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Francia, 1980. In una notte di dicembre, appena prima di Natale, un aereo diretto a
Parigi da Istanbul si schianta contro il Mont Terrible, nel Giura. Fra i rottami viene
ritrovata una bambina di tre mesi, sbalzata fuori al momento della collisione. È l’unica
sopravvissuta, ma a bordo le neonate erano due: si tratta di Lyse-Rose o di Emilie?
Due famiglie – una ricca e potente di industriali, l’altra povera e sfortunata di
ristoratori ambulanti – si fanno a pezzi per anni perché venga riconosciuta loro la
paternità di quella che viene soprannominata dalla stampa francese la “Libellula”, in
un’epoca in cui il test del DNA non esiste ancora. La prima sentenza dà
sorprendentemente ragione ai più poveri, ma i ricchi non si danno per vinti e assoldano
un eccentrico investigatore che per diciotto anni cerca la verità. E quando finalmente la
trova, la consegna in segreto nelle mani della ragazza ormai maggiorenne. Subito
dopo, viene ritrovato cadavere nel suo studio. E lei scompare.
Dai quartieri parigini a Dieppe, da Marne-la-Vallée al Giura, il lettore viene
trascinato in una corsa affannosa e ricca di continui colpi di scena, fino all’incredibile
finale.
Quanto peso ha il destino in questa vicenda? Oppure qualcuno, fin dall’inizio,
manovra tutti i protagonisti di questo dramma?
Un aereo senza di lei è un thriller la cui trama è basata sulle false apparenze e sulla
manipolazione del lettore, che fino alla fine si interroga sulla vera identità della
neonata.
L’autore
Ho trascritto nel quaderno ogni indizio, ogni pista, ogni ipotesi. Diciotto anni di indagini.
Tutto è affidato a questo centinaio di pagine. Se le avete lette con attenzione, ora ne sapete
tanto quanto me. Forse voi sarete più perspicaci? Forse seguirete un percorso che io ho
trascurato? Forse troverete la chiave, ammesso che ne esista una? Forse...
Perché no?
Per me è finita.
Dire che non ho rimpianti né rimorsi sarebbe esagerato, ma ho fatto del mio meglio.
Crédule Grand-Duc fissò per alcuni secondi quell’ultima riga, poi chiuse
lentamente il quaderno verde pallido.
“Ho fatto del mio meglio” si ripeté, finalmente soddisfatto della
conclusione.
Ore 23.43
Ripose la penna di fronte a sé, prese un Post-it giallo dal blocchetto sulla
destra della scrivania e lo attaccò sulla copertina del quaderno. La sua mano
andò nuovamente al portamatite. Afferrò un pennarello e scrisse sul
bigliettino adesivo, in caratteri grandi: “A Lylie”, poi spinse il quaderno
verso il bordo del tavolo e si alzò.
Indugiò per qualche istante con lo sguardo sul piano della scrivania, sul
quale spiccava una targa di rame. “Crédule Grand-Duc, detective privato”
lesse con un sorriso sarcastico e disilluso. Da tanto tempo tutti lo chiamavano
solo Grand-Duc. Nessuno aveva più usato quel suo nome ridicolo, a parte
forse Emilie e Marc Vitral. E comunque questo risaliva a molto prima,
quando loro erano piccoli. Era trascorsa un’eternità da allora.
Grand-Duc si diresse verso la cucina. Gettò un’ultima occhiata al lavello
d’acciaio, al pavimento di piastrelle ottagonali bianche, ai pensili di legno
chiaro chiusi. Tutto era al suo posto, lucidato, ordinato; ogni traccia della vita
precedente era stata meticolosamente cancellata, come in una casa in affitto
da riconsegnare al proprietario. Grand-Duc era un tipo pignolo e lo sarebbe
stato fino in fondo, fino all’ultimo respiro. Lo sapeva. Ciò spiegava molte
cose. Spiegava tutto, in realtà.
Ore 23.49
Undici minuti dopo Lylie avrebbe compiuto diciotto anni, almeno
ufficialmente...
Chi era Lylie? Grand-Duc non aveva ancora una risposta definitiva a
quella domanda. Una possibilità su due, esattamente come il primo giorno.
Testa o croce.
Lyse-Rose o Emilie?
Aveva fallito. Mathilde de Carville aveva speso una fortuna, diciotto anni
di stipendi, per niente...
Grand-Duc tornò alla scrivania e si versò un altro bicchiere di vino bianco
invecchiato quindici anni, riserva speciale di Monique Genevez, forse l’unico
bel ricordo di quell’indagine, a conti fatti. Sorrise portandosi il bicchiere alle
labbra. Non aveva nulla della caricatura del vecchio detective alcolizzato, era
piuttosto di quelli che attingono alla cantina con parsimonia, nelle grandi
occasioni. Il compleanno di Lylie, quella sera, era una di queste. E, per certo,
anche i suoi ultimi minuti di vita lo erano.
Il detective vuotò d’un fiato il bicchiere.
Ecco una delle rare sensazioni che avrebbe davvero rimpianto, il gusto
inimitabile di quel vino che gli attraversava il corpo, bruciandolo con un
dolore squisito, facendogli dimenticare, solo per qualche attimo, l’ossessione,
l’enigma irrisolto a cui aveva dedicato la vita.
Grand-Duc posò il bicchiere sulla scrivania e spostò il quaderno verde
pallido, indeciso se aprirlo un’ultima volta.
Osservò il Post-it giallo: “A Lylie”.
Sarebbe rimasto quel taccuino, quel centinaio di pagine scritte negli ultimi
giorni. Per Lylie, per Marc, per Mathilde de Carville, per Nicole Vitral, per i
poliziotti, per gli avvocati, per chi avesse voluto tuffarsi in quell’abisso...
Senza dubbio era una lettura avvincente, un autentico capolavoro,
un’inchiesta poliziesca da togliere il fiato. C’era tutto...
Tranne il finale.
Aveva scritto un giallo a cui era stata strappata l’ultima pagina, un thriller
nel quale le ultime righe erano state cancellate.
Una truffa...
Forse i futuri lettori si sarebbero ritenuti più astuti di lui, si sarebbero
ostinati, avrebbero pensato che loro la soluzione l’avrebbero trovata.
Dopotutto ci aveva creduto anche lui. Aveva sempre nutrito una specie di
certezza che esistesse una prova, che fosse possibile risolvere l’equazione,
che lui avesse trascurato qualche cosa. Un’impressione, solo un’impressione,
ma talmente persistente da tenerlo in vita fino a quella scadenza: i diciotto
anni di Lylie, di lì a una decina di minuti... Forse era solo il suo inconscio ad
alimentare quell’illusione, per impedirgli di cadere nella disperazione più
assoluta. Sarebbe stata una vera crudeltà aver cercato per tutti quegli anni la
chiave di un problema senza soluzione.
“Ho fatto del mio meglio” rilesse il detective. Il resto, adesso, non lo
riguardava più.
Grand-Duc rivolse un’ultima occhiata alla stanza. Si trattenne dal
sistemare la bottiglia vuota e il bicchiere sporco, sorridendo ancora una volta
di se stesso. I poliziotti e i medici legali che si sarebbero chinati sul suo
corpo, qualche ora dopo, non avrebbero certo fatto caso a un bicchiere fuori
posto. Sangue e materia cerebrale si sarebbero riversati in una pozza
vischiosa sulla scrivania in mogano e sul parquet tirato a lucido. Sporco
dappertutto. Se nessuno avesse denunciato la sua scomparsa – cosa altamente
probabile (a chi sarebbe potuto mancare, in ogni caso?) –, sarebbe stato il
fetore del suo cadavere ad attirare i vicini, un corpo in decomposizione
immerso negli escrementi di insetti necrofagi intenti a banchettare.
“Tanto meglio” pensò Grand-Duc. Si chinò e gettò nel caminetto un pezzo
di cartone sfuggito alle fiamme.
Il suo ultimo gesto di nobiltà.
Si avvicinò lentamente allo scrittoio in mogano che occupava l’angolo
della stanza di fronte al caminetto. Aprì il cassetto centrale, estrasse dalla
custodia di cuoio un revolver, un Mateba, come nuovo, il cui metallo grigio
scintillò alla luce. La mano del detective frugò ancora a fondo nel cassetto e
ne tirò fuori tre proiettili calibro 38.
Grand-Duc sorrise. Con gesto esperto, aprì il tamburo e introdusse
delicatamente i proiettili.
Uno solo sarebbe bastato, nonostante avesse bevuto, anche se avesse
tremato e, certo, esitato. Sarebbe sicuramente riuscito a posizionare la canna
sulla tempia, a tenerla ben salda e a premere.
Non poteva mancare il bersaglio, nemmeno con sessantadue centilitri di
vino in corpo.
Posò il revolver sulla scrivania, aprì il cassetto di sinistra e ne estrasse un
giornale, un vecchio numero ingiallito de “L’Est Républicain”. Erano mesi
che pensava a quella scenografia macabra, a quel rituale simbolico che lo
avrebbe aiutato a farla finita, a trovare una via d’uscita dal labirinto,
definitivamente.
Ore 23.54
Gli ultimi fogli si stavano accartocciando, divorati dalle fiamme nel
caminetto. Lo sguardo del detective scivolò verso il terrario e il ronzio
funebre delle libellule. Aveva tolto la corrente da trenta minuti e, private
dell’ossigeno e del cibo, le libellule non sarebbero sopravvissute più di una
settimana... Eppure aveva speso una cifra enorme per comprare le specie più
rare, più antiche; aveva trascorso ore, per anni, a curare il terrario, si era
preoccupato di nutrirle con ogni tipo di minuscoli insetti, di farle crescere e
accoppiare; quando era in missione, le affidava a una ditta specializzata. Tutti
quegli sforzi per poi lasciarle morire. Anche loro... “In fondo è piacevole”
pensò “decidere della vita e della morte di altre creature; proteggere per
condannare meglio, dare speranza per sacrificare meglio. Giocare con il
destino, come un dio astuto e imprevedibile.” Dopotutto anche lui era stato
vittima di un dio sadico...
Drammatico schianto dell’Airbus 5403 Istanbul-Parigi sui pendii del Mont Terrible, al
confine franco-svizzero, nella notte fra il 22 e il 23 dicembre 1980. Centosessantotto dei
centosessantanove passeggeri e membri dell’equipaggio sono morti sul colpo o hanno
perso la vita intrappolati tra le fiamme. L’unica miracolosamente sopravvissuta è una
bambina di tre mesi, sbalzata fuori al momento della collisione, prima che la carlinga si
incendiasse.
Ore 23.57
Era giunta l’ora.
Avvicinò la sedia e afferrò saldamente il calcio del revolver con la mano
sudata.
Alzò il braccio, lentamente.
Il contatto della canna fredda sulla tempia lo fece rabbrividire. Ma era
pronto. L’alcol lo avrebbe aiutato. Cercò di liberare la mente, di non pensare
a quella pallottola, a qualche centimetro dal suo cervello, che gli avrebbe
attraversato il cranio...
Non pensare più a niente, fissare il nulla.
Piegò l’indice sul grilletto. Non gli restava che premere e tutto sarebbe
finito.
Doveva chiudere gli occhi o tenerli aperti?
Una goccia di sudore gli scivolò sulla fronte e cadde sul giornale.
Aperti, e farla finita.
Si chinò, lo sguardo fisso sul giornale, a venti centimetri. Diede un’ultima
occhiata alla fotografia della carlinga carbonizzata e a quella più piccola in
cui un pompiere, davanti all’ospedale di Montbéliard, teneva delicatamente
fra le braccia quel corpicino troppo blu. La bambina miracolata.
L’indice premette il grilletto.
Ore 23.58
Gli occhi del detective, ormai vuoti, si avvicinarono ulteriormente al piano
della scrivania, perdendosi nell’inchiostro nero della prima pagina del
vecchio quotidiano. La pallottola gli avrebbe perforato la tempia senza
incontrare la minima resistenza. Doveva solo piegare il dito, un po’ di più,
qualche millimetro. Il suo sguardo si fissò, per l’eternità; l’inchiostro nero del
giornale si fece più nitido, come l’obiettivo di una telecamera messo a fuoco,
come un’ultima finestra sul mondo prima che tutto sprofondi nella nebbia.
L’indice. Il grilletto.
Gli occhi spalancati.
L’inimmaginabile folgorò Grand-Duc: fu come se una scarica elettrica,
tanto intensa quanto improvvisa, lo avesse attraversato.
Quello che i suoi occhi stavano fissando era impossibile. Lo sapeva!
Allentò leggermente la pressione del dito.
Dapprima pensò a un’illusione, un’allucinazione provocata dalla morte
imminente, un meccanismo di difesa messo in atto dal suo cervello.
No!
Ciò che vedeva, ciò che leggeva su quel giornale era invece assolutamente
reale. Nonostante fosse ingiallito dal tempo e un po’ sbiadito, non lasciava
adito a dubbi.
Era tutto lì.
La mente del detective si mise in moto. Nel corso degli anni aveva
formulato talmente tante ipotesi, a centinaia, ma adesso aveva trovato il
bandolo della matassa: non gli restava che tirare il filo e tutto si sarebbe
dipanato con una semplicità sconcertante.
Era tutto chiaro, lampante...
Abbassò l’arma e si lasciò scappare una risata da folle.
Guardò l’orologio a pendolo.
Ore 23.59
Non riusciva ancora a credere a quello che vedeva. Gli tremavano le mani.
Un brivido immenso lo percorse, scendendo dalla nuca lungo tutta la schiena.
Ce l’aveva fatta!
La soluzione era lì, in quel giornale, in prima pagina, fin dall’inizio. Lui
aveva atteso con pazienza: era assolutamente impossibile scoprirla all’epoca,
diciotto anni prima. Tutti avevano letto quel giornale, l’avevano osservato e
analizzato mille volte, ma nessuno avrebbe potuto capire nel 1980, né negli
anni successivi.
La soluzione balzava agli occhi... a una condizione.
Una sola condizione. Del tutto delirante.
Aprire quel giornale diciotto anni dopo.
2
Era indaffarata a pulire gli ultimi tavoli quando Marc alzò una mano.
«Mariam, ci porti due caffè e un bicchier d’acqua per Emilie?»
Mariam sorrise tra sé e sé. Marc non prendeva mai il caffè quando era da
solo ma ne ordinava sempre uno quando c’era Emilie. Un caffè lungo. «Va
bene, piccioncini» rispose, per vedere la reazione.
Marc fece un sorriso imbarazzato. Emilie no. Teneva la testa leggermente
abbassata.
Mariam si accorse soltanto in quel momento che Emilie aveva una brutta
cera; il viso era stravolto, come se lei non avesse chiuso occhio, anche se
ostentava un sorriso di circostanza, con quella sua eleganza ingannevole. Era
in ansia per un esame? Aveva trascorso tutta la notte a scrivere una tesina?
No, c’era qualcos’altro.
Mariam gettò i fondi di caffè nella pattumiera, sciacquò la macchina e
preparò i due espressi.
Qualcosa di grave.
Era come se Emilie dovesse annunciare una notizia dolorosa a Marc.
Mariam ne aveva viste tante: appuntamenti d’addio, incontri patetici, bravi
ragazzi che restavano soli davanti al loro caffè mentre la fidanzata se ne
andava, un po’ imbarazzata ma soprattutto libera. Emilie aveva il viso di chi
ha passato la notte a riflettere e nelle prime ore del mattino ha preso la
decisione definitiva, pronta a subirne le conseguenze.
Mariam si diresse lentamente verso il fondo del bar portando su un vassoio
i due caffè e il bicchiere d’acqua.
Povero Marc. Si rendeva conto di essere già stato condannato?
Mariam sapeva anche essere discreta. Posò i caffè e si girò, senza
ascoltare.
3
Drammatico schianto dell’Airbus 5403 Istanbul-Parigi sui pendii del Mont Terrible, al
confine franco-svizzero, nella notte fra il 22 e il 23 dicembre 1980. Centosessantotto dei
centosessantanove passeggeri e membri dell’equipaggio sono morti sul colpo o hanno
perso la vita intrappolati tra le fiamme. L’unica miracolosamente sopravvissuta è una
bambina di tre mesi, sbalzata fuori al momento della collisione, prima che la carlinga si
incendiasse.
Pierre e Nicole Vitral erano venuti a sapere del dramma insieme, ascoltando
il notiziario radio di France Inter delle sette.
Come facevano tutte le mattine.
Erano seduti l’uno di fronte all’altra, ai lati del piccolo tavolo della cucina
ingombro di cose. Le due ciotole di gres, caffè per Pierre e tè per Nicole,
rimasero lì a lungo a raffreddarsi, quasi intonse, senza un’increspatura,
pietrificate dal secondo che imbalsamò la vita in quella casetta di rue
Pocholle, nel Pollet, un vecchio quartiere di pescatori poggiato come un’isola
al centro del porto di Dieppe.
«Perché Lyse-Rose?» urlò improvvisamente Nicole Vitral.
Le case della strada erano attigue le une alle altre. Il vicolo si riassumeva
in una decina di facciate uguali. Tutti sentivano tutto. Il grido di Nicole
attraversò i muri.
«E perché dovrebbe chiamarsi Lyse-Rose quella neonata? Eh? Chi gliel’ha
detto? La piccola forse? Ha detto il suo nome ai pompieri? Una bambina di
tre mesi sull’aereo, una bambina con gli occhi celesti... È la nostra Emilie! È
viva. Chi può dire il contrario? Come possono sostenerlo? C’è sotto qualcosa
perché è l’unica sopravvissuta e vogliono rubarcela.»
Nicole aveva le lacrime agli occhi. Alcuni vicini cominciarono a uscire in
strada, nonostante il freddo.
Lei crollò tra le braccia del marito. «No, Pierre. Promettimelo... No,
Pierre, non ci prenderanno la nostra piccola. Non è scampata al disastro
perché ce la rubassero. Promettimelo.»
Il predatore non mollava. Descriveva ampi cerchi con gli arti inferiori, come
un compasso, senza mai spostare di un centimetro la testa, rivolta verso Lylie.
Gli occhi di Lylie si perdevano nel vuoto. Ripensava a Marc, inchiodato in
quel bar.
Intrappolato da lei. Ancora quindici minuti soltanto. Poi, sicuramente,
avrebbe cercato di chiamarla. Prese il cellulare dalla borsa e lo spense.
Doveva essere invisibile, irraggiungibile, almeno per il momento. Marc si
sarebbe opposto al suo progetto. Avrebbe cercato di proteggerla, avrebbe
visto soltanto i rischi, il pericolo.
Lo conosceva bene, lo avrebbe definito un omicidio.
Un omicidio...
La Mercedes non aveva ancora lasciato l’isola del Pollet quando Pierre Vitral
tirò fuori un giornale da un ripiano pieno zeppo dell’armadio.
«Cosa facciamo?» chiese sua moglie.
«Ci batteremo... Lo distruggeremo...»
«E come? L’hai sentito, ha ragione...»
«No, no, Nicole. Emilie ha ancora una possibilità. De Carville ha
dimenticato un dettaglio. Il suo discorso era vero prima, prima di Libellula,
prima che Pascal e Stéphanie volassero in cielo, ma adesso non più. Anche
noi, se vogliamo, siamo importanti, Nicole! La gente si interessa alla nostra
storia. Parlano di noi sui giornali, alla radio...» Si voltò verso l’angolo della
stanza. «Anche in televisione parlano di noi. De Carville evidentemente non
guarda la TV , non lo sa. Oggi i mezzi d’informazione sono importanti almeno
quanto i soldi.»
«Che cosa... che cosa intendi fare?»
Pierre Vitral sottolineò un numero di telefono sul giornale. «Comincerò
con “L’Est Républicain”. Sono quelli che conoscono meglio il caso. Nicole,
ti ricordi quella giornalista che si occupa della cronaca?»
«Come no! Giusto cinque righe la settimana scorsa!»
«Appunto, a maggior ragione. Mi cerchi come si chiama?»
Nicole Vitral mise Marc su una sedia, proprio davanti al televisore, poi da
sotto il tavolo del salotto estrasse un raccoglitore in cui conservava
meticolosamente tutti gli articoli di giornale che parlavano della catastrofe del
Mont Terrible. Impiegò solo qualche secondo. «Lucile Moraud!»
«Okay. Non abbiamo niente da perdere. Staremo a vedere...»
Pierre prese il telefono e compose il numero del centralino del giornale.
«Parlo con “L’Est Républicain”? Buongiorno, sono Pierre Vitral, il nonno
della bambina miracolata della catastrofe del Mont Terrible... Sì, Libellula...
Vorrei parlare con una delle vostre giornaliste, Lucile Moraud. Ho delle
informazioni sul caso, cose importanti...»
Pierre sentì immediatamente che all’altro capo del telefono si davano da
fare. Meno di un minuto dopo una voce di donna incredibilmente profonda e
un po’ ansimante gli ghiacciò la spina dorsale.
«Pierre Vitral? Sono Lucile Moraud. Mi dicono che ha delle novità. Sul
serio?»
«Léonce de Carville è appena uscito da casa mia. Mi ha offerto
cinquecentomila franchi per chiuderla qui.»
I tre secondi di silenzio che seguirono gli sembrarono interminabili. La
voce roca, da fumatrice, della giornalista ruppe di nuovo il silenzio facendolo
sussultare. «Ha dei testimoni?»
«Tutto il quartiere...»
«Oddio... Non si muova, non parli con nessun altro. Ci organizziamo e le
mandiamo qualcuno!»
11
Marc,
devo partire. Non prendertela, me lo ero sempre ripromesso. Partire a diciotto anni.
Andare lontano, andare via... in India, in Africa, sulle Ande... o in Turchia, perché no?
Non preoccuparti, non temere, sono abituata a volare, giusto? Sono forte.
Sopravvivrò. Ancora una volta.
Se te ne avessi parlato, non saresti stato d’accordo. Ma se ci rifletterai con calma, allora
anche tu la penserai come me. Non possiamo continuare così, nel dubbio. Per questo,
Marc, devo allontanarmi. Da te. Devo riflettere. Tagliare i rami secchi, anche...
Marc, non cercare di rintracciarmi, di chiamarmi, non fare niente. Ho bisogno di spazio
e di un po’ di tempo.
Ne sono certa.
Un giorno sapremo chi siamo, l’una e l’altro; l’una per l’altro.
Abbi cura di te.
Emilie
Non c’era quasi nessuno sulla banchina della linea che andava da Saint-Denis
a Parigi. “Che fortuna” pensò Marc. Tre quarti d’ora di metrò, venti fermate...
Avrebbe potuto continuare a leggere il quaderno di Grand-Duc, cercare di
capire a sua volta.
Seguire i passi di Lylie.
Quattro parole ossessionavano Marc: “Tagliare i rami secchi”.
Cosa voleva dire Lylie?
Il metrò entrò in stazione. Marc salì sulla vettura e tirò fuori il quaderno
verde.
Un’idea folle, persistente, si era insediata nella sua mente. E se
quell’aeroplanino fosse stato solo un inganno, una messinscena per
impressionarlo? Lylie non gli aveva detto tutto. Quell’anello con lo zaffiro
che portava, per esempio, da dove veniva? C’erano troppe zone d’ombra.
E se invece Lylie non se ne fosse andata, lontano, altrove? E se fosse
rimasta lì, nei pressi, con in mente tutt’altro scopo?
Allontanarlo.
Allontanarlo perché quello che voleva fare era pericoloso.
Allontanarlo perché lui non sarebbe stato d’accordo.
Tagliare i rami secchi...
E se Lylie avesse scoperto la verità e stesse soltanto cercando di
vendicarsi?
12
Come avrete capito, la causa dei Vitral e della piccola Emilie divenne ben
presto assolutamente difendibile. I migliori avvocati di Francia, almeno quelli
che non erano già al servizio dei de Carville, proposero la propria assistenza
alla famiglia di Dieppe. A titolo gratuito, va da sé! La pubblicità attorno al
caso aveva raggiunto il top, l’opinione pubblica era favorevole ai Vitral...
Una vera manna! I professionisti all’opera, da entrambe le parti, erano molto
competenti.
La prima mossa dei nuovi legali dei Vitral fu condurre, tra febbraio e
marzo del 1981, una vera e propria guerriglia contro il giudice Le Drian.
