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La qaṣīda (‫)ﻗﺼﯿﺪه‬

A differenza della letteratura prodotta nel mondo arabo e persiano da cui deriva, la qaṣīda (pl. arabo
qaṣā’id, pl. urdū: qaṣīde) non è fra i generi letterari prediletti dai poeti di lingua urdū. Il termine qaṣīda è
imparentato con il sostantivo maschile maqṣad (‫ﻣﻘﺼﺪ‬: scopo, fine, derivato dalla radice verbale araba qa-ṣa-
da: intendere, desiderare) e designa un componimento poetico creato a uno specifico scopo e con una
precisa intenzione. In origine, nel mondo arabo, l’obbiettivo e scopo di questo genere letterario era quello
di auto-elogio del poeta e della sua tribù di appartenenza, esaltandone le virtù e al contempo ironizzando
sulle caratteristiche della tribù o degli individui rivali. Di norma, la qaṣīda in Sudasia consiste in una ode
panegirica composta al fine di cantare le lodi di un re, un eroe (guerriero), un profeta, un santo o di altri
personaggi potenzialmente o realmente insiti di virtù. Nella maggior parte dei casi, oggetto degli elogi di
questo tipo di componimento poetico è un sovrano o comunque un membro della classe aristocratica che
già funge da patrono del poeta oppure di chi il poeta intende lusingare per conquistarsi tale favore.
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Tuttavia, in alcuni casi la qaṣīda può anche svolgere il ruolo di descrivere in maniera ironica o
addirittura sarcastica la condizione di qualcuno o di qualcosa, assumendo in questo modo tratti di ciò che
riconosciamo nella letteratura come una satira (hijw). Uno dei primi poeti in lingua urdū a comporre con
buon successo delle qaṣīde fu il sovrano-poeta Sulṭān Qulī Quṭb Shāh (r. 1569-1611), il quale vi ricorse
per descrivere le gioie delle celebrazioni di alcune festività (hindu) durante il suo regno. È opinione
comune fra gli studiosi e critici di letteratura che soltanto due poeti, ovvero Mirzā Muḥammad Rafī’
‘Sawda’ (1712-1781) e Muḥammad Ibrāhīm ‘Dhawq’ (1789-1854), composero qaṣīde in urdū di un
livello comparabile a quello raggiunto nella letteratura persiana da poeti quali Awḥad al-Dīn ʿAlī Anwārī
(1126-1189) e Afḍal al-Dīn Bādil Khaqānī (1122-1199) oppure il poeta presso la corte Mughal di Akbar,
Jamāl-al-Dīn ‘Urfī Shirāzī (1556-1590). Tuttavia, soprattutto con Sawdā, al quale va senz’altro attribuito il
merito di aver introdotto con successo la qaṣīda nell’ambito della letteratura urdū, questo genere raggiunge
una perfezione che difficilmente si riscontrerà fra i suoi successori e imitatori.
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Uno dei poemi più famosi di Sawdā, composto seguendo lo schema formale della qaṣīda, è infatti uno
shahrāshūb, ovvero una descrizione in tono amareggiato e sarcastico della degenerazione politica,
economica e sociale dell’impero Mughal e della capitale Delhi nel ‘700:
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Kyā hu’ā, yāro, voh nasaq haihāt, līmūn ke cor kā kate thā hāth;
shahar men kyā rahe thā aman o āmān, kiye kartī thī khalq khūsh gudhrān;
thā na rishwat se kotwāl ko kām, shahar men thā na cūtte kā nām;
ab jise dekho vān jhamakkā hai, cor hai, thag hai aur ucakkā hai.
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Passati son, amici miei, quei giorni ordinati, in cui ai ladri di limoni la mano fu tagliata;
qual pace, quale ordine dovunque in città, la gente con qual serenità soleva i giorni suoi passare;
i poliziotti immuni alla corruzione, nessun ladro, da nessuna parte, girava in città;
ma ora, gentaglia dovunque volge lo sguardo, la città ricolma è di ladri, briganti e borseggiatori.
