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CELLULE STAMINALI
EMATOPOIETICHE (CSE)
INTRODUZIONE
Il trapianto allogenico di CSE consiste nella reinfusione di cellule staminali ematopoietiche (CSE)
di un donatore (il soggetto sano) in un ricevente (il soggetto malato) dopo che il ricevente è stato
“condizionato” cioè preparato con la somministrazione di chemioterapia e/o radioterapia ad alta
intensità, per questo detta “sovra-massimale” e denominata di “terapia di condizionamento”. I
primi tentativi di trapianto di CSE sono stati effettuati tra gli anni ’50 e ’60 subito dopo la scoperta
del sistema maggiore di istocompatibilità (Major Histocompatibility Complex – Human
Leukocyte Antigen, MHC-HLA) ed il primo trapianto, effettuato con successo secondo i criteri
di compatibilità tessutale donatore/ricevente, è stato pubblicato nel 1968. Solo nel 1975, sono stati
pubblicati dal gruppo americano di Seattle (Thomas) i risultati ottenuti nei primi 110 pazienti
trapiantati con CSE da sangue midollare, fornendo le basi per l’applicazione clinica del trapianto
di CSE su larga scala. Questa procedura è oggi largamente impiegata nel trattamento di molte
patologie ematologiche, sia neoplastiche che non neoplastiche, e rappresenta una valida opzione
terapeutica anche per alcune patologie dismetaboliche congenite e gravi deficit immunitari.
Contrariamente a quanto accade per il trapianto autologo di CSE, il razionale del trapianto
allogenico non si basa solo sulla capacità della chemioterapia e/o radioterapia di condizionamento
di eradicare la malattia, ma anche sull’effetto immunologico del trapianto stesso, cioè sulla
capacità dei linfotici T del donatore di eliminare, con un meccanismo noto come “Graft Versus
Leukemia” (GVL), le cellule neoplastiche del ricevente eventualmente ancora presenti nel
ricevente nonostante la terapia di condizionamento.
LE CSE CD34-POSITIVE
Le CSE, note anche con il nome di cellule CD34-positive per la presenza sulla loro superficie di
questa molecola distintiva, sono cellule contenute nel midollo osseo ematopoietico e, in quantità
nettamente minori anche nel sangue venoso periferico. Queste cellule sono in grado di dividersi e
dare origine a due cellule figlie, una che va a ricostituire il patrimonio della CSE, e l’altra, che
attraverso ulteriori divisioni, darà origine alle cellule del sangue venoso periferico, cioè i globuli
bianchi, i globuli rossi e le piastrine (differenziamento). Potenzialmente, inoltre, le CSE sono in
grado di dare origine a molte altre cellule del fegato, del polmone, dell’osso, del cervello e persino
dei muscoli.
Le caratteristiche fondamentali delle CSE, che ne rendono possibile l’uso clinico nel trapianto,
sono rappresentate da:
capacità di automantenimento;
differenziazione in precursori dei globuli bianchi, dei globuli rossi e delle piastrine;
capacità dopo essere state infuse per via endovenosa, di raggiungere la sede midollare e di
insediarsi nel microambiente (“homing”);
capacità di restare vitali dopo processi di manipolazione come la criopreservazione e lo
scongelamento.
Individuare un donatore di CSE idoneo per poter procedere al trapianto significa tipizzare sia
donatore che ricevente, ovvero verificare, con tecniche di biologia molecolare in alta risoluzione,
che le cellule dell’uno e dell’altro siano HLA compatibili, ovvero presentino gli stessi antigeni di
istocompatibilità. Di conseguenza, è un pre-requisito di fondamentale importanza per il successo
del trapianto allogenico che sia il ricevente che il donatore abbiano un sistema HLA il più possibile
simile, in modo da limitare il rischio della condizione nota come Graft Versus Host
Disease (GVHD, Malattia del Trapianto contro l’Ospite), cioè quella condizione in cui linfociti
del donatore colpiscono i tessuti del ricevente, non riconoscendoli come “propri”.
I geni del sistema HLA hanno la caratteristica di essere estremamente variabili da individuo ad
individuo; per tale motivo, la variabilità genetica è molto elevata al di fuori dell’ambito familiare
mentre nell’ambito familiare è più ristretta ed ogni fratello ha una probabilità del 25% di essere
HLA compatibile col paziente.