Sospettavano che fosse parziale ed erano convinti che alla fine avrebbe dato
ragione ai de Carville. Il giudice e i de Carville appartenevano allo stesso
mondo: Lion Club, Rotary, massoneria, cene all’ambasciata... Se ne fece un
gran parlare, e non erano solo semplici insinuazioni... La cancelleria finì per
cedere. Le Drian rassegnò le dimissioni il 1° aprile e al suo posto fu nominato
un nuovo giudice, un’eminenza del tribunale di Strasburgo, un tale Weber.
Era un tipo basso di statura, equilibrato, con gli occhiali, una sorta di incrocio
tra Eliot Ness e Woody Allen. Mai nessuno in seguito ne avrebbe messo in
dubbio l’integrità, neppure i de Carville.
L’audizione dei primi testimoni iniziò il 4 aprile. Comunque andassero le
cose, un mese dopo ci sarebbe stato il verdetto. Il giudice avrebbe preso una
decisione. Le parti si erano dette entrambe contrarie a soluzioni di
compromesso, quali per esempio l’affidamento congiunto, che avrebbero
potuto creare un mostro con due nomi. Lylie per tutta la vita.
No, il giudice Weber doveva decidere su una questione di vita o di morte:
chi era la bambina sopravvissuta e chi quella perita nella tragedia. Lyse-Rose
de Carville o Emilie Vitral? Da allora mi sono posto spesso la domanda se
altri giudici abbiano mai avuto un simile potere: uccidere un bambino perché
un altro potesse vivere. Essere al tempo stesso il salvatore e il boia. Una
famiglia avrebbe vinto, l’altra avrebbe perso ogni cosa. Era meglio così, ne
convenivano tutti.
Decidere.
Certo. Ma su che base?
Da allora ho riletto decine di volte i documenti dell’istruttoria, le centinaia
di pagine che il giudice Weber aveva tra le mani; ho ascoltato ripetutamente
le decine di ore di audizione del processo a cui, anni dopo, grazie ai de
Carville, ho potuto avere accesso...
Nient’altro che chiacchiere! Perizie e controperizie che significavano tutto
e il contrario di tutto. Le udienze si ridussero a litigi fra periti convocati dalle
due famiglie, tutti di parte. Gli esperti imparziali non avevano nulla da dire.
Dopo alcuni giorni si era ancora allo stesso punto: la bambina aveva gli occhi
celesti, come i Vitral. I Vitral avevano un piccolo vantaggio, ma gli avvocati
dei de Carville scovarono all’ultimo minuto una lontana cugina con gli occhi
chiari... Guarda un po’!
Il giudice Weber doveva avere una monetina in tasca, che soppesava in
segreto durante le interminabili audizioni.
I legali dei de Carville investirono tutte le loro energie per far dimenticare
le disastrose apparizioni pubbliche del loro cliente, per costruirgli una nuova
immagine e portare i media dalla sua parte. Non era un risultato facile da
ottenere, tuttavia almeno parzialmente ci riuscirono. Si scagliarono contro
quello che chiamavano “il clan Vitral”, che comprendeva la famiglia, il
quartiere e la regione.
Di fronte a un clan, di fronte a un’opinione pubblica ostile, Léonce de
Carville era alla fin fine da solo con la sua dignità, i suoi principi e la sua
etica. Gli avvocati riuscirono in qualche modo a farlo passare per una vittima
sacrificale, il capro espiatorio alla mercé del giudizio popolare; gli fecero
incarnare il ruolo dell’uomo duro ma onesto, che si è battuto tutta la vita per
avere successo ed è stato deprivato del proprio diritto alla tranquillità. Del
diritto di essere nonno. Come il “nonnino” di Marcel Pagnol in Jean de
Florette, che commette gli errori più tremendi per tutta la vita ma alla fine,
quando il corso degli eventi si volge in suo sfavore, fa commuovere il lettore
fino alle lacrime.
Era quello l’atteggiamento che doveva avere Léonce de Carville davanti ai
media: la quercia spezzata! Il dubbio, inevitabilmente, si insinuò nella gente,
nei giornalisti: e se, alla fine, fosse stato de Carville a dire la verità? E se tutti
si fossero lasciati ingannare dalle acrobazie mediatiche dei Vitral, dalla
miseria che ostentavano così apertamente, dal seno generoso di Nicole...?
Gli avvocati dei de Carville ci sapevano fare davvero.
Il caso sembrava si stesse chiudendo in pareggio e, nonostante l’urgenza,
ci si apprestava a giocare i supplementari. Si stava profilando una serie
interminabile di rigori.
Fu proprio l’ultimo giorno di audizione che entrò in gioco il legale più
giovane dei Vitral, l’avvocato Leguerne. Da allora, posso confermarvelo, è
diventato piuttosto noto sulla piazza parigina. Ha uno studio su tre piani in
rue Saint-Honoré. Ma all’epoca, nel 1981, era un perfetto sconosciuto.
Faceva parte della schiera di avvocati che difendevano pro bono la causa dei
Vitral. Il che dimostra che c’è una morale: difendere la vedova e l’orfanella
insolventi poteva rendere molto bene.
Leguerne aveva preparato con estrema cura i suoi effetti speciali. Chiese al
giudice Weber l’autorizzazione a prendere la parola dopo tutti gli altri, come
se si preparasse a estrarre dal cilindro, all’ultimo minuto, una prova decisiva.
13
Col senno di poi, la storia del braccialetto era rilevante né più né meno di
tutto il resto. Solo un dubbio, un dubbio in più... Ma in quella fase del
processo si trasformò in una prova contro i de Carville. Un elemento nuovo
nel caso, ciò che tutti aspettavano dall’inizio dell’inchiesta. Allora, anche se
tirato per i capelli, anche se inconsistente, quel dettaglio era sufficiente a far
pendere l’ago della bilancia.
Il giudice Weber guardò a lungo Léonce de Carville. Il magnate aveva
mentito; per omissione, certo, ma lo aveva comunque fatto. Era stato colto in
flagranza di reato. Non fosse che per questo, in mancanza d’altro, la parte
avversa non aveva forse la ragione dalla sua?
Nel dubbio...
Il braccialetto dei de Carville è stata la mia ossessione per tanti anni. Quando
penso alle energie che ho speso per ritrovarlo, per seguirne le tracce...
Quando penso che per un soffio non l’ho stretto fra le dita, che ci è mancato
talmente poco... Ma, di nuovo, perdonatemi, sto correndo troppo.
La decisione del giudice Weber fu resa nota qualche ora dopo. La miracolata
del Mont Terrible era Emilie Vitral. I suoi nonni, Pierre e Nicole Vitral,
diventavano i tutori legali della piccola, così come lo erano del fratello
maggiore, Marc.
Lyse-Rose de Carville era morta, bruciata viva con i suoi genitori nella
carlinga dell’Airbus 5403 Istanbul-Parigi.
Gli avvocati dei de Carville volevano ricorrere in appello. Fu Léonce de
Carville a opporsi. Il suo ruolo di quercia spezzata, di nonnino, non era più
solo una recita.
I due infarti che lo colpirono l’anno successivo, l’uno a qualche mese di
distanza dall’altro, e lo inchiodarono per il resto dei suoi giorni su una sedia a
rotelle, in uno stato semivegetativo, sembrarono rientrare perfettamente nella
logica delle cose.
14
Entrò nella serra e, come ogni mattina, restò qualche istante a respirare
l’incredibile miscela di odori. La sua oasi di pace. La sua opera. Era lì, in
quella serra, che si sentiva più vicina a Dio, al creato, era lì che pregava
meglio, molto più che in chiesa.
Malvina...
La follia della nipote.
Anche quella era colpa di suo marito. Ricordava che deliziosa bambina
fosse Malvina a sei anni: il suo viso sorridente sulla scala di ciliegio, la
furbizia con cui si nascondeva in giardino, i suoi occhi pieni di meraviglia
davanti agli erbari che sfogliavano insieme... Ora, a parte mentirle, cosa
poteva fare? Rinchiuderla in un ospedale psichiatrico? Era solo l’ossessione a
spingere ancora Malvina ad alzarsi, vestirsi e nutrirsi: Lyse-Rose era viva, era
sopravvissuta, malgrado la sentenza del giudice di diciotto anni prima; solo
lei, la sorella maggiore, poteva riportarla in vita, anche dopo tutto quel tempo.
Riportarla in vita, con un Mauser L100 tra le mani...
Mathilde si chinò su un mazzo di gigli scarlatti, una delle ultime piante a
fiorire in autunno. Riusciva tutti gli anni a farli resistere in serra fino a
dicembre; era il suo orgoglio, il grande mazzo sulla tavola apparecchiata per
il cenone di Natale, una composizione di gigli rosa, scarlatti, Croceum rossi e
Candidum immacolati. Mathilde controllò meticolosamente il livello
dell’acqua: l’umidità era il segreto del loro splendore e della loro longevità.
La sua mente tornò di nuovo a Malvina, al braccio armato della sua
vendetta. Bisognava pure che qualcuno difendesse gli interessi dei de
Carville. Perché non lei, dopotutto?
Le cose sarebbero cambiate nei giorni, forse nelle ore successive. Ora che
Lylie aveva letto il quaderno di Grand-Duc, Malvina non era più l’unica
bomba a orologeria in circolazione. Il detective le aveva fatto un regalo di
compleanno avvelenato. Il film della sua vita. Tutti i segreti di famiglia
racchiusi in cento pagine.
Due famiglie. Doppia pena.
Era sufficiente a fare impazzire anche Lylie. Impazzire di rabbia.
Mathilde de Carville fece ancora qualche passo. Gli astri del New England
del suo giardino d’inverno perdevano gli ultimi petali, qualche raggio porpora
attorno a un cuore dorato, come se un’innamorata indecisa si fosse introdotta
all’interno della serra per sfogliare a una a una le margherite giganti.
Una strana immagine si affacciò alla mente di Mathilde. Quasi un sogno,
una sorta di premonizione. Vide Lylie entrare nel parco, nella Roseraie,
armata di un revolver, un Mauser L100, il dito sul grilletto. Camminava
lentamente sul prato.
Sì, Lylie aveva tutte le ragioni per venire a vendicarsi, se Grand-Duc
aveva svelato tutto nel suo quaderno. Mathilde sorrise tra sé e sé. Una
domanda la tormentava. Quel dito sul grilletto portava l’anello? Lo zaffiro
chiaro... I diamanti incastonati ornavano quell’indice vendicatore?
L’immagine a poco a poco svanì. Riapparve l’astro, spoglio a eccezione di
tre petali superstiti. Mathilde de Carville mormorò, muovendo appena le
labbra: «Buon compleanno, Lylie».
Se lo avesse saputo, all’epoca, non avrebbe mai ingaggiato Crédule
Grand-Duc per innescare quell’assurdo conto alla rovescia.
Fece ancora qualche passo, poi girò la testa per controllare di essere sola.
Lo era. Nessuno la osservava dalle vetrate della serra. Si chinò sul suo
giardino segreto, scostò gli iris e scoprì qualche gambo, discreto, di fiorellini
gialli: celidonie. Mathilde de Carville amava contemplare quei quattro petali
dorati, a croce, raggruppati a ombrello. “L’erba delle verruche”, come la
chiamavano una volta; tuttavia preferiva l’altra faccia della celidonia: una
pianta mortale, forse la più tossica, un concentrato unico di alcaloidi...
Il suo peccato veniale.
“Che Dio mi perdoni.”
Si girò su se stessa e uscì dalla serra. Léonce de Carville era sempre seduto
scomposto, appena scosso da un tremore regolare che agitava le foglie rosse.
Un tronco morto. Ritorto.
Lo sguardo di Mathilde de Carville abbracciò tutta la proprietà: il roseto,
la villa, il parco...
No, forse non tutto era perduto. Il nome. La razza. L’onore.
Lyse-Rose.
Alla fine ragionava come Malvina.
Restava un’ultima speranza, quella telefonata di Crédule Grand-Duc, il
giorno prima della sua morte. Sosteneva di avere scoperto un elemento nuovo
che metteva in discussione tutte le sue certezze precedenti. Aveva avuto
l’illuminazione tre giorni prima, proprio alla scadenza del suo contratto, a
quanto pare leggendo “L’Est Républicain”. A mezzanotte meno cinque.
Sarebbe stata così ingenua da credergli? Sarebbe stata così stupida da
assecondare Grand-Duc in un bluff tanto grossolano?
Lui non aveva voluto aggiungere altro perché doveva ancora verificare
qualche dettaglio. Mathilde ripensò a Malvina e al Mauser. Grand-Duc si era
comportato come quei testimoni che, nei romanzi gialli, cercano di alzare la
posta in gioco e si ritrovano con una pallottola nel cuore prima di avere avuto
il tempo di pronunciare una cifra.
Mathilde de Carville camminò fino ai rami tagliati delle rose. Si chinò e
raccolse i gambi a mani nude, senza battere ciglio, apparente immune al
dolore.
Suo malgrado, non poteva fare a meno di credere alle ultime parole del
detective.
Una soluzione. Un’ultima speranza.
E, come sempre in quella storia, la bilancia del destino: perché una
famiglia potesse sperare, l’altra doveva perdere tutto.
15
Pierre aprì la busta verso le otto del mattino. Tremava. Aveva dormito solo
due ore. Le parole del giudice Weber non davano adito a dubbi: la superstite
della catastrofe del Mont Terrible si chiamava Emilie Vitral. I nonni paterni
sarebbero diventati i suoi tutori legali. Potevano andare a prenderla a
Montbéliard la mattina stessa.
Nel quartiere del Pollet i bicchieri, lo champagne, l’olio per friggere e le
griglie non erano ancora stati messi via. Vennero distribuiti gli avanzi e i
festeggiamenti continuarono, il 10 e l’11 maggio 1981.
Per i Vitral furono i due giorni più belli della loro vita.
Mathilde de Carville aspettò che facesse buio per avvicinarsi al furgone dei
Vitral, dopo che gli ultimi clienti si erano allontanati. Si era accertata che
Nicole fosse sola. Quel 13 maggio suo marito si trovava al Pollet, per
l’assemblea di quartiere, come tutti i mercoledì sera. Stava seriamente
pensando di candidarsi per le elezioni municipali del 1983. C’era bel tempo,
tipico di maggio, ma con vento forte, come sempre.
È giunto il momento di presentarvi Mathilde de Carville, che entrò in
gioco esattamente due giorni dopo i festeggiamenti. Non è facile per me farne
un ritratto imparziale, lo capirete tra qualche pagina. Mi assumo la
responsabilità del quadro che vi dipingerò, per quanto riguarda sia la forma
sia il contenuto. Se non vi sembro oggettivo, credete almeno alla mia
sincerità. Mathilde de Carville, durante tutta l’istruttoria, aveva avuto fiducia
in suo marito; in suo marito e in Dio. Del resto fino allora, nel corso della sua
vita, non aveva mai avuto motivo di lamentarsi né dell’uno né dell’altro. Di
nobili natali, discendente degli Angiò, era emigrata nella banlieue parigina
chic. Piuttosto graziosa, intelligente e colta, con i capelli raccolti in uno
chignon alto e un pizzico di malizia alla Romy Schneider, la ventenne
Mathilde era ammirata, invidiata e corteggiata. Non per molto... Fervente
devota, si era innamorata del primo uomo che il cielo aveva messo sul suo
cammino, giurandogli eterna fedeltà. Léonce, un giovane e brillante
ingegnere, ambizioso ma povero, aveva distrutto a poco a poco tutto ciò che
Mathilde aveva di grazioso e di umano. Se questa era la volontà di Dio...
Mathilde portava una dote di inestimabile valore: il suo cognome, de
Carville, la discendenza privilegiata, il sangue nobile, la razza, il lignaggio...
Léonce aveva preso il cognome della moglie. Non è una cosa comune, sarete
d’accordo con me. Per trovare un caso analogo si deve risalire ai tempi di san
Luigi. Inoltre non bisogna dimenticare che Mathilde aveva offerto al marito i
milioni in buoni del tesoro che erano serviti a fondare l’azienda de Carville. Il
genio imprenditoriale di Léonce aveva fatto il resto: la moltiplicazione dei
primi milioni in decine, il successo commerciale, i brevetti lucrativi, le filiali
nei cinque continenti. Mathilde doveva aver pensato che il suo cognome
fosse stato un investimento ben riuscito.
Quando Dio le aveva preso Alexandre, suo figlio, in quell’incidente aereo,
la fede di Mathilde non aveva vacillato. Può sembrarvi strano, ma in tanti
anni ho imparato che una dura prova, se una persona crede veramente,
rafforza la fede più di quanto non la mini. L’ingiustizia divina, curiosamente,
spinge più alla sottomissione che alla ribellione. Così come la punizione
obbliga all’obbedienza. Soprattutto la punizione ingiusta, quella che giunge
per caso, per dare l’esempio. Mathilde de Carville aveva preso il velo ed
espiato chissà quale colpa. Aveva fiducia nella giustizia del Signore, e anche
in quella degli uomini, poiché la luce divina illumina l’operato dei mortali.
Tuttavia, quando il giudice Weber decretò la morte di sua nipote, per la
prima volta Mathilde dubitò. Oh, non di Dio, no, bensì della giustizia degli
uomini. E anche di suo marito.
La sua fede mutò.
Non vacillò, anzi, probabilmente divenne più incrollabile di prima, ma era
diversa. Non era più semplicemente contemplativa, passiva e sottomessa.
Mathilde de Carville era ormai cosciente di essere l’intermediaria sulla terra
fra Dio e gli uomini, sapeva che la fede era la sua forza, la sua arma. Che le
avrebbe indicato la strada per compiere la missione divina. Doveva agire.
So a che estremi può portare un ragionamento di questo tipo, a quali
fanatismi; in ogni angolo del mondo ci si uccide l’un l’altro in nome di dèi
che non hanno chiesto niente. L’ho sperimentato da vicino in un’altra vita,
prima di intraprendere la professione di detective privato.
Fortunatamente per Mathilde de Carville, la transizione avvenne per gradi,
almeno credo. Nel 1981 riteneva semplicemente che certi uomini fossero
sordi agli ordini divini e che, se il Signore le aveva dato tanto denaro,
utilizzarlo per cambiare l’ordine delle cose non voleva dire andare contro la
sua volontà.
Allora, forte delle sue nuove convinzioni, Mathilde de Carville prese due
decisioni, ponderate a lungo. La seconda riguarda me. La prima fu di andare
da Nicole Vitral, quella sera di maggio, sul lungomare di Dieppe; un incontro
di cui Nicole si ricordava ancora tutto – parola per parola e ogni minimo
silenzio – quando l’ho incontrata venti mesi dopo.
Nicole Vitral guardò con estrema diffidenza Mathilde de Carville che si stava
avvicinando. Chiuse meccanicamente la giacca sul seno troppo in vista. Si
erano incrociate, squadrate, durante le udienze e al momento della sentenza.
Ora era tutto diverso: Nicole Vitral conosceva i suoi diritti. Emilie era sua
nipote. Nessuno, nemmeno un de Carville poteva cambiare le cose ormai.
Quella fu l’unica ragione per cui accettò di ascoltare Mathilde.
Mathilde de Carville rimase in piedi davanti al furgone Citroën H. Nicole
Vitral, nel veicolo, la sovrastava di una ventina di centimetri.
«Signora Vitral, vengo subito al dunque» esordì Mathilde con una voce
non lasciava trapelare alcuna emozione. «Ci sono lutti più difficili di altri da
sopportare. La decisione del giudice Weber, lei lo sa, è una condanna a
morte. Per restituire la vita a una bambina ne ha uccisa un’altra...»
Nicole Vitral accennò un gesto di stizza, come se volesse abbassare la
serranda di ferro e chiuderla lì.
Mathilde de Carville alzò leggermente il tono. «No, no, mi lasci
continuare, per favore. Oggi, a distanza di neanche un mese, è difficile
rendersi conto delle conseguenze. Voi avete una bambina in custodia. Lyse-
Rose vive nel nostro ricordo. Ma tra cinque, dieci o vent’anni? Lyse-Rose
non sarà mai esistita, non avrà mai giocato, non avrà mai frequentato la
scuola... Emilie esisterà, lei vivrà. Tutti dimenticheranno la catastrofe, il
terribile dubbio. Sarà per sempre Emilie Vitral, e anche se non lo era lo sarà
diventata. A nessuno importerà più nulla dell’incidente.»
Un forte vento fece sbattere il tendone arancione e rosso. Nicole Vitral si
sentiva imbarazzata, a disagio, ma non poteva interrompere Mathilde de
Carville.
«Nicole... Mi permette di chiamarla Nicole? Sì, ci sono lutti difficili da
accettare. Io non avrò mai una tomba su cui deporre un fiore, una lapide di
marmo da scolpire. Perché, Nicole, se piangessi Lyse-Rose come se fosse
morta, se facessi dire delle messe per lei, non sarei forse il peggiore dei
mostri? La sotterrerei e magari invece è viva...»
«Eccoci, ci siamo!» la interruppe bruscamente Nicole Vitral.
L’impetuoso vento dell’Ovest non riusciva a scompigliare un solo capello
del rigido chignon di Mathilde de Carville.
«No, Nicole! Non ci siamo affatto. Mi ascolti fino alla fine. Non voglio
portarvi via Emilie. Per voi è facile: se è davvero vostra nipote, tutto andrà
per il meglio. Se non lo è, l’avrete comunque cresciuta. Il dubbio non vi
tormenta, non più di quanto tormenti un padre che non ha l’assoluta certezza
se il figlio sia proprio suo. Ma per me il dubbio...»
«Cosa vuole?» quasi urlò Nicole Vitral. Il vento le aprì la giacca, lei
gonfiò il petto. Aveva acquisito sicurezza dall’inizio di quella vicenda, a
causa dei media, degli avvocati, dei poliziotti. Continuò sullo stesso tono.
«Vuole che la piccola la chiami “nonna”? Che le telefoni ogni tanto? Che
venga la prima domenica di ogni mese a mangiare i biscottini?»
Non una ruga, non un ciglio di Mathilde de Carville si mossero. «Lei non
ha bisogno di essere cattiva, Nicole. Davvero. Lyse-Rose è morta. Per forza
di cose lei prova quello che provo io... Lei e suo marito amate quel tenero
batuffolo che chiamate Emilie, ma nel vostro cuore non saprete mai qual è la
verità. Come non lo so io. La vita ci ha incastrati.»
Nicole Vitral fece un sospiro. «D’accordo. Cosa vuole?»
«Solo aiutare la bambina. Se è Lyse-Rose, avrò la coscienza tranquilla. Se
è Emilie, allora... tanto meglio per lei.»
Nicole Vitral si sporse quanto poté dal banco, gli occhi di fuoco. «Di che
si tratta? Vuole vederla?»
«No, penso sia meglio che non mi conosca. Non so se le parlerete di tutto
questo un domani, non so se ci avete pensato. Ma credo che per lei sia meglio
non sapere nulla il più a lungo possibile. Non ho intenzione di spiarla da
lontano all’uscita della scuola, di guardarla crescere attraverso un parabrezza,
sperando di scoprire una somiglianza con mio figlio. No, non è nel mio stile,
va oltre la mia soglia di sopportazione della sofferenza.» Mathilde de Carville
sdrammatizzò con una risatina forzata. «No, Nicole, i ricchi hanno mezzi più
radicali per mettersi la coscienza a posto.»
«Il denaro?»
«Sì, il denaro. Non si risenta, Nicole, non sono venuta, come ha fatto mio
marito, per comprare la piccola. Non è un ricatto, una contrattazione... niente
di tutto questo. Soltanto un regalo per la bambina. Non chiedo niente in
cambio.»
Nicole Vitral stava per rispondere. La rabbia cresceva in lei come il vento
proveniente dal mare che si infilava nel furgone.
Mathilde de Carville non le lasciò il tempo di parlare. «Non rifiuti,
Nicole... Voi avete avuto Emilie, avete vinto. Non vi sto comprando. Rifletta
un attimo: perché mai dovrebbe privare Emilie di questo denaro che le viene
offerto, che le manda il cielo...»
