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Il libro

Francia, 1980. In una notte di dicembre, appena prima di Natale, un aereo diretto a
Parigi da Istanbul si schianta contro il Mont Terrible, nel Giura. Fra i rottami viene
ritrovata una bambina di tre mesi, sbalzata fuori al momento della collisione. È l’unica
sopravvissuta, ma a bordo le neonate erano due: si tratta di Lyse-Rose o di Emilie?
Due famiglie – una ricca e potente di industriali, l’altra povera e sfortunata di
ristoratori ambulanti – si fanno a pezzi per anni perché venga riconosciuta loro la
paternità di quella che viene soprannominata dalla stampa francese la “Libellula”, in
un’epoca in cui il test del DNA non esiste ancora. La prima sentenza dà
sorprendentemente ragione ai più poveri, ma i ricchi non si danno per vinti e assoldano
un eccentrico investigatore che per diciotto anni cerca la verità. E quando finalmente la
trova, la consegna in segreto nelle mani della ragazza ormai maggiorenne. Subito
dopo, viene ritrovato cadavere nel suo studio. E lei scompare.
Dai quartieri parigini a Dieppe, da Marne-la-Vallée al Giura, il lettore viene
trascinato in una corsa affannosa e ricca di continui colpi di scena, fino all’incredibile
finale.
Quanto peso ha il destino in questa vicenda? Oppure qualcuno, fin dall’inizio,
manovra tutti i protagonisti di questo dramma?
Un aereo senza di lei è un thriller la cui trama è basata sulle false apparenze e sulla
manipolazione del lettore, che fino alla fine si interroga sulla vera identità della
neonata.
L’autore

Michel Bussi, nato in Normandia nel 1965, è scrittore e


professore di geografia all’università di Rouen. Un aereo senza
di lei ha riscosso un grande successo in Francia e ha vinto
numerosi premi, tra cui il Prix Maison de la Presse 2012, il Prix
du roman populaire 2012 e il Prix du meilleur polar francophone
2012. Presto diventerà un film.
Michel Bussi
UN AEREO SENZA DI LEI

Traduzione di Vittoria Vassallo


UN AEREO SENZA DI LEI

A Malou, piccola libellula


nata con questa storia
23 dicembre 1980, ore 00.33
L’Airbus 5403 Istanbul-Parigi perse quota, un tuffo di quasi mille metri in
meno di dieci secondi, praticamente in verticale, prima di riprendere l’assetto
di volo. La maggior parte dei passeggeri dormiva. Si risvegliarono
bruscamente con la sensazione agghiacciante di essersi assopiti sul sedile di
una giostra.
Furono però le urla a interrompere di colpo il sonno leggero di Izel, non i
sussulti dell’aereo. Infatti, dopo quasi tre anni trascorsi a fare il giro del
mondo per la Turkish Airlines, era abituata alle burrasche e ai vuoti d’aria.
Quella era la sua ora di pausa e si era addormentata meno di venti minuti
prima. Aveva appena aperto gli occhi quando una collega con maggior
anzianità di servizio, Meliha, si chinò su di lei, il décolleté stretto nella divisa.
«Izel? Izel? Muoviti! C’è un problema. Siamo in mezzo a una tempesta, a
quanto pare. Zero visibilità, dice il comandante. Torni in corridoio?»
Izel assunse l’espressione annoiata dell’hostess navigata che non si fa
prendere dal panico per così poco. Si alzò dal sedile, si sistemò la giacca, si
aggiustò la gonna, ammirò per un attimo l’immagine del suo corpo ben fatto
di giovane turca riflesso nello schermo spento davanti a sé e si incamminò
verso il corridoio di destra.
I passeggeri, ormai svegli, non urlavano più ma avevano gli occhi
spalancati, più per lo stupore che per la paura. L’aereo continuava a oscillare.
Izel iniziò a occuparsi con calma di ciascuno di loro. «È tutto a posto.
Stiamo solo attraversando una tempesta di neve sopra il Giura. Saremo a
Parigi tra meno di un’ora.»
Il sorriso di Izel non era forzato. La sua mente stava già vagabondando
verso Parigi, dove si sarebbe dovuta fermare tre giorni, fin dopo Natale. Era
eccitata come una ragazzina all’idea di giocare alla istanbuliota in libertà
nella capitale francese.
Rivolse le sue attenzioni rassicuranti a un bambino di dieci anni
aggrappato alla mano della nonna, poi a un giovane in giacca e cravatta con
la camicia stropicciata che avrebbe rivisto molto volentieri il giorno dopo
sugli Champs-Elysées, a una donna turca con il velo un po’ fuori posto, forse
a causa del brusco risveglio, che le copriva gli occhi e a un anziano signore
raggomitolato su se stesso, con le mani serrate fra le ginocchia, che le lanciò
uno sguardo implorante.
«Va tutto bene, non si preoccupi.»
Izel procedeva con calma lungo il corridoio quando l’Airbus si inclinò
nuovamente di lato. Qualcuno urlò.
«Il giro della morte quando lo facciamo?» gridò con finta ironia un
giovane seduto alla destra di Izel che teneva in mano un walkman.
Gli fece eco qualche timida risata, immediatamente coperta dal pianto di
una neonata. La piccola era distesa in un porte-enfant qualche metro davanti a
Izel. Lo sguardo della hostess si posò sulla bambina di pochi mesi: indossava
un vestitino bianco a fiori arancioni che spuntava da sotto un golfino beige di
lana jacquard.
«No, signora!» esclamò Izel. «No!»
La madre, seduta accanto alla bimba, si stava slacciando la cintura per
chinarsi sul porte-enfant.
«No, signora» insistette Izel. «Deve tenere la cintura allacciata, è
obbligatorio. È...»
La madre non si preoccupò neanche di girarsi, men che meno di
rispondere alla hostess. La cascata di lunghi capelli sciolti sfiorava il porte-
enfant. La bambina urlò ancora più forte.
Izel esitò sul da farsi. Si avvicinò.
L’aereo perse ulteriormente quota. Tre secondi, altri mille metri, forse.
Ancora qualche breve scoppio di grida, ma i passeggeri restarono quasi
tutti in silenzio. Muti. Consapevoli che il movimento dell’aereo non era più
provocato solo da normali raffiche invernali. Lo scossone fece perdere
l’equilibrio a Izel, che cadde di lato e con un gomito conficcò il walkman nel
petto del suo proprietario, mozzandogli il respiro. Non si curò nemmeno di
scusarsi e si rialzò. Proprio davanti a lei, la neonata continuava a piangere. La
madre si chinò di nuovo e iniziò ad armeggiare con le cinghie del porte-
enfant.
«No, signora! No...» Izel imprecò e meccanicamente si sistemò la gonna
che si era sollevata scoprendole una calza smagliata. Che inferno! Se li
sarebbe proprio meritati i suoi tre giorni di svago a Parigi!
Poi tutto accadde molto rapidamente.
Per un attimo a Izel sembrò di sentire l’eco del pianto di un altro neonato,
da qualche parte sull’aereo, un po’ più lontano sulla sinistra. Le dita tremanti
del ragazzo con il walkman le sfiorarono una coscia. L’anziano signore turco
aveva posato una mano sulla spalla della donna con il velo e sollevò l’altra
verso Izel, in un gesto di supplica. La madre, proprio davanti a lei, in piedi,
allungò le braccia per stringere a sé la piccola, liberata dalle cinghie del
porte-enfant.
Furono le ultime immagini prima della collisione, prima che l’Airbus
sfidasse la montagna.

L’urto scagliò Izel a dieci metri di distanza, contro l’uscita di sicurezza. Le


sue adorabili gambe snelle fasciate nei collant neri si contorsero come quelle
di una bambola di plastica tra le mani sadiche di una ragazzina; il suo esile
busto si schiantò contro la lamiera; la tempia sinistra esplose contro lo
spigolo della porta.
Izel morì sul colpo. In questo, fu la più fortunata. Non vide le luci
spegnersi. Non vide l’aereo accartocciarsi come una banale lattina
nell’impatto con un bosco, i cui alberi sembravano sacrificarsi l’uno dopo
l’altro per rallentare la folle corsa dell’Airbus.
Quando alla fine tutto si fermò, non sentì l’odore del cherosene che si
spandeva. Non avvertì alcun dolore quando l’esplosione sventrò il suo corpo
e quello dei ventitré passeggeri più vicini.
Non urlò quando le fiamme invasero l’abitacolo, intrappolando i
centoquarantacinque sopravvissuti.
DICIOTTO ANNI DOPO
1

29 settembre 1998, ore 23.40


“Ormai sapete tutto.” Crédule Grand-Duc sollevò la penna, lo sguardo perso
di fronte a sé, nell’acqua trasparente dell’immenso terrario.
I suoi occhi seguirono per qualche istante il volo disperato della libellula
arlecchino che aveva pagato quasi duemilacinquecento franchi neanche tre
settimane prima. Una specie rara, una delle più grandi al mondo per
dimensioni, replica perfetta del suo antenato preistorico. Il lungo insetto si
spostava convulsamente da un vetro all’altro, in mezzo a uno sciame
frenetico di decine di altre libellule. Prigioniere. Intrappolate.
Tutte sapevano che stavano per morire.
La penna si posò di nuovo sul foglio. La mano di Crédule Grand-Duc si
agitò nervosa.

Ho trascritto nel quaderno ogni indizio, ogni pista, ogni ipotesi. Diciotto anni di indagini.
Tutto è affidato a questo centinaio di pagine. Se le avete lette con attenzione, ora ne sapete
tanto quanto me. Forse voi sarete più perspicaci? Forse seguirete un percorso che io ho
trascurato? Forse troverete la chiave, ammesso che ne esista una? Forse...
Perché no?
Per me è finita.

La penna si sollevò e tremò a qualche millimetro dal foglio. Gli occhi


azzurri di Crédule Grand-Duc si persero di nuovo sul vetro liscio del terrario,
poi indugiarono sul caminetto, dove avide lingue di fuoco divoravano un
groviglio di giornali, carte e faldoni, prima di posarsi un’ultima volta sul
quaderno. La penna scivolò.

Dire che non ho rimpianti né rimorsi sarebbe esagerato, ma ho fatto del mio meglio.

Crédule Grand-Duc fissò per alcuni secondi quell’ultima riga, poi chiuse
lentamente il quaderno verde pallido.
“Ho fatto del mio meglio” si ripeté, finalmente soddisfatto della
conclusione.

Ore 23.43
Ripose la penna di fronte a sé, prese un Post-it giallo dal blocchetto sulla
destra della scrivania e lo attaccò sulla copertina del quaderno. La sua mano
andò nuovamente al portamatite. Afferrò un pennarello e scrisse sul
bigliettino adesivo, in caratteri grandi: “A Lylie”, poi spinse il quaderno
verso il bordo del tavolo e si alzò.
Indugiò per qualche istante con lo sguardo sul piano della scrivania, sul
quale spiccava una targa di rame. “Crédule Grand-Duc, detective privato”
lesse con un sorriso sarcastico e disilluso. Da tanto tempo tutti lo chiamavano
solo Grand-Duc. Nessuno aveva più usato quel suo nome ridicolo, a parte
forse Emilie e Marc Vitral. E comunque questo risaliva a molto prima,
quando loro erano piccoli. Era trascorsa un’eternità da allora.
Grand-Duc si diresse verso la cucina. Gettò un’ultima occhiata al lavello
d’acciaio, al pavimento di piastrelle ottagonali bianche, ai pensili di legno
chiaro chiusi. Tutto era al suo posto, lucidato, ordinato; ogni traccia della vita
precedente era stata meticolosamente cancellata, come in una casa in affitto
da riconsegnare al proprietario. Grand-Duc era un tipo pignolo e lo sarebbe
stato fino in fondo, fino all’ultimo respiro. Lo sapeva. Ciò spiegava molte
cose. Spiegava tutto, in realtà.

Si girò e si avvicinò al caminetto finché sentì il calore lambirgli le mani. Si


chinò e gettò due faldoni nel focolare, indietreggiando per scansare la pioggia
di scintille.
Un vicolo cieco...
Aveva dedicato migliaia di ore ad analizzare con scrupolo ogni minimo
dettaglio di quel caso.
Tutti quegli indizi, quegli appunti, quelle ricerche sfumavano ora tra le
fiamme. Le tracce di quell’inchiesta sarebbero sparite nel giro di poche ore.
Diciotto anni di indagini per niente.
Che ironia...
La sua intera vita si poteva riassumere in questo autodafé di cui era l’unico
testimone.

Ore 23.49
Undici minuti dopo Lylie avrebbe compiuto diciotto anni, almeno
ufficialmente...
Chi era Lylie? Grand-Duc non aveva ancora una risposta definitiva a
quella domanda. Una possibilità su due, esattamente come il primo giorno.
Testa o croce.
Lyse-Rose o Emilie?
Aveva fallito. Mathilde de Carville aveva speso una fortuna, diciotto anni
di stipendi, per niente...
Grand-Duc tornò alla scrivania e si versò un altro bicchiere di vino bianco
invecchiato quindici anni, riserva speciale di Monique Genevez, forse l’unico
bel ricordo di quell’indagine, a conti fatti. Sorrise portandosi il bicchiere alle
labbra. Non aveva nulla della caricatura del vecchio detective alcolizzato, era
piuttosto di quelli che attingono alla cantina con parsimonia, nelle grandi
occasioni. Il compleanno di Lylie, quella sera, era una di queste. E, per certo,
anche i suoi ultimi minuti di vita lo erano.
Il detective vuotò d’un fiato il bicchiere.
Ecco una delle rare sensazioni che avrebbe davvero rimpianto, il gusto
inimitabile di quel vino che gli attraversava il corpo, bruciandolo con un
dolore squisito, facendogli dimenticare, solo per qualche attimo, l’ossessione,
l’enigma irrisolto a cui aveva dedicato la vita.
Grand-Duc posò il bicchiere sulla scrivania e spostò il quaderno verde
pallido, indeciso se aprirlo un’ultima volta.
Osservò il Post-it giallo: “A Lylie”.
Sarebbe rimasto quel taccuino, quel centinaio di pagine scritte negli ultimi
giorni. Per Lylie, per Marc, per Mathilde de Carville, per Nicole Vitral, per i
poliziotti, per gli avvocati, per chi avesse voluto tuffarsi in quell’abisso...
Senza dubbio era una lettura avvincente, un autentico capolavoro,
un’inchiesta poliziesca da togliere il fiato. C’era tutto...
Tranne il finale.
Aveva scritto un giallo a cui era stata strappata l’ultima pagina, un thriller
nel quale le ultime righe erano state cancellate.
Una truffa...
Forse i futuri lettori si sarebbero ritenuti più astuti di lui, si sarebbero
ostinati, avrebbero pensato che loro la soluzione l’avrebbero trovata.
Dopotutto ci aveva creduto anche lui. Aveva sempre nutrito una specie di
certezza che esistesse una prova, che fosse possibile risolvere l’equazione,
che lui avesse trascurato qualche cosa. Un’impressione, solo un’impressione,
ma talmente persistente da tenerlo in vita fino a quella scadenza: i diciotto
anni di Lylie, di lì a una decina di minuti... Forse era solo il suo inconscio ad
alimentare quell’illusione, per impedirgli di cadere nella disperazione più
assoluta. Sarebbe stata una vera crudeltà aver cercato per tutti quegli anni la
chiave di un problema senza soluzione.
“Ho fatto del mio meglio” rilesse il detective. Il resto, adesso, non lo
riguardava più.
Grand-Duc rivolse un’ultima occhiata alla stanza. Si trattenne dal
sistemare la bottiglia vuota e il bicchiere sporco, sorridendo ancora una volta
di se stesso. I poliziotti e i medici legali che si sarebbero chinati sul suo
corpo, qualche ora dopo, non avrebbero certo fatto caso a un bicchiere fuori
posto. Sangue e materia cerebrale si sarebbero riversati in una pozza
vischiosa sulla scrivania in mogano e sul parquet tirato a lucido. Sporco
dappertutto. Se nessuno avesse denunciato la sua scomparsa – cosa altamente
probabile (a chi sarebbe potuto mancare, in ogni caso?) –, sarebbe stato il
fetore del suo cadavere ad attirare i vicini, un corpo in decomposizione
immerso negli escrementi di insetti necrofagi intenti a banchettare.
“Tanto meglio” pensò Grand-Duc. Si chinò e gettò nel caminetto un pezzo
di cartone sfuggito alle fiamme.
Il suo ultimo gesto di nobiltà.
Si avvicinò lentamente allo scrittoio in mogano che occupava l’angolo
della stanza di fronte al caminetto. Aprì il cassetto centrale, estrasse dalla
custodia di cuoio un revolver, un Mateba, come nuovo, il cui metallo grigio
scintillò alla luce. La mano del detective frugò ancora a fondo nel cassetto e
ne tirò fuori tre proiettili calibro 38.
Grand-Duc sorrise. Con gesto esperto, aprì il tamburo e introdusse
delicatamente i proiettili.
Uno solo sarebbe bastato, nonostante avesse bevuto, anche se avesse
tremato e, certo, esitato. Sarebbe sicuramente riuscito a posizionare la canna
sulla tempia, a tenerla ben salda e a premere.
Non poteva mancare il bersaglio, nemmeno con sessantadue centilitri di
vino in corpo.
Posò il revolver sulla scrivania, aprì il cassetto di sinistra e ne estrasse un
giornale, un vecchio numero ingiallito de “L’Est Républicain”. Erano mesi
che pensava a quella scenografia macabra, a quel rituale simbolico che lo
avrebbe aiutato a farla finita, a trovare una via d’uscita dal labirinto,
definitivamente.

Ore 23.54
Gli ultimi fogli si stavano accartocciando, divorati dalle fiamme nel
caminetto. Lo sguardo del detective scivolò verso il terrario e il ronzio
funebre delle libellule. Aveva tolto la corrente da trenta minuti e, private
dell’ossigeno e del cibo, le libellule non sarebbero sopravvissute più di una
settimana... Eppure aveva speso una cifra enorme per comprare le specie più
rare, più antiche; aveva trascorso ore, per anni, a curare il terrario, si era
preoccupato di nutrirle con ogni tipo di minuscoli insetti, di farle crescere e
accoppiare; quando era in missione, le affidava a una ditta specializzata. Tutti
quegli sforzi per poi lasciarle morire. Anche loro... “In fondo è piacevole”
pensò “decidere della vita e della morte di altre creature; proteggere per
condannare meglio, dare speranza per sacrificare meglio. Giocare con il
destino, come un dio astuto e imprevedibile.” Dopotutto anche lui era stato
vittima di un dio sadico...

Crédule Grand-Duc si sedette sulla sedia dietro la scrivania e, con un gesto


istintivo, spinse ancora più vicino al bordo il quaderno verde pallido, come
per paura che qualche goccia di sangue potesse sporcarlo.
Stese “L’Est Républicain” sul piano, proprio di fronte a sé. L’edizione del
23 dicembre 1980. Rilesse ancora una volta la prima pagina del giornale. La
miracolata del Mont Terrible era il titolo a caratteri cubitali. Subito sotto, una
fotografia un po’ sfocata svelava le sagome di una carcassa di aereo distrutta,
di alberi sradicati, di neve violata dai passi dei soccorritori. Una didascalia di
qualche riga descriveva la catastrofe.

Drammatico schianto dell’Airbus 5403 Istanbul-Parigi sui pendii del Mont Terrible, al
confine franco-svizzero, nella notte fra il 22 e il 23 dicembre 1980. Centosessantotto dei
centosessantanove passeggeri e membri dell’equipaggio sono morti sul colpo o hanno
perso la vita intrappolati tra le fiamme. L’unica miracolosamente sopravvissuta è una
bambina di tre mesi, sbalzata fuori al momento della collisione, prima che la carlinga si
incendiasse.

Grand-Duc sollevò lo sguardo. Si sarebbe chinato un po’ in avanti e si


sarebbe sparato una pallottola in testa. Sarebbe caduto sulla prima pagina di
quel giornale. Il sangue avrebbe colorato la fotografia del dramma di diciotto
anni prima e si sarebbe mescolato a quello delle centosessantotto vittime. Lo
avrebbero trovato così, qualche giorno o qualche settimana dopo. Nessuno lo
avrebbe rimpianto. Certamente non i de Carville. I Vitral forse avrebbero
provato un po’ di dispiacere... Emilie, Marc. Soprattutto Nicole.
Il colmo dell’ironia.
Lo avrebbero trovato e avrebbero dato a Lylie quel quaderno, il libro della
sua breve vita. Il suo testamento.
Grand-Duc osservò un’ultima volta il proprio riflesso nella targa di rame,
quasi orgoglioso. Era una bella fine, dopotutto: molto meglio del resto.
Aveva avuto la sua occasione, era il minimo che si potesse dire: diciotto anni
di indagini...

Ore 23.57
Era giunta l’ora.
Avvicinò la sedia e afferrò saldamente il calcio del revolver con la mano
sudata.
Alzò il braccio, lentamente.
Il contatto della canna fredda sulla tempia lo fece rabbrividire. Ma era
pronto. L’alcol lo avrebbe aiutato. Cercò di liberare la mente, di non pensare
a quella pallottola, a qualche centimetro dal suo cervello, che gli avrebbe
attraversato il cranio...
Non pensare più a niente, fissare il nulla.
Piegò l’indice sul grilletto. Non gli restava che premere e tutto sarebbe
finito.
Doveva chiudere gli occhi o tenerli aperti?
Una goccia di sudore gli scivolò sulla fronte e cadde sul giornale.
Aperti, e farla finita.
Si chinò, lo sguardo fisso sul giornale, a venti centimetri. Diede un’ultima
occhiata alla fotografia della carlinga carbonizzata e a quella più piccola in
cui un pompiere, davanti all’ospedale di Montbéliard, teneva delicatamente
fra le braccia quel corpicino troppo blu. La bambina miracolata.
L’indice premette il grilletto.

Ore 23.58
Gli occhi del detective, ormai vuoti, si avvicinarono ulteriormente al piano
della scrivania, perdendosi nell’inchiostro nero della prima pagina del
vecchio quotidiano. La pallottola gli avrebbe perforato la tempia senza
incontrare la minima resistenza. Doveva solo piegare il dito, un po’ di più,
qualche millimetro. Il suo sguardo si fissò, per l’eternità; l’inchiostro nero del
giornale si fece più nitido, come l’obiettivo di una telecamera messo a fuoco,
come un’ultima finestra sul mondo prima che tutto sprofondi nella nebbia.
L’indice. Il grilletto.
Gli occhi spalancati.
L’inimmaginabile folgorò Grand-Duc: fu come se una scarica elettrica,
tanto intensa quanto improvvisa, lo avesse attraversato.
Quello che i suoi occhi stavano fissando era impossibile. Lo sapeva!
Allentò leggermente la pressione del dito.
Dapprima pensò a un’illusione, un’allucinazione provocata dalla morte
imminente, un meccanismo di difesa messo in atto dal suo cervello.
No!
Ciò che vedeva, ciò che leggeva su quel giornale era invece assolutamente
reale. Nonostante fosse ingiallito dal tempo e un po’ sbiadito, non lasciava
adito a dubbi.
Era tutto lì.
La mente del detective si mise in moto. Nel corso degli anni aveva
formulato talmente tante ipotesi, a centinaia, ma adesso aveva trovato il
bandolo della matassa: non gli restava che tirare il filo e tutto si sarebbe
dipanato con una semplicità sconcertante.
Era tutto chiaro, lampante...
Abbassò l’arma e si lasciò scappare una risata da folle.
Guardò l’orologio a pendolo.

Ore 23.59
Non riusciva ancora a credere a quello che vedeva. Gli tremavano le mani.
Un brivido immenso lo percorse, scendendo dalla nuca lungo tutta la schiena.
Ce l’aveva fatta!
La soluzione era lì, in quel giornale, in prima pagina, fin dall’inizio. Lui
aveva atteso con pazienza: era assolutamente impossibile scoprirla all’epoca,
diciotto anni prima. Tutti avevano letto quel giornale, l’avevano osservato e
analizzato mille volte, ma nessuno avrebbe potuto capire nel 1980, né negli
anni successivi.
La soluzione balzava agli occhi... a una condizione.
Una sola condizione. Del tutto delirante.
Aprire quel giornale diciotto anni dopo.
2

2 ottobre 1998, ore 08.27


Quei due erano fidanzati o fratello e sorella?
La domanda tormentava da circa un mese Mariam, la titolare del bar
Lénine, all’incrocio tra avenue de Stalingrad e rue de la Liberté, a pochi metri
dal piazzale dell’università Paris VIII-Vincennes-Saint-Denis. A quell’ora del
mattino il locale era mezzo vuoto e lei ne approfittava per sistemare
ordinatamente sedie e tavoli.
I due ragazzi erano seduti come al solito in fondo, vicino alla finestra, a un
minuscolo tavolino per due, e si guardavano dritto negli occhi celesti,
tenendosi la mano.
Fidanzati?
Amici?
Fratelli?
Mariam sospirò. Quell’incertezza la innervosiva. Di solito riusciva a farsi
un’idea molto chiara sulle questioni di cuore dei suoi studenti. Si diede una
mossa: doveva ancora passare la spugna sui tavoli e magari dare una spazzata
al pavimento; di lì a poco il capolinea della linea 13 del metrò, la stazione
Saint-Denis-Université, avrebbe scaricato migliaia di ragazzi già affannati,
stressati, oberati... Nonostante la stazione fosse aperta da appena quattro
mesi, aveva già trasformato il quartiere. L’università di Saint-Denis era ormai
collegata direttamente al centro di Parigi.
Mariam sistemò senza tanti riguardi le sedie attorno ai tavoli, ben sapendo
che tra le migliaia di studenti diligenti e ansiosi una parte non trascurabile
avrebbe fatto una sosta più o meno lunga al Lénine, per prendere un caffè,
fumare un’ultima sigaretta in tranquillità o solo per rinviare il momento di
andare a rinchiudersi in un’aula universitaria. Arrivare in ritardo a lezione,
oppure non andarci proprio, alla fin fine... Mariam conosceva l’assalto delle
otto e quarantacinque. Aveva assistito alla lenta trasformazione della Paris
VIII-Vincennes-Saint-Denis da grande facoltà alternativa di scienze umane,
sociali e culturali a saggia e banale università di periferia. Ormai alla maggior
parte dei professori scocciava essere destinati alla Paris VIII; puntavano alla
Sorbona, al limite a Jussieu... Prima dell’apertura della nuova stazione i
docenti dovevano attraversare la plaine Saint-Denis, bazzicare un po’ la zona
lì attorno. Ora, con l’arrivo del metrò, anche questo era finito. Si infilavano
nella linea 13 per precipitarsi verso i centri più prestigiosi della cultura
parigina: le biblioteche, i laboratori, i ministeri, le grandi istituzioni...
Mariam si diresse verso il banco per andare a prendere una spugna e gettò
un’occhiata discreta nell’angolo, a quei due ragazzi che continuavano a
incuriosirla, una bionda graziosa e un ragazzone timido.
Le facevano saltare i nervi. Quel subdolo enigma stava diventando una
vera e propria ossessione.
Chi erano?
Mariam non aveva mai capito niente del funzionamento dell’università –
esami parziali, moduli, scioperi –, ma nessuno era più al corrente di lei su
quello che facevano gli studenti nel tempo libero. Pur non avendo mai letto
Robert Castel, Gilles Deleuze, Michel Foucault né Jacques Lacan, e
nonostante avesse incrociato i professoroni della Paris VIII al massimo una o
due volte, al bar o sul piazzale, si considerava un’esperta di psicoanalisi,
sociologia e filosofia delle pene e degli amori studenteschi. Era la mamma
chioccia dei suoi protetti, degli habitué del suo bar, e si occupava di questioni
di cuore da vera professionista.
Si girò ancora una volta verso la coppia seduta vicino alla finestra. Il
rapporto fra quei due era un mistero, a dispetto della sua esperienza e delle
sue intuizioni.
Emilie e Marc.
Timidi fidanzati o parenti?
Mariam non riusciva a farsi un’idea precisa. C’era qualche cosa che non
quadrava. Così simili eppure così diversi... Sapeva come si chiamavano,
ricordava il nome di tutti i suoi avventori affezionati.
Lui, Marc, studiava alla Paris VIII da ormai due anni ed era un cliente
fisso del Lénine. Alto, bello, ma con un’aria un po’ troppo gentile, stile
“piccolo principe” arruffato: un sognatore a cui mancava un tocco di classe; il
suo profilo era quello dello studente che non conosce ancora le regole, un
nuovo arrivato, un po’ provinciale e pure senza i soldi necessari a permettersi
un guardaroba alla moda. Quanto all’impegno, apparentemente Marc non era
uno che ci dava dentro... Studiava con calma diritto europeo, a quanto aveva
capito. Un’acqua cheta, un contemplativo, in quei due anni. Mariam sapeva
perché.
La stava aspettando, la sua Emilie...
Era arrivata quell’anno, in settembre. Doveva avere due o tre anni meno di
lui.
Sì, avevano dei tratti in comune. Per esempio, quell’accento un po’
dialettale, di cui Mariam non riusciva a stabilire la provenienza, che non
quadrava con Emilie, con la sua personalità; così come il nome: banale,
comune. Inoltre Emilie era bionda, come Marc, e aveva gli occhi celesti,
come lui. Si assomigliavano un po’. Tuttavia mentre Marc si muoveva
goffamente, con gesti un po’ impacciati, Emilie aveva un portamento nobile,
un’eleganza raffinata, una grazia che sembravano ereditati da un alto
lignaggio, da un’educazione privilegiata. Tratti forse frequenti in altre
università più prestigiose, nell’ambiente delle grandi famiglie, ma quasi
incongrui lì, tra le studentesse di Saint-Denis.
Un altro mistero era il denaro: lo stile di vita di Emilie sembrava agli
antipodi rispetto a quello di Marc. Mariam era capace di valutare a colpo
d’occhio la qualità, il prezzo e la provenienza dei vestiti indossati dai suoi
studenti, da H&M a Zara, da Jennyfer a Yves Saint Laurent.
Emilie non era una da Yves Saint Laurent... ma quasi. La mise che
indossava quel giorno, con eleganza e semplicità – una camicetta di seta
arancione e una gonna nera di taglio asimmetrico –, costava sicuramente una
piccola fortuna. Se davvero Emilie e Marc venivano dallo stesso posto, non
appartenevano allo stesso ambiente.
Però erano inseparabili.
Esisteva tra loro una complicità che non si costruisce in qualche mese: era
come se avessero sempre vissuto insieme. Si percepiva dall’atteggiamento
protettivo di Marc verso Emilie, dalle mille piccole attenzioni, discrete,
sistematiche: una mano sulla spalla, una sedia accompagnata, una porta
tenuta aperta, un bicchiere riempito...
Mariam sapeva decifrare quei gesti: le abitudini di un fratello maggiore
nei confronti della sorella più piccola. Asciugò una sedia e la rimise a posto
senza smettere di pensare a quella coppia.
Emilie era arrivata alla Paris VIII a settembre, come se Marc le avesse
preparato il terreno, come se avesse trascorso due anni a tenerle il posto in
aula e il tavolino vicino alla finestra al bar Lénine. Mariam intuiva che Emilie
era una studentessa brillante, ambiziosa, sveglia e risoluta, forse d’arte o di
letteratura. Percepiva la sua determinazione quando tirava fuori un libro o gli
appunti, quando ripassava con una rapida lettura in diagonale le pagine su cui
Marc penava per ore.
Potevano essere fratello e sorella, nonostante la differenza sociale?
Però Marc amava Emilie.
Anche questo era lampante.
Non come un fratello, bensì come un fidanzato adorante.
Mariam lo vedeva chiaramente da ogni più piccolo sguardo, da cui
trapelava una passione che era impossibile non cogliere. Non ci capiva più
niente.
Li spiava ormai da un mese e non si lasciava ingannare. Aveva buttato
l’occhio di sfuggita sul nome scritto su una dispensa, su un foglio poggiato
sul tavolo. Sapeva come si chiamavano.
Marc Vitral.
Emilie Vitral.
Alla fin fine questo non le era di nessun aiuto. L’ipotesi più logica era che
fossero fratello e sorella. E quei gesti incestuosi allora? Quella mano di Marc
sulla schiena di Emilie? Forse erano semplicemente sposati. A diciotto e
vent’anni era insolito per degli studenti, ma possibile. Mariam non credeva
che l’omonimia fosse una coincidenza. Tra i due però poteva esserci un
legame di parentela più lontano: magari erano cugini o membri di una
famiglia allargata.
Le sedie sfilarono l’una dopo l’altra sotto le energiche passate di Mariam,
sbattendo sul pavimento di piastrelle del bar.
Emilie sembrava tenere molto a Marc, tuttavia il suo sguardo era difficile
da decifrare, spesso smarrito, soprattutto quando era sola; pareva che
nascondesse un’incrinatura, una profonda tristezza... Una malinconia che le
conferiva quel suo fascino incongruo, quell’estraneità al mondo che la
rendeva diversa dalle altre ragazze del campus. Gli studenti al Lénine non si
facevano scrupoli a divorare con gli occhi la bella Emilie, ma forse a causa di
quel suo distacco, di quella sua discrezione nessuno avrebbe osato provarci
con lei.
Nessuno tranne Marc!
Emilie era sua, lui era lì per quello: non per studiare, non per frequentare
l’università, solo per starle accanto, per proteggerla.
Una guardia del corpo.
Questo Mariam lo aveva capito.
Ma il resto? Mariam aveva cercato spesso di parlare con Emilie e Marc,
ma loro non le avevano mai detto niente di personale.
Pazienza, per il momento avrebbe rinunciato. Però un giorno lo avrebbe
scoperto.

Era indaffarata a pulire gli ultimi tavoli quando Marc alzò una mano.
«Mariam, ci porti due caffè e un bicchier d’acqua per Emilie?»
Mariam sorrise tra sé e sé. Marc non prendeva mai il caffè quando era da
solo ma ne ordinava sempre uno quando c’era Emilie. Un caffè lungo. «Va
bene, piccioncini» rispose, per vedere la reazione.
Marc fece un sorriso imbarazzato. Emilie no. Teneva la testa leggermente
abbassata.
Mariam si accorse soltanto in quel momento che Emilie aveva una brutta
cera; il viso era stravolto, come se lei non avesse chiuso occhio, anche se
ostentava un sorriso di circostanza, con quella sua eleganza ingannevole. Era
in ansia per un esame? Aveva trascorso tutta la notte a scrivere una tesina?
No, c’era qualcos’altro.
Mariam gettò i fondi di caffè nella pattumiera, sciacquò la macchina e
preparò i due espressi.
Qualcosa di grave.
Era come se Emilie dovesse annunciare una notizia dolorosa a Marc.
Mariam ne aveva viste tante: appuntamenti d’addio, incontri patetici, bravi
ragazzi che restavano soli davanti al loro caffè mentre la fidanzata se ne
andava, un po’ imbarazzata ma soprattutto libera. Emilie aveva il viso di chi
ha passato la notte a riflettere e nelle prime ore del mattino ha preso la
decisione definitiva, pronta a subirne le conseguenze.
Mariam si diresse lentamente verso il fondo del bar portando su un vassoio
i due caffè e il bicchiere d’acqua.
Povero Marc. Si rendeva conto di essere già stato condannato?
Mariam sapeva anche essere discreta. Posò i caffè e si girò, senza
ascoltare.
3

2 ottobre 1998, ore 08.41


Marc Vitral attese qualche istante che Mariam si allontanasse, poi si chinò sul
suo zaino Eastpack poggiato accanto alla sedia e ne estrasse un cubetto di
qualche centimetro avvolto nella carta argentata. «Buon compleanno, Emilie»
esclamò con voce allegra. Le porse il pacchetto.
Emilie assunse un’espressione falsamente corrucciata. «Marc!» lo
rimproverò. «È la terza volta che mi fai gli auguri questa settimana. Sai
benissimo che non ho bisogno di tutto questo...»
«Ssh! Aprilo.»
Lei corrugò le sopracciglia e spacchettò il regalo. Era un oggettino in
argento: una croce dal disegno complicato con un piccolo rombo a ogni
estremità, tranne in quella superiore, che si apriva in un ampio cerchio ed era
sormontata da una coroncina. Emilie prese il gioiello tra le mani. «Sei pazzo,
Marc...»
«È una croce tuareg! Ce ne sono ventuno diverse, a quanto pare. Una
forma differente per ogni città del Sahara. Questa è la croce di Agadez. Ti
piace?»
«Certo che mi piace. Ma...»
Marc continuò, incontenibile: «Stando a quanto dicono, i rombi
rappresentano i quattro punti cardinali. Chi regala una croce tuareg regala il
mondo...».
«Conosco la leggenda» sussurrò Emilie con voce dolce. «“Ti dono i
quattro angoli del mondo, perché non sappiamo dove moriremo.”»
Marc non riuscì a trattenere un sorriso imbarazzato. Ovvio, Lylie sapeva
già tutto sulle croci tuareg, come su ogni altra cosa. Rimasero qualche istante
in silenzio. Emilie allungò la mano verso la tazza di caffè. Istintivamente
Marc fece lo stesso. Le sue dita scivolarono sperando in un incontro, poi a un
tratto si bloccarono sul tavolo, come inchiodate. Lylie aveva un anello
all’anulare! Un anello d’oro, finemente lavorato, con incastonato uno zaffiro
chiaro; un gioiello antico, splendido: probabilmente valeva una fortuna. Marc
non glielo aveva mai visto prima. Il suo sguardo si annebbiò per alcuni
secondi, avvolto nelle brume della gelosia che lo sommergevano ogni volta
che un dettaglio incomprensibile frapponeva una certa distanza tra lui e Lylie.
Riuscì a farfugliare: «Quel... quell’anello... è... è tuo?».
«No, l’ho rubato stamattina in place Vendôme!»
Marc non replicò. Una palpebra ebbe un leggero fremito. La croce tuareg
d’argento che le aveva appena regalato gli era costata un weekend e tre notti
al centralino di France Telecom, il suo lavoretto da studente, ma ora
sembrava squallida paccottiglia rispetto a quell’anello. Del resto, Lylie aveva
già riposto il gioiello africano nella piccola custodia di stoffa. Mentre quel
pezzo da collezione... Si sforzò di bere un sorso di caffè e balbettò: «Quel... il
tuo anello. È un regalo? Di compleanno?».
Emilie abbassò gli occhi lentamente. «Una specie... È un po’ complicato...
È magnifico, vero?» Fece una pausa pensando a cosa dire. «Ti spiegherò.
Non prendertela, non per questo anello, in ogni caso...» Posò la mano su
quella di Marc.
“Non prendertela, non per questo anello, in ogni caso...” Le parole
rimbalzarono nella testa di Marc. Cosa voleva dire? Lylie aveva un aspetto
orribile quella mattina, come se avesse passato la notte in bianco, anche se
tentava di sorridergli mentre allungava il suo caffè con un po’ d’acqua, come
sempre.
All’improvviso lo sguardo di Emilie si illuminò, come se lei avesse preso
una decisione importante. Bevve un sorso di caffè e si chinò a sua volta sul
proprio zaino, da cui prese un quaderno con la copertina verde pallido. Lo
spinse verso Marc. «Tieni, ora tocca a me. Questo è per te!»
Una profonda inquietudine lo sommerse di nuovo. «Cos’è?»
«Il taccuino di Grand-Duc» rispose Emilie senza lasciare a Marc il tempo
di riprendere fiato. «Me l’ha portato l’altroieri, il giorno dopo il mio
compleanno. Be’, a dire il vero me l’ha infilato nella cassetta della posta, o ha
chiesto a qualcuno di farlo. L’ho trovato al mattino.»
Marc toccò il quaderno con la punta delle dita, con precauzione. Gli
tremava di nuovo la palpebra.
Quelli erano gli appunti di Grand-Duc... Adesso capiva. Emilie aveva
trascorso i due giorni e le due notti precedenti a leggere e rileggere quel
taccuino. Diciotto anni di indagini di quel vecchio detective privato pazzo. La
durata di una vita – quella di Emilie –, giorno più, giorno meno.
Cazzo, che regalo di compleanno!
Marc cercò qualche indizio nello sguardo di Emilie. Cosa aveva trovato in
quel quaderno? Quale verità? Una nuova identità? La serenità, finalmente? O
niente? Solo domande senza risposte?
Lei non lasciava trapelare nulla. Era troppo brava in quel gioco. Versò
piano piano l’acqua nel caffè, come in un rituale, e lo bevve a piccoli sorsi.
«Sai, Marc, alla fine me lo ha dato, come mi aveva promesso. La verità, per il
mio passaggio al mondo degli adulti.» Scoppiò in una risata più nervosa che
spontanea.
Marc esitò prima di prendere il quaderno. «E... e dunque?» balbettò. «Qui
dentro c’è qualcosa di importante? Tu... lo sai adesso?»
Emilie continuava a temporeggiare: volse lo sguardo alla finestra, verso il
piazzale della Paris VIII che gli studenti attraversavano in gruppi disordinati.
«Cos’è che dovrei sapere?»
Marc sentiva crescere dentro di sé un senso di esasperazione. Formulò la
risposta nella sua testa, ma le parole non uscirono. “Quello per cui quel
fottuto detective è stato pagato per tutti questi anni! Sapere chi sei, Lylie. Chi
sei!”
La mano sinistra di Emilie giocherellava distrattamente con la montatura
dell’anello. Un misto di stanchezza e di freddezza sembrava renderla
indifferente all’irritazione crescente del giovane. «Tocca a te, Marc. Tocca a
te leggere il taccuino.»
Lui era confuso, non aveva neanche più la forza di pensare a quello strano
anello al dito di Emilie. Chi glielo aveva regalato? Quando? Perché? Vide il
quaderno scivolargli più vicino e si sentì rispondere: «D’accordo, Libellula...
Lo leggerò, questo fottuto quaderno». Fece una pausa, poi aggiunse: «Ma tu
stai bene?».
«Sì... Non preoccuparti, sto bene.» Emilie ingollò a fatica qualche sorso di
caffè, come se si stesse sforzando di berlo.
No, non stava affatto bene. Gli nascondeva qualcosa. Qualcosa che Grand-
Duc doveva avere scoperto e annotato nel suo quaderno. La sua identità?
«Grand-Duc ha lasciato un biglietto? Insieme al quaderno, voglio dire?»
«No, nulla, ma è scritto tutto lì dentro.»
«E quindi?»
«Vedrai. È meglio che tu lo legga.»
«E Grand-Duc dov’è adesso?»
Lo sguardo di Emilie si incupì, come se sapesse qualcosa di terribile che
non voleva rivelare. Guardò ostentatamente l’orologio.
Marc sussultò. «Devi già andare via?»
«Sì... E poi io non ho lezione stamattina, ma tu sì! Alle dieci. Diritto
costituzionale europeo con il giovane ed entusiasmante Grandin! Devo
scappare, Marc.»
Lui fece una smorfia molto eloquente. «Dove vai?»
Emilie versò le ultime gocce d’acqua nella tazza, bevve lentamente il caffè
rimasto e lanciò un altro sguardo stanco a Marc. Si chinò sullo zaino, per
rialzarsi quasi subito. «Ho... ho un altro regalo per te.» Gli tese un
pacchettino poco più grande di una scatola di fiammiferi.
Marc si irrigidì. Fu invaso da un presentimento sinistro. Tutto sembrava
finto nell’atteggiamento di Emilie: l’aria allegra, i gesti studiati per apparire
naturali.
«Ma non devi aprirlo subito» aggiunse lei d’un fiato. «Aspetta un’ora.
Promesso? Posso fidarmi? È come a nascondino: devi darmi il tempo di
sparire. Chiudi gli occhi e conta, diciamo, fino a mille.»
Sembrava che Emilie avesse messo tutte le energie che le restavano nel
tentativo di far passare quella raccomandazione per un gioco infantile tra
innamorati. Ma Marc non ci era cascato.
«Promesso?» insistette lei.
Marc annuì rassegnato. I loro sguardi si incrociarono, indugiando a lungo.
Fu Emilie a distogliere il suo per prima.
«No, non lo farai. Hai la testa dura, Marc, ti conosco. Lo aprirai non
appena mi sarò girata...»
Lui non negò.
Emilie alzò la mano con un gesto aggraziato. «Mariam?»
La barista, come se stesse spiando tutti i loro movimenti, arrivò all’istante
al loro tavolo.
«Mariam, ti affido una missione. Ti lascio questo pacchetto. Devi darlo a
Marc tra un’ora, non prima! Anche se ti supplica, ti paga o ti ricatta. E, già
che ci siamo, tra un’ora lo spedisci anche a lezione, aula B318, mi
raccomando!»
La donna si ritrovò il pacchetto tra le mani.
«Mi fido di te.»
Mariam non aveva scelta. Emilie si alzò di scatto, infilò l’astuccio
contenente la croce tuareg nello zaino e diede un bacio casto a Marc, a metà
strada tra la guancia e la bocca. Ambiguo, come per prendersi gioco di
Mariam. Poi spinse la porta a vetri del Lénine e corse veloce sul piazzale,
come un fantasma, dove venne risucchiata dal flusso di studenti.
La porta si richiuse.
Mariam strinse il pacchetto nel palmo della mano. Avrebbe fatto ciò che
Emilie le aveva chiesto, certo, ma quel gioco non le piaceva. Lei era
un’esperta di coppie che si lasciano: le donne in quei momenti hanno una
determinazione e una fantasia sorprendenti.
Emilie non faceva eccezione.
Tutta quella messinscena sapeva di menzogna. Emilie era fuggita a gambe
levate e il regalo che ora lei teneva in mano era una bomba a orologeria. Marc
non avrebbe mai dovuto lasciarla andare via così. Quel bravo giovane era
troppo ingenuo, troppo fiducioso. Mariam non era in grado di dire se la
ragazza che lo stava lasciando fosse la sorella, la moglie, l’amante o
un’amica. Non aveva idea della natura del legame che li univa, ma era sicura
che Emilie aveva un solo obiettivo in testa.
Rompere quel legame.
4

2 ottobre 1998, ore 09.02


Marc fissava Mariam, in piedi dietro il bancone. La titolare del bar, in una
pausa tra due ordinazioni, aveva fatto scivolare il pacchetto affidatole da
Emilie nel registratore di cassa lanciandogli uno sguardo inequivocabile:
nessuna speranza di metterci sopra le mani prima dell’ora stabilita.
Solidarietà femminile. Rassegnato, il ragazzo posò gli occhi sul quaderno
verde di Crédule Grand-Duc. Emilie sapeva quello che faceva. Un’ora lo
separava dalla sua prima lezione, un corso soporifero di diritto costituzionale
europeo tenuto da un giovane professore che passava quasi la metà del tempo
a parlare al cellulare. Emilie l’aveva intrappolato. Incastrato. Un’ora da
ammazzare.
Il Lénine era ormai pienissimo. Un tipo alto gli chiese il permesso di
prendere la sedia di fronte a lui e Marc annuì distrattamente. L’orologio a
pendolo rosso e bianco Martini segnava le 09.03. Non aveva scelta, ma esitò
comunque prima di sollevare la copertina del quaderno. Fece scivolare la
mano sul cartone dipinto, pian piano. Aspettò, alzò di nuovo gli occhi. Le
lancette nere del pendolo sembravano attaccate con il nastro adesivo.
09.04.
Marc sospirò.
Non aveva ancora bevuto il caffè e non era intenzionato a farlo; in realtà il
caffè non gli era mai piaciuto. Un anziano professore, in piedi al banco
davanti a una birra piccola e a una copia de “Le Parisien”, aveva messo gli
occhi sul suo posto, e a ragione. Marc aveva un solo desiderio in quel
momento: alzarsi, fuggire, correre da Emilie e buttare quel quaderno
nell’immondizia.
Guardò attraverso il vetro, come per cercare nella folla sempre più fitta il
suo profilo familiare, come se quella massa potesse fermare la propria corsa,
scostarsi e creare un varco tra lei e lui. I suoi occhi si annebbiarono, il ritmo
del cuore accelerò e lui provò un senso di soffocamento. Conosceva bene i
primi sintomi, la tachicardia, le difficoltà respiratorie... Distolse
prudentemente lo sguardo dal piazzale dell’università.
Respirò subito meglio.
Posò di nuovo le dita sul quaderno verde pallido.
Emilie avrebbe vinto, come sempre. Anche lui avrebbe dovuto affrontare
il suo passato.
Marc fece un respiro profondo e aprì il taccuino. Grand-Duc aveva una
grafia piccola e stretta, molto regolare anche se un po’ nervosa. Era
perfettamente leggibile.
Lui si chinò e s’immerse nelle onde blu delle lettere, delle parole, delle
righe, come ci si immerge in apnea in un oceano di dubbi.

Diario di Crédule Grand-Duc


Tutto iniziò con una catastrofe. Credo che nessuno, o quasi, prima del 23
dicembre 1980 avesse mai sentito parlare del Mont Terrible. Io di certo no.
Il Mont Terrible è una vetta minore del Giura, al confine franco-svizzero,
incuneata nel mezzo di un’ansa del Doubs; una montagna da pascolo, lontana
da tutto: dal versante francese di Montbéliard e dal versante svizzero di
Porrentruy. Nonostante non sia molto alta, per la precisione 804 metri, non
sempre è accessibile, specialmente in inverno, quando la neve ricopre tutto. Il
Mont Terrible, più comunemente chiamato “Mont Terri”, era conosciuto da
qualche storico perché durante la Rivoluzione era stato un dipartimento
franco-svizzero. Da allora tutti l’avevano dimenticato, a parte forse il
centinaio di abitanti della zona, fino a quando l’Airbus 5403 Istanbul-Parigi
vi precipitò, la notte fra il 22 e il 23 dicembre 1980, sul versante sudest, lato
francese. I giornalisti preferirono allora la denominazione ufficiale, Mont
Terrible. Mettetevi nei loro panni: La tragedia del Mont Terrible, nei titoloni
in prima pagina, suonava meglio di La tragedia del Mont Terri.
La gente forse se ne ricorda ancora. O forse no. Gli incidenti si
susseguono e si assomigliano. Qualche mese prima di quella disgrazia un
Boeing 747 era precipitato vicino a Tenerife, nelle Canarie: centoquarantasei
morti. L’anno successivo, il 1 o dicembre 1981, un DC-9 Lubiana-Ajaccio si
sarebbe schiantato sul monte San Pietro: centottanta morti... L’unico
incidente aereo della storia in Corsica. Tutti hanno poi dimenticato quel
disastro, tranne forse i corsi. Oggi chiunque si rammenta di quello del monte
Santa Odilia, in attesa che un altro raccolga il testimone.
All’epoca, nel 1981, si parlò di serie nera.
Stronzate! Le statistiche lo dimostrano. Fidatevi, ho navigato per ore su
siti dedicati agli schianti aerei, 1001crash.com, per citarne uno. Consultatelo
e vedrete: raggiungono un livello di precisione strabiliante, con tanto di
numero dei morti e valanghe di dettagli sui brevi istanti prima del tuffo finale.
Può sembrare incredibile, ma vi sono i resoconti di più di millecinquecento
incidenti aerei e più di venticinquemila vittime degli ultimi quarant’anni. Se
fate un calcolo, sono circa quaranta incidenti all’anno, uno ogni settimana, da
qualche parte nel mondo, e non solo in Cina o nella profonda Siberia...
Perciò un incidente del 1980, la tragedia del Mont Terrible, per l’appunto,
dev’essere ormai caduto nel dimenticatoio! Centosessantotto morti...
Polvere... Polvere di stelle.
All’epoca anch’io me ne fregavo della catastrofe del Mont Terrible. Quel
mattino era già tanto che avessi ascoltato il notiziario.
Ero impegnato in un appostamento nella zona di Hendaye, un caso di
appropriazione indebita di fondi in un casinò, sullo sfondo il terrorismo
basco. Una cosetta abbastanza eccitante. In quel momento mi occupavo
soprattutto di faccende scottanti, era la mia specialità. Mi ero messo in
proprio da meno di cinque anni, come detective privato, dopo aver giocato
per vent’anni a fare il mercenario ai quattro angoli del globo. Mi avvicinavo
alla cinquantina e dovevo scendere a patti con un’anca malmessa e una
colonna vertebrale contorta come un caduceo; in una settimana di
appostamento mettevo su quasi un chilo e mi ci voleva poi un mese, nel
migliore dei casi, per smaltirlo. Comunque fare il detective privato, anche se
con incarichi da buttar via, mi stava bene.
Dovevo avere sentito la notizia dello schianto al giornale radio del
mattino, come tutti, durante quell’appostamento nel parcheggio davanti al
casinò di Hendaye, senza prestarci molta attenzione. Non potevo certo
immaginare che qualche mese dopo le indagini su quell’incidente sarebbero
diventate lo scopo della mia vita. Che ironia! Se lo avessi saputo...
L’Airbus 5403 Istanbul-Parigi precipitò sul Mont Terrible il 23 dicembre a
mezzanotte e trentasette. Nessuno ha mai saputo veramente ciò che accadde
quella sera. L’inverno fino allora era stato piuttosto mite, ma il 23 aveva
iniziato a nevicare copiosamente fin dal mattino. Di notte la tempesta divenne
più violenta. Il Mont Terrible è un po’ come uno scalino tra il Giura svizzero
e il Giura francese. Con ogni probabilità il pilota semplicemente non lo vide.
Fu ciò che si disse all’epoca; fin troppo facile scaricare la responsabilità sulle
spalle di quel poveraccio, ritrovato carbonizzato come tutti gli altri dentro la
carlinga. E la scatola nera? Non svelò nulla, se non che l’aereo volava troppo
basso e che il pilota aveva finito per perdere il controllo. L’associazione delle
vittime e la famiglia del pilota cercarono di saperne di più, ma invano. La
colpa venne attribuita al pilota, alla neve, alla tempesta, alla montagna, alla
fatalità, alla sfortuna... Vi fu un processo, naturalmente. Le famiglie delle
vittime volevano capire, ma nessun altro se ne interessò. Il dibattimento in
tribunale non appassionò il pubblico.
La carlinga si schiantò a mezzanotte e trentasette... Furono gli esperti a
stabilirlo in seguito, poiché non c’erano testimoni se non i passeggeri, dei
quali non si trovò nulla, nemmeno un orologio distrutto che avrebbe potuto
indicare l’ora dell’impatto. Gli ecologisti in quel periodo si battevano per la
salvaguardia dei piccoli abeti del Giura. In pochi secondi l’Airbus sradicò più
alberi di quelli che erano stati abbattuti in un secolo di veglioni natalizi. Molti
altri bruciarono, nonostante la neve. L’aereo tracciò un’autostrada nel bosco,
lunga qualche centinaio di metri, prima di accasciarsi, sfinito. Esplose
qualche secondo dopo, poi continuò a consumarsi per tutta la notte.
All’arrivo dei primi soccorsi, un’ora dopo, la carlinga era incandescente. Il
disastro era stato segnalato con grande ritardo perché non c’era nessuno nel
raggio di cinque chilometri. Alla fine, quando il rogo aveva allertato gli
abitanti della valle, le operazioni furono ritardate dalla neve: gli elicotteri
rimasero inchiodati al suolo e i vigili del fuoco raggiunsero a piedi la radura
in fiamme, seguendo faticosamente la trincea ardente. La tempesta si placò
nelle prime ore del mattino e il Mont Terrible divenne per qualche ora il
centro del mondo. Ci fu anche un’inchiesta, credo, per accertare le ragioni per
le quali i soccorsi erano arrivati così tardi, ma neanche quella appassionò il
pubblico.
In ogni caso, i soccorritori dovevano aver pensato che non ci fosse motivo
di affrettarsi: non ci sarebbero stati sopravvissuti, ovviamente. E ne ebbero la
riprova vedendo il rogo di lamiera accartocciata. Ma i pompieri sono persone
coscienziose anche all’una e mezzo del mattino, perfino nel cuore del Giura
sotto una tempesta di neve. Perciò cercarono ovunque, pur senza sapere cosa,
e si diedero da fare per dimostrare di non essere andati là per niente, a parte
scaldarsi davanti a quell’immenso fuoco che aveva divorato tutto lungo il
pendio della montagna e che, unendosi alla neve, aveva trasformato in ceneri
e vapore i corpi di centosessantotto passeggeri terrorizzati.
Cercarono, con gli occhi che bruciavano per il fumo e per lo sconforto. Fu
un giovane vigile del fuoco, Thierry Mouchot, della brigata di Sochaux, a
fare la scoperta. I dettagli vi sorprenderanno ma, fidatevi, è tutto vero. Ho
trascorso varie ore a parlare con lui, facendogli rivivere più e più volte quei
pochi secondi di panico e ripercorrere ogni particolare, fino all’esasperazione.
Lì per lì, quella notte, non se ne rese conto. Dapprima pensò di avere trovato
solo il cadavere di un bambino. Ma era comunque l’unico corpo di un
passeggero dell’Airbus a non essere bruciato con tutto il resto. Si trattava di
un neonato di neanche tre mesi. Era stato scaraventato fuori al momento
dell’impatto, dalla porta anteriore sinistra della carlinga dell’Airbus, che si
era parzialmente deformata in seguito allo schianto. Sono stati gli esperti a
ricostruire la dinamica dell’accaduto e l’hanno esposta con estrema
precisione durante l’istruttoria, quando si è cercato di capire quali posti
occupassero sull’aereo il piccolo e i suoi genitori.
Tranquilli, ci arrivo. Un po’ di pazienza...
Il giovane Mouchot era convinto di avere trovato solamente un corpicino
senza vita: il neonato era rimasto oltre un’ora sotto la neve... Invece, quando
si chinò, notò che il viso, le mani e le dita avevano appena cominciato a
diventare lividi. Il piccolo giaceva a una trentina di metri dal rogo, avvolto
dal calore protettivo della carlinga in fiamme. Il giovane pompiere di
Sochaux praticò allora, molto rapidamente, proprio come gli avevano
insegnato, la respirazione bocca a bocca, poi un massaggio cardiaco, con
infinite precauzioni. Non avrebbe mai pensato di poter salvare un neonato,
per di più in quelle condizioni.
Il bambino respirava ancora, seppure debolmente. Gli operatori dei servizi
di emergenza, nei minuti che seguirono, si occuparono del resto. In seguito i
medici confermarono che era stato l’incendio nella radura, il calore
sprigionato dalla carlinga che fondeva, a salvare la neonata, una bambina con
gli occhi azzurri, di un celeste molto intenso per essere così piccola,
verosimilmente francese a giudicare dalla pelle chiara. Era stata sbalzata fuori
a una distanza sufficiente per non essere bruciata viva ma per poter trarre
comunque beneficio della protezione delle fiamme, nel gelo della notte.
Terribile ironia, l’olocausto dei passeggeri, fra i quali c’erano i suoi genitori,
le aveva salvato la vita. Fu ciò che dissero i medici per spiegare il miracolo.
Perché era davvero un miracolo!
La maggior parte dei quotidiani nazionali pubblicò un’edizione speciale
sulla catastrofe a tarda notte, senza attendere le notizie dei soccorritori. Solo
uno, “L’Est Républicain”, pazientò un po’ di più; ritardò le rotative e non
mandò a casa il personale, mettendo tutti in allerta. Forse fu per il fiuto di un
caporedattore. “L’Est Républicain” disponeva di un esercito di giornalisti in
ogni angolo del Giura, appostati dietro le luci di emergenza, davanti agli
ospedali... La notizia del miracolo arrivò verso le due del mattino. “L’Est
Républicain” poté uscire, nell’edizione del 23 dicembre 1980, con il titolo:
La miracolata del Mont Terrible. L’espressione fece presa. Riuscirono
perfino a pubblicare, accanto all’immagine della carlinga carbonizzata nella
radura, una fotografia a colori, scattata davanti all’ospedale di Belfort-
Montbéliard, che ritraeva la neonata, con il blu del viso, degli arti e degli
occhi un po’ ritoccato, in braccio a un vigile del fuoco. La didascalia era
esplicita:

Drammatico schianto dell’Airbus 5403 Istanbul-Parigi sui pendii del Mont Terrible, al
confine franco-svizzero, nella notte fra il 22 e il 23 dicembre 1980. Centosessantotto dei
centosessantanove passeggeri e membri dell’equipaggio sono morti sul colpo o hanno
perso la vita intrappolati tra le fiamme. L’unica miracolosamente sopravvissuta è una
bambina di tre mesi, sbalzata fuori al momento della collisione, prima che la carlinga si
incendiasse.

