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A piedi in Paradiso
il Cammino di Santiago
24 Agosto – 21 Settembre 2008
di don Remo Resca
Ad Antonio
Lo zaino è pronto con la candida conchiglia cucita sullo sfondo di tela nera.
E’ stato bello prepararlo, riempiendo le tasche di libri da
una parte, il materiale per salute e igiene dall’altra; in
mezzo lo spazio per i vestiti, divisi in sacchetti di cellofan.
Recito da solo la preghiera del pellegrino pensando ai
miei compagni.
Antonio e Roberto stanno arrivando da Bologna in auto.
Sergio e Alberta sono già in viaggio col loro camper verso
Roncisvalle.
Un problema alla batteria ci costringe ad una visita all’elettrauto Fiorini che, disponibile, apre la sua
officina di domenica per noi.
Il viaggio prosegue tranquillo in autostrada.
A San Bartolomeo a Mare, in Liguria rammento che
oggi è la festa di questo Apostolo, ironico e sapiente,
che i vangeli chiamano anche Natanaele.
Verso le 18,30 valichiamo il confine con la Francia e
ad Arles ispira fermarci per la notte.
Il tragitto di avvicinamento è di quasi 1000
chilometri, che suddivisi in due giorni sono
affrontabilissimi.
I miei amici sono amabili conversatori perciò il
tempo trascorre veloce e piacevole.
Già alla prima sosta si precisano i ruoli: Roberto
Spessotto, uomo d’affari ed esperto di viaggi, cura la regia della cena, gli accordi per le camere, la
prima conversazione a tavola. Antonio è la guida; io l’ospite, inesperto e appassionato.
Dopo cena salgo in camera, condivisa con Antonio. E’ una vita che dormo da solo, mi adatterò?
Gironzolando per le colorite viuzze del paese pirenaico, sono rammaricato di saltare la prima tappa,
la terribile salita da San Jean a Roncisvalle. Le guide la descrivono come un itinerario arduo e
molto bello. Accetto volentieri tuttavia il consiglio di non presumere delle proprie forze e fare
questo tratto in auto.
Roncisvalle ci avvolge con la magia delle sue architetture: in uno scenario fiabesco di boschi e
quinte di monti, la Collegiata, sapientemente edificata da maestri della pietra e dell’anima, trasmette
un senso di dignità e armonia. Luogo ideale per
preparare e iniziare qualcosa di grande. E’ una limpida
sera di fine agosto; facciamo apporre alla Credenzial il
primo sello, il timbro (dicono sia uno dei più belli del
Cammino); visitiamo il nuovo meraviglioso Hotel de
los Benedictos, recupero di un monumentale edificio
antico, l’Albergue, poi Messa con benedizione dei
Pellegrini davanti alla Vergine di Roncisvalle. In
chiesa siamo più di 200 pellegrini. Li guardo,
compagni di comune cammino. Nel volto di tutti una
grande attesa. Domattina alle 7,00 si parte.
roventi e un fastidioso prurito al piede sinistro, temo il rischio di vesciche. E’ buio, nel bosco non
posso nemmeno fermarmi a controllare e sistemare. Sono terrorizzato. E’ appena iniziato il
cammino e mi trovo già con dei problemi!
La colazione che facciamo, in un piccolo bar, mi vede con le scarpe già levate, in prolungato
massaggio alle dita e una pesante ombra sul cuore. Taccio, non mi va di parlare.
L’alba rischiara non solo il cielo, ma anche tutte queste paure. I piedi, una volta raffreddati, si
sistemano e non danno più problemi.
All’uscita da Burghete incontriamo una graziosa giovane pellegrina: trecce bionde, occhi
azzurrissimi; zoppica vistosamente, porta uno zaino smisuratamente grande, appoggiata ad un
bizzarro bastone ricurvo. Si chiama Joys, è di New York; il suo sorriso buono e determinato fa
infinita tenerezza. Ha già i piedi piagati e vuole arrivare a Santiago.
Il sentiero si snoda su paesaggi magnifici: un alternarsi di pascoli, boschi, radure; percorso
puntellato dal bosso selvatico, col suo intenso profumo. I Pirenei hanno gli smaltati colori delle Alpi
e la delicatezza degli Appennini: mandrie di mucche, cavalli e greggi al pascolo rallegrano sguardo
e cuore.
Sotto la volta degli alberi m’ispira una
particolare preghiera allo Spirito Santo, che
faccio con le braccia allargate, come chi
vuole prendere tutta l’aria, tutto il sole,
tutta la santità che aleggia intorno.
Prima di Zubiri si passa il “ponte della
rabbia”. Dicono che chi lo oltrepassa non si
arrabbierà più; pur essendo una leggenda,
formulo volentieri l’intenzione.
Attorno alla fontana ombrosa del paesino,
una giovane pellegrina canadese suona il
violino. Una folla di camminatori in
descanso (riposo) la ascolta, mangiando
frutta, pane e altro.
Siamo seduti vicino alla fontana, in una
scalinata che sembra una platea. Dopo il concerto ripone in un apposito zaino il suo strumento e
riparte col giovane amico italiano, incontrato appena due giorni prima.
Alberta, Sergio giungono piuttosto provati; con la bandiera italiana vistosamente appesa allo zaino
procedono tenendosi per mano, segno di affetto ma anche per sostenersi nella ripida discesa verso
Zubiri. Valutano sia meglio sistemarsi con noi per cena e notte, piuttosto che in camper.
La ricerca dell’alloggio occupa tempo e qui si vedono le nostre diverse filosofie.
Io mi infilo per curiosità nel primo ostello all’ingresso del paese, rimanendone innamorato. E’ una
costruzione privata, ordinata, con la sua reception, il soggiorno, e camerette linde con letti a castello
di legno e tende fiorate. Un nido mi pare. Antonio vorrebbe la soluzione delle camere private.
In omaggio a Roberto si opta invece per l’elegante piccolo hotel, da poco ristrutturato con ampio
uso di tonalità scure, per ricchi pellegrini in età matura.
Mi coinvolge moltissimo “la prima volta” nel rito del bucato: calze, mutande e maglietta in sapone
di Marsiglia, stesi ad asciugare all’aria e al sole in apposita terrazza, con filo e ciappetti.
Messa all’Alto di Ibaneta, di ringraziamento, commossi e contenti di essere qua.
famosa per la corsa dei tori nella Fiesta di S. Firmin. Impressiona l’abbondanza d’indicazioni
segnaletiche per i pellegrini. Una città moderna, pulita, organizzata, con larghe avenue, parchi, zone
storiche, e una Università incastonata in verdi prati con macchie di querce e lecci. Anche qui
facciamo il sello, il timbro di rito. A Pamplona acquisto un sacco a pelo. L’anima solitaria e
impaziente s’agita in me. Dico a tutti candidamente che mi piacerebbe fare un tratto da solo, con
l’esperienza degli ostelli; purtroppo non conosco le lingue, handicap penoso del mio Cammino.
Dopo Cizur Menor e la chiesa dei Cavalieri di Malta, inizia la ripida e pietrosa salita all’Alto del
Perdon. A metà percorso s’incontra il cippo-ricordo di un pellegrino belga, morto in quel punto: la
sua foto, con zaino e scarponi, fa pensare ad un uomo con problemi cardiaci. Ieri abbiamo visto il
tumulo di un pellegrino giapponese, morto appena due anni fa, a metà della prima tappa.
Nel paesino di Zaraquiegui, unico centro abitato prima del valico, non c’è bar, dunque spuntino con
acqua di fonte, pane e formaggio avanzati.
Dimentico la corona del rosario presso la fontana. Mi sento smarrito senza, tanto è importante e
continua la sua recita durante il cammino; costruisco con fili d’erba una corona di fibra vegetale.
La cima del Pardon è descritta da tutte le guide per il parco eolico e il singolare monumento con le
sagome dei pellegrini in metallo. Il pomeriggio è calmo, ma arrivati al crinale s’alza il vento e le
enormi pale dell’impianto iniziano a roteare a poche decine di metri: è una sensazione fortissima, un
vibrante sibilo, come le vele sbattute di un gigantesco vascello.
Ho pensato alla presenza dello Spirito Santo, che ha voluto salutare così il nostro arrivo.
La discesa è ripida, sassosa, lunga, resa ancora più faticosa dal solleone. All’arrivo Roberto quasi
svuota un distributore di acqua fredda. Nei polverosi paesini attraversati, incontriamo vari gruppi di
pellegrini e pellegrine, tutti assai provati dalla dura tappa. A Obanos, colpa mia, ci sbagliamo
strada, o meglio la allunghiamo, il che è la stessa cosa.
Antonio propone di salire in auto, ma io duro e puro, voglio arrivare fino in fondo a piedi.
In mezzo alla campagna di vigneti e cereali, Eunate è un luogo di una suggestione indescrivibile.
Queste chiese ottagonali, piccole, con quei perimetri in pietra dall’intuibile simbologia cosmica
sono luoghi dell’anima. Rimango colpito prima da un giovane che scrive il diario, assorto sulle
antiche pietre, e da un altro che all’interno rimane a lungo immobile, come una statua, davanti al
Tabernacolo. Antonio inginocchiato vicino a me, scoppia in un pianto dirotto. Non ne conosco le
ragioni, ma intuisco i sentimenti che lo muovono. Non lo lascerò, mi rendo conto di tutto quello che
fa per noi, quanto si sacrifichi, perché il nostro pellegrinaggio riesca bene. Oggi è al massimo della
sua dedizione: ha appena raccolto Sergio, lo accompagnerà a prelevare il camper, ha cercato
l’alloggio, ora la chiesa per la Messa.
Celebro e nel giorno di S. Monica preghiamo per le nostre mamme; alla benedizione finale del
Pellegrino mi viene un groppo alla gola: sono troppo felice.
Pernottamento in una casa rural, gestita da un’allegra e solerte spagnola, che ispirerà ai miei
compagni divagazioni sul tema: “come sarebbe bello sposare una spagnola” e cena in un’asadora di
Puente de la Reina con verdure di ogni tipo, funghi, melanzane, prosciutto, patate, vino rosso e un
trancio di carne ai ferri così buono e abbondante che ce lo sogneremo per giorni e giorni.