«Non ho detto che rifiuterò» ribatté secca Nicole Vitral. «Né che
accetterò...» Il tono si abbassò bruscamente. «Quello che mi sta proponendo
è... complicato.»
La voce di Mathilde, come un’eco, aumentò di volume. «Apra un conto in
banca a nome di Emilie, è tutto quello che deve fare...»
Le labbra di Nicole tremarono. «E poi?»
«Emilie riceverà centomila franchi all’anno su quel conto fino al suo
diciottesimo compleanno. Il denaro dovrà essere utilizzato solo per lei, per la
sua istruzione, per le sue attività, perché abbia la migliore educazione.
Naturalmente spetterà a lei, Nicole, gestirlo durante questi diciotto anni. Lo
destinerà a ciò che riterrà opportuno. Io vi do i mezzi, voi decidete come
usarli. Non vi potete lamentare...»
Nicole Vitral lasciò per qualche istante che il vento facesse svolazzare la
sua giacca, che accarezzasse il suo seno fino a farle venire i brividi. Ascoltò il
rumore dei ciottoli trascinati instancabilmente dal flusso e dal riflusso delle
onde.
I pro e i contro.
«Aprirò quel conto, signora de Carville» rispose alla fine. «Per Emilie.
Perché se non lo facessi potrei rimproverarmelo. Emilie potrebbe
rimproverarmelo. Versi pure quel tesoro se vuole...»
«Grazie.»
«... Ma noi non lo toccheremo!» Nicole Vitral aveva quasi gridato.
«Emilie avrà la stessa istruzione di suo fratello Marc. Faremo i sacrifici
necessari, ce la caveremo. A diciotto anni, quando sarà maggiorenne, userà
quel denaro come vorrà. Sarà suo, se deciderà di accettarlo, non nostro.
D’accordo?»
Un leggero sorriso increspò le labbra di Mathilde de Carville. «Lei è
crudele, Nicole. Ma la ringrazio comunque.» Esitò appena un secondo, poi
aggiunse: «Posso chiederle un altro favore?».
Nicole Vitral sospirò, esasperata. «Cosa vuole che le dica? In ogni caso si
sbrighi, sto chiudendo.»
Mathilde de Carville estrasse una scatoletta blu dalla tasca del suo lungo
cappotto. La aprì, la avvicinò e la posò sul banco del furgone. Nicole Vitral
non poté distogliere lo sguardo dallo zaffiro chiaro dell’anello.
«È un’antica tradizione» spiegò Mathilde con voce calma. «Le ragazze
della famiglia, per il diciottesimo compleanno, ricevono un anello con
incastonata una pietra del colore dei loro occhi. È così da generazioni. Ne ho
anch’io uno che mi ha regalato mia madre più di trent’anni fa. Non avrò,
ahimè, l’occasione di fare altrettanto per Lyse-Rose.»
Nicole alzò infine lo sguardo. «Forse sono stupida, ma proprio non
capisco...»
«Le lascio l’anello, ne abbia cura. Forse fra tre anni, o fra dieci, a forza di
stare vicino a Emilie capirà. Saprà se è veramente sua nipote o no. Sono cose
che a volte succedono. E, se nel profondo del suo cuore dovesse convincersi
che la bambina che ha cresciuto non è sangue del suo sangue, immagino che
terrà per sé questo segreto...» Sospirò, commossa, e riprese: «Probabilmente
sarebbe meglio così, almeno per la piccola. Ma se lei avesse le prove, la
convinzione che non è sua nipote, allora il giorno del suo diciottesimo
compleanno le regali questo anello. Nessun altro, oltre a noi due, nemmeno
Emilie, saprà che cosa significa. Ma così, per lei e per me, sarà fatta
giustizia...»
Nicole Vitral stava per rifiutare, per restituirle l’anello, per gridarle che
quell’idea era ridicola e assurda, ma Mathilde de Carville non gliene lasciò il
tempo. Si era già girata, senza neanche aspettare una risposta. Il suo lungo
cappotto scuro fu inghiottito dalle ombre della sera.
La scatoletta blu rimase lì, sul piano in formica.
16
Marc procedeva quasi alla cieca lungo gli interminabili corridoi della stazione
Montparnasse cercando di non perdere di vista le indicazioni per la linea 6.
Lylie portava l’anello con lo zaffiro chiaro, del colore dei suoi occhi.
Nicole gliel’aveva dato tre giorni prima, quando aveva compiuto diciotto
anni. Sua nonna aveva rispettato il patto. Non ne aveva parlato con nessuno.
Mai. Nemmeno con Lylie.
Ma le aveva dato l’anello!
Marc ormai sapeva cosa significava, quale terribile confessione
rappresentava per sua nonna. Doveva chiamarla, aveva bisogno di parlarle.
Lo avrebbe fatto più tardi. Per il momento la priorità era Lylie.
Continuando a camminare, con la mano libera digitò rapidamente un breve
SMS sul cellulare.
Marc si sentiva trascinato da una specie di euforia. Scivolò con agilità nel
convoglio diretto a Nation. Urtò qualche passeggero per raggiungere il centro
della vettura e guadagnarsi un minimo di spazio vitale, sufficiente per poter
aprire il quaderno.
Cinque fermate lo separavano da Corvisart. A due passi da rue de la Butte-
aux-Cailles, da Grand-Duc.
Il tempo di leggere ancora qualche pagina.
L’odore di cenere e fumo prese subito Marc alla gola. Era come se un
caminetto fosse rimasto acceso per ore senza arieggiare i locali. Tossì. Si
trovava in una stanzetta, una sorta di ripostiglio dove erano sistemate
conserve e diversi attrezzi da giardinaggio e da bricolage. Spinse l’uscio, salì
tre gradini di cemento e aprì una seconda porta. Si ritrovò in quello che
doveva essere il salotto di Grand-Duc.
L’odore di fumo si fece ancora più intenso. Marc tossì di nuovo. Il suo
sguardo fu attirato dal caminetto che aveva di fronte. Una cosa era ovvia: in
quel focolare erano stati bruciati quintali di carta. Osservò i faldoni vuoti sul
parquet. Grand-Duc evidentemente aveva fatto pulizia, e di recente.
Prima che avesse il tempo di studiare meglio la situazione, uno strano
rumore lo raggelò. Proveniva da destra, alle sue spalle; una serie di tonfi
sordi, come il meccanismo inceppato di un giocattolo meccanico. Marc si
girò, in allerta. Notò con stupore l’immenso terrario in cui quasi tutte le
libellule giacevano sul terreno umido, inerti. Si avvicinò. Solo la più grande,
dal torace rosso e dorato, volava ancora, anche se con difficoltà. Come se
avesse captato un’altra presenza nella stanza, un possibile soccorritore,
agitava debolmente le ali, sbattendole contro le pareti di vetro. Marc restò a
fissarla per qualche istante, affascinato dai suoi movimenti disperati. Una
libellula prigioniera, quasi morta, come altri insetti. Senza riflettere, si
avvicinò e afferrò con entrambe le mani il coperchio di vetro che chiudeva il
terrario. Pesava ma era solo appoggiato. Lo sollevò senza difficoltà e lo
sistemò contro la parete più vicina. Reagendo subito all’aria fresca, con
qualche battito d’ali la libellula arlecchino volò via. Marc seguì con gli occhi
il suo volo, all’inizio un po’ esitante, poi maestoso. L’insetto si librò qualche
istante nella stanza, prima di posarsi sul lampadario del salotto.
Stupidamente il cuore di Marc accelerò.
Provava una gioia intensa, quasi puerile, per aver salvato l’insetto rosso.
La sua Libellula.
Non avrebbe mai immaginato che Crédule Grand-Duc fosse un
collezionista. E perché allora avrebbe dovuto lasciarla agonizzare in quel
modo?
Marc rilesse lentamente l’ultima riga: “Ho fatto del mio meglio”. Restò
per un momento immobile, cercando di controllare l’intensa sensazione di
malessere che si sentiva crescere dentro, poi risalì di qualche riga seguendo il
filo d’inchiostro nero. “... mi sparerò un colpo in testa. Il mio sangue si
mescolerà alla carta ingiallita di questo giornale. Ho fallito...” Sollevò gli
occhi.
Grand-Duc parlava del proprio suicidio. Programmato.
Perché allora non c’era nessuna traccia di sangue sulla scrivania? Nessun
giornale? Nessun’arma? Lui aveva dunque rinunciato a togliersi la vita, due
giorni prima, tra le ventitré e quaranta e mezzanotte... Per quale ragione?
Perché dopo avere predisposto tutto con tanta precisione aveva rinunciato
all’ultimo momento?
Gli era forse mancato il coraggio? Oppure si era sparato un colpo in testa
da qualche altra parte? Poteva aver mentito nel diario... sul suo sacrificio? Sul
resto? O – scenario assurdo – aveva scoperto qualcosa prima di mezzanotte?
Un’illuminazione improvvisa, un’ultima pista...
Marc rilesse più volte le ultime righe del diario.
Grand-Duc non lasciava nessun indizio. Solo una cosa era certa: non si era
sparato un proiettile in testa sulla sua scrivania.
Marc si infilò nel metrò. Le banchine erano quasi vuote a quell’ora. Aveva
avuto appena il tempo di perdersi con lo sguardo, dall’altro lato dei binari, nel
paesaggio misterioso di un manifesto gigante che invitava a visitare gli
Emirati Arabi quando il convoglio arrivò e si tuffò nella sabbia dorata,
proprio davanti al palazzo orientale, sotto le stelle da mille e una notte.
Otto fermate da Corvisart a Nation.
L’altra mia grande occupazione nei primi sei mesi d’indagini fu ciò che da
allora ho iniziato a chiamare “le mie vacanze turche”. Avrò passato in
Turchia quasi trenta mesi in tutto, la maggior parte dei quali nel corso dei
primi cinque anni.
Ero affiancato da Nazim Ozan, che aveva accettato subito di assistermi
nell’indagine. All’epoca lavorava a chiamata in diversi cantieri, più o meno
in nero. Si avvicinava anche lui alla cinquantina e giocare al mercenario nelle
zone calde del pianeta, circondato da kamikaze fanatici, non gli andava più
tanto a genio. E soprattutto aveva incontrato l’amore. Viveva a Parigi con la
moglie, un po’ cicciottella ma davvero carina, di origine turca come lui, Ayla.
Vai a sapere perché, quei due erano inseparabili... Ayla era il tipo di donna
padrona, gelosa come una tigre, e mi toccava negoziare per ore ogni volta che
avevo bisogno di portarmi dietro Nazim in Turchia. Una volta là, doveva
telefonarle tutti i giorni. Sono convinto che Ayla non abbia mai capito niente
di questa storia dell’indagine o, peggio, che non ci abbia mai creduto... Però
non ce l’aveva con me, anzi, insistette perché fossi il loro testimone di nozze
nel giugno del 1985.
Non restava che cercare di saperne di più su Lyse-Rose e sui suoi genitori,
Alexandre e Véronique de Carville. L’inchiesta ufficiale per l’identificazione
di Lyse-Rose si basava solo su due punti: la fotografia di spalle ricevuta dai
nonni de Carville e la testimonianza di Malvina. Dovevamo quindi riprendere
in mano tutto, in Turchia, sulla costa, nella loro residenza di Ceyhan.
Manifestavo un ragionevole ottimismo. In tre mesi di vita la piccola Lyse-
Rose doveva pur aver incrociato qualcuno! Mi sono ricreduto in fretta.
A quanto pareva Alexandre e Véronique de Carville non erano molto
socievoli, non amavano i bagni di folla esotici né i contatti fraterni con la
popolazione indigena. Tendevano invece a starsene segregati nella loro villa
bianca con vista sul Mediterraneo. Avevano anche una piccola spiaggia
privata.
Be’, era soprattutto Véronique che si occupava di gestire quel monastero.
Alexandre lavorava a Istanbul quasi tutta la settimana. Certo, ogni tanto
ricevevano degli amici, dei colleghi, dei francesi... Ma prima che arrivasse
Lyse-Rose. Dalla nascita della bambina, Véronique aveva ridotto al minimo
gli incontri mondani.
Tramite svariati controlli incrociati, trovai sette persone, due coppie di
amici e tre clienti della ditta de Carville, che erano state invitate nella villa di
Ceyhan dopo la nascita di Lyse-Rose. Ogni volta la neonata dormiva e gli
invitati si ricordavano solamente di un batuffolo che sporgeva appena dalle
lenzuola, le quali si sollevavano a intervalli regolari. Solo un cliente, un
olandese, aveva visto Lyse-Rose sveglia per qualche secondo. Véronique si
era subito ritirata per allattarla, allontanandosi dall’industriale olandese che
aveva continuato a scolarsi il suo raki nel patio mentre firmava contratti con
Alexandre. Il raffinato direttore commerciale della filiale turca di Shell, che
alla fine riuscii a trovare, precisò che non sarebbe stato in grado di
riconoscere il viso di Lyse-Rose né tanto meno le tette della madre...
Véronique de Carville doveva annoiarsi a morte nella sua villa. Aveva del
personale di servizio. Riuscii a scovare solo un giardiniere, un uomo po’
anziano, un po’ troppo miope per i miei gusti, che aveva incrociato Lyse-
Rose sotto le palme, al tramonto, protetta da una spessa zanzariera. Niente di
utile a parte una descrizione approssimativa, ancor meno affidabile delle
dichiarazioni deliranti di Malvina.
Tutte quelle ipotesi facevano ridere Nazim fino alle lacrime quando gliele
elencavo al caffè Dez Anj.
Annegava i baffi nel raki. «Un delitto? Stai andando fuori di testa,
Crédule!» Mi riportava con i piedi per terra, tra due sbuffi di narghilè. Lui
credeva solo agli indizi materiali, concreti. Palpabili. «Dopotutto, la bambina
non è rimasta chiusa in una cella per tre mesi. Sarà pur uscita per strada.
Magari qualcuno, un passante o un turista, l’ha vista, le ha scattato una foto,
l’ha filmata per caso... Non si sa mai.»
«Cosa vuoi dire di preciso?»
«Non so. Soldi ne hai. Fai pubblicare annunci sui giornali di tutta la
Turchia con la foto della miracolata, quella de “L’Est Républicain”. Vedi
cosa succede.»
Nazim aveva ragione, era un’idea geniale. Bombardammo la stampa turca
di annunci espliciti su ciò che stavamo cercando e su ciò che offrivamo in
cambio, una vera e propria cuccagna in lire turche.
Il 27 marzo 1982 – non scorderò mai questa data –, la mattina presto, una
lettera mi aspettava nella casella alla reception dell’hotel Askoc. Un tipo
l’aveva consegnata a mano. Il messaggio era laconico: un nome, Unal
Serkan, un numero di telefono e, soprattutto, la fotocopia di una fotografia...
Attraversai Ayhan Isik Sokak come impazzito, in mezzo a un fiume di
macchine. Nazim mi stava già aspettando al Dez Anj.
«Problemi, Crédule?»
Ficcai la foto tra le sue grosse dita pelose. I suoi occhi si impietrirono.
Fissò l’immagine, proprio come avevo fatto io qualche minuto prima.
Una spiaggia.
In primo piano, una ragazza bruna, abbronzata, dal fisico perfetto, posava
con un gran sorriso in un bikini non proprio sexy, modello turco. Sullo
sfondo, si riconoscevano le colline di Ceyhan e, nel loro scrigno verde, le
mura della villa dei de Carville.
Sulla spiaggia, qualche metro dietro la ragazza in costume, c’era una
neonata distesa su una coperta, accanto a una donna di cui si vedevano solo le
gambe. Una neonata di qualche settimana. Nazim restò stupefatto. La foto
quasi gli cadde dalle mani.
Quella neonata era Lylie, la Libellula, la miracolata del Mont Terrible,
senza ombra di dubbio. Stessi occhi, stesso viso...
Pascal e Stéphanie Vitral, durante il loro soggiorno in Turchia, non erano
mai stati a Ceyhan, non erano neanche arrivati a duecento chilometri da
quella località. Non c’era alcun dubbio, ecco la prova, finalmente. Ce
l’avevamo fatta!
La bambina ritrovata nella neve sul Mont Terrible era Lyse-Rose de
Carville.
Avrei pianto di gioia. I grossi baffi di Nazim mi sorridevano, rassicuranti.
Lo aveva capito anche lui. Era felice come un bambino.
Bel-Air.
Il convoglio frenò, si fermò, vibrò e ripartì.
Nessun passeggero. Ancora niente campo!
Leggere, leggere ancora.
Capire e ritrovare Lylie.
In tempo.
Tutti pensano che per i detective privati i casi di adulterio siano faccende di
routine, giusto per guadagnarsi la pagnotta, la feccia del mestiere... Cazzate!
In realtà spiare la vita sessuale dei clienti resta uno degli aspetti positivi del
mio lavoro.
Non ebbi alcuna difficoltà a scoprire che Alexandre de Carville non era un
modello di virtù, per usare un eufemismo. Un po’ lo sospettavo. Quando hai
il potere, il denaro e la giovinezza, in una città dove la poligamia è una
pratica plurimillenaria, con una moglie che si occupa dei bambini a
cinquecento chilometri dal luogo in cui lavori... Con il tempo riuscii a
scoprire una mezza dozzina di avventure extraconiugali del bell’Alexandre. È
strano: le donne hanno la tendenza a confessare abbastanza facilmente le loro
avventure con un amante deceduto e sono ancora più loquaci quando anche la
moglie dell’interessato è morta...
Bizzarri, i sentimenti.
Ad Alexandre de Carville piacevano i classici, come farsi la segretaria
sulla scrivania di vetro dell’ufficio di Istanbul, nel quartiere di Yenikapı. Ho
visto entrambe, scrivania di vetro e segretaria. Eleganti e fredde. Per tre mesi
aveva anche ritrovato la giovinezza con una provocante istanbuliota, appena
maggiorenne, che andava in giro per il quartiere di Galata con una gonna che
le copriva a malapena il sedere e l’ombelico al vento, sotto lo sguardo
inquisitorio delle donne con il velo nero. Lo trascinava di locale in locale. La
rintracciai, si era sposata. Due figli. Ancora non portava il velo, ma niente più
minigonne. Sorvolo sulle avventure da hammam, sugli spettacoli di danza del
ventre, con semiprofessioniste dell’amore, spesso in compagnia di clienti,
peraltro. Stando alle mie ricerche, l’amante più fedele fu Pauline Colbert, una
francese, donna in carriera, single, responsabile delle vendite di Total, che
secondo le sue stesse parole era stata l’ultima a fare l’amore con Alexandre
de Carville, il 22 dicembre 1980, ovvero il giorno stesso della partenza della
famiglia sull’Airbus 5403. Evidentemente aver fatto godere, e più volte,
precisò Pauline, uno che sarebbe finito carbonizzato in un aereo meno di
ventiquattr’ore dopo la eccitava terribilmente, con il senno di poi. Mi
confessò senza il benché minimo pudore che con Alexandre si faceva delle
gran belle scopate e che era quasi arrivata a fargli un pompino nel serraglio
del Topkapı, in barba ai guardiani del palazzo. La donna aveva un viso
ordinario su un corpo piuttosto sexy. Ebbi la sensazione che insistendo un po’
avrebbe aggiunto volentieri un detective privato al suo bottino di caccia. Lì
per lì non me la sentii di trasformarmi in fagiano.
Da qui una prima domanda: Véronique de Carville era al corrente delle
scappatelle del marito?
Difficile pensare il contrario. Una seconda domanda, ben più importante,
sorse allora spontanea: Véronique gli rendeva pan per focaccia? Non ho
trovato nessuna prova. Tutto sembrava dimostrare che lei era piuttosto
depressa, stava quasi sempre da sola con le figlie, Malvina e poi Lyse-Rose.
Riceveva raramente, ve l’ho detto... Tentai di individuare, nel suo entourage,
possibili candidati al titolo di amante ufficiale e di padre potenziale di Lyse-
Rose. C’era il figlio del giardiniere, un ragazzo bello come un dio che
vangava a torso nudo sotto le persiane di Véronique; gentile, il tipo da far
fantasticare un’occidentale depressa, lettrice turbata dell’Amante di Lady
Chatterley. Ma il giovanotto non confessò nulla e in più aveva un paio di
intensi occhi neri che smentivano la mia ipotesi...
Mi concentrai allora sulla ricerca di uomini dagli occhi celesti nei paraggi
della villa dei Carville a Ceyhan. Erano molto rari. Ne trovai tre, di cui uno
mediamente credibile: un avvenente tedesco, con i capelli legati in una coda
di cavallo, che affittava pedalò nella zona. Gli scattai delle foto e da allora
iniziai a prestare attenzione alle somiglianze con Lylie, nel corso degli anni.
Al momento però non c’erano prove. Meglio così! Non mi ci vedevo a
spiegare a Mathilde de Carville, che mi stava pagando una fortuna, che sì,
effettivamente Lyse-Rose era sopravvissuta all’incidente, ma non era loro
nipote; non era una de Carville, bensì la figlia di un noleggiatore di pedalò
teutonico!
Meno di due minuti dopo Marc si ritrovò in mezzo alla calca della Gare de
Lyon. Si lasciò trascinare dal vortice dei viaggiatori lungo gli interminabili
corridoi. Gigantesche locandine di film si susseguivano senza sosta: L’uomo
che sussurrava ai cavalli, Salvate il soldato Ryan...
Gli ultimi libri usciti, i concerti.
Marc voltò appena la testa.
Un manifesto dai colori scuri annunciava CHARLÉLIE COUTURE IN
CONCERTO AL BATACLAN.
I suoi pensieri volarono verso Lylie.
Oh, libellule,
toi, t’as les ailes fragiles,
moi, moi, j’ai la carlingue froissée...
Marc camminava. Il quartiere era stato pensato per i pedoni, su questo niente
da dire. Coupvray era a solo due chilometri. Arrivò in place de Toscane.
Sorrise alla vista della fontana scolpita, dei tavolini fuori e dei caffè color
terra di Siena. Non era mai stato in Italia, ma era proprio così che si
immaginava una piazza fiorentina o romana ideale, anche in pieno inverno. Si
aspettava quasi di scorgere Lilli e il vagabondo seduti a un tavolo, occupati a
degustare un piatto di spaghetti. Continuò a camminare di buon passo. Anche
se la città era stata pensata per i pedoni, ce n’erano pochi. Marc stava
attraversando ora il quartiere del golf. La moda lì era in stile cottage inglese:
finestre a bovindo, legno verde e porpora, ferro battuto. Marc aveva
l’impressione di aver attraversato un’Europa da cartolina in meno di due
chilometri.
Villette più classiche, benché lussuose, gli segnalarono che si stava
avvicinando a Coupvray. Vide una serie di cartelli familiari: COMUNE,
SCUOLA, CENTRO RICREATIVO, BIBLIOTECA, MUSEO DELLA CASA NATALE DI
LOUIS BRAILLE. Jennifer gli aveva dato l’indirizzo dei de Carville, chemin des
Chauds-Soleils, una strada chiusa al limitare dell’abitato, in mezzo al bosco
di Coupvray. Coupvray si era sviluppata in un’ansa della Marna, racchiusa
dentro uno scrigno di foreste protette. Il canale di Meaux a Chalifert formava
una sorta di confine del paese, tracciando una linea retta per abbreviare il
corso del fiume. Aggiungeva un altro elemento pittoresco a quell’angolo di
paradiso bucolico, a qualche chilometro dalla capitale. Tre pescatori erano
seduti su un muretto di pietra a strapiombo sul canale. CHIUSE DI LESCHES
lesse Marc su un cartello marrone. Non resistette oltre. Il luogo gli sembrava
ideale per fare una pausa, sedersi e tirare fuori dalla tasca dei jeans le cinque
pagine strappate dal quaderno di Grand-Duc.
Marc non aveva avuto il coraggio di leggerle nel rumoroso vagone della
RER , vicino a sconosciuti che avrebbero sbirciato da dietro le sue spalle.
Non quella parte della storia. La sua.
Aveva rimandato quel momento. Controllò il telefono. Nessun messaggio
di sua nonna. Nessun messaggio di Lylie.
Non aveva più scuse. Dispiegò i cinque fogli.
Marc aveva immaginato che la proprietà fosse sontuosa, una delle più
sfarzose di quel quartiere di ricconi, ma fu comunque colpito dalle
dimensioni del parco alberato, dalla varietà dei profumi, anche in autunno,
dalle aiuole di fiori, dai roseti impeccabilmente potati. Che estensione poteva
avere quel terreno? Diecimila metri quadrati? Quindicimila? Procedette sul
viale di brecciolino rosa, sempre affiancato dalla sua guardia del corpo di un
metro e cinquanta.
«Sei stupito, eh, Vitral? La Roseraie è il parco più grande di Coupvray.
Dal secondo piano si vede tutta l’ansa della Marna. Ti rendi conto, Vitral, che
avete privato Lyse-Rose di tutto questo?»
Marc represse l’impulso di prendere a schiaffi quella peste. A forza di
lanciare frecciatine velenose alla cieca, qualcuna avrebbe finito per centrare il
bersaglio. Lui non poté fare a meno di confrontare il parco della Roseraie con
il fazzoletto di terra di rue Pocholle, cinque metri per tre. Quando il Citroën
era parcheggiato dentro, il giardino non c’era più. In lontananza, vicino alla
serra, passò uno scoiattolo, lanciando sguardi impauriti ai visitatori.
«Adesso che hai capito, spero almeno che tu abbia dei rimorsi!»
Rimorsi?
Le risate allegre di Lylie risuonavano ancora nelle orecchie di Marc. Grida
di bambini gioiosi, appena Nicole usciva con il furgone per andare a lavorare
sul lungomare di Dieppe e lui e Lylie si precipitavano fuori per una partita a
campana o a ping-pong. Ai loro occhi di bambini, il giardinetto di casa era
più grande di qualunque Roseraie.
Tre scalini. Malvina passò davanti, senza mollare il Mauser, e aprì la porta
di legno massiccio.
Marc la seguì.
Era pazzo a entrare così, di sua volontà? Aveva agito da solo. Nessuno era
al corrente della sua visita. Malvina gli indicò un grande corridoio e salirono
altri tre scalini. Quadri di paesaggi campestri alle pareti del corridoio; alcuni
cappotti di pelliccia appesi a ganci di ferro battuto. Uno specchio ovale in
fondo al corridoio dava un’ulteriore impressione di profondità.
La canna del Mauser indicò la prima porta a destra, con il pesante battente
ornato di modanature rosse. Entrarono.
Marc si trovò in un grande salone. La maggior parte dei mobili era coperta
da teli bianchi, probabilmente destinati a proteggerli dall’usura del tempo
quando non si ricevevano ospiti. Una libreria, a vista, occupava tutta la parete
di fronte a lui. Nell’angolo opposto, la stanza era divisa da un pianoforte a
coda bianco laccato. Un Petrof, una delle marche migliori; Marc conosceva i
prezzi.
Mathilde de Carville stava davanti a lui, dritta, alta, rigida. La croce
appesa al collo e qualche traccia di fango sull’orlo del vestito erano gli unici
dettagli incongrui. Léonce de Carville dormiva lì accanto. Indifferente. Un
plaid sulle ginocchia, qualche foglia sulle braccia. La vedova nera e il
paralitico: una scena degna di un brutto film dell’orrore.
Mathilde de Carville non si mosse. Si accontentò di fargli uno strano
sorriso. «Marc Vitral, che visita inaspettata... Se avessi pensato che un giorno
sarebbe venuto qui...»
«Ero ben lungi dal pensarlo io stesso.»
Il sorriso si allargò un po’. Malvina si allontanò, andando ad appostarsi
vicino al piano.
«Metti via quell’arma, Malvina.»
«Ma, nonna...»
Lo sguardo di Mathilde de Carville non ammetteva repliche. Malvina posò
con gesto teatrale l’arma sul pianoforte. Evidentemente aspettava solo il
momento di prenderla e servirsene.
Marc non riusciva a staccare gli occhi dal pianoforte. Doveva essercene
per forza uno in casa de Carville. Anche se non era mai stato lì, ne era sicuro.
Faceva parte dell’ordine delle cose. Nella famiglia Vitral nessuno aveva un
talento particolare per la musica. Né i suoi genitori né i suoi nonni si erano
mai avvicinati in vita loro a uno strumento musicale. Perfino i dischi erano
una rarità al Pollet. Invece Lylie, fin dai primi mesi di vita trascorsi in rue
Pocholle, era stata affascinata dai suoni, di ogni genere; alla scuola materna
adorava i giocattoli con i carillon. L’iscrizione alla scuola di musica, a quattro
anni, era sembrata una scelta logica e quasi scontata. Il suo maestro non
faceva che lodarla, Marc se ne ricordava con orgoglio.
«È un bel pezzo, vero?» chiese Mathilde de Carville. «È autentico,
ordinato da mio padre nel 1934. Lei mi sorprende, Marc. Si interessa di
pianoforti?»
Marc non rispose, perso nei suoi pensieri. Quando Lylie aveva otto anni, i
maestri di musica avevano cominciato a fare pressioni: era una delle allieve
migliori, la più appassionata. Suonava con piacere tutti gli strumenti, ma
soprattutto il pianoforte. Doveva esercitarsi di più, non solo qualche ora a
lezione, ma tutti i giorni a casa. La questione della mancanza di spazio era
stata liquidata con noncuranza dai maestri di musica di Dieppe: esistevano
eccellenti pianoforti, quasi piatti, per appartamenti. Rimaneva il problema del
costo. Per comprare uno strumento discreto, anche usato, Nicole avrebbe
dovuto investire il ricavato di mesi di lavoro. Impensabile. Lylie non aveva
protestato quando Nicole le aveva spiegato che non se lo potevano
permettere.
Una sorta di stridore fece sussultare Marc. Malvina, dietro di lui, faceva
scivolare il Mauser sul legno del Petrof.
«Per piacere, metti giù quell’arma, Malvina!» ordinò con voce calma
Mathilde de Carville. «Anch’io, Marc, suonavo quando ero giovane. Piuttosto
male, peraltro. Mio figlio Alexandre era molto più dotato di me. Ma lei non è
venuto qui per parlare di musica classica, suppongo...»
Nessuna parola pronunciata da Mathilde de Carville era casuale, Marc lo
sapeva molto bene.
«Ha ragione...» cominciò. «Vengo subito al dunque. Sono qui per parlare
dell’indagine di Crédule Grand-Duc. Non le nasconderò niente, mi ha dato il
suo quaderno, tutti i suoi appunti degli ultimi diciotto anni. Be’, lo ha dato
a...» Marc esitò e subito aggiunse: «... lo ha dato a Lylie, che stamattina ha
insistito perché lo leggessi».
«Ma è venuto a mani vuote» tagliò corto Mathilde de Carville. «Lei è
prudente, Marc. Non si fida. A torto. Per quanto riguarda quel quaderno, non
ho mai preteso la minima esclusiva da parte di Crédule Grand-Duc. Alla fin
fine è una buona cosa che Lylie sappia. I dubbi valgono più di false certezze.
Per quanto mi riguarda, penso di conoscere abbastanza bene il contenuto di
quel taccuino. Grand-Duc era un dipendente leale.»
Marc osservò il volto deformato di Malvina riflesso nel legno lucido del
Petrof prima di replicare, con finto stupore: «Era?».
«Sì, era» rispose Mathilde con ironia non dissimulata. «Grand-Duc è stato
alle mie dipendenze per diciotto anni, ma è libero da tre giorni...»
Il giovane imprecò tra sé. Con quella sua aria di superiorità, Mathilde de
Carville cercava di manipolarlo. Ovviamente era al corrente della morte di
Grand-Duc, assassinato da sua nipote. Forse su suo ordine... Marc non
riusciva a tenere le mani ferme, suo malgrado. Che cosa ci faceva lì? Con
quella vecchia strega inacidita e quella pazza che non aspettava altro che un
cenno per ammazzarlo. Per non parlare del vecchio inerte sulla sedia a rotelle.
Una scena da incubo. Che cosa poteva sperare se non giocava a carte
scoperte?
Fece qualche passo, come per prendere sicurezza. Le dita di Malvina si
contrassero sul Mauser. Non aveva nulla da perdere, doveva buttarsi.
«D’accordo. Finiamola con questa messinscena. Da diciotto anni le nostre
due famiglie sono aggrappate ciascuna alle proprie certezze. Voi sostenete
che Lyse-Rose è sopravvissuta. Noi siamo sicuri che si tratti di Emilie. È
anche quello che ha detto il giudice.» Fece un sospiro, cercando le parole
giuste. «Signora de Carville, durante questi anni sono cresciuto accanto a
Lylie e ho capito una cosa.» Esitò ancora, poi continuò: «Signora de Carville,
Lylie non è mia sorella! Mi ha sentito bene? Non abbiamo nessun legame di
sangue... La sopravvissuta è Lyse-Rose».
Il Mauser, scivolando sul pianoforte, fece un rumore secco. Gli occhi di
Malvina brillavano di sorpresa, di incanto, come se a un tratto Marc fosse
diventato un suo alleato. Una spia che si toglie la maschera e svela la propria
identità.
Uno dei loro!
Al contrario, Mathilde de Carville rimase perfettamente immobile, in
silenzio. Alla fine pronunciò solo qualche parola. «Malvina, porta il nonno a
fare una passeggiata nel parco.»
«Ma, nonna...» Le lacrime le salivano agli occhi.
«Fai quello che ti dico, Malvina. Porta Léonce a fare una passeggiata nel
parco.»
«Ma...»
Malvina non riuscì più a trattenere le lacrime. Uscì spingendo la sedia a
rotelle su cui suo nonno, immobile, continuava a dormire.
27
Il metrò spuntò sulla banchina. Una giovane musicista salì davanti a lui
scoccandogli un sorriso radioso. Portava sulla schiena una chitarra la cui
custodia le superava la testa come il tubo nero della cuffia di una donna
bretone in lutto. Marc ostentò quell’indifferenza incurante tipica dei cittadini
trogloditi che circolano nei corridoi sotterranei delle grandi capitali. Si
sistemò in fondo alla vettura, si appoggiò al vetro e si concentrò sul racconto
di Grand-Duc; prima sulle ultime righe dell’ultima pagina strappata, poi sul
resto.
Esitai a risalire sul Mont Terrible, armato di pala, per scavare la tomba. Il
tempo era ancora più orrendo del giorno prima; c’era qualche grado in meno
e cadeva pioggia mista a neve. Due o tre ore di cammino per cosa? Avevo già
raschiato il terreno la notte precedente. Che rapporto poteva esserci tra quella
capanna, quel mucchio di pietre e la mia indagine?
Nessuno, naturalmente.
Alla fine presi un caffè a Indevillers, il villaggio più vicino sperduto in
mezzo al nulla, e aspettai mezz’ora che il tempo migliorasse. Attesa inutile.
In tarda mattinata sul crinale si era messo a fioccare con ostinazione. Tornai
direttamente a Parigi.
Un altro vicolo cieco nella mia indagine, pensavo, un’altra pista che
avrebbe fatto scoppiare dal ridere Nazim se gliene avessi parlato.
Immaginatevi un po’, dissotterrare un cane!
Non lo sapevo ancora, ma quel giorno, il 23 dicembre 1986, commisi un
errore. L’unico, forse, in diciotto anni di indagini, ma perdio, che errore!
Potevo accampare tutte le scuse del mondo – la neve, il freddo, la fatica, la
sfortuna, il sarcasmo di Nazim – ma a che pro? Io, Crédule Grand-Duc, il
meticoloso, il testardo, quel mattino rinunciai; mi mancò il coraggio di andare
fino in fondo. Una sola volta, ve lo assicuro. Però era l’unica pista che non
bisognava tralasciare...
Ma sto anticipando, di nuovo. Perdonatemi. Eravamo dunque nel 1986 e la
quotazione del braccialetto era salita a sessantamila franchi. Sempre nessun
cliente all’orizzonte... Continuavo la mia indagine con determinazione,
cercando di allontanare i primi segnali di stanchezza grazie a una
pianificazione metodica delle ricerche. Feci un lungo soggiorno in Québec,
per incontrare i nonni materni di Lyse-Rose, i Bernier, a Chicoutimi, del tutto
inutile...
Avvicinarmi ai Vitral era una delle opzioni della mia metodica
programmazione. Non la più sgradevole, peraltro. Lylie allora aveva quasi sei
anni, Marc otto. Trascorsi il 21 giugno 1986 con loro. Faceva un caldo
tremendo. Era una delle prime feste della musica e Lylie aveva suonato due
pezzi al pianoforte con l’orchestra di Dieppe, sotto un gazebo montato per
l’occasione sul lungomare, davanti alla piscina. La bambina, raggiante nel
suo grazioso abito verde, con i suoi riccioli biondi, era di gran lunga la più
piccola del gruppo. Sgranocchiammo qualcosa alla friggitoria ambulante di
Nicole. Quella sera c’era un sacco di gente. Nicole Vitral mi sembrò radiosa
più che mai, così orgogliosa della nipotina lì sul palco. Così bella, anche,
quasi felice, per il tempo di una sonata di Chopin. Non le toglievo gli occhi di
dosso, ma lei non se ne accorgeva, lo sguardo rapito dal trionfo di Lylie. Non
una sola volta la camicia macchiata nascose la curva del suo seno sotto il fine
corpetto.
Poco dopo ci sistemammo sull’erba. Lylie, seduta sulle mie ginocchia,
divorò una crêpe scherzando sul mio nome. Mi ribattezzò Credu-lo-Scivolo.
Se lo ricorderà ancora? Da detective privato, ex mercenario, a scivolo per
bambini.
Marc invece voleva tornare subito a casa al Pollet, in rue Pocholle.
C’erano i quarti di finale dei mondiali, Francia-Brasile. Non ebbe bisogno di
insistere: nemmeno io volevo perdermi la partita e in fondo guardarla con lui
mi faceva piacere. Nicole accettò che riaccompagnassi il bambino al Pollet
mentre lei restava sulla spiaggia con Lylie.
Che serata incredibile...
Ci gettammo l’uno tra le braccia dell’altro quando Platini pareggiò, a
pochi minuti dalla fine del primo tempo, dopo che Stopyra aveva
delicatamente calpestato il portiere brasiliano. Il piccolo Marc mi strinse forte
una coscia quando Joël Bats deviò il rigore di Socrates, a un quarto d’ora
dalla fine, mano opposta, un capolavoro; urlammo insieme quando quello
stronzo dell’arbitro non fischiò il fallo su Bellone, in piena area di rigore, ai
supplementari... E quando Luis Fernandez segnò l’ultimo rigore uscimmo
insieme, in rue Pocholle, trascinati dall’incredibile euforia dei vicini.
1986.
Credu-lo-Scivolo.
La Francia in semifinale contro la Germania.
Tutto ciò non aveva più molto a che fare con l’indagine, lo ammetto....
Ma restava forse ancora qualcosa da scoprire?
Già allora, nel 1986, non ne ero più molto convinto...
32
Madeleine.
Il metrò si stava avvicinando a una delle stazioni più frequentate di Parigi.
Non era l’ora di punta, ma quasi. La folla sulle banchine e nelle vetture
aumentò improvvisamente. Impossibile leggere in quelle condizioni.
Saint-Lazare.
Il convoglio si vuotò con rapidità vertiginosa. Marc guardava sempre con
stupore la marcia frenetica dei viaggiatori lungo i corridoi della Gare Saint-
Lazare: alcuni scattavano, spingendo quelli meno veloci, ignorando gli
ascensori pieni zeppi per salire quattro a quattro i gradini delle scale mezze
vuote, accelerando di nuovo non appena una galleria lunga e diritta lo
permetteva... Quelle persone ingaggiavano una corsa contro il tempo a causa
di un’emergenza oppure correvano così tutti i giorni, mattina e sera, solo per
abitudine, come altri fanno jogging sotto i platani?
Aveva letto di recente la storia di un tale, uno dei più grandi violinisti del
mondo, un russo di cui non ricordava il nome, che un bel giorno si era messo
a suonare per diverse ore in una stazione del metrò. Senza annunci ufficiali, si
era piazzato in incognito nel corridoio e aveva tirato fuori il suo strumento.
Tutte le sere riempiva i teatri del mondo intero e i biglietti per avere il
privilegio di ascoltarlo erano contesi a suon di centinaia di franchi, eppure
quel giorno nessuno o quasi nel corridoio del metrò si era fermato ad
ascoltarlo. Tutta quella gente in giacca e cravatta non aveva neanche
rallentato passandogli davanti e si era precipitata a prendere il treno, e magari
la sera stessa, o nel weekend, aveva corso ancora, quella volta per arrivare in
tempo all’imperdibile concerto di un famoso musicista.
Marc, per la prima volta dall’inizio della giornata, si concesse un attimo di
tregua e camminò con calma fino alla sala d’aspetto. C’erano migliaia di
persone in quello spazio immenso, in piedi, immobili, gli occhi al cielo, come
una folla che aspetti davanti al palco l’ingresso di una rock star mondiale.
Solo che non fissavano le luci del palco ma gli schermi luminosi che
indicavano i binari dei treni, o meglio che non li indicavano con sufficiente
anticipo, sicché i viaggiatori si accalcavano, sempre più ammassati di minuto
in minuto.
Il binario dell’Intercity Parigi-Rouen non era ancora stato annunciato.
Marc attraversò tutto l’atrio, aprendosi un varco in mezzo alla giungla di
pendolari impalati, e si sistemò a un tavolino fuori dal bar della stazione.
Ordinò un succo d’arancia a un cameriere nervoso che lo obbligò a pagare
subito, come se fosse potuto fuggire con il bicchiere in mano. Marc prese il
cellulare. La tregua era stata solo effimera. Sbottò in un’imprecazione che si
perse nel chiasso della stazione.
Lylie aveva chiamato.
Evidentemente, la telefonata era arrivata mentre si trovava in metrò. Era
come se Lylie lo seguisse, passo dopo passo, attraverso Parigi, aspettando che
sprofondasse nei corridoi sotterranei per farsi viva... senza però parlargli!
Marc smanettò sui tasti e portò il cellulare all’orecchio per ascoltare il
messaggio. Si sentiva a malapena. Lylie sussurrava invece di parlare. “Marc,
sono Emilie. Santo cielo, cosa sei andato a fare dai de Carville? Fidati di me,
Marc. Domani sarà tutto finito. Allora ti spiegherò. Ti spiegherò tutto. Se mi
vuoi bene come dici, mi perdonerai.”
Marc rimase un istante immobile, il telefono sempre attaccato
all’orecchio.
Fidarsi...
Perdonare...
Aspettare?
Mai e poi mai! Lylie gli stava nascondendo qualcosa. Tutto si sarebbe
svolto nelle ore successive, quel misterioso viaggio senza ritorno che solo lui
poteva impedire. Premette ancora sui tasti e ascoltò di nuovo il messaggio.
C’era un dettaglio che lo incuriosiva.
“Marc, sono Emilie...” Appoggiò il cellulare all’orecchio destro e si tappò
l’altro con un dito. Aveva bisogno di sentire con chiarezza, cosa che si rivelò
particolarmente difficoltosa in quella stazione gremita.
“Mi perdonerai.”
Marc ascoltò il messaggio una terza volta. Non era interessato alle parole
di Lylie, bensì a quello che si sentiva in sottofondo. Il suono era un po’
lontano, sordo, ma al terzo ascolto era quasi sicuro di averlo identificato. Per
precauzione ascoltò comunque un’ultima volta il messaggio: sotto la voce di
Lylie percepiva distintamente il rumore di sirene di ambulanze.
Marc rimise il telefono in tasca e bevve un lungo sorso di succo d’arancia
cercando di riflettere. C’erano solo due spiegazioni possibili. O Lylie si
trovava nel luogo di un incidente, forse per strada, oppure era davanti a un
ospedale o a una clinica! In ogni caso si trattava di un indizio, il primo.
Vuotò il bicchiere e continuò a ragionare. Informarsi sugli incidenti
verificatisi a Parigi sarebbe stato stupido: un incrocio o un tratto di strada
sarebbe stato sgombrato rapidamente e Lylie non sarebbe rimasta sul posto a
lungo, dunque non c’erano speranze di trovarla. Invece, se si trovava vicino a
un ospedale, avrebbe dovuto controllare decine e decine di indirizzi, ma era la
sua unica pista.
Marc posò il bicchiere vuoto sul tavolo di alluminio. Il cameriere si
precipitò a ritirarlo, come per fargli intendere che il tempo di stazionamento
nel bar era limitato. Lui non reagì; un’altra domanda lo ossessionava: cosa ci
faceva Lylie in un ospedale? Il primo pensiero che gli balzò in mente fu che
fosse ferita. Uno sciame di infermieri in camice la portavano d’urgenza in
sala operatoria...
Il grande viaggio. Aveva tentato di suicidarsi. Non aveva aspettato
l’indomani.
Che fare?
Il cuore di Marc batteva all’impazzata.
Doveva chiamare tutti gli ospedali e le cliniche di Parigi?
Perché no, dopotutto?
Marc telefonò per la terza volta quel giorno a Jennifer, la sua collega di
France Telecom, la quale gli trasmise con sollecitudine, a interminabili
blocchi, con diciotto SMS , l’elenco dei numeri di telefono che aveva chiesto:
centocinquantotto cliniche e ospedali a Parigi città...
Per più di mezz’ora Marc rimase attaccato al cellulare. Diceva sempre le
stesse parole: “Buongiorno, una ragazza di nome Emilie Vitral è stata
ricoverata da voi oggi? No, non so in che reparto. Forse al pronto soccorso?”.
Ogni chiamata durava da qualche secondo a qualche minuto. La risposta era
sempre la stessa, solo con qualche variante: “No, signore, non abbiamo
nessuno con questo nome. È sicuro dell’identità?”.
Marc si fermò al ventesimo numero dell’elenco. Ci sarebbe voluto troppo
tempo per telefonare ai centocinquantotto indirizzi. Era consapevole di
perdere ore preziose all’inseguimento di un indizio molto flebile: qualche
sirena di ambulanza... Lylie poteva essere ovunque nel momento in cui lo
aveva chiamato.
Il cameriere era già venuto tre volte a chiedergli se desiderasse
qualcos’altro. Marc aveva ordinato un secondo succo d’arancia, senza averne
voglia, solo per essere lasciato in pace. Non l’aveva nemmeno toccato. Era
questo ciò che aveva provato Grand-Duc in tutti quegli anni? Seguire fino
all’ossessione una direzione che fin dall’inizio appare sbagliata? Appigliarsi
alla luce di un fiammifero in una notte di tempesta?
Alzò gli occhi verso il tabellone dei treni in partenza. Ancora nessuna
indicazione per il Parigi-Rouen. Stava accadendo tutto troppo velocemente,
pensò. Quelle sirene... Quella busta blu che aveva in tasca e che tutto
sommato poteva anche aprire, a dispetto delle raccomandazioni di Mathilde
de Carville e della promessa fatta a Nicole... E quel quaderno – le confidenze
di Grand-Duc –, la terribile suspense che creava e che lo aveva intrappolato.
Marc bevve d’un sorso il secondo succo d’arancia. Il cameriere si
precipitò, armato di strofinaccio per pulire il tavolo, quasi abbozzando un
sorriso di sollievo. Come per sfidarlo, Marc tirò fuori il quaderno verde.
Quella notte dormii solo qualche ora. Un po’ per l’eccitazione, ma più per la
bottiglia di vino d’Arbois che mi ero scolato per festeggiare la notizia la sera
prima, seguita da qualche bicchiere di passito per chiudere in bellezza. La
padrona di casa ne aveva uno eccellente.
Grégory mi scaricò alla fine del sentiero sterrato, mi fece l’occhiolino e tornò
a corteggiare la sua bionda. Lungo il tragitto gli avevo rivolto qualche
domanda: non aveva mai sentito parlare di Georges Pelletier. Logico, risaliva
tutto a più di sette anni prima.
Linda riprese fiato. Aveva finito di lavare Léonce de Carville e gli aveva fatto
indossare un pigiama pulito, come ogni giorno. Si rifiutava di mettergli il
pannolone, come facevano nelle cliniche più esclusive. Non aveva
importanza, preferiva cambiargli il pigiama e le lenzuola tutte le mattine.
