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CONTADINI E AGRICOLTURA NELL'EUROPA CONTEMPORANEA

Author(s): Giovanni Levi


Source: Quaderni storici , aprile 1983, Vol. 18, No. 52 (1), Protoindustria (aprile 1983), pp.
366-369
Published by: Società editrice Il Mulino S.p.A.

Stable URL: http://www.jstor.com/stable/43777153

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anno XXXIII, n. 1, gennaio-aprile 1973) e con un contributo di


Franco Bonelli («Quaderni di Italia Nostra», n. 10, novembre 1973),
aggiornando e approfondendo l'esame della situazione e propo-
nendo concrete iniziative.
Non resta che adoperarsi perché alle parole seguano i fatti.
Marco Doria

CONTADINI E AGRICOLTURA
NELL'EUROPA CONTEMPORANEA

Il Congresso sulle trasformazioni delle società rurali nei paesi


dell'Europa occidentale e mediterranea (secc. XIX-XX), organiz-
zato a Napoli e Sorrento dal 25 al 28 ottobre 1982, ha aperto
ufficialmente l'attività pubblica del Centro studi per la Storia
comparata delle società rurali in età contemporanea dell'Uni-
versità di Napoli. Tema del convegno era un bilancio degli studi
e l'indicaziione di prospettive aperte per la ricerca. Le relazioni
e il dibattito hanno subito mostrato quanto sia il lavoro da fare
per omogeneizzare problemi e linguaggi, partendo da analisi
nazionali ancora molto sorde a una prospettiva comparativa. Le
società rurali contemporanee hanno destato finora - come ha
detto P. Villani indicando gli scopi del Centro - un interesse
relativamente scarso (salvo i casi delle collettivizzazioni forzate)
particolarmente da parte degli storici, al di là di un'attenzione
molto ideologica per gli aspetti politici della storia del movimento
contadino e sindacale o dei dibattiti sulla questione agraria in
seno ai partiti socialdemocratici, comunisti, cristiani. Molto meno
si è fatto sull'assetto della proprietà, sulla stratificazione, sulla
geografia della conduzione, sulle relazioni fra gruppi e classi,
sul rapporto tra mondo contadino e mondo urbano.
Nella sua introduzione M. Aymard ha proposto alla discus-
sione come tema generale il superamento della visione binaria,
comune a storici e a scienziati sociali, che ha fatto porre l'accento
solo sulla rottura, avvenuta fra fine 700 e fine '800, fra uno
statico mondo rurale e il dinamico mondo urbano e industriale.
Si è sostituita così una opposizione binaria semplificante a una
teoria dello sviluppo che ricercasse il mutamento in seno alle
società che questo sviluppo hanno vissuto e prodotto, che mettesse
in luce la rilevanza esplicativa degli elementi di continuità. In
realtà le teorie della modernizzazione o i modelli che mettono

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naturalisticamente in relazione stagnazione tecnica e popolazione


o i seguaai (e travisatori) di Chayanov che mettono in successione
mondo contadino dominato dall'autoconsumo e mondo commer-
cializzato, hanno prodotto come risultato questa lettura polariz-
zata sull'opposizione netta fra passato e presente; hanno cioè
appiattito il passato delle società rurali in una immobilità che
impedisce di cogliere, dietro quest'apparenza, i lenti cambia-
menti tecnici e i profondi fenomeni di accumulazione, le diffe-
renze regionali che si creano e che si allargano, le divaricazioni
di sviluppo fra Europa del Nord ed Europa mediterranea. Si è
insomma rinunciato - secondo Aymard - ad esaminare le con-
tinuità lente, i ritmi propri delle società rurali: la vittoria sulle
epidemie - ad esempio - , l'alfabetizzazione, la trasformazione
dei sistemi di coltivazione, le nuove gerarchie spaziali in cui il
ruolo delle città è già definito prima della fine del '700, come
anche le scelte e i tagli che la storia successiva vedrà nelle eco-
nomie europee.
La prospettiva indicata da Aymard propone anche una diversa
considerazione dell'urbanizzazione rispetto a quella sin qui pra-
ticata: l'occupazione rurale delle città, in una linea già aperta
del resto da Halpern nel 1965 quando aveva parlato di ruralizza-
zione delle città. Un'operazione non innocente che ha posto alle
città nón un semplice problema di assorbimento ma un più
complesso, immenso problema - ancora non risolto - di modi-
ficazione e di acculturazione.
La seconda relazione introduttiva, dovuta a Giuseppe Galasso,
si è mossa invece in una prospettiva molto diversa: la fine dei
contadini, in una spiegazione del tutto esogena e in realtà piut-
tosto scontata della scomparsa delle società rurali, pian piano
assoggettate al mondo urbano. E dopo aver contestato «la traco-
tante affermazione, da respingere» di W. Kula che il contadino è
sempre stato sfruttato, Galasso ha dato una specie di teoria
dell'addomesticamento progressivo, del dilagare del capitalismo
dall'esterno a cui le campagne non potevano sfuggire, sia pur
con tanti modelli di fine dei contadini quante erano le variegate
realtà contadine da domare.