Tuttavia, per dare la possibilità di trovare un donatore compatibile anche a quei pazienti che non
dispongono di un donatore HLA-compatibile all’interno del nucleo familiare, sono stati creati i
Registri Internazionali di Donatori Volontari di CSE o i Network di Banche di Sangue di Cordone
Ombelicale (SCO).
Parliamo di:
REGIMI DI CONDIZIONAMENTO
L’infusione delle CSE viene effettuato di norma dopo 24-48 ore dal termine della chemioterapia
di condizionamento, generalmente mediante un catetere venoso centrale. La tossicità
extraematologica dei regimi di condizionamento si verifica entro i primi 15 giorni e può
coinvolgere qualsiasi organo, cuore, rene, polmone, fegato e principalmente sistema gastroenterico
con mucosite. Il condizionamento comporta la cosiddetta “fase di aplasia”, con abbassamento del
valore dei globuli bianchi, delle piastrine e dell’emoglobina e conseguente esposizione ad un
elevato rischio di infezioni e di emorragie che possono essere anche fatali. L’aplasia midollare
termina quando le CSE infuse proliferando maturano e si differenziano in globuli bianchi, piastrine
e globuli rossi.
La durata della fase di aplasia midollare è variabile e dipende dall’intensità del condizionamento,
dal numero di CSE infuse e dalla fonte di CSE e dal tipo di donatore. Alla fase di aplasia segue il
cosidetto “attecchimento”, cioè la fase di recupero ematologico con salita dei valori dei globuli
bianchi e delle piastrine, che si verifica generalmente dopo 12-24 giorni dal giorno del trapianto.
La GVHD è la complicanza specifica che si osserva nei pazienti sottoposti a trapianto allogenico
di CSE ed è espressione di una complessa reazione immunologica delle cellule immunocompetenti
del donatore nei confronti dei tessuti ed organi del ricevente. Si distingue la GVHD acuta (che
insorge entro i primi 100 giorni dal trapianto) e la GVHD cronica che può manifestarsi più
tardivamente.
GVHD ACUTA Le manifestazioni cliniche della GVHD acuta sono caratterizzate principalmente
dall’interessamento della cute, dell’intestino e del fegato. Il coinvolgimento della cute si manifesta
come tipico eritema morbilliforme maculo-papuloso, che dalla tipica localizzazione al palmo delle
mani e alla pianta dei piedi, si può estendere al volto, al tronco, alle radici e, successivamente, alla
superficie degli arti.. La GVHD intestinale è caratterizzata dalla presenza di diarrea,
malassorbimento e perdita imponente di proteine. Al fine di ridurre il rischio di GVHD acuta,
vengono somministrati potenti immunosoppressori quali ciclosporina e methotrexate, prima,
durante e dopo il trapianto. Altri farmaci usati sono il tacrolimus, il micofenolato, gli anticorpi
policlonali diretti contro i linfociti T (Anti-Thymocyte Globulin, ATG) e gli anticorpi monoclonali
(anti-CD25, Basiliximab; anti-CD52 Alemtuzumab). Un'altra tecnica usata per ridurre il rischio di
GVHD nel trapianto aploidentico è la deplezione T-cellulare, effettuata con tecniche di
manipolazione ex-vivo, che espone tuttavia ad una maggior rischio di infezioni e ad una minore
efficacia della GVL.Una volta innescata, la GVHD deve essere tempestivamente trattata con
steroidi ad elevato dosaggio o, nel caso di mancata risposta, con trattamenti di seconda linea quali
Infliximab, fotoaferesi extracorporea e, più recentemente, con la somministrazione di cellule
mesenchimali.
GVHD CRONICA La GVHD cronica, che insorge dopo i 100 giorni dal trapianto è una
complessa sindrome a patogenesi immunologica, che si osserva con un’incidenza estremamente
variabile dal 5% al 70% dei pazienti sottoposti a trapianto allogenico a seconda di numerosi fattori
concomitanti, molti dei quali condivisi con quelli correlati alla GVHD acuta, la cui insorgenza è
di per sé fattore favorente la GVHD cronica. E’ ormai ampiamente riconosciuta l’aumentata
incidenza di GVHD cronica per l’impiego di CSE prelevate dal sangue periferico. Le
manifestazioni della GVHD cronica possono aversi a carico di molti organi e tessuti: la cute e gli
annessi cutanei, la mucosa del cavo orale e genitale, la congiuntiva, il tratto gastroenterico. I
tessuti sono sovvertiti con un’ impronta fibrotica o atrofica, che ricorda altre malattie
infiammatorie croniche. Il trattamento della GVHD cronica è basato sulla somministrazione di
steroidi, in associazione o meno alla ciclosporina. Il trattamento di seconda linea della GVHD
cronica resistente agli steroidi prevede, nell’ordine di più diffuso impiego, la fotoforesi
extracorporea, l’anticorpo monoclonale anti CD20+ (rituximab), il micofenolato, gli inibitori della
tirosin-kinasi (imatinib), la pentostatina.