La Francia si svegliò sulle note di quella tragedia. L’orfanella delle nevi


commosse tutte le famiglie. Nella mattinata, lo scoop de “L’Est Républicain”
fu ripreso dalle rassegne stampa di tutte le radio e le televisioni. Forse adesso
vi ricordate quella schiuma di calde lacrime che sommerse il lutto nazionale
di quell’inverno.
Rimaneva un dettaglio. Il quotidiano dell’est era riuscito a pubblicare uno
scatto della miracolata ma non il suo nome. Era complicato, alle due del
mattino: bisognava contattare l’Air France a Istanbul. È quello che deve aver
pensato il caporedattore. Quel dettaglio, tutto sommato, non era poi così
importante. Certo, scrivere il nome dell’orfana dagli occhi celesti sotto la
foto, sulla prima pagina del giornale, avrebbe avuto un maggior impatto
emotivo; “la miracolata del Mont Terrible”, comunque, non era male.
Avrebbe mantenuto un pizzico di mistero fino all’identificazione della bimba,
annunciata per l’indomani mattina.
Al più tardi...
Come no...?
Quel cognome, quel nome... Sono diciotto anni che li cerco!
5

2 ottobre 1998, ore 09.10


Lo scoppio della risata isterica di un gruppo di cinque ragazzi ammassati
attorno a un tavolinetto tondo, a dieci metri di distanza, deconcentrò Marc.
Sembrava che si stessero passando delle foto sul tavolo, forse quelle della
loro ultima serata studentesca, il genere di scatti che avrebbero conservato per
tutta la vita, magari in qualche nascondiglio, indecisi se vantarsene o
vergognarsene. Marc li conosceva vagamente: erano tutti membri di una delle
principali confraternite universitarie e davano una mano nella preparazione
degli esami, fotocopiavano gli appunti e raccoglievano denaro per finanziare
feste e serate.
Marc alzò gli occhi.
Le 09.11, secondo l’orologio a pendolo.
Mariam, senza degnarlo di uno sguardo, chiacchierava al banco con una
ragazza vestita di nero dalla testa ai piedi, con tanto di tanga abbinato che
sporgeva dalla gonna scura e cascante stile Morticia Addams.
Marc sospirò e si immerse di nuovo nella lettura. Rassegnato.

Diario di Crédule Grand-Duc


Voilà... È proprio in quel preciso momento che inizia l’enigma del Mont
Terrible. Vi sta tornando alla mente qualche frammento di ricordo adesso?
Eppure tutto sembrava procedere normalmente... La neonata orfana trovata
dal giovane vigile del fuoco era stata affidata al reparto pediatrico
dell’ospedale di Belfort-Montbéliard, controllata da un esercito di medici.
Ho ricostruito la sequenza degli eventi con una precisione da metronomo,
ma vi risparmierò le ore di registrazione delle testimonianze. Un riassunto
basterà, credo sia sufficientemente informativo.
Léonce de Carville apprese la doppia notizia dello schianto e della
bambina miracolata dal notiziario radio delle sei del mattino. Lui si alzava
sempre all’alba. Cancellò con una sola telefonata tutti gli impegni della
giornata, calcolati al minuto, e partì subito per Montbéliard con un aereo
privato. All’epoca cinquantacinquenne, l’uomo apparteneva alla cerchia dei
cento industriali più in vista di Francia. Ingegnere di formazione, aveva fatto
fortuna con la posa di condotte in tutti i continenti. L’impresa de Carville
lavorava per le più grandi multinazionali del gas e del petrolio. Non era stata
tanto l’innovazione tecnologica negli oleodotti o nei gasdotti a sancirne il
successo, quanto la capacità di far passare i tubi negli angoli più pericolosi o
più difficili da raggiungere del pianeta: sott’acqua, sotto le montagne, nelle
zone sismiche... La società era decollata definitivamente negli anni Sessanta
grazie all’invenzione di una tecnologia rivoluzionaria per stabilizzare gli
oleodotti nei permafrost, terreni ghiacciati quasi tutto l’anno, e alla sua
esportazione, in piena guerra fredda, sia in Siberia sia in Alaska.

Léonce de Carville, attraversando il dedalo bianco dell’ospedale di Belfort-


Montbéliard, mantenne costantemente una maschera di dignità che colpì tutto
il personale, indaffarato e perseguitato dai giornalisti.
«Venga con me» gli fece cenno, sollecita, un’infermiera.
«Dov’è?»
«Al nido. Si tranquillizzi, sta bene...»
«Chi se ne occupa?»
L’infermiera esitò, un po’ sorpresa. «Il... il dottor Morange. Stanotte era di
guardia» farfugliò. Lo sguardo di Léonce de Carville si fece inquisitorio. Non
ebbe bisogno di pronunciare una parola di più prima che la donna
aggiungesse: «Siete stati fortunati, signor de Carville. È uno dei nostri
migliori specialisti. È ancora in servizio. Potrà chiedergli tutto quello che
desidera...».
Léonce de Carville abbozzò un ghigno che poteva significare tanto
soddisfazione quanto allerta. Continuò a camminare con passo deciso, senza
esitare. I corridoi affollati si liberavano al suo passaggio.

La notte precedente, l’industriale aveva perso nella tragedia del Mont


Terrible il suo unico figlio e la nuora. Era stato lui, il grande e sagace
capitano d’industria, a spingere il figlio, due anni prima, a occuparsi della
direzione della filiale turca dell’impresa di famiglia. Un segreto di pulcinella:
era previsto che il giovane Alexandre de Carville avrebbe assunto la guida
della multinazionale dopo il padre. La successione doveva avvenire senza
scosse. Alexandre de Carville vi si stava preparando con grinta in Turchia,
dove, oltre alla sua formazione tecnica, stava mettendo a frutto la laurea in
scienze politiche. Doveva trattare alternativamente, a seconda dei
cambiamenti del regime, con i militari e con le forze di governo
democratiche. L’obiettivo finale era la posta in gioco più alta con cui
l’impresa de Carville si fosse mai cimentata, un contratto decisivo per i
decenni a venire. Alexandre era in esilio con la sua famiglia in Turchia per
negoziare direttamente l’appalto per l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, il
secondo più lungo del mondo: circa duemila chilometri, dal mar Caspio al
Mediterraneo, di cui più di mille in Turchia fino al piccolo porto di Ceyhan,
nel Sudest della costa mediterranea turca, vicino al confine con la Siria, dove
la famiglia di Alexandre aveva la propria residenza estiva. Era una
negoziazione di lungo respiro: da due anni l’affare arrancava un po’.
Alexandre de Carville trascorreva la maggior parte dell’anno in Turchia
con la moglie Véronique e la figlia Malvina, che all’epoca aveva sei anni e ne
aveva trascorsi due in Turchia. Dopo essere rimasta di nuovo incinta,
Véronique non era più tornata in Francia: a causa della sua salute
cagionevole, la gravidanza era stata difficile e non aveva potuto viaggiare in
aereo. Il parto era invece avvenuto senza complicanze, a Bakirköy, nella
clinica ostetrica privata più grande di Istanbul, e la piccola Malvina aveva
potuto stringere tra le braccia con venerazione la sorellina, Lyse-Rose.
Léonce de Carville e la moglie Mathilde, rimasti in Francia, avevano ricevuto
un grazioso bigliettino che annunciava la nascita e una fotografia un po’
sfocata della nipotina. Non c’era fretta. Avevano previsto di ritrovarsi tutti in
occasione del Natale del 1980. Malvina de Carville era partita per la Francia,
come ogni anno, all’inizio delle vacanze scolastiche, precedendo i genitori.
Alexandre, Véronique e la piccola Lyse-Rose l’avevano seguita qualche
giorno dopo, con il volo Istanbul-Parigi della sera, il 23 dicembre. La festa si
sarebbe svolta nell’immensa residenza della famiglia de Carville di
Coupvray, sulle rive della Marna. In onore della sorellina, Malvina, una
paffuta, adorabile brunetta di sei anni, vivace e irresistibile, che in Turchia e
in Francia comandava come un generale un esercito di domestici, aveva fatto
addobbare con pompon rosa e bianchi l’intero percorso dall’ingresso fino alla
camera di Lyse-Rose, compresa la grande scalinata in legno di ciliegio.
Malvina de Carville...
Prima di tornare alla lunga marcia di Léonce de Carville attraverso i
corridoi dell’ospedale di Montbéliard, concedetemi una digressione di
qualche riga per presentarvi Malvina. È importante. Capirete.
Malvina de Carville, dicevo.
Ecco una persona a cui credo di non essere mai piaciuto... È il minimo che
possa dire. Stranamente, è reciproco. Per quanto cerchi di convincermi che
non è responsabile delle sue azioni folli, che se quella tragedia non fosse
accaduta sarebbe diventata senz’altro una donna brillante e desiderabile, una
borghese di buona famiglia con un marito alla sua altezza... Niente da fare,
quella ragazzina, negli anni, con le sue crescenti ossessioni mi ha sempre
messo una gran fifa. A differenza di sua nonna, lei non si è mai fidata di me;
doveva percepire che la consideravo una specie di mostro. Sì, un mostro! È
proprio ciò che è diventata, con il tempo, quell’adorabile bambina di sei anni.
Una creatura brutta, acida e ingestibile.
Ma andiamo avanti, non è questo il momento di parlarne. Se
sfortunatamente il quaderno finisse tra le mani di quella furia, chissà che
reazione potrebbe scatenare in lei la lettura di queste righe!
Torniamo piuttosto a ciò che l’ha fatta impazzire. Il miracolo. O, per
essere precisi, la parvenza di un miracolo.

Nell’ospedale di Belfort-Montbéliard, Léonce de Carville mantenne quella


specie di distacco che per una volta nessuno attorno a lui prese per freddezza,
bensì per pudore. Rimase impassibile anche quando gli presentarono per la
prima volta la nipotina, da dietro un vetro che impediva di sentirne il pianto.
«Eccola lì» disse l’infermiera. «È nella prima culla, proprio davanti a lei.»
«Grazie.»
Il tono era sobrio, calmo, controllato. L’infermiera fece tre passi indietro.
Aveva saputo che Lyse-Rose era tutto quanto restava a Léonce de Carville.
In quel momento senz’altro la fede del brillante industriale doveva avere
quanto meno vacillato. Certo, Léonce non era un fervente cattolico come sua
moglie Mathilde. Si era convertito per ragioni di buona convivenza, in modo
che lo scienziato rigoroso non creasse troppo scompiglio nella famiglia della
moglie e nell’influente associazione delle opere pie di Coupvray. Ma in
quegli istanti dev’essere stato difficile, anche per il più razionale degli
individui, non pensare all’aldilà. Non essere combattuto fra la collera contro
un Dio crudele, che gli aveva portato via suo figlio, e la riconoscenza verso
un Dio meschino che per rimorso, o forse per compensazione, aveva salvato
la vita alla nipote. L’unica sopravvissuta...
Lyse-Rose piangeva in silenzio nella sua gabbia di vetro.
«Un miracolo» bisbigliò alle sue spalle il dottor Morange, in camice
bianco, con un sorriso da prete.
Aveva lo stesso sorriso quando l’ho incontrato e mi ha raccontato tutto,
anni dopo.
«Sta incredibilmente bene. Non ha riportato nessuna conseguenza. La
terremo solo un po’ in osservazione, per sicurezza, ma ha già recuperato alla
perfezione. Glielo assicuro, è un vero prodigio.»
“Grazie a te, lassù” doveva aver pensato Léonce de Carville.
In quel momento un’infermiera andò a chiamare il medico di guardia:
c’era una telefonata per lui. Una chiamata urgente. Urgente e molto strana. Il
dottor Morange lasciò Léonce de Carville davanti alla gabbia di vetro dove
c’era la nipotina.
“Rimasto solo, potrà finalmente farsi un pianto” si disse il medico a cui,
come a tutti, piacevano le tragedie con un epilogo felice o che, comunque,
finiscono meglio di come sono cominciate. Ancora commosso, prese il
ricevitore che gli porgeva l’infermiera.
La voce all’apparecchio, che sembrava provenire dall’altro capo del
mondo, era un miscuglio di gravità e di urgenza. «Buongiorno dottore, sono il
nonno della bambina dell’aereo. Sa, la catastrofe nel Giura, stanotte. Al
centralino mi hanno messo in contatto con lei. Come sta?»
«Bene... Benissimo, stia tranquillo, va tutto nel migliore dei modi. Penso
che potrà uscire tra qualche giorno. Fra l’altro il nonno paterno è già qui. Se
vuole, glielo passo...»
Ci fu un silenzio e in quell’istante il medico percepì che qualcosa non
quadrava.
«Dottore... Mi scusi, ma ci dev’essere un errore... Sono io il nonno paterno
della bambina. E mia nipote non ha nonni materni, mia nuora era orfana.»
Un formicolio nervoso percorse le dita del dottor Morange. Nel suo
cervello in ebollizione, il medico passò rapidamente in rassegna varie
possibili spiegazioni. Uno scherzo? Lo stratagemma di un giornalista avido di
notizie? Aveva bisogno di ulteriori precisazioni. «Lei sta parlando della
tragedia del volo Istanbul-Parigi di stanotte, vero? Della miracolata? Della
piccola Lyse-Rose?»
«No, dottore...»
Il medico sentì il suo interlocutore fare un profondo sospiro.
«No, dottore» continuò in tono più rilassato «c’è un malinteso. La
bambina sopravvissuta non si chiama Lyse-Rose... Si chiama Emilie.»
La fronte del medico si imperlò di sudore. Non gli capitava mai, nemmeno
in sala operatoria. «Sono spiacente, ma è impossibile. Il nonno della bambina,
il signor de Carville, è qui all’ospedale proprio in questo momento. Ce l’ha
davanti, l’ha riconosciuta e afferma che si chiama Lyse-Rose...»
Seguì un silenzio imbarazzato da entrambe le parti.
«Lei... abita lontano da Montbéliard?» indagò il medico.
«A Dieppe. In Alta Normandia.»
«Ah... Be’, penso che la cosa migliore... signor...?» Il dottore fece un
tentativo maldestro di prendere tempo.
«Vitral. Pierre Vitral.»
«Bene, signor Vitral, penso che la cosa più semplice sia telefonare al
commissariato di Montbéliard. Credo che stiano verificando l’identità dei
passeggeri. Non posso dirle di più... Probabilmente le daranno altre
informazioni. Le forniranno tutte le risposte.»
Lì per lì al medico spiacque recitare il ruolo del funzionario che spedisce
un poveraccio disperato allo sportello di fronte. Si rendeva conto che all’altro
capo della linea, a Dieppe, una volta riagganciato, l’uomo sarebbe crollato,
come se la sua nipotina fosse rimasta uccisa una seconda volta. Poi si
tranquillizzò: dopotutto lui non c’entrava niente. Quella storia era ridicola.
Vitral si stava sicuramente sbagliando.
Riagganciarono.
Il medico si chiese se avrebbe dovuto parlare di quella strana telefonata a
Léonce de Carville.

Pierre Vitral poggiò lentamente la cornetta.


Sua moglie Nicole era in piedi accanto a lui, preoccupata. «Allora, Emilie
sta bene? Cos’hanno detto?»
Lui la guardò con infinita tenerezza, come sapeva ancora fare così bene.
Parlò piano, come se si sentisse in colpa. «Hanno detto che la bambina
sopravvissuta si chiama Lyse-Rose, non Emilie...»
Nicole e Pierre Vitral rimasero muti per qualche istante. La vita non aveva
viziato né l’una né l’altro. Quando le sfortune si sommano, a volte il totale è
positivo. In due avevano fatto fronte alla povertà, agli scherzi del destino, alle
malattie, alla vita quotidiana. Senza mai lamentarsi. Ma è sempre la stessa
storia: se non ti lagni non ottieni niente... E dal momento che i Vitral non
avevano mai recriminato contro la vita, la vita non aveva esitato a rifilare loro
un supplemento di malasorte. Si erano rovinati la salute, Pierre la schiena e
Nicole i polmoni, a vendere patatine, salsicce e carne alla griglia per più di
vent’anni su un furgone Citroën H arancione e rosso, allestito appositamente,
sul lungomare di Dieppe e su tutte le spiagge del Nord, a seconda degli
eventi, dei festival e del clima, raramente clemente. Avevano trovato il tempo
di mettere al mondo due figli per fare uno sberleffo alla vita, che gliene aveva
tolto uno, Nicolas, per un incidente in motorino a Criel-sur-Mer, una sera di
pioggia.
La sfortuna stava loro attaccata alla pelle; tuttavia, per la prima volta,
appena due mesi addietro, avevano vinto qualcosa: un soggiorno di quindici
giorni a Bodrum-Gumbet.
Bodrum-Gumbet? E dove sarebbe? In Turchia, una penisola che sporge
nel Mediterraneo contornata da villaggi a quattro stelle, con le sdraio che
sfiorano l’acqua trasparente. Tutto compreso. Un vero albergo di lusso!
Avevano vinto per caso il premio di un concorso, grazie a un semplice
tagliando infilato in un’urna di vetro in un centro commerciale durante le
vendite promozionali. Era stato estratto il biglietto del figlio Pascal. C’era
solo un obbligo: bisognava partire entro la fine dell’anno, il 1980. Una
condizione che a loro non andava bene. Pascal e Stéphanie, sua moglie, erano
diventati genitori da appena due mesi dell’adorabile Emilie. Marc, il
primogenito, che aveva già due anni, non sarebbe stato un problema: poteva
restare dai nonni per il periodo della vacanza. Ma per la piccola Emilie era
più complicato. Stéphanie la allattava ancora e comunque non se la sentiva di
stare lontana dalla sua bambina per quindici giorni. I biglietti erano
nominativi e non potevano essere cambiati: o perdevano il viaggio o
partivano con la piccola.
Erano partiti. Prima di allora non avevano mai preso l’aereo. Stéphanie,
una giovane donna la cui fantasia si esprimeva in un paio d’occhi ridenti,
immaginava il mondo come una bella mela da addentare. Un frutto che
credeva proibito, nel suo piccolo paradiso.
Pensavano non bisognasse voltare le spalle alla fortuna una volta che
finalmente avesse deciso di sorriderti. Non si sarebbero dovuti fidare, bisogna
sempre guardarsi dai sorrisi. Pascal, Stéphanie ed Emilie sarebbero dovuti
atterrare a Roissy il 23 dicembre e poi restare una giornata a Parigi per
ammirare le vetrine di Natale. Un’altra fantasia di Stéphanie. Lei era orfana,
adorabile e adorata da tutta la famiglia Vitral, che ricambiava con la stessa
devozione. In fondo non aveva bisogno di un viaggio in Turchia per essere
felice. La sua fiaba erano Marc ed Emilie, i suoi due tesori, con il loro papà e
i loro nonni a coccolarli.

Pierre e Nicole Vitral erano venuti a sapere del dramma insieme, ascoltando
il notiziario radio di France Inter delle sette.
Come facevano tutte le mattine.
Erano seduti l’uno di fronte all’altra, ai lati del piccolo tavolo della cucina
ingombro di cose. Le due ciotole di gres, caffè per Pierre e tè per Nicole,
rimasero lì a lungo a raffreddarsi, quasi intonse, senza un’increspatura,
pietrificate dal secondo che imbalsamò la vita in quella casetta di rue
Pocholle, nel Pollet, un vecchio quartiere di pescatori poggiato come un’isola
al centro del porto di Dieppe.
«Perché Lyse-Rose?» urlò improvvisamente Nicole Vitral.
Le case della strada erano attigue le une alle altre. Il vicolo si riassumeva
in una decina di facciate uguali. Tutti sentivano tutto. Il grido di Nicole
attraversò i muri.
«E perché dovrebbe chiamarsi Lyse-Rose quella neonata? Eh? Chi gliel’ha
detto? La piccola forse? Ha detto il suo nome ai pompieri? Una bambina di
tre mesi sull’aereo, una bambina con gli occhi celesti... È la nostra Emilie! È
viva. Chi può dire il contrario? Come possono sostenerlo? C’è sotto qualcosa
perché è l’unica sopravvissuta e vogliono rubarcela.»
Nicole aveva le lacrime agli occhi. Alcuni vicini cominciarono a uscire in
strada, nonostante il freddo.
Lei crollò tra le braccia del marito. «No, Pierre. Promettimelo... No,
Pierre, non ci prenderanno la nostra piccola. Non è scampata al disastro
perché ce la rubassero. Promettimelo.»

Nella stanzetta adiacente al salotto, svegliato di soprassalto dal grido della


nonna, il piccolo Marc Vitral, dall’alto dei suoi due anni, si mise a urlare.
Non poteva però capire e non avrebbe ricordato nulla di quel mattino di
dolore.

2 ottobre 1998, ore 09.24


Marc alzò lo sguardo dal quaderno di Grand-Duc, commosso fino alle
lacrime. No, certo, non aveva alcun ricordo di quel mattino di dolore. Finché
non ebbe letto quel racconto...
Scoprire così ogni dettaglio del dramma della sua infanzia aveva qualcosa
di strano, di irreale.
La confusione attorno a lui, lì al Lénine, gli faceva girare la testa. I cinque
ragazzi dell’associazione studentesca erano usciti, sempre allegri come prima,
sbattendo la porta a vetri alle loro spalle. Marc si passò la mano sul viso
asciugando con discrezione le lacrime agli angoli degli occhi. Respirò
lentamente per riprendere il controllo. A conti fatti conosceva già quasi tutti
gli elementi di quella storia. Della sua storia.
Quasi tutti...
Le 09.25, secondo l’orologio a pendolo.
Ed era solo all’inizio.
6

2 ottobre 1998, ore 09.17


Malvina de Carville colpì il vetro con la canna del suo Mauser L100. Le
libellule reagirono a malapena. Solo la più grande, quella con il corpo lungo,
i riflessi rossi e le ali gigantesche, tentò di sollevarsi qualche centimetro
prima di ripiombare sul fondo del terrario, impigliata nelle decine di cadaveri
di altri insetti. Nemmeno per un istante a Malvina de Carville venne l’idea di
rimettere in funzione l’impianto d’ossigenazione del terrario o di sollevare il
coperchio di vetro per lasciare scappare le bestiole superstiti. Preferiva
osservare la loro agonia. Dopotutto lei non c’entrava nulla con
quell’ecatombe.
Colpì di nuovo il vetro con la canna del revolver, con più violenza. Era
affascinata dagli sforzi disperati che facevano gli insetti, a ogni scossa delle
pareti del terrario, per agitare le ali appesantite nell’aria privata di ossigeno.
Malvina rimase così per diversi minuti. Potevano crepare tutte quelle
libellule! Lei se ne fregava altamente. Non era per loro che si trovava lì. Era
venuta per Lyse-Rose. La sua sola e unica Libellula. Avanzò nella stanza. Lo
specchio del salotto la colse di sorpresa, rimandandole la sua immagine. Non
poté fare a meno di osservarne il riflesso e fu percorsa da un brivido di
disgusto. Detestava quel fermaglio bianco che divideva in due ciocche i suoi
capelli lisci e lunghi; detestava il maglioncino di lana celeste con il collo di
pizzo; detestava il suo seno piatto, le braccia magre, il corpo di quaranta chili.
Per strada i passanti la prendevano per una ragazzina di quindici anni... da
dietro, almeno. Conosceva bene la sorpresa nei loro occhi quando si
ritrovavano di fronte a una ragazza vecchia; una ventiquattrenne vestita come
negli anni Cinquanta.
Lei se ne fregava.
Se ne sbatteva di tutti quelli che le dicevano la stessa cosa da diciotto anni;
la decina di psicologi, i migliori, che aveva sfinito l’uno dopo l’altro, gli
psichiatri infantili, i nutrizionisti, gli specialisti di non si sa che... Anche sua
nonna. Conosceva la manfrina a memoria. Rifiuto di crescere... Rifiuto di
ingrassare. Rifiuto di invecchiare. Rifiuto del lutto. Rifiuto di dimenticare
Lyse-Rose.
Lyse-Rose.
Accettare la perdita, dimenticarla...
Come a dire ucciderla...

Si voltò e si diresse verso il caminetto. Dovette scavalcare il cadavere. Per


nulla al mondo avrebbe mollato il Mauser che teneva nella mano destra. Non
si poteva mai sapere. Anche se quello stronzo di Grand-Duc non stava certo
per rialzarsi. Una pallottola nel cuore. La testa nel caminetto. Afferrò
l’attizzatoio con la sinistra e frugò maldestramente nel focolare.
Niente!
Quel fetente di Crédule Grand-Duc non aveva lasciato nulla!
Malvina agitò la barra di ferro, sempre più irritata, colpendo il viso di
Grand-Duc e sollevando una nuvola di fumo nero. Doveva pur esserci una
traccia, un pezzo di carta non carbonizzato, un indizio qualunque...
Avrebbe dovuto arrendersi all’evidenza. Stava smuovendo solo minuscoli
coriandoli anneriti.
I contenitori dei faldoni giacevano sul parquet. Le date erano scritte in
pennarello rosso sul dorso: 1980, 1981, 1982-1983, 1984-1985, 1986-1989,
1990-1995, 1996...
Erano tutti vuoti, disperatamente vuoti.
Una rabbia sorda, incontrollabile, che conosceva bene esplose dentro di
lei. Quello stronzo di Crédule Grand-Duc li aveva presi in giro! Era per
questo che i suoi nonni lo avevano pagato per diciotto anni, che gli avevano
saldato tutte le fatture, rimborsato i viaggi e le spese?
Per un mucchio di cenere.
Malvina lasciò cadere sul parquet tirato a lucido l’attizzatoio, che produsse
un segno nero sul legno. Era con i loro quattrini che quel pezzo di merda si
era pagato quella casa da borghese nel cuore di rue de la Butte-aux-Cailles...
Con i loro quattrini! Per cosa, poi? Per bruciare tutte le prove prima di
chiudere il becco. Definitivamente!
Strinse il pugno sul Mauser.
Malvina de Carville non provava più compassione per Grand-Duc che per
le libellule morte nel terrario.
Anche meno, anzi.
Aveva avuto ciò che si meritava, quel bastardo: finire ammazzato a casa
propria, con il naso, gli occhi e la bocca nelle braci ancora calde delle sue
menzogne. Aveva rischiato, aveva voluto fare il doppio gioco. Aveva perso.
Malvina non avrebbe pianto per la sua fine. L’unica cosa che le dispiaceva
era che ormai non avrebbe più potuto parlare... Ma lei non avrebbe
rinunciato, men che meno adesso. Non avrebbe lasciato la sua sorellina. Era lì
per lei, come sempre. La sua Lyse-Rose, la sua Libellula. Doveva continuare
a cercare. Doveva trovare qualcosa.
Per esempio il taccuino su cui Crédule Grand-Duc aveva annotato i suoi
appunti in tutti quegli anni, giorno dopo giorno. Un quaderno con la copertina
verde pallido, a quanto ne sapeva. Dove poteva averlo ficcato? A chi avrebbe
potuto affidarlo?
Malvina andò fino alla porta della cucina e gettò uno sguardo circolare
all’interno. Tutto sembrava ordinato e pulito. Uno strofinaccio blu era appeso
a un chiodo. Aveva comunque già frugato in ogni angolino, invano. Era tutto
in ordine, in cucina come nelle altre stanze. Grand-Duc era un tipo
meticoloso.
’Fanculo!
Quella baracca era un vicolo cieco. Doveva riflettere.
Ripensò alla telefonata che Grand-Duc aveva fatto a sua nonna il giorno
prima. Sosteneva di avere trovato qualcosa. Finalmente! Dopo tutti quegli
anni, proprio la sera del diciottesimo compleanno di Lyse-Rose. Meglio
ancora. Qualche minuto prima di mezzanotte. Aveva parlato di un vecchio
giornale, “L’Est Républicain”, di una rivelazione che avrebbe avuto, diciotto
anni dopo, semplicemente aprendolo.
Come no?
Quello stronzo stava bluffando!
Sua nonna poteva anche cascarci, ancora una volta, se le faceva piacere
credere alle puttanate di quel detective. Ma non lei. “L’Est Républicain”,
proprio diciotto anni dopo. A mezzanotte in punto. Quasi per caso...
Pietoso.
Grand-Duc aveva solo cercato di guadagnare tempo. Il contratto scadeva il
giorno del diciottesimo compleanno di Lyse-Rose, dopodiché il fiume di
soldi si sarebbe arrestato. Aveva voluto attingere ancora un po’ a quel
rubinetto inventando una storia qualsiasi. Sua nonna, bigotta com’era, era
pronta a bersi tutto. Si fidava troppo di quel Grand-Duc, che la teneva in
pugno da tutti quegli anni.
Malvina tornò sui suoi passi e osservò la targa di rame sulla scrivania.
CRÉDULE GRAND-DUC, DETECTIVE PRIVATO.
Che nome del cazzo!
Sì, credeva di tenerli in pugno, suo nonno e sua nonna.
Ma non certo lei!
Lei era libera. Lucida. Era riuscita a smascherare il suo doppio gioco.
Grand-Duc aveva sempre preferito i Vitral. Stava dalla loro parte. Guardava
Malvina di traverso, come se fosse un animale da circo. Diffidava di lei.
Ma non abbastanza!
Lanciò un’ultima occhiata alla scrivania, lasciò a malincuore il salotto e si
diresse verso il piccolo ingresso. Con il suo sguardo penetrante scrutò gli
ombrelli riposti in un grande vaso, i lunghi cappotti appesi agli ometti.
Nessun indizio, nemmeno lì.
Non poté fare a meno di soffermarsi sulle fotografie attaccate a un
pannello con delle calamite, proprio sopra la finestra dell’ingresso.
Un’istantanea del matrimonio di Nazim Ozan, il compare di Grand-Duc, con
la sua turca cicciona; un’altra di Nicole Vitral, naturalmente, con il grosso
seno traboccante da un brutto vestito da venditrice di patatine fritte. Di sicuro
Grand-Duc doveva averne avuto abbastanza di trovarsi le tette della Vitral
davanti agli occhi tutte le mattine, prima di uscire di casa, mentre si infilava il
cappotto o prendeva l’ombrello.
Malvina guardò distrattamente le altre foto. Paesaggi di montagna,
probabilmente del Giura. Il Mont Terrible. Montbéliard.
Si ricordava di averla riconosciuta, quella bambina, sua sorella, laggiù
all’ospedale. Malvina aveva sei anni all’epoca. Era l’unica testimone vivente.
Lyse-Rose era viva. Le avevano rubato la sua sorellina.
Potevano dire quello che volevano, rifiuto del lutto e tutto il resto.
Non l’avrebbe abbandonata mai e poi mai.
Malvina si sforzò di uscire dal suo torpore: doveva attivarsi. Tornò nel
salotto, scavalcò di nuovo il cadavere di Grand-Duc e fissò un’ultima volta il
caminetto, il terrario, la scrivania. Per entrare in casa aveva commesso
un’effrazione, rompendo il vetro della finestra della camera, tra le malvarose.
Aveva lasciato impronte ovunque, e la polizia sarebbe arrivata, prima o poi,
chiamata da un vicino. Doveva essere prudente. Non per se stessa – di sé se
ne sbatteva –, ma per Lyse-Rose. Se voleva rimanere libera era necessario
cancellare le tracce della sua presenza in quella casa, dappertutto. Con un po’
di fortuna avrebbe potuto scovare un dettaglio che aveva trascurato. Perché
non quel maledetto quaderno verde?
Chissà che cosa aveva scritto quella merda di Grand-Duc? Aveva
realmente scoperto qualcosa, la verità, in quel giornale, il giorno del
diciottesimo compleanno di Lyse-Rose?
Quale verità?
Stava bluffando?
Poteva Malvina correre un rischio simile?
Doveva trovare quel quaderno.
Sicuramente lo aveva consegnato ai Vitral prima di beccarsi un proiettile
nel cuore. Tipico da parte sua. Come una specie di regalo di compleanno. Se
fosse stato così, era quel pervertito di Marc Vitral ad averlo tra le mani
adesso. E a leggerlo, anche.
7

2 ottobre 1998, ore 09.28


Marc Vitral fissava l’orologio a pendolo.
Al tavolo più vicino, di fronte a lui, un’incantevole studentessa mora dai
capelli tagliati alla maschietta lo fissava con i suoi occhi color dell’oceano in
cui qualunque uomo si sarebbe tuffato senza esitazione.
Marc distolse lo sguardo, impassibile.
Ciò dovette eccitare ancora di più la bella ragazza. Quel biondino perso
nei suoi pensieri, nei suoi dispiaceri, con gli occhi lucidi di lacrime che la
attraversavano come se fosse invisibile. Dovevano essere pochi gli uomini
indifferenti al suo fascino. E inevitabilmente lei era attratta solo da quelli non
disponibili, dai fantasmi inaccessibili.

Marc rimuginava sulla descrizione fatta da Crédule Grand-Duc dei suoi


genitori, Pascal e Stéphanie, dei quali non aveva altro ricordo se non qualche
vecchia fotografia. Alzò la mano verso Mariam. La cameriera pensò che
volesse reclamare il suo regalo in anticipo, guadagnare qualche minuto, e
guardò il pendolo con aria di disapprovazione.
«Mariam, mi porti un croissant? Non ho mangiato niente stamattina... Di
solito Lylie non mi dà appuntamento così presto, non sono abituato!»
Mariam fece un ampio sorriso rassicurato. Qualche attimo dopo gli portò
la brioche su un piattino. Il frastuono al Lénine stava diventando assordante.
La studentessa dagli occhi abissali continuava a fissare Marc, elemosinando
disperatamente uno sguardo.
Fatica sprecata.
Marc strappò metà croissant e lo ingoiò in un boccone.
09.33.
Si immerse di nuovo negli appunti di Grand-Duc.

Diario di Crédule Grand-Duc


Sarete d’accordo con me, penso: per i Vitral e i de Carville la vita è
comunque una vera bastarda... Prima li informa che un aereo si è schiantato,
che non ci sono sopravvissuti, toglie loro all’improvviso le due generazioni
su cui avevano costruito il proprio futuro, figli e nipoti... Poi, un’ora dopo,
annuncia radiosa il miracolo: la creatura più piccola, più fragile, è stata
risparmiata. E si riesce perfino a essere felici, a ringraziare il cielo, a
dimenticare la scomparsa di persone così care... Ma la vita estrae il pugnale
solo per affondarlo meglio una seconda volta. E se quel piccolo essere
miracolato, sangue del vostro sangue, non fosse vostro?

Al commissariato di Montbéliard erano tutti affaccendati fin dall’alba, quel


23 dicembre 1980. A occuparsi del caso era il commissario in persona,
Vatelier, un poliziotto esperto e dinamico che aveva una barba scura incolta
ma intonata alla giacca di pelle.
La Turkish Airlines aveva faxato la lista dei passeggeri già alle sette del
mattino. Fatto bizzarro, che doveva senz’altro avere incuriosito molto
l’equipaggio in servizio all’aeroporto Atatürk di Istanbul, a bordo c’erano due
bambine, due piccole francesi venute al mondo a tre giorni di distanza l’una
dall’altra.
Lyse-Rose de Carville, nata il 27 settembre 1980.
Emilie Vitral, nata il 30 settembre 1980.
Strana coincidenza, starete pensando. Ho verificato: la presenza di neonati
su un aereo è lungi dall’essere un caso eccezionale. Anzi, è frequente,
soprattutto sulle lunghe distanze, in occasione delle vacanze. In piena
globalizzazione economica, bisogna pur che le famiglie si riuniscano attorno
a un abete o a una torta di compleanno, in occasione di un matrimonio, di un
funerale o di qualsiasi altro evento. Non lo si nota, ma io adesso lo so: gli
aerei brulicano di bambini!
All’inizio, mi ha confessato Vatelier, la cosa aveva più che altro divertito i
suoi uomini. Due bambine... Come stabilire quale delle due fosse la
sopravvissuta? In realtà i poliziotti dovevano aver pensato che l’inchiesta
sarebbe stata breve. Non è difficile appurare l’identità di un neonato: gli
occhi, la pelle, il sangue, il contenuto dello stomaco, i vestiti, gli effetti
personali, i parenti... Tanti indizi, sicuramente più che sufficienti.
Però bisognava essere veloci. I poliziotti avevano un’orda di giornalisti
alle calcagna, il caso era una vera e propria manna per i media. Pensate, una
sola orfanella per due famiglie! E comunque c’era in gioco il futuro di una
bambina. Non potevano lasciarla per mesi al nido dell’ospedale di Belfort-
Montbéliard: bisognava istruire l’inchiesta con urgenza, deliberare, decidere e
restituire la bambina alla famiglia. Léonce de Carville inviò a Montbéliard,
già il 23 dicembre alle due del pomeriggio, un nugolo di avvocati parigini,
tutti pagati a peso d’oro, incaricati di stare incollati agli inquirenti di Vatelier
e di verificare ogni dettaglio.
Sul piano giuridico il caso era complesso, tuttavia la cancelleria risolse la
questione in poche ore: il commissariato di Montbéliard era incaricato
dell’inchiesta, ma la decisione finale sarebbe stata presa da un giudice
minorile, dopo l’audizione di tutte le parti in causa e dei testimoni. A porte
chiuse, naturalmente. La sentenza sarebbe stata pronunciata al massimo a fine
aprile del 1981, in modo da non turbare la sicurezza affettiva della bambina,
che nel frattempo sarebbe rimasta al nido dell’ospedale di Belfort-
Montbéliard. Su quella scia, per condurre l’istruttoria, la cancelleria nominò –
com’era scontato – Jean-Louis Le Drian, uno dei giudici di punta del
tribunale di grande istanza di Parigi, autore di una decina di pubblicazioni sui
bambini nati con parto anonimo, sulle ricerche di identità, sull’adozione... Un
uomo inattaccabile.
A partire dal giorno successivo, il 24 dicembre, nel tardo pomeriggio, il
giudice Le Drian riuscì in qualche modo a mettere insieme un gruppo di
lavoro improvvisato e non particolarmente entusiasta dell’idea di dedicare
una parte della vigilia di Natale a quel caso: Vatelier, il commissario di
Montbéliard, Morange, il medico che dal giorno precedente aveva in cura la
piccola miracolata, e Saint-Simon, un poliziotto dell’ambasciata francese in
Turchia, che comunicava con loro telefonicamente.
In seguito mi hanno raccontato tutto di quella riunione surreale in un
grande ufficio parigino, in avenue de Suffren, con vista panoramica sulla
torre Eiffel illuminata in un bianco cielo invernale. Un anticipo di cenone di
Natale senza ghirlande né regali. I loro figli che li aspettavano ai piedi
dell’albero mentre loro soppesavano, con precisione e professionalità, il
futuro di una bambina di tre mesi.
Il giudice Le Drian si trovava in una posizione difficile perché conosceva i
de Carville, anche se solo superficialmente. Li aveva incrociati durante un
paio di serate parigine con qualche centinaio di persone accalcate nei grandi
saloni dei palazzi haussmaniani. Provo a mettermi nei suoi panni. Una vocina
in fondo al cervello deve avergli sussurrato: “Speriamo proprio che la
bambina sia la nipote dei de Carville, altrimenti sei nella merda...”.
Una possibilità su due... Testa o croce.
Ma la monetina, a prima vista, non sembrava voler cadere dal lato giusto.
Quando ho incontrato Le Drian, anni dopo, non era affatto cambiato:
minuzioso, preciso, tutto tirato, con la sciarpa malva un po’ più chiara della
cravatta. C’è da chiedersi come, così ingessato nel suo vestito, potesse
ispirare fiducia a bambini traumatizzati e raccogliere le loro confidenze. Il
giudice aveva filmato tutte le riunioni. Mi ha consegnato i nastri, non aveva
nulla da nascondere ai de Carville. Questo mi permette di essere preciso:
avrete diritto al sonoro e all’immagine. Per il verdetto, invece, sarete voi i
giudici, è proprio il caso di dirlo.

«Cercherò di essere il più breve possibile» cominciò Le Drian. «Abbiamo


tutti fretta, no? Iniziamo con le informazioni che riguardano Lyse-Rose de
Carville. La piccola è nata a Istanbul poco meno di tre mesi fa. Solo i suoi
genitori la conoscevano veramente, e Alexandre e Véronique de Carville
avevano portato con sé, sull’Airbus Istanbul-Parigi, tutto ciò che riguardava
Lyse-Rose: giocattoli, vestiti, foto, medicinali, tesserino sanitario. Ogni cosa
è andata distrutta nell’incendio dell’aereo. Saint-Simon, dalla Turchia ci sono
altre testimonianze?»
La voce nasale del poliziotto dell’ambasciata turca gracchiò
nell’altoparlante del telefono poggiato sul tavolo. «Non proprio... A parte
qualche domestico turco che ha intravisto Lyse-Rose attraverso il velo opaco
di una zanzariera, l’unica testimone oculare è la sorella maggiore di sei anni,
Malvina... Ecco...»
Le Drian avvertiva già che la faccenda cominciava a mettersi male. In quei
casi, quando i fatti gli sfuggivano, si alzava e tirava le due estremità della
sciarpa che pendevano lungo la giacca in modo da pareggiarle. Una mania
come un’altra. Naturalmente, a causa del grande mistero dell’attrito fra i
tessuti, quella maledetta sciarpa passava il tempo a scivolare, a sinistra o a
destra, senza che il giudice si fosse reso conto di avere mosso anche solo
impercettibilmente il collo.
Il commissario Vatelier osservava il tic del giudice con un sorriso appena
dissimulato dalla barba. «Ho parlato a lungo con i signori de Carville» disse.
«Be’, soprattutto con Léonce de Carville. Conoscono la nipote solo in base a
qualche vaga descrizione telefonica. Hanno anche una fotografia di Lyse-
Rose, scattata alla nascita, inviata per posta con un biglietto.»
«E nella fotografia cosa si vede?»
Il commissario Vatelier fece una smorfia. «Quasi nulla. La madre che la
sta allattando. Lyse-Rose è di schiena... Si intravedono il collo e un orecchio,
nient’altro.»
Il giudice Le Drian tirò nervosamente l’estremità destra della sciarpa. Si
stava mettendo decisamente male per i de Carville.

Se mi permettete di anticipare un po’ gli eventi, sappiate che nelle settimane


successive Léonce de Carville avrebbe convocato esperti molto accreditati
affinché confermassero che l’orecchio della bambina miracolata era identico
a quello di Lyse-Rose sulla fotografia. Io ho poi esaminato in ogni minimo
dettaglio la foto e le analisi: ci voleva una buona dose di malafede per trarne
una certezza qualsiasi, in un senso o nell’altro.
Il giudice Le Drian, in ogni caso, continuò a esplorare la genealogia della
miracolata. «E i nonni materni di Lyse-Rose?» chiese.
Il commissario Vatelier guardò con tristezza la torre Eiffel scintillante
come un immenso albero di Natale, poi, consultando i suoi appunti, rispose:
«Véronique, la madre di Lyse-Rose, è la quarta di sette figli di una famiglia
del Québec, i Bernier, con undici nipoti. Véronique aveva già preso le
distanze dalla sua famiglia quando ha conosciuto Alexandre a Toronto, in
occasione di un seminario di chimica molecolare. Sembra che i Bernier
appoggino i de Carville. Con moderazione».
«Okay. Cercheremo di scavare su questo fronte» fece Le Drian. «Passiamo
a Emilie Vitral. A quanto pare lascia più indizi dietro di sé...»
Vatelier sospirò. «Mah, sì, sebbene anche nel suo caso la tessera sanitaria,
gli effetti personali, i biberon e i bavaglini siano andati in fumo con l’aereo.
A dire la verità, da quando la bambina è nata, i nonni l’hanno vista cinque
volte in tutto, di cui due alla clinica di Dieppe, la settimana in cui è venuta al
mondo, e una il giorno della partenza in aereo, quando Pascal e Stéphanie
hanno portato Marc da loro. Ma la piccola stava dormendo profondamente.»
Il commissario si girò verso il dottor Morange, che prese la parola per la
prima volta.
«Ero presente quando hanno visto la bambina all’ospedale di Belfort-
Montbéliard. I Vitral hanno riconosciuto subito la nipote...»
«Ovviamente» si inserì Le Drian. «Ovviamente. Non avrebbero certo
affermato il contrario.» Il giudice sospirò con aria stanca; le sue dita
tormentarono nervosamente la sciarpa, un colpetto a sinistra.
Il commissario Vatelier alzò il tono di voce. «Non potevamo certo mettere
in fila quattro neonati numerati dietro un vetro oscurato e chiedere ai nonni di
riconoscerli!»
«Forse avreste dovuto» ribatté Le Drian serio. «Avremmo guadagnato
tempo.»
Il commissario alzò le spalle e proseguì: «Come se non bastasse, i Vitral
non hanno nessuna fotografia. Stando a quanto dicono, Stéphanie aveva fatto
un piccolo album sulla figlioletta, dodici foto, da cui non si separava mai.
Possiamo supporre che anche quello sia finito bruciato».
«E i negativi?» chiese il giudice.
«La polizia di Dieppe ha frugato dappertutto nell’appartamento dei Vitral,
da cima a fondo, per cercare quei dannati negativi. Nulla di fatto, per il
momento. Forse Stéphanie li aveva portati con sé, magari nella custodia della
macchina fotografica.»
Forse...

Li ho cercati anch’io, in seguito, quei maledetti negativi. Provate a


immaginare, una foto della bambina! Inutile mantenere la suspense, almeno
su questo versante. Posso dirvi sin d’ora che non sono mai stati ritrovati.
Oltre all’ipotesi che fossero andati distrutti nel rogo dell’aereo, o che si
trattasse di un’invenzione pura e semplice dei Vitral, ho pensato anche che
Léonce de Carville potesse essere entrato nell’appartamento di Pascal e
Stéphanie prima dei poliziotti e avesse fatto sparire tutti i documenti
compromettenti. Ne era capace. Ciò vi dà un’idea del vastissimo ventaglio di
possibilità.
Il giudice Le Drian sentiva la nuca inumidirsi, la sciarpa scivolare
inevitabilmente, come un serpente, sulla sua spalla. Quel caso cominciava a
puzzare di rompicapo giudiziario. «Bene» disse. «Abbiamo preso in esame
quasi tutti gli aspetti. Il resto della famiglia di Emilie Vitral... un altro buco
nell’acqua?»
«Più o meno» rispose il commissario Vatelier. «La madre, Stéphanie, era
orfana, nata con parto anonimo e cresciuta in un istituto della fondazione di
Auteuil, a Rouen. Ha perso la testa per Pascal Vitral sulla terrazza di un bar
quando aveva solo sedici anni. Riassumendo, la piccola Emilie, se è lei la
sopravvissuta, ha solo i nonni, Pierre e Nicole, e il fratello maggiore Marc.»
Lo sguardo del giudice Le Drian si perse lontano, dietro la grande vetrata,
oltre le luci che formavano la galassia della torre Eiffel, alla ricerca di una
direzione, di una qualche stella della sera da seguire ciecamente nella notte
della Natività.

Potrei continuare così a lungo, descrivervi le ore di discussioni interminabili,


di argomentazioni e controargomentazioni. Oltre alle registrazioni delle
riunioni, ci sono circa tremila pagine di inchieste accumulate dal giudice Le
Drian nelle settimane successive, che anch’io ho spulciato, per tacere dei miei
archivi personali. Non temete, ci tornerò più avanti, almeno sui dettagli che
mi sembravano importanti. Ma penso che cominciate a capire la difficoltà, il
dilemma degli inquirenti. Non era per niente facile farsi un’idea.
Testa o croce? Alla fin fine io non l’ho capito.
Vi lascio tutti questi indizi in eredità. Ora tocca a voi provarci...
Ma già vi sento...
E la scienza, allora? I vestiti? Il sangue? Gli occhi? E tutto il resto?
Ci arrivo.
Non resterete delusi.
8

2 ottobre 1998, ore 09.35


Marc divorò il resto del croissant senza neanche alzare lo sguardo
sull’orologio a pendolo che non andava avanti, sulla bella studentessa dagli
occhi azzurri di fronte a sé o sulla cameriera Mariam che stava mettendo a
dura prova i suoi nervi. Al Lénine c’era un gran movimento. Così come sul
piazzale dell’università, oltre il vetro. Anche se in nessun caso le rivelazioni
di Grand-Duc lo avrebbero fatto dubitare, doveva leggere ancora,
immagazzinare tutte quelle informazioni che in buona parte scopriva solo
adesso.
Visto che era Lylie a volerlo...

