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La marthiya (‫)ﻣﺮﺛﯿﮫ‬

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La marthīya (pl. arabo: marāthī; pl. urdū: marthīye) o elegìa funeraria rappresenta uno dei
generi più caratteristici della letteratura urdū e occupa una posizione prominente nella
produzione letteraria di questa lingua. Nata da una spontanea e genuina espressione di
compassione e di lutto per la morte di una persona cara ed amata, la marthīya consiste
nell’elogio di un eroe defunto e compianto e gode di grande favore dei poeti non soltanto nel
Subcontinente indiano, ma in tutta la letteratura del mondo islamico, sin dai suoi primordi nella
letteratura araba. Ne esistono due tipi, uno di contenuto secolare, l’altro di tipo religioso,
questo secondo essendo di gran lunga il più comune e popolare in Sudasia.
La marthīya di tipo religioso narra quasi invariabilmente le vicende drammatiche del
martirio dell’Imām Ḥusain, figlio minore del quarto califfo ‘Alī ibn Abī Ṭālib (598-661) e
terza guida politica e spirituale (imām) della comunità sciita, avvenuto nel mese di Muḥarram
dell’anno 61 AH/680 d.C. a Karbala, una città nella mesopotamia irachena. Questo tipo di
componimento poetico è quindi intimamente legato all’identità religiosa degli sciiti per i quali
la famiglia di ‘Alī, sposato con la figlia del profeta, Fāṭima (ca. 604–632) la quale diede alla
luce due figli e due figlie, rispettivamente Ḥasan (625-669) e Ḥusain (626-680) e Zainab e
Umm Kulthūm, costituisce il fulcro della successione biologica e spirituale del profeta
Muḥammad (ahl al-bait). Con il passare dei secoli, questo tema centrale fu gradualmente
arricchito di numerose altre componenti tematiche, soprattutto da quella eroica che si concentra
sulla descrizione della battaglia fra i seguaci di Ḥusain e l’esercito potenti del califfo
ummayyade Yazīd ibn Mu’āwiya (r. 680-683), dei guerrieri, dei loro cavalli e delle loro armi,
nonché del circostante paesaggio desertico, elevando in questo modo la marthīya al rango di un
genere letterario estremamente ricco, elaborato e sofisticato, intriso di pietas sciita.
La poesia in ambito letterario urdū, che nei secoli XVI e XVII vide un periodo di prima
fioritura presso le corti dei sovrani sciiti di Golkonda e Bijapur, nel Dakhan, favoreggiò sin
dall’inizio la marthīya come mezzo di espressione spontanea di partecipazione religiosa ed
emotiva atta a rafforzare il senso di identità della comunità sciita del ‘partito di ‘Alī’ e a
distinguerla dalla comunità dei sunniti, da sempre maggioritaria anche nel Subcontinente
indiano. A differenza delle dinastie musulmane di stirpe turco-afghana che regnarono nel
Nord, nel Dakhan prevalse un elemento culturale e religioso iraniano. Imbevuti di fervore
religioso, molti fra i sovrani delle dinastie dei Quṭb Shāhī (1496-1687) e degli ‘Ādil Shāhī
(1490-1686) furono patroni dei letterati e di sovente essi stessi autori di versi composti in
onore dei martiri (shuhadā, pl. di shahīd) e dei santi (awliyā, pl. di walī) caduti per la ‘giusta
causa’. Essi incoraggiarono la produzione di marthīye da presentare e recitare specialmente
durante i primi giorni del mese sacro di Muḥarram (‘āshūrā, ‫ورا‬$$ $ $ ‫اش‬$$ $ $ ‫ )ع‬e provvidero per questo
scopo alla costruzione di appositi edifici, conosciuti come ‘āshūrā-khānah.