Nell’ambito del trapianto allogenico e delle manifestazioni di GVHD, si osserva una reazione di
natura immunologica detta Graft-versus-Leukemia (GVL) o Graft-versus-Tumor (GVT), in
quanto sostenuta dalle cellule immunocompetenti del donatore nei confronti delle cellule
leucemiche o tumorali residue del ricevente. Questa reazione è particolarmente importante, in
quanto consente di superare il limite della resistenza alla chemioterapia e alla radioterapia delle
cellule leucemiche o tumorali, che diventano in questo caso cellule bersaglio di reazione
immunomediata. Il sistema immune del donatore, in altri termini, contribuisce alle possibilità di
guarigione del paziente esercitando una sorveglianza immunologica nel tempo nei confronti della
malattia tumorale.
Il trapianto allogenico può essere associato a diverse complicanze secondarie alla stessa procedura,
la cui insorgenza dipende da diversi fattori riferibili sia a caratteristiche del paziente (età, diagnosi,
stato della malattia al momento del trapianto, presenza di comorbidità), sia a caratteristiche della
combinazione donatore/ricevente (es. tipo di compatibilità), sia a caratteristiche specifiche della
procedura trapiantologica (es. intensità del regime di condizionamento pre-trapianto, fonte di
CSE impiegate, eventuale manipolazione cellulare in vitro prima dell’infusione). Le complicanze
legate al trapianto allogenico possono essere fatali e possono indurre quella che viene
comunemente definita con il termine tecnico Transplant-Related Mortality (TRM) o mortalità
trapianto correlata, non determinata quindi dalla eventuale recidiva della malattia.
Qui di seguito riportiamo un breve cenno a tutte le possibili complicanze del trapianto allegenico
(escludendo la GVHD, già discussa sopra).
Funghi
Le infezioni fungine invasive (IFI) hanno un picco di incidenza bimodale: nella fase precoce e in
seguito nella fase tardiva. Sono rappresentate da polmoniti e sinusiti da funghi filamentosi o muffe
come Aspergillus ssp o Candida spp, che con maggiore frequenza viene isolato. Queste infezioni
insorgono o per riattivazione di funghi di cui il paziente è portatore o per inalazione di spore
fungine presenti nell’ambiente, da cui l’indicazione ad assistere il paziente trapiantato in stanza
protetta con flusso d’aria ad alta filtrazione microbica. Le IFI presentano un’incidenza variabile
dal 8% al 15% secondo le diverse casistiche e sono correlate con una mortalità elevata.
Virus
Le infezioni virali della fase precoce sono piuttosto rare e sono principalmente rappresentate da
orofaringite, epatite, encefalite, mielosoppressione e cistite, variamente indotte da Herpes simplex
virus, Herpes virus 6 (HHV6) e BK virus.
Agenti patogeni ed infezioni della fase intermedia (dal giorno +30 a +100)
Citomegalovirus (CMV)
Nelle condizioni di profonda immunodepressione, quale si realizza nel post-trapianto, il CMV può
riattivarsi. Tale rischio di riattivazione è significativamente più elevato nei pazienti
sierologicamente CMV positivi trapiantati da donatori CMV negativi.
Funghi
Le infezioni fungine sono anche in questa fase rappresentate in maggior parte da polmoniti e
sinusiti, in genere da Aspergillus spp o da Candida spp.
1. effetto tossico dei farmaci impiegati nel ciclo di condizionamento sulle cellule della vescica;
2. infezioni provocate da virus che interessano il tratto urinario.
La cistite emorragica da farmaci appare precocemente dopo trapianto ed il farmaco maggiormente
implicato nella patogenesi è la ciclofosfamide e più raramente altri farmaci (es. ifosfamide).