Due prospettive dunque, così lontane che era difficile alle


varie comunicazioni tenerne conto veramente. Il convegno è stato
così un indicatore sintomatico della necessità di porre i problemi
su temi meno generali, per costruire nel concreto discorsi e
strumenti comuni. I vari interventi si sono piuttosto dedicati
all'analisi di situazioni nazionali senza che il dibattito abbia

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potuto avviare una comparazione che quasi nessuna delle comu-


nicazioni proponeva. Se dunque i problemi posti sul tappeto
sono numerosi, d'ora innanzi sarà forse più utile che il lavoro
del Centro si strutturi in riunioni e gruppi di lavoro più compatti.
La situazione meglio illustrata è stata senza dubbio quella
inglese, che ha mostrato l'alto grado di attenzione che storici e
sociologi hanno rivolto tradizionalmente a un'analisi strutturale
del mondo rurale. Collins ha mostrato che le cause della crisi
dell'agricoltura inglese dalla grande depressione in poi sono certo
legate al mantenimento del libero scambio in un mondo sempre
più volto al protezionismo, ma anche alle caratteristiche pro-
fonde dell'agricoltura inglese in cui il dominio del mixed farming
impediva una specializzazione che riducesse i costi aumentando
la produzioni. D'altra parte, proprio considerando un'area di
forte specializzazione cerealicola, l'East-Anglia, H. Newby ha esa-
minato gli effetti dell'urbanizzazione della campagna, che ha
trasformato l'Inghilterra rurale in un territorio dominato dalla
middle-class trasferitasi massicciamente dalle città. Gli effetti
sono stati di polarizzazione sociale perché i gruppi capitalistici
locali, che avevano gestito le politiche delle comunità rurali,
alleandosi con questi nuovi gruppi, accentuano l'emarginazione
anche psicologica dei lavoratori della terra, chiamati più a una
identificazione localistica contro i nuovi venuti che a un conflitto
aperto con i grandi proprietari.
Il caso inglese non è che un esempio. Ma non occorre qui
richiamare le analisi più convenzionali svolte per altri paesi,
la Francia (P. Barrai per gli aspetti politici; J. Klatzmann, in
una prospettiva tutta rivolta al futuro, della Francia nella co-
munità europea allargata; Fumian in un'analisi esclusivamente
giuridico istituzionale degli organi centrali di governo in Francia
e in Italia); il Belgio (Wils, Van Molle); la Spagna (Malefakis,
Drain); la Germania (Puhle); Israele (Rambaud).
Le relazioni sull'Italia hanno mantenuto una eccessiva coe-
renza con lo stato un po' stagnante degli studi, sia per gli aspetti
politici - l'associazionismo cattolico e socialista, le egemonie
sindacali e politiche giunte dall'esterno nelle campagne (I Barba-
doro), il movimento contadino (Renda) - in una prospettiva
talmente consueta che il lettore potrà immaginare da sè; sia per
il più ambizioso tentativo di analisi strutturale di Fabiani che,
basandosi sui dati un po' misteriosamente costruiti da Ercolani,
ha dato un quadro molto scontato della storia dell'agricoltura
italiana in cui residui feudali e carattere assistenzialistico dell'in-

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tervento dello stato rimandano semmai a una considerazione


comparativa con altre vicende europee e mediterranee. Mottura
e Pugliese infine hanno fornito uno schema da riempire sulla
varietà delle figure di bracciante: una ricerca in corso ancora
senza risposte.
Un elemento è apparso fra le righe di molte relazioni: la ne-
cessità della revisione degli strumenti di analisi storica e sociale
troppo aggregati che sono stati sin qui utilizzati per cogliere i ca-
ratteri e le trasformazioni del mondo rurale. Molti infatti dei
concetti e delle teorie applicati sono una meccanica trasposizione
di ipotesi derivate dal mondo dell'industria e della città. Ci si
muove così, spesso, nel considerare le campagne in una indeter-
minatezza di categorie concettuali talvolta troppo generiche tal'al-
tra troppo rigide. Le conclusioni di M. Villaverde Cabral, nel-
l'ampio quadro delle fasi attraversate dall'agricoltura portoghese
negli ultimi cento anni, richiamavano a un esame più minuto
di realtà locali (un richiamo presente anche nelle relazioni di
Mottura e Pugliese, Newby, Chiva ecc.), non per frammentare
la ricerca ma per utilizzare le proposte della microanalisi per
ricreare una sintesi meno stereotipa e più interna alle vicende
complesse delle realtà rurali.
Una seconda indicazione, in coerenza con l'introduzione di
Aymard, è venuta in favore di una più lunga prospettiva storica
anche per la comprensione delle società rurali contemporanee.
E non sono stati solo gli storici (Caracciolo, Poni, Villari, Giarrizzo,
Mirri) ma anche studiosi della casa rurale (Báculo), etnologi
(I. Chiva), sociologi (P. Arlacchi), geografi. Paola Sereno in
particolare ha mostrato tutta la ricchezza delle ricerche di geo-
grafia storica sul paesaggio agrario che gli studiosi inglesi e
polacchi hanno letto come stratificazione, in un'analisi regressiva
molto ricca di stimoli anche per le ricerche in altri settori.
Un quadro dunque ampio e confuso di realtà e di discipline,
ancora solo accostate, senza una comparazione reale: al Centro
dell'Università di Napoli questo Convegno ha lasciato un'eredità
difficile e stimolante.
Giovanni Levi

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