Puente de la Reina. E’ bellissima questa via e il ponte che le dà il nome. Tutto è a misura di
pellegrino; anche esteticamente ne è una cornice ideale: vie strette di pietra; linee che portano verso
gli archi di ingresso e uscita. Fuori dall’indimenticabile cittadina, saliscendi in mezzo ai campi;
incontro con Gloria, una single spagnola che era ieri a Eunate. “Grazie per la Messa!” dice
riconoscendoci. Interprete e guida turistica di mestiere, fa da sola una settimana di Cammino, per
ragioni che non rivela, ma capiamo in questa convenuta discrezione. Provo simpatia per lei e
quando capita di camminare vicini sono contento.
Presso la fontana di Manerù ho un “incidente” con due australiane: vedendole arrivare da lontano
stanche e assetate, le saluto cordiale in inglese: “Come on!” Venite!
Mi guardano accigliate e con disappunto passano oltre senza rispondere.
Il mio vicino spiega l’arcano: hanno capito che le abbia chiamate “Hamon!” che in spagnolo
significa “prosciutti” E siccome le due australiane erano assai in carne, si sono molto offese.
A Villatuerta c’è una chiesa bella, con ombroso e arcuato patio, sedili lunghi di pietra, dove se fossi
stato da solo mi sarei fermato.
Anche la città d’arrivo è bellissima: Estella, con la sua antica e dolce via di ingresso, le sue piazze, e
le stupende tre chiese, nei punti più alti della città, resa graziosa dal fiume e i parchi annessi.
Dormiremo vicino alla Plaza de Toros, nell’Hotel Jerry, il cui nome evoca care assonanze.
Purtroppo in camera non ci sono terrazzi per asciugare il bucato: solo una normalissima finestra,
sulla quale inventerò un ingegnoso stendi panni verticale. Fa caldo e c’è un grosso ventilatore: io ne
ho terrore, Antonio ne ha bisogno; con abnegazione lo spegne.
Messa nella chiesa monumentale di S. Miguel; dopo le 21,00 cena da lusso sempre in ossequio a
Roberto, con verdure, bacalao in salsa, vino bianco della Rioja e supergelato.
Troppo cibo e quella notte gran problemi alla pancia.
della locale Bodega (Cantina Sociale) per rincuorare i pellegrini e farsi anche un po’ di pubblicità.
Questa mattina il mio stomaco proprio non ne vuole sapere di vino, deve smaltire quello di ieri.
Però mi fa piacere incontrare Gloria che tutta raggiante mi porge un pezzo di formaggio: “con
questo, il vino è più buono!”.
Il sentiero esce dall’abitato proseguendo in mezzo ad una zona di macchia mediterranea: la grazia
delle forme arbustive si intreccia alla intensità dei profumi, esaltati dal caldo che presto si fa
elevato. Sponde di pini marittimi, pioppi e viti, ombrosi sentieri fiancheggiati da muri di pietra.
Incontriamo una pattuglia di guardie forestali spagnole, dalla divisa rosso fuoco, su moto rosso
fuoco, molto cinematografiche.
A Monjarden la famosa Fonte de Moros. E’solo un piccolo lavatoio, o un abbeveratoio, ma è così
grazioso e singolare, in quel luogo, che fa pensare a un tempio dell’acqua, per onorare questo
elemento del creato, così prezioso.
A Villamajor ci fermiamo nell’unico bar, proprio di fianco al verde campo della “pelota”. Da
adesso cominciano “i 12 chilometri fuori dal tempo”, come recitano le guide. In realtà è un
gradevole sentiero: semplicemente non s’incontrano bar.
In una piccola oasi con fontana, vedo Miguel che fascia la caviglia ad una giovane in difficoltà.
Miguel è un pellegrino sulla trentina, molto estroverso e loquace, lo si incontra continuamente, va
veloce, saluta tutti, proponendo consigli ed aiuto. Ha l’aria di conoscere tutto sul Cammino, su ogni
difficoltà e su ogni rimedio; ama sentirsi utile e sembra dispiaciuto quando qualcuno non ha
problemi o necessità di lui.
Io e Antonio camminiamo insieme; una quercia con ai piedi due grossi sassi ci ispira una sosta e un
pranzetto: acqua, pane e formaggio, mele. Scambiamo il rituale “hola!” coi passanti.
Come è bello essere qui, in questa semplicità, il piacere di un pasto frugale, il ristoro di un’ombra,
l’allegria di un saluto. Corpo, mente e anima ringraziano.
A Los Arcos arriviamo alle 14,00, l’ora della
siesta. Per il paese non si vede nessuno. Solo
pellegrini ai tavolini dell’unico bar nella
graziosa piazza.
Dopo la doccia e il bucato, mi porto anch’io
nella piccola piazza riparata dal sole, al
QuickTimeª e un fresco abbraccio degli edifici di pietra
decompressore lavorata. Sono circondato dai pellegrini con
sono necessari per visualizzare quest'immagine.
cui ho camminato stamattina. Non capisco
nulla: lingua inglese, spagnola, tedesca …
gente che si saluta … quante amicizie!
Alcuni scrivono diario. Davanti a me sta una
raffinata cinquantenne, snella, elegante, con
un trentenne di fronte: un’intesa di sensi, di
testa e di cammino.
Al telefono da Piumazzo la notizia della morte di Tiziana Monduzzi e di Anna Maria Predieri. Poco
dopo la notizia della nascita di Giacomo Mazzucchi. Vivo molto intensamente questi eventi,
sentendo come la condizione del pellegrino non è affatto estraniazione, ma un modo diverso più
intimo di partecipare ai fatti.
Arriva Antonio. Da certi segnali abbiamo il sospetto che stiano per formarsi ad entrambi delle
vesciche ai piedi. Facciamo scorta di cerotti nella vicina farmacia, la cui addetta, in un tono preciso,
cantilenante, come di chi dice la stessa cosa tutti i giorni e più volte al giorno, ci spiega cosa fare in
caso di vesciche. Uscendo, Antonio sentenzia: “ meglio andare a farsi medicare da un dottore!”
Recitiamo Vespri nel chiostro, poi santa Messa nell’austera e bella chiesa di Los Arcos, ricordando
i parrocchiani che partono e arrivano.
Cena al Ristorante Mavi. E’ il quarto giorno di pellegrinaggio e già si vedono formarsi gruppi fissi
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d’amicizia, coppie d’amore, e naturalmente qualche solitario irriducibile, come quel giovane
davanti a noi che cena silenzioso, raccolto, timido.
Incontro Antonio davanti al lussuoso Hotel F&G prenotato per la notte. Ci voleva proprio un colpo
di vita, dopo tanta fatica!
Dopo la doccia ci portiamo a Messa nella chiesa di San Giacomo, ancor piena d’atmosfera per una
festa di matrimonio. Andiamo a cena nella luminosa Piazza principale, davanti alla Basilica dai
campanili gemellati, in mezzo ad una folla colorata e vivace. Helado Italiano alla gelateria “Remo”.
Il nostro primo sabato da pellegrini non poteva essere più bello.
Alle 7,30, quando ormai cammino da tre ore, giungo alle dolci sponde del Lago Gradjera.
Circondato da uno stuolo di anatre recito le Lodi della Domenica: “… L’alleluia pasquale, risuoni
nella chiesa, pellegrina nel mondo…” Offro la penitenza della stanchezza (non sono in forma e mi
manca il caffè) e delle tante punture di zanzare.
Più tardi, nel tratto che fiancheggia la Nazionale, sulla rete con le croci, metto la mia croce. Oggi il
vangelo dice: ”Se qualcuno vuole venire dietro di me prenda la sua croce e mi segua”
Questo gesto mi muove le lacrime. E’ la seconda volta che piango, dalla partenza del Cammino.
Perché questi riti così semplici entrano tanto nel cuore e ti sciolgono?
Per un breve tratto con un gruppo cui mi ero unito perdiamo la strada. A Navarrete ritrovo sentiero
e anche un bar (finalmente). Antonio sta per raggiungermi in auto, per proseguire insieme a piedi.
E’ una splendida domenica mattina. Sono le 9,00 e sopra di noi le campane suonano a festa per
chiamare la gente alla Messa.
Cammino a fianco di Antonio; è il primo giorno che siamo completamente da soli. Roberto ha fatto
buon viaggio di ritorno e ora è già alle prese con la sua azienda di macchine movimento terra.
Abbiamo passato una settimana insieme sentendoci come appartenenti a due mondi diversi. Veniva
con noi alla Messa, ma liberamente confessando la sua estraneità. Esempio perfetto della
pragmatica cultura borghese, non si poneva problema di soldi e in tutto cercava il meglio: il miglior
ristorante, il miglior piatto, il miglior hotel, facendo della vita agiata un dovere morale. Trovandosi
poi all’estero, col corpo che bramava cibo, bevanda e sonno, non poneva limitazioni al desiderio di
procurarsi il meglio. Del menù del pellegrino non voleva neppure sentire parlare e certa sobrietà
non esisteva proprio. Con tutto ciò era morigeratissimo durante il giorno e salutista al massimo:
snello, forte e svelto, il camminatore migliore fra noi, a dispetto dell’età. Non so cosa lo spingesse
sul Cammino che sinceramente avrebbe desiderato fare per intero: forse quel senso sportivo, quella
avventura naturalistica che coinvolge la maggior parte.
Arriviamo a Najera alle 14,30, dopo l’incontro con un pastore che, circondato dal gregge, ci chiede
di pregare per la pioggia, le sue pecore non hanno più erba da mangiare.
Mentre Antonio riposa all’Hotel Fernando, vado in taxi a Navarrete per riprendere l’auto.
Quando dopo una visita al paese ci portiamo alla chiesa attigua al Monastero, vediamo che la Messa
è stata anticipata rispetto all’orario sulla porta a ragione della cerimonia di Vestizione religiosa di
tre suore clarisse: Suor Teresa. Suor Cristina e suor Elena. Sono dell’India e lasciano i loro
coloratissimi vestiti per il saio monastico. Nel rito c’è qualcosa che mi turba.
L’India ha una grande tradizione spirituale, ma queste forme così europee e in qualche modo
medioevali, come il saio francescano esprime e codifica… Non sarebbe meglio conservare per loro
un poco più di colore e un rapporto più libero con il creato, un rispetto dell’estetica ascetica propria
del loro popolo? Non so; sono pensieri, sensazioni …
Usciti da Messa Antonio mi intima di salire in auto.
Pensando mi voglia portare anche oggi in qualche ristorante raffinato, continuando lo stile Roberto,
reagisco male:
“Antonio, è dalle 4,30 che sono in piedi; adesso ho solo bisogno di riposare! Oggi sono andato a
riprendere l’auto io, perché volevo aiutarti. Però pensavo che almeno una volta arrivati, l’auto non
la toccassimo più! Questo modo di fare il pellegrinaggio non mi va, l’ho rimuginato durante tutto il
tragitto. Poi, lascia che te lo dica, noi stiamo spendendo troppo …”
Antonio tace.