La forma associata ad infezioni virali compare più tardivamente, in genere dopo il giorno +30 dal
trapianto ed appare dovuta a BK poliomavirus e adenovirus,
La profilassi della cistite emorragica è basata su iperidratazione, lavaggio endovescicale continuo
e somministrazione di MESNA durante il regime di condizionamento che includa la
somministrazione di ciclofosfamide ad alte dosi. Il trattamento comprende la terapia di supporto
basata sulle trasfusioni di emazie concentrate e piastrine, iperidratazione e irrigazione vescicale e,
nelle forme ad eziologia virale, l’impiego di antivirali quali il cidofovir. Del tutto recentemente
sono stati ottenuti risultati particolarmente promettenti con l’applicazione diretta di colla di fibrina
in cistoscopia sulla mucosa endovescicale emorragica, specie nelle forme non rispondenti ai
trattamenti convenzionali.
Leucemia Mieloide Acuta (LMA) Il trapianto allogenico rappresenta la terapia di scelta per le
categorie di pazienti con LAM in 1° remissione a rischio sfavorevole e con MMR ancora positiva
dopo terapia di consolidamento, non è attualmente indicato per i pazienti a rischio favorevole o
per quelli a rischio intermedio, ma con MMR negativa dopo consolidamento.
Leucemia Linfoide Acuta (LLA) La presenza di fattori prognostici sfavorevoli quali la presenza
del cromosoma Philadelphia t(9:22), un numero di globuli bianchi/mmc > di 30.000 (se a cellule
B) o > di 100.000 (se a cellule T) e il cariotipo complesso, permettono di identificare i pazienti ad
alto rischio. Questo aspetto è rilevante soprattutto per i pazienti in 1a RC, nei quali l’indicazione
al trapianto allogenico non è ancora ben definita. Lo studio della MMR post consolidamento
fornisce ulteriore, importante indicazione per discriminare i pazienti che (MMR-) possono
beneficiarsi della sola chemioterapia da coloro per i quali (MMR+) il trapianto allogenico
costituisce terapia elettiva.
Sindromi Mielodisplastiche (SMD) Il trapianto allogenico è indicato soprattutto per i pazienti che
appartengono ai gruppi intermedio II e alto rischio. Nell’ultimo anno, in ambito EBMT, sono stati
registrati oltre 1700 trapianti allogenici eseguiti per tale patologia, essendo tale incremento dovuto
sia all’aumento delle procedure nei pazienti con età superiore ai 50 anni, sia all’estensione sempre
maggiore del trapianto da donatore non correlato.
Leucemia Mieloide Cronica (LMC) L’introduzione degli inibitori della Tirosin-Kinasi (TKI) ha
nettamente migliorato la prognosi dei pazienti affetti da LMC Ph+ e drasticamente ridotto
l’indicazione al trapianto allogenico, riservato ai soli pazienti non rispondenti ai TKI, rcecidivanti
o in progressione di malattia.
Mieloma Multiplo L’introduzione di nuovi farmaci per la terapia dei pazienti con mieloma e
l’impiego del trapianto autologo costituiscono oggi lo standard di trattamento in tale patologia. Il
trapianto allogenico, per l’elevato rischio di mortalità ad esso correlato, è limitato alle condizioni
di malattia recidivante dopo autotrapianto o con caratteristiche biologiche di cattiva prognosi.
Tuttavia, esso rimane la sola procedura capace di consentire la guarigione.
Aplasia Midollare Grave Il trapianto allogenico da donatore familiare HLA identico rappresenta
la prima scelta per pazienti giovani, con età < 30 anni o, in assenza di comorbidità, nei pazienti
compresi tra 30 e 40 anni. Nei pazienti che non dispongono di un donatore familiare HLA identico
e non rispondenti alla terapia immunosoppressiva, è indicato il trapianto da donatore internazionale
non correlato.
Emopatie congenite Il razionale del trapianto allogenico nelle emopatie congenite consiste nella
sostituzione della cellula staminale ematopoietica patologica con cellule sane da donatore. Questo
vale tanto nelle patologie con eritropoiesi inefficace, come la talassemia, quanto nelle patologie
con produzione di emoglobina “difettosa”, come la drepanocitosi.
IL TRAPIANTO AUTOLOGO DI
CELLULE STAMINALI
EMATOPOIETICHE (CSE)
INTRODUZIONE
Il primo caso di uso di CSE autologhe è stato descritto nel 1959 in una bimba affetta da leucemia
acuta linfoblastica, sebbene qualche caso “aneddotico” fosse già stato riportato e pubblicato alla
fine dell’800. Solo nel 1978 è stato tuttavia pubblicato dai medici americani del National Cancer
Instituite il primo studio prospettico in cui l’autotrapianto di CSE veniva normalmente utilizzato
in pazienti con linfoma in fase avanzata di malattia. Da allora, fino ad oggi si è assistito ad un
progressivo e continuo incremento del numero dei trapianti autologhi effettuati con una sempre
maggiore estensione delle indicazioni: basti pensare che nel 2010 su 653 centri afferenti allo
European Blood and Marrow Transplantation Group sono state effettuate un totale di 20.017
procedure di trapianto autologo di CSE.