Diario di Crédule Grand-Duc


Una quindicina di giorni dopo, l’11 gennaio 1981, il giudice Le Drian
convocò un’altra riunione. Stesse persone, stesso luogo, stesso ufficio, in
avenue de Suffren, ma quella volta di mattina. La torre Eiffel tremolava
avvolta nella nebbia, se ne distinguevano a malapena i piedi umidi nelle
pozzanghere che una fine pioggerellina alimentava a poco a poco. Gruppi di
turisti formavano una fila ininterrotta di ombrelli. Non c’era niente, neanche
una tettoia di vetro, per riparare la gente in attesa davanti al monumento più
visitato del mondo.
Il colmo. Un altro fra tanti.
Le Drian era sempre più infastidito. I superiori gli avevano fatto capire che
persone molto influenti solidarizzavano con i de Carville.
Il giudice non era uno sciocco, aveva recepito il messaggio. Stava facendo
il possibile con i pochi elementi che aveva in mano. Non avrebbe certo
prodotto prove false.
Il dottor Morange stava terminando il suo resoconto sulla questione del
gruppo sanguigno. Aveva passato ai colleghi alcune fotocopie di complicati
referti clinici. «Quindi, riassumendo» disse «la nostra piccola miracolata ha il
gruppo sanguigno più comune, A, come oltre il quaranta per cento della
popolazione francese. Consultando gli archivi di Dieppe e di Istanbul,
abbiamo appreso che sia Emilie Vitral sia Lyse-Rose de Carville, senza
ombra di dubbio, avevano entrambe... il gruppo sanguigno A. C’era da
aspettarselo.»
“Ovvio” pensò il giudice Le Drian. «Non c’è modo di saperne di più?»
sbottò.
Morange fornì una spiegazione scientifica. «Va detto che le analisi del
sangue permettono solo di escludere legami di paternità o fratellanza, non di
confermarli. Potremmo affermare che esiste un legame familiare se fossimo
in presenza di un fattore Rh negativo o di una malattia genetica rara... Ma non
è questo il nostro caso. La scienza non ci dirà niente sulla famiglia della
bambina.»
A proposito di scienza, voi vi credete furbi, mi sembra già di sentire le
vostre osservazioni: “E la genetica, il DNA , il test di paternità e tutto
l’ambaradan?”. Ma dovete pensare al contesto: era il 1980! All’epoca i test
del DNA erano ancora fantascienza. Il primo caso giudiziario al mondo a
essere stato risolto grazie al test del DNA risale al 1987... Provate un po’ a
contestualizzare! Ciò detto, state tranquilli, ovviamente ci torneremo sopra;
era una questione destinata a venire fuori, prima o poi. Ma è successo quando
la piccola miracolata era ormai cresciuta e la natura del problema
radicalmente cambiata. La scienza non sempre spiega tutto, anzi, vedrete...

Nell’attesa, nel 1980, i periti di avenue de Suffren tentavano di fare quello


che potevano.
Il dottor Morange dispose sul tavolo una serie di fotografie. «Queste sono
le modellizzazioni fornite dal laboratorio di Meudon. Tecniche di
invecchiamento artificiale del volto della piccola miracolata, realizzate con
sistemi informatici, per vedere a chi assomiglierà la bambina tra cinque, dieci
e vent’anni...»
Il giudice gettò un’occhiata alle immagini ed esplose rabbioso: «Non
penserà che io prenda una decisione sulla base di simili assurdità?».
Su questo aveva ragione. In parte, almeno. Obiettivamente la miracolata
invecchiata tramite modellizzazione assomigliava più a una Vitral che a una
de Carville, ma non in maniera così evidente, e anche ai legali dei de Carville
non parve vero di poter ridicolizzare la questione. Diciotto anni dopo, avendo
visto crescere la bambina di anno in anno, posso senz’altro affermare che
quelle tecniche di invecchiamento artificiale erano una vera e propria
stronzata!
«Ci rimane il colore degli occhi» proseguì il medico. «L’unico segno
distintivo reale della piccola miracolata. Sono incredibilmente celesti per la
sua età. Possono ancora cambiare, diventare più scuri, ma rappresentano
comunque una caratteristica genetica...»
Il commissario Vatelier lo interruppe. «La piccola Emilie Vitral aveva gli
occhi chiari, tendenti al celeste. Lo hanno confermato tutti i testimoni che
l’hanno vista: i nonni, qualche amico e le infermiere del reparto maternità.
Occhi chiari come quelli di entrambi i genitori, dei nonni e praticamente di
tutta la famiglia Vitral. Invece i de Carville, genitori e nonni, sono castani e
hanno occhi marroni. Lo stesso i Bernier, ho verificato.»
Le Drian sembrava sull’orlo di una crisi di nervi. Non si stava mettendo
bene, proprio per nulla, per i de Carville. Quel poliziotto lo innervosiva.
Fuori, la pioggerellina si stava trasformando in un acquazzone; i visitatori,
stoici, continuavano a pazientare ai piedi della torre Eiffel, nascosti sotto una
coltre di ombrelli, una versione moderna della tattica romana della testuggine.
Il giudice si alzò per premere l’interruttore e illuminare un po’ di più la
stanza. La sciarpa gli pendeva a destra. Non la sistemò. «Mah, sì...»
commentò accondiscendente. «Comunque è solo un’altra supposizione, non
una prova. Tutti sanno che il figlio di due genitori con gli occhi castani o neri
può avere tutta la gamma possibile di colori degli occhi...»
«Esatto» concesse il dottor Morange e aggiunse: «È solo una questione di
probabilità...».
Le probabilità... In assoluta buonafede, non propendevano propriamente a
favore dei de Carville. Mi ricordo che qualche settimana dopo la rivista
“Science et Vie” prese l’esempio della “miracolata del Mont Terrible” per
spiegare come la genetica non fosse in grado di prevedere in modo
sistematico le caratteristiche fisiche di un individuo a partire dalla sua
ascendenza familiare. Ho sempre sospettato, da allora, che Léonce de
Carville avesse commissionato, direttamente o indirettamente, quell’articolo,
che cadeva fin troppo a proposito.

Il giudice si rivolse quindi a Saint-Simon, l’inquirente turco, parlando nel


microfono. «E gli abiti della miracolata, perdio? È così difficile trarre
conclusioni che stiano in piedi da quello che indossava il giorno
dell’incidente?»
«Signori, vi ricordo la tipologia di vestiti trovati addosso alla miracolata»
replicò calmo Saint-Simon. «Un body di cotone, un vestitino bianco a fiori
arancioni e un golfino beige di lana jacquard. Possiamo affermare con
certezza che sono stati acquistati a Istanbul, al Gran Bazar, il mercato coperto
più grande del mondo.»
Il giudice Le Drian non si lasciò sfuggire l’occasione. «I Vitral erano in
Turchia per una vacanza di quindici giorni, di cui soltanto due trascorsi a
Istanbul! La piccola Emilie Vitral logicamente avrebbe dovuto indossare i
vestiti portati dalla Francia. È molto improbabile che i genitori abbiano
pensato di metterle, qualche ora prima di ripartire per la Francia, le cose
comprate a Istanbul! Se la miracolata indossava un body, un vestitino e un
golfino turchi, mi sembra chiaro che deve trattarsi di Lyse-Rose de Carville.
La bambina è nata a Istanbul...»
Saint-Simon si prese la responsabilità di capovolgere all’istante
l’argomentazione. «Giudice, se posso permettermi, i vestiti turchi indossati
dalla neonata erano a buon mercato... Ho verificato, non hanno nulla a che
vedere con il resto del guardaroba di Lyse-Rose negli armadi della villa di
Ceyhan. Le invierò una descrizione dettagliata. Lyse-Rose portava solo abiti
di marca acquistati nel quartiere occidentale di Istanbul, a Galatasaray... non
al Gran Bazar!»
Prima che Saint-Simon si lanciasse nell’analisi delle differenze
sociologiche tra i quartieri di Istanbul, Le Drian lo interruppe bruscamente.
«Okay, darò un’occhiata. Vatelier, può farci il punto sulle perizie tecniche?»
Vatelier si sfregò la barba e guardò il giudice con aria diffidente. «I periti
hanno cercato di ricostruire come e in che momento preciso la bambina è
stata proiettata fuori dall’aereo. Sappiamo quale posto occupava ogni
passeggero. I de Carville erano nella fila dieci, lato finestrino, un po’ più
verso la parte posteriore della carlinga; i Vitral erano nella parte centrale
dell’Airbus, circa all’altezza delle ali. Le due bambine si trovavano quindi
più o meno alla stessa distanza dalla porta dell’aereo che ha ceduto dopo
l’impatto e l’esplosione, quella attraverso la quale la neonata è stata proiettata
fuori. Su quest’ultimo punto tutti i pareri convergono. Ho qui i documenti. I
periti hanno potuto ricostruire con precisione l’impatto, la torsione della
porta, e sono unanimi: solo un essere vivente di meno di dieci chili poteva
uscire vivo da una trappola del genere.»
«Okay, okay, commissario» tagliò corto il giudice, che quel giorno
sfoggiava una sciarpa giallo senape abbinata alla giacca verde bottiglia. «Però
c’è la teoria di Le Tallandier... Se non erro, il professore di fisica Serge Le
Tallandier ha dimostrato che è poco verosimile che l’espulsione della neonata
sia avvenuta secondo un movimento laterale e che, in altri termini, è meno
probabile che sia stata Emilie Vitral a essere proiettata fuori poiché era seduta
al centro della carlinga... La sua opinione, commissario?»
«In tutta franchezza, i calcoli di Le Tallandier sono talmente complicati
che nessun poliziotto in Francia, neanche della Scientifica, oserebbe
contraddirlo. Ma è mio dovere comunque precisare che Serge Le Tallandier è
stato compagno di corso di Léonce de Carville al Politecnico ed è stato
relatore della tesi di Alexandre de Carville al Mines Paris Tech...»
Il giudice guardò il commissario Vatelier come se avesse proferito
un’eresia. Agitò le braccia e tirò la sciarpa giallo senape con un gesto troppo
nervoso per sperare di riportare in equilibrio la striscia di tessuto. «Se devo
confutare anche gli esperti che dirigono un laboratorio al Politecnico...»
«Oh, io non metto in discussione niente» replicò Vatelier con un sorriso.
«Non ho la competenza per farlo. Posso solo dirle che la teoria di Le
Tallandier, al Politecnico, ha suscitato grande ilarità fra i suoi colleghi con
cui ho parlato.»
Il giudice sospirò. Fuori, la torre Eiffel era completamente sparita nella
nebbia e centinaia di turisti avevano probabilmente aspettato per ore sotto la
pioggia per niente.
Potrei scrivere pagine e pagine di dettagli tecnici. Registrazioni di ore e
ore di riunioni. Non vi annoierò con queste cose, non subito, per lo meno.
Le settimane trascorrevano e il caso procedeva a fatica in un marasma
giudiziario e scientifico che con l’andar del tempo non interessava più
nessuno, al di fuori delle famiglie coinvolte.
I poliziotti insistevano.
I giornalisti, invece, ne avevano le palle piene.
Il pubblico, che si era appassionato al caso nei giorni successivi al
“miracolo”, in mancanza di certezze si stufò rapidamente. Le liti dei periti
annoiavano tutti. L’enigma sembrava irrisolvibile.
Appena il trambusto si placò, i poliziotti tentarono di lavorare nel modo
più discreto possibile. Dal canto loro, gli avvocati dei de Carville sfoderarono
tutte le loro armi per evitare che l’istruttoria diventasse troppo di dominio
pubblico. Se il caso fosse stato gestito fra alti funzionari, non vi era alcun
dubbio che si sarebbe risolto a loro favore. Il giudice Le Drian era un uomo
ragionevole.

“L’Est Républicain”, che era stato all’origine di tutto, fu l’unico giornale a


continuare a pubblicare una cronaca quotidiana sugli sviluppi del caso della
miracolata del Mont Terrible, resoconti sempre più brevi. La giornalista che
se ne occupava, Lucile Moraud, la quale seguiva già da decenni le inchieste
più sordide dell’Est della Francia – e non erano poche –, si trovò rapidamente
di fronte a un dilemma: come battezzare la miracolata? Impossibile, volendo
rimanere neutrale, chiamarla Emilie o Lyse-Rose... Le perifrasi come “la
miracolata del Mont Terrible”, “l’orfanella delle nevi”, “la bambina salvata
dal rogo” appesantivano dannatamente il suo stile, che invece doveva essere
semplice e diretto per catturare il lettore medio. Trovò l’ispirazione verso la
fine di gennaio del 1981. All’epoca, forse ve ne ricorderete, la radio
trasmetteva di continuo una canzone di Charlélie Couture, Comme un avion
sans aile.
Esasperata dalla lentezza del procedimento e dai tentennamenti del giudice
Le Drian, il 29 gennaio Lucile Moraud fece pubblicare sotto la testata de
“L’Est Républicain” una fotografia a piena pagina della miracolata, nella sua
gabbia di vetro del reparto pediatrico dell’ospedale, dove pazientava da oltre
un mese nell’indifferenza generale; a mo’ di didascalia, in grassetto, tre versi
della canzone:
Oh, libellule,
toi, t’as les ailes fragiles,
moi, moi, j’ai la carlingue froissée...
Oh, libellula,
tu, tu hai le ali fragili,
io, io ho la carlinga accartocciata...

L’esperta giornalista fece centro. Nessuno poteva più ascoltare la hit di


Charlélie Couture senza pensare alla piccola miracolata, alle sue ali fragili,
alla carlinga accartocciata. Per la Francia, l’orfanella delle nevi era diventata
“Libellula”. Il soprannome rimase. Anche i parenti lo adottarono. Lo stesso
feci io.
Che idiota!
Libellula!
Ho anche spinto il mio zelo fino a interessarmi a quegli insetti deformi; a
spendere una fortuna per collezionarli... Quando ci ripenso, adesso... Tutto
questo circo per colpa di una giornalista scaltra che aveva saputo cavalcare
l’onda del sentimentalismo popolare.
I poliziotti, invece, erano meno romantici. Per parlare della bambina,
quando non volevano citare esplicitamente una delle due famiglie,
inventarono un acronimo che fondeva le prime lettere di Lyse-Rose e le
ultime di Emilie: “Lylie”.
Lylie...
Fu il commissario Vatelier a utilizzarlo per primo, con i giornalisti.
Mica male, non c’è che dire. Sì, in fin dei conti anche i poliziotti sanno
essere romantici. Proprio come Libellula, il nome Lylie rimase. Un po’ come
un diminutivo affettuoso.
Né Lyse-Rose né Emilie.
Lylie.
Una chimera, uno strano essere composto da due corpi.
Un mostro.
A proposito di mostri, è arrivato il momento di parlarvi del ruolo di
Malvina de Carville. Lo so, Malvina de Carville non apprezzerebbe il nesso,
ma mi perdonerete per questo. Come capirete, fa parte dei danni collaterali
del dramma. Diciamo così.
Léonce de Carville era un uomo volitivo e determinato, abituato a ottenere
quello che voleva. Tuttavia nessuna prova, nessun documento dell’indagine
faceva pendere l’ago della bilancia a suo favore. Commise allora due errori.
Due errori gravissimi. Volle spingere troppo sull’acceleratore.
Il primo riguardò sua nipote Malvina. Aveva solo sei anni ed era una
bambina piena di vita, anche se cresciuta come una principessa in un bozzolo
di privilegi. Certo, la morte accidentale dei genitori e della sorellina sarebbe
stata difficile da superare per lei. Ma, circondata com’era da un esercito di
psicologi e dalla sua famiglia, si sarebbe ripresa.
Come tutti.
Solo che lei era l’unica testimone oculare. L’unica persona ancora in vita a
essere stata accanto a Lyse-Rose in Turchia durante i suoi primi due mesi.
Forse gli unici due...
Una bambina di sei anni è in grado di riconoscere una neonata? Di
riconoscerla con certezza? Di distinguerla da un’altra?
La domanda merita di essere posta.
Secondo le affermazioni dei nonni Vitral, Malvina era l’unica carta da
giocare per i de Carville, la sola capace di identificare Lyse-Rose. Léonce de
Carville avrebbe dovuto proteggerla, impedirle di testimoniare, tenerla
lontana dai poliziotti – ne aveva i mezzi –, non chiederle niente, lasciarla
tranquilla e al riparo da quella situazione, dalla bufera, in un istituto per
ragazzini ricchi, affidata alle cure di puericultrici premurose, assieme ad altri
bambini allegri, con un grande parco pieno di animali. Invece espose
Malvina, la fece testimoniare dieci, cento volte, davanti a decine di giudici,
avvocati, poliziotti, periti... Per settimane passò da studi a uditori, da sale
d’attesa a sale d’udienza, costantemente guardata a vista da personaggi
sinistri in giacca e cravatta e gorilla pagati per allontanare i giornalisti.
E Malvina, ogni volta, a qualunque adulto si trovasse davanti, ripeteva la
stessa cosa: “Sì, quella bambina è mia sorella. La riconosco, è lei, è Lyse-
Rose”.
Suo nonno non aveva neanche più bisogno di forzarla. Era sicura, non
aveva dubbi, non poteva sbagliarsi.
Erano i suoi vestiti quelli che le mostravano, il suo viso quello che
riconosceva, il suo pianto quello che sentiva. Era pronta a giurarlo, davanti al
giudice, sulla Bibbia, sulla sua bambola. Dall’alto dei suoi sei anni, poteva
anche tenere testa ai nonni Vitral!
Da allora ho visto crescere Malvina. Be’, “crescere” è una parola grossa...
Diciamo che l’ho vista invecchiare, fino all’adolescenza, all’età adulta. Ho
visto a poco a poco insinuarsi in lei la follia, una follia furiosa.
Mi fa paura, è vero; penso che il posto giusto per lei sarebbe un ospedale
psichiatrico, sorvegliata a vista; ma sono obbligato a riconoscere che non è
responsabile di ciò che le è successo. L’unico responsabile è suo nonno,
Léonce de Carville. Sapeva quello che faceva: ha deliberatamente
strumentalizzato la nipote. Ha sacrificato con cognizione di causa la sua
salute mentale, a dispetto di tutti i pareri dei medici e delle suppliche di sua
moglie.
La cosa peggiore è che non gli servì assolutamente a niente.
Perché Léonce de Carville commise un altro errore, forse ancora più
grossolano del primo.
9

2 ottobre 1998, ore 09.43


Lylie non si muoveva da mezz’ora. Era seduta sul parapetto di marmo
dell’esplanade des Invalides. Il freddo della pietra risaliva lungo le sue
gambe, ma non le dava particolarmente fastidio. Di fronte a lei, la cupola
degli Invalides si distingueva appena dal cielo bianco, quasi monocromatico.
Indifferenti alla morsa del vento, una decina di ragazzi sui rollerblade si
allenavano davanti a lei. Facevano vere e proprie acrobazie.
La zona degli Invalides, nota ai frequentatori abituali, non è certo la più
popolare di Parigi. I turisti si ammassano piuttosto al Trocadéro, davanti al
Palais-Royal, in place de l’Hôtel-de-Ville, in place de la Bastille... Gli
spettatori erano più rari lì, e non capitava tutti i giorni che tra loro ci fosse
una ragazza bella come Lylie, che per di più restasse per così tanto tempo ad
ammirarli. Sfidando il clima, con il marmo gelido sotto il sedere.
Cosa stava cercando? Una scopata?
Nel dubbio, i pattinatori davano il meglio di sé. L’esplanade des Invalides
è il posto ideale per far pratica di velocità, slalom e salti. I ragazzi avevano
posizionato dei birilli arancioni di plastica, su due file, e continuavano a
sfidarsi sui cento metri, come in una versione moderna dei tornei medievali in
cui il più veloce, l’ultimo a rimanere in piedi, avrebbe vinto il cuore della
bella.

A Lylie piacevano la velocità dei roller, le grida e le risate. Tutta


quell’agitazione la aiutava a ritrovare la calma dentro di sé. Non era facile:
stava cambiando tutto. Ripensò al quaderno di Grand-Duc. Aveva fatto bene
ad affidarlo a Marc? Lo avrebbe letto? Sì, certo... Ma lo avrebbe capito?
Marc aveva un rapporto complicato con Crédule Grand-Duc; non come con
un padre sostitutivo, questo no, ma il detective era stato comunque per tutti
quegli anni una delle rare presenze maschili nella sua vita. Marc aveva anche
le proprie certezze, il proprio istinto, come diceva lui. Le proprie convinzioni.
Era pronto ad accettare una verità diversa?
Lylie si ripeteva in continuazione queste domande da parecchi minuti.
Senza trovare risposte.
Di fronte a lei, uno slalomista più grande degli altri, forse sulla quarantina,
già quasi brizzolato, non le staccava gli occhi di dosso. Aveva stravinto tutte
le sfide con gli altri concorrenti. Si era tolto la giacca di pelle e non perdeva
occasione di mettere in mostra i muscoli del torace sotto la T-shirt. Faceva
scorrere lo sguardo nero e penetrante su tutto lo spiazzo, come un rapace, per
poi posarlo ogni volta sugli occhi celesti di Lylie. Tutto in lui ricordava un
uccello predatore, dall’eleganza nel danzare attorno ai birilli di plastica al
viso, fine e tagliente.
Lylie non lo aveva nemmeno notato in mezzo agli altri pattinatori. Adesso
stava pensando a quel regalo per Marc, a quella macabra messinscena.
Era necessaria?
Cominciarono a spuntarle le lacrime agli occhi. Non aveva scelta, doveva
allontanarsi a ogni costo da lui, per qualche ora, per qualche giorno, lasciarlo
fuori da quella storia, proteggerlo. Poi, quando sarebbe finita, forse avrebbe
avuto il coraggio di confessargli tutto. Marc teneva così tanto a lei. A lei... A
chi esattamente?
Sorrise.
La sua Lylie, la sua Libellula... Dio, quanto avrebbe voluto avere un nome
normale, banale. Un nome soltanto!

Il pattinatore brizzolato sfiorò Lylie, che sussultò riscuotendosi bruscamente


dal suo torpore. Non poté trattenere un sorriso. L’uomo-rapace, nonostante il
freddo – dovevano esserci meno di dieci gradi –, si era tolto la maglietta.
Danzava davanti a lei, sulle gambe troppo lunghe fasciate nei jeans. A torso
nudo.
Un corpo perfetto. Depilato. Muscoloso.
Quel tipo la fissava ormai senza ritegno, come per soppesare pregi e
difetti. Sembrava essersi trasformato definitivamente in un uccello. La sua
parata nuziale, eseguita alla perfezione, non lasciava adito a dubbi. Quante
volte l’aveva fatta? Quante ragazze erano cadute fra i suoi artigli?
Tutte?
Lylie sostenne il suo sguardo per alcuni istanti ed esaminò a propria volta
il corpo del seduttore. Quasi con distacco. Ci era abituata, il suo bel fisico
filiforme non lasciava indifferenti gli uomini. Eppure si stupiva che la
potessero guardare, che la potessero desiderare. Si sentiva trasparente.
Si immerse di nuovo nei suoi pensieri. Non doveva piangere sul suo
destino. In quel momento il suo cognome e il suo nome non avevano
importanza. Doveva agire rapidamente e da sola.
Era determinata. Adesso che sapeva la verità, la terribile verità, non aveva
più scelta, doveva accettarla.
Era così recente. La sua vita era stata sconvolta il giorno precedente. Tutto
aveva subito una brusca accelerazione, ma l’irreparabile lo aveva commesso
prima. Da allora era intrappolata in un ingranaggio e non aveva più scelta:
andare avanti o essere schiacciata.

Il predatore non mollava. Descriveva ampi cerchi con gli arti inferiori, come
un compasso, senza mai spostare di un centimetro la testa, rivolta verso Lylie.
Gli occhi di Lylie si perdevano nel vuoto. Ripensava a Marc, inchiodato in
quel bar.
Intrappolato da lei. Ancora quindici minuti soltanto. Poi, sicuramente,
avrebbe cercato di chiamarla. Prese il cellulare dalla borsa e lo spense.
Doveva essere invisibile, irraggiungibile, almeno per il momento. Marc si
sarebbe opposto al suo progetto. Avrebbe cercato di proteggerla, avrebbe
visto soltanto i rischi, il pericolo.
Lo conosceva bene, lo avrebbe definito un omicidio.
Un omicidio...

Come un volo di rondini nell’istante che segue la detonazione, la decina di


pattinatori si allontanò improvvisamente verso gli Invalides, obbedendo agli
ordini del capo con le tempie argentate, stanco o offeso dall’insuccesso della
sua parata. I birilli arancioni di plastica, le giacche e le T-shirt sparirono in
una folata di vento, lasciando dietro di sé solo l’asfalto grigio e deserto.
Un omicidio...
Lylie sorrise nervosamente.
Dopotutto, sì, si poteva definirlo così. Un omicidio.
Un delitto di sangue indispensabile.
Uccidere.
Uccidere un mostro per continuare a vivere.
Per sopravvivere, almeno.
10

2 ottobre 1998, ore 09.45


Marc alzò gli occhi.
Le 09.45, secondo l’orologio a pendolo.
Cavolo, il tempo non passava più. Una strana sensazione gli cresceva
dentro. Quel regalo di Lylie che Mariam aveva riposto nel registratore di
cassa, quella scatoletta... era una trappola. Un pretesto. Un inganno.
Quell’interminabile ora di attesa aveva come unico scopo di permettere a
Lylie di andarsene, di salvarsi, di nascondersi. Perché?
Quella storia non gli piaceva. Era come se ogni minuto lo allontanasse un
po’ di più da lei. Abbassò tuttavia gli occhi sul quaderno. Presagiva il seguito
del racconto, quel secondo errore di Léonce de Carville. Ne era stato ancora
una volta il testimone diretto, un testimone piagnucoloso, a quanto gli era
stato raccontato; se la versione di Grand-Duc era fedele a quella della
leggenda di rue Pocholle, avrebbe apprezzato ciò che stava per leggere. Era
già qualcosa.

Diario di Crédule Grand-Duc


Léonce de Carville pensava che il denaro risolvesse tutto.
L’inchiesta procedeva a rilento, anche se il ministero della Giustizia aveva
stabilito, in accordo con il giudice Le Drian, che il caso dovesse essere chiuso
entro i primi sei mesi di vita della piccola miracolata.
Sei mesi.
Troppi per Léonce de Carville.
Ciò nonostante tutti i suoi legali gli garantivano che sarebbe bastato
temporeggiare: il dubbio avrebbe finito per avvantaggiarli; avevano i contatti
giusti, a mano a mano tutti sarebbero passati dalla loro parte, anche i media, i
poliziotti, Vatelier. Senza prove, la questione si sarebbe trasformata in una
querelle tra periti. La decisione finale del giudice Le Drian era scontata. I
Vitral non avevano nessuna influenza, nessuna esperienza, nessun appoggio...
Ma Léonce de Carville era probabilmente meno sereno, meno composto,
meno indifferente di quanto lasciasse trasparire. Decise di sistemare la
questione da solo, una volta per tutte, nel modo in cui aveva sempre gestito la
sua impresa.
Da padrone. D’istinto.
Il 17 febbraio 1981, verso mezzogiorno, sollevò semplicemente il telefono
– ebbe almeno il buonsenso di non affidare il compito alla sua segretaria – e
prese appuntamento con i Vitral per l’indomani mattina. Più precisamente
con Pierre Vitral. Un altro grosso errore da parte sua. Nicole poi mi ha
raccontato tutto, nei minimi dettagli. Con esultanza.
L’indomani mattina, a Dieppe, i vicini di rue Pocholle videro, stupiti, una
Mercedes quasi più lunga della facciata della casa parcheggiare davanti al
cancello dei Vitral. De Carville entrò, mascherato da uomo della
provvidenza, come nei film, con una valigetta in mano.
Una caricatura.
«Signor Vitral, posso parlare con lei da solo?»
Pierre Vitral esitò.
Non così sua moglie. La domanda, di fatto, era rivolta a lei. Non si fece
scrupoli a replicare: «No, signor de Carville, non è possibile». Nicole Vitral
teneva il piccolo Marc in braccio. Non lo lasciò, anzi, lo strinse ancora più
forte. «Vede, signor de Carville» aggiunse «anche se andassi in cucina,
sentirei comunque tutto. La casa è piccola. E sentirei tutto perfino se andassi
dai vicini. Qui le pareti sono sottili. Avere segreti è impossibile. Forse è per
questo che noi, di segreti, non ne vogliamo.»
Marc, in braccio, piagnucolava. Nicole si sistemò su una sedia e lo mise a
sedere sulle sue ginocchia, come a lasciar intendere che non si sarebbe
mossa.
Léonce de Carville non sembrò particolarmente impressionato dal
monologo. «Come preferite» replicò con il suo sorriso serafico. «Sarò breve.
Ciò che ho da proporvi può essere espresso in poche parole.» Fece qualche
altro passo nella stanza, guardando di sfuggita il piccolo televisore
nell’angolo che trasmetteva una qualche serie televisiva americana. Il salotto
era minuscolo, dodici metri quadrati a dir tanto, arredato con mobili degli
anni Settanta in formica arancione. De Carville era a meno di due metri dai
Vitral. «Signor Vitral, siamo franchi, nessuno saprà mai chi è la bambina
sopravvissuta a quell’incidente aereo. Lyse-Rose o Emilie? Non emergerà
nessuna prova e voi resterete convinti che si tratti di Emilie, così come io
rimarrò convinto che sia Lyse-Rose. Indipendentemente da quello che
succederà, ciascuno si terrà le proprie certezze. È umano.»
I Vitral annuirono.
«Neanche un giudice» continuò de Carville «neanche una giuria sapranno
cosa fare. Saranno obbligati a prendere una decisione, ma non si appurerà
mai se è giusta. Sarà un testa o croce. Signor Vitral, pensa davvero che si
possa giocare il destino di una bambina a testa o croce?»
Né sì né no: i Vitral aspettavano il seguito. Dal televisore uscivano risate
stupide. Nicole si avvicinò all’apparecchio, azzerò il volume, poi tornò a
sedersi.
«Sarò sincero, signori Vitral, mi sono informato sul vostro conto. Anche
voi probabilmente avrete fatto lo stesso con me.»
A Nicole Vitral piaceva sempre meno quel suo sorriso compiaciuto.
«Avete cresciuto i vostri figli con dignità, lo dicono tutti. Non è sempre
stato facile per voi. Ho saputo dell’incidente in motorino del vostro figlio
maggiore, Nicolas, quattro anni fa. Ho saputo anche della sua schiena, Pierre,
e dei suoi polmoni, Nicole. Temo che con un lavoro come il vostro...
Insomma, voglio dire, dovevate cercare qualcos’altro molto tempo fa. Per
voi. Per vostro nipote.»
Eccoci. Nicole strinse Marc troppo forte e il piccolo si mise a frignare.
«Dove vuole arrivare, signor de Carville?» chiese all’improvviso Pierre
Vitral.
«Sono sicuro che avete già capito. Non siamo nemici. Anzi. Nell’interesse
della nostra Libellula è esattamente il contrario, dobbiamo unire le nostre
forze.»
Nicole Vitral si alzò bruscamente. De Carville non se ne accorse
nemmeno, preso com’era a illustrare le sue teorie. Peggio ancora, le sue
convinzioni. «Per essere franco» continuò «sono sicuro che avete sognato di
assicurare ai vostri figli e ai vostri nipoti studi veri, vacanze vere. Tutto
quello che desiderano. Quello che meritano. Una vera occasione nella vita.
Una vera occasione ha un prezzo. Tutto ha un prezzo.»
De Carville si stava dando la zappa sui piedi senza rendersene conto. I
Vitral tacquero, attoniti.
«Pierre, Nicole... Non so se la nostra Libellula è nipote mia o vostra, ma io
mi impegno a darle tutto quello che può volere, a soddisfare ogni suo più
piccolo desiderio. Mi impegno, lo prometto, a renderla la bambina più felice
del mondo. E non è tutto. Stimo molto la vostra famiglia, ve l’ho detto, e mi
impegno anche a darvi un aiuto economico per crescere vostro nipote Marc.
Sono cosciente del fatto che questo dramma è immensamente più difficile da
sopportare per voi che per me, e che vi obbligherà a lavorare ancora per anni
per sfamare una bocca in più...»
Nicole Vitral si avvicinò al marito. La rabbia stava crescendo dentro di lei.
Léonce de Carville fece una pausa o, meglio, ebbe una breve esitazione,
poi si lanciò. «Pierre, Nicole, accettate di rinunciare ai vostri diritti sulla
bambina, su Lylie. Riconoscete che si chiama Lyse-Rose, Lyse-Rose de
Carville, e io mi impegno solennemente a occuparmi di voi, di Marc...
Vedrete Lylie tutte le volte che vorrete, non cambierà nulla, sarete comunque
come i suoi nonni...»
Lo sguardo di de Carville si fece supplichevole, quasi umano.
«Vi scongiuro, accettate. Pensate al suo futuro. Al futuro di Lylie...»
Nicole Vitral stava per intervenire, ma Pierre parlò per primo,
sorprendentemente calmo. «Signor de Carville, preferisco non risponderle.
Emilie non è in vendita. Come non lo sono Marc né nessun altro qui. Non si
può comprare tutto, signor de Carville. L’incidente di suo figlio non le ha
fatto capire nemmeno questo?»
Léonce de Carville, sorpreso, alzò bruscamente la voce. La sua regola era
non rimanere mai sulla difensiva. Marc urlò tra le braccia della nonna. Di
sicuro in rue Pocholle lo sentirono tutti. «Eh, no, signor Vitral, non mi faccia
la morale! Crede forse che non sia stato umiliante per me venire qui a farvi
questa proposta? Vi ho appena offerto un’occasione unica per uscirne bene e
lei non è neanche capace di coglierla! L’orgoglio, gran bel sentimento,
certo...»
«Se ne vada!»
De Carville non si mosse.
«Se ne vada! Subito! E non si dimentichi la sua valigetta. Quanto c’è
dentro? Quanto vale Emilie? Centomila franchi? Una bella macchina...
Trecentomila? Un bungalow con vista sul mare del Nord per trascorrere la
nostra vecchiaia...»
«Cinquecentomila franchi, signor Vitral. Anche di più dopo la decisione
del giudice, se volete.»
«Fuori di qui!»
«Sta sbagliando... Sta perdendo tutto. Tutto. A causa del suo orgoglio. Lei
sa bene quanto me che non avete nessuna possibilità di influenzare la
decisione finale. Ho decine di avvocati che sono in ottimi rapporti con i periti
e i poliziotti incaricati di seguire l’inchiesta. Conosco personalmente metà dei
giudici del tribunale di grande istanza di Parigi. Quel mondo non vi
appartiene. La partita è truccata, signor Vitral, e lei lo sa perfettamente. Lo sa
da sempre. La bambina miracolata dell’aereo si chiamerà Lyse-Rose, anche
se si scoprissero prove irrefutabili a dimostrazione del contrario. È Lyse-Rose
la sopravvissuta, è già scritto, è così. Non sono un nemico, signor Vitral, non
ero obbligato a venire. Sono qui solo per darvi qualche opportunità, nel modo
in cui posso farlo.»
Marc urlava tra le braccia di Nicole.
«Fuori di qui!»
De Carville prese la valigetta e si diresse verso la porta. «Grazie, signor
Vitral. Se non altro ho la coscienza a posto... e non mi è costato neanche un
centesimo!»
Uscì.
Nicole Vitral strinse forte il piccolo Marc, piangendo tra i suoi capelli. Lei
piangeva perché sapeva che de Carville non mentiva. Tutto quello che aveva
detto era vero. I Vitral conoscevano gli scherzi del destino, ne erano stati
spesso vittime. Con fierezza. Era consapevole che non avevano nessuna
possibilità di vincere. Pierre Vitral abbracciò il salotto con lo sguardo.
Rimase per un istante a fissare il televisore muto. Pensò che in quel momento
la sua schiena non lo faceva soffrire, che stava male per altre ragioni; che i
dolori non si sommano ma si sovrappongono e questa è una grande fortuna.
Pierre osservò un’ultima volta il piccolo schermo e alla fine un guizzo di
determinazione si impossessò del suo sguardo. «No, signor de Carville»
borbottò, quasi tra sé e sé. «Lei non vincerà.»
Se posso confidarvi la mia analisi, a freddo, anni dopo, secondo me de
Carville commise un errore grossolano quella mattina: scatenare la collera dei
Vitral. Se non l’avesse fatto, probabilmente avrebbe portato a casa la
sentenza in modo del tutto discreto. I Vitral avrebbero gridato allo scandalo
nell’indifferenza generale.

La Mercedes non aveva ancora lasciato l’isola del Pollet quando Pierre Vitral
tirò fuori un giornale da un ripiano pieno zeppo dell’armadio.
«Cosa facciamo?» chiese sua moglie.
«Ci batteremo... Lo distruggeremo...»
«E come? L’hai sentito, ha ragione...»
«No, no, Nicole. Emilie ha ancora una possibilità. De Carville ha
dimenticato un dettaglio. Il suo discorso era vero prima, prima di Libellula,
prima che Pascal e Stéphanie volassero in cielo, ma adesso non più. Anche
noi, se vogliamo, siamo importanti, Nicole! La gente si interessa alla nostra
storia. Parlano di noi sui giornali, alla radio...» Si voltò verso l’angolo della
stanza. «Anche in televisione parlano di noi. De Carville evidentemente non
guarda la TV , non lo sa. Oggi i mezzi d’informazione sono importanti almeno
quanto i soldi.»
«Che cosa... che cosa intendi fare?»
Pierre Vitral sottolineò un numero di telefono sul giornale. «Comincerò
con “L’Est Républicain”. Sono quelli che conoscono meglio il caso. Nicole,
ti ricordi quella giornalista che si occupa della cronaca?»
«Come no! Giusto cinque righe la settimana scorsa!»
«Appunto, a maggior ragione. Mi cerchi come si chiama?»
Nicole Vitral mise Marc su una sedia, proprio davanti al televisore, poi da
sotto il tavolo del salotto estrasse un raccoglitore in cui conservava
meticolosamente tutti gli articoli di giornale che parlavano della catastrofe del
Mont Terrible. Impiegò solo qualche secondo. «Lucile Moraud!»
«Okay. Non abbiamo niente da perdere. Staremo a vedere...»
Pierre prese il telefono e compose il numero del centralino del giornale.
«Parlo con “L’Est Républicain”? Buongiorno, sono Pierre Vitral, il nonno
della bambina miracolata della catastrofe del Mont Terrible... Sì, Libellula...
Vorrei parlare con una delle vostre giornaliste, Lucile Moraud. Ho delle
informazioni sul caso, cose importanti...»
Pierre sentì immediatamente che all’altro capo del telefono si davano da
fare. Meno di un minuto dopo una voce di donna incredibilmente profonda e
un po’ ansimante gli ghiacciò la spina dorsale.
«Pierre Vitral? Sono Lucile Moraud. Mi dicono che ha delle novità. Sul
serio?»
«Léonce de Carville è appena uscito da casa mia. Mi ha offerto
cinquecentomila franchi per chiuderla qui.»
I tre secondi di silenzio che seguirono gli sembrarono interminabili. La
voce roca, da fumatrice, della giornalista ruppe di nuovo il silenzio facendolo
sussultare. «Ha dei testimoni?»
«Tutto il quartiere...»
«Oddio... Non si muova, non parli con nessun altro. Ci organizziamo e le
mandiamo qualcuno!»
11

2 ottobre 1998, ore 10.00


L’orologio a pendolo segnava le dieci spaccate.
Marc aveva regolato il ritmo di lettura su quello dei minuti che
scorrevano, un occhio sul diario e l’altro sul quadrante.
Richiuse il quaderno verde e lo infilò tra i raccoglitori nel suo Eastpack,
poi si diresse verso il bancone del Lénine con un sorriso soddisfatto. Mariam
era di spalle, occupata a sciacquare bicchieri. Marc puntò il dito sul banco,
come per suonare un campanello. «Driiin!» fece con voce stridula. «Ci
siamo!»
Mariam si girò, si asciugò con calma le mani con uno strofinaccio e lo
rimise a posto, ben piegato.
«Ci siamo!» insistette Marc.
«Va bene.» Mariam alzò gli occhi verso il pendolo. «Be’, non perdi
tempo. Non dovevi proprio essere il tipo che dormiva la notte di Natale...»
«No, non direi proprio. Dài, sbrigati, Mariam. Hai sentito Lylie prima: ho
lezione.»
Le pupille di Mariam scintillarono. «Calma, calma ragazzino! Va be’,
eccolo qui, il tuo regalo!»
Aprì il registratore di cassa, afferrò il minuscolo pacchetto e lo tese a
Marc, che se ne impossessò avidamente e fece per voltarsi verso la porta del
Lénine.
«Non lo apri adesso?»
«No. Pensa se fosse qualcosa di intimo... un gadget erotico... un paio di
mutandine...»
«Non sto scherzando, Marc.»
«Perché vuoi che lo apra davanti a te?»
«Perché immagino quello che c’è nel pacchetto, furbone. Per poterti
raccogliere dal pavimento quando cadrai.»
Marc la fissò sbigottito. «Tu sai cosa c’è nel pacchetto?»
«Sì, grosso modo. C’è sempre la stessa cosa quando...»
Un cliente, visibilmente di fretta, scalpitava dietro Marc, scrutando con
impazienza i pacchetti di Marlboro.
«Quando cosa?»
Mariam sospirò. «... quando una se la svigna un’ora prima, fessacchiotto,
mollando il ragazzo da solo su una sedia nel mio bar!»
Marc incassò il colpo. Pensò per un attimo all’anello di zaffiro al dito di
Lylie. Alla croce tuareg che non si era messa al collo. Riuscì ad alzare le
spalle, con aria indifferente. «A domani, Mariam. Stessa ora, stesso tavolo.
Vicino alla finestra. Due posti, eh?» Afferrò il pacchetto con una mano,
sforzandosi di controllare il tremito, e uscì.

Porgendo tre pacchetti di sigarette al suo cliente, Mariam guardò Marc


allontanarsi. Aveva parlato troppo questa volta. Non era poi così sicura di se
stessa... Marc ed Emilie formavano una coppia curiosa, strana, che non
somigliava a nessun’altra. Ma di una cosa era certa: che nelle ore successive
lui avrebbe determinato il proprio destino, per pochissimo, una scelta giusta o
sbagliata.
Marc scomparve sul grande piazzale della Paris VIII, come se il suo
cappotto grigio si fosse fuso con l’asfalto. Mariam si lasciò distrarre un
attimo dall’onda ininterrotta dei passanti.
Marc senza dubbio se n’era andato forte delle proprie certezze. Tuttavia,
pensava Mariam, un unico dettaglio, un granello di sabbia, poteva cambiare
tutto, poteva stravolgere le sue convinzioni più intime; tutta la sua vita.
Il battito d’ali di una libellula.

Marc si allontanò rapidamente dal Lénine risalendo avenue de Stalingrad, un


po’ a caso, diretto verso lo stadio Delaune. Il flusso dei lavoratori mattutini
frettolosi si andava diradando. Ormai a quell’ora sul marciapiede si
incrociavano più che altro anziani e madri di famiglia circondate da bambini
e da sacchetti di plastica attaccati al passeggino. Procedette lungo il viale
ancora per una cinquantina di metri, dopodiché si ritrovò quasi da solo. Con
le mani tremanti, strappò la carta regalo argentata e la infilò con noncuranza
nella tasca dei jeans. Trovò una scatoletta di cartone. L’involucro cedette
sotto le sue dita nervose.
L’oggetto gli cadde nel palmo della mano.
Marc titubò.
Per qualche istante le gambe si rifiutarono di reggerlo. Indietreggiò di due
metri, come un burattino senza fili. Con la schiena urtò il metallo freddo di
un lampione. Espirò, lentamente, per ritrovare l’equilibrio e prendere fiato.
Non andare nel panico, fare con calma, riassumere il controllo.
Anche se quel tratto di strada era deserto, bastava che gridasse e qualcuno
lo avrebbe sentito, sarebbe venuto. Doveva pensare con lucidità.
Suo malgrado, il respiro accelerava, la gola si chiudeva... Sempre gli stessi
sintomi, da due anni: la sua agorafobia.
Respirare pian piano, ritrovare la calma.
L’agorafobia, contrariamente a quanto molti credono, non è il timore degli
spazi aperti o della folla. È semplicemente la paura di non poter essere
soccorsi... la paura di avere paura, per così dire. Logicamente un panico di
questo tipo si manifesta in luoghi in cui ci si sente isolati – un deserto, un
bosco, una montagna, l’oceano –, ma anche in mezzo alla folla: in un’aula,
allo stadio, in una strada zeppa di gente oppure, come in quel caso, in una
strada vuota.
Con il tempo, Marc ci aveva fatto l’abitudine, sapeva come comportarsi
quando la crisi non era acuta. Le emergenze erano rare ultimamente. Riusciva
a seguire le lezioni in aule gremite, a prendere il metrò, ad andare ai
concerti...
Espirò.
A poco a poco il respiro stava riprendendo un ritmo regolare. Restò
appoggiato al lampione, anche se il palo di acciaio gli torturava la schiena.
Abbassò gli occhi e si guardò il palmo.
Aveva tra le mani un giocattolo in miniatura.
Un aereo.
Un modellino. La copia esatta di un Airbus A300, di ferro, abbastanza
pesante, color bianco latte, a eccezione della coda blu, bianca e rossa. Un
giocattolino, come se ne trovano a centinaia sulle mensole delle camere dei
maschietti. La mano di Marc, ancora tremante, si chiuse sulla carlinga fredda.
Cosa significava?
Uno scherzo? Un regalo morboso per accompagnare la lettura del
quaderno di Grand-Duc?
Ridicolo...
Marc doveva riflettere. C’era solo quel giocattolo?
Rovistò nella tasca dei jeans e lisciò per bene la carta regalo. Si maledisse
per averla strappata precipitosamente quando trovò un foglietto bianco,
scritto a mano. Riconobbe subito la grafia di Lylie. Si appoggiò meglio con la
schiena al palo del lampione e lesse.

Marc,
devo partire. Non prendertela, me lo ero sempre ripromesso. Partire a diciotto anni.
Andare lontano, andare via... in India, in Africa, sulle Ande... o in Turchia, perché no?
Non preoccuparti, non temere, sono abituata a volare, giusto? Sono forte.
Sopravvivrò. Ancora una volta.
Se te ne avessi parlato, non saresti stato d’accordo. Ma se ci rifletterai con calma, allora
anche tu la penserai come me. Non possiamo continuare così, nel dubbio. Per questo,
Marc, devo allontanarmi. Da te. Devo riflettere. Tagliare i rami secchi, anche...
Marc, non cercare di rintracciarmi, di chiamarmi, non fare niente. Ho bisogno di spazio
e di un po’ di tempo.
Ne sono certa.
Un giorno sapremo chi siamo, l’una e l’altro; l’una per l’altro.
Abbi cura di te.
Emilie

Marc sentì il respiro accelerare di nuovo. Si sforzò di allontanare i pensieri


che si accalcavano nella sua testa.
Fare. Agire.
Fece un passo, aprì l’Eastpack e ci infilò l’aereo in miniatura, la lettera e la
carta. Espirò un istante, poi prese il cellulare. Lavorando per France Telecom
aveva potuto avere, per sé e per Lylie, telefoni ottimi.
Senza riflettere, fece scorrere i nomi in rubrica, si fermò su “Lylie” e
premette il tasto verde. Lo schermo si illuminò, gli squilli gli parvero
interminabili.
Quando chiamava Lylie, capitava molto spesso che lei non rispondesse. La
segreteria scattava dopo il settimo squillo. Contò mentalmente. Al quarto
aveva già perso le speranze.
“Ciao, sono Emilie. Lasciate un messaggio, vi richiamerò il prima
possibile. A presto. Kiss.”
Marc deglutì. La voce di Lylie gli fece venire le lacrime agli occhi.
«Lylie, sono Marc. Chiamami, ti prego. Dovunque tu sia. Per favore. Un
bacio. Ci tengo a te. Più di tutto. Telefonami. Torna.»
Riagganciò. Camminò lentamente sul marciapiede di avenue de Stalingrad
ripetendosi le parole di Lylie.
“Andare lontano...”
“Riflettere...”
“Tagliare i rami secchi...”
Cosa voleva dire?
Marc non era stupido: i diciotto anni di Lylie erano solo un pretesto; tutta
quella messinscena era collegata al quaderno di Grand-Duc, agli appunti che
lei aveva letto tutta la notte. Che cosa ci aveva trovato? Cosa aveva scoperto?
“Sapere chi siamo, l’una e l’altro; l’una per l’altro...”
No, Marc non condivideva i dubbi di Lylie. Nulla al mondo avrebbe
potuto intaccare la sua intima convinzione.
Arrivò in place du Général-Leclerc. I bus si incrociavano in file strette da
un lato e dall’altro di rue Gabriel-Péri e di avenue du Colonel-Fabien.
Cosa poteva fare per ritrovare Lylie? Seguire il suo stesso percorso?
Leggere il quaderno di Grand-Duc fino all’ultima pagina per scoprire quello
che aveva scoperto lei?
Marc imprecò. Rimase immobile davanti al viavai degli autobus sulla
piazza. Gli sembrava assurdo mettersi seduto a leggere quel centinaio di
pagine nell’ipotetica speranza di scoprire una pista. Prese di nuovo il
cellulare, fece scorrere i nomi e si fermò alla L.
Lavoro.
Si allontanò un po’ dalla piazza, dove il rumore del traffico era assordante.
«Pronto? Jennifer? Perfetto, sono Marc. Scusami, sono di fretta. Ho
bisogno di un’informazione personale, il numero di telefono e l’indirizzo di
un tizio a Parigi... Puoi scriverti il nome? Grand-Duc. Crédule Grand-Duc...
Sì, lo so, molto originale come nome. Almeno siamo sicuri che non ce ne
saranno due...»
Jennifer, la collega di France Telecom, aveva la sua stessa età, studiava
scienze linguistiche e Marc sospettava che si sarebbe potuta innamorare di lui
senza troppe difficoltà. Con il ricevitore sempre incollato all’orecchio, alzò
gli occhi, osservò per qualche istante nel cielo bianco le tre campane in cima
alla basilica di Saint-Denis, oltre gli edifici, qualche strada più in là.
«Sì?... Davvero, ce l’hai? Fantastico!»
Marc scribacchiò i dati di Grand-Duc. Disse a Jennifer un “grazie”
precipitoso prima di riagganciare e compose subito il numero di telefono del
detective privato. Dopo numerosi squilli scattò la segreteria. Marc imprecò
tra sé. Pazienza, doveva giocare a carte scoperte, senza perdere tempo.
«Grand-Duc? Sono Marc Vitral. Devo assolutamente parlarle o, meglio,
vederla. Il prima possibile. Riguarda Lylie. E anche il diario che ha scritto lei.
Ce l’ho io, me l’ha dato Lylie, lo sto leggendo. Ascolti, se sente questo
messaggio, mi richiami sul cellulare. Corro da lei, arriverò fra tre quarti d’ora
al massimo...»
Marc infilò il telefono in tasca, determinato. Tornò sui propri passi e risalì
rapidamente avenue de Stalingrad diretto al capolinea della linea 13. Grand-
Duc abitava in rue de la Butte-aux-Cailles numero 21. Marc ripercorse
mentalmente le principali linee del metrò. Dopo due anni trascorsi a girare da
solo per le strade di Parigi aveva imparato a orientarsi, senza fare più ricorso
alle cartine nelle stazioni. La linea 13, direzione Châtillon-Montrouge, lo
avrebbe riportato in centro: Saint-Lazare, Champs-Elysées, Invalides,
Montparnasse... Rue de la Butte-aux-Cailles doveva essere sulla linea 6,
direzione Nation, tra Glacière e place d’Italie. Quindi avrebbe dovuto
cambiare a Montparnasse. In totale una ventina di fermate, forse un po’ di
più.
Qualche minuto dopo Marc si trovava di nuovo davanti all’università di
Paris VIII, in rue Lénine. Lanciò un’occhiata al bar di Mariam, da lontano,
poi si infilò nel metrò. Nel corridoio, subito dopo la prima curva, un po’
protetto dal vento, un tizio dormiva su un telo sporco accanto al suo cane, un
bastardino magro e giallo. L’uomo non chiedeva nemmeno l’elemosina. Marc
lasciò due franchi sulla coperta, quasi senza rallentare il passo. Il cane girò la
testa e lo guardò andar via con aria sorpresa. Erano due anni che Marc
frequentava il metrò parigino e lasciava una moneta quasi ogni volta che
incrociava un barbone; aveva mantenuto quest’abitudine da Dieppe, dove sua
nonna dava sempre qualcosa ai mendicanti per strada. Lei gli aveva
insegnato, anno dopo anno, valori come la solidarietà, superare il timore dei
poveri, superare la vergogna di dare qualcosa; tutto ciò faceva ormai parte
della sua morale, a Dieppe come a Parigi o in qualsiasi altra città del mondo
in cui sarebbe andato. Gli costava una fortuna e Lylie lo prendeva
gentilmente in giro: nessun parigino lo faceva. Allora voleva dire che non era
parigino, rispondeva lui.

Non c’era quasi nessuno sulla banchina della linea che andava da Saint-Denis
a Parigi. “Che fortuna” pensò Marc. Tre quarti d’ora di metrò, venti fermate...
Avrebbe potuto continuare a leggere il quaderno di Grand-Duc, cercare di
capire a sua volta.
Seguire i passi di Lylie.
Quattro parole ossessionavano Marc: “Tagliare i rami secchi”.
Cosa voleva dire Lylie?
Il metrò entrò in stazione. Marc salì sulla vettura e tirò fuori il quaderno
verde.
Un’idea folle, persistente, si era insediata nella sua mente. E se
quell’aeroplanino fosse stato solo un inganno, una messinscena per
impressionarlo? Lylie non gli aveva detto tutto. Quell’anello con lo zaffiro
che portava, per esempio, da dove veniva? C’erano troppe zone d’ombra.
E se invece Lylie non se ne fosse andata, lontano, altrove? E se fosse
rimasta lì, nei pressi, con in mente tutt’altro scopo?
Allontanarlo.
Allontanarlo perché quello che voleva fare era pericoloso.
Allontanarlo perché lui non sarebbe stato d’accordo.
Tagliare i rami secchi...
E se Lylie avesse scoperto la verità e stesse soltanto cercando di
vendicarsi?
12

Diario di Crédule Grand-Duc


Il vantaggio, con i giornalisti della stampa regionale, è che raramente
riescono a fare uno scoop prima di quelli della capitale. Anche quando i fatti
di cronaca si svolgono sotto il loro naso, nel giardino di casa, i media parigini
ricevono comunque la notizia prima di loro, arrivano per primi e pubblicano
le interviste dei protagonisti dell’evento già nell’edizione della sera. Perciò
quando la stampa regionale ha un’informazione che può interessare tutta la
Francia non se la lascia di certo sfuggire. Anzi, s’ingegna al massimo per
farla fruttare, per spremerne bene il succo, fino all’ultima goccia.
Un quarto d’ora dopo la telefonata di Pierre, un giornalista
dell’“Informations Dieppoises” si presentò a casa Vitral, in rue Pocholle.
Lucile Moraud era stata velocissima. Il settimanale locale apparteneva allo
stesso gruppo de “L’Est Républicain”. Il giornalista di Dieppe aveva la
missione di raccogliere le prime informazioni, le prime immagini, e di faxare
poi il resto in sede, a Nancy.
Lucile Moraud negoziò il proprio scoop con le televisioni regionali, FR3
Franche-Comté e FR3 Haute-Normandie. La strategia era calcolata al
millimetro per vendere il massimo numero di copie il giorno dopo: bisognava
sensibilizzare l’opinione pubblica, fornire qualche dettaglio in televisione, la
sera prima, in modo che alla gente venisse voglia di leggere l’intervista
esclusiva dei Vitral, integrale, nella seconda pagina de “L’Est Républicain”. I
brevi servizi delle emittenti regionali furono ripresi la sera stessa dai canali
nazionali. Un’équipe di TF1 arrivò perfino a fermare Léonce de Carville
davanti a casa sua, a Coupvray, prima che i suoi avvocati avessero avuto il
tempo di istruirlo a tacere. Si occupò lui stesso di mettere altra carne sul
fuoco mediatico.
No, non negava.
Sì, aveva offerto del denaro ai Vitral.
Sì, era assolutamente convinto che la superstite fosse sua nipote, Lyse-
Rose, e aveva semplicemente agito per generosità nei confronti dei Vitral, o
per pietà; le due cose per lui sembravano coincidere. Dio, naturalmente,
aveva risparmiato la sua famiglia. Non poteva essere altrimenti.

L’indomani, il 18 febbraio 1981, aggiunse anche, in diretta su RTL , nel


notiziario delle dieci: «In caso di dubbio, se non si conosce la verità con
certezza, il giudice deve pensare solo e unicamente all’interesse della
bambina. Se fosse possibile, sarebbe la piccola a dover scegliere. E, se così
fosse, chi può dubitare che la neonata sceglierebbe il futuro che le offro io
piuttosto di quello dei Vitral?».

L’ho imparato lavorando su questo caso: la macchina mediatica funziona


come un’enorme palla di neve lanciata su un pendio che più nessuno è in
grado di gestire. Se vi ricordate ancora oggi il caso Libellula, probabilmente
avrete ben presente un momento preciso: le poche settimane che precedettero
la sentenza. Tra febbraio e marzo del 1981, fatta eccezione per la campagna
presidenziale naturalmente, non si parlava d’altro. La Francia era divisa in
due. In sostanza, volendo essere caricaturali, i ricchi contro i poveri. Due
campi impari, quindi. Se si tagliasse la Francia in due in base alla ricchezza
media, ci sarebbe molta più gente nella metà inferiore. La grande
maggioranza dei francesi difese dunque a spada tratta la famiglia Vitral, che
intensificò le proprie apparizioni in televisione, alla radio e sui giornali.
Provate a immaginare una telenovela di cui non si conosce la fine!
De Carville dovette accollarsi, suo malgrado, il ruolo del cattivo. La serie
televisiva Dallas stava cominciando a fare furore in Francia. Fisicamente,
Léonce de Carville non aveva nulla di J.R. Ewing, tuttavia ciò non impedì di
creare l’analogia. L’occasione era troppo ghiotta. E, come in Dallas, J.R. de
Carville poteva avere la meglio.
Suspense. Emozione.
Forse all’epoca avevate scelto anche voi da che parte stare?
Io no. A quel tempo me ne fregavo del caso Libellula. Tutti i dettagli li ho
appresi in seguito, nel corso della mia lunga e minuziosa indagine. Nel
febbraio dell’81 lavoravo sempre alle mie faccende di casinò; dalla costa
basca ero passato alla Costa Azzurra e alla Riviera ligure. Appostamenti e
ancora appostamenti. Un lavoro soporifero che rendeva sempre meno. Mi
ricordo comunque di aver intravisto una parte di una trasmissione, una sorta
di reality ante litteram, una sera, abbastanza tardi, mentre mi aggiravo nella
stanza di un hotel. L’ospite era Nicole Vitral. Era lei che, a poco a poco,
aveva preso in mano i rapporti con i media. Pierre Vitral era stato sopraffatto
da tempo dalla macchina che aveva messo in moto. Schivava le telecamere.
Se avesse potuto, avrebbe forse fermato l’ingranaggio, avrebbe lasciato fare
alla giustizia, anche a rischio di perdere tutto.
All’epoca Nicole Vitral doveva avere più o meno quarantasette anni. Era
una nonna giovane. Non era particolarmente bella, nel senso classico della
parola, ma era indubbiamente quello che i media chiamano – anche questo
l’ho imparato allora – “una che fa audience”. Sprigionava una sorta di energia
comunicativa; la sua causa era una crociata, e lei la santa, la martire che
predicava con una franchezza e un accento normanno inimitabili. Era sincera,
semplice, commovente, buffa, e tutto questo bucava meravigliosamente lo
schermo. Il suo viso scavato, segnato dagli anni di vento e iodio della
Manica, non era particolarmente adatto ai primi piani. A quarantasette anni
era già abbastanza robusta, niente a che vedere con una top model...
In ogni caso quella sera, da solo davanti al televisore, senza sapere nulla
del caso o della crociata, quella donna che non avevo mai visto mi turbò.
Fisicamente, intendo.
Non dovevo essere l’unico a provare quella sensazione. Sarà stato per quei
suoi occhi celesti, scintillanti, che si prendevano gioco della vita e di tutte le
sue disgrazie, certo... Ma a provocare turbamento era soprattutto il suo seno
generoso, che Nicole valorizzava con naturalezza indossando abiti scollati o
camicette aperte. Probabilmente questo doveva incrementare le vendite sul
lungomare di Dieppe. Inoltre si metteva quasi sempre anche un golfino o una
giacca che passava tutto il tempo a chiudersi sul davanti per nascondere le
forme. L’ho osservata spesso da allora: quando qualcuno con cui stava
parlando lasciava cadere lo sguardo, anche solo per un attimo, sul suo
décolleté, lei quasi istantaneamente, senza interrompere la conversazione e
senza mostrarsi imbarazzata, con assoluta nonchalance si chiudeva il golfino
con la mano, come se fosse un tic, un riflesso.
Un gesto strano, conturbante, che ho sempre trovato irresistibile.
L’effetto era amplificato in televisione: il sipario della giacca si apriva e si
chiudeva sul suo seno a piacimento del conduttore, a mano a mano sempre
più imbarazzato. E quando lui si girava per parlare con un altro ospite, il
telespettatore aveva il privilegio quasi divino di poter ammirare il generoso
décolleté su cui il cameraman zumava con pudore, producendo un effetto
suggestivo, senza che Nicole ne fosse consapevole e si affrettasse perciò a
chiudersi la giacca.
Nel febbraio del 1981 Nicole Vitral, forse senza nemmeno accorgersene,
con il suo fascino atipico turbò la Francia. Quella sera riuscì a turbare anche
me, che al tempo nemmeno la conoscevo, dal momento che l’avrei incontrata
solo mesi dopo. Ha continuato a turbarmi in questi diciotto anni e mi turba
ancora oggi, nonostante l’età. Siamo entrambi sui sessantacinque, mese più
mese meno.

Come avrete capito, la causa dei Vitral e della piccola Emilie divenne ben
presto assolutamente difendibile. I migliori avvocati di Francia, almeno quelli
che non erano già al servizio dei de Carville, proposero la propria assistenza
alla famiglia di Dieppe. A titolo gratuito, va da sé! La pubblicità attorno al
caso aveva raggiunto il top, l’opinione pubblica era favorevole ai Vitral...
Una vera manna! I professionisti all’opera, da entrambe le parti, erano molto
competenti.
La prima mossa dei nuovi legali dei Vitral fu condurre, tra febbraio e
marzo del 1981, una vera e propria guerriglia contro il giudice Le Drian.
Sospettavano che fosse parziale ed erano convinti che alla fine avrebbe dato
ragione ai de Carville. Il giudice e i de Carville appartenevano allo stesso
mondo: Lion Club, Rotary, massoneria, cene all’ambasciata... Se ne fece un
gran parlare, e non erano solo semplici insinuazioni... La cancelleria finì per
cedere. Le Drian rassegnò le dimissioni il 1° aprile e al suo posto fu nominato
un nuovo giudice, un’eminenza del tribunale di Strasburgo, un tale Weber.
Era un tipo basso di statura, equilibrato, con gli occhiali, una sorta di incrocio
tra Eliot Ness e Woody Allen. Mai nessuno in seguito ne avrebbe messo in
dubbio l’integrità, neppure i de Carville.
L’audizione dei primi testimoni iniziò il 4 aprile. Comunque andassero le
cose, un mese dopo ci sarebbe stato il verdetto. Il giudice avrebbe preso una
decisione. Le parti si erano dette entrambe contrarie a soluzioni di
compromesso, quali per esempio l’affidamento congiunto, che avrebbero
potuto creare un mostro con due nomi. Lylie per tutta la vita.
No, il giudice Weber doveva decidere su una questione di vita o di morte:
chi era la bambina sopravvissuta e chi quella perita nella tragedia. Lyse-Rose
de Carville o Emilie Vitral? Da allora mi sono posto spesso la domanda se
altri giudici abbiano mai avuto un simile potere: uccidere un bambino perché
un altro potesse vivere. Essere al tempo stesso il salvatore e il boia. Una
famiglia avrebbe vinto, l’altra avrebbe perso ogni cosa. Era meglio così, ne
convenivano tutti.
Decidere.
Certo. Ma su che base?
Da allora ho riletto decine di volte i documenti dell’istruttoria, le centinaia
di pagine che il giudice Weber aveva tra le mani; ho ascoltato ripetutamente
le decine di ore di audizione del processo a cui, anni dopo, grazie ai de
Carville, ho potuto avere accesso...
Nient’altro che chiacchiere! Perizie e controperizie che significavano tutto
e il contrario di tutto. Le udienze si ridussero a litigi fra periti convocati dalle
due famiglie, tutti di parte. Gli esperti imparziali non avevano nulla da dire.
Dopo alcuni giorni si era ancora allo stesso punto: la bambina aveva gli occhi
celesti, come i Vitral. I Vitral avevano un piccolo vantaggio, ma gli avvocati
dei de Carville scovarono all’ultimo minuto una lontana cugina con gli occhi
chiari... Guarda un po’!
Il giudice Weber doveva avere una monetina in tasca, che soppesava in
segreto durante le interminabili audizioni.
I legali dei de Carville investirono tutte le loro energie per far dimenticare
le disastrose apparizioni pubbliche del loro cliente, per costruirgli una nuova
immagine e portare i media dalla sua parte. Non era un risultato facile da
ottenere, tuttavia almeno parzialmente ci riuscirono. Si scagliarono contro
quello che chiamavano “il clan Vitral”, che comprendeva la famiglia, il
quartiere e la regione.
Di fronte a un clan, di fronte a un’opinione pubblica ostile, Léonce de
Carville era alla fin fine da solo con la sua dignità, i suoi principi e la sua
etica. Gli avvocati riuscirono in qualche modo a farlo passare per una vittima
sacrificale, il capro espiatorio alla mercé del giudizio popolare; gli fecero
incarnare il ruolo dell’uomo duro ma onesto, che si è battuto tutta la vita per
avere successo ed è stato deprivato del proprio diritto alla tranquillità. Del
diritto di essere nonno. Come il “nonnino” di Marcel Pagnol in Jean de
Florette, che commette gli errori più tremendi per tutta la vita ma alla fine,
quando il corso degli eventi si volge in suo sfavore, fa commuovere il lettore
fino alle lacrime.
Era quello l’atteggiamento che doveva avere Léonce de Carville davanti ai
media: la quercia spezzata! Il dubbio, inevitabilmente, si insinuò nella gente,
nei giornalisti: e se, alla fine, fosse stato de Carville a dire la verità? E se tutti
si fossero lasciati ingannare dalle acrobazie mediatiche dei Vitral, dalla
miseria che ostentavano così apertamente, dal seno generoso di Nicole...?
Gli avvocati dei de Carville ci sapevano fare davvero.
Il caso sembrava si stesse chiudendo in pareggio e, nonostante l’urgenza,
ci si apprestava a giocare i supplementari. Si stava profilando una serie
interminabile di rigori.
Fu proprio l’ultimo giorno di audizione che entrò in gioco il legale più
giovane dei Vitral, l’avvocato Leguerne. Da allora, posso confermarvelo, è
diventato piuttosto noto sulla piazza parigina. Ha uno studio su tre piani in
rue Saint-Honoré. Ma all’epoca, nel 1981, era un perfetto sconosciuto.
Faceva parte della schiera di avvocati che difendevano pro bono la causa dei
Vitral. Il che dimostra che c’è una morale: difendere la vedova e l’orfanella
insolventi poteva rendere molto bene.
Leguerne aveva preparato con estrema cura i suoi effetti speciali. Chiese al
giudice Weber l’autorizzazione a prendere la parola dopo tutti gli altri, come
se si preparasse a estrarre dal cilindro, all’ultimo minuto, una prova decisiva.
13

2 ottobre 1998, ore 10.47


Saint-Lazare
Un brusio improvviso indusse Marc a girarsi. Le porte dello scompartimento
si aprirono e la folla, già compatta sulla banchina, tentò di infilarsi nel
vagone, fino a quel momento quasi vuoto. Non era la calca del mattino o
della sera, ma con tutta quella gente in piedi Marc ebbe l’istinto di alzarsi. Lo
strapuntino sbatté contro la parete di ferro. Lui indietreggiò fino all’angolo,
incollato al vetro. Non aveva mollato il quaderno. Si puntellò saldamente, i
piedi un po’ divaricati per mantenersi in equilibrio. Un tizio stringeva una
mano sul palo di acciaio proprio sotto il suo naso mentre con l’altra reggeva
un thriller in edizione tascabile che leggeva avidamente. Marc si girò un po’
per poter continuare a sua volta la lettura. Con le vibrazioni del treno la
scrittura minuta e stretta di Grand-Duc ballava sotto i suoi occhi, ma era
comunque in grado di decifrarla.

Diario di Crédule Grand-Duc


L’avvocato Leguerne salì alla sbarra. C’erano sì e no trenta persone nell’aula,
quel 22 aprile 1981: le due famiglie, i parenti, gli avvocati, diversi testimoni e
alcuni poliziotti.
Leguerne si rivolse innanzitutto ai poliziotti. «Signori, la miracolata aveva
qualche gioiello addosso quando è stata ritrovata? Una collana, per esempio,
un ciondolo o un braccialetto?»
Sguardi allibiti degli inquirenti. Il commissario Vatelier, seduto in prima
fila, tossì dietro la barba. No, era ovvio! La bambina non portava certo al
polso un braccialetto con scritto “Lyse-Rose” o “Emilie”! Dove voleva
arrivare quel pivello presuntuoso?
«Bene» continuò Leguerne. «Signora Vitral, la piccola Emilie portava un
gioiello? Una catenina o un braccialetto?»
«No» rispose Nicole Vitral.
«Ne è sicura?»
«Sì...» Nicole Vitral trattenne un singhiozzo e aggiunse: «Avevamo
intenzione di regalare un braccialettino a Emilie per il battesimo, al ritorno
dalla Turchia. L’avevamo già ordinato, da Lecerf a Offranville, ma non lo
potrà mai mettere». Quella volta non riuscì a trattenere le lacrime. Si chinò,
frugò per alcuni istanti nella borsa e ne estrasse una custodia rossa dalla
forma allungata che piazzò sotto il naso del giudice Weber. L’aprì e si mise
sul palmo della mano un minuscolo braccialetto d’argento.
Tanto fragile quanto inutile.
Un brivido di emozione attraversò tutto il pubblico, compreso quello a
favore dei de Carville.
Il nome era inciso in caratteri corsivi un po’ infantili, allegri, e c’era anche
la data di nascita: “30 settembre 1980”.

L’ho scoperto in seguito, quando Nicole Vitral me l’ha confessato: quella


mossa era stata preparata. Il battesimo era previsto per il mese successivo,
però non era stato ordinato nessun braccialetto. Una messinscena, rischiosa
ma efficace, per preparare il terreno prima della stoccata finale.
Il giovane avvocato si voltò allora verso Léonce de Carville. «Signor de
Carville, Lyse-Rose possedeva un gioiello? Un braccialetto per esempio?»
L’uomo guardò preoccupato i suoi avvocati.
«Per cortesia, signor de Carville, la prego di rispondere all’avvocato
Leguerne» lo incalzò il giudice Weber.
De Carville stava per prendere la parola, ma Leguerne, più rapido, non
gliene lasciò il tempo. Estrasse trionfante da un grosso faldone rosso la
fotocopia di una ricevuta di Philippe Tournaire, un gioielliere di place
Vendôme.
Il giudice Weber confermò che era la ricevuta d’acquisto di un braccialetto
d’oro massiccio. Specificava che il nome, “Lyse-Rose”, e la data di nascita,
“27 settembre 1980”, erano stati incisi a mano, cesellati. La ricevuta era del 2
ottobre 1980, ovvero meno di una settimana dopo la nascita di Lyse-Rose.
Questo non provava assolutamente nulla, ma per la prima volta dall’inizio
delle udienze de Carville era sulla difensiva, senza controargomentazioni
meticolosamente preparate dai suoi avvocati.
«Signor de Carville» continuò Leguerne «Lyse-Rose portava sempre
questo braccialetto?»
«Come faccio a saperlo? L’avevo spedito a mio figlio in Turchia subito
dopo la nascita della bambina. Ma è probabile che glielo mettessero solo in
certe occasioni... Era un gioiello di valore.»
«Lo suppone o ne è sicuro?»
«Lo suppongo...»
«Bene, la ringrazio.» L’avvocato Leguerne estrasse dal faldone rosso
un’altra fotocopia, quella di una cartolina inviata da Ceyhan, in Turchia.
«Signor de Carville, conferma di aver ricevuto questa cartolina da suo figlio,
dalla Turchia, circa un mese dopo la nascita di Lyse-Rose?»
«Dove l’ha trovata?» gridò de Carville.
«Conferma di aver ricevuto questa cartolina?» ripeté l’avvocato,
imperturbabile.
De Carville si arrese. Non aveva scelta, i rami della quercia si stavano
piegando. «Sì, certo...»
«“Caro papà”» cominciò a leggere Leguerne. «Tralascio i dettagli per
arrivare a quello che ci interessa. “Grazie del braccialetto. L’avrete
sicuramente pagato una fortuna. È magnifico e Lyse-Rose non se ne separa
quasi mai. È l’unica cosa che fa di lei una vera francesina qui...”» Leguerne
tacque, trionfante, nello stupore generale.
Non ho mai saputo chi avesse tradito i de Carville, probabilmente un
dipendente. Leguerne doveva avere pagato la cartolina a peso d’oro. Be’,
tutto è relativo, se lo si paragona a un immobile di tre piani in rue Saint-
Honoré!
«Questo non prova nulla!» insorse un avvocato dei de Carville. «È
grottesco! Forse le avevano tolto il braccialetto prima di prendere l’aereo,
forse le è stato strappato dal polso al momento della collisione...»
Leguerne gongolava. «È stato trovato un braccialetto, o un gioiello simile,
vicino all’Airbus, nell’area passata al setaccio centimetro per centimetro?»
Silenzio in aula. Vatelier, con le mani nelle tasche della giacca di pelle, era
rimasto completamente spiazzato da quel giovanotto ambizioso in completo
nero che aveva dato una svolta alla sua inchiesta.
«No, certo che no... Vero, commissario? Sono stati osservati sul polso
della bambina sopravvissuta i segni lasciati da un braccialetto strappato? Un
piccolissimo graffio?» Leguerne fece una pausa studiata. «No, certo che no. I
medici non hanno rilevato niente del genere... Ma proseguiamo. È stato
notato sul polso della bambina un segno più chiaro, come quello lasciato da
un gioiello che si indossa sempre?»
Il tempo sembrava essersi fermato.
«No, certo che no... Vi ringrazio. È tutto.» Leguerne tornò al suo posto.
Gli avvocati dei de Carville ribadirono a gran voce che quel presunto
colpo di scena in realtà non faceva alcuna differenza, che il braccialetto non
significava nulla. Leguerne non ribatté. Sapeva che più gli avvocati della
parte avversa si fossero accaniti a protestare, più avrebbero dato importanza a
quell’elemento trascurabile. Se quel dettaglio era irrilevante, perché de
Carville non ne aveva mai fatto parola?

Col senno di poi, la storia del braccialetto era rilevante né più né meno di
tutto il resto. Solo un dubbio, un dubbio in più... Ma in quella fase del
processo si trasformò in una prova contro i de Carville. Un elemento nuovo
nel caso, ciò che tutti aspettavano dall’inizio dell’inchiesta. Allora, anche se
tirato per i capelli, anche se inconsistente, quel dettaglio era sufficiente a far
pendere l’ago della bilancia.
Il giudice Weber guardò a lungo Léonce de Carville. Il magnate aveva
mentito; per omissione, certo, ma lo aveva comunque fatto. Era stato colto in
flagranza di reato. Non fosse che per questo, in mancanza d’altro, la parte
avversa non aveva forse la ragione dalla sua?
Nel dubbio...

Il braccialetto dei de Carville è stata la mia ossessione per tanti anni. Quando
penso alle energie che ho speso per ritrovarlo, per seguirne le tracce...
Quando penso che per un soffio non l’ho stretto fra le dita, che ci è mancato
talmente poco... Ma, di nuovo, perdonatemi, sto correndo troppo.

La decisione del giudice Weber fu resa nota qualche ora dopo. La miracolata
del Mont Terrible era Emilie Vitral. I suoi nonni, Pierre e Nicole Vitral,
diventavano i tutori legali della piccola, così come lo erano del fratello
maggiore, Marc.
Lyse-Rose de Carville era morta, bruciata viva con i suoi genitori nella
carlinga dell’Airbus 5403 Istanbul-Parigi.
Gli avvocati dei de Carville volevano ricorrere in appello. Fu Léonce de
Carville a opporsi. Il suo ruolo di quercia spezzata, di nonnino, non era più
solo una recita.
I due infarti che lo colpirono l’anno successivo, l’uno a qualche mese di
distanza dall’altro, e lo inchiodarono per il resto dei suoi giorni su una sedia a
rotelle, in uno stato semivegetativo, sembrarono rientrare perfettamente nella
logica delle cose.
14

2 ottobre 1998, ore 10.52


«Nascondi il cadavere di Grand-Duc!» Il tono di Mathilde de Carville non
ammetteva repliche.
Al telefono, Malvina de Carville tentò tuttavia di protestare. «Ma,
nonna...»
«Nascondi il cadavere di Grand-Duc, ti ho detto! Da qualche parte: in un
armadio o sotto un mobile. Dobbiamo guadagnare tempo. Potrebbe venire
qualcuno. Una vicina, la donna delle pulizie, l’amante... Prima o poi
arriveranno anche i poliziotti. Stupida che non sei altro, avrai lasciato
impronte ovunque in casa. Cancellale, hai capito?»
Malvina si morse le labbra. Sua nonna aveva ragione, aveva agito come
un’idiota. Camminava avanti e indietro nel salotto, muovendosi dal cadavere
di Grand-Duc al terrario, nel quale le bestiole erano ormai quasi tutte morte.
Doveva darsi da fare, non poteva trattenersi a lungo. Aveva bisogno di
parlare con sua nonna.
Lui stava per arrivare.
«Nonna, c’è un’altra cosa...»
Mathilde de Carville rimase in silenzio. Con una mano teneva la cornetta e
con l’altra continuava a tagliare la lunga fila di rose. Capì subito, dal tono
della nipote, che era importante. «Di che si tratta, Malvina?»
«Marc Vitral ha chiamato qui da Grand-Duc solo cinque minuti fa. Ha
lasciato un messaggio in segreteria...»
Mathilde de Carville si guardò bene dall’interrompere la nipote. Tagliò un
ramo con un movimento preciso delle cesoie.
«Dice che cerca Grand-Duc... Sarà qui tra mezz’ora. Sta venendo in metrò.
Riguarda Lyse-Rose. E... e... dice che ce l’ha lui il quaderno di Grand-Duc.
Lyse-Rose l’ha letto ieri e gliel’ha dato stamattina...»
Un altro stelo di rosa cadde, reciso alla base. Una pioggia di petali
appassiti si sparpagliò sul vestito nero di Mathilde de Carville. «Una ragione
in più per sbrigarsi, Malvina. Fa’ quello che ti ho detto, cancella tutte le
impronte ed esci di lì.»
«E... e poi, nonna?»
Per la prima volta Mathilde de Carville esitò. Le mascelle delle cesoie
rimasero aperte attorno al gambo. Fino a che punto poteva usare Malvina?
Fino a che punto poteva tenerla sotto controllo senza rischiare una nuova
sbandata? «Resta nei paraggi, Malvina. Marc Vitral non ti conosce.
Nasconditi per strada. Tienilo d’occhio, seguilo. Ma non fare nient’altro,
telefonami non appena lo hai individuato. Hai capito bene? Non fare
nient’altro! E, soprattutto, nascondi il cadavere!»
«Ho... ho capito, nonna.»
Riagganciarono.
Le mascelle di acciaio si richiusero sullo stelo.
Mathilde de Carville conosceva bene l’odio di Malvina per i Vitral e
sapeva anche che sua nipote andava in giro con un Mauser L100. Carico.
Perfettamente funzionante, ne aveva avuto la terribile conferma. Era
ragionevole non cercare d’impedire a ogni costo l’incontro tra Marc Vitral e
Malvina in rue de la Butte-aux-Cailles, davanti alla casa di Grand-Duc?
Ragionevole!
Mathilde de Carville aveva bandito questa parola da tempo.
La cosa più semplice era rimettersi al destino, alla volontà di Dio. Come
sempre.
Sorrise tra sé e sé e continuò a tagliare le rose con stupefacente destrezza.
Le sue lunghe dita possedevano lo speciale dono di posarsi sui gambi, tra le
spine, senza mai pungersi, per poi piegarli con un gesto fermo fino alle lame
taglienti delle cesoie. Mathilde de Carville lavorava rapidamente,
meccanicamente, quasi senza abbassare gli occhi sulle mani, come una sarta
che maneggi l’ago senza neanche guardarlo.
Il suo elegante abito nero si sporcava di terra, fili d’erba e petali, ma lei
non se ne curava. Voltò la testa verso l’immenso parco della Roseraie.
Léonce de Carville era seduto sulla sua sedia a rotelle, in mezzo al prato,
sotto il grande acero, con la testa penzolante di lato. Si trovava a più di trenta
metri da lei, eppure Mathilde lo sentiva russare. Era indecisa se chiamare
Linda, l’infermiera, perché andasse a raddrizzargli la testa, a mettergli un
cuscino dietro il collo, o magari a riportarlo in casa. Non faceva più tanto
caldo.
Alzò le spalle. A che pro... Suo marito era sprofondato in quello stato
vegetativo da quasi diciassette anni. Era riuscito a stento a riprendersi dal
primo infarto, a risalire la china per qualche settimana, ma non aveva potuto
fare niente dopo il secondo, che lo aveva colto durante una riunione del
consiglio d’amministrazione, al settimo piano della loro sede legale, proprio
dietro Bercy. I medici erano riusciti a salvargli la vita, ma il cervello era
rimasto privo di ossigeno troppo a lungo.
Mathilde de Carville continuava a esaminare le sue piante seguendo con
gli occhi, sulla terra bruna, l’ombra della croce che portava al collo.
La volontà di Dio. Ancora una volta.
Dopo la catastrofe del Mont Terrible, suo marito si era voluto occupare di
tutto, come sempre. Lei lo aveva assecondato. Lo aveva lasciato fare. Lui
aveva il potere, la forza, le conoscenze...
E invece si sbagliava! Dopo il decesso del loro unico figlio Alexandre,
Léonce aveva perso la lucidità. Non aveva fatto altro che commettere errori:
la valigetta piena di denaro offerta ai Vitral; il braccialetto, di cui si era
rifiutato di parlare; la povera Malvina, che aveva trascinato ovunque per
settimane perché potesse testimoniare.
Per non parlare del resto, l’inconfessabile.
Sì, Mathilde provava solo disprezzo per quell’invalido. Dopo tutti quegli
anni, c’era un’unica cosa di cui non poteva incolpare il marito: l’incidente
dell’Airbus.
Le dita di Mathilde volavano di gambo in gambo. Le spine delle rose,
minacce irrisorie, non opponevano alcuna resistenza. I rami cadevano gli uni
sugli altri.
E poi il famoso oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan. Mandare per mesi il loro
unico figlio a vivere in Turchia, con la nuora incinta, costretta a partorire
all’estero, era stata una sua idea. Tutto per una chimera! Nel 1998 su quella
maledetta linea non era ancora stato posato nemmeno un tubo.
Léonce de Carville aveva sbagliato tutto.
Mathilde guardò con disgusto le foglie d’acero che cadevano a decine sul
marito – sui capelli, sulle spalle, sulle braccia – accumulandosi sul suo
grembo.
Tagliò l’ultimo ramo e fece qualche passo indietro per contemplare il suo
lavoro.
Le piante di rose erano state potate. Mathilde si ricordava dei consigli di
sua nonna: “Un roseto non si taglia mai troppo. Bisogna accorciare al
massimo le piante, lottare contro il proprio istinto di tenere alte le cesoie;
vanno abbassate, invece, per recidere gli steli dieci centimetri più sotto,
sempre”.
La villa Roseraie risaliva al 1857: l’anno era ancora inciso nel granito,
sopra il portico. Mathilde sapeva che le rose erano state piantate allora e che
da quel giorno i de Carville se ne erano sempre occupati personalmente.
Avevano decine di domestici al loro servizio, per pulire, cucinare, tagliare
l’erba, lucidare il rame, lavare le finestre, sorvegliare la proprietà... Ma da
generazioni i de Carville si occupavano da soli del roseto. Oltre a curare le
rose, Mathilde aveva creato un giardino d’inverno, un po’ appartato rispetto
alla villa.
Ammirò un’ultima volta le piante e, senza rivolgere lo sguardo al marito,
si diresse verso la serra.
Ripensò alle ultime parole di Malvina. Quindi il quaderno di Crédule
Grand-Duc, il suo testamento, tutta la sua indagine, era nelle mani di Marc
Vitral...
Che ironia!
Doveva servirsi di Malvina per recuperarlo? Continuare a mentirle,
mantenerla nella sua illusione? Non le aveva mai parlato di tutte le prove che
Grand-Duc le aveva fornito nel corso degli anni.
L’avrebbero uccisa.

Entrò nella serra e, come ogni mattina, restò qualche istante a respirare
l’incredibile miscela di odori. La sua oasi di pace. La sua opera. Era lì, in
quella serra, che si sentiva più vicina a Dio, al creato, era lì che pregava
meglio, molto più che in chiesa.
Malvina...
La follia della nipote.
Anche quella era colpa di suo marito. Ricordava che deliziosa bambina
fosse Malvina a sei anni: il suo viso sorridente sulla scala di ciliegio, la
furbizia con cui si nascondeva in giardino, i suoi occhi pieni di meraviglia
davanti agli erbari che sfogliavano insieme... Ora, a parte mentirle, cosa
poteva fare? Rinchiuderla in un ospedale psichiatrico? Era solo l’ossessione a
spingere ancora Malvina ad alzarsi, vestirsi e nutrirsi: Lyse-Rose era viva, era
sopravvissuta, malgrado la sentenza del giudice di diciotto anni prima; solo
lei, la sorella maggiore, poteva riportarla in vita, anche dopo tutto quel tempo.
Riportarla in vita, con un Mauser L100 tra le mani...
Mathilde si chinò su un mazzo di gigli scarlatti, una delle ultime piante a
fiorire in autunno. Riusciva tutti gli anni a farli resistere in serra fino a
dicembre; era il suo orgoglio, il grande mazzo sulla tavola apparecchiata per
il cenone di Natale, una composizione di gigli rosa, scarlatti, Croceum rossi e
Candidum immacolati. Mathilde controllò meticolosamente il livello
dell’acqua: l’umidità era il segreto del loro splendore e della loro longevità.
La sua mente tornò di nuovo a Malvina, al braccio armato della sua
vendetta. Bisognava pure che qualcuno difendesse gli interessi dei de
Carville. Perché non lei, dopotutto?
Le cose sarebbero cambiate nei giorni, forse nelle ore successive. Ora che
Lylie aveva letto il quaderno di Grand-Duc, Malvina non era più l’unica
bomba a orologeria in circolazione. Il detective le aveva fatto un regalo di
compleanno avvelenato. Il film della sua vita. Tutti i segreti di famiglia
racchiusi in cento pagine.
Due famiglie. Doppia pena.
Era sufficiente a fare impazzire anche Lylie. Impazzire di rabbia.
Mathilde de Carville fece ancora qualche passo. Gli astri del New England
del suo giardino d’inverno perdevano gli ultimi petali, qualche raggio porpora
attorno a un cuore dorato, come se un’innamorata indecisa si fosse introdotta
all’interno della serra per sfogliare a una a una le margherite giganti.
Una strana immagine si affacciò alla mente di Mathilde. Quasi un sogno,
una sorta di premonizione. Vide Lylie entrare nel parco, nella Roseraie,
armata di un revolver, un Mauser L100, il dito sul grilletto. Camminava
lentamente sul prato.
Sì, Lylie aveva tutte le ragioni per venire a vendicarsi, se Grand-Duc
aveva svelato tutto nel suo quaderno. Mathilde sorrise tra sé e sé. Una
domanda la tormentava. Quel dito sul grilletto portava l’anello? Lo zaffiro
chiaro... I diamanti incastonati ornavano quell’indice vendicatore?
L’immagine a poco a poco svanì. Riapparve l’astro, spoglio a eccezione di
tre petali superstiti. Mathilde de Carville mormorò, muovendo appena le
labbra: «Buon compleanno, Lylie».
Se lo avesse saputo, all’epoca, non avrebbe mai ingaggiato Crédule
Grand-Duc per innescare quell’assurdo conto alla rovescia.
Fece ancora qualche passo, poi girò la testa per controllare di essere sola.
Lo era. Nessuno la osservava dalle vetrate della serra. Si chinò sul suo
giardino segreto, scostò gli iris e scoprì qualche gambo, discreto, di fiorellini
gialli: celidonie. Mathilde de Carville amava contemplare quei quattro petali
dorati, a croce, raggruppati a ombrello. “L’erba delle verruche”, come la
chiamavano una volta; tuttavia preferiva l’altra faccia della celidonia: una
pianta mortale, forse la più tossica, un concentrato unico di alcaloidi...
Il suo peccato veniale.
“Che Dio mi perdoni.”

Si girò su se stessa e uscì dalla serra. Léonce de Carville era sempre seduto
scomposto, appena scosso da un tremore regolare che agitava le foglie rosse.
Un tronco morto. Ritorto.
Lo sguardo di Mathilde de Carville abbracciò tutta la proprietà: il roseto,
la villa, il parco...
No, forse non tutto era perduto. Il nome. La razza. L’onore.
Lyse-Rose.
Alla fine ragionava come Malvina.
Restava un’ultima speranza, quella telefonata di Crédule Grand-Duc, il
giorno prima della sua morte. Sosteneva di avere scoperto un elemento nuovo
che metteva in discussione tutte le sue certezze precedenti. Aveva avuto
l’illuminazione tre giorni prima, proprio alla scadenza del suo contratto, a
quanto pare leggendo “L’Est Républicain”. A mezzanotte meno cinque.
Sarebbe stata così ingenua da credergli? Sarebbe stata così stupida da
assecondare Grand-Duc in un bluff tanto grossolano?
Lui non aveva voluto aggiungere altro perché doveva ancora verificare
qualche dettaglio. Mathilde ripensò a Malvina e al Mauser. Grand-Duc si era
comportato come quei testimoni che, nei romanzi gialli, cercano di alzare la
posta in gioco e si ritrovano con una pallottola nel cuore prima di avere avuto
il tempo di pronunciare una cifra.
Mathilde de Carville camminò fino ai rami tagliati delle rose. Si chinò e
raccolse i gambi a mani nude, senza battere ciglio, apparente immune al
dolore.
Suo malgrado, non poteva fare a meno di credere alle ultime parole del
detective.
Una soluzione. Un’ultima speranza.
E, come sempre in quella storia, la bilancia del destino: perché una
famiglia potesse sperare, l’altra doveva perdere tutto.
15

2 ottobre 1998, ore 11.01


Miromesnil.
Champs-Elysées-Clemenceau.
Le stazioni si susseguivano. Lo scompartimento si svuotava, fermata dopo
fermata. Il treno accelerava bruscamente per rallentare quasi subito, come un
infaticabile sprinter cieco.
A Invalides salì una bella ragazza. Per un istante Marc Vitral la scambiò
per Lylie, con il suo fisico sottile e i capelli biondi pettinati ordinatamente.
Ma solo per un istante. Il metrò pullulava di belle bionde e non sarebbe certo
stato il caso a ricondurlo sui passi di Lylie, né tanto meno i messaggi
disperati che le aveva lasciato in segreteria. L’unica possibilità era leggere
attentamente quel quaderno e incontrare Grand-Duc, a tutti i costi.
Varenne.
Marc era ormai quasi da solo nello scompartimento. La bionda era già
scesa. Rifletté sul fatto che nella vettura sette passeggeri su undici erano neri.
E pensare che una legge vietava ancora adesso agli africani di camminare sui
marciapiedi delle strade eleganti proprio sopra le loro teste: rue de Grenelle,
rue de Varenne, rue de Babylone. Marc non riusciva proprio ad abituarsi a
Parigi, alla sua miseria, alla sua indifferenza, alle sue solitudini. Dieppe, il
porto proletario della sua infanzia, gli mancava. Sospirò. Non aveva scelta.
Le priorità erano altre. Rassegnato, si sedette di nuovo e riprese la lettura.

Diario di Crédule Grand-Duc


La decisione del giudice Weber arrivò tramite una comunicazione ufficiale
infilata nella cassetta delle lettere dei Vitral, in rue Pocholle, la mattina
dell’11 maggio 1981. Come un simbolo.
La notte precedente l’immenso lungomare di Dieppe si era trasformato nel
teatro improvvisato di una gigantesca festa popolare. Avevano cantato,
bevuto, riso e ballato a piedi nudi fino all’alba sul prato della piazza. Dieppe,
la città rossa, il porto operaio, mandata in rovina dalla chiusura delle
fabbriche, aveva festeggiato come in uno splendido 14 luglio l’elezione del
presidente della repubblica François Mitterrand; lo storico arrivo della
sinistra al potere, i comunisti al governo... “Cambiamento!”: lo slogan volava
di bocca in bocca. La più antica stazione balneare francese aveva indossato
per una notte il suo primo abito da ballo. E le stava bene!
Pierre e Nicole Vitral avevano partecipato alla festa, a modo loro. Erano
anni che aspettavano quel momento, che si battevano, che manifestavano, che
distribuivano volantini nei mercati. Il loro furgone, sul lungomare, era
rimasto aperto quasi tutta la notte; crêpe, waffle e frittelle si erano mescolati
allo champagne e al sidro in una confusione gioiosa. C’era gente di tutte le
età. Ma i Vitral non erano riusciti a sentirsi completamente sereni.
Aspettavano la lettera del giudice, la decisione finale; temevano ancora un
ricorso della famiglia de Carville, un ultimo colpo di scena. Non avrebbero
cantato vittoria prima di avere avuto tra le mani il documento ufficiale, prima
di avere abbracciato Emilie, ancora al nido a Montbéliard.
Non osavano crederci.
Ma, in fondo, anche a Dieppe, chi aveva creduto veramente alla vittoria
della sinistra prima di quel 10 maggio 1981?

Pierre aprì la busta verso le otto del mattino. Tremava. Aveva dormito solo
due ore. Le parole del giudice Weber non davano adito a dubbi: la superstite
della catastrofe del Mont Terrible si chiamava Emilie Vitral. I nonni paterni
sarebbero diventati i suoi tutori legali. Potevano andare a prenderla a
Montbéliard la mattina stessa.
Nel quartiere del Pollet i bicchieri, lo champagne, l’olio per friggere e le
griglie non erano ancora stati messi via. Vennero distribuiti gli avanzi e i
festeggiamenti continuarono, il 10 e l’11 maggio 1981.
Per i Vitral furono i due giorni più belli della loro vita.
Mathilde de Carville aspettò che facesse buio per avvicinarsi al furgone dei
Vitral, dopo che gli ultimi clienti si erano allontanati. Si era accertata che
Nicole fosse sola. Quel 13 maggio suo marito si trovava al Pollet, per
l’assemblea di quartiere, come tutti i mercoledì sera. Stava seriamente
pensando di candidarsi per le elezioni municipali del 1983. C’era bel tempo,
tipico di maggio, ma con vento forte, come sempre.
È giunto il momento di presentarvi Mathilde de Carville, che entrò in
gioco esattamente due giorni dopo i festeggiamenti. Non è facile per me farne
un ritratto imparziale, lo capirete tra qualche pagina. Mi assumo la
responsabilità del quadro che vi dipingerò, per quanto riguarda sia la forma
sia il contenuto. Se non vi sembro oggettivo, credete almeno alla mia
sincerità. Mathilde de Carville, durante tutta l’istruttoria, aveva avuto fiducia
in suo marito; in suo marito e in Dio. Del resto fino allora, nel corso della sua
vita, non aveva mai avuto motivo di lamentarsi né dell’uno né dell’altro. Di
nobili natali, discendente degli Angiò, era emigrata nella banlieue parigina
chic. Piuttosto graziosa, intelligente e colta, con i capelli raccolti in uno
chignon alto e un pizzico di malizia alla Romy Schneider, la ventenne
Mathilde era ammirata, invidiata e corteggiata. Non per molto... Fervente
devota, si era innamorata del primo uomo che il cielo aveva messo sul suo
cammino, giurandogli eterna fedeltà. Léonce, un giovane e brillante
ingegnere, ambizioso ma povero, aveva distrutto a poco a poco tutto ciò che
Mathilde aveva di grazioso e di umano. Se questa era la volontà di Dio...
Mathilde portava una dote di inestimabile valore: il suo cognome, de
Carville, la discendenza privilegiata, il sangue nobile, la razza, il lignaggio...
Léonce aveva preso il cognome della moglie. Non è una cosa comune, sarete
d’accordo con me. Per trovare un caso analogo si deve risalire ai tempi di san
Luigi. Inoltre non bisogna dimenticare che Mathilde aveva offerto al marito i
milioni in buoni del tesoro che erano serviti a fondare l’azienda de Carville. Il
genio imprenditoriale di Léonce aveva fatto il resto: la moltiplicazione dei
primi milioni in decine, il successo commerciale, i brevetti lucrativi, le filiali
nei cinque continenti. Mathilde doveva aver pensato che il suo cognome
fosse stato un investimento ben riuscito.
Quando Dio le aveva preso Alexandre, suo figlio, in quell’incidente aereo,
la fede di Mathilde non aveva vacillato. Può sembrarvi strano, ma in tanti
anni ho imparato che una dura prova, se una persona crede veramente,
rafforza la fede più di quanto non la mini. L’ingiustizia divina, curiosamente,
spinge più alla sottomissione che alla ribellione. Così come la punizione
obbliga all’obbedienza. Soprattutto la punizione ingiusta, quella che giunge
per caso, per dare l’esempio. Mathilde de Carville aveva preso il velo ed
espiato chissà quale colpa. Aveva fiducia nella giustizia del Signore, e anche
in quella degli uomini, poiché la luce divina illumina l’operato dei mortali.
Tuttavia, quando il giudice Weber decretò la morte di sua nipote, per la
prima volta Mathilde dubitò. Oh, non di Dio, no, bensì della giustizia degli
uomini. E anche di suo marito.
La sua fede mutò.
Non vacillò, anzi, probabilmente divenne più incrollabile di prima, ma era
diversa. Non era più semplicemente contemplativa, passiva e sottomessa.
Mathilde de Carville era ormai cosciente di essere l’intermediaria sulla terra
fra Dio e gli uomini, sapeva che la fede era la sua forza, la sua arma. Che le
avrebbe indicato la strada per compiere la missione divina. Doveva agire.
So a che estremi può portare un ragionamento di questo tipo, a quali
fanatismi; in ogni angolo del mondo ci si uccide l’un l’altro in nome di dèi
che non hanno chiesto niente. L’ho sperimentato da vicino in un’altra vita,
prima di intraprendere la professione di detective privato.
Fortunatamente per Mathilde de Carville, la transizione avvenne per gradi,
almeno credo. Nel 1981 riteneva semplicemente che certi uomini fossero
sordi agli ordini divini e che, se il Signore le aveva dato tanto denaro,
utilizzarlo per cambiare l’ordine delle cose non voleva dire andare contro la
sua volontà.
Allora, forte delle sue nuove convinzioni, Mathilde de Carville prese due
decisioni, ponderate a lungo. La seconda riguarda me. La prima fu di andare
da Nicole Vitral, quella sera di maggio, sul lungomare di Dieppe; un incontro
di cui Nicole si ricordava ancora tutto – parola per parola e ogni minimo
silenzio – quando l’ho incontrata venti mesi dopo.

Nicole Vitral guardò con estrema diffidenza Mathilde de Carville che si stava
avvicinando. Chiuse meccanicamente la giacca sul seno troppo in vista. Si
erano incrociate, squadrate, durante le udienze e al momento della sentenza.
Ora era tutto diverso: Nicole Vitral conosceva i suoi diritti. Emilie era sua
nipote. Nessuno, nemmeno un de Carville poteva cambiare le cose ormai.
Quella fu l’unica ragione per cui accettò di ascoltare Mathilde.
Mathilde de Carville rimase in piedi davanti al furgone Citroën H. Nicole
Vitral, nel veicolo, la sovrastava di una ventina di centimetri.
«Signora Vitral, vengo subito al dunque» esordì Mathilde con una voce
non lasciava trapelare alcuna emozione. «Ci sono lutti più difficili di altri da
sopportare. La decisione del giudice Weber, lei lo sa, è una condanna a
morte. Per restituire la vita a una bambina ne ha uccisa un’altra...»
Nicole Vitral accennò un gesto di stizza, come se volesse abbassare la
serranda di ferro e chiuderla lì.
Mathilde de Carville alzò leggermente il tono. «No, no, mi lasci
continuare, per favore. Oggi, a distanza di neanche un mese, è difficile
rendersi conto delle conseguenze. Voi avete una bambina in custodia. Lyse-
Rose vive nel nostro ricordo. Ma tra cinque, dieci o vent’anni? Lyse-Rose
non sarà mai esistita, non avrà mai giocato, non avrà mai frequentato la
scuola... Emilie esisterà, lei vivrà. Tutti dimenticheranno la catastrofe, il
terribile dubbio. Sarà per sempre Emilie Vitral, e anche se non lo era lo sarà
diventata. A nessuno importerà più nulla dell’incidente.»
Un forte vento fece sbattere il tendone arancione e rosso. Nicole Vitral si
sentiva imbarazzata, a disagio, ma non poteva interrompere Mathilde de
Carville.
«Nicole... Mi permette di chiamarla Nicole? Sì, ci sono lutti difficili da
accettare. Io non avrò mai una tomba su cui deporre un fiore, una lapide di
marmo da scolpire. Perché, Nicole, se piangessi Lyse-Rose come se fosse
morta, se facessi dire delle messe per lei, non sarei forse il peggiore dei
mostri? La sotterrerei e magari invece è viva...»
«Eccoci, ci siamo!» la interruppe bruscamente Nicole Vitral.
L’impetuoso vento dell’Ovest non riusciva a scompigliare un solo capello
del rigido chignon di Mathilde de Carville.
«No, Nicole! Non ci siamo affatto. Mi ascolti fino alla fine. Non voglio
portarvi via Emilie. Per voi è facile: se è davvero vostra nipote, tutto andrà
per il meglio. Se non lo è, l’avrete comunque cresciuta. Il dubbio non vi
tormenta, non più di quanto tormenti un padre che non ha l’assoluta certezza
se il figlio sia proprio suo. Ma per me il dubbio...»
«Cosa vuole?» quasi urlò Nicole Vitral. Il vento le aprì la giacca, lei
gonfiò il petto. Aveva acquisito sicurezza dall’inizio di quella vicenda, a
causa dei media, degli avvocati, dei poliziotti. Continuò sullo stesso tono.
«Vuole che la piccola la chiami “nonna”? Che le telefoni ogni tanto? Che
venga la prima domenica di ogni mese a mangiare i biscottini?»
Non una ruga, non un ciglio di Mathilde de Carville si mossero. «Lei non
ha bisogno di essere cattiva, Nicole. Davvero. Lyse-Rose è morta. Per forza
di cose lei prova quello che provo io... Lei e suo marito amate quel tenero
batuffolo che chiamate Emilie, ma nel vostro cuore non saprete mai qual è la
verità. Come non lo so io. La vita ci ha incastrati.»
Nicole Vitral fece un sospiro. «D’accordo. Cosa vuole?»
«Solo aiutare la bambina. Se è Lyse-Rose, avrò la coscienza tranquilla. Se
è Emilie, allora... tanto meglio per lei.»
Nicole Vitral si sporse quanto poté dal banco, gli occhi di fuoco. «Di che
si tratta? Vuole vederla?»
«No, penso sia meglio che non mi conosca. Non so se le parlerete di tutto
questo un domani, non so se ci avete pensato. Ma credo che per lei sia meglio
non sapere nulla il più a lungo possibile. Non ho intenzione di spiarla da
lontano all’uscita della scuola, di guardarla crescere attraverso un parabrezza,
sperando di scoprire una somiglianza con mio figlio. No, non è nel mio stile,
va oltre la mia soglia di sopportazione della sofferenza.» Mathilde de Carville
sdrammatizzò con una risatina forzata. «No, Nicole, i ricchi hanno mezzi più
radicali per mettersi la coscienza a posto.»
«Il denaro?»
«Sì, il denaro. Non si risenta, Nicole, non sono venuta, come ha fatto mio
marito, per comprare la piccola. Non è un ricatto, una contrattazione... niente
di tutto questo. Soltanto un regalo per la bambina. Non chiedo niente in
cambio.»
Nicole Vitral stava per rispondere. La rabbia cresceva in lei come il vento
proveniente dal mare che si infilava nel furgone.
Mathilde de Carville non le lasciò il tempo di parlare. «Non rifiuti,
Nicole... Voi avete avuto Emilie, avete vinto. Non vi sto comprando. Rifletta
un attimo: perché mai dovrebbe privare Emilie di questo denaro che le viene
offerto, che le manda il cielo...»
«Non ho detto che rifiuterò» ribatté secca Nicole Vitral. «Né che
accetterò...» Il tono si abbassò bruscamente. «Quello che mi sta proponendo
è... complicato.»
La voce di Mathilde, come un’eco, aumentò di volume. «Apra un conto in
banca a nome di Emilie, è tutto quello che deve fare...»
Le labbra di Nicole tremarono. «E poi?»
«Emilie riceverà centomila franchi all’anno su quel conto fino al suo
diciottesimo compleanno. Il denaro dovrà essere utilizzato solo per lei, per la
sua istruzione, per le sue attività, perché abbia la migliore educazione.
Naturalmente spetterà a lei, Nicole, gestirlo durante questi diciotto anni. Lo
destinerà a ciò che riterrà opportuno. Io vi do i mezzi, voi decidete come
usarli. Non vi potete lamentare...»
Nicole Vitral lasciò per qualche istante che il vento facesse svolazzare la
sua giacca, che accarezzasse il suo seno fino a farle venire i brividi. Ascoltò il
rumore dei ciottoli trascinati instancabilmente dal flusso e dal riflusso delle
onde.
I pro e i contro.
«Aprirò quel conto, signora de Carville» rispose alla fine. «Per Emilie.
Perché se non lo facessi potrei rimproverarmelo. Emilie potrebbe
rimproverarmelo. Versi pure quel tesoro se vuole...»
«Grazie.»
«... Ma noi non lo toccheremo!» Nicole Vitral aveva quasi gridato.
«Emilie avrà la stessa istruzione di suo fratello Marc. Faremo i sacrifici
necessari, ce la caveremo. A diciotto anni, quando sarà maggiorenne, userà
quel denaro come vorrà. Sarà suo, se deciderà di accettarlo, non nostro.
D’accordo?»
Un leggero sorriso increspò le labbra di Mathilde de Carville. «Lei è
crudele, Nicole. Ma la ringrazio comunque.» Esitò appena un secondo, poi
aggiunse: «Posso chiederle un altro favore?».
Nicole Vitral sospirò, esasperata. «Cosa vuole che le dica? In ogni caso si
sbrighi, sto chiudendo.»
Mathilde de Carville estrasse una scatoletta blu dalla tasca del suo lungo
cappotto. La aprì, la avvicinò e la posò sul banco del furgone. Nicole Vitral
non poté distogliere lo sguardo dallo zaffiro chiaro dell’anello.
«È un’antica tradizione» spiegò Mathilde con voce calma. «Le ragazze
della famiglia, per il diciottesimo compleanno, ricevono un anello con
incastonata una pietra del colore dei loro occhi. È così da generazioni. Ne ho
anch’io uno che mi ha regalato mia madre più di trent’anni fa. Non avrò,
ahimè, l’occasione di fare altrettanto per Lyse-Rose.»
Nicole alzò infine lo sguardo. «Forse sono stupida, ma proprio non
capisco...»
«Le lascio l’anello, ne abbia cura. Forse fra tre anni, o fra dieci, a forza di
stare vicino a Emilie capirà. Saprà se è veramente sua nipote o no. Sono cose
che a volte succedono. E, se nel profondo del suo cuore dovesse convincersi
che la bambina che ha cresciuto non è sangue del suo sangue, immagino che
terrà per sé questo segreto...» Sospirò, commossa, e riprese: «Probabilmente
sarebbe meglio così, almeno per la piccola. Ma se lei avesse le prove, la
convinzione che non è sua nipote, allora il giorno del suo diciottesimo
compleanno le regali questo anello. Nessun altro, oltre a noi due, nemmeno
Emilie, saprà che cosa significa. Ma così, per lei e per me, sarà fatta
giustizia...»
Nicole Vitral stava per rifiutare, per restituirle l’anello, per gridarle che
quell’idea era ridicola e assurda, ma Mathilde de Carville non gliene lasciò il
tempo. Si era già girata, senza neanche aspettare una risposta. Il suo lungo
cappotto scuro fu inghiottito dalle ombre della sera.
La scatoletta blu rimase lì, sul piano in formica.
16

2 ottobre 1998, ore 11.08


Malvina richiuse dietro di sé la finestra con la mano avvolta in uno straccio,
che subito dopo ficcò nella tasca della giacca. Lo aveva usato per pulire tutto.
Chi poteva accorgersi che dalla pila di canovacci nel cassetto della cucina di
Grand-Duc ne mancava uno?
Fiera di sé, sgusciò furtivamente nel giardinetto. Nascosta dietro l’angolo
della casa, lasciò passare due auto.
Appena la via fu libera, scavalcò il muretto di pietra alto meno di un
metro. Adesso era in strada. Nessuno l’aveva vista. Nessuno avrebbe mai
saputo che si era introdotta in casa di Grand-Duc. Nonostante ciò che tutti
pensavano di lei, non era poi così stupida! Si voltò. Un ultimo dettaglio la
preoccupava. Dal marciapiede, guardando bene, si poteva scorgere il vetro
rotto, in basso a destra, attraverso il quale aveva introdotto un braccio per
aprire la finestra. Alzò le spalle. Non era poi così importante.
Camminò a passo svelto lungo rue de la Butte-aux-Cailles. Non doveva
restare lì, allo scoperto. Vitral poteva arrivare da un momento all’altro.
Aveva un’idea su come fermare quel bastardo. Avanzò ancora qualche
passo, poi estrasse dalla tasca la chiave della macchina e fece scattare
l’apertura automatica. Entrò nella piccola auto, che riusciva a parcheggiare
ovunque a Parigi, anche a qualche decina di metri da casa di Grand-Duc. Non
passava particolarmente inosservata, ma Vitral non aveva modo di
riconoscerla.
Malvina, che pesava solo quaranta chili, si infilò tra il sedile anteriore e i
pedali della Mini. Nonostante l’abitacolo fosse minuscolo, se fosse rimasta
acquattata i passanti avrebbero creduto che l’auto fosse vuota.
Da quella postazione poteva controllare tutta la strada – sia davanti,
attraverso il parabrezza, sia dietro, dallo specchietto retrovisore – senza
cambiare posizione. Il nascondiglio ideale! Se Vitral fosse arrivato dalla
stazione Corvisart, sarebbe risalito dal fondo della strada, senza passare
davanti alla Mini, mentre lei lo avrebbe individuato da lontano. Perfetto. Si
contorse e afferrò il Mauser L100. Voleva tenerlo a portata di mano, sotto il
sedile del guidatore.
L’unico problema era che in rue de la Butte-aux-Cailles al momento c’era
ancora troppa gente; soprattutto nella panetteria a cinquanta metri, piena di
clienti che entravano e uscivano. Troppi testimoni, ma erano comunque
almeno a cinquanta metri di distanza. Avrebbe avuto il tempo di agire.
Ripensò agli ordini di sua nonna: “Tienilo d’occhio, seguilo. Ma non fare
nient’altro, telefonami non appena lo hai individuato”. Malvina non poté fare
a meno di far scivolare la mano sotto il sedile, di toccare il Mauser, come per
controllare che fosse ancora lì. Il contatto con il metallo freddo la rassicurò.
A pensarci bene, a ventiquattro anni doveva ancora obbedire a sua nonna?