Il modo aggressivo in cui ho parlato, subito mi dispiace; per averlo ferito e non capire la sua
continua abnegazione verso di me. Mi sento a disagio, per il mio egoismo, per la incapacità a
gestire razionalmente le emozioni.
“ Volevo solo farti un regalo, farti celebrare la messa
domenicale in una ermita qua vicino, … pensavo ti facesse
piacere … “
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modernissime e lussuose con “Ingresso riservato ai soci”. Certo è un altro modello di rapporto con
la natura.
Antonio è stanco e sente il bisogno di chiamare un taxi. Io proseguo a piedi, accompagnato per un
tratto da una giovane signora dai capelli rossi, allegra e con qualche rotondità di troppo.
Arrivo in prossimità di Santo Domingo della Calzada, una delle più belle cittadine del Cammino ma
con una delle più squallide periferie di accesso. Capannoni abbandonati, case diroccate, attrezzi
arrugginiti e un’enorme maleodorante fabbrica di patatine fritte. Sono le 14,00 e tutto attorno a me,
nella calura del meriggio spagnolo, è deserto. Le strade sono vuote, i negozi e gli edifici chiusi.
Percorrendo la via antica, si entra in una bellissima piazza con Campanile, il Parador, la Basilica.
Il cuore suggerisce di fermarmi davanti alla Porta occidentale, le cui larghissime volte diffondono
un’ombra accogliente e serena. I lastroni di pietra nel portico sono l’inginocchiatoio perfetto del
pellegrino, che ama sostare in attesa adorante davanti alla casa del Signore. La perfezione del gesto,
la gioia appagata del cuore, la stanchezza del cammino, portano ad assopirmi in questa preghiera
meridiana. Prego e dormo, dormo e prego. Non ho bisogno di altro, quasi indifferente all’orologio e
a tutto quello che può offrire al turista questa splendida città: la sento nel suo insieme; come
dettaglio mi basta la pietra di un magnifico portale e le due colombe che fanno il nido su un
capitello, in alto a destra.
Antonio tarda ad arrivare; la cosa non mi
spiace affatto, sto troppo bene in quel posto in
quel modo. Visiteremo poi il Museo, la
Basilica, famosa nel suo interno per le due
galline vive e le mirabili architetture.
ti aspetta un sentiero in quota che non finisce più, a tratti pari, per la gioia dei biker che sfacciano
veloci, a tratti sassoso e ondulato. In questi casi non bisogna mai guardare l’orologio o la cartina;
sempre andare avanti, fermarsi se si è stanchi, poi ripartire. L’altopiano dei Montes Oca è un luogo
strano, non proprio selvaggio; gli ampi solchi delle ruspe fanno presagire un futuro diverso, forse
collegato alla nuovissima superstrada vicina.
Finalmente e all’improvviso, dopo ore e ore di
cammino, entri nella sacra e umanissima zona del
Santuario di S. Juan de Ortega. Non so se per
contrasto o per meriti oggettivi, questo luogo
trasmette una straordinaria pace. Colpisce il chiarore
della pietra, la dolcezza raffinata delle linee
nell’edificio principale e in quelli piccoli circostanti.
Sono le 14,00, entro in chiesa per pregare e cogliere il
significato di questo “tempio della luce”; qui avviene
il prodigio architettonico del raggio di sole che
colpisce il capitello della Annunciazione nei due
equinozi: di primavera il 20 marzo d’autunno il 22
settembre. Uscendo mi lascio avvolgere dalla luce
gentile d’alberi argentati. L’appetito si fa sentire: birra e ottimo panino con prosciutto e formaggio
nel piccolo bar. Varrebbe la pena sostare, fermarsi in questo luogo, ma l’inquieto entusiasmo mi
suggerisce di proseguire. Con gioiosa sorpresa vedo arrivare Antonio: come abbia fatto ad arrivare
quassù in auto è un mistero, ma conosco la sua abilità di navigatore. Chiedo conferma al progetto di
proseguire a piedi e raggiungere Burgos, dove poi faremo un giorno intero di sosta, in omaggio alla
importante città.
La discesa da S. Juan de Ortega è molto bella: boschi alti e luminosi, sentiero tranquillo e ombroso;
segue una serie di radure a pascolo, costellate di greggi, mandrie e grandi alberi isolati. Discesa
graduale, dolce, oltremodo piacevole; panorama bellissimo, largo, arioso.
Così fino ad Ages, da cui inizia un tratto di strada asfaltata. Sento un dolore fastidioso dove
poggiano gli spallacci dello zaino; pure gambe e piedi esigono sosta.
Dopo Atapuerca il cammino ricomincia a risalire verso la Sierra.
Ammiro queste montagne dai rotondi macigni e alberi che paiono di sughero. So che in cima, sul
valico, in una distesa arida e ventosa è posta una croce, anticipo della Cruz de Ferro. Preparo un
sasso grosso da mettere sotto, simbolo dei miei peccati e desideri. Una voce nel cuore dice:
“prendine uno piccolo, il più piccolo che trovi; cerca la piccolezza in tutto e sarai salvo”.
Segue una visione da terra promessa: all’orizzonte si vede la città di Burgos e le mesetas sconfinate.
Mi tuffo giù in picchiata pregustando il momento d’arrivo. Ci vogliono però ancora tre ore. Mentre
più tardi procedo barcollando, intontito dalla fatica e preoccupato per una serie di dolori ovunque,
vedo la Toyota di Antonio che s’avvicina.
Faccio il sostenuto, dico ipocritamente:“… sarebbe stato bello arrivare fino in fondo a piedi” ma in
realtà sono molto contento di fermarmi, d’appoggiare la schiena ad un comodo sedile e ascoltare
finalmente i lamenti dei piedi. Sono grato al Signore, ad Antonio, alla vita, a tutti.
Scorrono dai finestrini le immagini del nuovo aeroporto, l’interminabile periferia, il centro; albergo
in Plaza de Vega e Messa in Cattedrale, davanti al miracoloso Cristo di Burgos.
caffè e croissant. E’ facile abbandonarci a ricordi e impressioni. Quel luogo la sera precedente ci
colpì per la colorata vitalità. E’una classica piazza spagnola con palazzi signorili in cerchio, i
balconcini di ferro battuto, i colori giallo e rosso, la pavimentazione a lastroni di pietra naturale,
arredi urbani moderni cui l’uso ampio del granito dona immediata vivibilità. Tanta gente, ragazzi
che giocano a palla, si rincorrono, gente in bici, col cane, ai tavolini di cafè e pasticcerie; donne e
uomini di ogni età seduti sulle panchine a chiacchierare o solo godersi una sera estiva all’aperto. Il
fiume che scorre vicino, l’arco d’ingresso con la Santa Vergine al centro, sono architetture
dell’anima.
La Cattedrale di Burgos è una delle cose più belle che esistono al mondo. Ci vuole una mattina per
visitarla, anche velocemente. Condotto dall’appassionato e competente Antonio, mi lascio
avvolgere dall’atmosfera solenne e gentile di
guglie, cupole, pinnacoli, scalinate, portici,
portali, chiostri, altari, rosoni e soprattutto
l’unità armonica dell’insieme. Un ricamo di
pietra. La gloria che prende forma.
E mentre l’intelletto s’invola in estatiche
visioni, assorto in contemplazioni più che
umane, mentre compiaciuto m’intrattengo
con Principi, Angeli e Santi, mi ricordo che
devo ancora fare bucato.
Passo il primo pomeriggio nella vasca da
bagno dell’hotel, trasformata in lavatoio, le
braccia e le mani che girano a ruota, come un
cestello di lavatrice, e la terrazza come
asciugatoio. Voglio approfittare per lavare
tutto, anche giacca, maglie, scarpe.
La mattina seguente ogni cosa è perfetta.
Il tempo in cui goderne istruttivamente breve.
fisicamente proprio bene e felice anche della pioggia. La mia preghiera, come ogni giorno, è
un’invocazione gioiosa, col rosario o la meditazione di una parola, di un evento, una persona, un
problema, una grazia. Date le circostanze è difficile leggere i salmi o meditare le Scritture; uso la
memoria e il cuore.
Il sentiero sale alla prima meseta; attraversa cascine sempre più rade, piccoli borghi sempre più
disabitati, l’orizzonte grigio ha i tratti inconfondibili degli spazi sconfinati. Il cappuccio
m’impedisce di vedere, ma poi cosa c’è da vedere? Cammino per ore in questo viaggio dell’anima,
dove le cose e persone attorno sono come ombre, richiami leggeri al tuo esservi, al vivere,
essenziale e meraviglioso. Riempio la tasca di noccioline, sostenendo la fatica col ritmico
rosicchiare. Non sento fatica fino alle 12,00 quando il corpo reclama cibo più vero, da uomini più
che da scoiattoli. Piove a dirotto, un vero nubifragio. Ogni movimento fa entrare acqua da qualche
parte; non ci sono ripari di sorta, nulla. Facendo ombrello col corpo piegato, apro lo zaino e prendo
il più velocemente possibile pane e formaggio comprato la mattina. Bevo abbondantemente, per
dovere più che sete; confeziono il panino stile uomo primitivo, aprendolo con le mani, e
camminando inizio il pranzo sotto il temporale. L’acqua scende sul pane, sulle mani, sulla bocca;
cerco di mangiare adagio per non farmi prendere dall’ansia e godere invece di quel momento
speciale. Sono un animaletto del creato, un fagiano che becca, un tasso che rosica, una pecora che
bruca. Mai cibo fu più buono, pranzo più divertente; semplicità assoluta, libertà estrema.
All’altezza di Hornilla il sentiero si fa pesantemente fangoso; la rossa terra, argillosa, s’attacca alle
scarpe e oltre ad appiccicare, come topolini sulla colla, forma un pesantissimo zoccolo al piede.
L’idea di fare chilometri in queste condizioni è un incubo. Provo a portarmi in centro dove sembra
più compatta la terra, oppure ai bordi dove sembra più asciutta. Ogni zona che provo è sempre
peggio della precedente. Affondo nel fango. Davanti a me, lontano, una figura cammina sui campi
anziché sul sentiero. Come può essere meglio il terreno molle? Provo anche io, per disperazione.