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La maggior parte delle qaṣīde composte in lingua urdū sono degli encomi indirizzati dal poeta al suo
patrono con l’intento di esaltarne le abilità e le virtù, in particolare nel campo della poesia, ma anche
dell’erudizione in generale. Un valore più duraturo e profondo deriva alla qaṣīda dal fatto che essa lascia al
poeta lo spazio sufficiente per esprimere i propri sentimenti profondi per qualunque argomento poetico che gli
stia a cuore; di conseguenza, alcune qaṣīde possono definirsi tali soltanto dal punto di vista formale, ovvero
per la loro lunghezza e lo schema di rima adottato, essendo poemi creati allo scopo di sfoggiare la vena
creativa e inventiva del poeta. In maniera simile, il grande poeta Mirzā Asad Allāh ‘Ghālib’ (1797-1869), il
quale comunque compose la maggior parte delle sue qaṣīde in lingua persiana, dedica soltanto pochi versi
introduttivi alla lode del suo patrono, incentrando il grosso dell’opera sull’elaborazione delle proprie idee
sulla vita, sull’amore e sulla poesia in generale (vedi slide successive).
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La struttura formale della qaṣīda prevede che essa inizi con una breve introduzione o prologo
detto tamhīd oppure tashbīb, nel corso della quale il poeta tenta di tracciare con grande delicatezza e
spirito un’immagine delle proprie capacità e virtù, della natura umana e della natura in senso più
ampio. In questa parte del poema, il poeta è a libertà di elaborare in dettaglio considerazioni sulle
passioni dell’amore, le bellezze della natura, i tratti affascinanti di una persona reale o immaginaria,
la transitorietà del mondo, eventi storici rilevanti, discorsi sulle virtù poetiche, interpretazioni di
sogni, formulare ammonimenti o consigli o addirittura considerazioni di ordine metafisico. Alcuni
poeti (e di conseguenza critici letterari che hanno analizzato le loro opere) hanno considerato questa
parte introduttiva come la più importante dell’intera composizione in quanto, pur distraendo
l’attenzione dal tema principale di questo tipo di componimento, questa parte è usata dai poeti per
dare dimostrazione della loro vena creativa, della loro immaginazione e del commando che
esercitano sulla lingua. Ibrāhīm Dhawq, per esempio, nella parte introduttiva di una qaṣīda dedicata
all’ultimo imperatore Mughal Bahādur Shāh ‘Ẓafar’ (r. 1837-1857) e composta in occasione della
guarigione da una malattia di quest’ultimo, scelse il tema della primavera per introdurre il suo
encomio:
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Una qaṣīda di Shaikh Mirzā Ibrāhīm ‘Dhawq’ (1789-1854)
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Zahe nishāṭ agar kījiye use tahrīr, āyā ho khāme se taḥrīr-i naghma jā’e-sarīr;
zabān se dhikr chaṛye to paidā ho, nafas ke tār se āwāz khūshtar az bām-o zīr;
hu’ā is bāgh-i jahān men shaguftagī kā josh, kalid-i kufl-i dil-i tang o khāṭir-i dilgīr;
kare hai lab-i ghuncha dār-i hazār sukhan, chaman men mawj-i tabassum kī khol-kar zanjīr;
kuch imbisāt-i hawā-i chaman se dūr nahīn, jo vah ho ghuncha-i minqar-i-bulbul~i-tasvīr,
qafas men beze ki bhī shawq-i-naghma sanji se, ‘ajab nahīn ki ho murgh-i chaman ba nāla safīr,
athar se bād-i- aharī ke lehlahane men, zamīn pe ham-sar-i-sumbul hai mawj-i naqsh-hasīr;
nikal-ke sang se gar ho sharāra tukhm fishān, to sabz faiḍ-i hawā se ho voh ba rang-i-sha’īr.
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Come posso descrivere [questa stagione], così raggiante e gioiosa,
invece dell’inchiostro dalla mia penna fluirebbe una voce dolce e melodiosa;
se con le parole volessi ricordarla dal filo dei miei respiri,
altro non produrrei che una dolce melodia;
in quel giardino vivace, colmo di gioia del fiorire,
con una gran risata il cuor dei fiori sboccerà, afflitto e doloroso;
la brezza allegra inviterà al canto l’usignolo, signore di mille melodie,
nel giardino, avendo spezzato le catene della prigionia;
qual sorpresa mai se l’uccello ingabbiato nell’uovo,
sospinto dall’urgenza di cantare, voce darà ai suoi lamenti per la detenzione;
mosso dal vento fresco e profumato di primavera la stuoia (degli amanti),
poggiata a terra come la pianta del nardo comincia il suo moto ondoso;
se la scintilla nata dalla pietra per terra fosse mai piantata,
l’aria di primavera, piena di grazia, come una piantina d’orzo la farebbe rinverdire.