Marc procedeva quasi alla cieca lungo gli interminabili corridoi della stazione
Montparnasse cercando di non perdere di vista le indicazioni per la linea 6.
Lylie portava l’anello con lo zaffiro chiaro, del colore dei suoi occhi.
Nicole gliel’aveva dato tre giorni prima, quando aveva compiuto diciotto
anni. Sua nonna aveva rispettato il patto. Non ne aveva parlato con nessuno.
Mai. Nemmeno con Lylie.
Ma le aveva dato l’anello!
Marc ormai sapeva cosa significava, quale terribile confessione
rappresentava per sua nonna. Doveva chiamarla, aveva bisogno di parlarle.
Lo avrebbe fatto più tardi. Per il momento la priorità era Lylie.
Continuando a camminare, con la mano libera digitò rapidamente un breve
SMS sul cellulare.

Lylie. Richiamami, dài. Marc.

Si ripromise di inviarne un altro un’ora dopo, di non darle tregua finché


non gli avesse risposto. Dove poteva essere? Ripensò all’aereo in miniatura
nel suo zaino. Quella decisione di andare all’altro capo del mondo era seria?
Sì... Lylie, da che era diventata maggiorenne, aveva i mezzi economici per
recarsi in qualsiasi angolo del pianeta e rimanerci per anni.
Facendo lo slalom tra la folla, Marc si ripeteva le ultime righe degli
appunti di Crédule Grand-Duc. Il conto in banca di Lylie. Il regalo avvelenato
di Mathilde de Carville. La vecchia sapeva quello che faceva... Nel corso
degli anni, Marc aveva finito per convincersi che il denaro giustificasse le
differenze fra lui e Lylie, quei sentimenti anomali, quell’attrazione contro
natura che non può esistere tra fratello e sorella.
Il denaro spiegava tutto. Ma, nel suo intimo, una voce gli aveva sempre
bisbigliato che in realtà il denaro non c’entrava niente! No! No!
La voce aveva ragione. Aveva ormai la prova che sua nonna, anche se non
aveva fatto trapelare nulla, la pensava come lui.
Lylie aveva l’anello dei de Carville.
Dandole quel gioiello, sua nonna aveva confessato. Lylie e Marc non
erano fratelli. Erano liberi.

Marc si sentiva trascinato da una specie di euforia. Scivolò con agilità nel
convoglio diretto a Nation. Urtò qualche passeggero per raggiungere il centro
della vettura e guadagnarsi un minimo di spazio vitale, sufficiente per poter
aprire il quaderno.
Cinque fermate lo separavano da Corvisart. A due passi da rue de la Butte-
aux-Cailles, da Grand-Duc.
Il tempo di leggere ancora qualche pagina.

Diario di Crédule Grand-Duc


È in questo momento che entro in scena io. Finalmente!
Crédule Grand-Duc, detective privato.
Mi sono fatto aspettare, eh? Sono arrivato a battaglia conclusa, lo
ammetto. Ecco da dove sono nati tutti i miei problemi.
Mathilde de Carville entrò nel mio ufficio, a Belleville, in rue des
Amandiers, il giorno dopo l’incontro con Nicole Vitral. Mi fece impressione
vestita completamente di nero: era come se volesse esprimere tutto il suo
dolore attraverso quegli abiti. Credo che il colloquio con Nicole Vitral le
fosse costato uno sforzo incredibile. Aveva preso la decisione da sola, senza
parlarne al marito. Mathilde de Carville si era umiliata sul lungomare di
Dieppe, ma aveva capito che solo quel sacrificio avrebbe potuto far cedere
Nicole Vitral. Era necessario che Nicole si sentisse la più forte in quel
momento, altrimenti non le avrebbe mai permesso di aprire un conto in banca
a nome di Lylie.
“Mai più, mai più una simile umiliazione” doveva essersi poi detta
Mathilde de Carville. L’aveva pagata cara la tranquillità della sua coscienza,
molto più di un assegno da centomila franchi l’anno per Lylie. Allora, dopo
quell’incontro a Dieppe, Mathilde de Carville cambiò. Quando entrò nel mio
studio, non era altro che un pezzo di ghiaccio, nero e cortese.
Si avvicinò. «Ho sentito molto parlare di lei, signor Grand-Duc.»
Si presentò e io feci un vago collegamento con quel caso del quale radio e
televisioni avevano parlato per qualche settimana e di cui in quel momento
mi importava meno di niente.
«Signor Grand-Duc, le sue qualità sono, a quanto pare, la discrezione, la
tenacia, la pazienza e il rigore. Quelle che io esigo. La mia proposta è
semplice: riprendere in mano il dossier dell’incidente del Mont Terrible
dall’inizio, tutti i dettagli, a uno a uno. Trovare altre informazioni, se
possibile.»
All’epoca, anche se ero solo un detective privato fra decine di altri,
cominciavo a farmi una discreta reputazione. Avevo risolto i piccoli casi che
mi erano stati affidati, la faccenda dei casinò sulla Riviera e qualche altro.
Non avevo ancora sperimentato l’insuccesso, proprio come un pugile che
vinca tanti piccoli combattimenti e finisca per ritenersi imbattibile. Non
sapevo per quale ragione quella donna avesse scelto me. Ma perché no,
dopotutto? Poco importava, non avevo intenzione di lasciarmi sfuggire
l’occasione.
Mathilde de Carville si avvicinò ancora.
Io restai seduto; non sono molto alto e a occhio e croce lei mi superava di
almeno cinque centimetri. Mi raddrizzai sulla sedia dandomi un’aria
d’importanza. «È un caso complesso, signora. Un caso che non può essere
trattato alla leggera, che richiederà del tempo...»
«Non sono venuta per mercanteggiare, signor Grand-Duc.»
Sbam! Rimase dritta davanti a me, schiacciandomi con la sua ombra nera.
Troppo tardi per alzarmi.
«Signor Grand-Duc, si tratta di prendere o lasciare. Sono convinta che non
avrei difficoltà a trovare un altro investigatore, ma credo che lei accetterà. A
partire da oggi riceverà centomila franchi l’anno, per diciotto anni, fino a
quando Lyse-Rose, mia nipote, se di lei si tratta, diventerà maggiorenne. Alla
fine di settembre del 1998. Il 30 e non il 27, poiché la giustizia ha deciso
così.»
Centomila franchi l’anno! Moltiplicati per diciotto! Non riuscivo a contare
gli zeri, che formavano nella mia testa come un lungo filo di perle. Un vero e
proprio vitalizio da funzionario.
Solo che, a dispetto del mio stupido nome, non ero un credulone e avevo
bisogno di dettagli. Sì, confermo, per quanto strano possa sembrare, che
Crédule è il mio vero nome.
«Per una cifra del genere, signora, che cosa si aspetta esattamente da me?
Se allo scadere dei diciotto anni non avrò trovato niente, dovrò rimborsarla?»
Domanda premonitrice? Avrei dovuto insospettirmi. Sì, dopotutto, me lo
merito proprio il mio nome...
L’ombra nera si chinò ancora, schiacciandomi ulteriormente.
«Signor Grand-Duc, il nostro rapporto si baserà sulla fiducia che ho in lei,
solo su questo. Non ha alcun obbligo di arrivare a un risultato, ma esigo che
faccia tutto quello che è in suo potere per risolvere il caso. Desidero che
nessuna pista, nessuna ipotesi vengano trascurate. Avrà tutto il tempo e il
denaro necessari per occuparsene. Se da qualche parte esiste una prova
dell’identità della sopravvissuta del Mont Terrible, deve venire alla luce. Sarò
molto chiara, signor Grand-Duc, voglio scoprire la verità, qualunque essa sia,
anche se dovesse essere scomoda.»
Una sorta di immensa vertigine cominciò a impossessarsi di me. «E lei è
convinta che un’indagine del genere possa durare... diciotto anni?»
«Lei sarà pagato per diciotto anni. Avrà quindi a disposizione tutto questo
tempo per scoprire la verità. Non pretendo che si dedichi esclusivamente al
mio caso, le fornisco semplicemente i mezzi per concludere l’indagine: il
tempo e il denaro.»
«E se scoprissi la verità in cinque mesi?»
«Non ha capito, signor Grand-Duc? Non sono stata abbastanza chiara? Lei
sarà pagato per diciotto anni, a prescindere dai risultati. Questo è l’impegno
che prendo con lei. Esigo solamente che si metta subito all’opera per scoprire
l’identità della sopravvissuta, è tutto ciò che mi interessa.»
Continuava a chinarsi su me e la croce di legno che le pendeva dal collo
oscillava sopra il mio naso.
«Signor Grand-Duc, mi riservo, sia chiaro, il diritto di rescindere,
unilateralmente e in qualsiasi momento, questo contratto se dovessi avere
l’impressione che lei non rispetta le regole, che si sta approfittando della
situazione. Ma ciò non avverrà, vero? Mi hanno parlato di lei come di un
uomo onesto...»
Capite? Ero incappato in una vecchia pazza che non sapeva come
spendere il suo patrimonio!
Un miracolo. Una pazza... Fino a dove era disposta ad arrivare?
«Sarà necessario andare in Turchia» osservai. «E fermarsi a lungo...»
«Oltre al suo onorario, le verranno rimborsate tutte le spese.»
Dovevo alzare ancora la posta?
«Io non parlo turco. Da solo non me la caverei...»
«Se è necessario, per l’indagine potrà avvalersi di collaboratori. Anche le
loro spese verranno rimborsate.»
Da non credere...
La mia osservazione non era casuale, avevo già in mente di muovermi,
almeno all’inizio, in coppia con un certo Nazim Ozan, con cui avevo già
scorrazzato per mesi in Asia centrale, l’unica persona di mia conoscenza in
Francia che parlasse turco e di cui mi fidassi abbastanza.

Mathilde de Carville mi staccò un primo assegno di centomila franchi, una


somma colossale per l’epoca, e lasciò il mio studio con la stessa cupezza con
cui vi era entrata. Non feci caso all’atmosfera glaciale che quel freddo rettile
lasciava dietro di sé nella stanza. Mi sembrava di aver vinto alla lotteria senza
avere comprato il biglietto.
Per la prima volta il mio nome e il mio cognome avevano un senso.
Crédule perché all’epoca credevo ancora che la ruota della fortuna girasse.
Grand-Duc perché per tre giorni mi concessi un trattamento da gran signore
per festeggiare la mia buona sorte, senza neanche intaccare i centomila
franchi.
Rimborso spese...

Come avrei potuto immaginare, in quel momento, che stavo cadendo in un


pozzo senza fondo? Che la luce che allora mi attirava mi avrebbe trascinato
verso il nulla?
Un buco nero.
Un trampolino sul vuoto.
17

2 ottobre 1998, ore 11.13


Rue Jean-Marie Jégo è in salita, una cinquantina di metri di dislivello fino
all’incrocio con rue de la Butte-aux-Cailles; una graziosa viuzza da cartolina
postale, che dava l’impressione di arrampicarsi verso la piazza di un
villaggio, con la chiesa, il municipio, il bar e il campo da bocce all’ombra dei
platani, nel cuore di Parigi. Marc sapeva vagamente che rue de la Butte-aux-
Cailles era uno degli ultimi tipici “quartieri” parigini; una sera era andato lì a
bere qualcosa, al Temps des Cerises. Uno studente borghese bohémien, del
genere che lui detestava, figlio di un diplomatico o qualcosa del genere, gli
aveva spiegato che le imprese edili si disinteressavano di quella zona a causa
della presenza di cave di calcare sotterranee che rendevano impossibile
costruire palazzi a molti piani. A Marc era rimasto impresso soltanto che una
casa in quel quartiere borghese costava una vera e propria fortuna. Salì
l’ultima rampa, una ventina di gradini, e sbucò in alto sulla collinetta.
Tenendosi alla ringhiera, prese il telefono e mandò un altro SMS a Lylie. Lo
stesso di prima. Lo aveva memorizzato.

Lylie. Richiamami, dài. Marc.

Verificò per scrupolo, invano: la sua segreteria rimaneva disperatamente


vuota.
Rue de la Butte-aux-Cailles era tranquilla, a eccezione del viavai della
panetteria, a quanto pareva l’unico negozio aperto della strada. Per i locali era
troppo presto, i ristoranti sembravano ancora vuoti. Marc guardò in alto le
facciate dei palazzi, poi proseguì fino al civico 21. Era una casetta a un solo
piano, posizionata al centro di un incantevole giardinetto di una ventina di
metri quadrati. Il genere di villetta che sarebbe stata considerata ridicola in
qualsiasi angolo di campagna della Francia ma che lì, nel cuore di Parigi,
diventava un bene di gran lusso. Una unifamiliare circondata da un giardino.
Anche con i centomila franchi annui versati da Mathilde de Carville,
un’abitazione del genere sembrava al di fuori delle possibilità di Grand-Duc.
Marc continuò a esaminare la casa. Le persiane verde chiaro erano chiuse.
A ogni buon conto suonò il campanello, tra la cassetta delle lettere gialla un
po’ arrugginita e il cancello scrostato.
Nessuno.
Aspettò un minuto e suonò di nuovo. Inutilmente. Si passò una mano tra i
capelli, perplesso. Grand-Duc non c’era, come poteva prevedere. Lanciò
un’occhiata più accurata alla casa, al giardino, cercando di farsi venire
un’idea... Camminò lungo la strada.
A un tratto la soluzione gli apparve davanti agli occhi.
Sul lato destro dell’edificio, il vetro di una finestra era rotto in un angolo.
Con un po’ di fortuna, poteva infilare dentro un braccio, afferrare la maniglia
e aprirla per entrare in casa di Grand-Duc. Marc si voltò: nessuno in strada gli
prestava attenzione. Senza esitare, saltò il muretto di pietre bianche e si
ritrovò, praticamente al riparo da sguardi indiscreti, vicino alla finestra. Posò
la mano sullo stipite. Non ebbe bisogno di fare altro: con sua grande sorpresa,
la finestra si aprì. Era solo accostata.
Marc sulle prime rimase sconcertato da quel curioso concorso di
circostanze favorevoli, dall’imprudenza da parte del detective. Un attimo
dopo già sgusciava in casa di Grand-Duc.

“Il bastardo è da Grand-Duc” pensò Malvina. Nello specchietto retrovisore


aveva visto Marc Vitral avvicinarsi e saltare il muretto di pietra. “Come un
ratto” si disse. Aveva uno zaino. Con ogni probabilità il quaderno di Grand-
Duc era lì dentro. Tutto sembrava procedere per il meglio. Malvina cercò di
muoversi un po’, di allontanare la testa dalla portiera e stendere le gambe. Le
faceva male il collo a forza di stare rannicchiata sotto il volante, ma non
aveva importanza. Sarebbe rimasta lì per ore e avrebbe volentieri portato un
collare ortopedico per il resto dei suoi giorni se fosse servito a bloccare Vitral
all’uscita, ad aprire quel fottuto quaderno, a strappare a una a una quelle
pagine strapiene di menzogne, come si strappano le unghie a qualcuno per
farlo confessare. Dito per dito. Poteva immobilizzare Vitral e costringerlo a
parlare. Avrebbe improvvisato. Al momento opportuno avrebbe inventato le
regole di un gioco deliziosamente sadico.

L’odore di cenere e fumo prese subito Marc alla gola. Era come se un
caminetto fosse rimasto acceso per ore senza arieggiare i locali. Tossì. Si
trovava in una stanzetta, una sorta di ripostiglio dove erano sistemate
conserve e diversi attrezzi da giardinaggio e da bricolage. Spinse l’uscio, salì
tre gradini di cemento e aprì una seconda porta. Si ritrovò in quello che
doveva essere il salotto di Grand-Duc.
L’odore di fumo si fece ancora più intenso. Marc tossì di nuovo. Il suo
sguardo fu attirato dal caminetto che aveva di fronte. Una cosa era ovvia: in
quel focolare erano stati bruciati quintali di carta. Osservò i faldoni vuoti sul
parquet. Grand-Duc evidentemente aveva fatto pulizia, e di recente.
Prima che avesse il tempo di studiare meglio la situazione, uno strano
rumore lo raggelò. Proveniva da destra, alle sue spalle; una serie di tonfi
sordi, come il meccanismo inceppato di un giocattolo meccanico. Marc si
girò, in allerta. Notò con stupore l’immenso terrario in cui quasi tutte le
libellule giacevano sul terreno umido, inerti. Si avvicinò. Solo la più grande,
dal torace rosso e dorato, volava ancora, anche se con difficoltà. Come se
avesse captato un’altra presenza nella stanza, un possibile soccorritore,
agitava debolmente le ali, sbattendole contro le pareti di vetro. Marc restò a
fissarla per qualche istante, affascinato dai suoi movimenti disperati. Una
libellula prigioniera, quasi morta, come altri insetti. Senza riflettere, si
avvicinò e afferrò con entrambe le mani il coperchio di vetro che chiudeva il
terrario. Pesava ma era solo appoggiato. Lo sollevò senza difficoltà e lo
sistemò contro la parete più vicina. Reagendo subito all’aria fresca, con
qualche battito d’ali la libellula arlecchino volò via. Marc seguì con gli occhi
il suo volo, all’inizio un po’ esitante, poi maestoso. L’insetto si librò qualche
istante nella stanza, prima di posarsi sul lampadario del salotto.
Stupidamente il cuore di Marc accelerò.
Provava una gioia intensa, quasi puerile, per aver salvato l’insetto rosso.
La sua Libellula.
Non avrebbe mai immaginato che Crédule Grand-Duc fosse un
collezionista. E perché allora avrebbe dovuto lasciarla agonizzare in quel
modo?

Marc ispezionò più in dettaglio lo studio di Grand-Duc. Tutto era in perfetto


ordine: le matite, i bloc-notes, la curiosa bottiglietta di vino vuota, il
bicchiere. C’era qualcosa di strano in quella scenografia. Tutto lasciava
credere che il detective avesse voluto sbarazzarsi metodicamente di ogni
elemento riguardante il caso per cui era stato ingaggiato. Gli archivi bruciati.
Gli insetti sacrificati. Anche il suo testamento, quel quaderno verde che aveva
nello zaino che aveva terminato di scrivere la notte del diciottesimo
compleanno di Lylie e che le aveva poi consegnato.
La fine di una vita, per Grand-Duc. Pianificata in ogni dettaglio.
Cos’era successo allora? Perché il detective non era lì?
Quella casa trasmetteva a Marc una strana sensazione, come se il
proprietario fosse dovuto partire all’improvviso: la bottiglia non riposta, il
vetro rotto, la finestra accostata. E la puzza... Non il fumo del camino, un
altro odore che si percepiva sotto quello.
Qualcosa non quadrava.
Il viso di Marc si illuminò all’improvviso. Si sedette sulla sedia davanti
alla scrivania di Grand-Duc, aprì lo zaino, ne estrasse il quaderno verde e girò
le pagine fino all’ultima, coperta dalla scrittura del detective.
Era così facile, in fondo, conoscere gli ultimi pensieri di Grand-Duc:
bastava leggere le parole conclusive della sua confessione. Come quando un
romanzo giallo ti prende così tanto che non riesci a resistere alla tentazione di
andare dritto alla fine, pur avendo l’impressione di avere imbrogliato. Subito
dimenticata.
Marc si concentrò. L’ultima pagina del quaderno di Grand-Duc conteneva
solo una ventina di righe. La scrittura del detective era come sempre fine,
regolare.

Ormai sapete tutto.


È il 29 settembre 1998. Mezzanotte meno venti. Ogni cosa è in ordine. È finita. Lylie
compirà diciotto anni fra qualche minuto. Riporrò la penna davanti a me, mi sistemerò su
questa scrivania, stenderò “L’Est Républicain” del 23 dicembre 1980, la copia di quel
giorno maledetto, e con calma mi sparerò un colpo in testa. Il mio sangue si mescolerà alla
carta ingiallita di questo giornale. Ho fallito...
Lascio solo questo testamento. Per Lylie. Per chi vorrà.
Ho trascritto nel quaderno ogni indizio, ogni pista, ogni ipotesi. Diciotto anni di
indagini. Tutto è affidato a questo centinaio di pagine. Se le avete lette con attenzione, ora
ne sapete tanto quanto me. Forse voi sarete più perspicaci? Forse seguirete un percorso
che io ho trascurato? Forse troverete la chiave, ammesso che ne esista una? Forse...
Perché no?
Per me è finita.
Dire che non ho rimpianti né rimorsi sarebbe esagerato, ma ho fatto del mio meglio.

Marc rilesse lentamente l’ultima riga: “Ho fatto del mio meglio”. Restò
per un momento immobile, cercando di controllare l’intensa sensazione di
malessere che si sentiva crescere dentro, poi risalì di qualche riga seguendo il
filo d’inchiostro nero. “... mi sparerò un colpo in testa. Il mio sangue si
mescolerà alla carta ingiallita di questo giornale. Ho fallito...” Sollevò gli
occhi.
Grand-Duc parlava del proprio suicidio. Programmato.
Perché allora non c’era nessuna traccia di sangue sulla scrivania? Nessun
giornale? Nessun’arma? Lui aveva dunque rinunciato a togliersi la vita, due
giorni prima, tra le ventitré e quaranta e mezzanotte... Per quale ragione?
Perché dopo avere predisposto tutto con tanta precisione aveva rinunciato
all’ultimo momento?
Gli era forse mancato il coraggio? Oppure si era sparato un colpo in testa
da qualche altra parte? Poteva aver mentito nel diario... sul suo sacrificio? Sul
resto? O – scenario assurdo – aveva scoperto qualcosa prima di mezzanotte?
Un’illuminazione improvvisa, un’ultima pista...
Marc rilesse più volte le ultime righe del diario.
Grand-Duc non lasciava nessun indizio. Solo una cosa era certa: non si era
sparato un proiettile in testa sulla sua scrivania.

Marc richiuse il quaderno e tossì di nuovo. Sentiva sempre quell’odore


insopportabile, ancora più persistente. Un altro rumore meccanico, più
intenso di quello di prima, gli fece voltare la testa. Una decina di libellule,
liberate dalla loro prigione di vetro, salvate dall’aria fresca, volavano ora nel
salotto; voli brevi, ancora maldestri, da una mensola all’altra, da una sedia al
tavolo, da una tenda al bastone. Quelle bestiole, dannatamente più resistenti
di quanto si potesse credere, erano tornate in vita. Marc sorrise e la sua mente
volò verso Lylie, la sua Libellula, l’unica che voleva davvero salvare.
Facendo esattamente il contrario, chiudendola in una prigione di vetro se
necessario. Marc sentiva che i suoi pensieri si ingarbugliavano. Quegli insetti
volteggianti giravano dinanzi ai suoi occhi come lampi di luce prima delle
vertigini.
Si alzò. Doveva muoversi.
Mio Dio, da dove veniva quell’odore?
Fece qualche passo. Più si avvicinava alla cucina più l’odore diventava
intenso. La stanza era pulita, ordinata, e la pattumiera era vuota... Ma l’odore
sicuramente proveniva dall’armadio alto e stretto accanto al lavello.
Marc aprì l’anta, piano piano.
Il cadavere cadde ai suoi piedi, quasi all’istante, con un rumore sordo.
Già rigido. Come un manichino di cera.
Marc indietreggiò, stupefatto, pallido. Inorridito.
Il corpo giaceva davanti a lui. Una macchia scura, rossa, sulla camicia.
Crédule Grand-Duc.
Morto, come annunciato nel suo diario.
Però capita raramente che qualcuno si spari un colpo al cuore e si
preoccupi poi di nascondere l’arma, pulire il sangue e chiudersi in un
armadio.
Marc fece un altro passo indietro.
Crédule Grand-Duc non si era suicidato. Era stato assassinato.
18

2 ottobre 1998, ore 11.27


Malvina de Carville afferrò il cellulare con la punta delle dita, senza alzare la
testa; dall’esterno della Mini nessuno si sarebbe potuto accorgere della sua
presenza dentro l’abitacolo.
Un solo squillo.
«È qui» mormorò Malvina. «Vitral è entrato in casa di Grand-Duc.»
«Era prevedibile. Hai lasciato tracce?»
«No, no, nonna. Non ti preoccupare. Ho eliminato anche le ciglia, i capelli
e i pezzi di pelle del viso di Grand-Duc bruciati nel caminetto.»
Sottolineò le parole con una risata acuta. Sua nonna la prendeva per una
stupida.
«Nonna?»
«Sì?»
«C’è il rischio che trovi il cadavere di Grand-Duc. L’ho nascosto ma...
ma... puzzava già tantissimo.»
Percepì che sua nonna stava riflettendo all’altro capo del telefono.
«Nonna?»
«Be’, se lo trova... pazienza» rispose infine Mathilde de Carville. «Anzi,
meglio, dopotutto. Per entrare ha commesso un’effrazione, ci saranno
testimoni che l’hanno visto per strada. Lascerà impronte ovunque... È la cosa
migliore che ti poteva capitare, no?»
Un brivido di piacere percorse Malvina. Sua nonna aveva ragione, come
sempre. Marc Vitral l’avrebbe pagata. Ben gli stava!
«Nonna? Ha uno zaino sulle spalle. Penso che dentro ci sia il quaderno di
Grand-Duc. Credi che...»
La voce di Mathilde de Carville si inasprì. «No, Malvina, non fare niente,
seguilo e basta. Non prendere iniziative lì per strada, in pieno giorno. Mi hai
capito bene?»
«Sì, nonna, ho capito. Ti richiamo.»
Malvina soppesò il Mauser sotto il sedile.
Sì, sua nonna aveva ragione, quasi sempre.
Ma non quella volta...

Alcune libellule volavano attorno al corpo di Grand-Duc.


Marc si contorse in preda alla nausea. Era sopraffatto da una sensazione di
panico, ma doveva controllarsi. Non poteva permettersi una crisi di
agorafobia, non adesso, non lì...
Chiamare la polizia?
Rifletté rapidamente. Era entrato in casa di Grand-Duc attraverso una
finestra rotta, aveva lasciato impronte. No, non era una buona idea. E poi i
poliziotti lo avrebbero interrogato, lo avrebbero trattenuto al commissariato
del quartiere per ore, nel migliore dei casi. Non ne aveva il tempo, non in
quel momento. Lylie aveva bisogno di lui. Subito.
Che fare?
Il suo sguardo si posò sul corpo. Non sapeva nulla di cadaveri, ma gli
sembrava chiaro che l’omicidio era recente. La rigidità e l’odore suggerivano
che il processo di decomposizione fosse iniziato da appena qualche ora. Marc
ripensò alle ultime parole di Grand-Duc scritte nel quaderno. Il suicidio
annunciato. Che rapporto c’era con quel delitto? Cos’aveva scoperto per cui
qualcuno dovesse metterlo a tacere per sempre?
Marc camminava per la stanza a scatti; allontanò con un gesto infastidito
della mano una libellula che agitava rumorosamente le ali sotto il suo naso.
Non c’era niente che quadrasse. Grand-Duc era stato ucciso da qualche
ora, non da tre giorni, non la sera del compleanno di Lylie. Lo sguardo di
Marc abbracciò nuovamente il salotto, la scrivania, il caminetto e il terrario.
Quella scena gli parve surreale! Le libellule, a una a una, si riprendevano e
riacquistavano sicurezza. Volavano nella stanza andando a sbattere contro le
finestre, attirate dal sole che filtrava dalle persiane formando strisce di luce.
Marc camminò un po’ per la casa, fece il giro delle stanze per scrupolo.
Non notò nulla di sospetto, ma quella ricerca metodica gli permise almeno di
calmarsi, di ricominciare a respirare quasi normalmente. Arrivò all’ingresso.
Subito il sangue gli affluì di nuovo nelle vene, come l’acqua di un fiume
dopo un violento temporale. Le dita, il collo e le tempie si arrossarono. La
parete dell’ingresso era tappezzata di fotografie. Nazim Ozan, Lylie, il Mont
Terrible...
Si fermò davanti a una in particolare, che immortalava sua nonna. Grand-
Duc aveva appeso nell’ingresso di casa sua una fotografia di Nicole. Era
molto più giovane lì, doveva avere poco più di cinquant’anni, e si era messa
in posa sulla spiaggia di Dieppe. Il cuore di Marc batteva all’impazzata, in
preda a un misto di rabbia e di stupore. Per lui la nonna era una
sessantacinquenne sciupata dai lunghi anni di sacrifici. Non aveva quasi
nessun ricordo di quella donna sorridente, florida e seducente.
Distolse lo sguardo, sperando di tranquillizzarsi. Stava soffocando, doveva
andarsene, e alla svelta. L’angoscia, l’agorafobia... La crisi era imminente. Si
disse che prima di uscire dalla casa di Grand-Duc avrebbe dovuto rifare il
giro delle stanze e passare uno straccio su tutti gli oggetti che aveva toccato:
il coperchio del terrario, la sedia della scrivania, le maniglie, la finestra... Ma
non ne aveva voglia e non ce n’era il tempo.
Doveva fuggire, lasciare l’aria putrefatta di quella casa, tornare all’aperto.
Cos’aveva da temere? Non era stato lui ad ammazzare Grand-Duc. Il
detective era morto da diverse ore. Quando era successo, Marc era lontano da
rue de la Butte-aux-Cailles.
Scavalcò la finestra inalando subito qualche boccata d’aria fresca.
Sì, aveva di meglio da fare che non pulire, andava di fretta.
Prima di tutto trovare Lylie.
Poi telefonare a sua nonna, a Dieppe. Capire. Scoprire perché Grand-Duc
era stato assassinato.
Su quell’ultimo punto aveva un’idea. Un’idea direttamente associata alla
sua prossima destinazione.
Ecco, era fuori, camminava nel giardino.
Non notò, dietro di sé, attraverso la finestra aperta, il volo delle libellule
verso l’orizzonte.

Malvina si raggomitolò ancora di più nell’abitacolo della Mini. Dallo


specchietto retrovisore esterno distingueva perfettamente la sagoma di Marc
Vitral che si stava avvicinando. Quel cretino, con il suo zaino in spalla, non
sospettava nulla. La mano scivolò sotto il sedile del guidatore e afferrò il
Mauser L100. Ancora qualche metro e il bersaglio sarebbe stato sotto tiro.
Gli avrebbe piantato la canna d’acciaio nello stomaco. Vitral non avrebbe
avuto scelta: le avrebbe consegnato il suo zaino e il testamento di quel
farabutto, nascosto lì dentro.
Poi lei avrebbe valutato il passo successivo. Forse si sarebbe accontentata
di fargli esplodere una palla. O tutt’e due... Non aveva ancora deciso.
C’era quasi...
Solo dieci metri.
Malvina raddrizzò la testa stringendo il revolver. In fondo alla strada,
alcuni vecchi chiacchieravano nella panetteria. Se ne fotteva. Quei rincitrulliti
erano troppo lontani, non avrebbero visto niente. Girò la testa a destra, verso
il marciapiede. Non si poteva mai sapere. Allungò il collo ancora un po’.
Un attimo dopo si bloccò.
Tre marmocchi di tre o quattro anni le facevano la linguaccia, tutti allegri!
I testoni di quei mocciosi la guardavano attraverso il vetro, come se lei stesse
giocando a nascondino, incastrata fra il volante e il sedile. “Cucù, ti abbiamo
visto...”
Una giovane maestra bella come il sole acciuffò i tre pagliacci. Malvina si
raddrizzò, stavolta completamente.
Fottutissimi mocciosi!
Adesso un’intera classe della scuola materna sfilava sul marciapiede;
erano almeno trenta bambini che andavano in mensa, al parco giochi di fronte
o chissà dove.
Un attimo dopo Marc Vitral passò educatamente di fianco alla scolaresca
della Sainte-Anne, sorrise con aria paziente alla maestra e si allontanò con
passo svelto, perso nei suoi pensieri, senza notare la Mini parcheggiata lungo
il marciapiede.

«Pronto, nonna? Sono Malvina. Non l’ho beccato, nonna...»


«Come non l’hai beccato? Parli di Marc Vitral? Vuoi dire che gli hai
sparato...»
«No, non ci ho neanche provato, non ne ho avuto il tempo.» Malvina de
Carville percepì il sospiro di sollievo di sua nonna.
«Va bene, Malvina. Cosa sta facendo adesso?»
«Si sta allontanando. Se ne va verso il metrò, mi sembra. Vuoi che lo
segua?»
«Non muoverti, Malvina...»
«Ma...» Sua nonna era pazza? «E il quaderno di Grand-Duc?»
«Non muoverti, ti ho detto!»
Malvina sapeva che poteva ancora raggiungerlo, con il Mauser in pugno,
bloccarlo nel corridoio del metrò, strappargli lo zaino, spingerlo sulle rotaie.
«Torna a casa, Malvina. Torna alla Roseraie. È meglio.»
«Posso ancora farcela, nonna... Te l’assicuro...»
La voce di sua nonna si fece al tempo stesso dolce e ferma, come quando,
la sera, chinata sul suo letto, le leggeva dei passi della Bibbia. «Malvina,
ascoltami. Vitral ha sicuramente letto il quaderno di Grand-Duc. La sua
prima reazione è stata del tutto logica: si è precipitato a casa sua. Di certo ha
trovato il cadavere del detective, dunque la sua seconda reazione sarà
altrettanto prevedibile.»
Malvina non la seguiva più. Dove voleva arrivare?
«Puoi tornare a casa, Malvina. Marc Vitral verrà dritto qui da noi, a
Coupvray, alla Roseraie.»
Malvina maledisse se stessa, la propria stupidità.
Un puntino scuro si ingrandiva nello specchietto retrovisore, appariva e
spariva, mettendo a dura prova i suoi nervi. Dopo qualche ultimo volteggio,
l’elegante libellula rossa e oro andò a posarsi sul cofano blu della Mini.
19

2 ottobre 1998, ore 11.31


Marc si fermò per una piccola pausa. Si poggiò contro il corrimano cromato
al centro della ripida scala che scendeva verso boulevard Blanqui. L’acciaio
freddo gli ghiacciò la mano.
Aveva ben presente l’itinerario. Metrò linea 6. Cambio a Nation. Poi la
linea A4 della RER , direzione Marne-la-Vallée. Uscita Val-d’Europe,
penultima stazione prima del capolinea. In un’ora al massimo sarebbe
arrivato a Coupvray. Non avrebbe avuto difficoltà a trovare l’indirizzo dei de
Carville; gli bastava telefonare a Jennifer, la sua collega che per fortuna quel
giorno era di turno.
Non c’era bisogno di avvertire i de Carville del suo arrivo: sicuramente in
casa ci sarebbe stato qualcuno che avrebbe potuto rispondere alle sue
domande; il nonno sulla sedia a rotelle e la regina madre non dovevano
lasciare spesso la proprietà, neanche per fare la spesa. Pagavano qualcuno per
questo. Anche per questo.
Marc sorrise. Avrebbe fatto loro un’improvvisata. Dopotutto, ormai, lui e i
de Carville avevano lo stesso scopo: dimostrare che Lylie non era sua sorella,
che il sangue dei Vitral non scorreva nelle sue vene. Senz’altro avrebbero
trovato un terreno d’intesa.
Un terreno d’intesa...
Rabbrividì ripensando al cadavere di Grand-Duc.
Afferrò il cellulare. Come si era ripromesso, doveva telefonare a Dieppe.
Incappò un’altra volta in una segreteria.
Da molto tempo ormai chiamava sua nonna per nome. Era stato il suo
modo di superare una volta per tutte l’incertezza che lo aveva tormentato nei
primi dieci anni di vita: “mamma” o “nonna”?
«Nicole? Sono Marc. Hai notizie di Lylie? Recenti, voglio dire, da
stamattina alle nove? Richiamami, è importantissimo.» Fece una pausa, poi
aggiunse: «A proposito, Nicole, anche se io non me lo ricordo, eri bellissima
quando avevi cinquant’anni! Un bacio».
Strinse il palmo sinistro sul metallo freddo del corrimano, come per
lasciare qualche brandello di carne quando l’avesse staccato. Le dita dell’altra
mano danzarono sui tasti del telefono.
Sette squilli.
«Lylie. Dove sei? Rispondi! Non te ne andare. Sono appena stato da
Grand-Duc. Non si è suicidato. Ha... ha scoperto qualcosa. Anch’io posso
scoprirlo. Ce la posso fare. Chiamami.»

Marc si infilò nel metrò. Le banchine erano quasi vuote a quell’ora. Aveva
avuto appena il tempo di perdersi con lo sguardo, dall’altro lato dei binari, nel
paesaggio misterioso di un manifesto gigante che invitava a visitare gli
Emirati Arabi quando il convoglio arrivò e si tuffò nella sabbia dorata,
proprio davanti al palazzo orientale, sotto le stelle da mille e una notte.
Otto fermate da Corvisart a Nation.

Diario di Crédule Grand-Duc


Dunque ero stato ingaggiato per un’indagine che sarebbe durata diciotto anni.
Ma ci pensate? Sono diciotto anni che questa storia mi sta appiccicata ai
neuroni, come una pallina di cervello rosa masticata e rimasticata fino ad
avere perso tutto il suo sapore. Fate attenzione, voi che leggete queste pagine,
che la pallina non si attacchi anche ai vostri pensieri, impastata dalla vostra
immaginazione, stesa dalla vostra logica. Senza fine.

I primi mesi dell’indagine furono straordinariamente eccitanti. Anche se


avevo diciotto anni davanti a me, mi sentivo in preda alla frenesia. Avevo
divorato tutti i documenti dell’inchiesta, centinaia di pagine, in meno di
quindici giorni. I primi due mesi interrogai svariate decine di testimoni: i
vigili del fuoco che erano intervenuti sul Mont Terrible, il personale medico
dell’ospedale di Belfort-Montbéliard, il dottor Morange, gli amici dei de
Carville, gli amici dei Vitral, i poliziotti, il commissario Vatelier, gli
avvocati, Leguerne e gli altri, i due giudici, Le Drian e Weber, e via dicendo.
Dormivo pochissimo, lavoravo quindici ore al giorno, mi svegliavo
pensando all’indagine, come se volessi sistemare quella storia il più
velocemente possibile, come se volessi dimostrare alla mia committente
quanto fossi zelante, in modo che fosse contenta di me e mi assicurasse il
contratto a vita. Fidelizzare il cliente, come direbbe un negoziante.
In realtà non stavo facendo calcoli. Quel caso mi affascinava ed ero
convinto che avrei scoperto qualcosa di nuovo, un indizio che tutti avevano
trascurato. Accumulavo gli appunti, le foto, le ore di registrazione... Un
lavoro folle. All’epoca non sapevo ancora che stavo costruendo,
meticolosamente, le fondamenta della mia nevrosi.
Dopo qualche settimana trascorsa a studiare i documenti dell’inchiesta ero
arrivato a un primo punto fermo. In quel momento mi pareva che fosse
un’idea geniale.
Il braccialetto.
Quel maledetto braccialetto d’oro, il regalo del nonno, che probabilmente
Lyse-Rose de Carville indossava in aereo. Il gioiello che aveva fatto vacillare
la certezza del giudice Weber, il granello di sabbia sulla bilancia della
giustizia, l’arma fatale dei Vitral e dell’avvocato Leguerne. Ero certo che
quell’arma fatale fosse una lama a doppio taglio. L’assenza del braccialetto
induceva a credere che la miracolata fosse Emilie Vitral... Ma se la bambina
proiettata fuori dall’aereo fosse stata Lyse-Rose, nulla vietava di pensare che
quel fine gioiello si fosse spezzato al momento dell’impatto. Detto questo, se
il braccialetto fosse stato trovato da qualche parte vicino all’aereo, allora tutto
sarebbe cambiato. Sarebbe stata la prova irrefutabile che la miracolata era
Lyse-Rose!
Sono un tipo paziente, maniacale, ostinato. Posso essere ossessivo nel
lavoro, ve lo assicuro. Anche se i poliziotti avevano rastrellato tutta l’area
intorno all’Airbus carbonizzato, ricominciai daccapo. Armato di un metal
detector, trascorsi diciassette giorni sul Mont Terrible, alla fine di agosto del
1981, a setacciare la foresta, centimetro per centimetro. La sera dello schianto
c’era stata una tempesta. Il braccialetto poteva essere caduto nella neve,
essere affondato nella terra fangosa... Un poliziotto incaricato di ispezionare
il terreno dopo l’incidente, con le dita gelate e i piedi fradici, non sarebbe
stato certo troppo zelante.
Io invece sì.
E tutto per niente!
Vi risparmio l’inventario dettagliato di ciò che dissotterrai, fra cui tappi di
birra, lattine, monete e rifiuti di ogni tipo. A un certo punto il responsabile del
servizio ambientale del parco dell’Alto Giura, che si occupava della pulizia
del Mont Terrible, mi prese in simpatia. L’ingegner Grégory Morez. Un bel
ragazzo, con la barba incolta, gli occhi da cane lupo e il viso abbronzato e
scolpito, come se scalasse il Kilimangiaro tutti i weekend... Alla fine
facemmo amicizia.
Portai giù dal monte tre sacchi pieni di spazzatura, ma del braccialetto
neanche l’ombra!
Non ero propriamente deluso, a dire il vero. Lo sospettavo, ve l’ho detto
che sono un tipo ostinato. Mi stava bene obbedire agli ordini di Mathilde de
Carville: non trascurare nessuna pista, procedere passo dopo passo, prendersi
il tempo necessario.
La mia convinzione era un’altra.
Se la notte del dramma il braccialetto fosse davvero caduto da qualche
parte accanto alla miracolata, qualcuno avrebbe potuto trovarlo – un
pompiere, un poliziotto, un infermiere – e infilarselo in tasca... O forse
qualcuno della zona era tornato a rovistare, una volta che la carlinga si era
raffreddata. Era un gioiello in oro massiccio, stimato all’epoca
undicimilacinquecentosessanta franchi, come scritto sulla fattura. C’era il
marchio di Tournaire di place Vendôme. Un gioiello del genere poteva essere
davvero oggetto di cupidigia. È un classico, gli sciacalli che frugano tra i
rottami, tanto più che nessuno poteva sospettare l’importanza che avrebbe
assunto, in seguito, quel maledetto braccialetto.
La mia idea era estremamente semplice, elementare se vogliamo: inondare
la regione di annunci promettendo una cospicua ricompensa a chi ci avesse
restituito il famoso gioiello. La somma doveva essere molto superiore al
valore del bene. D’accordo con Mathilde de Carville, avevo previsto di
aumentare a mano a mano la taglia dell’esca. Eravamo partiti bassi, con
ventimila franchi... Una pesca di quel tipo richiedeva pazienza, tempo e
scaltrezza, prima che il pesce abboccasse. Ero fiducioso. Se il braccialetto era
stato trovato, se giaceva in un cassetto, nascosto gelosamente da un ladro
occasionale, come Gollum conserva l’anello di Frodo, un giorno o l’altro
sarebbe riemerso in superficie, un indizio sarebbe filtrato.
Avevo ragione. Su questo punto, almeno, avevo ragione.

L’altra mia grande occupazione nei primi sei mesi d’indagini fu ciò che da
allora ho iniziato a chiamare “le mie vacanze turche”. Avrò passato in
Turchia quasi trenta mesi in tutto, la maggior parte dei quali nel corso dei
primi cinque anni.
Ero affiancato da Nazim Ozan, che aveva accettato subito di assistermi
nell’indagine. All’epoca lavorava a chiamata in diversi cantieri, più o meno
in nero. Si avvicinava anche lui alla cinquantina e giocare al mercenario nelle
zone calde del pianeta, circondato da kamikaze fanatici, non gli andava più
tanto a genio. E soprattutto aveva incontrato l’amore. Viveva a Parigi con la
moglie, un po’ cicciottella ma davvero carina, di origine turca come lui, Ayla.
Vai a sapere perché, quei due erano inseparabili... Ayla era il tipo di donna
padrona, gelosa come una tigre, e mi toccava negoziare per ore ogni volta che
avevo bisogno di portarmi dietro Nazim in Turchia. Una volta là, doveva
telefonarle tutti i giorni. Sono convinto che Ayla non abbia mai capito niente
di questa storia dell’indagine o, peggio, che non ci abbia mai creduto... Però
non ce l’aveva con me, anzi, insistette perché fossi il loro testimone di nozze
nel giugno del 1985.

Anche se Ayla si opponeva, il più delle volte trascinavo Nazim con me in


Turchia, dove mi faceva da interprete. A Istanbul andavo sempre all’hotel
Askoc, sul Corno d’Oro, vicino al ponte di Galata. Nazim, invece, dormiva
da certi cugini di Ayla a Eyüp, nella periferia di Istanbul. Non aveva scelta!
Ci incontravamo in un bar di fronte all’hotel, il Dez Anj, su Ayhan Isik
Sokak. Nazim ne approfittava per scolarsi un raki dopo l’altro e tentava di
iniziarmi al narghilè.
Vacanze turche, vi dicevo. Ma dico per ridere! Devo confessarvelo, credo
di essere sempre stato un po’ cinico per quanto riguarda le arti e le tradizioni
del mondo: l’esotismo, lo spaesamento, questo genere di stereotipi. Forse un
po’ razzista, se volete, ma non nei confronti di una cultura in particolare; il
mio era una sorta di scetticismo globale sul genere umano, con buona
probabilità ereditato dal mio vecchio mestiere di mercenario, di spazzino
incaricato di svuotare i cassonetti del mondo; di droghiere delle polveriere, se
preferite.
La vita turca cominciò a uscirmi dagli occhi, dal naso e dalle orecchie
dopo neanche una settimana. Il carillon incessante dei minareti, il mercato
perenne per le strade, le donne con il velo, le prostitute, il tè, l’odore delle
spezie, i taxi che corrono come pazzi, gli ingorghi perenni, fino al Bosforo...
Tutto insomma! Alla fine i baffi di Nazim erano l’unica cosa che sopportavo.
Be’, immagino che ve ne infischiate della mia antropologia da bazar.
Avete ragione, non è questo l’argomento di cui dobbiamo parlare. Era solo
per ridimensionare la voce “vacanze mediterranee” di questa storia. Mi
rifugiavo nel lavoro. Non vi sto mentendo. I primi mesi, almeno, io e Nazim
abbiamo sgobbato come forsennati sull’indagine! Abbiamo passato ore a
interrogare i commercianti del Gran Bazar per trovare chi potesse avere
venduto i famosi vestiti indossati dalla miracolata. Un body di cotone, un
abitino a fiori arancioni, un golfino beige di lana jacquard... Vogliamo
parlarne? Il Gran Bazar di Istanbul è la galleria commerciale più grande del
mondo: cinquantotto strade interne, quattromila negozi... Quasi tutti i
venditori masticavano un po’ di inglese e di francese, perciò tentavano di fare
a meno della traduzione di Nazim e si rivolgevano direttamente a me, come
se sulla mia fronte fosse impressa in filigrana la bandiera tricolore.
“Un bambino, fratello? Cerchi abiti per il tuo bambino? Ho tutto quello
che ti serve. È maschio o femmina il tuo tesorino? Dimmi tu il prezzo...”
Quattromila negozi, credetemi! E tre o quattro volte tanto di
commercianti, che individuano l’allocco occidentale a cinquanta metri. Ma
ho tenuto duro. Fino alla fine. Ho trascorso più di dieci giorni a percorrere in
lungo e in largo quel dedalo dal soffitto a mosaico dorato. Alla fine avevo
individuato diciannove negozi che vendevano il body di cotone, il vestitino e
il golfino di lana; tutti e tre gli articoli, esattamente gli stessi... Però nessun
commerciante si ricordava di aver venduto i tre indumenti a una famiglia
occidentale.
Fatica sprecata.
Il vicolo cieco alla fine del dedalo.

Non restava che cercare di saperne di più su Lyse-Rose e sui suoi genitori,
Alexandre e Véronique de Carville. L’inchiesta ufficiale per l’identificazione
di Lyse-Rose si basava solo su due punti: la fotografia di spalle ricevuta dai
nonni de Carville e la testimonianza di Malvina. Dovevamo quindi riprendere
in mano tutto, in Turchia, sulla costa, nella loro residenza di Ceyhan.
Manifestavo un ragionevole ottimismo. In tre mesi di vita la piccola Lyse-
Rose doveva pur aver incrociato qualcuno! Mi sono ricreduto in fretta.
A quanto pareva Alexandre e Véronique de Carville non erano molto
socievoli, non amavano i bagni di folla esotici né i contatti fraterni con la
popolazione indigena. Tendevano invece a starsene segregati nella loro villa
bianca con vista sul Mediterraneo. Avevano anche una piccola spiaggia
privata.
Be’, era soprattutto Véronique che si occupava di gestire quel monastero.
Alexandre lavorava a Istanbul quasi tutta la settimana. Certo, ogni tanto
ricevevano degli amici, dei colleghi, dei francesi... Ma prima che arrivasse
Lyse-Rose. Dalla nascita della bambina, Véronique aveva ridotto al minimo
gli incontri mondani.
Tramite svariati controlli incrociati, trovai sette persone, due coppie di
amici e tre clienti della ditta de Carville, che erano state invitate nella villa di
Ceyhan dopo la nascita di Lyse-Rose. Ogni volta la neonata dormiva e gli
invitati si ricordavano solamente di un batuffolo che sporgeva appena dalle
lenzuola, le quali si sollevavano a intervalli regolari. Solo un cliente, un
olandese, aveva visto Lyse-Rose sveglia per qualche secondo. Véronique si
era subito ritirata per allattarla, allontanandosi dall’industriale olandese che
aveva continuato a scolarsi il suo raki nel patio mentre firmava contratti con
Alexandre. Il raffinato direttore commerciale della filiale turca di Shell, che
alla fine riuscii a trovare, precisò che non sarebbe stato in grado di
riconoscere il viso di Lyse-Rose né tanto meno le tette della madre...

A Bakirköy, l’ospedale di Istanbul dove Véronique de Carville aveva


partorito, nascevano più di trenta bambini ogni settimana. Era una clinica
privata all’ultima moda e fui accolto con grande ossequiosità. Il pediatra,
l’unico che aveva seguito Lyse-Rose, l’aveva esaminata circa tre volte e mi
fece notare che vedeva sfilare più di venti neonati al giorno. Tirò fuori un
registro su cui erano annotate le informazioni relative alla neonata. Il peso:
tre chili e duecentocinquanta grammi; la lunghezza: quarantanove centimetri.
La bambina ha pianto? Sì.
Aveva gli occhi aperti? Sì.
Altre osservazioni? Nessuna.
Segni particolari? Nessuno.
Un vicolo cieco, l’ennesimo!

Véronique de Carville doveva annoiarsi a morte nella sua villa. Aveva del
personale di servizio. Riuscii a scovare solo un giardiniere, un uomo po’
anziano, un po’ troppo miope per i miei gusti, che aveva incrociato Lyse-
Rose sotto le palme, al tramonto, protetta da una spessa zanzariera. Niente di
utile a parte una descrizione approssimativa, ancor meno affidabile delle
dichiarazioni deliranti di Malvina.