Non so come mai, ma sui campi si cammina in modo eccellente! Tutti i pellegrini dietro di me
imitano e procediamo contenti.
Hontanas è un luogo tristissimo. Bicocche diroccate, gente col viso tirato, sporco ovunque, chiesa
monumentale in rovina; entro nel primo ostello che trovo, ma non vedo l’ora di ripartire.
Telefono ad Antonio: “Qui non è il caso di fermarci!” Dico io.
“Ho trovato un posto magnifico! Vai avanti e ti raggiungo”. Risponde
Comprendo che la mia impressione negativa oltre che da ragioni oggettive dipende anche dal
maltempo e traversie connesse. Poco dopo, dalle 15,00, alla pioggia segue uno schiarirsi del cielo e
l’arrivo del sole. Continuo a camminare, in un paesaggio che si fa più gentile, zone collinose
costellate di verde, alberi e fiori. Mi accorgo di asciugarmi velocemente, merito del camminare
all’aria, del caldo, dei vestiti tecnici. Mi piacerebbe arrivare fino in fondo a piedi ma temo che
Antonio mi riservi qualche dolce sorpresa. Infatti alla altezza di S. Anton, quando il sentiero si
incrocia con la strada asfaltata, vedo la Toyota scura che mi aspetta. Il tempo guadagnato ci
permette di dire subito vespri insieme, visitare vari luoghi, fra cui il monastero delle Clarisse, fuori
paese, la cui grazia contrasta col deserto circostante. Vi si confezionano dolcetti: dopo l’assaggio,
per fare un’opera buona e aiutare il monastero Antonio ne compra in discreta quantità.
Siamo a Castrojeritz, città nota per il gran
passato, suggestiva al presente, e per noi, luogo
di sosta in uno degli hostal più accoglienti di
tutto il cammino, il Cachava. Frutto del recente
restauro di una vecchia dimora, conserva il
fascino dell’arredo povero e antico, con tutti gli
accorgimenti di una sapiente e moderna
architettura. Tessuti, colori, suppellettili, spazi,
tutto parla di tradizione e buon gusto. In quella
cameretta, con i lenzuoli di spigo, riposiamo
profondamente nella più lunga dormita del
16
nostro cammino.
l’Incubo di Castrojeritz
(Prima del risveglio un sogno: … Ero appena tornato in parrocchia dopo un lungo
pellegrinaggio ( … che era partito dal Cervino…) la gente mi aveva accolto con festa e
sommo affetto. Ma nelle prime celebrazioni iniziai a dare segni di trascuratezza. Ad
una messa, dopo la prece, ero uscito a preparare la predica e a dare qualcosa ad un
povero; ma ero tornato in chiesa dopo un’ora, quando la gente sconcertata se ne era
già andata. Ad un’altra messa ero arrivato tardi perché ero andato a distribuire viveri
caritas che mi aveva dati uno del pellegrinaggio. Tutti dicevano: non è più lui, il
pellegrinaggio l’ha rovinato, è perso, non ha più il senso della realtà, del tempo, di
noi…)
fermarci e iniziare questo giorno partecipando alla Eucaristia con le monache. Ecco dove ci ha
portato la sete! A ricevere un’acqua molto più buona e dissetante. Ristorati dal riposo, dall’incontro,
dalla messa e dalle borracce piene, iniziamo la famosa traversata.
Desideravo come non mai questo momento: le mesetas in genere, con i loro spazi sconfinati e
deserti che parlano al cuore. Soprattutto questo tratto, il più lungo, “17 chilometri di nulla”, come
recitano con enfasi le guide. Mi aspettavo prove fisiche estreme, tensioni psicologiche intense,
magari qualche rivelazione interiore. Invece, forse per l’armonia fra me e Antonio, il clima mite, la
conversazionie allegra, la buona salute e il paesaggio non arido anzi a tratti decisamente ameno,
arriviamo in fondo senza alcun problema.
Solo la sosta presso un chioschetto mobile di
bibite e panini rovina la purezza ascetica del
percorso.
Annunciato improvvisamente da un piccolo
campanile, ecco il paesino di Calzadilla de la
Queza, punto d’arrivo della traversata.
Entriamo nel pieno meriggio, col sole allo
zenit, in uno scenario da far west: arsi dal caldo
e dalla sete, nella polverosa strada di una
fatiscente cittadina, i peones cercano un saloon.
Pranziamo in una locanda pellegrinesca, e dopo
breve pausa, via di nuovo per destinazione
sconosciuta, ma “prenotata” telefonicamente da
un cartoncino trovato per strada.
Pensavamo fosse una pensione con camere doppie, invece è un ostello privato con anche una
camera doppia e tutto il resto in comune. Alla delusione del momento segue l’adattarsi, e poi il
rallegrarsi di una serata bella, da veri pellegrini, che mangiano quello che trovano, assieme a chi ti
capita, con la fila ai bagni e ascoltando i rumori di chi russa, si muove, ride e sogna.
Il luogo è Terradillos de Templarios. Qui incontriamo Donatella.
Dopo il grande svincolo ci si allontana dalle strade trafficate per imboccare un viale di giovani
platani; a lato un sentiero di candido ghiaino, confortevole ai piedi e grazioso allo sguardo.
Non danno fastidio il caldo o le gambe, ma il prurito che da giorni mi accompagna si sta
trasformando in un dolore vero. Cerco di curare in ogni modo l’igiene, con soste attente e
prolungate, abbondanza di acqua e cambi opportuni d’indumenti, ma oggi il problema si fa acuto. In
una ennesima operazione di verifica, dalle salviette mi accorgo di perdere sangue.
Un’ombra scurissima scende sul cuore. In un istante valuto ogni ipotesi, dalla più banale alla più
tragica: infiammazione da sfregamento? Emorroidi? Tumore al colon?
Non perdo lucidità; accanto alla prospettiva di andare lunedì da un medico, cerco interiormente di
rispondere al fatto in ogni forma, compresa quella più drammatica. Mi vedo già rientrare dalla
Spagna velocemente, ricovero in ospedale, intervento di deviazione, chemioterapia, la fine di un
modo normale di vivere e di fare il parroco. Questi pensieri mi accompagnano in un caldo
pomeriggio domenicale, mentre cammino solo nel tratto di “deserto” dopo Shaagun. Formulo nel
cuore una preghiera di accettazione, “perché anche questo è Cammino” dico dentro di me.
Contemporaneamente cresce l’angoscia, la paura, la
disperazione. Passando davanti ad un’Ermita di S. Maria in
Perales mi viene da fermarmi, inginocchiarmi alla soglia e
formulare con la preghiera a Maria per la salute e un piccolo
voto. Rimango a lungo immobile in supplica. “Quale grande
dono è la salute!”, penso. “Se me la vuoi ridare, Signore, fa
che la usi per lodarti e servirti”.
Nuova igiene e un medicamento fai da te. All’inizio effetto
devastante a conferma della gravità del mio stato. Con una
lentezza estrema riprendo il sentiero e tardi nel pomeriggio
arrivo al El Burgo Ranero dove Antonio mi aspetta.
Non gli dico nulla del problema; normale l’incontro, la birra al tavolino, i programmi della sera, i
vespri in una panchina della chiesa di El Burgo, chiusa e senza Messa nonostante sia domenica.
Mi stendo sul letto, per riposare e assaporare le angosce. Anche Antonio si riposa in camera e
s’addormenta. Alle 19,30 la sala del ristorante è già piena e occorre aspettare il turno delle 21,00.
Mi sale una rabbia per questo ritardo e la scarico tutta su Antonio.
Non so dove stare, cosa fare; di nuovo ritorno a letto a vivere le mie ombre.
Un nuovo esame rivela che il sangue si è fermato; forse le cure hanno contato.
A cena Antonio mi sta aspettando col suo silenzio dolce e il suo divagare terapeutico.
Albeggia quando usciamo dopo una colazione, servita dalla padrona della pensione-bar la Pietra
Bianca, esausta per la lunga serata di lavoro. Il cielo ha striature rosa, presagio di giornata limpida;
fa fresco, stiamo bene, anche io coi miei problemi fisici.
Il primo rosario come sempre è bellissimo. Tanti pellegrini sono
già sul cammino, molti ci sono ormai famigliari. Il percorso
continua scandito dal ritmo geometrico dei giovani platani; ci
guardiamo attorno cercando di fotografare con lo sguardo ogni
dettaglio del paesaggio, perchè sono le ultime ore della cara
Meseta.
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Incrociamo ancora Donatella e gli abbracci sottolineano quanto sia bello esserci ritrovati. Lei si
ferma a Mansilla las Mulas, invece noi abbiamo progetto di proseguire fino a Leon.
Questa intenzione fa presagire che probabilmente non ci incontreremo più.
Fermandomi in chiesa sento che “mentre preghiamo la grazia è già presente, non che debba
arrivare. Pregare dunque sempre, sereni, fiduciosi, gioiosi, semplici, come l’atto del camminare.”
Questa è la risposta a tutte le domande del mattino.
Dopo la visita alla graziosa cittadina di Mansilla, anche Antonio parte e rimango da solo. Per modo
di dire: farò tutto il resto del tragitto con Anita, una giovane di Monaco di Baviera, “architetto di
giardini”, musicista, ed estroversa conversatrice. E’ bello parlare, ma sono contento quando dopo
tre ore arriva la Toyota, alle porte di Leon, che mi salva da troppo energica cordialità.
Attraversiamo in auto la grande città, attraverso ponti e
autovie che dominano dall’alto il disseminarsi di case e
palazzi, fino al Santuario della Virgen del Cammino, nella sua
parte opposta. E’ bello alloggiare proprio lì e dalla finestra
guardare la facciata del Santuario, sentendoci così vicini alla
Madonna.
Per la Messa ritorniamo però in centro, nella famosissima
Cattedrale e con lieta sorpresa impariamo che proprio in quel
momento si conclude la Novena alla Madonna del Cammino,
con Messa solenne in canto, cui ho la gioia di concelebrare nel
giorno della Natività della Beata Vergine. Il presbiterio è tutto
illuminato e l’oro del mirabile retablo brilla di luce
sovrumana, intensa e dolce: al centro Lei, che accoglie,
consola, esalta.