Le marthīye composte del Dakhan, generalmente considerate come prototipi di questo
genere letterario in India, consistono in brevi lamenti espressi in forma di monologo lirico,
intercalati da ripetute esclamazioni di dolore. Esse si distinguono per la loro brevità (alcune
consistono in non più di cinque versi mentre altre di rado eccedono 15 o 20 versi di
lunghezza) e la loro essenzialità tematica, il cui fine era quello di ronā aur rulānā (piangere e
far piangere), bastato sull’idea di lutto (sogvārī, ‫ )ﺳﻮﮔﻮاری‬e lamento (‘azādārī, ‫)ﻋﺰاداری‬. Nella
forma, le marthīye composte durante quel periodo seguono nella maggior parte il modello
della ghazal, ovvero il monoritmo ripreso da un semplice ritornello alla fine di ciascuna strofa
(band) consistente in quattro versi, seguendo lo schema detto tarkīb-band: aaaa bbba ccca
ddda ecc. Un componimento strutturato in questo modo è detto murabba’ (‫)ﻣﺮﺑﻊ‬, ovvero
‘poema consistente in strofe da quattro versi ciascuna’.
La ricorrenza della rima iniziale alla fine di ciascuna stanza conferisce a questi poemi
un’unità formale e una fluidità che si addice bene al tema dominante del lutto e del lamento, ed è
amplificata ulteriormente dalla libertà del poeta di servirsi di qualsiasi misura ritmica negli altri tre
versi della strofa e da un particolare ritmo cantato, detto soz-khwānī, in cui questi componimento
erano presentati al pubblico. Primo illustre esempio di autore di martire fu il già menzionato Sulṭān
Qulī Quṭb Shāh (r. 1580-1611), le cui opere complete (kulliyāt) includono un totale di cinque
marthīye, di cui una scritta nella forma e struttura del mathnawī e le altre quattro secondo gli
standard formali tipici della ghazal.
A seguito della conquista del Dakhan da parte degli eserciti Mughal, la marthīya composta
sul modello della quartina detta murabba’ si diffuse anche in altre regioni dell’India, una tendenza
che continuò almeno fino alla metà dell’800. Gli autori delle prime marthīye composte a Delhi
continuarono a prediligere la murabba’, probabilmente in imitazione dei loro modelli sviluppati nel
Sud. Ma questa prima forma, ancora assai arcaica in forma e essenziale nel contenuto focalizzato
sugli elementi atti ad amplificare il senso di lutto (mubkī), venne successivamente scartata in favore
di elaborazioni più ampie ed elaborate. Fu con Mirzā Muḥammad Rafī’ ‘Saudā’ (1713-1781) e
Mīr Taqī ‘Mīr’ (1722-1810), durante il loro soggiorno-esilio a Lucknow (‫ﻟﻜﮭﻨﻮ‬, लखनऊ) a seguito

delle devastazioni della capitale Mughal, che i poeti dediti a questo genere letterario cominciarono
ad usare stanze composte ciascuna di sei versi, dette musaddas. Questa forma presto si impose
come formato standard per la composizione di elegie nell’India settentrionale, seguendo lo schema
di rima aaaabb ccccdd eeeeff ecc. Di solito, i primi quattro versi di ciascuna strofa servono per
portare avanti la narrativa o sviluppare un pensiero o concetto, mentre gli ultimi due versi
conferiscono profondità riflessiva alla stanza. Gli ultimi due versi, la cui rima si discosta da quella
dei quattro versi precedenti, sono conosciuti con il termine ṭīp.
L’apogeo della marthīya fu raggiunto nella prima metà dell ‘800 a Lucknow, sotto il patrocinio dei
sovrani-governatori (‫ﻧﻮاب‬, nawwāb, pl. di nā’ib, italianizzato in nababbo; letteralmente: vice-
reggente, governatore) dell’Awadh (r. 1722-1856) e dell’aristocrazia della loro Corte. La situazione
disastrata di Delhi, flagellata da continue incursioni, saccheggi, e distruzioni che risultarono nella
rapida dispersione del suo patrimonio culturale e materiale, attrasse molti dei suoi intellettuali e poeti
alla Corte di questo emergente centro culturale situato in posizione strategica nel centro della pianura
gangetica. I Nawāb di Faizabad (prima capitale dell’Awadh fino al 1775) e Lucknow, grandi
mecenati delle arti e ferventi seguaci della fede sciita come i loro predecessori nel Dakhan, estesero il
periodo di lutto dai dieci primi giorni di Muḥarram all’intero mese e incoraggiarono la produzione di
poemi atta a corroborare la pietas sciita. La forma di marthīya che emerse sotto il loro patrocinio era
diversa da quella precedentemente usata a Golkonda e a Bijapur, sia per la lunghezza dei
componimenti sia per scopo e contenuto, assumendo quella forma caratteristica definita come
marthīya epica o narrativa che può comprendere anche parecchie centinaia di strofe. In essa, il canto
ritmato (soz-khwānī) è spesso sostituito dalla maniera declamatoria detta taḥt-i lafẓ, introdotta con
l’intenzione di aumentare l’effetto drammatico durante la recita e accompagnata da numerosi gesti
elocutori. Nonostante la loro considerevole lunghezza, il contenuto tematico di questi poemi risulta
essere talmente ricco e vario che nessuno riuscì a narrare per intero l’episodio del martirio di Husain
avvenuto nel deserto dell’Iraq. Per evitare di cadere in ripetizioni stereotipate che avrebbero presto
stancato il pubblico, la varietà dei temi trattati fu ulteriormente ampliata e la narrativa arricchita da
numerose figure retoriche includendo metafore (‫اﺳﺘﻌﺎره‬, ista’āra), allegorie (‫’ﻋﻼﻣﺖ‬alāmat oppure
‫ﺗﻤﺜﯿﻞ‬, tamthīl) e simili (‫ﺗﺸﺒﯿہ‬, tashbīh), inserite in un linguaggio e stile ornamentale che, tuttavia, non
riuscì sempre ad evitare una certa monotonia.
La sequenza tematica che caratterizza la marthīya viene analizzata dai critici letterari secondo le
seguenti componenti:
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a) chihra: i versi introduttivi del poema (prologo) che, oltre a offrire i consueti elogi a Dio, il profeta
Muḥammad e il califfo ‘Alī, sanzionano il tono generale seguito nell’intero componimento;
b) mājarā: la descrizione di un evento o di una circostanza che introduce l’eroe-protagonista ponendolo in un
contesto narrativo;
c) rukhṣat: l’addio dell’eroe-martire ai suoi cari;
d) sarāpā: la descrizione fisica a caratteriale dell’eroe, ‘dalla testa ai piedi’;
e) āmad: i preparativi dell’eroe e del suo esercito per la battaglia e l’arrivo di questi sul campo;
f) rajaz: il discorso di battaglia dell’eroe virtù specifiche dell’eroe;
g) jang: la battaglia vera e propria; comprende spesso dettagliate descrizioni anche delle virtù del cavallo
dell’eroe e delle sue miracolose armi (spada);
h) shahādat: la morte ovvero il martirio dell’eroe, in genere di Husain e/o di un altro membro della sua
famiglia; secondo la tradizione, la morte di Husain avviene a seguito di un commando divino che incute
all’eroe di cessare di combattere, il che ha come conseguenza la sua uccisione considerata ‘vigliacca’;
i) bayn: i lamenti dei membri femminili della famiglia del martire e dei suoi amici, del poeta e, per
estensione, dell’intera comunità di fedeli presenti alla recita;
j) du’ā: benedizione finale in cui il poeta da sfogo ai propri sentimenti di pietà; non occupa più di una o due
stanze.
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I protagonisti nel campo della composizione di marthīye furono senza dubbio Mīr Bābar ‘Alī
‘Anīs’ (1802-1874) e Mirzā Salāmat ‘Alī ‘Dabīr’ (1803-1875), entrambi poeti di rango straordinario e
ciascuno autore di più di mille marthīye. Il rapporto fra questi due poeti era caratterizzato sia da mutua
influenza che da intensa rivalità, e la loro popolarità fu tale che nella prima metà dell’800 la città di Lucknow
era divisa in due campi, i sostenitori di Anīs e quelli di Dabīr. Generalmente, dai critici letterari da Alṭāf
Ḥusain Ḥālī (1837-1914) in poi Anīs è preferito a Dabīr, forse perché tutto sommato lo stile dei suoi
componimenti risulta meno pedante e meno artificiale nella ricerca dell’effetto.
Comunque sia, ancora prima della morte di questi due poeti, nel 1856 la sovranità
dell’Awadh giunse a termine costringendo il suo ultimo reggente, Nawwāb Wājid ‘Alī
Shāh (r. 1847-1856) all’esilio forzato nel Matiya Burj di Calcutta, un episodio che
contribuì allo scoppio della rivolta ani-britannica (Mutiny) del 1857-58. Sebbene la
composizione di marthīye continuasse per un certo periodo presso le Corti di Rāmpur
(capitale del Rohilkhand, una regione situata a nord-est di Delhi e tradizionale
roccaforte delle tribù di stirpe afghana) e di Haiderābād (nel Dakhan, capitale dei
leggendari Niẓām), il suo periodo di maggiore gloria era giunto inesorabilmente a
termine. Tuttavia, ancora oggi, le elegie funerarie di Anīs e Dabīr sono molto popolari
fra la popolazione sciita del Subcontinente e sono recitati ogni anno in occasione delle
festività legate al periodo di ‘āshūrāh.
Per concludere, un breve cenno anche alla marthīya secolare. Essa è sempre assistita,
anche se gli esempi di questo tipo sono piuttosto rari nella letteratura urdū. Conosciamo
una elegia composta in onore dell’imperatore Mughal Awrangzeb (r. 1658-1707) dal
poeta Mir Ja’far ‘Alī (1658-1713) in lingua dakhini e consistente in cinque versi. Nel
‘900, l’interesse per la marthīya secolare fu riscoperto da alcuni protagonisti del
cosiddetto Aligarh Movement, da poeti conosciuti quali Alṭāf Ḥusain Ḥāli, il quale
scrisse un elogio al grande poeta urdu Mirzā Asad Allāh ‘Ghālib’, composto da dieci
stanze ciascuna di dieci versi.
Una marthīya del Dakhan: Aṣghar kā mātam (Il lutto per il figlio minore di Ḥusain)
di Hāshim ‘Alī (murabba‘)
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Āj pur khūn kafan tarā aṣghar, āj sūkhā dahan tarā aṣghar;
lāl hai gul-badan tarā aṣghar, ḥaif yo bālpan tarā aṣghar.
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Oggi il tuo sudario è pregno di sangue, oh Asghar, oggi la tua gola è arsa dalla sete, oh Asghar,
il tuo corpo delicato, come un fiore, tutto rosso, oh Asghar, qual fine tragica della tua infanzia, oh Asghar.
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Kyon hain zulfān ke bāl tāron tār, kyon gale sen lohu ke jārī dhār;
tujh kon sote kabhū na lagtī bār, ḥaif yon bālpan tarā aṣghar.
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Perché i tuoi riccioli oggi son così disordinati, perché rivoli di sangue oggi colan dalla tua gola?
mai ci mettesti tanto tempo ad addormentarti, qual fine tragica della tua infanzia, oh Asghar.
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Ūṭh gale kā lohū dhūlā’ūn men, nīnd ātī tujh sulā’ūn men,
cal tirā pālnā jhūlā’ūn men, ḥaif yon bālpan tarā aṣghar.
!
Lascia che lavi il sangue che cola dalla tua gola, lascia che ti faccia dolcemente addormentare,
lascia che ti culli e nutra con delicatezza, qual fine tragica della tua infanzia, oh Asghar.
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Kyon judā mujh saten ke tujh kon, phir main godī li’e pharon kiskon,
kyon na lālī bulā tarī mujh kon, ḥaif yon bālpan tarā aṣghar.
!
Perché mai da me ti han separato quei crudeli, chi ora potrò stringere nel mio abbraccio affettuoso?
ora chi porterò nelle mie braccia, qual fine tragica della tua infanzia, oh Asghar.
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Allāh, Allāh kyā tujhe pālā, man men yūn thā kar dūngī bismillāh,
hā’e terā gayā ḥayā bālā, ḥaif yon bālpan tarā aṣghar.
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Oh Dio, oh Dio, chi ti ha nutrito? Come darò ora inizio alla tua educazione?
Oh bambino mio, la tua vita ti è stata strappata, qual fine tragica della tua infanzia, oh Asghar.
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Kis kā ab pālnā jhulā’ūngī, lūlī deke kise sulā’ūngī,
kis kon chātī saten lagā’ūngī, ḥaif yon bālpan tarā aṣghar.
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A chi ora accudirò, chi potrò crescere, a chi la sera canterò la ninna nanna?
chi potrò mai stringere fra i miei seni, qual fine tragica posta alla tua infanzia, oh Asghar.
Alcune strofe tratte da una marthīya di Mīr Bābar ‘Alī ‘Anīs’ (1803-1874)
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Jab qata’ kī masāfat-i shab āftāb ne, jalwa kiyā ṣaḥar ke rukh-i be-ḥijāb ne;
dekhā sū’e falak shah-yi gardon rikāb ne, muṛkar ṣadā rāfiqon ko dī janāb ne:
ākhir hai rāt ḥamd o thana-i khudā karo,
uṭho farīza-yi ṣaharī ko adā karo!
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Quando il sole aveva compiuto il suo viaggio notturno, l’alba manifestò il suo volto senza veli,
verso il cielo lo sguardo volse il re le cui staffe sono il firmamento, egli voltandosi alzò la voce ed esortò i compagni:
è giunto infine il momento, lodate e elogiate il signore!
Alzatevi e compite la preghiera del primo mattino!
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Ahl-i ghazīyo! Yeh din hai jidāl o qatāl kā, yān khūn bahegā āj Muḥammad kī āl kā;
chehra khūshī se surkh hai zahrā ke lāl kā, guzrī shab-i firāq din āyā withāl kā;
ham voh hain gham karenge malak jin ke wāsṭe,
rāten taṛap ke kāṭī hain us din ke wāste.
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Voi, guerrieri valorosi! Questo è il giorno della lotta e carneficina, ora sarà versato il sangue della famiglia del profeta;
il volto della pura (Fatima) è rosso dalla gioia, la notte della separazione è terminata, ora è giunto il giorno dell’unione;
noi siam coloro per i quali gli angeli saranno in lutto,
abbiam trascorso le notti ansimando in attesa di questo momento!
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Yah ṣubaḥ hai voh ṣubḥ mubārak hai jis kī shām, yān hai hu’ā jo koc to hai khuld men maqām,
kawthar peh ābrū se pahunc jā’en tashna kām, likkhe khudā namāz-guzāron men sab ke nām;
sab hain wāḥid-i ‘aṣr yeh ghul cār so uṭhe,
duniyā se jo shahīd uṭhe surkh-rū uṭhe.
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Questa è la mattina la cui sera sarà benedetta, coloro i quali da qua partiranno troveranno dimora in paradiso;
che noi assetati possiamo giungere alla fonte di Kawthar, che Iddio iscriva i nomi di noi tutti fra i retti fedeli;
tutti sono uguali, senza che questo clamore si sollevi da tutt’intorno,
che il martire si sollevi da questo mondo con onore (il volto rosso).

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Yah sunke bistāron se uṭhe voh khudā shanās, ik ik ne zeb-i jism kiyā fākhira libās;
shāne muḥāsinon men kiye sab ne be-hirās, bāndhe ‘imāme ā’e imām-i zamān ke pās;
rangīn ‘abā’en dosh peh kamren kase hu’e,
mushk o zabād o ‘iṭr men kapṛe base hu’e.
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Udendo ciò quei fedeli si levarono dai loro giacigli, ciascuno di loro adornò il proprio corpo con vesti gloriose;
senza timore, tutti si pettinarono barba e baffi, avvolti i turbanti si strinsero intorno il sovrano dell’epoca;
manti colorati adornano le loro spalle, i fianchi son legati,
le vesti profumate di muschio, di zibetto e di altre fragranze.
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Sūkhe labon peh ḥamd-i ilāhī rukhon peh nūr, khawf o hirās rukh o kadūrat dilon se dūr,
fayyāẓ, ḥaqq-shanās, ūlū al-azm, dhī’l-shu‘ūr, khūsh fikr o badhla sanj o hunar-parwar o ghuyūr;
kānon ko ḥusn-i sawt se haz barmalā mile,
bāton men voh namak ki dilon ko mazā mile.
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Sulle labbra secche la lode per Iddio, sui volti risplende la luce, lontano dai loro cuori paura e timore;
generosi, veritieri, determinati nella fede, gioiosi e scherzosi, ben addestri e fieri;
il tono di voce porta gioia e diletto agli orecchi,
le loro parole affascinanti compiacciono ogni cuore!
Alcune strofe tratte da una marthīya di Salāmat ‘Alī ‘Dabīr’ (1803-1875)
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Ṭai kar cukā jo manzil-i shab kāravān-i ṣubaḥ, hone lagā afaq se huweidā nishān-i ṣubaḥ;
gardon se koc karne lage akhtarān-i subaḥ, har so hu’ī buland ṣadā-yi adhān-i ṣubaḥ;
panhān naẓar se rū-yi shab-i tār ho gayā,
‘ālam tamām maṭla’-i anwār ho gayā.
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Quando la carovana del mattino aveva attraversato lo spazio della notte,
segni chiari dell’alba apparvero all’orizzonte;
lentamente le stelle del mattino scomparvero dal firmamento,
il suono del richiamo alla preghiera si levò da ogni parte;
il volto della notte buia scomparve dalla vista,
il mondo intero divenne palcoscenico del sorgere della luce.
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Chapnā voh māhtāb kā voh ṣubaḥ kā ẓuhūr, yād-i khudā men zamzama pardāzī-i ṭuyūr;
voh rawnaq aur voh sard hawā, voh faḍā voh nūr, khunukī ho jis se chashm ko aur qalb ko surūr;
insān zamīn peh maḥw malak āsmān par,
jārī thā dhikr-i qudrat-i ḥaqq har zabān par.
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Il chiarir di luna ora lascia posto al nascere del mattino,
il canto degli uccelli annuncia la memoria del Signore;
qual rifulgenza e qual fresco vento, qual ampiezza e quale luce,
che ora rinfresca l’occhio e rasserena il cuore;
sulla terra l’uomo e nei cieli schiere di angeli pure,
su ogni lingua nel mondo ricorre la lode dell’Unico e Vero.
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Voh surkhī-i shafaq kī idhar charkh par bahār, voh barūr darakht voh ṣaḥrā voh sabza zār,
shabnam ke voh gulon peh gahrahā-yi ābdār, phulon se sab bharā hu’ā dāmān-i kahār;
nāfe khule hu’e voh gulon ki shamīm ke,
āte the sard sard voh jhūnke nasīm ke.
!
E qual splendore quello del crepuscolo sulla volta celeste,
quegli alberi carichi di frutta, quelle foreste e valli verdi;
perle luccicanti di rugiada che ricoprono i fiori,
i pendii dei monti ricoperti di fiori colorati;
i boccioli di fiori profumati si schiudono tutt’intorno,
brezze di aria fresca e delicata soffian lì e là.
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