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In seguito, Dhawq continua a fornire immagini vive e colorate della primavera e degli effetti che questa stagione lascia
sugli esseri umani. Il motivo è ovviamente quello di influenzare positivamente lo stato d’animo e, di conseguenza, la salute fisica
del sovrano facendo appello a un recupero precoce della sua salute.
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La parte introduttiva è seguita dalla digressione detta gurez, durante la quale il poeta si
rivolge al personaggio a cui il poema è dedicato (mamdūḥ). Alla digressione segue la
descrizione delle virtù di questo personaggio (madḥ) per comporre la quale il poeta sceglie
accuratamente un vocabolario pregno di valenza simbolica tratto dal repertorio standard della
cultura islamica, universalmente condivisibile. Se si tratta di un un sovrano, il poeta descriverà
tramite il ricorso all’iperbole (mubālagha) la sua generosità ed ospitalità, il suo senso di
giustizia e la rettitudine e integrità del suo carattere.
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Dopo aver espresso con eloquenza la richiesta del favore di cui il poeta si aspetta
l’esaurimento (mudda’ā), l’autore della qaṣīda porta a conclusione il proprio componimento
con una preghiera per la salute e la prosperità del suo patrono (du’ā), a sua volta seguita da
un’elegia dei suoi pregi e delle sue qualità. Come anche in altre opere letterarie, lo pseudonimo
del poeta (takhalluṣ), è di solfo inserito alla fine del poema, ma a differenza della ghazal esso
può comparire anche in altri suoi versi. La qaṣīda può essere composta in qualunque metro, ma
lo schema di rima seguito è invariabilmente, come quello della ghazal, aa ba ca da ecc.;
tuttavia, la qaṣīda è molto più lungo di questa e varia in genere da un minimo di quindici o
ventuno fino a anche duecento distici.
Al giorno d’oggi, ascoltando e leggendo le qaṣīde, le ambizioni e le esecuzioni dei poeti che si sono esercitati nella
composizione di questo tipo di poemi possono apparire esagerati e fuori misura nell’uso dell’iperbole che lascia
l’impressione di ipocrisia, motivo per cui si è tentato di biasimarli di ossequiosità e di eccessiva reverenza. Ma
calandosi nella mentalità prevalente dell’epoca in cui questo genere letterario è nato e fiorito, quando i sovrani, rājā e
sultani, esercitarono un potere assoluto e quando la nobiltà della loro corte disponeva di ricchezze enormi impiegate in
buona parte per svolgere la funzione di mecenati dei poeti e di altre belle arti, in grado di elargire qualsiasi ammontare
di denaro e di proprietà latifondista (jāgīr), è possibile comprendere come questi componimenti poetici erano
perfettamente in linea con le tendenze del tempo e le sue esigenze. Era parte del loro ruolo e della loro funzione quello
di dare dimostrazione della propria generosità così qualificandoli come membri degni della classe sociale a cui
appartenevano e prova tangibile della loro capacità di apprezzare e incoraggiare una raffinata cultura intellettuale.
Dall’altro canto, il rispetto e la venerazione nutriti per profeti, santi e altri autorevoli rappresentanti dell’ordine sacro
generò uno spontaneo e sincero bisogno di esprimere elogio nei loro confronti che trasse origine da una profondità di
sentimento religioso forse inimmaginabile ai tempi moderni.
L’uso di un linguaggio elegante e il ricorso a espressioni maestose, la ricorrenza di frasi altisonanti e l’impiego di
immagini colme di splendore costituiscono gli ingredienti fondamentali di una qaṣīda. Per dare lustro ai propri versi, il
poeta dovette dimostrare di padroneggiare ogni tipo di figura retorica e trucchi retorici, così contribuendo non soltanto
all’ascesa della qaṣīda sull’orizzonte della letteratura urdū, ma anche ad arricchire la letteratura con nuovi elementi e
un uso artistico della lingua. Tramite queste qualità sublimi, lo specifico genere letterario della qaṣīda rese un grande
servizio sia alla lingua che alla letteratura hindī-urdū, che non trova equivalente se non, forse, nei racconti popolari
(dāstān). Ed è questo il motivo per cui nell’universo letterario del mondo pre-coloniale, un poeta per essere
riconosciuto come tale e per essere inserito fra i poeti di alto rango dovette dare prova di successo proprio nel campo
della qaṣīda, considerata la perfezione dell’ars poetica. Con il declino delle monarchie e del sistema feudale e degli
standard letterari e culturali che li avevano caratterizzati, anche la qaṣīda perdette la sua ragion d’essere e
inevitabilmente sparì dalla letteratura. Rimane tuttavia importante ricordare questo genere letterario per il ruolo
fondamentale che esso ha svolto nell’epoca di maggiore splendore della letteratura urdū e per il prezioso contributo
che ha dato a questa.