Per comprendere meglio la procedura del trapianto autologo di CSE, possiamo didatticamente
dividere il percorso del paziente da avviare a trapianto in 5 tappe successive.
La metodica originale per raccogliere le CSE (precursori emopoietici, note anche come cellule
CD34-positive per la presenza sulla loro superificie di questa molecola distintiva) è stata per circa
un decennio il prelievo di midollo osseo ematopoietico. Il paziente veniva sottoposto a numerose
aspirazioni di midollo osseo dalle creste iliache posteriori (generalmente in sala operatoria, in
anestesia generale o in alternativa in loco-regionale spinale), prelevando un totale di 1-2 litri di
sangue contenente midollo osseo ematopoietico. In tal modo si otteneva una quantità di CSE
adeguata per assicurare una ricostituzione midollare completa dopo chemio-radioterapia
mieloablativa. La procedura richiedeva circa due ore per essere completata ed il paziente veniva
generalmente sottoposto ad 1-2 trasfusioni di emazie concentrate a causa dell’elevata quantità di
sangue prelevata. Già dai primi anni ’80 era tuttavia nota un’altra modalità di raccolta delle CSE,
che progressivamente ha sostituito fino a prevalere quasi completamente su quella tradizionale: la
raccolta delle CSE dal sangue venoso periferico.
Sebbene in condizioni normali le CSE CD34-positive sono presenti nel sangue venoso periferico
in piccolissime quantità, dopo somministrazione di fattori di crescita granulocitari (Granulocyte
Colony Stimulating Factor, G-CSF) associata o meno a chemioterapia con alcuni farmaci così detti
“mobilizzanti” (Ciclofosfamide, Citarabina, Ifosfamide), il numero di queste cellule nel sangue
periferico aumenta enormemente (fenomeno della “mobilizzazione”). Quando si verifica una
simile evenienza, le CSE da sangue periferico vengono raccolte mediante un separatore cellulare
a flusso continuo ad una velocità di aspirazione del sangue di 30-70 ml/minuto con una centrifuga
interna predisposta in modo da separare dagli altri elementi ematici una frazione di cellule
mononucleate contenenti le CSE, grazie alla presenza del loro “marcatore” CD34. Al fine di
effettuare tale raccolta, oggi, più frequentemente, si utilizza un catetere venoso centrale a doppio
o triplo lume da rimuovere al termine della procedura di aferesi, per garantire adeguati volumi di
scambio.
Una procedura standard prevede che vengano processati 10-15 litri di sangue intero in un tempo
di 3-5 ore valutando, al termine, la conta cellulare e le cellule CD34-positive.
La quantità di CSE CD34-positive da raccogliere dipende dal numero di trapianti che si intendono
effettuare, dall’intensità della chemioterapia di condizionamento e dalla patologia per la quale si
effettua il trapianto. Generalmente, al fine di assicurare al paziente un’adeguata ricostituzione
midollare dopo somministrazione di chemio e/o radioterapia mieloablativa, è necessario re
infondere un numero di CSE CD34-positive pari a 2-5 x 106/kg. In altre parole, per un uomo che
pesa 75 Kg, sono necessarie almeno 150.000.000 di cellule staminali emopoietiche per ripopolare
e ricostituire in maniera adeguata il midollo osseo dopo che lo stesso è stato distrutto dalla
somministrazione di alte dosi di chemioterapia e/o radioterapia. Nei pazienti con quantità adeguate
di cellule CD34-positive circolanti, un’accurata procedura consente di raccogliere il totale delle
cellule staminali necessarie per un trapianto. In altri casi, quelli con basse quantità circolanti di
precursori emopoietici o che dovranno essere sottoposti a più di una procedura trapiantologica,
possono essere necessarie più sedute di leucoaferesi. E’ necessario sottolineare, tuttavia, che circa
il 25% dei pazienti sottoposti a mobilizzazione, non è in grado di raggiungere un adeguato numero
di CSE CD34-positive nel sangue venoso periferico e quindi fallisce il tentativo di raccolta. Negli
ultimi anni sono stati immessi sul mercato dei nuovi farmaci “mobilizzanti” da associare al G-CSF
e alla chemioterapia, utili proprio in questi pazienti noti come “cattivi mobilizzatori”. Il principale
di questi farmaci è il Plerixafor ed è in grado, mediante un complesso meccanismo di azione, di
aumentare la capacità di mobilizzazione anche in questi pazienti.