Passiamo la sera nella bella e insolitamente poco affollata
Plaza Major, al ristorante Traviata, su un tavolino all’aperto,
avvolti da una romantica atmosfera. Alla penombra dei
lampioni i colori che dominano questa sera sono il rosso
scuro, l’ocra e panna. Pellegrinaggio o luna di miele?
squallore: acque irrigue che invadono il sentiero e liquami sparsi ovunque. E’ forse la zona meno
bella di tutto il cammino. Provo a concentrarmi sulla meditazione. Uno dei miei libri, il caro testo di
Thuan sulla speranza, cade dalla tasca dello zaino senza che me ne accorga. Pur amareggiato della
perdita, ritengo non sia il caso di tornare indietro a cercarlo.
Quando il sole è già alto nel cielo e i piedi cominciano a dare segni di surriscaldamento, in uno dei
tratti dove sentiero e strada asfaltata si congiungono, sento un clacson suonare alle mie spalle. E’
Antonio che mi oltrepassa in auto e si sbraccia per salutare. Ci accordiamo di arrivare a sera nel
punto più avanzato possibile: Astorga. Due tappe in una.
Alle 13,00 attraversando il bellissimo ponte romano di
Obrigo; sento il bisogno di concedermi una buona sosta.
Nel grazioso comedor Arnida, in un cortile interno
arredato con simpatia, mi siedo per ordinare un pranzo
completo. L’imbarazzo di mangiare da solo è
compensato dalla bontà del cibo e gentilezza dei gestori.
Nel ripartire, il cuore ispira di entrare nell’Albergue
parrocchiale il cui ingresso è sulla via principale, per
chiedere il sello. Entrando, cosa vedo sul tavolino? Il
mio libro di Thuan!
Esulto e dico alla responsabile (un’olandese):
“E’ il mio libro, l’ho perduto lungo il sentiero!”
“Un pellegrino l’ha raccolto e lasciato qua, lo prenda pure”. Risponde prontamente.
Commosso per questo segno, per le continue belle sorprese del cammino, riprendo la strada sotto un
sole a picco e il cuore contento.
Ancora dilemma: strada o campagna? Scelgo la seconda pur sapendo che allungherò il tratto non di
poco. Quando si sta bene si è anche imprudenti. Attraverso zone belle, solitarie, a tratti anche
pittorescamente collinose. In una zona di rosse rocce sostituisco alle scarpe i sandali. Ma dopo un
poco, il terreno sconnesso, i grossi sassi rotondi, chiedono di nuovo l’uso di calzature robuste. In
realtà ho già i piedi cotti e non sto più bene da nessuna parte.
Attraverso un paesino, Santibanes Veldeiglesias, impressionante per la assoluta assenza di vita: non
un’auto, una persona, neppure un cagnolino per la strada. All’albergue entro e pare d’entrare in un
sogno: in questa dimora piccola, ombrosa e ordinata, tutti dormono, nelle camerette, nell’ingresso,
ovunque. I miei passi si fanno ancora più leggeri e in silenzio esco sull’assolata strada. Mi trascino
fino a S. Justo, borgo attiguo ad Astorga e poco dopo in hotel.
Quanto vorrei concedermi un lungo bagno rilassante, ma ho solo il tempo per la doccia, perché c’è
la messa dalle suore agostiniane, nella chiesa di S. Spirito, preceduta dalla adorazione eucaristica.
Segue visita al meraviglioso Palazzo Episcopale di Gaudì, poi la Cattedrale con la grande scultura
sul portale raffigurante Gesù che guarisce il cieco nato: esprimo nella preghiera il “desiderio di
vedere”.
La serata è magnifica, il cielo ha tutte le striature del rosa e violetto: ci sdraiamo sulla panchina a
gustare il tramonto. Purtroppo altre voci bussano: al piede destro un male improvviso rende ogni
passo una fitta di dolore, sempre più acuta man mano che passano le ore. Andiamo a cena in un
posto elegante, non trovandone altri vicino, ma la eccessiva stanchezza e la preoccupazione
chiudono lo stomaco. Alla sera apro le scarpe e sulla parte destra del tallone una protuberanza rosso
fuoco, simile ad un’enorme larva sottopelle deforma il piede e duole assai. Dopo avere usato tutte le
creme e gli antidolorifici possibili, con somma apprensione m’infilo sotto le coperte.
Ho esagerato e il corpo presenta il conto.
nell’oscurità dolce di fine notte. Non sono lontano dalla zona dove passa il Cammino. Per arrivarci
seguo le indicazioni del barista, attento agli incroci bui e deserti e finalmente vedo la freccia gialla.
Acciaccato, zoppicante, timoroso, adesso sono un pellegrino vero, il cui andare non ha nulla di
turistico o sportivo, ma muove da desiderio altro.
Si esce da Astorga per un lungo viale alberato e un buon marciapiede. Nel tratto più dritto, dove
finiscono le case e inizia la campagna, si vede lontano una graziosa chiesetta, sorprendentemente
aperta e illuminata a questa ora. Man mano che ci si avvicina, lo sguardo perfino riesce a
distinguere l’altare e il tabernacolo. Che bello potere pregare lì di primo mattino! Varcando la
soglia saluto la solerte custode, faccio un donativo, timbro la credenziale. Il cuore poi si scioglie
quando inginocchiandomi, con i piedi che pulsano, vedo che è dedicata al Ecce Homo, a Gesù
flagellato alla colonna. No, dico, non è possibile!
Colgo il senso del mio piccolo soffrire, del perché proprio in questo giorno mi sia capitato di stare
così male. Unito a Gesù flagellato. Non è ancora giorno è già gli occhi mi si riempiono di lacrime.
La quinta volta. Il piangere ha un valore celebrativo, ma anche potentemente terapeutico. Nel
riprendere la strada i piedi fanno meno male, anzi sto abbastanza bene. Alla luce del giorno ho
modo di osservare che anche il paesaggio è migliore, meno arido e desolato di ieri.
Mi viene da pensare ad Antonio e mandargli un sms: “sei un amico meraviglioso!”.
La mia giornata potrebbe anche finire qui; sarebbe già totalmente piena!
Il percorso si fa sempre più arioso; a S. Catilina di Somosa acquisto un bastone da pellegrino, più
per il suo significato simbolico che per effettiva utilità. Di fatto è un impiccio e me lo dimentico
sempre in giro. Mi sono formulato un’ipotesi sull’uso: chi usa un unico bastone si appoggia solo a
Dio; chi usa due bacchette si appoggia sia a Dio che agli uomini; chi non usa niente significa che
non vuole legami, si appoggia su di sé, su tutto e su niente.
Al telefono imparo della morte di Otella … una storia di amore dato e soprattutto ricevuto.
Il percorso si fa veramente stupendo; dalle colline si sale in montagna, per sentieri finalmente
alpestri, su un fondo a tratti roccioso e un orizzonte articolato di macchie boscose.
Distribuito lungo l’unica stretta via, Rabanal del Cammino è un erto
paesino di sasso, piccolo e armonioso, tutto della stessa pietra, rossa, nera
e bruna. Oltre agli alberghi e una chiesa, ha anche al centro un piccolo
monastero benedettino, riferimento obbligato per chiunque passi.
Dopo un pranzo delizioso di insalata mista, lechado,(sogliola) patatine e
natilla (fiordilatte) in un albergo scelto da Antonio (che intanto è arrivato
in auto, mezzora dopo di me) avendo una camera senza balconi o luoghi
per stendere, decidiamo di dare tutto in lavanderia e risparmiarci anche la
fatica di lavare.
La chiesa benedettina è gremita per i vespri. Ci sono anche quelle due
francesi, bellissime e altere, che credevo ateissime e invece … poi un
sacco di altra gente incrociata durante il giorno. I monaci sono solo due,
giovanissimi, intonano il canto in latino dopo avere distribuito a tutti il testo con traduzione in varie
lingue. La melodia del gregoriano riempie il piccolo antico edificio, e tutti sono catturati da questo
evento: compostezza, dignità, calore, mistero, armonia, profondità, riposo, pace, verità… questo e
molto altro viviamo in quella mezz’ora di Salmi. Nulla più di una liturgia monastica, in una spoglia
chiesetta di pietra, circondati dai monti e il corpo sazio di fatica, crea comunione alta.
Celebreremo la Messa da soli (i monaci celebrano alle 9,00) e non mancheremo alla Compieta,
prima di ritirarci in camera dopo qualche divagata chiacchiera e un sorso di Cardinal Mendoza.
voltarsi indietro per guardare un’alba dai colori bellissimi. Gradualmente continuiamo a salire. Il
cielo da luminoso e colorato cambia, facendosi sempre più chiuso e grigio; perfino qualche
gocciolina si diverte a cadere. In questo stato s’arriva a Foncebadon, il famoso paesino fantasma,
tutto diroccato, che le leggende dicono invaso da cani selvatici e pericolosi. Selvatici non saranno i
cani, ma un poco gli ospitaleri di un albergue ove entriamo per ripararci dalla pioggia, sempre più
abbondante. Tutto fa pensare ad una comune di Hippies, che comunque ci offrono la possibilità di
riparo e d’ingerire qualcosa di caldo e energetico.
Indossate le mantelline, affrontiamo sotto la pioggia battente il resto del tragitto. In principio è solo
un avventuroso disagio, col passare delle ore diventa un vero dramma. Il freddo è così intenso che
non si riesce proprio a tenere le mani fuori scoperte. Io ho una buona giacca, camicia, pile, cuffia
ottimi; mi pare che Antonio abbia vestito troppo leggeri. Non si lamenta e come potrebbe in quella
bufera? Solo occorre andare avanti, consapevoli che la salvezza, come dicono gli alpinisti, è l’uscita
in vetta. Per questa ragione il ritmo del cammino procede al massimo della energia.
La zona è bellissima, se ci fosse il sole sarebbe un incanto, con macchie di rododendri, e altre piante
di quota. E’ bello anche così il percorso, molto vario, un saliscendi, pieno di curve, incastonato
nella montagna pietrosa. Non c’è fango, in compenso nelle zone dove il sentiero fa imbuto, si
cammina praticamente dentro un ruscello. Ho le mani gelate, non riesco a tenere in mano niente, né
bastone né altro. Procedendo veloce mi allontano da Antonio. Un improvviso senso di
responsabilità mi fa dire: e se il mio amico fosse in difficoltà? Allora con altrettanta solerzia torno
indietro, fra acqua e vento, e dopo un tratto lo incontro che procede ad andatura lenta ma sicura.
Arriviamo così insieme alla Cruz de Ferro, il punto geograficamente
più alto e simbolicamente più importante. Gli elementi
imperversano su di noi quando ci avviciniamo a questo semplice e
altissimo palo, con in vetta una piccola croce, ma che i pellegrini
rivestono d’immenso significato. Tradizione vuole che ciascuno
porti da casa un sasso, simbolo della sua vita passata, che si vuole
deporre sotto la croce. Può simboleggiare il proprio peccato, il
proprio dolore, un voto.
Io, per pura ragione di peso, avevo preparato da casa un sassolino
piccolo e piatto, raccolto nel cortile della parrocchia. Frugo nello
zaino e non lo trovo. Allora dispiaciuto, per rimediare ne raccolgo
uno lì per terra, simile all’altro.
Prima di salire la piccola collinetta Antonio, a ragione del
temporale, mi chiede la cortesia di togliere dallo zaino il suo sasso.
Quale sorpresa trovo, affondando la mano: un sasso enorme si è
portato il mio amico! Quale fatica ha fatto fino qui, penso, e quale
contrasto con la mia microscopica pietruzza. Colgo il significato
simbolico, e mi vergogno se mai qualche volta ho pensato che i miei problemi siano grandi; sono
ridicoli, nei confronti di quelli degli altri.
Veloce foto e immediata partenza, verso la discesa, verso il caldo, a dire il vero ancora molto
lontano. Di nuovo l’andatura si fa differente e dopo un’ora, in località Acebo, entro da solo
nell’unico bar del pittoresco paesino. E’ stracolmo di pellegrini bagnati fradici, dentro un calore
infernale, per stufe al massimo e troppa carne umana; tutti tolgono la roba bagnata, creando un
ulteriore cumulo di vapore acqueo. Più che un bar è una sauna, un bagno turco. Prendo la prima
cosa commestibile che vedo sul bancone, unta e rossastra, disgustosa alla vista e ancor più al palato.
Perché l’abbia presa proprio non lo so. Quando sto per ripartire, sollecito, anche per non morire
soffocato dal polpettone mortale, arriva Antonio, stravolto anche lui dalla fatica, dalla pioggia e dal
freddo. “Vai pure; io mi fermo qua”. Dice, con un filo di voce.
Nessuna forza al mondo l’avrebbe fatto proseguire di un solo metro.
Io parto a piedi. Antonio si fa portare all’auto. Il cielo si rischiara e dopo un paio di ore mi godo uno
stupendo sole, attraversando una zona di castagni, prati e greggi. Finalmente una bellissima
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cittadina, col fiume, il ponte, le piazze e tutto il resto che si può trovare a Molinoseca.
La meta nostra è un po’più in là: la città di Ponferrada, capitale dei Templari.
La sera a Ponferrada è una delle più significative
e belle di tutto il cammino. Le mura imponenti del
Castello danno una impronta cavalleresca alla
città, suggestiva anche dentro, nelle sue vie e
piazze. Tuffo nel medioevo. Solo un
modernissimo negozio di abbigliamento sportivo,
in cui ci pare di intravedere il modello perfetto di
scarponcini da cammino, distoglie dalla emozione
del passato.
La grande Basilica ornata sul portale di mazzi di
fiori (come da noi si fa all’Immacolata) è dedicata
a S. Maria della Uncina. Siamo capitati proprio
nella settimana dei festeggiamenti: Messa solenne alle 19,30. Arrivati prima passiamo un’ora in
silenziosa adorazione. Dopo una giornata così intensa “riposare” in Dio è il massimo dono. La
chiesa è accogliente, calda; una musica soave di sottofondo aiuta la condivisione con Gesù e Maria
di emozioni, ricordi, pensieri e gratitudine. Alloggiamo dopo non breve ricerca, nel piccolo hotel
Los Templarios in una viuzza del centro storico; c’è anche quella coppia di pellegrini francesi
sessantenni che da qualche giorno incontriamo nei pernottamenti. La signora fatica penosamente a
camminare e non so come abbia fatto a superare la Cruz de Fierro.
Di notte mi sveglio. Come ogni altra volta, guardo l’orologio e calcolo quanto manca alla partenza.
Come nei primi giorni dopo Roncisvalle, mi risorge prepotente il desiderio di fare questo ultimo
tratto da solo. Cosa faccio? Dico a Antonio il mio progetto?
Per non disturbare mi porto in bagno e in quella insolita cappella inizio a pregare e riflettere. Le
pagine della bibbia scorrono e anche il tempo. Al termine, il cuore suggerisce di continuare come
abbiamo fatto fino ad ora, concludendo il cammino insieme, contenti anche dello stile talvolta un
po’ borghese; di accogliere pure esso con gratitudine, consapevole che anche il conforto materiale è
un bene e lo è soprattutto la persona di Antonio.
Cerco una parola speciale dai Santi Evangeli che diano indirizzo sull’insieme del mio vivere e
aperte le letture trovo: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori … siate come il
Signore che è benevolo verso gli ingrati e i malvagi”. Esulto a questo vangelo, me lo ripeto, è
risposta al mio desiderio di programma di vita, esauriente, sempre, in tutto, fino al compimento dei
giorni. Sto andando verso Santiago che è un simbolo della morte, della Giudizio, del Paradiso.
“Gesù abbi pietà di me peccatore.
Grazie del piede malato, sigillo di autenticità al mio cammino”.
A Camponaraya arrivo prima e senza il compagno temo di perdermi: sulla via principale
scompaiono i segnali anche agli incroci. Alla sua uscita, ritrovata la freccia, mi fermo a riposare e
scrivere diario su una panchina. La giornata è magnifica, davanti il sentiero si perde in una distesa
infinita e ondulata di vigna; non manco di
assaggiare i grappoli ormai maturi e
pronti alla vendemmia. Uva e more in
abbondanza. Fichi e meli invece sono
sempre vuoti.
Cosa penseranno i contadini?
Prego in questo momento di saper
accogliere la grazia che il Signore nel
Cammino per me sta preparando. La
tradizione dice che a Santiago tutti
ricevono una grazia speciale, a ciascuno
secondo il suo proprio bisogno e che
l’interessato prima non sa.
A Cacabelos, bella cittadina in mezzo a
splendida campagna, dopo la visita a S. Maria de Las Angustias, col curioso quadretto di Gesù
Bambino che gioca a carte con S. Antonio, il mio compagno ritorna all’auto. Il taxista, esperto di
Cammino gli fa capire che la tappa successiva fino a O Cebreiro è troppo lunga e faticosa partendo
da Villafranca. Al telefono ci accordiamo così di aumentare oggi la dose di strada fino a Trabadelo,
12 chilometri più in là.
Arrivo a Villafranca del Bierzo con un caldo infernale, stanco morto. La città è bellissima: la chiesa
di San Giacomo fa da sentinella all’ingresso, ancora più suggestiva con le sue strutture in rovina,
segno del tempo che mortifica ma non cancella la
gloria. Dall’alto si vedono le vie, le sue altre tre
chiese, pure esse bellissime. Mi fermo in una
panaderia e da una fornaia gentile acquisto un
assaggio di quattro tipi di dolci da forno diversi.
Uno più buono dell’altro. Carico di zuccheri, inizio
la lunga salita lungo il Rio Valcarge.
E’ un tratto strano, ma perfetto per le mie
compromesse condizioni di piedi, un marciapiede
che affianca la strada nazionale poco frequentata a
ragione della vicina nuova superstrada. Tutto in
graduale salita, su un fondo che ricorda le piste di
tartan per atletica. Rosso, liscio e morbido
fiancheggia continuativamente il fiume, lussureggiante di piante e fresche acque. Ho bisogno di fare
spesso soste per raffreddare i piedi, ma tutto sommato procedo bene, col mio solito programma di
preghiere e letture, rese più facili dal percorso totalmente privo di ostacoli e incertezze.
A Trabadelo giungo prima di Antonio che mi lascia la incombenza di scegliere l’alloggio. Non è
molto difficile essendocene uno solo: un vecchio albergo per operai, costruito ai tempi in cui
facevano l’autostrada, con dipinta su un fianco una bella sagoma di cervo, ormai scolorita dal sole e
dagli anni. Ci troviamo bene in questo posto di frontiera, evidentemente disertato dalla massa dei
pellegrini. Arriva Antonio tutto giulivo e senza proferir parola, come chi ha qualcosa di speciale da
proporre, intima di salire immediatamente in auto.
“Dove andiamo?” Chiedo.
“Vieni e Vedrai” Risponde.
La macchina riparte verso il capoluogo, ma sono tranquillo e contento qualunque cosa mi proponga.
Dico solo che a Trabadelo non c’è alcuna Messa e dunque dobbiamo organizzarci.
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Entriamo a Villafranca nella magica ora del tramonto e qui m’appare uno spettacolo d’architettura e
di vita che mai avrei immaginato, in mezzo a quelle montagne. I raggi obliqui del sole illuminano di
giallo dorato la monumentale facciata della Chiesa del Cristo e a fianco il non meno grandioso
Parador. Viali, piazze, strade sono pieni di gente; molti pellegrini, ma anche persone comuni
radunata per il Triduo del Cristo. Alla messa solenne moltissimi fedeli hanno al collo un vistoso e
variopinto cordone con una sacro e decorativo medaglione. Sono i membri della Confraternita
organizzatori della festa. Guardo ad Antonio e dico:
“Che meraviglia! Come sapevi che c’era tutto questo?”
Non risponde, ma dal suo sorriso sornione capisco quanto ne sappia.
La serata trascorre tranquilla alla Nova Ruta, il modesto albergo lungo la strada, di notte pieno di
donne e uomini dalla dubbia moralità, dalle risate un po’ sguaiate, che il nostro sonno attutisce e
dolcemente smorza.
A dodici chilometri dalla meta la salita inizia a farsi decisamente ripida. Antonio procede
determinato e tranquillo. Io sento i polpacci fremere, sto bene; allungo il passo e una volta staccato
trovo estremamente piacevole salire col motore a tutto regime. Il ritmo veloce non mi impedisce di
gustare la meraviglia del paesaggio, la bellezza del sentiero, a tratti fiabesco. Né impedisce di
pregare col rosario e con la meditazione, tanto meno di salutare affettuosamente i compagni di
pellegrinaggio che oggi decisamente sorpasso a decine.
Mi ricorda questo momento le mie antiche e amate salite montane.
Vissi per una decina d’anni una vera passione per la montagna, che mi portò a scalare tutte le più
alte vette d’Italia, compreso Monte Bianco e Cervino, sigillo e fine d’una stagione gloriosa.
Abitavo allora a Pieve di Cento: la piatta pianura muoveva desideri d’altezze; la giovinezza
inesperta aspirava a prove, scoperte e successi. Scoprii la bellezza del creato e il piacere della fatica,
con tutte le sensazioni fisiche di cuore, pelle, respiro e perfino mentali di pieno appagamento.