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Una qaṣīda di Mirzā Asad Allāh Khān ‘Ghālib’ (1797-1869)
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Ode al Re (madḥ-i Shāh)
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Ṣubḥ dam darwāza-i khāwar khulā,
mahr-i ‘ālam tāb kā manẓir khulā;
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Al nascere del mattino la porta d’Oriente ampia si spalanca,
brillante il sole il suo volto caldo al mondo rivela;
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khusrau-i anjum ke āyā ṣarf men,
shab ko thā ganjīna-i gohar khulā;
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quando il sovrano delle stelle nel cielo manifestò il suo tesoro,
di notte, colmo di gemme e di perle, il ciel si mostra;
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voh bhī thī ik sīmīyā kī sī namūd,
ṣubaḥ ko rāz-i māh o akhtār khulā;
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come un miraggio, magiche appaion la luna e le stelle,
al chiarir del giorno allo sguardo essi i loro segreti rivelano;
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hain kawākib kuch, naẓar āte hain kuch,
dete hain dhokā yeh bāzīgar khulā;
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le stelle non sono ciò che sembrano a prima vista,
giocolieri son pieni di inganni, molti trucchi loro metton in mostra;
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saṭah-i gardon par paṛā thā rāt ko,
motiyon kā har ṭaraf zewar khulā;
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sul pavimento del firmamento giace sparsa la notte,
decorazioni ricoperte di perle, filo per filo, in essa appaiono da ogni direzione;
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ṣubaḥ āyā jānib-i mashriq naẓar,
ek nigār-i ātishen rukh sar khulā;
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ma quando giunse la mattina, il viso rivolto verso Oriente,
un volto ardente come il fuoco allo sguardo si rivela;
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thī naẓar bandī kyā jab radd-i siḥar,
bādah-yi gulrang kā sāghar khulā;
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quanto era affascinante quando il richiamo dell’alba,
come un calice colmo di vin rosato mi si rivela;
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lāke sāqī ne ṣubūḥī ke li’e,
rakh diyā hai ek jām-i zar khulā;
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quando il coppiere, servito il vino del mattino,
appoggiandolo dinnanzi a me una coppa dorata mi si rivela;
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bazm sulṭānī hu’ī ārāsta,
ka’ba aman o aman kā dar khulā;
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l’assemblea regale s’adorna di mille ornamenti quando,
la porta della Ka’ba, dimora di pace e rifugio, si spalanca;
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tāj zarīn mehr tābān ke siwā,
khusrau-i āfāq se munh par khulā;
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la corona dorata in guisa di un astro caldo e lucente,
sul capo del sovrano della volta celeste si rivela;
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shāh-i roshan dil bahādur shah ki hai,
rāz-i hastī is par sar tā sar khulā;
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al sovrano della luce, a colui il qual cuor è coraggioso,
il mistero dell’esistenza, dall’inizio alla fine, si rivela;
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voh ki jis kī ṣūrat takwīn men,
maqṣad na charkh o haft akhtar khulā;
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colui sul qual volto è iscritto lo scopo della creazione,
anche il mistero del volgere dei sette pianeti si rivela;
voh ki jis kī nākhan-i tāwīl se,
‘uqda-i aḥkām-i paighambar khulā;
!
è colui dalle cui unghie l’essenza,
insita nei comandamenti del profeta si rivela;
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pahle dārā kā nikal āyā hai nām,
is ke sar-hangon kā jab daftar khulā;
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dapprima il nome di Dariush appare alla vista,
allorquando i rotoli dei suoi comandanti si schiudono;
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roshnāson kī jahān fihrist hai,
vān likhā hai cehra-yi qaiṣar khulā.
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laddove appaiono angeli rifulgenti di luce raggiante,
proprio là, è scritto, il volto dell’Imperatore si rivelerà.