Non vi elencherò in dettaglio le testimonianze incerte, vaghe, inutilizzabili


che ho accumulato nel corso di quei mesi. Non bisognava tralasciare nessuna
pista a detta di Mathilde de Carville. Io obbedivo, affascinato; dopotutto,
bastava una testimonianza, una sola, per vincere il terno al lotto.
All’aeroporto Atatürk di Istanbul una hostess si ricordava, prima della
partenza dell’Airbus per Parigi, quel 22 dicembre, di aver dato tre buffetti sul
mento a una neonata.
Una neonata, non due?
No, una sola.
Almeno così credeva, non ne era sicura. Né del giorno, né del volo.
Almeno una neonata, questo se lo ricordava...
Quella hostess aveva insinuato un altro dubbio nel mio cervello confuso.
Una neonata sola sull’aereo?
Dopotutto, chi poteva sapere con certezza chi era veramente seduto
nell’Airbus quella sera? La lista dei passeggeri era risaputa, ma se uno di loro
all’ultimo momento non si fosse imbarcato? Una neonata, per esempio. Lyse-
Rose, perché no? Un ritardo, un inconveniente dell’ultimo minuto, un colpo
di testa della madre, un rapimento, un complotto, qualsiasi cosa mi
permettesse di pensare che Lyse-Rose non fosse sull’Airbus 5403 quella sera
e che fosse ancora viva, da qualche parte in Turchia...
O altrove.
Un’ipotesi totalmente folle!
Si poteva anche arrivare a un’altra conclusione. Non era strano che ci
fossero così pochi elementi tangibili su Lyse-Rose, quella bambina di tre
mesi? Testimonianze scarne, nessun amico che la coccolasse, nessuna tata
che la stringesse tra le braccia, nessuna foto. Nulla, o quasi. Era come se
quella bambina non fosse mai esistita o come se avessero voluto nasconderla.
A forza di rimuginare su quelle ipotesi stavo andando in paranoia. Se
Lyse-Rose non aveva preso l’aereo, magari era morta prima. Un incidente
domestico? Una malattia incurabile alla nascita? Un delitto? Alexandre e
Véronique de Carville avevano portato il loro segreto con sé.
Solo Malvina sapeva, forse. Per questo era diventata pazza.

Tutte quelle ipotesi facevano ridere Nazim fino alle lacrime quando gliele
elencavo al caffè Dez Anj.
Annegava i baffi nel raki. «Un delitto? Stai andando fuori di testa,
Crédule!» Mi riportava con i piedi per terra, tra due sbuffi di narghilè. Lui
credeva solo agli indizi materiali, concreti. Palpabili. «Dopotutto, la bambina
non è rimasta chiusa in una cella per tre mesi. Sarà pur uscita per strada.
Magari qualcuno, un passante o un turista, l’ha vista, le ha scattato una foto,
l’ha filmata per caso... Non si sa mai.»
«Cosa vuoi dire di preciso?»
«Non so. Soldi ne hai. Fai pubblicare annunci sui giornali di tutta la
Turchia con la foto della miracolata, quella de “L’Est Républicain”. Vedi
cosa succede.»
Nazim aveva ragione, era un’idea geniale. Bombardammo la stampa turca
di annunci espliciti su ciò che stavamo cercando e su ciò che offrivamo in
cambio, una vera e propria cuccagna in lire turche.

Il 27 marzo 1982 – non scorderò mai questa data –, la mattina presto, una
lettera mi aspettava nella casella alla reception dell’hotel Askoc. Un tipo
l’aveva consegnata a mano. Il messaggio era laconico: un nome, Unal
Serkan, un numero di telefono e, soprattutto, la fotocopia di una fotografia...
Attraversai Ayhan Isik Sokak come impazzito, in mezzo a un fiume di
macchine. Nazim mi stava già aspettando al Dez Anj.
«Problemi, Crédule?»
Ficcai la foto tra le sue grosse dita pelose. I suoi occhi si impietrirono.
Fissò l’immagine, proprio come avevo fatto io qualche minuto prima.

Una spiaggia.
In primo piano, una ragazza bruna, abbronzata, dal fisico perfetto, posava
con un gran sorriso in un bikini non proprio sexy, modello turco. Sullo
sfondo, si riconoscevano le colline di Ceyhan e, nel loro scrigno verde, le
mura della villa dei de Carville.
Sulla spiaggia, qualche metro dietro la ragazza in costume, c’era una
neonata distesa su una coperta, accanto a una donna di cui si vedevano solo le
gambe. Una neonata di qualche settimana. Nazim restò stupefatto. La foto
quasi gli cadde dalle mani.
Quella neonata era Lylie, la Libellula, la miracolata del Mont Terrible,
senza ombra di dubbio. Stessi occhi, stesso viso...
Pascal e Stéphanie Vitral, durante il loro soggiorno in Turchia, non erano
mai stati a Ceyhan, non erano neanche arrivati a duecento chilometri da
quella località. Non c’era alcun dubbio, ecco la prova, finalmente. Ce
l’avevamo fatta!
La bambina ritrovata nella neve sul Mont Terrible era Lyse-Rose de
Carville.
Avrei pianto di gioia. I grossi baffi di Nazim mi sorridevano, rassicuranti.
Lo aveva capito anche lui. Era felice come un bambino.

2 ottobre 1998, ore 11.44


Uno squillo, uno solo. Quasi impercettibile nel frastuono sotterraneo.
Non una telefonata, bensì un messaggio lasciato in segreteria. Una
chiamata persa.
Le dita tremanti di Marc raggiunsero la tasca.
20

2 ottobre 1998, ore 11.42


Ayla Ozan tagliava meccanicamente la carne di montone grigliata, che
cadeva sull’acciaio inox in sottili lamelle. La sua mente era altrove. Questo
però non la rallentava; anzi, quando si perdeva nei suoi pensieri, era più
efficiente nel preparare i kebab di quando si attardava a parlare e scherzare
con i clienti.
La fila cominciava ad allungarsi, come sempre verso mezzogiorno. Il
negozietto di boulevard Raspail aveva i suoi fedelissimi.
Ayla non lo dava a vedere, ma era preoccupata. Terribilmente
preoccupata. Erano due giorni che non riceveva notizie da Nazim. Non era da
lui! La lama continuava a far piovere la carne. Ayla si vide passare
l’apparecchio sulla nuca, sul collo e sulle tempie di Nazim. Adorava giocare
alla parrucchiera con il suo gigante. Le tremava leggermente la mano; non
succedeva mai quando rasava Nazim.
Avere paura non era da lei. Ne aveva passate tante quando era scappata a
Parigi dalla Turchia con il padre, dopo il colpo di Stato del 12 settembre
1980. Suo padre all’epoca era uno dei principali esponenti del Demokratik
Sol Parti. Erano sfuggiti per un soffio ai militari... Trentamila arresti in pochi
giorni! Quasi tutta la sua famiglia si era ritrovata dietro le sbarre.
Lei era arrivata a Parigi senza bagagli, senza amici, senza niente. Aveva
trentotto anni, non parlava il francese, non aveva un titolo di studio.
Ma era sopravvissuta! Si sopravvive sempre se lo si vuole davvero.
Aveva aperto, in boulevard Raspail, uno dei primi chioschi di kebab di
Parigi. All’epoca nessun francese aveva voglia di mangiare carne grigliata
all’aria aperta, davanti a tutti, in mezzo alle mosche e all’inquinamento
cittadino. I suoi clienti erano turchi, greci, libanesi, iugoslavi... Era così che
aveva incontrato Nazim.
Lui tornava tutti i giorni all’ora di pranzo. Ayla non poteva perdersi i suoi
baffi! Ci aveva messo quasi un anno – esattamente trecentosei pranzi, Ayla li
aveva contati – per decidersi a invitarla a uscire con lui. Erano stati in un
ristorante turco chic in rue d’Alésia.
Da allora non si erano più separati, o quasi. Sposati, per sempre.
Ayla ebbe un brivido.
Mai più separati, o quasi.
C’erano stati quei maledetti soggiorni in Turchia, con Grand-Duc, per
quella dannata storia della bambina ricca morta in un incidente aereo.
Un’indagine privata da miliardari.
Ayla afferrò tre kebab avvolti nella carta di alluminio rovente e gridò:
«Numero undici! Numero dodici! Numero tredici!».
I clienti alzavano la mano, come a scuola o a uno sportello. Ognuno con il
proprio bigliettino. Ayla non poteva andare più velocemente. Vuotò un
sacchetto di patatine surgelate nell’olio bollente.
Ormai credeva che quella storia fosse finita. Con il suo ristorante, se si
poteva definirlo così, aveva messo da parte del denaro, a poco a poco, pranzo
dopo pranzo. Un bel gruzzolo, tutto sommato.
Non aveva più l’età per trasportare i sacchi di carne e scottarsi le mani
nella frittura. Sognava di tornare in Turchia con Nazim, rivedere la sua
famiglia, i suoi cugini. Poteva quasi permetterselo, aveva fatto e rifatto i
conti. Aveva trovato una casetta da sistemare sulla costa, vicino ad Antiochia,
un affare. Là faceva sempre bello. Lei e Nazim avevano ancora tanti anni da
vivere! I migliori.
Ma che diavolo stava combinando quel somaro? In quale affare
strampalato si era lasciato trascinare da Grand-Duc?
Altri tre pezzi di carta d’alluminio. Confezionò i pacchetti come se fossero
dei regali d’argento.
Numero quattordici. Numero quindici. Numero sedici...
“È l’ultima volta” le aveva detto Nazim. “L’ultimissima!” Era tutto
eccitato quando Crédule lo aveva chiamato, due giorni prima. Gli brillavano
gli occhi come a un ragazzino. Ayla lo adorava quando aveva
quell’espressione da bambino. L’aveva presa tra le braccia sollevandola come
una piuma. Nazim era l’unico a poterlo fare. “Saremo ricchi, Ayla. C’è solo
un’ultima questione da sistemare, poi saremo ricchi!”
Ricchi? Ad Ayla non importava. Lo erano già, quasi abbastanza per
comprare la casa di Antiochia.
“L’ultima. Me lo prometti?”
Le mani di Ayla tremavano. La lama deviava dalla sua corsa rettilinea
riducendo la carne a brandelli, una poltiglia immangiabile...
Più ci pensava e più tutto ciò che succedeva le faceva paura. Quel silenzio.
Quell’improvvisa mancanza di notizie. Anche quando andava in Turchia,
Nazim chiamava tutti i giorni. Ora nemmeno Crédule rispondeva. Non c’era
nessuno a casa sua. Stava provando a contattarlo da due giorni. Sì, più ci
pensava e più il trascorrere dei minuti l’angosciava. Aveva una specie di
brutto presentimento. Se non fosse stato per quegli ultimi clienti, sarebbe
corsa come una pazza in rue de la Butte-aux-Cailles, da Grand-Duc. Era
quello che avrebbe fatto non appena chiuso il negozio.
Numero diciassette. Numero diciotto...
Era consapevole che il suo Nazim non era un santo. Le aveva anche
confessato azioni terribili, in tutti quegli anni, quando facevano l’amore. Lei
gli lasciava strofinare i baffi in tutte le pieghe del proprio corpo e scoppiava a
ridere, scossa dai brividi, perché quei peli maliziosi le facevano il solletico
sul seno, sulle cosce, sul sesso... Poi, dopo aver goduto, lui le diceva tutto.
Non poteva farne a meno. Non le aveva mai nascosto nulla. Ayla conosceva i
nomi, i luoghi, sapeva dove Nazim nascondeva le prove. Era la sua
assicurazione sulla vita. Un’indagine da miliardari... Meglio prendere
precauzioni: quando il denaro arriva così facilmente, e per tanto tempo, di
sicuro un giorno qualcuno ti presenta il conto.
Era anche per questo che voleva andarsene ad Antiochia. Perché Nazim
lasciasse tutte quelle storie lì, a Parigi.
Numero diciannove.
Ayla sospirò. No, Nazim non era un santo. Senza di lei non era in grado di
fare le scelte giuste. Di discernere tra il bene e il male.
21

2 ottobre 1998, ore 11.45


Il metrò rallentò entrando nella stazione di place d’Italie e ruppe l’oscurità
con mille scintille. Marc afferrò il cellulare in preda a un’eccitazione quasi
incontrollabile e se lo incollò all’orecchio.
“Sei sempre il solito, Marc. Ti avevo chiesto di non chiamarmi, di non
tentare di raggiungermi, di non cercarmi. Te l’ho detto, l’altroieri ho preso
una decisione importante. È stato molto difficile, ci ho pensato tanto, ma alla
fine ho deciso, da sola. Non capiresti quello che sto per fare. Anzi, non lo
accetteresti. Conosco i tuoi sentimenti, Marc, i tuoi buoni sentimenti. Non
prendertela, è un complimento per me parlare dei tuoi buoni sentimenti. Del
tuo senso morale, anche. Della tua dedizione. So che saresti pronto ad
accettare tutto, a perdonare tutto, se te lo chiedessi. Ma non voglio
chiedertelo. Marc, non ti ho mentito, nella mia lettera, quando parlavo di un
viaggio. La grande partenza è fissata per domani, il grande viaggio senza
ritorno. Nessuno può fermarlo ormai... È così. Abbi cura di te.”
Marc si sciolse ascoltando il messaggio. Ebbe la tentazione di scaraventare
il cellulare in fondo alla vettura. Sottoterra il segnale era debole e
intermittente. Una stazione sì e una no, ad andar bene.
Lylie l’aveva chiamato...
E non c’era campo! Il colmo! Aveva parlato alla segreteria telefonica.
Il cellulare gli scivolava tra le mani sudate, come un pezzo di sapone
bagnato. Tremava. Cosa voleva dire Lylie?
“La partenza è fissata per domani, il grande viaggio senza ritorno.
Nessuno può fermarlo ormai...”
E se invece...
Marc non riusciva a contemplare un’ipotesi simile. Così tetra, così
macabra.
No, Lylie no!
Tuttavia più ci pensava e più quello che aveva intuito fra le righe gli
sembrava chiaro.
Il grande viaggio senza ritorno...
Ormai ne aveva una sinistra certezza.
L’aereo giocattolo. La decisione presa il giorno del suo diciottesimo
compleanno.
Tutto quadrava.
Lylie aveva deciso di farla finita con i suoi dubbi, le sue ossessioni, il suo
passato.
Aveva deciso di uccidersi.
Il giorno dopo.

Lylie gettò in un bidone dell’immondizia, vicino al lago, il kebab avvolto


nella carta di alluminio. Non lo aveva quasi toccato. Non aveva fame.
Camminò un po’, avvicinandosi all’acqua. Per lei il parco Montsouris,
erroneamente considerato il più grande di Parigi, era soprattutto il più
sinistro, per lo meno in ottobre. Quell’acqua fredda, cupa e sporca, quegli
alberi nudi come un esercito di scheletri, la vista sconfinata su avenue Reille
e i suoi edifici grigi di tutte le altezze, come una siepe di cemento tagliata
male...
Le anatre che un tempo vivevano nel parco se n’erano andate da tempo e
gli amanti di pietra, immobili, tremanti sul loro piedistallo di marmo, davano
l’impressione di avere un solo desiderio: rivestirsi e darsela a gambe anche
loro.
Lylie proseguì lungo il viale del lago. Era strano, pensò, come i luoghi
avessero la proprietà di trasformarsi secondo l’umore delle persone. Come se
indovinassero, d’istinto, quello che avevano in testa e le assecondassero. Era
come se gli alberi avessero capito perfettamente che stava male e si fossero
fatti più discreti, raccolti, perdendo le foglie per solidarietà, per pietà nei suoi
confronti. Era come se il sole si fosse nascosto per pudore, vergognandosi di
brillare su un parco in cui vagava una ragazza in lacrime.
Lylie aveva di nuovo spento il telefono. Un attimo prima aveva ceduto,
aveva richiamato Marc. Le aveva lasciato così tanti messaggi, doveva essere
così preoccupato, che almeno quello glielo doveva. Alla fine aveva tirato un
sospiro di sollievo sentendo scattare la segreteria. Non aveva dovuto
affrontare le sue domande. Era come se perfino le onde che collegavano
migliaia di telefoni senza fili avessero percepito d’istinto che in realtà Lylie
non voleva sostenere quella conversazione.
Si diresse verso il viale della Mira e si sedette su una panchina. Delle
risate la indussero a voltare la testa.
Due bambine di circa due anni stavano giocando, controllate a
intermittenza dalla madre che, seduta nei pressi, spostava gli occhi dalle figlie
a un tascabile dalla copertina bianca e blu.
Erano due gemelle. Indossavano pantaloni beige, una giacca rossa
abbottonata davanti e un paio di Kickers identici.
Impossibile distinguerle.
Eppure la madre, ogni volta che sollevava gli occhi, lanciava una
raccomandazione mirata: «Juliette, stai seduta sull’altalena»; «Anaïs, non
spingere tua sorella sulla giostra»; «Juliette, non si sale al contrario sullo
scivolo».
Le bambine andavano e venivano, passando da un gioco all’altro, si
davano la mano, poi si separavano, come se anche quello fosse parte del
divertimento. Chi era chi? Lylie seguiva il loro balletto con gli occhi come
per strada si seguono le mani nel gioco delle tre carte. Ogni volta perdeva,
incapace dopo qualche istante di indovinare chi fosse Juliette e chi Anaïs. La
madre si limitava ad alzare la testa per un secondo e non sbagliava mai:
«Anaïs, il fermaglio!»; «Juliette, vieni qua che ti soffio il naso».
Lylie avvertì una strana emozione crescerle dentro, senza riuscire a
spiegarsi il perché. Guardava quelle due bambine identiche in tutto, eppure
perfettamente consapevoli di chi fossero: Anaïs non era Juliette, Juliette non
era Anaïs... Non perché si sentissero diverse, bensì perché la loro mamma le
distingueva l’una dall’altra, conosceva il loro nome e non si sbagliava mai. Il
loro unico nome.
Lylie restò a osservarle a lungo. Alla fine la madre mise via il libro, si alzò
e gridò: «Juliette, esci dalla casetta. Anaïs, scendi dalla scala di corda.
Torniamo a casa, papà ci aspetta per mangiare».
La donna si passò dolcemente una mano sulla pancia tonda. Era incinta di
qualche mese.
Gemelli?
Un’altra femmina?
Lylie chiuse gli occhi. Vedeva una neonata di pochi mesi che urlava, da
sola, in cima al mondo. Le sue grida si perdevano nell’immensa foresta,
nell’atmosfera ovattata dalla neve che cadeva a grossi fiocchi.
Lylie, stupidamente, non riuscì a trattenersi e si sciolse in lacrime.
22

2 ottobre 1998, ore 11.48


Dugommier.
Daumesnil.
Ancora niente campo!
Marc era rimasto stordito dal messaggio di Lylie. Preoccupato. Impotente.
Che alternativa aveva se non scavare alla cieca nelle viscere di Parigi,
quasi a caso? E continuare a leggere il quaderno di Grand-Duc?
Aveva a disposizione ancora qualche minuto prima di scendere a Nation.

Bel-Air.
Il convoglio frenò, si fermò, vibrò e ripartì.
Nessun passeggero. Ancora niente campo!
Leggere, leggere ancora.
Capire e ritrovare Lylie.
In tempo.

Diario di Crédule Grand-Duc


Léonce de Carville ebbe il primo attacco cardiaco mentre ero in Turchia, il 23
marzo 1982, solo qualche giorno prima che Unal Serkan mi lasciasse in hotel
la fotografia di Lyse-Rose de Carville scattata sulla spiaggia di Ceyhan.
Nessun rapporto, dunque, tra i due eventi.
A essere sincero, dell’infarto di Léonce de Carville non m’importava più
di tanto. L’avevo incontrato spesso per l’indagine e sono convinto che mi
considerasse un costosissimo soprammobile che sua moglie aveva voluto
comprare. A dire il vero, secondo me non riusciva a tollerare soprattutto il
fatto che sua moglie avesse preso l’iniziativa di ingaggiarmi senza prima
parlargliene. Ero la prova vivente del fallimento della sua strategia da
bulldozer. Collaborava con me svogliatamente, nonostante il sorriso, e mi
faceva pervenire le informazioni che gli chiedevo tramite le sue segretarie
oberate. Capirete dunque perché non mi sono sciolto in lacrime quando è
stramazzato sul prato della Roseraie. Dopotutto, era sua moglie che mi
staccava gli assegni, non lui!
D’accordo, non sapete che farvene del mio cinismo. È la foto della
spiaggia di Ceyhan che vi interessa? Volete sapere il succo di tutta la storia?
Okay, ci arrivo, ci arrivo...
Unal Serkan era come un’anguilla. Lo avevo contattato diverse volte al
telefono, offrendogli un capitale – duecentocinquantamila lire turche – per il
negativo della fotografia della spiaggia di Ceyhan. Questa storia si stava
trascinando già da una settimana. Intuivo che Serkan voleva ottenere di più,
vedere che cifra fossi disposto a spendere. Il 7 aprile, di primo mattino, mi
diede un appuntamento in viale Kennedy, ai piedi del Topkapı, di fronte al
Bosforo. Era un tipo piccoletto dai gesti bruschi, strabico, un occhio che
guardava verso l’Europa, l’altro verso l’Asia. Nazim mi accompagnò in veste
di traduttore. Serkan voleva un acconto, cinquantamila lire, senza nulla in
cambio, altrimenti avrebbe venduto la foto a qualcun altro.
A qualcun altro? A chi? Ai Vitral? Ci aveva preso per idioti.
Non cedetti, ovviamente. Senza il negativo, neanche una lira turca.
Nemmeno lui cedette. Arrivammo quasi alle mani, proprio lì, davanti alla
statua di Atatürk. Nazim dovette separarci.
Rientrando in hotel, avevo una strana sensazione. Non come se avessi
appena commesso un errore madornale, anzi, come se l’avessi scampata
bella. Telefonai in Francia per farmi spedire al più presto tutti i giornali e le
riviste che avevano pubblicato articoli sul caso del Mont Terrible. Ricevetti il
materiale di lì a tre giorni, il 10 aprile. Meno di un’ora dopo ebbi la risposta.
Quell’orrendo vaso blu sul comodino andò in mille pezzi quando lo
scaraventai sull’arazzo vermiglio appeso alla parete della mia camera.
Unal Serkan non aveva dovuto darsi troppo da fare! Il “Paris Match”
dell’8 gennaio 1981 aveva infatti pubblicato una serie di fotografie di Lylie,
nella sua culla, al nido dell’ospedale di Belfort-Montbéliard. In una di esse la
bambina era nella stessa posizione della foto sulla spiaggia, in Turchia,
teoricamente scattata un mese prima. Girata su un fianco, la gamba destra
piegata, il braccio sinistro sotto la testa; identica posizione, compreso
l’occhio socchiuso e la mano aperta.
La fotografia di Unal Serkan era un falso grossolano! Il lavoro non era
stato complicato: aveva semplicemente sostituito le lenzuola della culla con
un telo da spiaggia dello stesso colore. Quanto al resto, una foto qualsiasi
della sua ragazza e il gioco era fatto.
Mi venne l’impulso di strappare tutti gli arazzi dalle pareti della camera,
quei manufatti turchi che volevano venderci ogni volta che facevamo un
passo fuori in quella maledetta città. Tappeti, carne grigliata o qualsiasi altra
cosa... Tutto era in vendita: una casa intera, smontata e disposta sul
marciapiede, o anche i loro figli, le loro mogli, loro stessi, un braccio, una
gamba, un organo, un cuore...
Fottuto popolo di commercianti!
Camminai avanti e indietro per due ore nella mia camera, poi a poco a
poco mi calmai; alla fine non ero neanche più arrabbiato con Unal Serkan. Il
suo era un comportamento comprensibile, un buon tentativo: avrebbe potuto
funzionare. Una truffa da ducentocinquantamila lire turche per un banale
fotomontaggio la potevo capire. Non l’ho mai più rivisto, quell’Unal Serkan.
Dovevo occuparmi di altre faccende urgenti.

Le settimane successive in Turchia le trascorsi a formulare altre ipotesi. Al


caffè Dez Anj, Nazim le scartava tutte, una dopo l’altra. Aveva ragione.
Probabilmente era a causa del narghilè. Mio malgrado, avevo finito per
apprezzare i frenetici ritmi istanbulioti. Narghilè, raki, e l’immancabile keyif,
la cerimonia del tè servito su un vassoio d’argento in bicchierini di vetro
decorati che bruciano la punta delle dita.
«Nazim, e se Lyse-Rose non fosse figlia di Alexandre de Carville?»
«E allora?» Nazim sospirò soffiando sul suo tè. «Cosa cambierebbe,
Crédule?»
«Tutto! Immagina che, per una ragione qualsiasi, Alexandre de Carville
non sia il padre di Lyse-Rose... che Véronique abbia avuto un amante... Un
amante dagli occhi celesti... Ciò cambierebbe tutto, in termini di genetica, di
tutte le somiglianze che stiamo cercando. Non credi?»
«Un amante, Crédule?» Nazim mi lanciò uno sguardo malizioso e
divertito, proprio lo sguardo che doveva far impazzire la sua piccola Ayla.

Tutti pensano che per i detective privati i casi di adulterio siano faccende di
routine, giusto per guadagnarsi la pagnotta, la feccia del mestiere... Cazzate!
In realtà spiare la vita sessuale dei clienti resta uno degli aspetti positivi del
mio lavoro.
Non ebbi alcuna difficoltà a scoprire che Alexandre de Carville non era un
modello di virtù, per usare un eufemismo. Un po’ lo sospettavo. Quando hai
il potere, il denaro e la giovinezza, in una città dove la poligamia è una
pratica plurimillenaria, con una moglie che si occupa dei bambini a
cinquecento chilometri dal luogo in cui lavori... Con il tempo riuscii a
scoprire una mezza dozzina di avventure extraconiugali del bell’Alexandre. È
strano: le donne hanno la tendenza a confessare abbastanza facilmente le loro
avventure con un amante deceduto e sono ancora più loquaci quando anche la
moglie dell’interessato è morta...
Bizzarri, i sentimenti.
Ad Alexandre de Carville piacevano i classici, come farsi la segretaria
sulla scrivania di vetro dell’ufficio di Istanbul, nel quartiere di Yenikapı. Ho
visto entrambe, scrivania di vetro e segretaria. Eleganti e fredde. Per tre mesi
aveva anche ritrovato la giovinezza con una provocante istanbuliota, appena
maggiorenne, che andava in giro per il quartiere di Galata con una gonna che
le copriva a malapena il sedere e l’ombelico al vento, sotto lo sguardo
inquisitorio delle donne con il velo nero. Lo trascinava di locale in locale. La
rintracciai, si era sposata. Due figli. Ancora non portava il velo, ma niente più
minigonne. Sorvolo sulle avventure da hammam, sugli spettacoli di danza del
ventre, con semiprofessioniste dell’amore, spesso in compagnia di clienti,
peraltro. Stando alle mie ricerche, l’amante più fedele fu Pauline Colbert, una
francese, donna in carriera, single, responsabile delle vendite di Total, che
secondo le sue stesse parole era stata l’ultima a fare l’amore con Alexandre
de Carville, il 22 dicembre 1980, ovvero il giorno stesso della partenza della
famiglia sull’Airbus 5403. Evidentemente aver fatto godere, e più volte,
precisò Pauline, uno che sarebbe finito carbonizzato in un aereo meno di
ventiquattr’ore dopo la eccitava terribilmente, con il senno di poi. Mi
confessò senza il benché minimo pudore che con Alexandre si faceva delle
gran belle scopate e che era quasi arrivata a fargli un pompino nel serraglio
del Topkapı, in barba ai guardiani del palazzo. La donna aveva un viso
ordinario su un corpo piuttosto sexy. Ebbi la sensazione che insistendo un po’
avrebbe aggiunto volentieri un detective privato al suo bottino di caccia. Lì
per lì non me la sentii di trasformarmi in fagiano.
Da qui una prima domanda: Véronique de Carville era al corrente delle
scappatelle del marito?
Difficile pensare il contrario. Una seconda domanda, ben più importante,
sorse allora spontanea: Véronique gli rendeva pan per focaccia? Non ho
trovato nessuna prova. Tutto sembrava dimostrare che lei era piuttosto
depressa, stava quasi sempre da sola con le figlie, Malvina e poi Lyse-Rose.
Riceveva raramente, ve l’ho detto... Tentai di individuare, nel suo entourage,
possibili candidati al titolo di amante ufficiale e di padre potenziale di Lyse-
Rose. C’era il figlio del giardiniere, un ragazzo bello come un dio che
vangava a torso nudo sotto le persiane di Véronique; gentile, il tipo da far
fantasticare un’occidentale depressa, lettrice turbata dell’Amante di Lady
Chatterley. Ma il giovanotto non confessò nulla e in più aveva un paio di
intensi occhi neri che smentivano la mia ipotesi...
Mi concentrai allora sulla ricerca di uomini dagli occhi celesti nei paraggi
della villa dei Carville a Ceyhan. Erano molto rari. Ne trovai tre, di cui uno
mediamente credibile: un avvenente tedesco, con i capelli legati in una coda
di cavallo, che affittava pedalò nella zona. Gli scattai delle foto e da allora
iniziai a prestare attenzione alle somiglianze con Lylie, nel corso degli anni.
Al momento però non c’erano prove. Meglio così! Non mi ci vedevo a
spiegare a Mathilde de Carville, che mi stava pagando una fortuna, che sì,
effettivamente Lyse-Rose era sopravvissuta all’incidente, ma non era loro
nipote; non era una de Carville, bensì la figlia di un noleggiatore di pedalò
teutonico!

Nel frattempo, in Francia, il compenso per il braccialetto sugli annunci era


salito a quarantacinquemila franchi e nessun pesce aveva ancora abboccato,
neanche un falsario alla turca. Bisogna ammettere che un braccialetto in oro
massiccio con il marchio di Tournaire non era facile da falsificare...
Per la serie “non tralasciare nessuna pista”, seguitai ad asfissiare Nazim,
tra due tiri di narghilè e tre sorsate bollenti.
«Nazim, e se l’incidente dell’Airbus 5403 non fosse stato dovuto al caso?»
Era mezzogiorno e il caffè Dez Anj era gremito di turchi incravattati che si
scolavano il loro raki durante l’ora di preghiera.
Nazim sussultò, rischiando di rovesciare il vassoio che il cameriere ci
stava portando. «Cosa vai cercando adesso, Crédule?»
«Be’, a pensarci bene, le cause dell’incidente sul Mont Terrible non sono
mai state chiarite. La tempesta di neve, l’imperizia del pilota... È tutto molto
vago, non trovi? Perché non qualcos’altro?»
«Ti ascolto. Sii più preciso.»
«Un attentato, per esempio. Un atto terroristico.»
I baffi di Nazim vibrarono. «Contro chi? Contro i de Carville?»
«Perché no? Un attentato per colpire la loro famiglia, Alexandre, l’unico
erede. Il mio ragionamento non è del tutto infondato. Alexandre lavorava su
un progetto ad alto rischio, l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, che passa
proprio in mezzo al Kurdistan. Trattava direttamente con il governo turco
mentre il PKK intensificava gli attentati su tutto il territorio.»
Nazim scoppiò a ridere. «I curdi! Questa poi! Vedete terroristi ovunque,
voi occidentali. I curdi! Una banda di contadini che...»
«Nazim, sono serio. Al partito dei lavoratori del Kurdistan non piaceva per
niente vedere l’oro nero passargli sotto il naso senza che si fermasse sul suo
territorio. Ancora meno doveva piacergli l’idea di un’invasione del Kurdistan
da parte dei bulldozer di de Carville, circondati da carri armati dell’esercito
turco.»
«D’accordo, Crédule, ma da questo a far saltare un aereo con a bordo il
figlio di de Carville... E poi, alla fine, cosa cambierebbe se fosse stato un
attentato?»
«E perché non una complessa storia di spionaggio? Lyse-Rose rapita
prima della partenza... Sosia che prendono l’aereo al posto della famiglia de
Carville, messa al corrente dell’attentato...»
Nazim scoppiò di nuovo a ridere, mi diede una forte pacca sulle spalle e
ordinò altri due raki. Passammo la notte a guardare le barche sul Corno d’Oro
e a parlare del caso. Sono stati sicuramente i momenti più belli dell’indagine,
quando ci ripenso. I primi mesi in Turchia. Poi, a partire dall’estate del 1982,
i viaggi all’estero si sarebbero diradati.

Il 7 novembre 1982 ero però ancora in Turchia, da due settimane. Appresi la


notizia da Nazim con tre giorni di ritardo. Mathilde de Carville non aveva
neanche avuto il tatto di avvisarmi. Pierre e Nicole Vitral erano stati vittime
di un incidente, a Le Tréport, poco prima dell’alba, nella notte fra sabato e
domenica. Pierre non si era più risvegliato. Nicole lottava ancora tra la vita e
la morte. L’ipotesi di un incidente, vista da Istanbul, era difficile da credere.
Deformazione professionale o convinzione intima?
Nella mia camera dell’hotel Askoc fui assalito da un terrore improvviso,
tremendo, brutale. Per la prima volta mi resi conto che lavorare su quel caso,
dedicandovi tanti anni della mia vita, significava perdere quegli anni... così
come tutti quelli che mi sarebbero rimasti in seguito.
Però continuai.

2 ottobre 1998, ore 11.52


Nation.
Marc sollevò gli occhi. Aveva la schiena madida di sudore.
Doveva scendere dal metrò per prendere la RER . Si ritrovò sulla banchina,
il quaderno in mano, ansimante, sconvolto. Si avvicinò alla panchina di
fronte, chiuse il quaderno e aprì lo zaino. Stordito.
7 novembre 1982...
Quella data era rimasta impressa nella sua memoria. L’aveva letta così
spesso in tutti quegli anni, incisa sulla tomba di suo nonno, perché non aveva
nient’altro da fare mentre sua nonna piangeva. Andava tutti i giorni al
cimitero. Quando non c’era scuola Marc la accompagnava, spingendo la
carrozzina in cui dormiva Lylie. Era lontano, bisognava affrontare una lunga
salita, e Nicole tossiva di continuo.
7 novembre 1982...

Marc si aggirava, in cerca della linea A fra tutte le direzioni che si


incrociavano nell’immensa stazione. A poco a poco riprese a respirare
normalmente. Stava riflettendo. La mappa della RER sfilava nella sua testa.
Direzione Vincennes, Noisy-le-Grand, Bussy-Saint-Georges...
Rallentò il passo. Non doveva lasciarsi trascinare nella spirale degli
eventi: il quaderno con le sue rivelazioni, l’omicidio del detective, la
scomparsa di Lylie. L’incidente dei suoi nonni.
L’aria che si insinuava nei lunghi corridoi gli ghiacciava la schiena
fradicia.
Non era stupido, non doveva gettarsi così nella bocca del lupo. Non senza
prendere le dovute precauzioni, in ogni caso. Visualizzò di nuovo nella mente
la mappa del metrò e accennò un sorriso. Sì, era molto più intelligente andare
in senso inverso, direzione La Défense. Una sola fermata in più, qualche
minuto per mettere al sicuro ciò che aveva scoperto.

Meno di due minuti dopo Marc si ritrovò in mezzo alla calca della Gare de
Lyon. Si lasciò trascinare dal vortice dei viaggiatori lungo gli interminabili
corridoi. Gigantesche locandine di film si susseguivano senza sosta: L’uomo
che sussurrava ai cavalli, Salvate il soldato Ryan...
Gli ultimi libri usciti, i concerti.
Marc voltò appena la testa.
Un manifesto dai colori scuri annunciava CHARLÉLIE COUTURE IN
CONCERTO AL BATACLAN.
I suoi pensieri volarono verso Lylie.
Oh, libellule,
toi, t’as les ailes fragiles,
moi, moi, j’ai la carlingue froissée...

Tirò fuori il cellulare. Finalmente c’era campo. Compose il numero di


Lylie.
Sette squilli. Come al solito.
La segreteria.
«Lylie, aspetta, aspettami. Non fare stupidaggini! Richiamami. Sono sulla
pista giusta. Ci riuscirò.»
Riuscire a fare cosa?
Non esitare, continuare.
Marc arrivò alla zona riservata alle grandi linee. I convogli arancioni dei
TGV erano allineati come sulla linea di partenza di una corsa di cinquecento
chilometri verso sud. Il deposito bagagli era lì vicino, sulla destra, dietro
l’edicola. Marc aprì la pesante porta d’acciaio e infilò il suo Eastpack
all’interno del cubo grigio. Non sarebbe certo andato alla Roseraie con il
quaderno di Grand-Duc. Era a Lylie che il detective l’aveva affidato, non ai
de Carville, e se l’aveva fatto c’era sicuramente un motivo. Sarebbe andato
dai de Carville, a discutere, a negoziare. Poi avrebbe deciso.
C’era bisogno di un codice di cinque cifre. Marc, senza neanche pensarci,
inserì “7-11-82”.
La cassetta si chiuse con uno scatto secco. Marc espirò. Fece qualche
minuto di coda a un chiosco per comprare un panino al prosciutto e burro e
una bottiglietta d’acqua.
Aveva preso la decisione giusta. Separarsi, temporaneamente, da quel
quaderno, anche se moriva dalla voglia di leggere il seguito.
Marc aveva quattro anni all’epoca e ne conservava solo un vago ricordo.
Le parole del quaderno di Grand-Duc erano però molto chiare: “L’ipotesi di
un incidente, vista da Istanbul, era difficile da credere. Deformazione
professionale o convinzione intima?”.
Marc doveva sapere!
Pazienza.
Fece un brusco giro su se stesso, tornò al deposito bagagli e inserì il
codice.
7-11-82.
Frugò nervosamente nello zaino, tirò fuori il quaderno e girò le pagine.
Diede una rapida scorsa alle righe: “... significava perdere quegli anni... così
come tutti quelli che mi sarebbero rimasti in seguito. Però continuai”.
Ecco il punto.
Marc afferrò alcune pagine tra le dita, poi, con un gesto secco, le strappò
dal quaderno. Cinque fogli, quelli che seguivano il punto dove aveva
interrotto la lettura. L’incidente dei suoi nonni, quella notte, a Le Tréport,
raccontato da Grand-Duc.
Piegò i fogli in quattro, li infilò nella tasca posteriore dei jeans, richiuse la
porta della cassetta, poi sprofondò di nuovo nel dedalo dei corridoi della Gare
de Lyon.
23

2 ottobre 1998, ore 11.55


Nicole Vitral camminava lentamente sul marciapiede di rue de la Barre.
Arrivata all’incrocio della scuola Sévigné, si fermò e tossì. Una brutta tosse
grassa. Le restava da percorrere tutta rue de Montigny, fino al cimitero di
Janval. Più di un chilometro. Non le importava, ci avrebbe messo il tempo
necessario. Da quando era in pensione non le restava altro da fare, o quasi, se
non quel pellegrinaggio quotidiano sulla tomba del marito; poi, al ritorno,
prendeva il pane da Ghislaine e un po’ di carne ogni due giorni, prima di
rientrare al Pollet. Le sue gambe non la sorreggevano più bene come un
tempo.
Nicole affrontò con coraggio la salita di rue de Montigny, il tratto più
ripido. Subito dopo la curva della piscina, un furgone del comune la superò,
poi si fermò davanti a lei, a cavallo del marciapiede.
Il viso gioviale di Sébastien, il consigliere comunale, si sporse dalla
portiera. «Stiamo andando alla palestra, signora Vitral. La lasciamo al
cimitero?»
Sébastien, al comune, faceva parte dei giovani; era sui quaranta,
comunista e fiero di esserlo. Nicole Vitral l’aveva visto crescere. Un tipo a
posto, un militante, con la testa dura come quella di un mulo ma ben piantata
sulle spalle. Nonostante ciò che si diceva in televisione, con gente così il
partito aveva ancora giorni felici davanti a sé. Alle prossime municipali
avrebbe conservato il comune di Dieppe, di sicuro!
Lei non si fece pregare e salì davanti sul furgone. Sébastien era con Titi,
un impiegato comunale; Nicole aveva visto crescere anche lui. Non aveva
certo inventato l’acqua calda, cosa che sarebbe stata decisamente utile sulla
spiaggia di Dieppe, però non aveva rivali nella manutenzione delle aiuole di
fiori e contribuiva ampiamente alla prosperità dei bar della città. A Dieppe, le
piccole attività commerciali contavano.
«Sempre in forma, a quanto vedo, signora Vitral!»
«Mica tanto... Bisognerà far passare il bus dal cimitero, Sébastien, per
tutte le vedove anziane come me.»
Il consigliere comunale sorrise. «Sì... Buona idea. Lo metteremo nel
nostro programma. E Marc, tutto bene a Parigi?»
«Sì, sì. Come sempre...»
Nicole non poté far a meno di ripensare alle ultime parole di Marc. Le
aveva lasciato un messaggio in segreteria, quel mattino, che lei aveva
ascoltato prima di uscire. Come rispondergli? Ovviamente lei sapeva dove si
trovava Emilie, aveva intuito il gesto irreparabile che voleva commettere. In
tutti quegli anni aveva pregato tanto perché non succedesse. Fatica sprecata.
Maledetto destino!
La voce stridula di Titi la fece uscire dal suo torpore. Puzzava già di
calvados. «Il nostro Marc... Sempre a fare il cagnolino della sua Emilie?
Adesso non torna neanche più a Dieppe la domenica per giocare a rugby con
la squadra. Guardi, Nicole, anche se è suo nipote, non è una grossa perdita, ha
le mani quadrate. Se hai le mani quadrate non è mica facile giocare con un
pallone ovale...» Esplose in una grassa risata.
«Falla finita, Titi!» intervenne Sébastien.
Nicole sorrise. «Non c’è problema.» Girò la testa. Sul retro del furgone
centinaia di foglietti di carta erano impilati in alcuni scatoloni. «Sempre
all’opera, Sébastien?»
«Sempre! Chirac avrà anche disgregato la destra sciogliendo l’Assemblée,
ma il cambiamento lo stiamo ancora aspettando. Anche con i compagni al
governo!»
«Cosa sono quelli?»
«Volantini per salvare il porto commerciale. Vogliono far saltare gli
scambi con l’Africa occidentale, gli ultimi che Le Havre e Anversa hanno
mantenuto. Banane, ananas... Capito il genere? Se perdiamo il mercato, se il
porto va in malora, be’, non serve che le faccia un disegnino... Manifestiamo
a Rouen, davanti alla prefettura, sabato prossimo.»
Titi diede una gomitata sul fianco di Nicole. «Eh, già, anche se perdiamo
le banane e gli ananas ci resta la pesca, vero?»
Sébastien sospirò. Nicole lo guardò con comprensione.
«Puoi lasciarmi dei volantini se vuoi. Passa al Pollet e portamene uno
scatolone. Non ti prometto niente per la manifestazione di sabato, ma busserò
alle porte in settimana. Mi piace farlo e poi c’è ancora un po’ di gente che mi
conosce a Dieppe. Che mi ascolta, anche...»
Ci mancò poco che Titi non facesse un balzo sul sedile. «È vero, Nicole!
Mi piaceva da matti guardarla quando andava in TV . Avevo quindici anni
allora. Era troppo bello quando si nascondeva tutto il tempo le tette ma si
vedevano lo stesso!»
Sébastien sterzò bruscamente, irritato. «Non fare lo scemo, Titi...»
«Bah, perché?» fece Titi, stupito. «Non c’è niente di male. Nicole non
penserà comunque che ci sto provando, alla sua età... È solo un complimento.
Per farle piacere.»
Nicole posò dolcemente la mano sul braccio di Titi. «E hai ragione, Titi,
mi fa piacere.»
Nel breve momento di silenzio che seguì Nicole non poté fare a meno di
ripensare a Emilie. Avrebbe tanto voluto essere con lei, al suo fianco. Non
per cercare di farle cambiare idea, no, solo per starle accanto. Nicole sapeva
che poi la sua innocenza sarebbe svanita. Il sapore della morte avrebbe
perseguitato Emilie per sempre. Il ricordo. Il rimorso.
Il furgone inchiodò.
«Capolinea!» annunciò Sébastien. «Fermata cimitero. Le porto lo
scatolone di volantini stasera?»
«Se vuoi, sì.»
«Ci sarà d’aiuto. Davvero. Lei dovrebbe presentarsi nella nostra lista...»
«Era Pierre che doveva farlo. Aveva deciso. Nel 1983.»
Sébastien tacque, imbarazzato. «Mi ricordo» disse poi. «È stata una
perdita tremenda... Cristo! Non è giusto! A proposito...» Esitò. «Il... il
furgone, il Citroën, ce l’ha ancora?»
Nicole fece un sorriso rassegnato. «Sì. Dovevo pur continuare a lavorare.
E poi c’erano Emilie e Marc.»
«Le migliori patatine della Costa d’Alabastro» si inserì Titi. «Può
credermi, Nicole, non venivo da lei solo per dare una sbirciatina alle sue
tette!»
Sébastien non riuscì a trattenere una risata. Anche Nicole fece un sorriso
nostalgico. I suoi occhi azzurri scintillavano ancora.
«È sempre in giardino, il furgone. Adesso non c’è più nessuno che mi
chiede di spostarlo per giocare nel cortile. È lì fuori che arrugginisce...»
Nicole aprì la portiera. «Bene, vi lascio lavorare!»
Titi la aiutò a scendere. La seguirono con gli occhi, qualche istante, nel
parcheggio deserto.
Nicole spinse il cancelletto di ferro, persa di nuovo nei suoi pensieri.
Marc avrebbe richiamato. Presto. Sarebbe venuto a Dieppe, forse. Cosa gli
avrebbe detto? Era giusto lasciare una chance alla loro storia impossibile?
Emilie e Marc...
Doveva prendere una decisione. Parlare o tacere. Era urgente, ne era
consapevole, l’avrebbe fatto prima di sera.
Nicole chiuse dietro di sé il cancello del cimitero.
Avrebbe chiesto consiglio a Pierre. Pierre prendeva sempre le decisioni
giuste.
24

2 ottobre 1998, ore 12.32


Quando Marc uscì dalla RER , alla stazione Val-d’Europe, in place d’Ariane,
un debole raggio di sole lo salutò. Era la prima volta che metteva piede nella
città nuova, inaugurata qualche mese prima. L’immensa piazza rotonda lo
lasciò stupefatto. Si aspettava di vedere un’architettura moderna, high-tech, in
stile Cergy o Evry... Invece si ritrovò al centro di una piazza haussmaniana,
una copia perfetta di quelle dei primi arrondissement parigini, solo che questa
non aveva cento anni, bensì meno di cento giorni! Il nuovo che imita il
vecchio. Piuttosto bene, peraltro.
Davanti a lui, al di sopra delle grondaie e dei finti doccioni, si ergevano
alcune gru. ARLINGTON BUSINESS PARK diceva un cartello. Le torri di vetro
incompiute del quartiere degli affari superavano già di svariate decine di
metri gli edifici della piazza. Marc girò la testa: in lontananza, dietro la
circonvallazione, distingueva le vette di Disneyland, il campanile del castello
della Bella addormentata, le pietre rosse del trenino della miniera, la cupola
di Space Mountain...
Uno scenario surrealista!
Probabilmente era proprio ciò che avevano voluto gli urbanisti, pensò
Marc.
Gli tornò alla mente un frammento di conversazione al Pollet, da Nicole,
una sera di qualche mese prima, dopo un servizio al telegiornale sulla città
nuova progettata dal consorzio Disney, in occasione dell’inaugurazione del
centro commerciale. Nicole aveva sbottato in cucina: “Già non capisco come
si possano portare dei ragazzini a Disneyland per arricchire quel ratto
capitalista di Topolino, in più adesso gli sganciano i terreni per costruire delle
città qui da noi!”.
Lylie stava sparecchiando. Come sempre, lei ne sapeva più di loro. “È
anche un’utopia, nonna. Sapevi che Walt Disney in persona aveva sognato di
realizzare in Florida una città ideale, Celebration, senza auto, senza
segregazione, sotto una cupola per controllare il clima? Ma è morto prima e il
progetto è stato snaturato dai suoi eredi... Val-d’Europe è la seconda città al
mondo costruita da Disney. L’unica in Europa, la città più giovane della
Francia, ventimila abitanti...”
“Macché utopia!” aveva commentato Nicole. “Villette da tre milioni! Un
campo da golf. Scuole private...”
Lylie non aveva ribattuto. Marc sospettava che le sarebbe piaciuto star lì
ad argomentare sul concetto di città, di urbanistica, di spazi verdi, di sfide
architettoniche, di gestione dei mezzi di trasporto. Ma aveva taciuto, come
sempre. Aveva sorriso prendendo uno strofinaccio per aiutare Nicole. Si era
accontentata di riparlarne con Marc, la sera, brevemente. Tutti sapevano che i
de Carville abitavano a Coupvray, uno dei graziosi paesini vicino alla Valle
della Marna, la cui tradizione tutta francese era stata integrata perfettamente
nel progetto americano di Val-d’Europe, facendo impennare ulteriormente i
prezzi degli immobili. Tradizione e modernità.

Marc camminava. Il quartiere era stato pensato per i pedoni, su questo niente
da dire. Coupvray era a solo due chilometri. Arrivò in place de Toscane.
Sorrise alla vista della fontana scolpita, dei tavolini fuori e dei caffè color
terra di Siena. Non era mai stato in Italia, ma era proprio così che si
immaginava una piazza fiorentina o romana ideale, anche in pieno inverno. Si
aspettava quasi di scorgere Lilli e il vagabondo seduti a un tavolo, occupati a
degustare un piatto di spaghetti. Continuò a camminare di buon passo. Anche
se la città era stata pensata per i pedoni, ce n’erano pochi. Marc stava
attraversando ora il quartiere del golf. La moda lì era in stile cottage inglese:
finestre a bovindo, legno verde e porpora, ferro battuto. Marc aveva
l’impressione di aver attraversato un’Europa da cartolina in meno di due
chilometri.
Villette più classiche, benché lussuose, gli segnalarono che si stava
avvicinando a Coupvray. Vide una serie di cartelli familiari: COMUNE,
SCUOLA, CENTRO RICREATIVO, BIBLIOTECA, MUSEO DELLA CASA NATALE DI
LOUIS BRAILLE. Jennifer gli aveva dato l’indirizzo dei de Carville, chemin des
Chauds-Soleils, una strada chiusa al limitare dell’abitato, in mezzo al bosco
di Coupvray. Coupvray si era sviluppata in un’ansa della Marna, racchiusa
dentro uno scrigno di foreste protette. Il canale di Meaux a Chalifert formava
una sorta di confine del paese, tracciando una linea retta per abbreviare il
corso del fiume. Aggiungeva un altro elemento pittoresco a quell’angolo di
paradiso bucolico, a qualche chilometro dalla capitale. Tre pescatori erano
seduti su un muretto di pietra a strapiombo sul canale. CHIUSE DI LESCHES
lesse Marc su un cartello marrone. Non resistette oltre. Il luogo gli sembrava
ideale per fare una pausa, sedersi e tirare fuori dalla tasca dei jeans le cinque
pagine strappate dal quaderno di Grand-Duc.
Marc non aveva avuto il coraggio di leggerle nel rumoroso vagone della
RER , vicino a sconosciuti che avrebbero sbirciato da dietro le sue spalle.
Non quella parte della storia. La sua.
Aveva rimandato quel momento. Controllò il telefono. Nessun messaggio
di sua nonna. Nessun messaggio di Lylie.
Non aveva più scuse. Dispiegò i cinque fogli.

Diario di Crédule Grand-Duc


Quella domenica, il 7 novembre 1982, avevo trascorso il weekend ad
Antalya, sul Mediterraneo – la Riviera turca, trecento giorni di sole all’anno
–, ospite nella residenza delle vacanze di un alto funzionario del ministero
dell’Interno. Erano settimane che gli correvo dietro perché stavo ancora
indagando se qualcuno avesse visto qualcosa all’aeroporto Atatürk di
Istanbul, il 22 dicembre. Non si poteva mai sapere, magari una telecamera di
sorveglianza... L’aeroporto traboccava di militari, in quel periodo, e uno di
loro poteva aver notato qualcosa. Cercavo di distribuire un breve questionario
nelle caserme, e naturalmente mi prendevano per pazzo. Stanco di guerra,
l’alto funzionario in questione finì per invitarmi, un weekend in cui riceveva
a casa sua tutta la crème della sicurezza nazionale turca. Per una volta Nazim
non c’era. Ayla aveva insistito che rientrasse perché stava male, mi pare di
ricordare... Questo non mi facilitava le cose, anzi, avevo sgobbato tutto il
weekend senza un interprete che mi aiutasse a spiegare cosa volevo, tanto più
che quei tizi erano là per rilassarsi al sole con le mogli, per nulla convinti del
carattere prioritario delle mie richieste. Anch’io, peraltro, iniziavo a
dubitarne. Sempre di più.

Venni a sapere dell’incidente di Le Tréport tre giorni dopo, all’hotel Askoc.


Fu Nazim ad avvertirmi. Da allora ho parlato molto con Nicole Vitral. Mi ha
spiegato tutti i dettagli. Quel weekend di novembre del 1982, come tutti gli
anni, le tre città sorelle normanne e piccarde, Le Tréport, Eu e Mers-les-
Bains, organizzavano la festa del mare, una sorta di carnevale di Dunkerque
più modesto, versione normanna. Cozze e patatine a volontà, giri in barca e
sfilate per la strada. Una marea di gente uscita da non si sa dove... Pierre e
Nicole Vitral partecipavano ogni anno alla festa di Le Tréport, così come
cercavano di seguire tutte le altre manifestazioni dei porti della Manica, da
Dunkerque a Le Havre. A parte l’estate, era soprattutto grazie a quei weekend
che riuscivano a far quadrare i conti. Lasciavano Marc ed Emilie dai vicini e
partivano per una notte fuori con il Citroën H arancione e rosso.
Parcheggiavano il furgone nei punti strategici, il più vicino possibile al mare,
aprivano il bancone, il tendone frangivento se necessario, e meno di un’ora
dopo cominciavano a servire patatine, crêpe, waffle e altre leccornie. Di
solito lavoravano fino a notte tarda. Nonostante il clima, le feste nel Nord
terminano spesso all’alba. Per non sprecare tempo e denaro, Pierre e Nicole
chiudevano il furgone, stendevano un materasso tra il forno a gas e i
frigoriferi, uno spazio appena sufficiente, e dormivano qualche ora prima di
riprendere il lavoro la domenica. Era una sistemazione spartana, ma in un
weekend guadagnavano più che in dieci giorni di normale attività.

Domenica 7 novembre Pierre e Nicole Vitral chiusero il furgone verso le tre


del mattino. Non lo riaprirono più. Fu un tale che portava a spasso il cane
sulla diga di Le Tréport a dare l’allarme. L’odore di gas si sentiva perfino
all’aria aperta, nonostante gli spruzzi d’acqua di mare. Be’, più che altro
l’odore di mercaptano, il prodotto a base di zolfo che si aggiunge al butano,
perché quel maledetto gas naturale è inodore e incolore. I vigili del fuoco
fecero saltare la porta posteriore del furgone con un colpo di scure e
trovarono i due corpi inanimati. Il butano aveva iniziato a fuoriuscire almeno
dalle cinque, in uno spazio chiuso di nove metri quadrati. Pierre Vitral non
respirava più. I pompieri non tentarono nemmeno di rianimarlo, sapevano
riconoscere i segni della morte. Nicole Vitral era ancora viva. Fu trasportata
d’urgenza ad Abbeville. I medici comunicarono che era definitivamente fuori
pericolo solo quindici ore dopo, con i polmoni danneggiati per il resto dei
suoi giorni.
L’inchiesta non si trascinò a lungo. Un tubo del gas del forno era forato.
L’incidente era tanto stupido quanto prevedibile. Le assicurazioni non
smentirono la loro reputazione di profonda umanità: dormire nel furgone, fra
le bombole di butano e il forno ancora caldo, a detta loro era pura follia; il
furgone era vetusto, nonostante avesse passato i controlli di routine, e i periti
scovarono altre irregolarità... Insomma, le assicurazioni non ebbero alcuna
difficoltà ad accampare le scuse del caso per non risarcire Nicole Vitral.
Non le restava che il furgone, con un tubo del gas e la porta posteriore da
sostituire... E due bambini da crescere.
È forse questo il motivo per cui mi sono avvicinato ai Vitral. Per pietà. Sì,
possiamo chiamarla così. Pietà. Non c’è da vergognarsi.
Pietà. E anche sospetto.
Quando Nazim mi chiamò per raccontarmi quello che era successo a Le
Tréport, la mia prima reazione fu di non credere alla tesi dell’incidente.
D’accordo, il destino è come i bambini che giocano durante la ricreazione: si
accanisce contro i più deboli. Ma a tutto c’è un limite! Nelle settimane
seguenti incontrai gli avvocati dei de Carville. Alcuni, non particolarmente
fieri di sé, sputarono il rospo. Prima del secondo infarto, Léonce de Carville
li aveva fatti lavorare su una questione squisitamente tecnica: se i coniugi
Vitral fossero morti, cosa sarebbe successo? La piccola Lylie sarebbe stata
data in affidamento a un’altra famiglia o era possibile fare un ricorso? In quel
nuovo contesto, quali erano le possibilità che la piccola venisse affidata ai de
Carville?
La questione era tanto morbosa quanto spinosa. Gli avvocati non erano in
pieno accordo tra loro, ma l’idea generale era che se i Vitral fossero morti
quando la piccola Lylie aveva meno di due anni, ci sarebbero stati i
presupposti per presentare un ricorso. In via del tutto teorica, precisarono, si
sarebbe potuto far leva sul dubbio riguardante l’identità e sull’interesse della
bambina... Dovendo cercare una famiglia per la piccola orfana, tanto valeva
affidarla ai de Carville!
Vi sto dando le informazioni alla rinfusa. Fatene ciò che volete. Se
Mathilde de Carville era tanto pazza da ingaggiare un detective privato per
diciotto anni, suo marito, meno paziente, poteva tranquillamente avere avuto
l’idea di assoldare un killer. Forare il tubo del gas di un furgone è alla portata
di un qualunque tizio senza scrupoli. Non credo che Mathilde de Carville ne
fosse al corrente né tanto meno che avesse potuto tramare una cosa simile. Se
non altro perché la sua religione glielo proibisce. Léonce de Carville ne era
invece capacissimo. Il secondo attacco cardiaco lo colpì ventitré giorni dopo.
Vi si potrebbe vedere un rapporto di causa ed effetto. Nicole Vitral era
sopravvissuta. Forse Léonce aveva sulla coscienza la tragica fine di Pierre.
Inutilmente. Lyse-Rose era morta per sempre...
Ecco, ora ne sapete tanto quanto me. Il vegetale che è diventato Léonce de
Carville manterrà per sempre il suo segreto.
Concedergli il beneficio del dubbio?
Bella domanda!

2 ottobre 1998, ore 12.40


Marc guardò il pallido sole autunnale che si lasciava di nuovo circondare da
nuvole in gruppi ben organizzati.
Il dubbio...
Aveva solo quattro anni all’epoca dell’incidente; non ricordava quasi
nulla, a parte l’infinita tristezza degli adulti attorno a sé. Lui aveva un solo
scopo: proteggere Lylie, stringerle la mano forte forte, non abbandonarla, non
lasciarla.
Sua nonna non gli aveva dato tante spiegazioni. Lui la capiva. Non si parla
di quelle cose. Il racconto di Grand-Duc era molto più chiaro di tutte le
informazioni frammentarie che aveva potuto raccogliere nel corso degli anni.
Marc osservò i tre pescatori di fronte a sé, piuttosto giovani, immobili,
quasi addormentati. Che senso aveva attendere per ore un pesce che non
abbocca mai? Forse aspettavano solo la fine del mondo, in quell’angolo di
paradiso.
Il dubbio...
Quell’angolo di paradiso dove abitava il demonio?
Marc cercò di scavare in fondo alla sua memoria. Senza capire
esattamente perché, il racconto di Grand-Duc aveva fatto scattare in lui una
sorta di allarme.
Un dettaglio sconcertante, un’anomalia...
C’era qualcosa che non tornava!
Si sforzò di concentrarsi, ma era sempre più convinto che quel particolare
fosse qualcosa che aveva imparato in modo mnemonico, che sarebbe
riemerso solo se lui avesse trovato un filo conduttore, un punto di partenza,
una parola.
Cercò ancora, invano. Aveva la certezza assoluta che quel dettaglio fosse
riposto ordinatamente in camera sua, tra le sue cose, in rue Pocholle, al
Pollet, a Dieppe. Che frugando lo avrebbe scovato...
Era urgente? Che rapporto aveva con il resto? Il grande viaggio senza
ritorno di Lylie.
Dieppe era a solo due ore di treno e lui doveva anche parlare con Nicole.
Lo avrebbe fatto dopo.
Con mano febbrile, girò il foglio strappato e lesse l’ultima pagina.
25

Diario di Crédule Grand-Duc


Un mese dopo il dramma di Le Tréport, Nicole Vitral serviva di nuovo i
clienti nella sua friggitoria ambulante. Non aveva scelta. Molti trovarono
curioso, morboso anche, che lavorasse ancora in quella bara su quattro ruote,
in quella trappola di lamiera e di gas che si era portata via suo marito,
addormentato definitivamente su quel pavimento che lei seguitava a
calpestare tutto il giorno.
Nicole rispondeva, sorridendo: “Continuiamo a vivere nelle case in cui i
nostri cari si sono spenti. Continuiamo a dormire negli stessi letti, a mangiare
negli stessi piatti, a bere negli stessi bicchieri... Gli oggetti non hanno
responsabilità. Il furgone non più di altri”.
Ho capito anni dopo che in fondo Nicole amava quel lavoro, servire i
clienti nel Citroën H, sul lungomare di Dieppe, come aveva fatto per anni con
Pierre, anche se il fumo della frittura e il miscuglio di odori in quello spazio
angusto le laceravano sempre di più i polmoni, facendola tossire di continuo.
Pierre si era addormentato in quel furgone, non ne era mai veramente uscito,
e Nicole, ormai sola, non lo era meno nel suo negozio ambulante che altrove.
A eccezione del cimitero di Janval, forse.

Mi sono avvicinato a Nicole e ai suoi nipoti circa in quel periodo, verso la


metà del 1983. L’ho incontrata per la prima volta in aprile, un mattino,
mentre Marc era a scuola e Lylie dormiva.
Nicole mi bloccò sulla porta. Esordii timidamente: «Crédule Grand-Duc.
Detective privato, sto... sto indagando su...».
«So chi è lei, signor Grand-Duc, sono mesi che mette il naso da queste
parti. Qui le notizie circolano veloci, sa...»
«Ah... Be’, se non altro risparmieremo tempo. Mathilde de Carville mi ha
ingaggiato per riprendere da zero le indagini, tutto il caso del disastro del
Mont Terrible...»
«Spero che almeno guadagni bene...»
«Non posso lamentarmi, la paga è piuttosto buona...»
«Quanto?» Gli occhi di Nicole Vitral sfavillavano. Giocava al gatto e al
topo con me. Perché mentire?
«Centomila franchi all’anno.»
«Avrebbe potuto ottenere di più, molto di più.» Nicole indossava un
maglioncino leggero, grigio-blu. La profonda scollatura lasciava intravedere
il seno. Ero terribilmente turbato. «E che cosa vuole da me?» aggiunse senza
muoversi di un millimetro.
«Potermi avvicinare a Lylie, osservarla, parlarle. Guardarla crescere...»
«Tutto qui?»
Immaginavo che il negoziato sarebbe stato lungo. Non sapevo più dove
posare gli occhi, se sullo sfavillio dei suoi occhi o sul suo seno.
Nicole Vitral si sistemò il maglioncino con un gesto meccanico. «Vede,
non ho niente da nascondere. Contrariamente a quanto pensa, anche a me
interessa conoscere la verità... Ha scoperto qualcosa?»
Tentennai. Ero in vantaggio? Non per molto, il maglioncino scendeva di
nuovo. «Ho seguito molte piste, per la maggior parte vicoli ciechi, ma ho
scoperto anche qualche dettaglio inquietante.»
Nicole Vitral sembrò esitare. Con lo sguardo abbracciò rue Pocholle.
«Mathilde de Carville le ha fatto firmare qualcosa, tipo una clausola di
riservatezza? Di esclusiva sui risultati?»
«Nulla. Mi paga solo per trovare una prova.»
«Una prova. Solo questo. Io non ho i mezzi per pagare... ma Mathilde de
Carville sa essere generosa per due.» Sorrise e si tirò di nuovo su il
maglioncino. «Do ut des? Entri, le faccio un caffè. Mi racconterà tutto mentre
aspettiamo che Lylie si svegli.»

Nicole Vitral si fidava di me, vai a capire perché!


Sapevo che stavo facendo un gioco pericoloso: se mai avessi scoperto
qualcosa, la mia posizione con le due donne non sarebbe stata facile, anche se
fossi riuscito a rimanere neutrale... Cosa che iniziava a diventare sempre più
complicata. Tra la semplicità della famiglia Vitral e lo sprezzo dei de Carville
non c’era storia. Léonce de Carville aveva acqua al posto dei muscoli,
Malvina vapore al posto del cervello e Mathilde ghiaccio al posto del cuore.
Ero un loro dipendente, il loro fedele cagnolino, ma la mia simpatia andava
fuor di ogni dubbio ai Vitral.
Marc e Lylie erano due bambini adorabili. Avevo preso l’abitudine di
fargli visita abbastanza regolarmente, almeno per ogni compleanno di Lylie.
Talvolta andavo a Dieppe con Nazim, anche se i piccoli erano spaventati dai
suoi baffoni. Nicole mi affascinava con la sua energia, il suo umorismo, la
sua ostinazione a crescere da sola Marc ed Emilie. Aveva resistito, non aveva
toccato un centesimo del bel gruzzolo sul conto in banca di Lylie, il capitale
versato da Mathilde de Carville.
Nicole era determinata e fedele. Una donna incredibile. I mesi, gli anni
trascorsero così.

Anch’io ero fedele al mio pellegrinaggio. È arrivato il momento di parlarne.


È importante, non immaginate ancora fino a che punto. Ogni anno, verso il
22 dicembre, tornavo sul Mont Terrible. Dormivo in un rifugio lì vicino, a
Clairbief, lungo il Doubs, e trascorrevo un po’ di tempo sul luogo dello
schianto. Trascorrevo qualche ora a camminare, a pensare e a rileggere gli
appunti che avevo preso.
Come se quel luogo, alla fine, potesse confidarmi il suo segreto...
Ci andavo sempre da solo, senza Nazim.
Conoscevo ormai ogni sentiero, ogni pietra, ogni abete. Sentivo che
dovevo addomesticare quell’angolo di montagna selvaggia, che dovevo
ascoltarla, al di là del trauma. Come con i Vitral, insomma.
Probabilmente non mi crederete, ma funzionò! La montagna mi diede la
sua fiducia. Esattamente tre anni e tre pellegrinaggi dopo, nel dicembre del
1986, mi svelò il suo segreto, di sicuro il più sconcertante in diciotto anni di
indagine.
Quel 22 dicembre 1986 un temporale tanto violento quanto improvviso mi
colse di sorpresa nel tardo pomeriggio, quando ero ancora sulla montagna.
Per scendere avrei dovuto camminare almeno due ore sotto la pioggia e i
fulmini. Tentai di trovare un riparo, ma gli alberi ripiantati sul luogo del
disastro non erano in grado di proteggermi.
Proseguii alla cieca per un paio di chilometri, finché mi ritrovai faccia a
faccia con la scoperta più incredibile. Ero fradicio. All’inizio credetti che si
trattasse di un brutto sogno, di una sorta di allucinazione. Continuai ad
avanzare nel fango, con l’immagine sempre più distinta, reale davanti a me.
La pioggia fitta non contava più. Il mio cuore batteva all’impazzata.
Camminai sconvolto fino alla...

Marc imprecò stizzito.


Il foglio strappato finiva con quell’ultima riga: “Camminai sconvolto fino
alla...”.
Diede un calcio al ghiaino davanti a sé. I pescatori alzarono la testa,
sorpresi, con uno sguardo di disapprovazione. Il resto della frase era sulla
pagina successiva del quaderno, a un’ora di metrò, nella cassaforte del
deposito bagagli della Gare de Lyon di cui solo lui conosceva il codice.
Si cacciò i fogli in tasca e si alzò, furibondo con se stesso, imprecando
contro lo stile ampolloso di Grand-Duc, il quale sembrava provare un piacere
maligno a raccontare la sua indagine come se fosse un romanzo giallo.
Attraversò il canale passando su un ponticello. Le strade di Coupvray
erano tranquille. All’ombra di Disney City, l’incantevole villaggio aveva
qualcosa di artificiale, come se fosse anch’esso costruito con la cartapesta.
Una scenografia. Chemin des Chauds-Soleils era la prima strada a destra,
appena entrati. Un sentiero più che una strada, cupo, che si addentrava nella
foresta. Marc procedette con diffidenza. Chi erano i de Carville in fondo?
Vittime del destino come lui? La vera famiglia di Lylie, come lui sperava?
Ma anche i mandanti del delitto di suo nonno?
Nemici? Alleati? Entrambe le cose?
Marc si sforzò di respirare lentamente. Non doveva esitare. La crisi di
agorafobia poteva manifestarsi in qualsiasi momento, e perché allora non lì,
in quel silenzio, sotto quegli alberi...
Nel vicolo erano parcheggiate alcune macchine piuttosto lussuose:
Mercedes, SAAB , Audi. Tutte di grossa cilindrata, eccetto una. Una Mini blu.
Marc si bloccò, come se un allarme fosse improvvisamente scattato in lui.
Aveva già incrociato quell’auto, non molto tempo prima.
Dove?
Non doveva essere tanto difficile da ricordare, Marc aveva trascorso quasi
tutto il giorno sottoterra nel metrò. L’unica volta che aveva messo il naso
fuori era lì, a Coupvray, e...
Da Grand-Duc!

Una mano si posò sulla sua spalla.


Un tubo metallico premette sulla sua schiena. Un’arma da fuoco, senza
alcun dubbio.
Una voce, stridente, rese ancora più terribile quell’istante: «Cerchi
qualcosa, stronzo?».
26

2 ottobre 1998, ore 12.50


Stranamente Marc non avvertiva alcun sintomo di crisi. Né affanno né
palpitazioni. Percepiva solo il polso che accelerava.
Non farsi prendere dal panico.
Girarsi.
Chemin des Chauds-Soleils era disperatamente deserto. Gli alti alberi dei
giardini proiettavano la loro ombra ondeggiante sulla ghiaia grigio chiaro.
Marc fece piano piano dietrofront e alzò vistosamente le mani per far capire
bene che non aveva alcuna intenzione di opporre resistenza.
«Non fare il furbo, Vitral.»
Marc strizzò gli occhi. Davanti a lui c’era una ragazza alta circa un metro
e cinquanta, quaranta chili al massimo, vestita come se fosse uscita da un
collegio... Solo che la ragazza aveva un viso da trentenne.
Malvina de Carville.
Marc non l’aveva mai incontrata né vista in fotografia, ma non poteva che
essere lei. Lo teneva sotto mira, aggrappata al suo revolver, con uno strano
furore negli occhi. Il cervello di Marc cercò di analizzare rapidamente gli
elementi: la Mini blu parcheggiata a qualche metro in chemin des Chauds-
Soleils e in rue de la Butte-aux-Cailles, un’ora prima, era dunque la macchina
di Malvina de Carville. Lei era stata da Grand-Duc... con un revolver.
Aveva ucciso Crédule Grand-Duc. Adesso toccava a lui.
Malvina lo scrutò dalla testa ai piedi. «Che cazzo sei venuto a fare qua,
Vitral?»
Nell’intonazione c’era qualcosa di quasi comico, come il grido acuto di un
bastardino inoffensivo che abbaia dietro il cancello di una villetta. Marc non
doveva fidarsi, lo sapeva bene. Quella donna era capace di qualsiasi cosa,
come per esempio spararti un proiettile in mezzo agli occhi mettendosi a
ridere. Tuttavia, a dispetto di ogni logica, non riusciva a prenderla sul serio.
Stranamente non avvertiva ancora il benché minimo sintomo di agorafobia, di
paura, di panico.
«Non muoverti, Vitral. Non muoverti, ti ho detto.»
Marc avanzò di mezzo metro e, senza abbassare le braccia, abbozzò un
sorriso.
«Smettila di guardarmi così!» urlò Malvina indietreggiando. «Non mi
impressioni con le tue arie di superiorità. So tutto di te. So anche che vai a
letto con tua sorella... Non ti fa schifo scoparti tua sorella?»
Marc non poté fare a meno di sorridere, di nuovo. Quegli insulti
suonavano falsi in bocca a Malvina, come le offese dei ragazzini al centro
ricreativo di Dieppe che Marc si lasciava scivolare addosso, parole troppo
grosse per bambini di otto anni che mal dissimulavano una timidezza
combattuta con l’eccesso.
«Dal tuo punto di vista, direi piuttosto che vado a letto con la tua...»
Malvina fu spiazzata dalla replica. La sua mente sembrava funzionare
come un computer a cui manchi la RAM . Alla fine trovò la risposta. «Hai
ragione, è mia sorella che ti scopi, perché è troppo bella, troppo bella per
essere una Vitral di merda. Ma Lyse-Rose non avrà più bisogno di un
pezzente come te, ora che è maggiorenne...»
Le invettive di Malvina continuavano a scivolare addosso a Marc senza
scalfirlo. Troppo caricaturali forse. Irreali. Non aveva nemmeno voglia di
difendersi, di rispondere che non andava a letto con Lylie. Prese a camminare
lungo il viale senza più preoccuparsi di Malvina, sforzandosi di non lasciar
trasparire alcuna esitazione.
Lei puntò con maggior fermezza il Mauser. «Non muoverti, ti ho detto.»
Marc continuò a camminare, senza voltarsi. «Spiacente, non sono venuto
per te. Devo parlare con tua nonna. Mi scuserai. È questa la casa, la
Roseraie?»
«Se fai un altro passo ti ammazzo. Capito?»
Marc fece finta di non aver sentito, continuando a darle le spalle. Stava
facendo la scelta giusta? Doveva fidarsi del suo istinto, di quell’assenza di
sintomi di crisi? Non si sarebbe ritrovato, come Grand-Duc, ucciso da quella
folle? Un proiettile nel cuore. Gocce di sudore cominciarono a imperlargli la
schiena. Si piazzò davanti all’immenso cancello della Roseraie.
«Cosa stai facendo? Ti ammazzo, ti ho detto!» Malvina trotterellò come
una ragazzina eccitata al parco e si piantò davanti a Marc, continuando a
puntargli addosso il Mauser. Lo osservò di nuovo con attenzione dalla testa ai
piedi.
«Stai cercando qualcosa?» chiese lui sforzandosi di dosare l’ironia nella
sua intonazione.
«Sei venuto così, senza zaino? Sei sicuro di non aver nascosto niente
addosso? Sotto la giacca?»
«Vuoi che mi spogli qui davanti a te? Eh?»
«Tieni le mani in alto, ti ho detto!»
«Vuoi farlo tu? Vuoi perquisirmi con le tue manine?»
Malvina esitò. Marc si chiese se non si fosse spinto troppo oltre. La
ragazza sembrava avere i nervi a pezzi, il dito le si irrigidiva sul grilletto del
Mauser; un dito che portava un anello d’argento ornato con una magnifica
pietra marrone traslucida, del colore dei suoi occhi ma più luminosa. Malvina
continuava a scrutarlo. Stava sicuramente cercando il quaderno di Grand-
Duc; Marc aveva fatto bene a prendere le dovute precauzioni.
Rigirò il coltello nella piaga. «Spiacente, Malvina, preferisco tua sorella.»
Procedette senza aspettare la sua reazione e suonò il citofono, con il dito
tremante, ormai incapace di controllare cosa facesse quella pazza alle sue
spalle.
«Stronzo, io ti...»
Una voce femminile al citofono interruppe Malvina: «Sì?».
«Marc Vitral. Vorrei parlare con Mathilde de Carville.»
«Entri.»
Il cancello si aprì. Malvina esitò, ora come impacciata con quell’arma in
mano. La puntò su Marc. «Hai capito? Allora che aspetti? Entra, hai sentito?»

Marc aveva immaginato che la proprietà fosse sontuosa, una delle più
sfarzose di quel quartiere di ricconi, ma fu comunque colpito dalle
dimensioni del parco alberato, dalla varietà dei profumi, anche in autunno,
dalle aiuole di fiori, dai roseti impeccabilmente potati. Che estensione poteva
avere quel terreno? Diecimila metri quadrati? Quindicimila? Procedette sul
viale di brecciolino rosa, sempre affiancato dalla sua guardia del corpo di un
metro e cinquanta.
«Sei stupito, eh, Vitral? La Roseraie è il parco più grande di Coupvray.
Dal secondo piano si vede tutta l’ansa della Marna. Ti rendi conto, Vitral, che
avete privato Lyse-Rose di tutto questo?»
Marc represse l’impulso di prendere a schiaffi quella peste. A forza di
lanciare frecciatine velenose alla cieca, qualcuna avrebbe finito per centrare il
bersaglio. Lui non poté fare a meno di confrontare il parco della Roseraie con
il fazzoletto di terra di rue Pocholle, cinque metri per tre. Quando il Citroën
era parcheggiato dentro, il giardino non c’era più. In lontananza, vicino alla
serra, passò uno scoiattolo, lanciando sguardi impauriti ai visitatori.
«Adesso che hai capito, spero almeno che tu abbia dei rimorsi!»
Rimorsi?
Le risate allegre di Lylie risuonavano ancora nelle orecchie di Marc. Grida
di bambini gioiosi, appena Nicole usciva con il furgone per andare a lavorare
sul lungomare di Dieppe e lui e Lylie si precipitavano fuori per una partita a
campana o a ping-pong. Ai loro occhi di bambini, il giardinetto di casa era
più grande di qualunque Roseraie.
Tre scalini. Malvina passò davanti, senza mollare il Mauser, e aprì la porta
di legno massiccio.
Marc la seguì.
Era pazzo a entrare così, di sua volontà? Aveva agito da solo. Nessuno era
al corrente della sua visita. Malvina gli indicò un grande corridoio e salirono
altri tre scalini. Quadri di paesaggi campestri alle pareti del corridoio; alcuni
cappotti di pelliccia appesi a ganci di ferro battuto. Uno specchio ovale in
fondo al corridoio dava un’ulteriore impressione di profondità.
La canna del Mauser indicò la prima porta a destra, con il pesante battente
ornato di modanature rosse. Entrarono.
Marc si trovò in un grande salone. La maggior parte dei mobili era coperta
da teli bianchi, probabilmente destinati a proteggerli dall’usura del tempo
quando non si ricevevano ospiti. Una libreria, a vista, occupava tutta la parete
di fronte a lui. Nell’angolo opposto, la stanza era divisa da un pianoforte a
coda bianco laccato. Un Petrof, una delle marche migliori; Marc conosceva i
prezzi.
Mathilde de Carville stava davanti a lui, dritta, alta, rigida. La croce
appesa al collo e qualche traccia di fango sull’orlo del vestito erano gli unici
dettagli incongrui. Léonce de Carville dormiva lì accanto. Indifferente. Un
plaid sulle ginocchia, qualche foglia sulle braccia. La vedova nera e il
paralitico: una scena degna di un brutto film dell’orrore.
Mathilde de Carville non si mosse. Si accontentò di fargli uno strano
sorriso. «Marc Vitral, che visita inaspettata... Se avessi pensato che un giorno
sarebbe venuto qui...»
«Ero ben lungi dal pensarlo io stesso.»
Il sorriso si allargò un po’. Malvina si allontanò, andando ad appostarsi
vicino al piano.
«Metti via quell’arma, Malvina.»
«Ma, nonna...»
Lo sguardo di Mathilde de Carville non ammetteva repliche. Malvina posò
con gesto teatrale l’arma sul pianoforte. Evidentemente aspettava solo il
momento di prenderla e servirsene.
Marc non riusciva a staccare gli occhi dal pianoforte. Doveva essercene
per forza uno in casa de Carville. Anche se non era mai stato lì, ne era sicuro.
Faceva parte dell’ordine delle cose. Nella famiglia Vitral nessuno aveva un
talento particolare per la musica. Né i suoi genitori né i suoi nonni si erano
mai avvicinati in vita loro a uno strumento musicale. Perfino i dischi erano
una rarità al Pollet. Invece Lylie, fin dai primi mesi di vita trascorsi in rue
Pocholle, era stata affascinata dai suoni, di ogni genere; alla scuola materna
adorava i giocattoli con i carillon. L’iscrizione alla scuola di musica, a quattro
anni, era sembrata una scelta logica e quasi scontata. Il suo maestro non
faceva che lodarla, Marc se ne ricordava con orgoglio.
«È un bel pezzo, vero?» chiese Mathilde de Carville. «È autentico,
ordinato da mio padre nel 1934. Lei mi sorprende, Marc. Si interessa di
pianoforti?»
Marc non rispose, perso nei suoi pensieri. Quando Lylie aveva otto anni, i
maestri di musica avevano cominciato a fare pressioni: era una delle allieve
migliori, la più appassionata. Suonava con piacere tutti gli strumenti, ma
soprattutto il pianoforte. Doveva esercitarsi di più, non solo qualche ora a
lezione, ma tutti i giorni a casa. La questione della mancanza di spazio era
stata liquidata con noncuranza dai maestri di musica di Dieppe: esistevano
eccellenti pianoforti, quasi piatti, per appartamenti. Rimaneva il problema del
costo. Per comprare uno strumento discreto, anche usato, Nicole avrebbe
dovuto investire il ricavato di mesi di lavoro. Impensabile. Lylie non aveva
protestato quando Nicole le aveva spiegato che non se lo potevano
permettere.
Una sorta di stridore fece sussultare Marc. Malvina, dietro di lui, faceva
scivolare il Mauser sul legno del Petrof.
«Per piacere, metti giù quell’arma, Malvina!» ordinò con voce calma
Mathilde de Carville. «Anch’io, Marc, suonavo quando ero giovane. Piuttosto
male, peraltro. Mio figlio Alexandre era molto più dotato di me. Ma lei non è
venuto qui per parlare di musica classica, suppongo...»
Nessuna parola pronunciata da Mathilde de Carville era casuale, Marc lo
sapeva molto bene.
«Ha ragione...» cominciò. «Vengo subito al dunque. Sono qui per parlare
dell’indagine di Crédule Grand-Duc. Non le nasconderò niente, mi ha dato il
suo quaderno, tutti i suoi appunti degli ultimi diciotto anni. Be’, lo ha dato
a...» Marc esitò e subito aggiunse: «... lo ha dato a Lylie, che stamattina ha
insistito perché lo leggessi».
«Ma è venuto a mani vuote» tagliò corto Mathilde de Carville. «Lei è
prudente, Marc. Non si fida. A torto. Per quanto riguarda quel quaderno, non
ho mai preteso la minima esclusiva da parte di Crédule Grand-Duc. Alla fin
fine è una buona cosa che Lylie sappia. I dubbi valgono più di false certezze.
Per quanto mi riguarda, penso di conoscere abbastanza bene il contenuto di
quel taccuino. Grand-Duc era un dipendente leale.»
Marc osservò il volto deformato di Malvina riflesso nel legno lucido del
Petrof prima di replicare, con finto stupore: «Era?».
«Sì, era» rispose Mathilde con ironia non dissimulata. «Grand-Duc è stato
alle mie dipendenze per diciotto anni, ma è libero da tre giorni...»
Il giovane imprecò tra sé. Con quella sua aria di superiorità, Mathilde de
Carville cercava di manipolarlo. Ovviamente era al corrente della morte di
Grand-Duc, assassinato da sua nipote. Forse su suo ordine... Marc non
riusciva a tenere le mani ferme, suo malgrado. Che cosa ci faceva lì? Con
quella vecchia strega inacidita e quella pazza che non aspettava altro che un
cenno per ammazzarlo. Per non parlare del vecchio inerte sulla sedia a rotelle.
Una scena da incubo. Che cosa poteva sperare se non giocava a carte
scoperte?
Fece qualche passo, come per prendere sicurezza. Le dita di Malvina si
contrassero sul Mauser. Non aveva nulla da perdere, doveva buttarsi.
«D’accordo. Finiamola con questa messinscena. Da diciotto anni le nostre
due famiglie sono aggrappate ciascuna alle proprie certezze. Voi sostenete
che Lyse-Rose è sopravvissuta. Noi siamo sicuri che si tratti di Emilie. È
anche quello che ha detto il giudice.» Fece un sospiro, cercando le parole
giuste. «Signora de Carville, durante questi anni sono cresciuto accanto a
Lylie e ho capito una cosa.» Esitò ancora, poi continuò: «Signora de Carville,
Lylie non è mia sorella! Mi ha sentito bene? Non abbiamo nessun legame di
sangue... La sopravvissuta è Lyse-Rose».
Il Mauser, scivolando sul pianoforte, fece un rumore secco. Gli occhi di
Malvina brillavano di sorpresa, di incanto, come se a un tratto Marc fosse
diventato un suo alleato. Una spia che si toglie la maschera e svela la propria
identità.
Uno dei loro!
Al contrario, Mathilde de Carville rimase perfettamente immobile, in
silenzio. Alla fine pronunciò solo qualche parola. «Malvina, porta il nonno a
fare una passeggiata nel parco.»
«Ma, nonna...» Le lacrime le salivano agli occhi.
«Fai quello che ti dico, Malvina. Porta Léonce a fare una passeggiata nel
parco.»
«Ma...»
Malvina non riuscì più a trattenere le lacrime. Uscì spingendo la sedia a
rotelle su cui suo nonno, immobile, continuava a dormire.
27

2 ottobre 1998, ore 12.55


Lylie vacillava pericolosamente sullo sgabello da bar con le gambe strette.
Doveva essere stato progettato apposta per traballare quando chi ci era seduto
sopra aveva bevuto un bicchiere di troppo.
“Poco ci manca” pensò.
Un prototipo da brevettare, quello sgabello ballerino.
Portò il bicchiere di gin alle labbra. Non bruciava più adesso. Non sentiva
più nulla, solo il dondolio dello sgabello.
Era l’unica donna in quel bar, il Barramundi in rue de Lappe. Il genere di
locale in cui una donna non va da sola, neanche di giorno; o se ci va è perché
ha un’idea ben precisa in testa. Per quanto gli avventori cercassero di far finta
di non interessarsi a lei, di continuare a scolarsi le loro birre e i loro bicchieri
di bianco di Borgogna, di grattare i biglietti della lotteria istantanea o di
fissare il televisore sintonizzato su un canale di sport, Lylie sentiva lo stesso i
loro sguardi insistenti sulle sue cosce nude, sulle gambe che scivolavano
lungo lo sgabello, i loro occhi che la percorrevano dalla schiena alla nuca...
Dimenticare...
Lylie vuotò il bicchiere in un sorso e si girò verso il barista, un tipo
placido con un solo ciuffo di capelli, grigio e arricciato, in mezzo al cranio.
«Cos’altro ha da propormi?»
Aveva già provato la vodka e la tequila. Per il momento preferiva di gran
lunga la vodka, ma era solo all’inizio della sua formazione. Non aveva mai
bevuto una goccia d’alcol in diciotto anni, a parte una flûte di champagne tre
giorni prima. Stava recuperando il tempo perso.
«Penso che possa bastare così, signorina. Ha già bevuto abbastanza, no?»
Ma cosa voleva quel pelato col suo ciuffo del cazzo? Non aveva capito
che era maggiorenne da tre giorni? Lylie pensò di sbattergli la carta d’identità
sotto il naso, ma quello stronzo le stava già voltando le spalle, senza neanche
guardarla.
Un uomo in completo grigio e cravatta allentata stava a due metri da lei, al
banco, perso in un bicchiere con un fondo di liquido marrone. Era l’unico al
bar a non averla spogliata con gli occhi. Lylie si sporse verso di lui, in
equilibrio sullo sgabello sbilenco, aggrappandosi al bancone.
«Cosa sta bevendo?»
Cravatta moscia si tirò un po’ su. «Un classico. Scotch...»
«Lo voglio anch’io! Barista, me ne dia uno.»
«È sicura, signorina?» chiese quello, calmo, sollevando il sopracciglio
destro.
«Tranquillo, Jean-Charles» disse Cravatta moscia. «Offro io.»
Jean-Charles sollevò di nuovo il sopracciglio, il sinistro stavolta. Doveva
essersi allenato molto bene. «L’ultimo, però. Non voglio casini...»
Con una tecnica da equilibrista molto più collaudata di quella di Lylie, il
bevitore di scotch, senza scendere dal suo trespolo, le si appiccicò addosso.
Non per consolarla, al contrario. Quel tizio alla deriva doveva tirare avanti
solo grazie a conversazioni tra naufraghi, storie di tempeste, di
sopravvivenza, di bottiglie in mare... «E lei com’è finita qui, signorina...?»
«Libellula. Signorina Libellula!»
L’uomo sembrò accorgersi in quel momento che la ragazza che aveva
abbordato aveva un corpo da modella e che tutto il bar osservava la scenetta,
come a teatro. «Carino... sì... Libellula. Io sono Richard... Sono professore
alle medie, a Boieldieu, nel ventesimo arrondissement, quindi lei capirà
che...»
Lylie lo scostò con il braccio per prendere il bicchiere di scotch. Bagnò le
labbra e fece una smorfia. Decisamente niente valeva la vodka! Richard capì
che se ne infischiava dei suoi problemi scolastici e cambiò argomento.
«Una bella ragazza come lei... Non ha l’aria di una professionista. Com’è
possibile venire qui, quando si è così belle?»
Lylie si chinò verso Richard sbilanciandosi sullo sgabello, che rimase in
piedi per miracolo. «Ehi tu, vieni qui.» Gli afferrò bruscamente la cravatta
tirandolo verso di sé e avvicinò la bocca al suo orecchio. «Ora te lo dico,
Cravatta. A dire il vero io non sono bella. Il mio è solo un travestimento.»
Richard assunse un’aria sbigottita. «Eh?»
«Le mie gambe... Il mio seno... La mia bocca... La mia pelle... Quello che
tutti guardano, che tutti vogliono toccare, per strada, ovunque... be’, è solo un
costume. In lattice, come quello dei subacquei.»
«Tu... tu?»
«Guarda che è vero. Tutti pensano che io sia bella, ma in realtà sotto sono
un mostro!»
«Tu...»
«Ma sei cretino o cosa? Ti sto spiegando che sono come le lucertole... Ho
diverse pelli. Hai presente i mostri dei “Visitors”, la serie TV , quelli che
somigliano a esseri umani ma che sono immondi sotto la pelle? Soprattutto il
loro capo, la ragazza, un rettile viscido in un corpo da sballo. Io sono come
lei, come le lucertole che mangiano topi vivi. Ecco, hai capito ora?»
«Mah, non proprio. Sai, le serie TV ... io sono professore di...»
Uno strattone alla cravatta gli mozzò la voce.
«Ti dirò un’altra cosa, Cravatta, ancora più tremenda. Non sono sola,
siamo in due sotto i vestiti. Due nello stesso corpo, ci credi?»
«Be’... ehm... direi che...»
«Ssh... Sta’ zitto, è meglio... Devo andare, tra qualche minuto... Sai dove?
Devo andare a fare una cosa brutta. Qualcosa che in realtà non mi va proprio.
Mi faccio schifo. Ma devo comunque...»
Richard le si avvinghiò a una spalla per non cadere. Fece scivolare il
braccio contro il suo seno e bofonchiò, avvicinando le labbra a quelle di lei:
«Perché? Non siamo mai obbligati a fare qualcosa. Se ti aiutassi... a togliere il
tuo travestimento, per guardarti dentro. Te e la tua amica...».
Richard si stava ringalluzzendo. Lylie continuava a tenerlo per la cravatta,
perciò lui non aveva un grande margine di manovra, ma riuscì a far scivolare
la mano destra sotto la gonna nera.
Lei non protestò. «È troppo tardi, ti ho detto... Non puoi più fare niente per
me, nessuno può più fare niente. Vedi, ora devo andare a uccidere qualcuno
che non c’entra niente, che non ha chiesto niente... Perché è così...»
«Va bene, va bene... Ma abbiamo ancora tempo. Qualche minuto. Devi
mostrarmi la tua seconda pelle, prima... Se vuoi che ti creda...» La mano
destra risalì sulla coscia, la sinistra si posò sul seno di Lylie.
Il barista aggrottò le sopracciglia e sbatté con violenza un bicchiere sul
bancone. «Vacci piano, Richard, con la ragazzina. Metti giù le zampe, hai già
abbastanza casini così, no?»
Richard esitò. La cravatta si tese fin quasi a strozzarlo.
«Di’, mi ascolti? Ti ho detto che sto per uccidere un innocente!» Lylie si
sporse ulteriormente. Questa volta lo sgabello non resistette e si ribaltò di
botto.
Cadendo lei aveva mollato la cravatta, ma Richard aveva lo stesso un
vistoso segno rosso da strangolamento attorno al collo. Come un condannato
all’impiccagione miracolato e non vendicativo, si alzò per aiutarla.
«Non toccarmi!» strillò lei. «Tieni a posto quelle manacce! Sparisci!»
28

2 ottobre 1998, ore 13.11


Mathilde de Carville scostò lentamente la doppia tenda e controllò dalla
finestra se la nipote stesse eseguendo i suoi ordini.
Marc guardò nella stessa direzione, indugiò un istante su quella mano
grinzosa poi, attraverso la fine trama del tulle bianco che cadeva davanti al
vetro, i suoi occhi abbracciarono il vasto parco verde e ocra. La Roseraie
sembrava immersa nell’ambiente ovattato di uno scadente film di genere:
scenario borghese, desuete immagini sfocate e toni pastello. Malvina passò
sullo sfondo, sul viale di brecciolino rosa, spingendo nervosamente suo
nonno. La testa dell’infermo doveva essere scivolata pian piano lungo il
percorso irregolare, il collo si era piegato a poco a poco: gli occhi spalancati
fissavano il cielo bianco, o forse la cima degli alberi, o il volo lento delle
ultime foglie rosse del grande acero. Non una volta Malvina si chinò su di lui
per aiutarlo.
Mathilde aspettò qualche secondo. Malvina e Léonce de Carville si
allontanavano lungo il roseto in direzione della serra e del belvedere sulla
Marna. Richiuse lentamente la doppia tenda. La stanza fu di nuovo immersa
in una leggera penombra in cui brillavano le sagome bianche e immobili
degli arredi coperti dai teli e, naturalmente, la laccatura immacolata del
Petrof.
Mathilde de Carville si voltò verso il giovane. «Marc... Mi permette di
chiamarla Marc? La mia età me lo consente, penso. Dato che è venuto qui,
vorrei farle una domanda. Una domanda semplice. Quando ha visto Lylie,
questi ultimi giorni, da quando è maggiorenne, portava un gioiello? Un
anello?»
Marc si era avvicinato al pianoforte. Le sue dita correvano sulla tastiera,
senza premere sui tasti.
Perché mentire?
«Sì, ce l’aveva... Un anello. Uno zaffiro chiaro...»
Nessun sorriso sul volto di Mathilde de Carville. Nessuna manifestazione
di trionfo. Nessuna esultanza. Marc lo trovò strano. Reagiva come un
poliziotto che non osa credere alle confessioni di un imbroglione.
La mano di Marc si mosse sul pianoforte. Il Mauser era sempre poggiato
sul legno bianco, a ottanta centimetri dalle sue dita. Attraverso la finestra,
cercò di individuare di nuovo Malvina nel parco, ma la tenda tirata svelava
solo una striscia di luce pallida.
«È pazza» disse d’un tratto con voce calma la de Carville. «Mia nipote è
quasi impazzita. Se ne è reso conto, immagino.»
Marc non replicò.
«E lei, Marc, cosa ne pensa?» chiese Mathilde.
Niente, lui aspettava.
«Della pazzia, Marc. Le sto parlando della pazzia... Cosa ne pensa?»
Il giovane faceva danzare le dita sui tasti d’avorio per nasconderne il
tremito.
«Le sto parlando, Marc» insistette la voce glaciale di Mathilde de Carville.
«Mi riferisco a lei. Come è accaduto a Malvina, il suo piccolo cervello di
bambino ha dovuto affrontare il dubbio. Cos’era successo alla sua sorellina?
Era viva? Era morta? Lei ne è uscito meglio di Malvina, alla fine?»
Marc alzò la testa senza pronunciare una parola.
«Che tortura, non è vero, Marc? Tutti questi anni. Non sapere che
sentimento prova per la ragazza che ama di più al mondo. Si tratta di un casto
amore fraterno? O di un focoso amore carnale? Come crescere con questo
dubbio?»
Il tono era cambiato. La voce si era fatta più forte, minacciosa. Mathilde
de Carville si avvicinò al piano.
«Per vivere, per sopravvivere, si viene a patti con i propri sentimenti, non
è così, Marc? Per tutta l’infanzia il piccolo Marc ha cercato l’affetto della
piccola Emilie, l’adorabile sorellina... Poi è cresciuto. Perché non approfittare
del dubbio, l’occasione è troppo ghiotta, no? Seppellire la piccola Emilie e
innamorarsi di Lyse-Rose, la bella e ricca ereditiera della famiglia de
Carville?»
Le dita di Mathilde si avvicinavano al revolver, la sua voce diventava
sempre più energica.
«Ho sofferto, Marc. Mio Dio, se ho sofferto. Ho espiato, tutti questi anni,
non so quale colpa, ma l’ho espiata comunque. La mia vendetta ha un gusto
amaro, mi creda.»
Marc tossì. Nessun altro suono riusciva a scaturire dalla sua gola. La
donna ora era in piedi a meno di un metro da lui. Di quale vendetta stava
parlando?
Improvvisamente Mathilde de Carville si voltò e si diresse verso la
libreria, all’angolo opposto della stanza. La sua ombra ricoprì il Petrof di un
effimero velo grigio. Afferrò senza esitare un grosso libro di cui Marc non
riuscì a leggere il titolo, lo aprì e ne estrasse una busta blu lavanda. Poi
riattraversò la stanza.
«Grand-Duc si era avvicinato a voi, Marc, era diventato amico della
famiglia Vitral. Ma non si lasci ingannare, restava comunque un mio
dipendente, mi presentava un rapporto quasi ogni settimana... Almeno al
principio. Dopo cinque anni d’indagini le pista de seguire erano praticamente
esaurite. Dopo otto, non ne restava davvero più nessuna.»
L’immagine del cadavere di Grand-Duc passò furtivamente davanti agli
occhi di Marc.
Mathilde posò la busta blu sul pianoforte, accanto al revolver. «Davvero
più nessuna, a parte una. L’ultima, l’unica...» Si voltò ancora.
Quella donna non smetteva mai di muoversi?
«Marc, abbiamo tempo, posso offrirle qualcosa da bere?»
Lui esitò, sorpreso. Tutto quello che stava scoprendo da quando era
arrivato alla Roseraie gli sembrava preparato, calcolato, come se la sua visita
fosse stata attesa: quella stanza lugubre, mal illuminata; il pianoforte bianco,
con il Mauser poggiato sopra. Malvina e Léonce de Carville erano spariti, nel
giardino o altrove, e la tenda nascondeva tutto quello che avveniva
all’esterno.
«Sì... sì» farfugliò Marc d’impulso. «Perché no?»
«Un infuso? Ho eccellenti miscele aromatiche che coltivo io stessa.»
Marc annuì. Mathilde de Carville si assentò per alcuni minuti, lasciandolo
da solo proprio accanto alla busta blu e al Mauser. Era voluto, evidentemente.
Una dolce tortura. La vendetta di Mathilde. Marc si sforzava di respirare con
regolarità, controllando i primi segni di una crisi di agorafobia. Se
stranamente non aveva provato alcuna paura davanti a quel mostriciattolo
armato di Malvina, la messinscena della vecchia de Carville provocava in lui
un forte turbamento. Cominciava a sentire il formicolio familiare del sangue
che si precipita verso le gambe, le braccia, le mani.
Mathilde tornò portando un piccolo vassoio con due tazze. Versò l’acqua
calda e tese un piattino a Marc.
«Beva, Marc...»
Lui esitò. Mathilde gli lanciò un sorriso schietto.
«Non voglio mica avvelenarla!»
Lui bagnò le labbra. Era bollente.

«Marc» disse Mathilde de Carville «non intendo farla soffrire ancora a


lungo.»
Lui bevve un sorso. Il gusto gli piacque. Quella vecchia strega coltivava
da sola le sue erbacce nell’immenso giardino segreto.
«All’inizio di questo decennio» continuò Mathilde «lei lo sa tanto quanto
me, è diventato possibile scoprire la verità... Un semplice test del DNA !
Infallibile. I laboratori inglesi, con molto denaro e un po’ di saliva o di
sangue, fornivano i risultati nel giro di pochi giorni. Ho aspettato ancora
qualche tempo prima di ricorrervi. La religione cattolica non va
necessariamente d’accordo con la genetica, lei capisce, Marc. Ho esitato a
lungo. Ho preso la mia decisione tre anni fa, quando Lylie ne aveva quindici.
Era l’ultima missione di Grand-Duc, in qualche modo. È stato lui a occuparsi
di tutto. Aveva contatti con la polizia scientifica francese, io gli ho fornito il
denaro. Una procedura del genere non aveva nulla di legale. Ha prelevato un
campione di sangue di Lylie il giorno del suo compleanno. Io gli ho fornito il
mio, quello di mio marito e quello di Malvina. Era così semplice sapere...»
Marc sentiva le gambe cedere. Bevve ancora un sorso di tisana. Il sapore,
a mano a mano che la ingeriva, diventava sempre più acido. Naturalmente si
ricordava il giorno del quindicesimo compleanno di Lylie; Crédule Grand-
Duc era stato invitato, come ogni anno, e le aveva regalato un vaso soliflore
di vetro, lungo e sottile. Era così delicato, forse sbeccato, che era andato in
frantumi non appena Lylie l’aveva preso tra le mani. Si era tagliata un indice.
Grand-Duc era mortificato. Aveva raccolto i pezzi di vetro, farfugliando delle
scuse.
Grand-Duc confessava il suo doppio gioco nelle pagine del quaderno?
Marc lo avrebbe verificato. La gola gli bruciava.
Per il momento aveva solo un desiderio: prendere quella busta blu, aprirla,
leggerne il contenuto.
Mathilde de Carville gli fece un altro strano sorriso. «Marc, i risultati sono
qui, in questa busta. Li conosco da tre anni ormai. Solo io. Mi ha fatto un
favore venendo qui. Prenderà lei questa busta.»
Marc si bruciò il palato con un’ultima sorsata. Con le dita tremanti, prese
la busta blu lavanda. Sul viso di Mathilde de Carville apparve una smorfia di
trionfo.
«Ma non deve aprirla, Marc! Porterà questa busta a Nicole Vitral. È una
questione tra me e lei, da anni ormai. Se c’è qualcun altro che oggi deve
sapere la verità, è proprio lei.»
Un lungo silenzio avvolse la stanza, come una brina mattutina che
ghiaccia le lenzuola. Marc fece scivolare lentamente la busta blu in tasca.
«Che cosa le garantisce che non la aprirò non appena sarò uscito da qui?»
«Lei è un ragazzo giudizioso, no? Obbediente. Non vorrà certo tradire sua
nonna. La busta è per lei...»
«Queste sono le sue regole, ma perché dovrei seguirle?»
«Lei le seguirà, Marc, naturalmente. Perché è convinto di conoscere già la
risposta contenuta nella busta.»
Marc si sentiva soffocare. La gola e lo stomaco gli bruciavano.
Mathilde de Carville insistette. «Cos’ha da temere, Marc? Non è quello
che desiderava? Lyse-Rose è sopravvissuta, Emilie è morta. Solo Nicole
soffrirà un po’, certo, ma la felicità di suo nipote le sarà di conforto, no?»
Marc, ormai in preda a una crisi di agorafobia, non riusciva a controllare
la respirazione; era come se l’infuso bollente gli stesse divorando le viscere.
Mathilde de Carville scoppiò in una terrificante risata.
«Cosa spera di preciso, Marc? Di sposare Lylie? Che prenda il nome
Lyse-Rose de Carville? Di diventare mio nipote? Un matrimonio in abito
bianco, a Notre-Dame? Mio marito avrà qualche difficoltà a portare sua
nipote all’altare, ma ci organizzeremo. E poi? Verrà con Lyse-Rose a
prendere il caffè la domenica, a giocare a scacchi nel parco guardando la
Marna che scorre, mentre parlo di waffle e patatine fritte con sua nonna? Che
pena, Marc. Che spreco...»
Lui cercò di prendere la tazza, ma gli cadde dalle mani e si ruppe sul
tappeto, inzaccherando i piedi del pianoforte.
«Dia questa busta a sua nonna, Marc. Se lei vorrà, potrà permetterle di
leggere il risultato del test del DNA . Le dica anche che non rimpiango nulla,
soprattutto non il denaro che ho versato. Sono in pace con me stessa.»
La vista di Marc si annebbiò. Il sangue nelle arterie irrorava il suo corpo
come un oleodotto in fiamme. Le gambe non riuscivano più a reggerlo, come
due torri consumate da un incendio. Le mani si contrassero sulla tastiera del
Petrof. Rallentarono all’ultimo momento la sua caduta, con un sinistro grido
di note scordate.
29

2 ottobre 1998, ore 13.15


Ayla Ozan era davanti al numero 21 di rue de la Butte-aux-Cailles. Tentava,
alzandosi in punta di piedi, di vedere il più lontano possibile nel giardino.
Non si muoveva nulla. Le persiane verde chiaro erano disperatamente chiuse.
Ayla suonò più volte, a lungo. Nessuno!
Alla fine si girò e camminò lungo la strada, alla ricerca di un indizio
qualsiasi. Era stata spesso da Crédule Grand-Duc; preparava da mangiare
mentre lui e Nazim lavoravano sul caso e discutevano fino a tarda notte. Lei
li ascoltava per un po’, ma finiva sempre per addormentarsi prima di loro, sul
divano, avvolta dal calore del caminetto, contando le libellule nel terrario,
cullata dalla voce dei due uomini. L’uomo della sua vita e il migliore amico
di lui. Dove potevano essere finiti? Da Grand-Duc non c’era nessuno e
Nazim non le dava notizie da due giorni. Qualcosa non andava.
Ayla passò davanti al bar Temps des Cerises, indecisa se entrare a
chiedere informazioni. Crédule a volte prendeva un caffè lì. Si fermò,
consapevole che la sua andatura non era molto naturale. Prima di chiudere il
chiosco in Boulevard Raspail, aveva preso un grosso coltello da cucina, il più
affilato, l’aveva avvolto in un sacchetto di plastica e l’aveva fatto scivolare
lungo la gamba, sotto i pantaloni larghi. Era troppo lungo per entrare nello
zaino. Un’arma di fortuna, ma non si poteva mai sapere... Non riusciva a
liberarsi da quella terribile sensazione di pericolo.
Abbracciò con lo sguardo rue de la Butte-aux-Cailles. C’erano alcune
persone: mamme con i loro bambini, qualche cliente nella panetteria.
Improvvisamente si bloccò.
Il cuore le esplose sotto il lungo cappotto invernale.
La BMW X3 nera di Crédule era parcheggiata lungo il marciapiede, a
cinquanta metri da casa sua. Nessuna traccia invece della Xantia blu di
Nazim.
Nazim era andato da Crédule; se avevano lasciato insieme la casa in rue de
la Butte-aux-Cailles, per quale motivo avevano preso la Xantia sporca e
ammaccata invece della BMW ? Quel vecchio maniaco di Crédule, soprattutto.
Ayla fece un giro nei dintorni. Rue Samson, passage Boiton, rue Jean-
Marie-Jégo, rue Alphand. Camminava a passi lenti, trascinando la gamba,
rigida per via della lama del coltello. Pensava che il sacchetto di plastica
avrebbe potuto cedere in qualsiasi momento e l’acciaio le sarebbe penetrato
nella carne; allora si sarebbe accasciata lì per strada, come una stupida...
«Sta cercando qualcosa?»
Un tizio con un cane la squadrava, il genere di vicino che non ama troppo
gli estranei che gironzolano per il quartiere. Soprattutto non una turca che
gira attorno alle macchine parcheggiate.
«Sono... sono un’amica di Crédule Grand-Duc. Abita al 21 di rue de la
Butte-aux-Cailles. La villetta prima del Temps des Cerises. Non c’è, ma la
sua macchina è parcheggiata vicino a casa. Una BMW nera. Lei... lei non ha
per caso visto un’altra macchina? Una Xantia blu...»
Il tizio la guardò come se fosse un funzionario del servizio immigrazione
del ministero dell’Interno incaricato di rilasciare i permessi di soggiorno nel
quartiere. Consultò il suo cane.
«Paraurti ammaccato? Un pot-pourri di fiori appeso allo specchietto
retrovisore? Una bandiera turca attaccata al parabrezza? Quella dice?»
L’uomo tacque un attimo, compiaciuto di se stesso, mentre Ayla
riprendeva le speranze e annuiva sfoderando il suo più bel sorriso, anche se
quel tipo sembrava fare più affidamento sull’istinto del suo cane che non sul
fascino turco. Per il momento il bastardino marrone chiaro era
affettuosamente incollato alle gambe di Ayla.
«La Xantia è rimasta parcheggiata nel quartiere in questi ultimi giorni»
aggiunse l’uomo «ma non c’è più da ieri... Sono sicuro, non la troverà. Non
vale la pena perdere tempo.»
Il coltello sulla coscia faceva soffrire Ayla e il muso di quello stupido cane
contro la sua gamba sarebbe finito a fettine, come la carne del kebab. Si
abbassò per allontanare l’animale cercando di cambiare posizione. Il tizio la
guardò, ancora più diffidente. Era uno stronzo ma poteva esserle utile. Ayla
dispensò un sorriso all’uomo e una carezza al cane. A ciascuno il suo.
«Senta, mi sembra che lei conosca bene il quartiere... Non ha visto
qualcosa di strano negli ultimi giorni, nelle ultime ore... Qualcuno di nuovo,
per esempio? Un’altra macchina insolita?»
L’uomo la squadrò, stupito da tanta audacia. Tirò istintivamente il
guinzaglio.
Ayla continuò. Non aveva niente da perdere. «Qualcuno non della zona,
magari...»
Il tizio esitò ancora, ma non poté resistere all’impulso di rendersi utile.
«Ho capito cosa vuol dire...» Guardò il cane, come per fargli condividere la
sua esultanza. «Una Mini blu, piuttosto nuova. La proprietaria si è aggirata
per il quartiere quasi tutta la mattina, una ragazza con una testa da vecchia su
un corpo da bambina. Strana. Losca, con uno sguardo falso... È lei che sta
cercando?»
Il viso di Ayla Ozan impallidì di colpo. Certo, aveva capito di chi stava
parlando il tizio. Nazim le aveva spesso descritto Malvina de Carville, il suo
fisico fuori dal comune, i suoi capricci, quell’auto, quella Mini, un regalo
della nonna ricchissima... Nazim le aveva anche detto spesso che quella
ragazza era andata completamente fuori di testa dopo l’incidente aereo.
Pazza e pericolosa.
Ayla andò nel panico.
«Be’... sì. Gra-grazie...»
Cosa poteva fare adesso? Correre alla polizia? Le avrebbero fatto un sacco
di domande. Avrebbe dovuto rivelare tutto quello che sapeva sul caso, sui de
Carville, su Nazim... In fondo era sparito solo da due giorni. Se avesse detto
tutto ai poliziotti, Nazim non l’avrebbe mai perdonata.
L’uomo con il cane si allontanò continuando a guardarla di traverso. No,
doveva cavarsela da sola. Ne sapeva abbastanza sui de Carville. Non aveva
dimenticato nessuna delle confidenze fatte da Nazim sul cuscino, quando
crollava sulla schiena dopo avere goduto. Il fascista e il suo cane marrone
sparirono all’angolo di rue Samson. Ayla era percorsa da uno strano brivido,
un misto di angoscia ed eccitazione. Ripensava al corpo di Nazim, alla
carezza sulla pelle dei baffi del suo bel gigante. Aveva talmente tanta voglia
di rannicchiarsi tra le sue braccia! Di ballare davanti a lui, di agitare il piccolo
ventre rotondo sotto il suo naso per eccitarlo, per poi lasciarsi baciare
golosamente.
Ayla si chinò e aggiustò il coltello freddo contro la gamba. Aveva
un’unica pista: Malvina de Carville. Era sola ma non era stupida. I de
Carville abitavano nella periferia est, vicino a Marne-la-Vallée. Ci sarebbe
arrivata. Condivideva da vent’anni il letto con un detective privato. Sarebbe
riuscita a cavarsela.
30

2 ottobre 1998, ore 13.17


Marc camminava nel corridoio scuro. Mathilde de Carville gli aveva soltanto
aperto la porta, senza riaccompagnarlo, lasciandolo solo con i suoi dubbi. La
crisi di agorafobia stava a poco a poco passando, la respirazione riprendeva
un ritmo normale. Anche l’effetto ustionante dell’infuso stava sfumando,
come se il corpo fosse ventilato meglio. Marc scorse l’immagine del suo
volto sconvolto nel grande specchio ovale in fondo al corridoio. Non si
attardò.
Solo tre scalini da scendere. Spingere la pesante porta di quercia. Fuggire,
il prima possibile.
Le gambe non lo reggevano quasi più. I pensieri si accalcavano nella sua
testa. Doveva aprire quella busta blu, leggere il risultato del test del DNA ?
Oppure aspettare ancora per ore, fino al suo arrivo a Dieppe? Mathilde de
Carville forse stava cercando di tendergli una trappola...
Uno scalino, due scalini, tre scalini.
L’aria fresca lo colpì in pieno viso. Marc inspirò lunghe boccate salvifiche
cercando di organizzare i pensieri. Davanti a lui non c’era un’ombra che si
muovesse nel giardino della Roseraie. La proprietà gli ricordava l’atmosfera
morbosa del parco di una casa di riposo. O di un manicomio. Si diresse verso
il cancello. Alla sua sinistra, dietro l’acero rosso, intravide Léonce de
Carville. L’infermo dormiva da solo, con la testa piegata sulla spalla,
abbandonato da Malvina in mezzo al prato.
La ghiaia rosa scricchiolava sotto i suoi passi.
Marc si concentrò sul da farsi. Si trovava alle prese con tre questioni
urgenti, ognuna delle quali era collegata a un delitto, in un modo o nell’altro.
L’omicidio di Grand-Duc, tanto per cominciare, avvenuto qualche ora prima.
Tutto portava a credere che fosse stata Malvina de Carville a commetterlo.
Poi l’assassinio di suo nonno – perché la morte per asfissia nel furgone non
era stata accidentale – a Le Tréport, sedici anni prima. C’era un dettaglio che
non quadrava nel racconto di Grand-Duc, un ricordo riposto da qualche parte
nella cameretta di Marc, a Dieppe. E infine Lylie. Il viaggio senza ritorno di
cui gli aveva parlato. Una fuga? Una vendetta? Un suicidio programmato?
Questi tre drammi erano collegati? Sì, senza alcun dubbio. Bastava
risolverne uno per dare un senso agli altri due.