Linda issò l’infermo sul letto medico della sua camera, accanto al bagno.
Avevano dovuto modificare la porta per far passare la sedia a rotelle. Il letto
era il miglior modello in commercio, comandato elettricamente. Niente da
dire. Sul piano medico, Léonce stava meglio lì che nella stanza di una di
quelle case di riposo dove i vecchi vengono stipati come in una fossa
comune. Almeno avrebbe avuto il diritto di morire nel lusso. Da solo, ma nel
lusso. Mathilde de Carville dormiva al primo piano da anni.
Linda prese il guanciale di piume dal letto e lo poggiò sulla sedia più
vicina. Fece scivolare il grosso cuscino bianco sotto la schiena di Léonce per
raddrizzarlo e farlo adagiare mentre lo imboccava. Guardò l’orologio. Gli
avrebbe servito la cena di lì a meno di un’ora.
Si assicurò un’ultima volta che Léonce fosse sistemato a dovere.
L’infermo ora aveva gli occhi spalancati, come sempre dopo il bagno,
immobili a parte qualche raro battito delle palpebre. Linda aveva sentito
parlare di un paraplegico che aveva dettato un libro solo battendo le palpebre.
Incredibile! E se il cervello di Léonce, a dispetto di ciò che dicevano i medici,
non fosse stato inerte? E se lui avesse avuto qualcosa da dire? Da raccontare?
Il problema era che lei non capiva il suo modo di comunicare. Cosa aveva
nella testa quel vecchio?
Linda sapeva che Léonce de Carville era stato un uomo straordinario. Un
capo. Uno dei più grandi. Partito dal nulla, aveva costruito un’immensa
ricchezza, fabbriche in tutto il mondo. Aveva guidato un impero. Era stato il
faraone alla testa di una gigantesca piramide. E ora a lei toccava prendersi
cura del suo ricordo mummificato, di imbalsamare il suo corpo.
Probabilmente era proprio perché era stato così potente che aveva suscitato
tanto odio. Per gelosia. I deboli si vendicavano di lui adesso che non poteva
più difendersi. Deboli che gli dovevano tutto, però.
Linda posò sul comodino di Léonce un piccolo trasmettitore, come quelli che
si mettono nelle camere dei neonati. Teneva sempre con sé il ricevitore
mentre preparava da mangiare, per stare tranquilla, anche se a volte si sentiva
un po’ ridicola. Cosa poteva succedere all’infermo mentre era in cucina?
Uscendo, diede un’ultima occhiata al paziente, che aveva ancora gli occhi
spalancati.
Un genio che si era fatto dal nulla e ora era tornato al punto di partenza.
L’ombra scivolò silenziosa alle spalle di Linda e si nascose tra il muro e la
scala. Lei avrebbe potuto scorgerla se avesse girato un poco la testa. Invece
andò dritto in cucina.
L’ombra passò davanti alla porta della cucina e spinse quella della camera di
Léonce de Carville. Entrò piano nella stanza. Linda non aveva sentito niente,
non aveva visto niente.
L’infermo guardò con gli occhi spalancati e pietrificati dalla paura la figura
che si avvicinava, come se avesse capito le sue intenzioni. L’ombra esitò.
Quello sguardo fisso sembrava irreale. Minaccioso, quasi. L’incertezza durò
solo un secondo. L’ombra si avvicinò. Non provava nessuna compassione per
quel corpo inerte disteso di fronte a lei. Solo odio e disprezzo.
L’ombra si avvicinò ancora, determinata. Aveva individuato il cuscino
accanto al letto. Sorrise. Era la soluzione ideale. Rapida. Silenziosa. Si
diresse verso la sedia. Lo sguardo dell’infermo non l’aveva seguita, fissava
sempre, con gli occhi fuori dalle orbite, la porta aperta. L’ombra si sentì un
po’ rassicurata. La sua paura non aveva fondamento. L’infermo non l’aveva
riconosciuta; non era più in grado di riconoscere nessuno, d’altro canto. Sotto
i suoi piedi, il parquet scricchiolò leggermente.
Con sollievo, l’ombra sentì il rumore del mixer in cucina. Qualche minuto
prima era stata imprudente. Impaziente. Questa volta l’infermiera di là non
l’avrebbe sentita.
Aprì con precauzione la porta della stanza in cui si era rifugiata, la sala
con il pianoforte bianco. Le mani afferrarono il cuscino di piume sulla sedia.
Ancora due passi. La seta si modellò sulla forma del viso di Léonce de
Carville. Non un gesto. Non una reazione. Era così facile. Anche troppo.
Quanto tempo ci voleva per soffocare un paraplegico? In quel caso non
c’erano segnali inequivocabili, come quando un corpo si dimena e poi di
colpo si affloscia. Doveva aspettare un minuto? Due? Tre? Un’eternità.
L’ombra non contò. Come fare? Semplicemente attese. Il più a lungo
possibile.
Linda urlò.
Questa volta non era stata un’allucinazione, aveva sentito un rumore di
vetri infranti proveniente dalla camera. Stava impazzendo? Riprese il coltello
da cucina e si precipitò fuori. Senza neanche riflettere, entrò velocissima
nella stanza del suo paziente.
Un bicchiere rotto accanto al letto.
Dell’acqua un po’ appiccicosa.
Nessuno.
A parte Léonce de Carville, con gli occhi spalancati, quasi ovali. Folli. La
bocca era contorta. Livida. Come la maschera di Scream.
Non respirava.
Linda sapeva riconoscere la morte. Poteva sentirla, dopo quasi dieci anni
che lavorava con gli anziani.
Léonce era morto.
Soffocato.
Il cuscino era ancora sul letto, ai suoi piedi.
Sul momento Linda non sentì tristezza per quell’essere senza vita di fronte a
lei, nessuna pietà per quell’infermo a cui si era affezionata. L’unico
sentimento che provava, l’emozione che dominava su tutte le altre era la
paura.
Un terrore immenso che le ghiacciò la nuca. Il desiderio di scappare dalla
Roseraie urlando.
Uscire a ogni costo da quel castello di pazzi.
36
Marc imprecò. Fece scorrere la serie di SMS di Jennifer con i numeri degli
ospedali. Ne aveva contattati più di una ventina per il momento. Quelli
principali. Doveva continuare. Decise di dedicarvi mezz’ora prima di
riprendere la lettura del diario di Grand-Duc.
Ogni volta la stessa storia: “Buongiorno signora, una ragazza di nome
Emilie Vitral è stata ricoverata da voi oggi? No, non so in che reparto... Forse
al pronto soccorso?”. Il treno faceva un frastuono infernale. Marc aveva
difficoltà a sentire quello che gli rispondevano le segretarie. Sempre le stesse
parole, comunque. Non c’era nessuna Emilie Vitral nei loro registri.
In mezz’ora contattò altri ventidue ospedali. Guadagnava in efficienza
quello che perdeva in gentilezza. Aveva iniziato a chiamare anche le cliniche
private e gli studi medici, nonostante sapesse bene che Lylie non poteva
essere lì.
La situazione era senza speranza. Inseguiva una chimera, non avrebbe
trovato Lylie così... Non quel giorno.
Doveva riflettere, incastrare tutti i pezzi del puzzle. Come prima cosa
avrebbe finito di leggere il quaderno di Grand-Duc. Ne aveva tutto il tempo
prima di arrivare a Dieppe. Gli restavano ancora una trentina di pagine al
massimo.
Rimise il telefono nella giacca ed estrasse dalla tasca dei jeans delle
pagine strappate dal quaderno di Grand-Duc. Il retro dell’ultimo foglio era
bianco. Marc prese una penna dallo zaino e scrisse, nervosamente, in
stampatello:
DOV’È LYLIE?
Suicidio?
Omicidio?
Vendetta?
Poi, in minuscolo:
Malvina de Carville.
PARLARE A NICOLE?
Marc aveva aggiunto un ultimo punto di domanda per fare cifra tonda.
Quindici!
Il treno sarebbe arrivato a Dieppe alle diciotto e ventiquattro.
Mancavano meno di tre ore.
I campioni di mozziconi e gli altri resti raccolti nella capanna del Mont
Terrible non furono più loquaci. A distanza di sette anni, c’era da
scommetterci. Dopo Georges Pelletier, nel 1980, generazioni di abusivi o di
innamorati della domenica si erano di sicuro succeduti nella capanna.
Eravamo di nuovo al punto di partenza; non avevo scelta, dovevo trovare
Georges Pelletier. Ho passato notti intere a farmi ascoltare dai disperati di
Besançon. Besançon by night, fa quasi sorridere... Può sembrare un po’
folkloristico: gli ubriaconi di una città di provincia, una manciata di persone
al massimo, non propriamente pericolosi, ben noti alla polizia. Gli alcolizzati
della porta accanto. Quasi simpatici.
Non fidatevi! Posso assicurarvi che fare il barbone a Besançon esige
rispetto. Immaginatevi a vivere sotto un cartone, d’estate e d’inverno, nella
città più fredda di tutta la Francia. Niente metrò. Atrio della stazione chiuso
di notte.
Ho passato solo una decina di giorni con loro, tra gennaio e marzo del
1988, e pensavo che sarei crepato di freddo. Tornavo congelato di primo
mattino e stavo tre ore in apnea nella vasca d’acqua bollente. Adesso potete
credermi, non la rubavo, anche dopo otto anni di indagine, la grana di nonna
de Carville.
Tutto questo per cosa? Giudicate voi.
Gli ex compagni di strada e di droga di Georges Pelletier, tutto il fior fiore
della società notturna di Besançon, mi confermarono che Georges era
riapparso dopo il 23 dicembre 1980. Vivo, sceso dalla sua montagna, neanche
sfiorato da un Airbus che avrebbe potuto colpirlo in mezzo alla faccia.
Nessun braccialetto al polso. Sempre silenzioso. Era rimasto sei mesi a
Besançon e aveva ricominciato a fare cazzate. Traffico di droga. Furti. Poi
aveva tagliato la corda e se n’era andato a Parigi prima di essere trovato dalla
polizia. O da suo fratello Augustin. Secondo i suoi compagni di marciapiede,
Georges temeva meno i poliziotti che le lezioni di morale del fratello.
Aggiungo solo un dettaglio, l’ultimo. Georges Pelletier non era sceso dalla
montagna con il suo cane. Un punto interessante... Ma Augustin si sbagliava,
il cane non era di piccola taglia, era un pastore belga. Un maschio. Versione
XXL , secondo i suoi compagni. Sarebbe stato impossibile farlo entrare nella
tomba della capanna senza tagliarlo a pezzi. Ma perché sezionare il proprio
cane? Perché non scavare una buca più grande? Un maledetto mistero in più
attorno a quella fottuta tomba!
Come immaginerete, non rinunciai. Non mi restava altro che trovare le tracce
di Georges nella giungla di matti e di poveracci di Parigi. Mi portavo
appresso anche Nazim. Altri tre mesi d’indagine a tempo pieno. Piccoli
annunci. Contatti di ogni genere con i poliziotti, con i servizi sociali
comunali, con le famiglie. Ricerche per strada, di notte, con una lampadina
tascabile puntata sulla foto di Georges, tutto sorridente davanti all’albero di
Natale, a casa di Augustin. La foto più recente che il fratello aveva trovato...
Un lavoro da professionisti. Certosino. I bassifondi, un mestiere da
detective privato, come piaceva a me, finalmente. Mathilde de Carville aveva
ragione: per trovare la soluzione ci volevano tempo e denaro. Tralascio i
dettagli. Io e Nazim abbiamo finito per seguire la pista di Georges Pelletier
fino ad arrivare a un certo Pedro Ramos. Lo incontrai nel giugno del 1989
alla festa della Foire du Trône, davanti al Tagadà. Sì, avete capito bene,
davanti al Tagadà!
«Georges ha lavorato per me due stagioni» spiegò Pedro controllando di
sottecchi la sua giostra.
Adolescenti isterici, ragazzi e ragazze, pagavano cinque franchi a testa per
farsi maltrattare le chiappe per due minuti e mezzo su un vassoio girevole. Il
Tagadà era una versione collettiva delle altalene a bilico dei giardinetti.
«Non gli ho chiesto il CV » spiegò Pedro con un sorriso eloquente. «Ho
capito che voleva prendere il largo. Non era un fannullone. Era pulito quando
veniva a lavorare. Di tutto il resto me ne fregavo.»
«Quanto l’ha visto l’ultima volta?» chiesi.
Pedro non ci rifletté nemmeno. Fece solo segno con la mano di darsi una
mossa a una ragazza vestita di rosa che stava alla cassa. I suoi capelli
cambiavano colore in base ai neon.
«Nell’autunno del 1983. A metà novembre, per la precisione, dopo la fiera
di Saint-Romain, l’ultima della stagione, sul lungofiume di Rouen. Abbiamo
smontato tutto per l’inverno e chiuso la baracca. Arrivederci alla prossima.
Pelletier sapeva dove trovarmi. La stagione successiva non si è fatto rivedere.
Non ho pianto né l’ho cercato. Sono frequenti da noi gli stagionali. Già due
anni è tanto. Non è mai più tornato.»
Un vicolo cieco...
Rivolsi qualche altra domanda a Pedro Ramos, ma senza convinzione.
Non ottenni niente. La pista si fermava sul lungofiume di Rouen. Non così
lontano da Dieppe, a ben pensare, non così lontano dai Vitral...
Che rapporto poteva esserci? Nessuno, probabilmente.
I mesi seguenti cambiai registro. Mi feci tutte le fiere. I Tagadà e tutte le
altre scemenze!
A Nazim piaceva tanto, più dei bassifondi. A volte ci andava con la sua
piccola Ayla, nel weekend. Il luna park... Era la de Carville a pagare
l’ottovolante, il treno dei fantasmi e le mele caramellate. Ci volle un mucchio
di tempo prima di trovare qualcosa di nuovo. Anni...
Di tanto in tanto, per schiarirmi le idee, tornavo a Dieppe.
38
Lylie, ripresasi bruscamente dal suo torpore, vide due adorabili bambine di
cinque anni imbacuccate in cappotti di lana dai colori vivaci e con i capelli
raccolti sotto berretti peruviani.
«Signora, signora, è un matrimonio o un morto?»
Lylie sorrise suo malgrado. Trovava sconvolgente il contrasto tra le grida
gioiose nel cortile della scuola e il silenzio del corteo di quel funerale
anonimo. Si accovacciò per essere alla stessa altezza delle bambine. «È un
funerale» rispose con voce dolce.
«Eh, visto?» replicò Sarah trionfante.
Judith fece una smorfia. Altre tre bambine vennero ad attaccarsi alla rete.
Sul marciapiede, Lylie diventò l’attrazione della classe, come un pony dietro
un filo spinato.
«Chi è morto?» chiese Sarah.
«Non lo so, non lo conoscevo» disse Lylie. «Stavo solo passando. Non
sono una parente. Vengo da quel grande palazzo bianco di fronte. Adesso
devo tornarci.»
«Se non lo conoscevi, allora perché sei triste?» insistette Judith.
Lylie non riuscì a dissimulare la sorpresa. Si avvicinò ancora alla
bambina. Minuscoli puntini rossi le imperlavano le guance rosee. «Cosa ti fa
pensare che sono triste?»
«Be’, hai gli occhi tutti rossi. E devi essere super triste se preferisci star
dietro a un morto che non conosci invece di andare, non so, per negozi, a
giocare al parco, a vedere un film...»
Quindici paia d’occhi, appena visibili tra berretti, passamontagna e
sciarpe, scrutavano adesso Lylie.
«Hai indovinato» mormorò lei all’orecchio di Judith. «Ma non bisogna
dirlo a nessuno. Come ti chiami?»
«Judith Poitier. Sono nella classe dei grandi all’asilo. E tu?»
«Non lo so...»
Judith si morse il labbro, come se avesse fatto una domanda indiscreta.
Rimase un attimo pensierosa. Probabilmente era la prima volta che
incontrava qualcuno che non aveva un nome. Sorrise alla sconosciuta, come
quando cercava di far rappacificare due amiche che litigavano. «È per questo
che sei triste, allora?»
39
Una simile eccezione, in una famiglia, può capitare. Era quello che mi dicevo
per convincermi. Il fiore che cresce in mezzo ai rovi. L’autodidatta della
scuola repubblicana. Il sogno americano in versione francese, il giovane
eccezionalmente dotato che sale da solo tutti i gradini, senza appoggio, senza
rete di sicurezza, dalle medie alle grandi università; che trae la sua forza, la
sua voglia di riscatto dalle proprie origini modeste. Partito da lontano, dal
basso, orgoglioso delle proprie radici. E per sempre portatore di quel marchio
distintivo – rispetto ai figli di papà, nati nelle famiglie bene dei primi
arrondissement parigini, ai cloni del liceo Henri-IV – che è la sua linfa, che
l’ha fatto svettare più in alto. Il suo stendardo. E lui diventa il portabandiera
della sua famiglia, la quale scoppia d’orgoglio. Il piccolo che ce l’ha fatta. È
per questo che i poveri fanno tanti figli? Per moltiplicare le possibilità di
pescare il numero vincente?
Be’, interrompo qui la mia manfrina da quattro soldi sul determinismo
sociale. Volevo solo spiegarvi come Emilie stava sbocciando nel quartiere del
Pollet. La piccola che sarebbe andata lontano... Protetta dai suoi. Protetta
anche da Nicole, naturalmente. Solo che dovete immaginare il dubbio
lancinante che incrinava quella sua adorazione.
Nicole aveva il diritto di essere fiera di sua nipote? Dopo più di dieci anni
l’ombra del dramma planava ancora. Se la piccola era Emilie Vitral, sua
nipote, carne della sua carne e sangue del suo sangue, allora sì, che fortuna,
che gloria, che miracolo, quella bambina dal destino già tutto segnato! Ma se
era Lyse-Rose de Carville, mandata per errore in collegio, lontano da casa,
smarrita in un altro mondo, prigioniera...
Oggettivamente, guardando Emilie crescere nel quartiere di pescatori di
Dieppe, non potevo fare a meno di pensare che assomigliava a un
extraterrestre precipitato sugli Stati Uniti, a un Tarzan dimenticato nella
giungla, a un Gulliver tra i lillipuziani.
“È normale” mi sussurrava talvolta Nicole. “Una bambina cresciuta dalla
nonna. Da sola. Per forza è diversa.”
Aveva ragione. In parte.
A undici anni, alla fine delle elementari, Emilie cominciò a pretendere di più.
Be’, in realtà si limitò a dichiarare di voler vedere più in là della ruota della
sua bicicletta. Passare sull’altro versante delle falesie. Scoprire altri luoghi.
Altri interessi, anche. La musica, soprattutto. Continuare lo studio del
pianoforte. Non solo perché era dotata o perché i professori la
incoraggiavano. No, semplicemente perché ne aveva voglia. Più che voglia,
anzi: bisogno.
I termini della questione erano chiari. Emilie poteva continuare a
migliorare solo se avesse avuto un pianoforte a casa, per suonare diverse ore
tutti i giorni. Lei sapeva essere persuasiva a suo modo. Aveva preso le misure
del salotto. Un pianoforte verticale ci sarebbe stato, spingendo il televisore
nell’angolo e il divano di lato. Ci entrava e faceva anche bella figura con
sopra un vaso e il posacenere in cristallo della valle della Bresle.
Restava il problema del costo.
Primo prezzo trentamila franchi. Diciamo ventimila, usato.
Emilie non protestò. Capiva. A undici anni aveva già una sorta di maturità
quasi anomala. Sembrava capire, per lo meno. Si rifugiò nella sua cameretta,
che condivideva con Marc. Nicole sentì attraverso il muro un’aria per flauto.
Il suo unico strumento. Il flauto di plastica di Marc. Nicole riconobbe la hit
del momento, la canzone di Goldman, Leidenstadt.
Aveva il cuore a pezzi.
Quando Marc tornò dallo stadio, trovò sua nonna in lacrime, prostrata sul
divano. Lui aveva tredici anni. Non sapeva come reagire. Sentiva soltanto
Emilie suonare il flauto. Era una bella canzone. Triste, anche.
Nicole invitò Marc a sedersi sul divano, lo abbracciò e lo strinse forte.
«Non devi essere geloso di Emilie. Mi hai capito? Mai.»
Certo. Come poteva essere altrimenti?
«Dovrai continuare a vivere con lei come prima. Emilie sarà sempre la tua
sorellina...»
Sicuro. Dove voleva arrivare?
«Anche se faccio differenze. Tu sei grande adesso, Marc. Puoi capire.»
Differenze? Quali differenze?
Nicole si alzò piano. Marc la imitò. Le era tornato il sorriso o, meglio, una
parvenza di sorriso. Fece segno a Marc di prendere l’altro lato del divano.
«Aiutami a spingerlo. Non sono mica sicura io che ci possa stare un
pianoforte qui!»
L’acquisto del pianoforte nuovo, in contanti, un Hartmann-Milonga, nel
negozio specializzato più grande di Rouen, intaccò appena la cifra sul conto
in banca di Emilie.
Emilie aveva ragione: spingendo bene, tra il divano e il televisore ci stava.
Da allora gli eventi si susseguirono. Gli stage a Parigi, innanzitutto.
Qualche giorno, poi più a lungo. Saggi e concerti all’estero. Londra.
Amsterdam. Praga... Poi gli acquisti di dischi e libri. Perché privare Emilie
dei libri? Gli abiti. Perché privarla della moda? Era umano. Emilie aveva
diritto al meglio. Se lo meritava. Nicole non se la sentiva di trascurare il
minimo dettaglio per il suo futuro, nel caso in cui...
L’espresso regionale per Dieppe era quasi vuoto. Dopo la calca del Parigi-
Rouen, il contrasto era sorprendente. Marc si sistemò vicino al finestrino,
come al solito. C’erano solo altri due passeggeri nel vagone: un adolescente,
con un walkman inchiodato alle orecchie, e un tizio grasso che dormiva
occupando più di due sedili.
Aprì il tavolino grigio davanti a sé e vi posò sopra lo zaino da cui tirò fuori
il diario di Grand-Duc. Gli restavano al massimo venti pagine da leggere, poi
avrebbe fatto il punto. Ripensò ai messaggi di Lylie: aveva a disposizione una
sera e una notte per risolvere tutto.
Sul binario, il capostazione fischiò nervosamente.
Marc girò la testa di riflesso. Si bloccò, la fronte incollata al vetro, come
tramortito.
Era lei!
La sagoma gracile lanciò uno sguardo malevolo al capostazione, biascicò
qualche insulto fra i denti e balzò sul treno quasi in movimento.
Malvina de Carville.
Marc rimase alcuni minuti a scrutare le porte scorrevoli delle due piattaforme
che regolavano l’accesso allo scompartimento. Invano. Malvina doveva
essersi nascosta da qualche parte sul treno, ma lui non aveva nessuna voglia
di correrle dietro. Non si sarebbe fatto beccare come un bambino per due
volte di seguito. Adesso aveva venti pagine da leggere.
Poi si sarebbe occupato della pazza.
Nonostante tutta la sua buona volontà, Nicole era troppo distante da Marc ed
Emilie. Il lavoro, giorno, notte e weekend. La vita quotidiana. La differenza
di età. Non era una madre, ma nemmeno una nonna. Era logico che loro si
fossero avvicinati. Due teste bionde. Due facce d’angelo, da pubblicità. E
tuttavia erano così diversi...
Via, mi lancio. So che Lylie e Marc leggeranno queste righe. Cercherò di
essere all’altezza. Non ci sarò più, comunque, per affrontare il loro giudizio.
Marc... due occhi azzurri come il cielo, perduti verso orizzonti lontani,
rivolti verso l’età dell’oro dei pirati di Dieppe. Due occhi da acchiappa-
sirene. Però Marc era un falso sognatore. Amava solo la sua casa, il suo
quartiere, i suoi amici, sua nonna... e soprattutto Emilie.
Marc amava quello che conosceva, molto semplicemente; era un
sentimento che si rafforzava con il tempo, alimentato da un’immensa
generosità verso la famiglia. Marc il discreto. Marc il timido. Marc il muto,
quasi.
Ciò nonostante era l’idolo delle ragazzine, se possiamo definire così le
liceali di Dieppe. L’idolo indifferente. Dal giorno in cui l’ho conosciuto e ho
cominciato a osservarlo, come un investigatore minuzioso, Marc non ha mai
avuto altra ambizione se non quella di dedicarsi a Emilie, essere al tempo
stesso suo fratello, suo padre e suo nonno. Tutto quello che le mancava. Il suo
paravento. Il suo parafulmini. Il suo parapioggia.
Il suo paradiso, solo per lei.
La piccola Emilie lo ricompensava adeguatamente. Inondava di vita tutto
quello che incontrava. Era bella davvero, in contrasto con ciò che la
circondava: le fabbriche che chiudevano, i muri di mattoni e di selce, i canali
di scolo. In armonia, invece, con tutto il resto: il tramonto del sole sulla
spiaggia di Dieppe, l’autunno nella foresta di Arques, un arcobaleno sulle
falesie.
Come una farfalla smarrita. Una libellula, volendo...
Emilie moltiplicava per dieci la superficie abitabile della piccola casa dei
Vitral gonfiandola di musica – di melodie di Chopin o di Satie –, facendola
volare in alto, oltre le falesie, come un pallone rigonfio di felicità, che faceva
poi esplodere con uno scoppio di risa.
Quando era triste, si curava con la musica.
Un insetto smarrito.
Semplicemente era diversa. Non orgogliosa. Sola. Non sempre, però.
Emilie non esitava a urlare dalle tribune a ogni placcaggio di Marc nel fango
dello stadio Maurice-Thoumyre. A infilarsi le scarpe da ginnastica per farsi di
corsa la sua decina di chilometri, sei valli sul mare e cinquecento metri di
dislivello. Dieppe-Pourville-Varengeville-Puys.
Un grande sole di città che faceva sciogliere anche me, quando era
piccola.
Credu-lo-Scivolo.
Aveva rischiato troppo di perdere la vita a tre mesi per sprecarne anche
una briciola. Ed era a sua volta così orgogliosa del suo Marc. Il suo angelo
custode. Il suo angelo biondo...
Marc ed Emilie capirono molto presto di non essere fratello e sorella. Non
di sangue, almeno. Non come gli altri. Il segreto gelosamente custodito da
Nicole Vitral esplose nel cortile dell’asilo durante la ricreazione. Gli adulti
parlano, i bambini ripetono. Deformano.
Gli alunni della scuola Paul-Langevin inventarono un gioco: correre
attorno a Emilie con le braccia ben aperte e la testa bassa imitando il rumore
di un reattore; mimavano, girando su se stessi, l’aereo che partiva come una
trottola e poi si schiantava a qualche centimetro da lei. Era quello il gioco
preferito nel cortile della scuola Paul-Langevin: finire lunghi distesi
sull’asfalto, sotto il portico, fingendo di essere morti.
Attorno a Emilie, Marc giocava instancabilmente a pilotare un caccia.
Dall’alto dei suoi centimetri in più, come un King Kong appollaiato sulla sua
cupola, abbatteva gli aerei dei cretini che passavano alla sua portata. Fino alla
punizione. E tutto ricominciava.
Marc ed Emilie non furono mai veramente fratello e sorella. Crebbero nel
dubbio.
“Oh, i fidanzatini!” li prendevano in giro i meno crudeli nel cortile della
scuola.
Sì, si amavano. Era evidente. Ma di che tipo di amore?
Penso che Marc abbia iniziato a porsi la domanda verso i dieci anni. Fino
allora lui ed Emilie avevano sempre dormito nella stessa camera. Marc sotto
e lei sopra, nel letto a castello. Poi Nicole aveva lasciato a Marc la piccola
stanza da letto e sistemato Emilie in qualche modo nella propria.
Nicole cercava di arrangiarsi alla meglio. Ci è riuscita bene, quasi sempre.
Che tipo di amore? dicevo.
Lo confesso, ho tentato di approfondire. Li ho spiati come il più ignobile
paparazzo. Ho fornito un teleobiettivo a Nazim, nel caso in cui...
Inutile. I sentimenti non possono essere impressi sulle pellicole.
Che tipo di amore?
Solo loro sanno la risposta...
Marc non aveva più voglia di chiamare le cliniche. Era solo fatica sprecata.
“Oh, i fidanzatini...”
Chi ne era al corrente, a parte loro? Chi conosceva il loro segreto?
Nessuno. Né Grand-Duc né altri lo avevano raccontato in un quaderno.
Erano passati meno di due mesi.
Il 16 agosto.
Lylie non aveva ancora diciotto anni.
Marc chiuse gli occhi.
Erano passati meno di due mesi.
43
Lylie aveva bevuto un sorso dal rubinetto all’ingresso del cimitero e si era già
rimessa in moto.
Marc la seguiva, docile.
Il flusso continuo di auto dei turisti gli sfilava davanti. Il bordo della strada
stretta era delimitato da una scarpata alberata meticolosamente curata; lì era
impossibile correre fianco a fianco. Marc era costretto a seguire il passo di
Lylie, rassegnandosi a contemplare la sua schiena bagnata di sudore, le
natiche tornite, la nuca vellutata cosparsa di peluria bionda.
Non doveva, però.
Perché?
“Perché?” gli urlava una voce in testa.
Non guardare più niente. Concentrarsi solo sul battito cardiaco, sulle
falcate. Non essere altro che meccanica senza emozioni.
Marc aprì gli occhi. Era madido di sudore. Attraverso il finestrino del treno,
una serie interminabile di piloni dell’alta tensione lo colpì in pieno volto.
Istintivamente si ritrasse.
Era un mostro?
Sentiva i venti grammi della busta blu del laboratorio pesare nella giacca.
Il test del DNA .
Erano dei mostri?
Aprirla. Sapere. Avere la prova...
La porta del vagone si spalancò ed entrò Malvina de Carville.
44
Lylie si girò verso Dentigialli. C’era almeno una cosa che quella ragazza
poteva fare per lei. Abbozzò una sorta di sorriso. «Hai una cicca?»
Lylie non ebbe mai la risposta. La porta si aprì. Un’infermiera col fisico
da guardia carceraria entrò nella stanza.
«Signorina Emilie Vitral?»
«Sì?»
«Venga. Lo psichiatra la aspetta.»
45
«Guarda, guarda» commentò Marc con voce stridente. «Ecco a cosa pensi
durante la messa quando guardi Gesù bambino...»
«Sei troppo cretino per arrivarci!» ringhiò Malvina. «Sono haiku. Poesie
giapponesi. Non capisci niente!»
«E tua nonna? Anche lei è troppo cretina? Potrei mandarle un SMS ...»
Malvina aggrottò le sopracciglia, come una bambina colta in fallo.
Marc insistette. «Allora? Parla, o continuo. Cosa sai su Grand-Duc?»
«Fottiti...»
Le dita di Marc strapparono la piccola pagina del quaderno, la
appallottolarono e la lanciarono dal finestrino socchiuso. «Hai ragione. Sarò
sincero, quella faceva veramente schifo. Proviamo con un’altra pagina? Dài,
giochiamo un po’. Io ti faccio una domanda e se non rispondi leggo una
pagina. Se non mi piace ci faccio una pallina; se mi piace mando un SMS alla
nonna de Carville.» Fece scivolare le pagine tra le dita lasciandosi scappare
una risata rumorosa. Troppo rumorosa. Tentava di darsi una sicurezza di
facciata ma si sentiva sempre più a disagio nella veste di ladro di intimità.
Malvina si raggomitolò sul fondo del sedile, come fosse un passerotto
indifeso. Ogni pagina che lui strappava era come la piuma estirpata da un’ala.
Le pagine scorrevano. Marc si fermò sulla foto di un aereo, un Airbus,
ritagliato con cura e posizionato nel focolare di un caminetto.
Uccello di ferro
Angelo dell’inferno
Mia carne
Giocattoli dimenticati
Mi sei mancata
Abbandonata?
Malvina chiuse gli occhi. Era solo un topolino intrappolato, senza una tana
dove rifugiarsi. Marc lottava contro l’impulso di ridarle il quaderno, alzarsi,
lasciarla lì, andarsene. Lei non era che una vittima, triturata dall’immensa
carambola della catastrofe del Mont Terrible. Smarrita, distrutta.
Come lui.
Un ragazzino che alzandosi una mattina aveva visto un mostro allo
specchio. Un bambino annegato in un fango sordido di sentimenti proibiti.
Marc si sentì tuttavia pronunciare parole più letali delle pallottole del Mauser
che continuava a tenere puntato. «Questa la teniamo, Malvina? Oppure la
mando a tua nonna?»
Lei, con lo sguardo perso nell’immensità dei campi di mais della regione
di Caux, si torceva le dita come se cercasse di staccarne uno.
Marc affondò ancora di più il coltello. La sua gola era un deserto arido.
«Oppure la posso mostrare a Lylie. Credo che la divertirà parecchio!» Iniziò
a strappare la pagina.
Malvina aprì gli occhi e parlò, con una strana lentezza. «Grand-Duc
l’altroieri ha telefonato a mia nonna. Le ha detto che aveva scoperto qualcosa.
La soluzione di tutto il caso, a quanto sosteneva. Così, a mezzanotte meno
cinque, l’ultimo giorno! Proprio nel momento in cui si doveva sparare un
colpo in testa sopra l’edizione de “L’Est Républicain” del 23 dicembre 1980!
Aveva bisogno ancora di un paio giorni per raccogliere le prove, ma
affermava di essere sicuro, aveva risolto il mistero. Gli servivano anche altri
centocinquantamila franchi...»
Marc chiuse piano il quaderno. «Come lo sai?»
«Ho ascoltato, su un altro telefono. So rendermi invisibile. Sono piuttosto
dotata in questo senso.»
«Tua nonna gli ha creduto?»
«Non ne ho idea. Nel dubbio, ha accettato di pagare comunque. Lei se ne
sbatte dei soldi, in fondo. Grand-Duc l’ha menata per il naso per diciotto
anni. Un giorno in più o uno in meno...»
«E tu?»
«Io cosa?»
«Tu hai creduto a Grand-Duc?»
Sul viso di Malvina si dipinse un’espressione di incredulità. «Perché, tu lo
trovi credibile? Trovare così la soluzione, con un colpo di bacchetta magica,
proprio prima dello scoccare della mezzanotte. Pensi che stia in piedi?»
Marc non rispose. Dal finestrino, i meleti della valle della Scie seguivano i
campi di mais.
Malvina si voltò verso di lui e continuò a parlare a voce bassa. «Sono
andata a cercare Grand-Duc per dirgli di smetterla di romperci le palle. Era
tutto finito, Lyse-Rose aveva diciotto anni, l’età per decidere da sola. Tu hai
letto tutta l’indagine, ma anch’io conosco i dettagli. Il braccialetto, il
pianoforte, l’anello... Non c’è storia! L’hai detto anche tu prima, alla
Roseraie: è Lyse-Rose la sopravvissuta. Emilie è bruciata nell’aereo diciotto
anni fa. Potrai riferire questo a tua nonna. È ciò che pensi, vero? È ciò che
pensa anche lei, no?»
Sì, era quello che pensava Marc. Malvina aveva ragione su tutta la linea.
«Se non sei stata tu, sai chi ha ucciso Grand-Duc?» chiese Marc.
«Non ne ho idea. E non me ne frega niente.»
«Tua nonna? Per non pagare?»
Malvina sghignazzò. «Centocinquantamila franchi? Trova un’altra
scusa...»
Marc incassò e le rivolse un’altra domanda. «Grand-Duc ha detto a tua
nonna dove pensava di trovare le ultime prove?»
«Sì. Ha raccontato che sarebbe andato nel Giura. In un rifugio, sul Doubs,
vicino al Mont Terrible. Era lì che mia nonna doveva mandargli il resto dei
soldi.»
Nel Giura? Il suo famoso pellegrinaggio? In ottobre? Per quale dannata
ragione?
«Cosa andava a fare laggiù?» indagò Marc. «A cercare le prove promesse
a tua nonna?»
«Ci prendeva per il culo e basta.»
Marc non replicò. Si alzò, ripose cautamente il Mauser nella tasca della
giacca, poi porse il quadernetto a Malvina. «Nessun rancore, allora?»
«Vaffanculo!»
46
Cazzo!
Cosa avreste fatto al mio posto, scoprendo tutto questo dopo diciotto anni
d’indagini? Francamente, cosa avreste fatto voi? A parte spararvi un colpo in
testa?
Gli ultimi otto mesi non contano, né gli ultimi dieci giorni passati a scrivere
questo quaderno. Ed eccoci qua. È il 29 settembre 1998. Mezzanotte meno
venti. Ogni cosa è in ordine. È finita. Lylie compirà diciotto anni fra qualche
minuto. Riporrò la penna davanti a me, mi sistemerò su questa scrivania,
stenderò “L’Est Républicain” del 23 dicembre 1980, la copia di quel giorno
maledetto, e con calma mi sparerò un colpo in testa. Il mio sangue si
mescolerà alla carta ingiallita di questo giornale. Ho fallito...
Lascio solo questo testamento. Per Lylie. Per chi vorrà.
Ho trascritto nel quaderno ogni indizio, ogni pista, ogni ipotesi. Diciotto
anni di indagini. Tutto è affidato a questo centinaio di pagine. Se le avete lette
con attenzione, ora ne sapete tanto quanto me. Forse voi sarete più
perspicaci? Forse seguirete un percorso che io ho trascurato? Forse troverete
la chiave, ammesso che ne esista una? Forse...
Perché no?
Per me è finita.
Dire che non ho rimpianti né rimorsi sarebbe esagerato, ma ho fatto del
mio meglio.
Risultati negativi.
Nessun legame di parentela.
Percentuale di affidabilità 99,9687%.
Attraversò il ponte, lasciò alla sua destra il bar tabacchi del Pollet e si avviò
lungo rue Pocholle. Tornava sempre meno spesso a Dieppe, solo una volta al
mese, soprattutto da quando Lylie studiava a Parigi. La sua casa era là,
davanti a lui, con la facciata di mattoni simile ad altre quindici nella strada. Il
cortile era completamente occupato dal Citroën H arancione e rosso, come se
il giardino gli fosse stato piantato attorno. Marc notò le macchie di ruggine
sui parafanghi anteriore e posteriore del veicolo, l’ammaccatura sulla
portiera, le strisciate nere. Da quanto tempo non veniva messo in moto, anche
solo per uscire dal cortile? Ormai nessuno usciva più a giocare in quel
giardino delle bambole.
Marc suonò. Nicole aprì subito. Il calore del corpo generoso di sua nonna lo
sommerse. Lo abbracciò, tenendolo stretto a lungo. In un altro momento si
sarebbe sentito in imbarazzo. Non quella volta. Ne erano entrambi
consapevoli.
Nicole alla fine si staccò. «Stai bene, Marc?»
«Sì...» Non fece nemmeno lo sforzo di dirlo in tono convinto. Con lo
sguardo percorse il piccolo salotto. Sembrava rimpicciolirsi ogni volta che
tornava. Incupirsi, anche. Il pianoforte Hartmann-Milonga era sempre lì, tra il
divano e il televisore, polveroso. Una pila di carte, bollette, opuscoli, giornali
e volantini era accatastata sulla tastiera. Non c’era posto per sistemare altrove
tutta quella roba, e poi tanto il pianoforte non serviva più a niente.
La tavola era già apparecchiata: due piatti, due tovaglioli di lino beige e una
bottiglia di sidro. Marc si sedette. Nicole faceva avanti e indietro tra la cucina
e il salotto, brevi tragitti di cinque metri. Portò due filetti di sogliola cucinati
alla dieppoise, con panna e salsa alle cozze e gamberetti. Nicole era una
brava cuoca e sapeva anche fare conversazione, rivolgere domande e dare
risposte. Gli studi di Marc, il futuro del porto di Dieppe, i volantini da
distribuire, i polmoni che la facevano tribolare, la grondaia rotta («Marc, se
puoi darle un’occhiata...»). Con entusiasmo, come qualsiasi nonna che abbia
a disposizione pochi minuti di dialogo con i propri cari separati da lunghe
settimane di silenzio. Marc rispondeva a monosillabi. I suoi occhi giravano
per la stanza e tornavano sempre a posarsi sullo stesso punto, sopra il
pianoforte. Sulla pila di carte, Marc aveva notato una busta blu uguale a
quella che Mathilde de Carville gli aveva dato alla Roseraie e che Malvina
aveva aperto. Il regalo avvelenato di Grand-Duc. Nicole aveva quindi
riesumato quella busta che doveva aver tenuto nascosta da tre anni da qualche
parte, nei cassetti segreti dei suoi ricordi.
Chi avrebbe osato parlarne per primo?
Nicole stava raccontando di un vicino ricoverato in ospedale, in fase
terminale. Marc si rifugiò nei suoi pensieri. E così sua nonna conosceva la
verità da tre anni. Ne aveva la prova: Emilie era sopravvissuta. Era proprio
sua nipote quella che aveva cresciuto in tutti quegli anni. Nicole aveva vinto,
su tutta la linea. Probabilmente aveva consegnato a Lylie l’anello di zaffiro
chiaro per compassione nei confronti di Mathilde de Carville, così come dava
sempre qualche spicciolo ai mendicanti per strada.
Quel paragone fra i de Carville e i mendicanti, esposti alla carità di sua
nonna, suscitò in lui sentimenti contraddittori. L’immagine di Malvina
prostrata nel treno, alla stazione di Dieppe, continuava a ossessionarlo.
Nicole servì il formaggio. Come sempre lei non prese il dolce ma posò
tutta soddisfatta nel piatto del nipote un Salammbô. Una disgustosa ghianda
verde e marrone. Marc già a dodici anni non lo sopportava più, però non
aveva mai osato confessarlo a sua nonna. Era il dolce meno costoso...
Masticò diligentemente la crema pasticcera. Nicole stava tornando sulla storia
dei volantini, del comune, del porto commerciale. Lui non la seguiva più. Il
suo sguardo scivolò sulla fotografia incorniciata dei genitori, Pascal e
Stéphanie, sopra il caminetto. In posa, con i vestiti del matrimonio, davanti
alla cappella Notre-Dame-de-Bon-Secours, sotto una pioggia di chicchi di
riso. Marc aveva sempre visto quella cornice nello stesso posto, appesa allo
stesso chiodo. Sinistra felicità.
Nicole portò del caffè riscaldato in un pentolino e lo versò in due tazze, il suo
senza zucchero. Fu lei a fare il primo passo. Un piccolo passo.
«Hai notizie di Emilie?»
«No... Cioè, non direttamente.» Marc esitò. «Credo che sia in ospedale o
in clinica, qualcosa del genere...»
Nicole abbassò gli occhi. «Non preoccuparti, Marc. Stai tranquillo. È
maggiorenne adesso. Sa quello che fa...» Si alzò per portare via le tazze.
“Sa quello che fa...” La frase rimbalzò nella testa ammaccata di Marc.
Erano solo le parole rassicuranti di una nonna oppure nascondevano
qualcos’altro?
Si alzò per aiutare Nicole nel suo andirivieni fra la cucina e il salotto.
Passando per la seconda volta davanti a una fotografia, nella sua cornice di
legno, sulla mensola, tra un gioco africano e un barometro, si fermò. Marc la
conosceva bene, ritraeva Pierre e Nicole Vitral che sfilavano in corteo davanti
alla sottoprefettura di Dieppe, fianco a fianco, dietro un immenso cartello con
scritto SOTTO I CIOTTOLI C’È LA SPIAGGIA, lo slogan simbolo del maggio del
’68, data a cui risaliva la foto. Nicole e Pierre non avevano ancora trent’anni.
Nicolas, il loro primogenito, teneva la madre per mano, mentre Pascal era
issato sulle spalle di Pierre. Doveva avere cinque o sei anni e stringeva una
bandierina rossa nel pugno chiuso. Marc fissò suo nonno, suo padre e suo zio
riuniti nella stessa immagine. Erano tutti scomparsi, senza lasciargli il
minimo ricordo.
Si sforzò di assumere un tono naturale. «Vado in camera mia, Nicole.
Devo dare un’occhiata ai miei appunti. Torno subito.»
Gli rispose un rumore di stoviglie poggiate sul piano di ceramica.
Marc entrò in camera sua. Era in perfetto ordine. Nicole continuava a
rovinarsi la salute facendo le pulizie in una stanza in cui lui dormiva meno di
una volta al mese.
Ebbe l’impressione di riscoprire la sua cameretta di bambino; era colpa di
quel fottuto quaderno di Grand-Duc e di tutto il passato che aveva rivangato.
Il flauto con il bocchino di plastica era ancora poggiato sulla scrivania. Il suo,
quello che prestava a Lylie per suonare Goldman, Cabrel o Balavoine. Il letto
a castello era sempre attaccato alla parete. Quello sopra era vuoto da otto anni
ormai, da quando Lylie si era trasferita in camera di Nicole. Marc si ricordava
delle loro notti insonni. Lylie amava inventare storie infinite. Marc, coricato
nel suo letto, ascoltava la sua voce; qualche volta, quando lei aveva paura,
allungava un braccio. Allora Marc si sedeva sul letto e le teneva la mano fino
a quando Lylie allentava la stretta e si addormentava. Quando lei leggeva fino
a tardi, la luce gli impediva di prendere sonno, ma Marc non diceva niente.
Non si chiede al sole di spegnersi.
Lylie non avrebbe mai barattato quella promiscuità con l’immensa camera
che la aspettava dai de Carville, con la tonnellata di regali, con l’orso Banjo e
gli altri pacchetti. Marc ne era sicuro. Le libellule sono come le farfalle, in
fondo, hanno bisogno di un bozzolo quando sono piccole. Almeno prima
della crisalide...
Marc si scrollò di dosso la nostalgia come se fosse una pellicola che gli
avvolgeva le spalle. Si avvicinò all’armadio e osservò gli abiti. Ne
rimanevano pochi. Nicole aveva dato quasi tutto ai bisognosi, eccetto le sue
maglie da rugby gialle e blu: taglia pulcino, taglia allievo, taglia junior; c’era
anche una maglietta da calcio rossa e gialla, tutta sola nell’armadio, con la
scritta DÜNDAR SIZ a lettere di velluto sulla schiena. Taglia dodici anni.
Marc si chinò. Archiviava i suoi documenti in scatoloni poggiati per terra.
Ciò che cercava era sopra la pila: appunti di diritto europeo dell’anno
precedente. Il corso consisteva in buona sostanza nell’imparare a memoria
una serie di date: entrata degli Stati membri nell’Unione europea, trattati,
direttive, elezioni... Erano così gli studi di diritto, un palloso esercizio
mnemonico. Marc trovò con facilità il raccoglitore che cercava, poi la pagina.
Se non era uno studente brillante, era senza dubbio ordinato. Lesse: “Lezione
del 12/02/1998. I confini dell’Unione europea”. Era stato un po’ più attento
durante quella lezione che parlava del caso turco. Rilesse gli appunti: la
Turchia dei militari, il colpo di Stato, il ritorno alla democrazia...
Impiegò alcuni minuti a verificare i dettagli. Gocce di sudore gli
imperlavano le braccia. Alla fine chiuse il raccoglitore; aveva le mani umide
e la pelle d’oca. Adesso aveva capito cosa non quadrava nel racconto di
Grand-Duc.
Tutto tornava.
Si sedette sul letto e tentò di ragionare il più rapidamente possibile.
Suo nonno non era morto in un incidente. Era stato assassinato. Adesso ne
aveva la prova. Ma se quel dettaglio, quell’unico dettaglio, non combaciava,
allora il senso di tutta l’indagine sarebbe crollato...
«Marc?» La voce di Nicole attraversò le sottili pareti della camera.
«Marc? Tutto bene?»
Un accesso di tosse cavernosa, resa ancora più cupa dalle pareti di cartone,
sottolineò la domanda. Marc decise di rimandare quelle riflessioni. Si alzò,
fece scivolare il raccoglitore nell’Eastpack e mise a posto lo scatolone.
Rimase alcuni istanti in piedi, appoggiato al letto a castello. Vampate di
calore gli impedivano di respirare normalmente.
Nicole insistette, con voce tremante: «Marc?».
«Eccomi, Nicole. Arrivo.»
La porta della camera dava direttamente sul salotto. Le stoviglie erano state
messe a posto, un centrino di pizzo troneggiava in mezzo al tavolo. Nicole
era seduta. Piangeva. Davanti a lei, sul piano, Marc riconobbe la busta blu.
Il test del DNA .
La copia consegnata tre anni prima a Nicole da Crédule Grand-Duc.
48
Aveva vagato per tutta la sera, senza cenare. Non aveva fame. Non le
importava. Si era trascinata a lungo per le strade prima di dirigersi verso la
spiaggia. Aveva aspettato che la gente si desse una calmata, con le sue
scemenze: i balletti degli aquiloni, la musica, le bandierine, le canzoncine
popolari, i palloncini, i waffle e le altre schifezze vendute dai successori dei
Vitral sul lungomare di Dieppe.
In quel momento mancava poco a mezzanotte ed era finito tutto. Restava
solo qualche figura geometrica fluorescente sospesa in cielo, collegata alla
terra da lunghi fili tesi, annodati a dei pali piantati nell’erba. Malvina se ne
fregava, non era di certo dell’umore adatto per apprezzare lo spettacolo. Anzi,
avrebbe avuto voglia di tagliare tutti quei fili e far precipitare gli aquiloni in
mare come tanti soli morti.
Tagliare i fili. Spegnere il telefono. Maledire sua nonna che aveva
commissionato il test del DNA , che le aveva mentito per tutti quegli anni.
Tagliare il cordone.
Malvina si distese. Avrebbe dormito lì. Sui ciottoli. Tutto sommato se ne
fregava anche dei sassi freddi sotto il sedere.
«Ehi, bella, non dovresti essere già tornata da mamma e papà a quest’ora?»
Malvina rimase immobile, girò solo la testa in direzione della voce.
C’erano tre tizi in piedi sulla spiaggia, a una decina di metri da lei. Ognuno
aveva in mano una bottiglia di acqua minerale con del liquido arancione
dentro. Doppia finta. Non erano sicuramente né acqua né aranciata.
«Bellezza, potresti fare dei brutti incontri, così, tutta sola...» Era stato il
più alto a parlare. Aveva la palpebra destra bucata da un anello d’argento.
Un tipo più basso, calvo, in posizione un po’ arretrata, aveva difficoltà a
stare in equilibrio sui sassi. I suoi stivali incerati da cowboy, lunghi e stretti,
non lo aiutavano. Il terzo, la cui stazza ricordò a Malvina l’orso Banjo, aveva
invece i piedi ben piantati al suolo.
Il tizio con l’anello d’argento si avvicinò ancora, fino a tre metri da lei. Gli
altri lo seguirono. Malvina alzò la testa.
«Oddio, è una vecchia» esclamò Stivali da cowboy. «E dire che da lontano
pareva una verginella...»
«Magari lo è» commentò Anello d’argento.
Orso bruno e Stivali da cowboy scoppiarono a ridere.
Malvina si rannicchiò e frugò febbrilmente nella borsa. Imprecò per la
rabbia. Si era appena ricordata che in treno Vitral le aveva fregato il Mauser.
Anello d’argento avanzò di un altro metro. «Tu cerchi un’avventura, bella
mia. Ho fiuto per le ragazze come te. Sai, è il tuo giorno fortunato. Tre
uomini tutti per te...»
«Levati dalle palle, stronzo.»
I tizi indietreggiarono di un metro, tranne Stivali da cowboy, che scivolò
sui sassi.
Poi Anello d’argento fece qualche passo avanti. «Oh, ragazzi. C’è capitata
una vera puttanella...»
Orso bruno sapeva anche esprimersi. Era il gentiluomo del gruppo. «Non
ti faremo del male. Ci divertiamo solo un po’...»
«Sì» proseguì Anello d’argento. «Mi piace il tuo look, tesorino. Anni
Cinquanta, eh? Che figata. Ho sempre sognato di farmi fare un pompino da
mia nonna.» Guadagnò un altro metro e aggiunse: «Solo che mia nonna ha
più denti...».
Orso bruno e Stivali da cowboy scoppiarono di nuovo a ridere. Un buon
pubblico. Si avvicinarono anche loro, in seconda linea.
Malvina tentò di indietreggiare strisciando e urlò: «Se vi avvicinate ancora
vi ammazzo tutti!».
I tre guardarono divertiti il suo corpo gracile rannicchiato fra i sassi.
«Morde, la piccola. Dài, non fare la scontrosa, non aspetti altro...»
Anello d’argento si avvicinò ancora. Non avrebbe dovuto. Sentì un sibilo e
forse intravide anche un debole chiarore. Subito dopo il suo occhio si chiuse.
L’anello d’argento penzolava, miracolosamente trattenuto dal lembo di
palpebra lacerato, immerso in una pozza di sangue. Nell’attimo che seguì un
secondo sasso gli fracassò la cartilagine del naso.
«Brutta stronza...»
Un terzo sasso mancò di poco la sua bocca spalancata, sfondandogli la
parte destra della mascella.
Un buon sasso può ucciderti se è della grandezza giusta e viene lanciato a
bruciapelo da tre o quattro metri di distanza. O, comunque, in caso il tiro sia
meno preciso, può sfigurarti a vita. Malvina forse non ne era consapevole, ma
quei tre lo intuirono subito. In determinate circostanze anche i più ottusi
capiscono velocemente. Questione di sopravvivenza.
Se la svignarono.
Una pioggia di sassi continuò ad abbattersi su di loro. Stivali da cowboy
scivolò ancora sui ciottoli e bestemmiò. Un proiettile gli esplose sulla
clavicola. Orso bruno non era molto più agile. Le pietre gli bersagliarono la
schiena e la nuca. Malvina adesso lanciava alla cieca, con una forza
ingigantita dalla rabbia.
«Ti ritroveremo, puttana!» urlò Anello d’argento quando fu fuori tiro. «Ci
rivedremo!»
«Esatto» sibilò Malvina. «La polizia non avrà difficoltà a riconoscere il
tizio che voleva violentarmi. Un guercio non si vede mica tutti i giorni...»
Risultati negativi.
Nessun legame di parentela.
Percentuale di affidabilità 99,94513%.
Marc lasciò cadere il foglio sul tavolo come si getta un pezzo di carta in
fiamme. Nicole fece la stessa cosa, poi crollò sul divano.
Entrambi i test del DNA erano negativi.
Marc farfugliò una domanda, in tono quasi impercettibile. «Cosa
significa?»
Nicole tirò fuori il fazzoletto, si asciugò una lacrima che le era spuntata
all’angolo dell’occhio e fece uno strano sorriso. «Crédule Grand-Duc è
proprio uno a cui piace scherzare, non credi?»
«Tu... tu lo sapevi?»
«No, Marc, te lo giuro. Nessuno lo sapeva. A parte Crédule, naturalmente.
Da quando ho visto il risultato del test, tre anni fa, mi sono convinta che
Emilie fosse morta nell’incidente dell’Airbus, che quella che ho allevato
come mia nipote fosse Lyse-Rose de Carville... Mi ero abituata a questa idea.
L’avevo anche accettata. Per questo le ho dato lo zaffiro per i suoi diciotto
anni. Ero quasi arrivata a esserne felice.» Nicole fece una pausa. Tirò
meccanicamente lo scialle di lana che portava sulle spalle per coprire la
camicetta abbottonata fino al collo. Guardò Marc con infinita tenerezza. «A
rallegrarmi per il suo futuro. Per voi due, soprattutto. Era molto più semplice.
Quel risultato era così evidente...»
Marc non replicò. Si alzò di scatto, afferrò di nuovo i due fogli e li posò
l’uno accanto all’altro, per raffrontarli. Nulla lasciava pensare che si trattasse
di documenti falsi. Cercò di dominare l’impulso irrefrenabile di ridurli in
mille pezzi. «Grand-Duc ha commesso un errore, Nicole!» quasi gridò. «Può
essersi sbagliato sui campioni, averli confusi, invertiti... Anche il laboratorio
può aver fatto un pasticcio. Ci dev’essere una spiegazione!»
«Forse Crédule ci ha dato le risposte che ci aspettavamo» osservò con
dolcezza Nicole.
Marc sussultò. «In che senso?»
«Solo lui sa quali campioni di sangue ha consegnato per l’analisi. Ha agito
come meglio credeva, in base alla verità che voleva far emergere. Dopo
quindici anni d’indagini non aveva trovato niente, perciò forse ha scritto lui
stesso la fine della storia.» Nicole rifletté qualche istante prima di aggiungere:
«Due test negativi... Non è una brutta trovata, in fondo. Anzi, ha funzionato
molto bene. Così Mathilde de Carville si è convinta che sua nipote fosse
morta, definitivamente, e ci ha lasciati in pace. A Grand-Duc non piace
molto, credo. Io reprimevo il mio dolore. Emilie non era mia nipote, non era
tua sorella. Quel test mi ha fatto piangere per notti intere, ma ha anche sciolto
il terribile groppo che mi bloccava lo stomaco, che mi dilaniava, che mi
bruciava i polmoni ogni volta che tu ed Emilie vi guardavate. Ogni minuto,
ogni secondo...».
Marc andò a sedersi sul divano accanto a Nicole e posò la testa sulla sua
spalla. Passò la mano attorno all’ampia vita di sua nonna. Con le dita
giocherellava con la lana dello scialle.
Lei girò il viso verso il nipote. «Capisci, Marc? Certo che capisci.
Significava che non avevate legami di sangue, non eravate fratello e sorella.
Eravate liberi, mio caro Marc. A modo suo, Crédule vi voleva bene, vi
osservava; era capace di escogitare un simile stratagemma...» Osservò i fogli
sul tavolo. «Se i due risultati non fossero stati messi a confronto, il suo piano
avrebbe potuto funzionare.»
Marc si alzò e prese a camminare nervosamente per la stanza. Nonostante
le argomentazioni di sua nonna, non riusciva a credere a quella versione, a
quel trucco orchestrato da Grand-Duc! Stando agli appunti sul quaderno, il
detective sembrava costernato tanto quanto loro dai risultati dei test del DNA .
Anche se poteva aver mentito di proposito. Come sul resto... «Esco, Nicole,
vado a fare un giro.»
Lei non disse niente. Si tamponava con delicatezza gli occhi con un
angolo del fazzoletto. Marc mise la mano sulla maniglia della porta
d’ingresso. La voce di Nicole tremò ancora di più, se possibile. «Non mi hai
chiesto dov’è Emilie...»
Marc si bloccò. «Perché, tu lo sai?»
«Non di preciso, no. Non ho idea di dove si trovi, ma ho capito qual è il
grande viaggio di cui parla, il delitto che progetta. Mio Dio, come si può
chiamarlo delitto?»
Marc sentì che il suo cuore era sul punto di scoppiare. Per la terza volta in
meno di dieci minuti la sua vita era in bilico. I sintomi dell’agorafobia a un
tratto svanirono, come il singhiozzo dopo uno spavento.
Nicole tentennò. «Una nonna lo intuisce.»
La mano di Marc si strinse sulla maniglia. «Intuisce cosa, Nicole?» quasi
urlò.
Nicole, per discrezione o forse per pudore, rispose con voce dolce:
«Emilie è incinta, Marc. Aspetta un figlio da te».
La mano di Marc scivolò sulla maniglia, bagnata di sudore.
Nicole aggiunse nello stesso tono, dolce e pacato: «Vuole abortire, Marc.
È in ospedale per questo».
Lylie fumava sul balcone. Non avrebbe dovuto, ma non le importava. Una
sigaretta, solo una. Be’, tre a dire il vero. La ragazza con i capelli rossi e i
denti gialli che dormiva accanto a lei non era tirchia. Le aveva lasciato il
pacchetto: “Serviti pure”.
Aveva ascoltato il messaggio di Marc e stava digitando la risposta. Lui
non aveva nessuna possibilità di trovarla. Era meglio così. Doveva andare
fino in fondo. Da sola.
Tenere quel bambino sarebbe stata una pazzia. Non si vive senza identità,
Lylie ne era consapevole più di chiunque altro. Come poteva pensare di
infliggere lei stessa quella condanna a vita a un altro essere innocente, a un
altro bambino, il suo? Come poteva sopportare di diventare a sua volta lo
strumento di quella maledizione?
Strinse nel palmo della mano sinistra la croce tuareg che le aveva regalato
Marc. Le dita della destra le tremavano mentre, tenendo la sigaretta,
premevano sui tasti del telefono. Il fumo volava via, leggermente
azzurrognolo alla luce del piccolo schermo. Lylie divise il lungo SMS in
quattro invii.
Marc. Presto sarà tutto finito. È un’operazione banale. Ci vuole solo qualche minuto.
Domani i medici mi faranno altri controlli. Dicono che c’è bisogno di ulteriori esami per
l’anestesia. Forse è uno stratagemma degli psichiatri per darmi il tempo di riflettere. Vai a
sapere. Entrerò in sala operatoria solo dopodomani. Non stare in pensiero per me. Ho
preso la decisione giusta. Andrà tutto bene. Abbi cura di te. Lylie.
Nella camera, disteso nel suo letto di bambino, Marc lesse la risposta di
Lylie. Tentò subito di richiamarla, invano.
Fece scorrere i messaggi, l’uno dopo l’altro. Una frase catturò la sua
attenzione: “Entrerò in sala operatoria solo dopodomani”. Una parola, più
precisamente: “Dopodomani”.
Aveva un giorno di proroga per scoprire la verità, riusciva a pensare
soltanto a questo. Aveva ottenuto un giorno in più. Come un segno del
destino. Non era ancora tutto perduto.
Fissò il letto sopra il suo. Le ore scorrevano, come da piccolo quando
Lylie leggeva fino a tardi, o quando un vicino faceva troppo rumore, o
quando affrontava, da solo, la sua insonnia. Marc era sveglio. Un’idea
cresceva, come un’erbaccia sul viale di un giardino troppo ordinato. Una
certezza: era tutto collegato, in quella storia. L’omicidio di suo nonno, quello
di Grand-Duc, altri delitti, forse, di cui lui non era a conoscenza... e l’identità
di Lylie!
La soluzione del mistero, Crédule Grand-Duc l’aveva trovata. Il detective
l’aveva scoperta prima di essere ucciso. Aveva progettato di andare sul Mont
Terrible. Era logico, in fondo. Era cominciato tutto laggiù e laggiù tutto
doveva finire. Le risposte si trovavano lì o da nessun’altra parte.
Oh, libellula,
tu, tu hai le ali fragili,
io, io ho la carlinga accartocciata...
Marc, entro in sala operatoria domani mattina alle dieci. È tutto okay. Non preoccuparti.
Ti chiamo dopo. Andrà tutto bene. Un bacio. Emilie.
Era impossibile non trovare il rifugio di Monique Genevez. Una sola strada
costeggiava il Doubs, fino alla frontiera svizzera, proprio di fronte. Il legno
chiaro dello chalet si rifletteva sull’acqua placida del fiume. Marc trattenne il
respiro. Toccò ancora una volta il Mauser in tasca, inquieto. Parcheggiò di
fronte allo chalet. Un cartello RIFUGI DI FRANCIA confermava che erano nel
posto giusto.
Il parcheggio, a eccezione del furgone arancione e rosso, era deserto. Il
tempo sembrava essersi fermato in quel villaggio di frontiera ai confini del
mondo. Marc faceva fatica a respirare. E se la sua ricerca si fosse fermata lì,
alla fine di quella strada?
«Be’, andiamo?» disse Malvina.
«Un attimo...»
Marc estrasse il Mauser L100 e si assicurò che fosse carico.
«Cosa pensi di fare con la mia pistola? Di puntarla contro la Genevez?»
Marc fissò Malvina a lungo, poi replicò: «Ti ricordi il cadavere di Grand-
Duc?».
«Sì...»
«Cosa ti ricordi?»
«In che senso?»
«Ti ricordi un cadavere trovato a casa di Grand-Duc, con addosso i vestiti
di Grand-Duc, le sue scarpe, il suo orologio...» Malvina impallidì di colpo.
Marc continuò: «Un cadavere con la testa nel caminetto. Il viso bruciato,
coperto di bolle, tanto da essere irriconoscibile».
Malvina si tormentava le dita. «Cosa intendi dire?»
«Seguimi!»
Scesero dal furgone. Monique Genevez era sulla soglia dello chalet,
incorniciata da immense fioriere di gerani.
«Buongiorno!» esclamò Marc. «È questo il rifugio Genevez?»
L’esordio non era particolarmente audace: il nome del rifugio era inciso a
lettere enormi sul pannello di legno verniciato.
«Siamo... siamo amici di Crédule Grand-Duc.»
Il viso di Monique si illuminò. «Il signor Grand-Duc! Certo che lo
conosco. Sono più di dieci anni che viene qui nel mese di dicembre.»
«Doveva... doveva venire prima quest’anno, credo.»
La padrona assunse un’aria desolata. «Esatto, ma non siete stati fortunati.
È ripartito proprio stamattina.»
Marc sentì la terra mancargli sotto i piedi. Accanto a lui, Malvina trattenne
il respiro.
Monique Genevez continuò nello stesso tono, senza percepire il loro
turbamento. «Ha dormito qui, nella camera 12, come sempre, ieri e l’altroieri.
L’altroieri è rimasto nel rifugio per buona parte della mattina ad aspettare il
postino. Infatti ha ricevuto una grossa busta. Stamattina è andato via molto
presto, verso le sei.»
Marc riuscì ad articolare qualche parola. «Sa... sa se tornerà?»
«Oh, mi stupirebbe. Quando viene, generalmente si ferma una notte o due.
Per il suo pellegrinaggio, come lo chiama lui. È un signore abbastanza
particolare il vostro amico. Gentile, educato, su questo nulla da dire. Ed è
anche una buona forchetta. Invece, tutta quella storia del Mont Terrible... la
catastrofe, l’aereo eccetera, diciotto anni dopo...! Come se fosse impossibile
dimenticare tutte quelle sciagure. Non pensate?»
Marc rimase muto per alcuni secondi prima di balbettare: «Ha... ha detto
qualcosa... Sa dove è andato?».
Monique strappò qualche gambo secco dai gerani. «Mah, il signor Grand-
Duc non è certo il tipo da fare confidenze, nemmeno dopo essersi scolato un
litro di passito. E a me non piace fare domande. Quindi, no davvero, non lo
so. Di sicuro sarà tornato a Parigi. È quello che fa di solito, no?»
Marc insistette un po’, senza convinzione. Non ottenne più nulla dalla
donna. Risalirono sul furgone.
Seduta accanto a lui, Malvina vomitò la sua rabbia. «Te l’avevo detto che
quello stronzo ha cercato di fotterci fin dall’inizio!»
Marc non replicò. Avvertiva una tremenda sensazione di impotenza.
Crédule Grand-Duc... vivo. Scomparso... L’ultimo filo dell’indagine gli era
appena scivolato tra le dita.
Malvina insistette. «Se avevi capito che Grand-Duc aveva inscenato la sua
morte ed eliminato qualcuno al posto suo, cosa siamo venuti a fare qui?»
«Taci...»
Malvina applaudì fragorosamente. «Sei un genio, Vitral. Dieci ore di
strada. Seicento chilometri. Per ritrovarci qua come dei coglioni... Potevamo
telefonare, no?»
«Zitta.»
«Potresti almeno pagarmi una camera da Monique. Sembra piuttosto
chic.»
«Sta’ zitta, ho detto.»
«Almeno mangiamo. Una bella sbronza di passito, ne avrei proprio
voglia...»
«Sei troppo cretina, dovrei farti fuori qui, subito, buttarti nel Doubs e
filarmela in Svizzera...»
Malvina lo fissò stupita. «Che Grand-Duc fosse una merda non è un
grande scoop. Allora qual è il tuo problema? Perché di colpo ti metti a fare il
nervosetto? Vai di fretta? Dovevi sposarti domani con mia sorella? Avevi già
prenotato la torta?»
«Lascia perdere, non puoi capire. Non hai studiato.» Marc mise in moto il
Citroën con un gesto concitato.
«Dove andiamo?» chiese Malvina. «Ripartiamo? Non facciamo un giro
turistico?»
«Muta! Ti avevo promesso un pellegrinaggio, cazzo, perciò seguiamo il
cammino della croce fino alla fine.»
55
Quando si furono sistemati, Marc tirò fuori dallo zaino il quaderno verde di
Grand-Duc e lo porse a Malvina.
«Tieni. Dev’essere un po’ che lo cerchi, no? Forse sei più furba di me.»
«Sono le memorie di quel bastardo?»
«L’hai detto...»
«Grazie comunque.» Malvina prese il quaderno, il suo sacco a pelo e una
torcia ed entrò nella capanna. Marc invece si allontanò, illuminando il terreno
davanti a sé con il filo di luce della torcia. Vagò nel bosco per parecchi
minuti, descrivendo un ampio cerchio attorno alla capanna. Quando tornò, la
lampada di Malvina illuminava timidamente l’interno, come la fiamma di una
candela in una lanterna.
Marc entrò. Malvina dormiva raggomitolata nel sacco a pelo. Il quaderno
di Grand-Duc era aperto, proprio accanto alla sua testa. Lui sorrise. Quella
giovane donna, di quattro anni più grande di lui, torturata da tutto l’odio
accumulato, gli faceva tenerezza, come una sorella che avrebbe dovuto
proteggere. Si avvicinò con cautela, prese il quaderno verde e uscì dalla
capanna. Tornò a sedersi sul tronco e girò meccanicamente le pagine, fino
all’ultima. Le ultime righe.
Ho trascritto nel quaderno ogni indizio, ogni pista, ogni ipotesi. Diciotto anni di indagini.
Tutto è affidato a questo centinaio di pagine. Se le avete lette con attenzione, ora ne sapete
tanto quanto me. Forse voi sarete più perspicaci? Forse seguirete un percorso che io ho
trascurato? Forse troverete la chiave, ammesso che ne esista una? Forse...
Perché no?
Per me è finita.
Dire che non ho rimpianti né rimorsi sarebbe esagerato, ma ho fatto del mio meglio.
Marc, entro in sala operatoria domani mattina alle dieci. È tutto okay. Non preoccuparti.
Ti chiamo dopo. Andrà tutto bene. Un bacio. Emilie.
Il verso di una civetta rendeva ancora più sinistra l’atmosfera della notte.
Forse era un gufo reale, o un “granduca”, come lo chiamavano da quelle
parti. Marc sorrise tra sé e sé. Non sapeva niente di rapaci, ma comunque
quell’uccello notturno aveva trovato un nascondiglio tra i rami, invisibile.
Marc puntò la torcia e illuminò soltanto delle foglie. «Dove ti nascondi?»
chiese a voce alta.
La sua domanda si perse nella montagna.
«Imprendibile, eh? Rintanato nell’ombra? Da quanto tempo sei qui, sul
monte, tutte le notti, a guardare, a spiare? Quando il grande uccello di ferro si
è schiantato nel tuo regno, tanti anni fa, eri già qui, vero? Georges Pelletier, il
braccialetto... Hai visto anche tutto questo? E Grand-Duc, anni dopo, che
giocava al becchino... Cos’hai visto, eh? Dimmi.»
Gli rispose un verso quasi gioioso.
«Mi prendi in giro? Credi veramente che io non abbia più nessuna
possibilità? Non hai torto... Immagina, però. La mia piccola ha dodici anni.
Siamo soli, tutti e due, in mezzo alla natura, sotto una tenda. La notte. Le
parlo delle stelle. Le dico qualcosa del tipo: “Vedi, tesoro mio, quella sera mi
trovavo in una situazione difficile. Ero lassù, sulla montagna, nella nebbia più
totale. Dovevo trovare la soluzione entro il giorno dopo alle dieci. Tua
mamma dormiva all’altro capo del mondo. Ci è mancato poco, tesoro mio,
perché tu non le vedessi mai, le stelle, perché io non sentissi mai la tua risata,
non stringessi mai le tue piccole dita. Il tuo papà ti ha salvata in extremis, sai.
È stato astuto quella sera...”.»
La torcia perlustrò ancora i rami. Un’ombra nera volò via. Un gufo reale o
un altro uccello notturno.
«Hai ragione, sto dando i numeri...»
Marc tornò alla capanna. Aveva freddo. Si infilò nel sacco a pelo e si mise
vicino a Malvina. Steso sulla schiena, i suoi occhi volavano verso il cielo
attraverso le fessure del tetto. Come lucernari sull’infinito. Doveva riflettere
ancora, torturarsi, interrogarsi finché il suo inconscio gli avesse suggerito
qualcosa, un indizio qualsiasi. Una chiave. Doveva sfruttare ogni minuto
delle ore che gli restavano.
Accanto a lui, Malvina si agitava nel sonno. Cambiava posizione di
continuo, senza svegliarsi, lanciando ogni tanto piccole grida. Poco alla volta
si avvicinava a Marc, cercando istintivamente il calore del suo corpo. Aveva
già dormito accanto a un uomo?
Mezzanotte doveva essere passata da un pezzo. Marc, che non aveva
chiuso occhio la notte precedente, sprofondò nel sonno senza neanche
accorgersene.
Sfinito.
Dormì tre ore.
Fu il grido di Malvina a svegliarlo di soprassalto. Un grido da pazza. Lei
era in piedi nella capanna, tutta tremante. I lunghi capelli spettinati le
conferivano l’aspetto di una strega impaurita. Le gambe magre uscivano dalla
maglia che aveva tenuto addosso e i piedi saltellavano come se camminassero
sulle braci.
«Tutto... tutto a posto?» chiese Marc con la voce strozzata.
«Sì, sì. Non preoccuparti per me. Sono abituata.» Malvina tornò a
stendersi. Marc la guardava, inquieto. «Tutto okay, ti ho detto!»
«Sicura?»
«Sì, rimettiti a dormire! Non ho bisogno della balia. Non rompere. Dormi,
ti ho detto!»
«Non sono sicuro di riuscire a riaddormentarmi...»
«Mettiti il dito in bocca, allora. Avrai pur dovuto imparare a convivere con
i tuoi incubi... Arrangiati!» Malvina gli voltò le spalle.
I due sacchi a pelo si toccavano. Strana intimità. Marc rimase steso con gli
occhi aperti. Erano le quattro del mattino. Ora o mai più. Doveva tentare
subito qualcosa. Dopo sarebbe stato troppo tardi. Malvina si era già
riaddormentata. Cosa poteva fare?
Gli occhi di Marc continuavano a fissare la notte. Le stelle apparivano e
scomparivano, probabilmente nascoste da invisibili nubi spinte dal vento del
Giura. Come finte stelle cadenti che invitano a esprimere desideri
irrealizzabili. Come la luce intermittente di un aereo che di notte si confonde
con le costellazioni. Più vicina. Effimera.
Marc si alzò senza far rumore per non svegliare Malvina, che continuava a
lanciare piccole grida nel sonno agitato. Infilò alla rinfusa le sue cose nello
zaino, tirò fuori dalla tasca una delle pagine strappate dal quaderno di Grand-
Duc, la girò e scrisse sul retro:
Posò il biglietto per terra, vicino alla testa di Malvina, accanto alla guida
topografica. Lui avrebbe preso la cartina. Guardò per l’ultima volta la sagoma
di quel corpicino da bambina perso nel sacco a pelo blu e grigio troppo
grande. Malvina sarebbe sicuramente riuscita a cavarsela da sola.
Il sole non si era ancora alzato, ma un leggero chiarore lasciava
intravedere il crinale in lontananza. Le stelle si spegnevano a una a una.
L’alba dell’ultimo giorno. Marc pensò a Lylie, in una camera bianca.
Si mise in cammino.
57
Non aveva voluto nulla, non aveva deciso nulla. Era avvenuto tutto suo
malgrado. Un complesso ingranaggio e fortunatamente, alla fine, un bel
premio di consolazione.
Mélanie Belvoir.
L’ospite a sorpresa.
Crédule Grand-Duc guardò l’orologio digitale con le cifre verdi della Xantia.
Le 06.15.
Aveva ancora tempo. Era dannatamente in anticipo.
Su tutti.
58
Drammatico schianto dell’Airbus 5403 Istanbul-Parigi sui pendii del Mont Terrible, al
confine franco-svizzero, nella notte fra il 22 e il 23 dicembre 1980. Centosessantotto dei
centosessantanove passeggeri e membri dell’equipaggio sono morti sul colpo o hanno
perso la vita intrappolati tra le fiamme. L’unica miracolosamente sopravvissuta è una
bambina di tre mesi, sbalzata fuori al momento della collisione, prima che la carlinga si
incendiasse.
Tutto lì.
Marc rimase alcuni minuti a osservare le immagini, i volti in secondo
piano, la carlinga, le fiamme, ogni albero, le tracce scure nella neve. A
leggere e rileggere quelle poche righe.
Nulla. Nulla di nuovo.
Una pista sbagliata. Un vicolo cieco. Ancora. Definitivo questa volta.
Per poco Marc non svenne. Era assurdo, non poteva trattarsi che di un falso.
Un fotomontaggio.
Il volto di quella ragazza di diciotto anni, Mélanie Belvoir, era quello di
Lylie.
Non la faccia di una che le assomigliava. No. Era lei. Gli stessi occhi
celesti, gli stessi zigomi, lo stesso sorriso, la stessa fossetta sul mento. Solo la
pettinatura era leggermente diversa: i capelli di Lylie erano un po’ più corti.
La fotografia pubblicata su quel vecchio giornale era il fac-simile di quella
pinzata sul libretto universitario di Lylie, di quella incollata sul suo
abbonamento ai mezzi pubblici, di quella che Marc conservava gelosamente
nel suo portafogli.
Non aveva senso!
Sulla stessa pagina di giornale datato 23 dicembre 1980 in cui si parlava
della tragedia, una fotografia immortalava Lylie all’età di tre mesi, fra le
braccia di un pompiere davanti all’ospedale, e Lylie all’età di diciotto anni,
bella, sorridente, come Marc l’aveva lasciata due giorni prima, il 2 ottobre
1998...
Stava diventando pazzo?
Quello era un incubo, e lui si sarebbe svegliato, sudato, accanto a Lylie?
O, peggio, accanto a Malvina, nella capanna del Mont Terrible?
59
«Le racconterò tutto, signor Grand-Duc. In fondo non ho fatto niente di male,
non ho nulla da rimproverarmi. È arrivato il momento per me di parlare, dato
che mi ha trovato. Dovevo pur farlo, un giorno. Diciamo che è questo il
momento. Ero un’adolescente difficile, come si dice adesso. Dall’età di
diciassette anni non avevo praticamente più rapporti con i miei genitori.
Avevo lasciato la scuola da tempo. Ero un’emarginata, come tanti altri. I miei
erano riusciti a trascinarmi all’ufficio di collocamento. Passai da uno stage
all’altro, fino a quel contratto di qualche settimana presso il servizio
ambientale del Parco naturale dell’Alto Giura. Sostanzialmente si trattava di
raccogliere i rifiuti nel bosco. Un classico. Insieme a un gruppetto di altri
stagisti ero agli ordini del responsabile, l’ingegner Grégory Morez. Era
incredibilmente bello. Molto tenero con le ragazze che gli piacevano.
Possedeva una sorta di dono nel toccarle, senza mostrarsi insistente. Aveva
oltre dieci anni più di me. Come tante altre, mi sono innamorata di lui.
Facemmo l’amore per la prima volta in mezzo alla natura, vicino a un piccolo
torrente, in quella foresta che conosceva così bene. Poi tante altre volte, tutti i
giorni durante lo stage e anche diverse settimane dopo. Ovunque, nei luoghi
più impensabili. Ero consapevole che aveva altre avventure, ma mi illudevo
che con me fosse diverso, che fosse veramente innamorato. Volevo credere
alle sue promesse. Un classico, no, signor Grand-Duc? La giovane ingenua e
il bell’affabulatore...»
«E poi?»
«Rimasi incinta. Me ne resi conto tardi, dopo sei settimane. Avevo già
cominciato la mia discesa all’inferno. Niente lavoro. Una famiglia che
evitavo sempre di più. Amici poco raccomandabili. Un’ossessione, quel
Grégory Morez. Il suo corpo. Il piacere che mi dava.»
«Era Grégory il padre?»
«Sì. Era il mio solo e unico amante. Glielo dissi una sera, nella camera di
uno squallido hotel alla periferia di Belfort, dopo che avevamo fatto
l’amore.»
«Quale fu la sua reazione?»
«Un classico, signor Grand-Duc. Mi mise alla porta, mi disse che ero solo
una puttanella che cercava di incastrarlo, che non c’era nessuna prova che
fosse lui il padre e che bastava che abortissi.»
«Però non lo fece.»
«No, ma non decisi nemmeno di tenere il bambino. Mi limitai a lasciar
passare le settimane, senza reagire. La settima, l’ottava. Accadde tutto
velocemente. Continuavo a essere ossessionata da Grégory. Ero come pazza.
Pensavo che sarei riuscita a fargli cambiare idea, a farlo tornare da me. Ero in
fondo a una voragine. Non avevo più un domicilio fisso, occupavo case
abusivamente, tornavo dai miei genitori una volta alla settimana. Quando la
mia gravidanza divenne troppo visibile, non ci andai più. Mi accontentai di
telefonare.»
«Partorì in ospedale?»
«Sì, a Montbéliard. Ero da poco maggiorenne e non versavo in buone
condizioni. Il bambino non era molto grande. Poco più di due chili. Nacque il
27 agosto 1980. Una femmina. Uscii dall’ospedale una settimana dopo con i
documenti, ma non li compilai e li gettai nel cestino.»
«Andò davvero così?»
«Sa, signor Grand-Duc, nella settimana che passai in ospedale mi videro
decine e decine di infermiere e tanti medici. Dev’essere rimasta qualche
traccia della nascita della mia bambina. La prova che esiste. Ma chi avrebbe
verificato che fosse con me, che la stessi crescendo? Nessun membro della
mia famiglia ne ha mai saputo nulla.»
«Come chiamò la piccola?»
«Non le diedi mai un nome. È strano, no? All’ospedale dissi che non
avevo ancora deciso, che aspettavo il padre. Una volta uscita con la bambina,
in poche settimane la situazione precipitò. Ruppi tutti i rapporti che avevo
mantenuto con i miei amici d’infanzia e con la mia famiglia. Era estate.
Dormivo per strada con la piccola attaccata al seno tutto il giorno. Ero sfinita.
Frequentavo un giro di persone che non erano interessate a giudicarmi.
Ubriachi, tossici. Non riuscivo più a prendere nessuna decisione. Tornare a
casa, piangere, buttarmi tra le braccia dei miei genitori. Lavoravano entrambi
da Alsthom alla catena di assemblaggio dei TGV , a Belfort. Oppure andare da
Grégory con la bambina e convincerlo. Mia figlia aveva già due incredibili
occhi celesti uguali a quelli di suo padre, due magnifici occhi chiari da cane
lupo. O lasciarmi morire lì, sul marciapiede...»
«Come prese la decisione di andarsene?»
«Non ebbi scelta: una ragazza per le strade di Montbéliard, con una
neonata, alla fine viene notata. Dopo qualche settimana iniziai ad avere i
servizi sociali alle calcagna. Anche se ero maggiorenne, sapevo come sarebbe
andata a finire. I servizi sociali avrebbero dato in affidamento la bambina e
mi avrebbero riportata a casa, a Belfort, senza chiedere il mio parere. Le dirò
francamente, signor Grand-Duc, che avevo fatto cose illegali: spacciato,
rubato e anche venduto il mio corpo, diverse volte. Immagino capisca: per
sopravvivere dovevo lasciare Montbéliard.»
«Fu allora che incontrò Georges Pelletier?»
«Sì. Un poveraccio. Un disgraziato che, come me, aveva bisogno di
andarsene. I poliziotti, i servizi sociali e la sua famiglia gli stavano alle
calcagna. Mi prese in simpatia, mi trovava carina, nonostante tutto. Credo che
si vedesse già come mio protettore, quel tarato. Non gli permisi mai di
toccarmi. Ma, ecco, avevamo degli interessi in comune. Scappare insieme. Il
Giura, il Mont Terrible, mi sembrava una scelta sensata. Era vicino a
Montbéliard ma nessuno sarebbe venuto a cercarci lassù. Era la prima
settimana di dicembre, il tempo era ancora abbastanza mite, ed eravamo
abituati a dormire fuori. E, soprattutto, avrei potuto incontrare Grégory.
Incrociarlo. Lui avrebbe riconosciuto la bambina. I suoi occhi. Non avrebbe
potuto negare di essere il padre. So che può sembrare folle, Grand-Duc, e io
lo ero. Grégory Morez era il mio unico salvagente. Ci credevo ancora.»
«Alla fine lo incontrò?»
«Ci eravamo sistemati in una capanna vicino alla vetta del Mont Terrible.
Non faceva caldo, ma accendevamo un fuoco, avevamo un tetto, stavamo
quasi meglio che in strada, tutto sommato. Adesso rispondo alla sua
domanda, signor Grand-Duc, ci arrivo. Sì, incontrai Grégory Morez. Lo
vedevo quasi tutti i giorni. Il Mont Terrible non è molto alto e il bosco non è
granché esteso. Quando ci incrociammo avevo mia figlia in braccio e lui non
mi riconobbe, signor Grand-Duc! Non mi guardò neanche. In pochi mesi ero
passata dallo status di ragazza piuttosto eccitante a quello di rifiuto. Ero
ingrassata. I miei seni non erano altro che due pezzi di carne flaccida. Non
c’era più nessuna luce nei miei occhi. Ero irriconoscibile.»
«Non gli parlò?»
«Non capisce, Grand-Duc. Ero così umiliata. Non mi aveva neanche
riconosciuta. Ero diventata così brutta? Aveva frequentato altre donne da
allora? Capii che non mi avrebbe toccata mai più. Non mi avrebbe mai più
voluta. Come pensare allora che potesse volere mia figlia... La mia ultima
speranza si era spenta sui pendii del Mont Terrible. Non avevo più niente. La
bambina era come una palla, un’escrescenza, e andavamo a fondo insieme.
Non creda che non l’amassi, quella bambina, Grand-Duc, che ogni istinto
materno fosse morto. Oh, no! Al contrario. Ma non avevo più nulla da
offrirle. Non un padre. Nemmeno più latte. Neanche un nome. Si rende
conto? All’improvviso iniziò a nevicare. Era il mattino del 22 dicembre. Ci
scaldammo come potemmo attorno a un fuoco, nella capanna. Dovevo
occuparmi di tutto io. Pelletier era strafatto di cocaina i tre quarti del tempo e
si sarebbe lasciato morire se non ci fossi stata io. Lo dovevo spingere fuori
per obbligarlo ad andare a raccogliere la legna.»
«E poi arrivò la notte...»
«Sì. La tempesta raddoppiò di intensità. Pelletier era fatto. Credo che non
abbia neanche sentito l’impatto. La capanna vibrò, come se ci fosse stato un
terremoto, come se fosse la fine del mondo. Da quel punto si vedevano gli
alberi bruciare a un chilometro di distanza. Bruciavano sotto la neve. Ero
affascinata. Avvolsi la bambina in una coperta e uscii. Non faceva freddo,
anzi, a causa dell’immenso rogo il calore pizzicava la pelle...»
«Non aveva paura?»
«No. In nessun momento. Era una scena strana, irreale. La neve e il fuoco.
E poi quell’aereo in mezzo alla montagna, contorto... L’acciaio fondeva
davanti a me nelle fiamme come un banale pezzo di gomma. Sapevo che ero
la prima testimone della catastrofe ma non pensavo che i soccorsi avrebbero
tardato tanto ad arrivare.»
«Fu allora che la vide?»
«Si riferisce alla bambina? Sì, fu in quel momento.»
«Era... era...»
«Sì, era morta. Tumefatta. Deceduta in seguito all’impatto già da parecchi
minuti. Nessun bambino sarebbe riuscito a sopravvivere da solo, lassù,
nell’inferno. Non so come tutti abbiano potuto credere a quella favola... Era
morta, Grand-Duc. E ho subito pensato che fosse ingiusto.»
«In che senso?»
«Crudele, se preferisce. Un’intera famiglia avrebbe pianto quella bambina
morta. Un lutto. Una vita andata. E io ero incapace di offrire un futuro a mia
figlia. Avrebbe vissuto senza nessuno, senza famiglia, nient’altro che me, e io
contavo così poco. Capisce cosa intendo con “crudele”? Con “ingiusto”?»
«Capisco...»
«Sì. Non è molto difficile. La neonata morta nella neve aveva quasi la
stessa età di mia figlia. Agii senza riflettere. Come posso spiegare? Per la
prima volta avevo l’impressione di essere veramente utile. Di compiere una
sorta di atto di coraggio. Di salvare una vita, ecco cosa pensavo. Salvare una
vita, salvare una famiglia, salvare anche la mia bambina. È un po’ quello che
devono provare i medici o i vigili del fuoco. Fu la sensazione sorprendente di
quella notte a farmi venir voglia di diventare infermiera, o qualcosa del
genere, di salvare delle vite.»
«Ha spogliato il cadavere della bambina morta nella neve?»
«Per salvarla, Grand-Duc. Per salvarla! Gliel’ho detto, non ha capito?
Offrivo a una bambina senza futuro una famiglia amorevole, magari ricca,
che non avrebbe mai saputo del mio sacrificio, che avrebbe pianto di gioia di
fronte al miracolo, non sospettando nulla. C’era quasi qualcosa di sacro...»
«Ma non è quello che è successo. Niente affatto...»
«Come avrei potuto immaginare, Grand-Duc, che c’erano due neonate
sull’aereo? Morte entrambe, come tutti gli altri passeggeri. Come avrei potuto
immaginare le conseguenze? Credetti di agire come una santa, quella sera. Sì,
come una santa. Poi seguii il caso sui giornali. Le due famiglie che si
facevano la guerra. La sentenza. Cosa potevo dire? Cosa potevo fare, a parte
tacere? Avrebbe dovuto essere tutto più semplice. Quella notte aspettai quasi
un’ora, fino all’arrivo dei soccorsi, tenendo la mia bambina tra le braccia,
vestita con i suoi nuovi abiti. Quando sentii da lontano le prime sirene dei
vigili del fuoco che si avvicinavano, poi le grida, e vidi le torce, deposi la
piccola nella neve, abbastanza lontano dall’aereo perché non venisse bruciata
ma potesse ugualmente scaldarsi al calore delle fiamme. La baciai un’ultima
volta. Di lì a qualche ora avrebbe avuto una nuova famiglia. Scappai nella
notte rovente con il corpicino nudo della bambina morta nello schianto
avvolto nella mia coperta.»
«È stata lei a seppellirla accanto alla capanna?»
«Cos’altro potevo fare? Pelletier stava dormendo, ancora sotto l’effetto
della coca. Scavai come una pazza, con le mie mani, nella neve. Ero fradicia.
Le dita mi sanguinavano. Lavorai a lungo. Pelletier mi raggiunse quando
avevo quasi finito. Il cadavere della bambina riposava già nella tomba.
Inventai preghiere prima di ricoprirlo di terra, perché non ne conoscevo
nessuna. Pelletier era fuori di sé, credeva che fosse la mia piccola, che
l’avessi uccisa...»
«Capì quando vide il braccialetto al polso della bambina?»
«Sì. Nel panico, non avevo fatto caso a quel piccolo gioiello. Un
braccialetto con inciso il nome Lyse-Rose. Pelletier lo vide subito e si rese
conto al primo sguardo che era d’oro. L’accordo era semplice: io gli lasciavo
il gioiello e lui avrebbe tenuto la bocca chiusa. Strappai il braccialetto dal
polso della bambina. Lui se ne andò. Non l’ho mai più rivisto. Io rimasi
ancora un po’. Spinsi la terra bagnata di neve giù nella tomba. A tentoni
afferrai delle pietre e le impilai. Avevo le dita ghiacciate e non riuscivo quasi
più a piegarle. Ci misi un’eternità a fabbricare una croce con due pezzi di
legno. Trascorsi il resto della notte nella capanna, vicino alle ceneri. Non
credo di aver dormito né quella né le notti seguenti.»
«Tornò alla tomba gli anni successivi?»
«Sì... Questo lei lo ha capito. A poco a poco la mia vita si rimise sul
binario giusto. I miei genitori mi cercavano, pubblicavano annunci sui
giornali. Alla fine tornai a Belfort e ripresi gli studi. Mi diplomai infermiera,
come le ho detto, e sei anni fa incontrai Laurent. Laurent Luisans. È
portantino all’ospedale. I miei genitori erano anziani, mio padre morì cinque
anni fa e mia madre l’anno dopo. Io e Laurent non siamo sposati, ma ho
voluto comunque prendere il suo cognome. Lui non sa niente del mio
passato. Nessuno ne è al corrente, peraltro. Laurent vorrebbe un bambino.
Non è troppo tardi, ho solo trentasei anni. Non so. Per me è complicato,
capisce.»
«Capisco, Mélanie. Non mi ha risposto, riguardo alla tomba.»
«Ci arrivo, signor Grand-Duc. Sì, tornavo tutti gli anni, il 27 agosto, il
giorno della nascita della mia bambina. È come se fosse mia figlia quella che
ho sotterrato sul Mont Terrible, capisce? Mia figlia, non un’estranea. Non
quella Lyse-Rose. Andavo a sistemare la tomba, a mettere dei fiori. Un anno,
tempo fa... era il 1987... mi resi conto che qualcuno aveva rovistato fra le
pietre. Chi era stato? Sapevo che il caso Vitral-de Carville non era chiuso,
che non lo sarebbe mai stato, peraltro.»
«A meno che qualcuno non riesumasse il cadavere della neonata sepolta in
una coperta accanto alla capanna. Un detective tenace, per esempio.»
«Per esempio. Ebbi paura che riesumando quel cadavere venisse riesumato
anche il mio passato. Svuotai la tomba e cancellai l’ultima prova.»
«Scavò un’altra tomba altrove? Più discreta?»
«Questo non la riguarda, signor Grand-Duc. Riguarda solo me. Cosa farà
adesso?»
«Non lo so. Possiamo incontrarci?»
«Credo di non avere scelta. Sono alla sua mercé, come si suol dire. Prima
è, meglio è. Laurent prenderà servizio domani mattina alle cinque. Io faccio
la notte. Non è facile, come vede, la vita di noi ospedalieri. Finirò alle otto a
Montbéliard. Mi dia il tempo di rientrare. Diciamo alle nove a casa mia,
domani mattina? Se è riuscito a trovare me, dopo tutti questi anni, immagino
che saprà trovare la strada... Spero che sarà discreto, signor Grand-Duc. Ho
cambiato vita. Ci sono riuscita, non è stato semplice dimenticare. Non
intendevo fare niente di male, quella notte, sul Mont Terrible. Al contrario.
Non potevo prevedere...»
«Prevedere cosa, Mélanie?»
«... prevedere che mia figlia mi sarebbe somigliata tanto quando avrebbe
avuto diciotto anni...»
Erano passate da poco le nove. La leggera nebbia incollata lungo i pendii del
Giura cominciava a dissiparsi in veli che si sollevavano verso le cime. Marc
scorse per primo la piccola macchina bianca, qualche tornante più in basso,
prima di Dannemarie. Una Fiat Panda. Si avvicinò lentamente, passò davanti
a loro e parcheggiò qualche metro più su, di fronte allo chalet dalle persiane
celesti. Marc osservò il bastone di Asclepio – simbolo della medicina –
attaccato al parabrezza posteriore. La donna al volante, di cui si distingueva
solo la capigliatura bionda, rimase immobile per alcuni istanti. Alla fine i fari
dell’auto si spensero.
La portiera si aprì sul sorriso stanco di un viso stranamente familiare.
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Non riuscì a trattenere un sorriso. Strinse forte la mano di Lylie, poi si girò
verso il peluche. «Ciao, amico. Era da un sacco che aspettavi questo
momento, vero? Conoscere la nostra Lylie!»
La giovane mamma sgranò gli occhi, stupita.
«Lylie, ti presento Banjo.»
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sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge
633/1941 e successive modifiche.
Indice
Il libro
L’autore
Un aereo senza di lei
DICIOTTO ANNI DOPO
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