Ricordo sul Monte Rosa, attraversando i ghiacciai a 4000 metri, quale euforia fisica, ebbrezza e
ilarità incontenibile ci muoveva tutti dentro.
Con questo spirito salgo oggi al Cebreiro; di tanto in tanto telefono ad Antonio, ma mancava
sempre segnale e così la solitudine si fa completa. In alto osservo un agricoltore che su trattore
Same lavora un terreno con pendenze da paura. Bravo o incosciente? Improvviso appare illuminato
dal sole lo stupendo cippo di pietra che annuncia l’entrata in Galizia, col numero di chilometri che
mancano a Santiago. Purtroppo tanti l’hanno scarabocchiato, volendo lasciare un segno del loro
passaggio e del loro cattivo gusto.
O’ Cebreiro è un luogo incantevole.
Essendo raggiungibile con comoda strada asfaltata, pieno
di ristorantini e negozietti, ovvio ci sia tanta gente,
comprese alcune comitive coi pullman.
Non ho dubbio dove io voglio andare: entro in chiesa e
senza né bere, né cambiarmi, senza letteralmente guardare
nulla a destra o a sinistra, mi porto davanti all’altare del
miracolo: cerco Gesù Eucaristia e la pace della Adorazione.
La chiesa è bellissima, circondata da piante secolari,
estremamente semplice, con volumi perfetti (ricorda La
Verna). Una ragazza sta assorta davanti all’altare, inginocchiata per terra, raccolta, immobile. Fa da
specchio e guida alla preghiera che io pure voglio vivere. Rimaniamo a lungo accanto così in un
silenzio totale. Dopo un pezzo realizzo che in chiesa entra pochissima gente, qualche turista
svagato, qualche pellegrino più interessato al timbro che a Gesù, e tale scena mi muove un dolore
intenso dentro, che cresce al punto da sentire il bisogno di allontanarmi da quel luogo, così
profanato. Rimango ancora, a riparazione, davanti al Tabernacolo, pregando coi salmi, le letture, e
scrivendo sul diario poche frasi:
“Eucaristia, Pane del Cammino”
“Le cose più belle sono le più difficili”
“Il modo più sano per redimere l’io” è la collaborazione”
Questo ultimo pensiero ha un riferimento anche ad Antonio, cui telefono per chiedere informazioni
e indicazioni, ma non risponde.
Allora decido di scendere perché qua è impossibile trovare alloggio. Sono le 14,30.
Camminando faccio pranzo con due pere, alcuni biscotti e il resto della frittata del mattino.
Bevo tanta acqua perché fa molto caldo.
Le guide descrivono il tratto che segue come uno dei più belli del cammino: siamo in alto, il
panorama è stupendo sulla verde Galizia, oggi inoltre è un giorno limpido di sole, ma … nella vita
c’è sempre un ma … i miei piedi stanchi non reggono la strada e la discesa. A dire il vero ci
sarebbero molte varianti in terra battuta, ma illogiche, allungano di molto la distanza girando a zig
zag per le colline. Così armato di pazienza seguo la strada nazionale. Antonio chiama al cellulare e
racconta del suo arrivo a Cebreiro, poco dopo la mia partenza, come abbia pranzato a ristorante e
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ora un taxi si stia portando a Trabadelo a prendere l’auto: è molto contento e ci diamo
appuntamento a Triacastela. Mancano per me ancora una quindicina di chilometri e sono
sull’acciaccato stabile.
La Messa a Triacastela nella chiesa di san Giacomo col campanile in facciata, è tutta da raccontare.
Il parroco don Augusto è persona certamente buona e generosa ma con alcune cosette un tantino
problematiche: innanzitutto il disordine e la sporcizia di sacrestia, chiesa, e universo liturgico. La
messa per metà se la inventa lui, cambiando introduzione, letture, preghiere … non ricordo se la
consacrazione è stata detta con le parole del rito. Si è costruita una liturgia a misura sua e di
pellegrino, il cui pezzo forte è la possibilità di celebrarla in tutte le lingue: ha uno scaffale col testo
in 36 lingue. Poi celebra con lo stile dello show man, con una mimica facciale e vocale notevole,
con effetti a volte esilarati ma non sempre edificanti. Mi è parso un prete profondamente solo, senza
alcun parrocchiano suo a messa il sabato sera. Si è attaccato ai pellegrini, ma non so quale legame
sia in grado di creare un uomo così trasandato e triste.
Proprio l’Augusto, il clown buffo e malinconico del circo.
Però è tenera la scritta affissa alle parenti interne della chiesa nelle 36 lingue:
“ Il cristiano è uno che nonostante i suoi limiti cerca di imitare Gesù”
senza scarpe, davanti ai soliti semplici gustosi piatti. La sosta si prolunga fino alle 15,00 quando ci
separiamo, con l’intento di trovarci a Barbadelo, cinque chilometri più avanti
La prima cosa che faccio è spogliarmi il più possibile, fa un caldo infernale. In divisa sahariana, con
pantaloncini, maglietta e fazzoletto sulla nuca, esco dalla città, dopo un saluto alla Chiesa del
Salvatore e al Monastero di S. M. Maddalena. Ho nel cuore il segreto desiderio di arrivare a
Ferreiros a 100 km esatti da Santiago; ne dovrei dunque percorrere non 5 ma 15; ce la farò?
Il sentiero è bellissimo, dolce, romantico, silenzioso, pittoresco, fra alberi a
cupola, pulito, arioso, gradevole, su un morbido fondo di terra e ghiaino,
manna per i miei piedi addolorati. Arrivo davvero a Ferreiros e davanti al
cippo col n. 100 mi fermo e soddisfatto aspetto Antonio.
Siamo in mezzo alla campagna, in un borgo poverissimo. Dove
alloggeremo? Antonio ha trovato un’elegantissima Casa Rural ed è là che
ci dirigiamo, non dopo essere tornati alla chiesa di S.Giacomo di Barbadelo
per la Messa, nella Festa della Esaltazione della Croce.
Chiamati a guardare al Crocifisso:
Croce di Gesù
Croce mia
Croce dei fratelli
Croce di Santiago
è salvezza.
Da Portomarin, una città grande piena di servizi, arriviamo insieme a piedi fino al cementificio,
donde col taxi Antonio rientra.
Dopo aver camminato felice per un paio d’ore, all’altezza di
Castromaior mi si rompe la scarpa sinistra. Levate entrambe guardo le
mie scarpe così dimesse, accartocciate, sporche, deformate, sfinite …
fanno tenerezza! Dolcemente le prendo e pian piano, quasi per non
fare loro del male, le infilo di nuovo, nei piedi doloranti, e come
posso le stringo, le riassetto, e unito a loro mi rimetto in marcia,
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Mi fermo per una birra in un bar condotto da una ragazza dal viso sveglio e gentile; legge un libro
di filosofia per l’università, è solerte nel lavoro e ordinata. “Una da sposare” penso.
Al Cruzeiro di Ligonde, dove croce e Madonna mirabilmente scolpite stanno in mezzo ad un bel
giardino, mi fermo anche io lungamente, sotto la grande quercia posta davanti.
Recito vespri, pregando di potere un giorno ritornare sul Cammino e scrivo nel diario:
“Come non so dire perché sia partito,
così non so dire quali frutti abbia portato,
so solo che è stato bellissimo ogni giorno,
come dovrebbe essere per tutti la vita”
avvicinarsi alla meta. Poi il pellegrino scopre che si può vivere felici con poco: un po’ d’acqua, un
vestito, poco cibo semplice, e un riparo per la notte. Il bisogno aiuta a creare rapporto e poi, se
puoi, ricambi anche materialmente il dono ricevuto, con un servizio secondo le tue capacità.
Amerei fare il sacerdote pellegrino, rimanere una settimana, un mese, in una parrocchia, celebrare
le messe, custodire le chiese, adorare l’eucaristia e accogliere chi la provvidenza ti manda per una
confessione, un’intercessione, una guarigione. E poi ripartire, senza legarsi a nulla per essere
legato a tutto.
Darà mai il Signore, se ha ispirato Lui nell’animo questi desideri, la grazia di realizzarli?
Lungo la strada vedo due alberi di mele stranamente non svuotati. Molte sono per terra, fatte cadere
dal vento o dalla pioggia. Come m’insegnò la mamma da bambino anche i frutti crodati sono buoni,
perciò evito di staccare frutti dalla pianta e ne raccolgo alcuni a terra.
Sono le migliori mele che mai abbia assaggiato.
La mia andatura va a rilento, mi debbo fermare spesso per raffreddare i piedi, per riassettare i
legacci delle scarpe sfasciate, per riposare da una stanchezza che sento veramente infinita.
Ad Arzua Antonio mi accoglie esultante, perché appena uscito dalle mani di una massaggiatrice
per piedi …che “adesso è libera” aggiunge con tono tentatore. La verità è che vorrei tanto fare
controllare le mie zone doloranti, così accetto immediatamente la proposta. E’ una esperienza
sensazionale il massaggio; oltre che piacevolissimo veramente mi rimette in sesto, rassicurato che si
tratta di semplici duroni, normali dopo aver camminato tanto.
Coi piedi così aggiustati, anche la messa è più devota e la cena all’elegante ristorante Teodora
buona e rigeneratrice; rituale proprio come una “ultima cena”.
cammino. Solo ripeto spesso:“ Signore, ti ringrazio, tutto questo è bellissimo”. Il bosco si fa sempre
più fitto, inquietante; gli altissimi eucalipti sembrano mostri incombenti; le forre profonde
annullano ogni luce. Il silenzio totale fa paura. In un’anfratto di pietre e muschio mi vedo venire
incontro due occhi, circondati da una grande testa e due enormi corna. E’ una mucca la cui sagoma
scura non so se mite o minacciosa. Altre creature della notte si susseguono, ma pellegrini non se ne
vedono. Le macchie si alternano a pascoli, con intere mandrie che dormono all’aperto. Spari d’arma
da fuoco s’odono, sia a destra che a sinistra. “Spero non mi scambino per un cinghiale …” penso fra
me e me. E’ strana questa prolungata serie di spari, con un ritmo quasi rituale. Oltrepasso cascine,
cerco d’evitare cani in libertà e sempre di più considero la singolarità di questo procedere in terra
sconosciuta, solo seguendo una freccia gialla. Ogni cinquecento metri un fittone con il
chilometraggio. Sono partito col numero 38,00 e un poco alla volta la cifra si abbassa. In un
fangoso crocevia nel bosco ci sono quattro o cinque possibilità di direzione e il fondo acquitrinoso
non lascia trasparire le tracce di passaggio. Le provo tutte, finalmente nel buio della notte il segnale
atteso, il fittone col numero 33,00: gli anni della morte di Gesù. Preghiera di ringraziamento e via di
nuovo. Attraverso ampi costoni si intravedono minuscoli villaggi, sparsi e lontani; finalmente dopo
quasi tre ore di bosco un paesino vero, con strada asfaltata: Salceda.
Come è bella la civiltà, i cartelli pubblicitari, le insegne … mi colpisce l’indicazione della farmacia
e mi rendo conto d’avere i piedi già stanchi, ma come e dove ci si può fermare alle 3,30 di notte?
Per fortuna non fa freddo. Il fermarmi non arreca nessun conforto; la notte ha come un gelo dentro,
che solo l’azione può mitigare. Sulla grande strada statale qualche camion passa; la luce abbagliante
dei fari è più minacciosa che rassicurante. In quella zona per lavori stradali le frecce gialle non sono
più chiare e in un anonimo piazzale ho il timore di essermi perso. Anche solo l’idea di ritornare
indietro mi angoscia: sono stanco, i piedi fanno già male e mancano ancora tanti chilometri. In
un’area con tavoli e panchine preparo una merenda, con pane vecchio di tre giorni e una confezione
di (scadente) prosciutto sottovuoto. Il coltello fa fatica a tagliare e ancora di più i denti a mordere,
mi sembra d’addentare un copertone d’automobile. Eppure sono felice. Come è buono questo
panino! I chilometri cadono uno dopo l’altro sotto i miei passi, ma sempre meno eroico si fa il
procedere. A Santa Irene oltrepasso l’Ostello, punto di riferimento per Santiago sempre più vicino.
Attraverso paesi e contrade, e quando credo che la parte selvaggia sia finita ecco il sentiero
ributtarsi nel bosco, con salite e discese. In condizioni normali sarebbero banali, ma per me, in
questo momento, epiche e drammatiche. Non prego più con le labbra, ma il cuore con la sua
attenzione al procedere ha la forma di una preghiera. Il grado di stanchezza si innalza
inesorabilmente. Su una sedia, di fianco ad un bar chiuso, sosto e quasi mi addormento. Sorrido alla
tentazione di rubare paste fresche, lasciate dal pasticcere davanti alla serranda chiusa. Sono le 5,30 e
qualche gruppo di pellegrini comincia ad apparire sul sentiero. Ma il confronto è penoso: non riesco
a fare con loro neanche dieci passi; sono proprio fermo, zoppico, arranco.
Si susseguono nomi noti, Pedrouzo, O Pino, e vedo un cartello con scritto Lavacolla. Sono alle
porte di Santiago! Ce l’ho fatta! Non ho il tempo di gioire un istante, che il sentiero crudele,
riprende a salire verso l’ennesimo bosco, interminabile, ripido … guardo il cielo che inizia a
rischiarare, l’orologio segna le 7,45 e il segnale di fianco a me km 13,00. Telefona Antonio.
- Dove sei?
- A 13 kilometri da Santiago
- …ma sei andato come un treno!
- …no, sono solo partito all’1,00 …
- Sei proprio matto! … Ti raggiungo …
Avrei preferito continuare da solo; le mie
condizioni sono così gravi che mal sopportano
compagnia. Sento il bisogno di fermarmi a lungo,
magari sonnecchiare in qualche bar e procedere
con ritmi miei … ma anche la compagnia è sacra,
è bello arrivare insieme.
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- Va bene, ti aspetto.
Presso l’aeroporto di Santiago mi accorgo di un nuovo dolore al piede sinistro. Probabilmente da
tempo reclamava attenzione, ma siccome ho male dappertutto, non riesco a distinguere quel male
nuovo: apro la scarpa e vedo una grande vescica sul tallone sinistro. Probabilmente l’uso delle
scarpe disfatte, che non stringevano più il piede, ha generato il fatale sfregamento.
Antonio, parcheggiata l’auto, arriva tutto giulivo e comincia a raccontare un sacco di aneddoti sulle
località circostanti. Nonostante tutto il suo impegno l’interesse che suscita in me è prossimo alla
zero. Riesce comunque a commuovermi quando, pietoso delle mie condizioni, mi costringere a
ingollare un cappuccino e mandare giù una fetta di Tarta de Santiago … Le borgate seguenti sono
altrettante stazioni di una personale via Crucis: il Camping, la sede della TV galiziana, la borgata di
san Marcos, il monumento al Papa, la chiesetta in cima a Monte Gozo. Ci fermiamo per una
preghiera, il sello e all’inizio della discesa.
Nel punto esatto in cui ogni pellegrino inizia a esultare per la meta vicina, in me scoppia la crisi. Il
dolore lancinante e non più sopportabile ai piedi mi muove improvviso un pianto dirotto, penoso,
innocente, come quello di un bimbo che sta proprio male. La presenza di Antonio mi suscita
vergogna; vorrei essere solo, per piangere in pace e lasciare le lacrime scorrere libere a fiumi.
Avverto tutta l’incomunicabilità delle emozioni che provo. Sono certo che Antonio pensi solo al
mio malessere fisico, ma come spiegargli che proprio in questo momento, in virtù di questa
situazione, io sia immensamente felice?
Nulla è più umano delle lacrime. Avevo chiesto la grazia di un
arrivo non banale, non da “vacanzetta” e sono accontentato.
Capisco quanto sia complice la stanchezza della lunga notte di
cammino, quei 750 chilometri percorsi, quel mese sempre
fuori casa … tutto contribuisce, ma non si identifica col cuore
di quanto sto vivendo. Penso alla mia morte. Se è vero che il
Cammino è una parabola della vita significa che io morirò
piangendo, con un gran dolore fisico, ma nel contempo in
piena felicità. E più penso a queste cose più piango. Ormai
siamo dentro la città di Santiago. Seguo Antonio
meccanicamente, la città moderna non mi suscita attrattiva nè
repulsione. Sono distante da tutto, per stanchezza e libertà.
Ogni passo è una pena, agogno l’arrivo, che pur prossimo pare
non arrivare mai. Di lontano vedo indifferente la prima torre
della Cattedrale. Capisco che l’arrivo non susciterà in me
quelle emozioni normali, epidermiche, cui ogni pellegrino
s’aspetta dopo avere fatto tanta strada. Infatti tutto è molto
semplice, quasi scontato. Non mi pare nuovo quel luogo e non
speciale quel momento. La pietra scura, gli spazi articolati e austeri, non muovono particolari
entusiasmi. Mi trascino dentro la Basilica e perfino inginocchiato il cuore rimane immobile,
svuotato. Ogni cosa che Antonio mi propone è un piccolo supplizio: la visita alle varie Cappelle,
alla Sacrestia, al Portico della Gloria, alla Piazza de Obradoiro. Ho solo fame e sonno. Anche al
pranzo, per l’esasperante lentezza del cameriere, la pazienza è messa a dura prova, idem nel viaggio
a piedi verso l’Hotel San Lorenzo, del quale Antonio non conosce subito la strada, costringendoci a
un andirivieni strascicato per le vie di Santiago. Alle 16,00 entriamo finalmente in camera; levo le
scarpe con apprensione, i piedi fanno male, ma nulla di particolarmente rotto, sanguinante,
compromesso. Desidererei dormire fino all’indomani mattina, ma il mio angelo avvisa che “c’è la
Messa del Pellegrino alle 18,00”. Dopo un riposino penosamente breve e nuovo tragitto verso la
Basilica ad andatura da lumaca stordita, veniamo ad imparare che la Messa è alle 19,30!
Avrei ucciso Antonio!
Quell’errore è in verità occasione della più bella, emozionante, impagabile ora di preghiera davanti
al Signore e al suo Apostolo San Giacomo. Antonio chiede di allontanarsi per alcune visite e io ben
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commozione tutta segreta, al cospetto del mare e del vento, le depongo adagio, accostandole
delicatamente l’una all’altra e dopo qualche istante e un ultimo sguardo di saluto mi allontano.
Sotto la candida croce di pietra recitiamo i Vespri; Antonio suggerisce di pregare per “tutti i
bambini che, non essendo nati, non hanno potuto percorrere il Cammino”. In principio pare una
intenzione come tante, poi sento quanto questo motivo ci coinvolge entrambi non solo idealmente
ma in esperienze di vita concrete e personali. Allora il cuore si riempie di nuovo di pena, nostalgia,
gratitudine e davvero fatichiamo ad andare avanti coi salmi: tante lacrime intercalano copiose le
nostre invocazioni.
La ripida salita asfaltata di S. Jean Pied le Port inizia nella mattina buia, nebbiosa e fredda.
Le due giornate di riposo in realtà hanno sistemato gambe e piedi e anche le scarpe, dopo un poco
che le indosso, non fanno più tanto male. Ho cercato di incerottare vesciche, duroni e usare calze
particolari molto sottili. Antonio è tornato in hotel e per un paio d’ore salgo solitario.
Le guide parlano di paesaggio splendido e hanno ragione: un’infinita e dolce distesa di prati assolati
e costoni disseminati di mucche al pascolo, cavalli in libertà, greggi di pecore e capre a migliaia.
Vedo perfino uscire da un mare di felci una mandria di maiali, miti, grossi e ordinati. La nebbia
comincia a svaporare aprendo il sipario ad un gioco armonioso di luce che rende dorati i profili dei
monti e scintillanti di rugiada i prati. Bianche nuvole frastagliate seguono il movimento dell’aria
come velo da sposa. Paradiso Terrestre.
La zona alta è eroica, come se da un momento all’altro dovesse sbucare fuori un drappello di
Paladini con Orlando in testa. Passando da Francia a Spagna la montagna si fa più aspra erta e
boscosa. Cammino tutto il giorno senza fermarmi mai, neppure a mangiare.
Incrocio tanti pellegrini e mi sembra incredibile che questi partano e vogliano arrivare a Santiago.
Alle 14,30 dopo aver attraversato una vasta faggeta dalla grazia rinascimentale, sono di nuovo
davanti alla cara e famigliare immagine della Vergine di Roncisvalle.
Tutto è paradiso nella vita anche i momenti più estremi, ma specialmente il suo compiersi nella
volontà di Dio, come ha fatto Maria.
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