Nonostante i nuovi farmaci, rimane tuttavia una percentuale di pazienti in cui non è possibile
effettuare la mobilizzazione e in cui è necessario ricorrere all’espianto di midollo osseo
ematopoietico al fine di ottenere un adeguato numero di CSE CD34-positive per effettuare in
regime di sicurezza la procedura di trapianto autologo.
Una volta raccolte, quale che sia la modalità di raccolta, le CSE devono essere conservate in
maniera adeguata al fine di evitarne il deterioramento.
Negli ultimi venti anni sono state proposte diverse metodiche di congelamento a temperature
variabili tra -80 e -196°C, arrivando addirittura a non congelare le cellule staminali nei casi in cui
il regime di condizionamento sia di breve durata ed il tempo che intercorre tra la raccolta di cellule
emopoietiche e la loro reinfusione non superi le 96-120 ore. Per permettere alle CSE di
sopravvivere a queste temperature è necessario proteggere queste cellule diluendole in un agente
“crioprotettivo” noto con il nome di Dimetilsulfossido (DMSO), una molecola in grado di
diffondere rapidamente all’interno della cellula attraverso la membrana plasmatica riducendo il
numero e le dimensioni dei cristalli di ghiaccio intracellulari che altrimenti danneggerebbero la
membrana e gli organuli cellulari e proteggendo le cellule dalla disidratazione.
L’utilizzo del DMSO a concentrazione pari al 10% del volume della sospensione cellulare
garantisce una buona conservazione delle cellule staminali ed un effetto tossico contenuto nei
pazienti sottoposti a reinfusione. Le CSE correttamente criopreservate, possono essere utilizzate
in qualsiasi momento dopo scongelamento e rimangono integre e vitali anche per lunghi periodi
(es. 10-15 anni).
REINFUSIONE DI CSE
Al termine della terapia di condizionamento, dopo un tempo sufficiente per eliminare dal circolo
ematico i metaboliti dei farmaci somministrati, le sacche di CSE devono essere scongelate e
reinfuse al paziente attraverso un catetere venoso centrale o, in alternativa, da una vena periferica
di grosso calibro.
Generalmente, il processo avviene in prossimità della stanza di degenza del paziente, immergendo
la sacca in un bagno termostatico in cui l’acqua distillata è mantenuta a 37°C.
La sacca viene mantenuta nel bagno termostatico fino alla scomparsa di tutti i cristalli di ghiaccio.
La reinfusione delle CSE dovrebbe avvenire il più rapidamente possibile dopo lo scongelamento
e, comunque, non oltre i 45 minuti dallo stesso.
Le problematiche relative all’infusione sono correlate agli effetti tossici del DMSO contenuto nelle
sacche. Nella maggior parte dei casi il paziente avvertirà delle vampate di calore, nausea,
secchezza delle fauci e un “cattivo” sapore.
In rari casi si possono avere degli effetti collaterali più importanti come brivido, febbre,
insufficienza respiratoria, abbassamento dei valori pressori molto raramente fino allo shock.
ATTECCHIMENTO
La durata della fase di aplasia midollare è variabile e dipende dall’intensità del condizionamento,
dal numero di CSE infuse e dallo stato della malattia al trapianto. Alla fase di aplasia segue il
cosidetto “attecchimento”, cioè la fase di recupero ematologico con salita dei valori dei globuli
bianchi e delle piastrine, che si verifica generalmente dopo 10-15 giorni dal trapianto.
TOSSICITÀ
Il trapianto autologo è oggi una procedura relativamente sicura se eseguita in centri specializzati.
Il miglioramento della terapia di supporto e della conoscenza dei principali effetti collaterali dei
regimi di condizionamento, ha permesso negli ultimi anni di ridurre notevolmente le complicanze
e la mortalità legata alla procedura (nota come Transplant Related Mortality, TRM). Tuttavia, il
trapianto autologo di CSE rimane gravato da una certa tossicità e una mortalità (TRM), legata
principalmente alle possibili complicanze infettive, che attualmente, almeno in centri che
effettuino questa procedura in maniera routinaria, si verifica in una percentuale non superiore
al 2-3%.
Le indicazioni del Ministero della Salute (www.salute.gov.it) al trapianto autologo di CSE nei
bambini sono le seguenti: