restaurazione
definitiva e senza scosse della vita politica. Muore Cossa (e altri autori del periodo) ed ecco
sorgere, ai primi del Novecento, il teatro socialista delle Case del Popolo in cui si formano e
si propagano gli ideali anarchici e rivoluzionari che anticipano la rivoluzione in Russia. Cosı̀
il borghese italiano va a rifugiarsi tra le braccia di Pirandello – e che trova? La critica
dell’ipocrisia borghese, la maschera di una società che si ammanta di morale, di valori
religiosi e prepara le carneficine delle guerre mondiali e la tragedia del nazifascismo.
Durante il fascismo il teatro (Viviani) sbeffeggia il mito dell’uomo italico e perfino l’avan-
spettacolo (“è arrivata la bufera / è arrivato il temporale”) è insidioso per il regime.
La “nuttata” di Eduardo apre la strada nel dopoguerra al teatro di impegno civile mentre
col Brecht di Strehler si riapre il discorso del teatro politico che avrà in Dario Fo una voce
riconosciuta (e temuta) a livello mondiale. Ecco spiegati con estrema sintesi i motivi per i
quali il teatro fa paura e si cerca di tenerlo, soprattutto in Italia, ai margini della cultura.
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7. Non va tuttavia dimenticato che sulla natura drammatica della letteratura e narrativa
italiana esiste una bibliografia, non vastissima, ma comunque consistente. In particolare
vanno citati Bárberi Squarotti (1978) e Segre (1984). Inoltre, qualche anno fa (nel dicem-
bre 2004) presso la Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano si è tenuto un
convegno dal titolo Drammaturgie nascoste nella forma romanzo, promosso dalla
Compagnia “Teatro Aperto”, in cui, attraverso molteplici punti di vista (studiosi, registi,
attori, drammaturghi), sono stati indagati molti aspetti del complesso rapporto teatro-
romanzo; cfr. Teatro Aperto (2005). Per una più ampia bibliografia sull’argomento cfr.
Acanfora (2012). L’intervento della Acanfora rientra nell’ambito del progetto di ricerca
su “Teatro e romanzo nella produzione letteraria contemporanea” attivato presso il
Dipartimento di Letteratura, Arte, Spettacolo dell’Università degli Studi di Salerno.
Docente responsabile del progetto di ricerca: Prof.ssa Antonia Lezza.
8. Va ricordato che l’influenza di Dante non è costante, almeno fino al Seicento. Ma quanto
da Dante riportato sull’origine del “dolce stil novo” contribuı̀ non poco alla tesi, che non
trovò ostacoli, fino a Machiavelli, della genesi letteraria di questa forma metrica.
9. È utile ricordare la fondazione della Crusca, nel 1583 a Firenze, come circolo e teatro delle
performance spiritose dei “Crusconi”, ma che presto si trasformò in istituzione politico-
culturale imponendo il primato del fiorentino, a partire dalla prima edizione del
Vocabolario del 1612. Non è il caso di riaprire una secolare polemica che vide la creazione
nel 1612, a opera di Paolo Beni, di un’Anticrusca; né richiamare le critiche ai puristi della
Crusca dei Verri o di Cesare Beccaria riproposte anche più recentemente da Alberto
Arbasino.
10. Cfr. Contini (1992: xxviii–xxxviii); Manni (2003).
11. Ricordiamo che Ruzante (1967: 2) sfida Bembo e il “fiorentinocentrismo” nel prologo de
la Betı`a: “ . . . i vò dire de pregorari, che igi i ciama pastore, e favela da Fiorenza . . . Mi, co’
a’ ve dighe, a’ son bon pavan, né a’ no cambiarae la me lengua con dosento
fiorentinesche . . . .”

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