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Tausan-i shah men hai voh khūbī ki jab,
thān se voh ghairat ṣar ṣar khulā;
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Quando nel cavallo di battaglia del Re insita è quella virtù,
dal drappo della sua veste lo stupore come una brezza fredda si rivela;
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naqsh-i pā kī ṣūraten voh dil-farīb,
to kahe but-khāna āzar khulā;
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affascinanti sono le impronte dei suoi piedi,
dicci tu quando la porta del tempio idolatra di Āzar si spalancherà;
mujh pe faiḍ tarbiyat se shāh ke,
manṣab-i mahr o mah o maḥwar khulā;
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quando su di me la grazia giunge del nutrimento del sovrano,
del sole, della luna e dell’asse polare il rango mi si rivela;
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lākh ‘aqde dil men the lekin har ek,
merī ḥad-i wasa’ se bahār khulā;
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mille nodi han tenuto stretto il mio cuore, ma ciascuno
è sciolto ora, affrancandomi da ogni angusto vincolo;
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thā dil-i wābista qufl-i be kalīd;
kisne khulā, kab khulā, kyonkar khulā;
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chiuso come un lucchetto senza chiave era il mio cuore,
chi l’ha aperto ora, quando e perché?
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bāgh-i ma’nī kī dihkā’ūngā bahār,
mujh se gar shāh-i sukhan gustar khulā;
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nel giardino del mistero ora ti mostrerò la primavera,
se il sovrano che dispensa eloquenza a me si rivela;
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ho jahān garam-i ghazal-khwānī nafs,
log jānen ṭabla-yi ‘anbar khulā;
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laddove l’anima è calda di passione per la poesia d’amore,
la gente sappia che un vassoio colmo d’ambra profumata si rivela.
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dekho Ghālib se gar uljhā ko’ī hai,
walī poshīda aur kāfir khulā.
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chiunque con Ghālib s’intrattiene badi bene,
in apparenza è infedele, ma nel nascosto, invero, è santo.
Una qaṣīda (parziale) di Mirzā Muḥammad Rafī‘ ‘Sawdā’ (1713-1780)
Uṭh gayā Bahman o Dae kā chamanistān se ‘amal, tegh-i Urdī ne kiyā mulk-i khazān mustāṣal;
sijda-yi shukr men hai shākh-i thamardār har ek, dekh-kar bāgh-i jahān men karm-i ’izz o jal;
quwwat nāmīd letī hai banātāt kā ‘arḍ, dāl se pāt talak phūl se lekar tā phal;
wāsṭe khil’at-i nawrūz ke har bāgh ke bīc, āb-jū qaṭa’ lagī karne ravish par makhmal;
bakhshtī hai gul-i naurasta kī rang-amezī, poshish chīnat qalam-kār bahrosht o jabal;
‘aksī gul-ban yah zamīn par hai ki jis ke āge, kār-i naqāshī-i mānī hai dawm voh awwal;
tār bārish men parote hain gahrhā’yi tagarg, hār pahnāne ko asjār ke har sū bādal;
bār se āb-i rawān ‘aks-i hujūm-i gul ke, lūṭe hai sabze pe az baz ki huā hai be-kal,
josh-i rūa’idagī khāk se kuch dūr nahīn, shākh se gāo-i zamīn ke hai jo phote ko sapal;
āb jū gird-i chaman lam’a-yi khūrshīd se hai, khaṭ-i gulzār ke sifḥe pe talā’ī jadwal;
sāyā-yi barg hai is luṭf se har ik gul par, sāghir-i la‘l men jūn kīje z mard ko ḥasal.
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Scomparso è dal giardin d’inverno ogni frenetico agire, la spada della primavera ha sconfitto il regno dell’autunno;
ogni albero di frutta in gratitudine si prostra, testimone delle grazie che Iddio riversa sul giardino del mondo;
dal ramo alle foglie, dal fiore fino al frutto, la potenza della crescita s’estende al regno vegetale,
il giardino indossa la veste d’onore del nuovo anno, lungo il cammino un sentiero di velluto traccia l’acqua del ruscello;
un arcobaleno che dipinge una rosa appena sbocciata, di tessuto decorato di colori riveste monti e colline;
l’ombra incantevole dell’usignolo sulla terra, sorpassa in bellezza un quadro dipinto dal profeta Mānī;
nubi colme infilano chicchi di grandine su fili di pioggia invernale, coprendo di ghirlande file lunghe di alberi;
il ruscello si dispiega nel verde con estrema irrequietezza, interrotto lì e là dall’ombra profusa di mille fiori;
non sorprende se per la straordinaria fertilità del terreno sul corno del toro che sopporta la terra spunta un fiore;
il ruscello che scorre nel giardino riflette scintille di luce del sole, tracciando un margine dorato su ogni pagina del giardino;
l’ombra delle foglie delicata si riversa su ogni fiore, come il dipinto di un rubino disciolto in un calice di diamante.

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