La ghiaia scricchiolò ancora alle sue spalle.


«Dove sei diretto, Vitral?»
Malvina.
Lui si girò. «Me ne vado. Tua nonna mi ha gentilmente raccontato tutto
quello che volevo sapere...»
«Come no! E invece non sai un bel niente. Con tutte le sue grandi arie,
mia nonna non ha idea di quello che dice.»
Marc sospirò.
«Solo io conosco la verità» continuò Malvina. «Io c’ero in Turchia. Tutti
gli altri sono morti nell’aereo sul Mont Terrible. Io no. Ho preso il volo
prima. Seguimi, Vitral.»
Marc la guardò, incredulo.
«Seguimi, ti ho detto! Guarda, non ho neanche più la pistola. Prima hai
detto che Lyse-Rose è sopravvissuta, che Emilie Vitral è bruciata nell’aereo
diciotto anni fa. Allora seguimi!»
Marc non si muoveva.
«Forza, Vitral, vieni con me. Ti interesserà, vedrai.»
Perché no, dopotutto.
Eccitata come una ragazzina, Malvina ripercorse il viale, aprì di nuovo la
porta di quercia, attraversò il corridoio, poi salì la scala di ciliegio. Marc la
seguiva, incuriosito.
Arrivata al primo piano, lei si voltò e si mise un dito sulle labbra
sussurrando: «A destra c’è la mia camera. Non farti illusioni, non te la faccio
vedere. A sinistra, invece, c’è la camera di Lyse-Rose. Seguimi...».
Marc obbedì. Ancora una volta, in presenza di Malvina, non avvertiva
avvisaglie di pericolo, nessun segnale di crisi.
Lei spinse la porta.
Marc si stupì di vedere una deliziosa cameretta da bambina. Non mancava
nulla: il lettino morbido, rosa, ricoperto di pupazzi di peluche; le tende con
delle grandi giraffe stampate, i colli che toccavano il soffitto e gli zoccoli che
sfioravano il pavimento; un asciugamano arancione posato su un fasciatoio di
quercia; un armadio decorato con fiori dai toni pastello; su una mensola,
alcuni carillon, un abat-jour e altri peluche, fra cui un elefante blu, una tigre e
un coniglio grigio e bianco. Sul pavimento, un immenso tappeto scendiletto
pieno di altri giocattoli: sonagli, un elefantino, clown di pezza...
Marc aveva solo un desiderio, pressante e incontrollabile: uscire da quel
manicomio; ma le gambe non gli rispondevano più, come se la voce di
Malvina le avvolgesse con un filo invisibile.
«La nonna ha decorato questa cameretta diciotto anni fa, per il ritorno
dalla Turchia di Lyse-Rose. Da allora abbiamo continuato a tenerla in ordine,
nel caso in cui lei fosse tornata. Capisci, poteva arrivare in qualsiasi
momento!»
Malvina entrò con agilità scavalcando i giocattoli. Aprì l’armadio: i ripiani
traboccavano di vestitini di tutte le taglie, di cappelli e graziose scarpette. Un
minuscolo berrettino rosa foderato di pelliccia cadde sul pavimento.
Lei si girò verso Marc, con aria furba, continuando a parlare a voce bassa,
infervorata come una bambina che racconta la storia della sua casa delle
bambole a un adulto. «Adesso sono io a mettere in ordine, a fare le pulizie.
Sono sicura che se glielo permettessi la nonna butterebbe via tutto. Ti rendi
conto? Tu mi puoi capire. So che Lyse-Rose è grande, ormai, ma comunque,
quando tornerà, scoprire la sua cameretta, i giocattoli e gli abiti sarà una
sorpresa, no?»
Marc indietreggiò un po’, senza però uscire dalla stanza. Era sommerso da
un torrente di sentimenti contraddittori.
«Di’, Vitral, stai guardando? Allora vieni qui? Ci tieni sì o no a Lyse-
Rose?»
Marc fece un passo avanti.
«Vedi? Ci sono anche i suoi regali!»
Il malessere di Marc aumentava, se possibile. Era come entrare in una
brutta fiaba: stava parlando con la serial killer del reparto giocattoli di un
grande magazzino per bambini.
«Ecco, Vitral, questi sono tutti i suoi regali di compleanno, da quando
Lyse-Rose aveva un anno. Anche doni di Natale.» Malvina gli indicò dei
pacchetti incartati di ogni dimensione, sparpagliati per la stanza, alcuni
impilati. «Potrei citarteli tutti a memoria. Il più grande, lì sul letto, è quello
per il suo primo Natale. Io e la nonna eravamo andate a comprarlo alla vigilia
dell’incidente aereo, alle Galeries Lafayette; avevo sei anni allora, mi ricordo
ancora i burattini nelle vetrine...» Si avvicinò a Marc e gli sussurrò
all’orecchio: «Non vuoi indovinare?».
Lui scosse la testa, pervaso da un misto di emozione e orrore.
«È un orsacchiotto gigantesco, più grande di lei, arancione e marrone. Si
chiama Banjo. Ho scelto io il nome. Banjo. È il suo migliore amico da
sempre; la aspetta, vedi? Fermo lì, te lo presento...»
Marc si passò la mano davanti agli occhi. Quella piccola stupida di
Malvina avrebbe finito per farlo piangere con quei suoi deliri. Lei aprì con
delicatezza il grande scatolone e ne estrasse un enorme orso di peluche dallo
sguardo sognante. Una montagna di tenerezza.
Malvina posò l’orsacchiotto sul letto adagiandolo tra due cuscini rosa.
«Ciao, Banjo!» esclamò allegra. «Ti confido un segreto, presto non sarai più
solo, il grande giorno si sta avvicinando. Non ci crederai, Lyse-Rose sta per
tornare!»
“La camera della Bella addormentata” pensò Marc. Giocattoli e vestiti
immagazzinati in attesa del ritorno della bambina morta. Il museo
dell’assenza.
«Poi» continuò Malvina «negli altri pacchetti... ma non te li faccio vedere
tutti... ci sono bambole, naturalmente, e grandi libri. So che lei adora leggere.
Per i suoi dieci anni, nello scatolone là in fondo, le abbiamo preso un violino.
Non so se è stata una buona idea, ma il pianoforte ce l’avevamo già. Dopo è
stato più difficile scegliere. Nei pacchetti più piccoli ci sono dei gioielli, per i
suoi tredici anni, là in quell’angolo, e anche un orologio. Dischi, ma saranno
un po’ vecchi ormai, no? Quel pacco grande, per i suoi sedici anni, è un mini
hi-fi. E poi l’ultimo, per i diciotto anni, la busta... Non vuoi indovinare?»
Marc scosse ancora la testa, incapace di proferire parola.
«Un viaggio! In un portadocumenti, un pacchetto tutto compreso, da
un’agenzia di rue de Rivoli. Credi sia una buona idea? Pensi che Lyse-Rose
avrà ancora il coraggio di prendere l’aereo?»
Una tempesta si agitava nel cervello di Marc: aveva voglia di strozzare
quella pazza, di soffocarla in mezzo a tutti quei peluche per farla tacere, per
farla smettere!
Malvina si appese quasi al collo di Marc. «Ti faccio una confessione... Il
mio regalo preferito resta il primo, l’orsacchiotto Banjo. È troppo bello, vero?
Ti dirò, all’inizio mi piaceva talmente tanto che ero un po’ invidiosa e volevo
tenerlo per me, ma la nonna non era d’accordo. Aveva ragione, sai. Sono
sicura che anche Lyse-Rose se ne innamorerà. Tu cosa ne pensi?»
Marc guardava Malvina cercando di capire quale atteggiamento adottare.
Il lettino con le lenzuola rosa chiaro aveva la forma e il colore di una pietra
tombale di granito. Una tomba di bambino. Quella camera era una cripta,
quei regali, accumulati anno dopo anno, erano come offerte a un martire. Dio
aveva avuto pietà di tanta disperazione e infine aveva risuscitato la bambina
morta.
«Non dici niente, eh, Vitral. Sei rimasto senza parole. Ti senti una merda,
adesso, a renderti conto di tutto quello che si è persa Lyse-Rose? Non riesco
neanche a immaginare lo schifo di regali che deve aver ricevuto per Natale da
voi!»
Almeno avrebbe voluto darle uno schiaffo. Farle male, fisicamente, una
volta sola, per poi fuggire.
Si trattenne.
«Vieni, Vitral, che ti faccio vedere un’ultima cosa...»
Si preparò al peggio. Malvina si avvicinò all’armadio, aprì un cassetto e ne
estrasse un libro rivestito di stoffa rosa, decorato con fiori e pompon.
«Il libro della nascita di Lyse-Rose» sussurrò. «Tieni, puoi guardarlo, ma
stai attento.»
Marc, a malincuore, lo prese, lo aprì e sfogliò le pagine. Le mani gli
tremavano.
Un’altra follia.

IL MIO NOME: Lyse-Rose


I MIEI SECONDI NOMI: Véronique, Mathilde, Malvina
MIO PAPÀ: Alexandre
MIA MAMMA: Véronique
SONO NATA IL: 27 novembre 1980, a Istanbul, in Turchia

Seguivano altri dettagli, uno più macabro dell’altro.


LA MIA CASA: (una foto della Roseraie)
LA MIA CAMERA: (un disegno della stanza in cui si trovava Marc fatto da un
bambino, probabilmente da Malvina quando era piccola)
IL MIO PELUCHE PREFERITO SI CHIAMA: Banjo
LA MIA MIGLIORE AMICA È: mia sorella Malvina

Marc girava le pagine, sbalordito. Scopriva il fantasma di una vita


fantasticata, di una presenza abortita.

LA MIA MANO: (l’impronta di una mano, dipinta. La mano di chi?)


IL MIO COLORE PREFERITO: blu
COSA MI PIACE FARE: ascoltare musica

Le pagine scorrevano sotto le dita di Marc.

IL MIO PRIMO COMPLEANNO: (una fotografia di Lylie ritagliata da una rivista,


forse “Paris Match”, e incollata grossolanamente in mezzo alla famiglia de Carville che
mangiava attorno a un tavolo su cui c’era una torta con delle candeline, anch’essa
ritagliata da un giornale)
LE MIE PRIME VACANZE: (la stessa foto di Lylie incollata in un prato, in mezzo a
delle genziane in fiore, in un paesaggio di montagna. Malvina, raggiante, le stava
accanto in posa in mezzo al campo. Aveva otto anni e i gambi dei fiori le arrivavano
alla vita)

Marc si fermò, incapace di andare oltre, percorso da brividi sulla nuca.


Malvina dovette accorgersene e gli strappò il libro dalle mani.
«Basta così, hai visto? Ora lo metto via!»

Mathilde de Carville, dalla finestra del salotto, guardò Marc allontanarsi a


grandi passi nel viale.
Correva, quasi.
Quella piccola sciocca di Malvina non aveva resistito, non aveva potuto
fare a meno di mostrargli la camera, i giocattoli e tutto il resto. Aveva lasciato
suo nonno in mezzo al prato come un giocattolo da quattro soldi dimenticato
in fondo al giardino in autunno e ritrovato arrugginito e ammuffito in
primavera.
«Ben gli sta!» sibilò Mathilde de Carville tra sé.
Vide Marc vicino al cancello della Roseraie e sorrise. Si stava
precipitando da sua nonna, a Dieppe, troppo ansioso di aprire la busta, troppo
timoroso per disobbedire. Non sarebbe rimasto deluso quando avrebbe letto i
risultati del test del DNA , povero piccolo Marc.
Marc aprì il cancello e scomparve dalla sua vista, inghiottito dalle foglie
degli alberi di Coupvray e delle ville lì vicino.

Mathilde camminava su e giù per la stanza, silenziosa, pensierosa. Non aveva


detto tutto a Marc Vitral. Non aveva parlato di quella telefonata di Grand-
Duc, della sua ultima scoperta, la sera del compleanno, una rivelazione che
cambiava tutto. Grand-Duc sosteneva di essere venuto a conoscenza della
verità – una verità diversa – semplicemente chinandosi su un giornale di
diciotto anni prima.
Il dito di Mathilde de Carville sfiorò un tasto bianco del pianoforte.
Grand-Duc aveva bluffato?
Ben presto avrebbe avuto la risposta. Aveva ordinato alla segretaria di
direzione dell’azienda de Carville di mandarle una fotocopia de “L’Est
Républicain” del 23 dicembre 1980. Probabilmente l’avrebbe avuta in serata,
se l’impiegata era un po’ sveglia. Aveva chiesto che gliela recapitassero con
un fattorino. Era stata chiara, la segretaria non aveva protestato. Non le
restava che aspettare qualche ora. Allora avrebbe saputo se Grand-Duc le
aveva mentito, se era davvero tutto finito.
Mathilde de Carville si sedette sullo sgabello di fronte al pianoforte e posò
le mani orizzontalmente davanti a sé. Non suonava da anni. Lo strumento era
muto, inutile, infermo, come tutto in quella casa.
Sì, in poche ore tutto si sarebbe concluso.
Tre note acute lacerarono il silenzio. Do. Fa. Sol.
Tutto si sarebbe concluso, ma non per Malvina.
Indipendentemente dal contenuto del giornale, da ciò che Grand-Duc
aveva scoperto, da ciò che Marc Vitral avrebbe letto in quel quaderno o in
quella busta blu, Lyse-Rose avrebbe continuato a vivere, per sempre,
nell’immaginazione morbosa di sua sorella Malvina. Avrebbe vissuto come
vive una bambola agli occhi di una bambina. Solo che quella bambina
nascondeva un Mauser L100 nella carrozzina ed era capace di uccidere tutti
coloro che le avessero fatto notare che stava portando a passeggio solo un
giocattolo, un freddo cadavere di plastica.
31

2 ottobre 1998, ore 13.29


Marc camminava a passo spedito lungo chemin des Chauds-Soleils. Pensò
che fosse stato chiamato così, “caldi soli”, all’epoca in cui gli alberi di
Coupvray non erano ancora cresciuti. Ora “ombre fredde” sarebbe calzato a
pennello a quel vialetto borghese verdeggiante. Si sentì sollevato quando
raggiunse il borgo di Coupvray, il campanile grigio della chiesa, il cartello
triangolare SCUOLA – RALLENTARE, le frecce indicatrici marroni, e soprattutto
ritrovò un timido raggio di luce che si ostinava a squarciare il cielo di cotone.
Rallentò il passo, prese il cellulare e ascoltò la segreteria. Nessun
messaggio di Lylie né di Nicole.
Sempre camminando, chiamò Lylie. Maledisse quei dannati sette squilli.
«Lylie, sono Marc. Dobbiamo parlare il prima possibile. Richiamami.
Sono appena stato dai de Carville. Sì. Hai capito bene. Dai de Carville. È
importante, Lylie. Non prendere nessuna decisione senza avermi prima
parlato. Ci tengo tanto a te.» Riagganciò mormorando tra sé, a labbra quasi
chiuse: «Fa’ che richiami, ti scongiuro, fa’ che richiami...».
Proseguì con passo rapido e arrivò alla chiusa di Lesches. I pescatori non
si erano mossi di un millimetro. L’acqua del canale continuava a scorrere
pigramente. Marc passò in rassegna i numeri memorizzati sul cellulare.
Nicole.
Dopo uno squillo una voce incrinata, familiare, gli rispose: «Pronto?».
Lui tirò un sospiro di sollievo. «Nicole, sono Marc, hai sentito il mio
messaggio?»
«Sì, sì... Sono appena tornata dal cimitero di Janval. Stavo per chiamarti.
Per quanto riguarda le tue domande, figlio mio, non ti so dire niente.
Probabilmente hai visto Emilie dopo di me, a Parigi. Vedi, io...»
«Nicole, sono a Coupvray... Sono appena stato dai de Carville.»
Silenzio. Orfeo che esce dagli inferi. Senza Euridice.
Marc doveva andare avanti. A capofitto. «Nicole... Mathilde de Carville
mi ha dato una busta per te. È... è un’analisi del 1995 della polizia scientifica.
Un test del DNA . Grand-Duc aveva preso di nascosto qualche goccia di
sangue di Lylie.»
La voce spezzata di Nicole risuonò nell’apparecchio, supplichevole.
«Marc, non crederle. Non dopo che...»
Lui tagliò corto. «Devi aprirla tu, Nicole. È quello che mi ha detto.»
Un altro lungo silenzio interruppe la conversazione. Marc sentiva solo il
respiro roco di Nicole.
«Marc, hai la busta... con te?»
«Sì.»
«Descrivimela.»
Senza capire dove volesse arrivare sua nonna, lui obbedì. «Be’, è di
dimensioni standard. Blu chiaro, sul lavanda. Come le buste degli ospedali,
dei laboratori...»
«L’hai aperta?»
«No! Te lo giuro, Nicole. Io...»
«Non aprirla assolutamente, Marc! Mathilde de Carville ha ragione,
almeno su questo punto. Non aprirla. Devi venire qui a Dieppe. Andare dai
de Carville è stata una vera pazzia. Adesso devi venire al Pollet il prima
possibile.» Nicole tossì. Sembrava facesse fatica a parlare. Tossì di nuovo,
questa volta per schiarirsi la voce. «Marc, le cose non sono mai semplici
come pensiamo. Non credere a una parola di quello che ti hanno detto i de
Carville. Non sanno tutto, proprio per niente. Vieni qui subito. Spero solo che
non sia troppo tardi.»
Marc ebbe l’impressione di trovarsi d’improvviso dentro un blocco di
ghiaccio, asfissiato nell’acqua cupa del canale, irrimediabilmente trascinato
verso il fondo. «Troppo tardi per cosa, Nicole? Troppo tardi per chi?»
«Non perdere altro tempo, Marc. Ti aspetto.»
«Nicole...»
Aveva riagganciato.
Dietro un pilastro di cemento, lontano dalla folla della Gare de Lyon, Marc
consultò gli orari su un libretto che teneva sempre nel portafogli.

Parigi-Rouen: 16.11 – 17.29


Rouen-Dieppe: 17.38 – 18.24

Più di un’ora d’attesa per il treno a Saint-Lazare. Avrebbe avuto tutto il


tempo di finire di leggere il quaderno di Grand-Duc prima di arrivare.
Camminando in direzione del metrò, trasportato dal flusso dei viaggiatori,
tentò di ricordare le ultime parole delle pagine strappate. Il detective si
trovava sul Mont Terrible, in pellegrinaggio, come ogni anno. Era stato
sorpreso da un temporale. Aveva cercato un riparo... E poi...

Il metrò spuntò sulla banchina. Una giovane musicista salì davanti a lui
scoccandogli un sorriso radioso. Portava sulla schiena una chitarra la cui
custodia le superava la testa come il tubo nero della cuffia di una donna
bretone in lutto. Marc ostentò quell’indifferenza incurante tipica dei cittadini
trogloditi che circolano nei corridoi sotterranei delle grandi capitali. Si
sistemò in fondo alla vettura, si appoggiò al vetro e si concentrò sul racconto
di Grand-Duc; prima sulle ultime righe dell’ultima pagina strappata, poi sul
resto.

Diario di Crédule Grand-Duc


La pioggia fitta non la sentivo neanche più. Il mio cuore batteva
all’impazzata. Camminai sconvolto fino alla capanna che era proprio davanti
a me. Una semplice capanna da pastore, pressoché abbandonata, il cui tetto in
rovina mi forniva comunque un riparo sufficiente. Ma non era la capanna ad
avere attirato il mio sguardo, era il piccolo cumulo di pietre proprio lì
accanto: alcuni sassi accatastati, trenta centimetri per cinquanta. Una piccola
croce di legno piantata davanti. Ai piedi della croce, in un vaso di terra, una
pianta, un gelsomino d’inverno giallo non ancora appassito.
Potete immaginare il mio turbamento. Mi trovavo davanti a una tomba,
una tomba minuscola!
Cercavo di ragionare. Un pastore aveva probabilmente seppellito lì il suo
cane. O una pecora, o una capra, o un qualsiasi altro animale. Cos’altro?
La pioggia continuava a cadere. Mi rifugiai all’interno, ma le gocce si
infiltravano attraverso il tetto sfondato e dovevo stare incollato alla parete di
legno. Non potevo fare a meno di pensare alla tomba vicino alla capanna,
sotto la tempesta. Certo aveva la dimensione di un piccolo animale... ma
anche quella di un neonato.
In attesa che il temporale finisse ispezionai la capanna. Non c’erano
mobili, ma una specie di lungo tronco poteva fungere da letto di fortuna.
Accanto c’era una coperta grigia appallottolata, piena di buchi. Tracce scure
di cenere, in una sorta di cavità scavata nella terra, indicavano che doveva
essere stato acceso un fuoco, diversi giorni o forse diverse settimane prima. Il
suolo cosparso di rifiuti – lattine di birra e mozziconi più o meno recenti –
forniva un’altra prova che quella catapecchia doveva essere un riparo abusivo
o un posto in cui i ragazzi della zona venivano talvolta a passare la serata.
L’odore, un miscuglio di terra e di piscio, era quasi insopportabile.
Il temporale durò un’ora. A quel punto faceva già buio, ma ero diventato
previdente dopo tutti quegli anni di pellegrinaggio in montagna. Ero armato
di una torcia. Uscii dalla capanna e, con le scarpe nel fango, puntai la
lampada sulla tomba. Cadeva ancora qualche goccia. Mi avvicinai, diffidente:
erano le ultime prima della tregua o le prime di un nuovo acquazzone?
L’alone di luce spazzò via l’oscurità. La croce era composta da due semplici
rami attaccati insieme. Il laccio, uno spago di corda, non sembrava tanto
usurato. Un anno, due al massimo?
Indirizzai il raggio di luce verso la pianta. Non capivo molto di
giardinaggio, ma era poco probabile che il gelsomino d’inverno fosse una
pianta resistente, soprattutto a quelle temperature. Qualcuno doveva aver
lasciato il vaso davanti alla tomba poco tempo prima, al massimo da qualche
mese.
Mi era difficile fare di più quella sera, in piena notte. Dagli alberi
gocciolavano perle fredde. La temperatura si abbassava rapidamente. Mi ci
sarebbero volute due ore buone per scendere dal Mont Terrible, forse di più,
con la sola luce fioca della mia torcia. A ogni modo rimasi lì. Spostai le
pietre, qua e là, per tentare di vedere cosa poteva nascondere quel cumulo.
Nulla, apparentemente, soltanto terra. Oppure bisognava tornare con una pala
e scavare; non l’avrei certo fatto a mani nude.
Non rinunciai. Sollevai le pietre, a una a una, con una mano, mentre con
l’altra illuminavo faticosamente il mio lavoro. Dopo dieci minuti cambiai
mano. Avevo l’impressione di essere un tombarolo, una sorta di morto
vivente che cerca di arruolare un cadavere in una setta, se possibile in una
notte di tempesta. Un cane, una capra, un neonato... Non aveva importanza.
Non trovai niente, a parte pietre e terra bagnata. Risistemai i sassi alla
cieca.
Quella sera, quando arrivai alla mia BMW , era già mezzanotte passata e mi
ci volle ancora più di un’ora per raggiungere il rifugio di Monique Genevez,
sulle sponde del Doubs, a venti chilometri all’ora; la tempesta aveva
raddoppiato d’intensità e cadeva una specie di neve sciolta appiccicosa. Ero
fradicio, intirizzito, sporco di fango. Le dita mi sanguinavano. Mi sarei
trascinato per giorni il raffreddore che beccai quella sera... Tutto per qualche
sasso. La tomba di un cane che non ero neanche riuscito a dissotterrare.
Quella storia dell’indagine mi stava facendo diventare matto. Prima di
andare a dormire, per calmarmi, mi scolai tre bicchieri del passito della
Genevez.

Il giorno dopo tornai a trovare il responsabile del servizio ambientale del


parco dell’Alto Giura, Grégory Morez, il tizio con le spalle da boscaiolo,
bello come un attore di un film di Hollywood girato sulle Montagne
Rocciose. Percorreva da anni il Mont Terrible e i dintorni con il suo quattro
per quattro, perciò teoricamente doveva conoscere la capanna e la tomba.
Morez sembrò al tempo stesso sorpreso dalla mia domanda e deluso di non
avere una risposta soddisfacente da darmi. Sì, conosceva la capanna, serviva
ogni tanto da riparo abusivo o da rifugio per gli adolescenti della zona, che
lui cercava di tenere a bada come poteva. Quanto alla tomba, non ci aveva
mai fatto caso ma probabilmente era di un cane. Era normale, nel Giura, in
montagna, seppellire i cani sotto un cumulo di pietre. Dei monticelli. Dei
segnali lungo i sentieri.

Esitai a risalire sul Mont Terrible, armato di pala, per scavare la tomba. Il
tempo era ancora più orrendo del giorno prima; c’era qualche grado in meno
e cadeva pioggia mista a neve. Due o tre ore di cammino per cosa? Avevo già
raschiato il terreno la notte precedente. Che rapporto poteva esserci tra quella
capanna, quel mucchio di pietre e la mia indagine?
Nessuno, naturalmente.
Alla fine presi un caffè a Indevillers, il villaggio più vicino sperduto in
mezzo al nulla, e aspettai mezz’ora che il tempo migliorasse. Attesa inutile.
In tarda mattinata sul crinale si era messo a fioccare con ostinazione. Tornai
direttamente a Parigi.
Un altro vicolo cieco nella mia indagine, pensavo, un’altra pista che
avrebbe fatto scoppiare dal ridere Nazim se gliene avessi parlato.
Immaginatevi un po’, dissotterrare un cane!
Non lo sapevo ancora, ma quel giorno, il 23 dicembre 1986, commisi un
errore. L’unico, forse, in diciotto anni di indagini, ma perdio, che errore!
Potevo accampare tutte le scuse del mondo – la neve, il freddo, la fatica, la
sfortuna, il sarcasmo di Nazim – ma a che pro? Io, Crédule Grand-Duc, il
meticoloso, il testardo, quel mattino rinunciai; mi mancò il coraggio di andare
fino in fondo. Una sola volta, ve lo assicuro. Però era l’unica pista che non
bisognava tralasciare...
Ma sto anticipando, di nuovo. Perdonatemi. Eravamo dunque nel 1986 e la
quotazione del braccialetto era salita a sessantamila franchi. Sempre nessun
cliente all’orizzonte... Continuavo la mia indagine con determinazione,
cercando di allontanare i primi segnali di stanchezza grazie a una
pianificazione metodica delle ricerche. Feci un lungo soggiorno in Québec,
per incontrare i nonni materni di Lyse-Rose, i Bernier, a Chicoutimi, del tutto
inutile...
Avvicinarmi ai Vitral era una delle opzioni della mia metodica
programmazione. Non la più sgradevole, peraltro. Lylie allora aveva quasi sei
anni, Marc otto. Trascorsi il 21 giugno 1986 con loro. Faceva un caldo
tremendo. Era una delle prime feste della musica e Lylie aveva suonato due
pezzi al pianoforte con l’orchestra di Dieppe, sotto un gazebo montato per
l’occasione sul lungomare, davanti alla piscina. La bambina, raggiante nel
suo grazioso abito verde, con i suoi riccioli biondi, era di gran lunga la più
piccola del gruppo. Sgranocchiammo qualcosa alla friggitoria ambulante di
Nicole. Quella sera c’era un sacco di gente. Nicole Vitral mi sembrò radiosa
più che mai, così orgogliosa della nipotina lì sul palco. Così bella, anche,
quasi felice, per il tempo di una sonata di Chopin. Non le toglievo gli occhi di
dosso, ma lei non se ne accorgeva, lo sguardo rapito dal trionfo di Lylie. Non
una sola volta la camicia macchiata nascose la curva del suo seno sotto il fine
corpetto.
Poco dopo ci sistemammo sull’erba. Lylie, seduta sulle mie ginocchia,
divorò una crêpe scherzando sul mio nome. Mi ribattezzò Credu-lo-Scivolo.
Se lo ricorderà ancora? Da detective privato, ex mercenario, a scivolo per
bambini.
Marc invece voleva tornare subito a casa al Pollet, in rue Pocholle.
C’erano i quarti di finale dei mondiali, Francia-Brasile. Non ebbe bisogno di
insistere: nemmeno io volevo perdermi la partita e in fondo guardarla con lui
mi faceva piacere. Nicole accettò che riaccompagnassi il bambino al Pollet
mentre lei restava sulla spiaggia con Lylie.
Che serata incredibile...
Ci gettammo l’uno tra le braccia dell’altro quando Platini pareggiò, a
pochi minuti dalla fine del primo tempo, dopo che Stopyra aveva
delicatamente calpestato il portiere brasiliano. Il piccolo Marc mi strinse forte
una coscia quando Joël Bats deviò il rigore di Socrates, a un quarto d’ora
dalla fine, mano opposta, un capolavoro; urlammo insieme quando quello
stronzo dell’arbitro non fischiò il fallo su Bellone, in piena area di rigore, ai
supplementari... E quando Luis Fernandez segnò l’ultimo rigore uscimmo
insieme, in rue Pocholle, trascinati dall’incredibile euforia dei vicini.
1986.
Credu-lo-Scivolo.
La Francia in semifinale contro la Germania.
Tutto ciò non aveva più molto a che fare con l’indagine, lo ammetto....
Ma restava forse ancora qualcosa da scoprire?
Già allora, nel 1986, non ne ero più molto convinto...
32

2 ottobre 1998, ore 13.41


Dal suo punto di osservazione, Ayla Ozan dominava tutta la proprietà della
Roseraie. Si era posizionata nel bosco di Coupvray. Raggiunto chemin des
Chauds-Soleils, aveva percorso con discrezione un sentiero che saliva tra gli
alberi. Da lì, nascosta dietro un tronco, teneva sotto controllo i movimenti dei
de Carville.
Per il momento era tutto tranquillo, compreso il vecchio de Carville, sotto
il suo albero in mezzo al prato, come una sorta di scultura moderna al centro
di un giardino pubblico. Gli mancava solo l’edera rampicante avvinta alle
gambe e qualche lichene sulle ruote della sedia.
Ayla aveva ispezionato i dintorni: le strade, i sentieri. Nessuna traccia
della Xantia blu. Invece non aveva avuto difficoltà a individuare la Mini di
Malvina de Carville, parcheggiata quasi davanti alla Roseraie. La macchina
che aveva visto in rue de la Butte-aux-Cailles qualche ora prima.
Dunque né Crédule né Nazim erano lì. Era indecisa sul da farsi. Aspettare,
nonostante tutto? Non si poteva mai sapere... Oppure suonare ai de Carville?
Trovare quella Malvina, farla parlare, in un modo o nell’altro, chiederle cosa
ci facesse davanti a casa di Grand-Duc? Chiederle soprattutto se aveva
incrociato Nazim.
Ayla sentiva la lama fredda del lungo coltello da cucina contro la gamba.
Oh, sì, le sarebbe proprio piaciuto concedersi un piccolo faccia a faccia con
quella Malvina. Il tappeto di foglie morte scricchiolava dolcemente sotto le
sue suole. Rifletteva. Contattare i de Carville era l’ultima cosa da fare.
La soluzione giusta, se l’era ripetuto cento volte, era andare alla polizia.
Dicendo molto semplicemente che suo marito, Nazim Ozan, non dava notizie
da due giorni. Se avesse denunciato la sua scomparsa, i poliziotti l’avrebbero
aiutata. Forse non era troppo tardi. Forse non le avrebbero fatto domande,
dopotutto. E poi se anche gliene avessero fatte, e se lei avesse intuito che
rispondendo avrebbe potuto ritrovare Nazim, allora, senza esitare, avrebbe
raccontato tutto quello che sapeva.
La sua testimonianza avrebbe aiutato Nazim, alla fine. Non era l’unico
colpevole, lo avrebbe detto ai poliziotti. Loro avrebbero capito. Anche Nazim
avrebbe capito. L’unica cosa che contava, adesso, era ritrovarlo.
Ayla guardò di nuovo verso la Roseraie. Quello che avrebbe voluto era
che Malvina uscisse di casa. L’avrebbe bloccata, le avrebbe puntato il coltello
alla gola e le avrebbe detto che se non parlava l’avrebbe tagliata a fettine
come carne da kebab. Quella avrebbe sputato il rospo. Era una pazza, non
un’aspirante suicida.
Ma per il momento della donna non c’era traccia, a parte la macchina.
Esitò. Stava aspettando già da un’ora.
Pazienza. Doveva andarsene e parlare con i poliziotti.
Ayla si alzò.

Lo sparo le esplose nelle orecchie.


D’istinto Ayla si tuffò tra le foglie. Ebbe l’impressione di cadere su un
folto tappeto. Espirò. Non era ferita. Calcolò che il colpo veniva da meno di
cinquanta metri da lì.
Era lei il bersaglio oppure si era solo fatta prendere dal panico? Cacciatori
forse? Dovevano essercene un sacco in quel bosco, in quella periferia chic.
Che fare?
Doveva gridare: “Ehi, sono qui”?
Avvertire i cacciatori?
Avvertire l’assassino, forse...
Oppure strisciare, tentare di raggiungere il sentiero, qualche centinaio di
metri più in basso? Lì si sarebbe sentita al sicuro, vicino alle case.
Ayla non fece niente. Aspettò, prestando orecchio al minimo rumore nel
bosco. L’adrenalina le scorreva nelle vene portando a galla i ricordi di
quando era fuggita dalla Turchia dei generali, con suo padre, nascosta per ore
nel doppiofondo di un furgone. Si ricordava ancora del rumore degli stivali
sui listelli, alla frontiera, mentre lei era qualche centimetro sotto, con la bocca
tappata dalla mano di suo padre.
Tutti i suoi sensi erano all’erta.
Al momento nel bosco non c’erano altri rumori.
Solo il vento tra le foglie degli alberi.
Aspettò alcuni minuti, che le sembrarono lunghi come ore.
Nulla. Un bosco calmo. Tranquillo.
Si alzò pian piano, scrutando le ombre tra la vegetazione, ascoltando il
fruscio del vento.
Nessuno.
Era di nuovo sola in quel bosco. Probabilmente si era trattato di una
pallottola vagante. L’eco sotto gli alberi doveva aver amplificato la
detonazione: il colpo poteva essere stato sparato lontano da lei, dall’altro lato
del bosco. Era decisamente troppo nervosa, doveva andare alla polizia il
prima possibile.
Fece un passo, con cautela nonostante tutto. Poggiò una mano contro
l’albero più vicino.
La pallottola era conficcata nel tronco.
La mano di Ayla si contrasse sulla corteccia. Improvvisamente ghiacciata.
Era proprio lei il bersaglio...

Ayla udì lo sparo appena un decimo di secondo prima di sentire la spalla


esplodere nell’impatto. Stramazzò a terra. La clavicola si strappò una seconda
volta nell’urto violento contro il suolo. Lei urlò disperatamente per il dolore.
Rotolò a pancia in giù, incapace di girarsi. Tutta la parte superiore del corpo
si rifiutava di obbedirle, anchilosata, paralizzata dalla sofferenza. Tentò
invano di rialzarsi puntellandosi sul braccio sano, come un bambino piccolo
che cade sulla pancia.
Le gambe scalciarono, i piedi cercarono un appoggio per strisciare, per
allontanarsi. Trovarono solo uno strato di foglie ingiallite che volavano sotto
i suoi gesti disperati. Era come cercare di nuotare in una piscina di piume.
Il dolore la inchiodava al suolo, però doveva andarsene.
Sentì dei passi avvicinarsi. Il rumore sinistro delle foglie schiacciate,
sempre più distinto.
Poi più nulla.
Lui era lì. Era finita.
Ayla non soffriva più. Sentiva solo il letto di foglie morte sfiorarle il volto,
il collo e le braccia. Voleva morire con quella sensazione, con quella carezza.
Non erano le foglie a toccare delicatamente il suo corpo, erano i baffi di
Nazim. I suoi baffoni morbidi, dolci, impudichi. I pensieri di Ayla volarono
verso la casa di Antiochia, quella che dovevano comprare insieme; in
Turchia, il loro paese, da cui lei era fuggita tra le braccia del padre tanto
tempo prima...

Il rumore di un revolver che viene caricato ruppe bruscamente il silenzio.


Ayla fece un ultimo sforzo per voltarsi, per vederlo.
Per conoscere il suo assassino.
Si diede una spinta con il braccio sano.
Quell’ultimo desiderio non venne esaudito.
Nell’istante che seguì la pallottola le attraversò la nuca.
33

2 ottobre 1998, ore 14.40


Stazione Concorde. Cambio.
Marc ripose meccanicamente il quaderno nello zaino. Anche la ragazza
sorridente con la chitarra sulla schiena scese. Camminarono fianco a fianco
nel corridoio, quasi toccandosi, imbarazzati, come quando ci si trova
nell’intimità di un ascensore con uno sconosciuto.
Sul pavimento freddo del corridoio una donna raggomitolata su se stessa
sembrava pregare un qualche dio degli inferi. Niente bambini, niente animali,
niente musica, niente pezzi di cartone, niente messaggi né spiegazioni, solo
un volto invisibile nascosto tra le ginocchia e un piattino bianco. Vuoto. La
folla distoglieva lo sguardo dalla mendicante, la evitava, la scavalcava. Senza
riflettere né rallentare, Marc fece scivolare una moneta dalla tasca al piattino.
La ragazza con la chitarra lo guardò con un’espressione sorpresa, come a dire
che ai suoi occhi era passato in un attimo dallo status di “giovane stronzo di
fretta imbronciato nel metrò” a quello di “ragazzo molto più interessante del
previsto ma che ahimè non si accorge di niente”.
Dopo qualche metro il corridoio si biforcava. Marc girò a destra verso la
linea 12, direzione Porte de la Chapelle, sempre immerso nei suoi pensieri.
La ragazza con la chitarra prese a sinistra per la linea 8, rallentando giusto un
po’ per guardare quel bel biondo malinconico che si allontanava.

Madeleine.
Il metrò si stava avvicinando a una delle stazioni più frequentate di Parigi.
Non era l’ora di punta, ma quasi. La folla sulle banchine e nelle vetture
aumentò improvvisamente. Impossibile leggere in quelle condizioni.

Saint-Lazare.
Il convoglio si vuotò con rapidità vertiginosa. Marc guardava sempre con
stupore la marcia frenetica dei viaggiatori lungo i corridoi della Gare Saint-
Lazare: alcuni scattavano, spingendo quelli meno veloci, ignorando gli
ascensori pieni zeppi per salire quattro a quattro i gradini delle scale mezze
vuote, accelerando di nuovo non appena una galleria lunga e diritta lo
permetteva... Quelle persone ingaggiavano una corsa contro il tempo a causa
di un’emergenza oppure correvano così tutti i giorni, mattina e sera, solo per
abitudine, come altri fanno jogging sotto i platani?
Aveva letto di recente la storia di un tale, uno dei più grandi violinisti del
mondo, un russo di cui non ricordava il nome, che un bel giorno si era messo
a suonare per diverse ore in una stazione del metrò. Senza annunci ufficiali, si
era piazzato in incognito nel corridoio e aveva tirato fuori il suo strumento.
Tutte le sere riempiva i teatri del mondo intero e i biglietti per avere il
privilegio di ascoltarlo erano contesi a suon di centinaia di franchi, eppure
quel giorno nessuno o quasi nel corridoio del metrò si era fermato ad
ascoltarlo. Tutta quella gente in giacca e cravatta non aveva neanche
rallentato passandogli davanti e si era precipitata a prendere il treno, e magari
la sera stessa, o nel weekend, aveva corso ancora, quella volta per arrivare in
tempo all’imperdibile concerto di un famoso musicista.
Marc, per la prima volta dall’inizio della giornata, si concesse un attimo di
tregua e camminò con calma fino alla sala d’aspetto. C’erano migliaia di
persone in quello spazio immenso, in piedi, immobili, gli occhi al cielo, come
una folla che aspetti davanti al palco l’ingresso di una rock star mondiale.
Solo che non fissavano le luci del palco ma gli schermi luminosi che
indicavano i binari dei treni, o meglio che non li indicavano con sufficiente
anticipo, sicché i viaggiatori si accalcavano, sempre più ammassati di minuto
in minuto.
Il binario dell’Intercity Parigi-Rouen non era ancora stato annunciato.
Marc attraversò tutto l’atrio, aprendosi un varco in mezzo alla giungla di
pendolari impalati, e si sistemò a un tavolino fuori dal bar della stazione.
Ordinò un succo d’arancia a un cameriere nervoso che lo obbligò a pagare
subito, come se fosse potuto fuggire con il bicchiere in mano. Marc prese il
cellulare. La tregua era stata solo effimera. Sbottò in un’imprecazione che si
perse nel chiasso della stazione.
Lylie aveva chiamato.
Evidentemente, la telefonata era arrivata mentre si trovava in metrò. Era
come se Lylie lo seguisse, passo dopo passo, attraverso Parigi, aspettando che
sprofondasse nei corridoi sotterranei per farsi viva... senza però parlargli!
Marc smanettò sui tasti e portò il cellulare all’orecchio per ascoltare il
messaggio. Si sentiva a malapena. Lylie sussurrava invece di parlare. “Marc,
sono Emilie. Santo cielo, cosa sei andato a fare dai de Carville? Fidati di me,
Marc. Domani sarà tutto finito. Allora ti spiegherò. Ti spiegherò tutto. Se mi
vuoi bene come dici, mi perdonerai.”
Marc rimase un istante immobile, il telefono sempre attaccato
all’orecchio.
Fidarsi...
Perdonare...
Aspettare?
Mai e poi mai! Lylie gli stava nascondendo qualcosa. Tutto si sarebbe
svolto nelle ore successive, quel misterioso viaggio senza ritorno che solo lui
poteva impedire. Premette ancora sui tasti e ascoltò di nuovo il messaggio.
C’era un dettaglio che lo incuriosiva.
“Marc, sono Emilie...” Appoggiò il cellulare all’orecchio destro e si tappò
l’altro con un dito. Aveva bisogno di sentire con chiarezza, cosa che si rivelò
particolarmente difficoltosa in quella stazione gremita.
“Mi perdonerai.”
Marc ascoltò il messaggio una terza volta. Non era interessato alle parole
di Lylie, bensì a quello che si sentiva in sottofondo. Il suono era un po’
lontano, sordo, ma al terzo ascolto era quasi sicuro di averlo identificato. Per
precauzione ascoltò comunque un’ultima volta il messaggio: sotto la voce di
Lylie percepiva distintamente il rumore di sirene di ambulanze.
Marc rimise il telefono in tasca e bevve un lungo sorso di succo d’arancia
cercando di riflettere. C’erano solo due spiegazioni possibili. O Lylie si
trovava nel luogo di un incidente, forse per strada, oppure era davanti a un
ospedale o a una clinica! In ogni caso si trattava di un indizio, il primo.
Vuotò il bicchiere e continuò a ragionare. Informarsi sugli incidenti
verificatisi a Parigi sarebbe stato stupido: un incrocio o un tratto di strada
sarebbe stato sgombrato rapidamente e Lylie non sarebbe rimasta sul posto a
lungo, dunque non c’erano speranze di trovarla. Invece, se si trovava vicino a
un ospedale, avrebbe dovuto controllare decine e decine di indirizzi, ma era la
sua unica pista.
Marc posò il bicchiere vuoto sul tavolo di alluminio. Il cameriere si
precipitò a ritirarlo, come per fargli intendere che il tempo di stazionamento
nel bar era limitato. Lui non reagì; un’altra domanda lo ossessionava: cosa ci
faceva Lylie in un ospedale? Il primo pensiero che gli balzò in mente fu che
fosse ferita. Uno sciame di infermieri in camice la portavano d’urgenza in
sala operatoria...
Il grande viaggio. Aveva tentato di suicidarsi. Non aveva aspettato
l’indomani.

Che fare?
Il cuore di Marc batteva all’impazzata.
Doveva chiamare tutti gli ospedali e le cliniche di Parigi?
Perché no, dopotutto?

Marc telefonò per la terza volta quel giorno a Jennifer, la sua collega di
France Telecom, la quale gli trasmise con sollecitudine, a interminabili
blocchi, con diciotto SMS , l’elenco dei numeri di telefono che aveva chiesto:
centocinquantotto cliniche e ospedali a Parigi città...
Per più di mezz’ora Marc rimase attaccato al cellulare. Diceva sempre le
stesse parole: “Buongiorno, una ragazza di nome Emilie Vitral è stata
ricoverata da voi oggi? No, non so in che reparto. Forse al pronto soccorso?”.
Ogni chiamata durava da qualche secondo a qualche minuto. La risposta era
sempre la stessa, solo con qualche variante: “No, signore, non abbiamo
nessuno con questo nome. È sicuro dell’identità?”.
Marc si fermò al ventesimo numero dell’elenco. Ci sarebbe voluto troppo
tempo per telefonare ai centocinquantotto indirizzi. Era consapevole di
perdere ore preziose all’inseguimento di un indizio molto flebile: qualche
sirena di ambulanza... Lylie poteva essere ovunque nel momento in cui lo
aveva chiamato.
Il cameriere era già venuto tre volte a chiedergli se desiderasse
qualcos’altro. Marc aveva ordinato un secondo succo d’arancia, senza averne
voglia, solo per essere lasciato in pace. Non l’aveva nemmeno toccato. Era
questo ciò che aveva provato Grand-Duc in tutti quegli anni? Seguire fino
all’ossessione una direzione che fin dall’inizio appare sbagliata? Appigliarsi
alla luce di un fiammifero in una notte di tempesta?
Alzò gli occhi verso il tabellone dei treni in partenza. Ancora nessuna
indicazione per il Parigi-Rouen. Stava accadendo tutto troppo velocemente,
pensò. Quelle sirene... Quella busta blu che aveva in tasca e che tutto
sommato poteva anche aprire, a dispetto delle raccomandazioni di Mathilde
de Carville e della promessa fatta a Nicole... E quel quaderno – le confidenze
di Grand-Duc –, la terribile suspense che creava e che lo aveva intrappolato.
Marc bevve d’un sorso il secondo succo d’arancia. Il cameriere si
precipitò, armato di strofinaccio per pulire il tavolo, quasi abbozzando un
sorriso di sollievo. Come per sfidarlo, Marc tirò fuori il quaderno verde.

Diario di Crédule Grand-Duc


Nel 1987 il braccialetto aveva raggiunto la quotazione di settantacinquemila
franchi. Vi rendete conto? Una fortuna all’epoca, anche per un gioiello di
Tournaire. La mia indagine stava diventando francamente noiosa... Nessuna
pista nuova, per cui mi accontentavo di battere quelle vecchie, di leggere e
rileggere, decine di volte, gli stessi documenti.
Feci qualche viaggio in Turchia, per salvare le apparenze. L’hotel Askoc,
il Corno d’Oro, i mercanti di tappeti, il crepuscolo sul Bosforo... tutto il
“Lylie’s Mistery Tour”, seguite la guida! Una volta tornai in Québec, a
Chicoutimi, dai Bernier, con quindici gradi sottozero! Totalmente inutile.
Andai anche a Dieppe. Due volte, credo, di cui una con Nazim. Questi
sono i bei ricordi. Credo sia uno dei motivi per cui li racconto. Inoltre, è
importante che capiate Lylie. La sua psicologia, voglio dire. L’ambiente in
cui è cresciuta, l’acquisito e l’innato, tutte le solite stronzate. Vi do i dettagli
perché possiate giudicare voi stessi. È fondamentale se volete farvi una vostra
opinione.
Era il marzo del 1987 e c’era un tempo da lupi. Nicole Vitral disse che la
pioggia e un vento a più di sessanta chilometri all’ora sferzavano
incessantemente Dieppe da quindici giorni. Non c’era anima viva sul
lungomare. Lei tossiva a ogni frase. I polmoni la torturavano al minimo
sforzo.
Nazim era felice. Gli piaceva venire a Dieppe. Gli piacevano molto anche
la pioggia e Marc, nonostante il ragazzo fosse un po’ intimorito da lui. Nazim
non aveva figli, come me. Ma lui almeno aveva una moglie, la bella Ayla,
dalle forme rotonde come i suoi kebab. Nazim, naturalmente, tifava per la
nazionale di calcio turca. Marc lo prendeva in giro: la sua squadra, durante le
eliminatorie dei mondiali dell’86, aveva perso 8-0 contro l’Inghilterra! “Un
punteggio da calcetto” scherzava il ragazzino.
Per dimostrargli che non portava rancore, Nazim gli aveva portato una
maglietta di Dündar Siz, l’ala sinistra del Galatasaray, la società sportiva del
quartiere “gallico” di Istanbul... Il nome del calciatore non vi dirà
sicuramente niente. Provate a tradurlo in francese... Ci siete? Didier Six. Il
giocatore francese aveva dovuto prendere la nazionalità turca per poter
portare il Galatasaray a vincere lo scudetto. Didier Six... Come si può
idolatrare Didier Six? Un tizio che per tutta la sua carriera ha ripetuto la
stessa finta: falsa partenza sull’ala e deviazione interna... Uno che ha tirato tra
le braccia del portiere il rigore a Siviglia nel 1982, in semifinale di Coppa del
mondo, contro la Germania Ovest. Giocava a Stoccarda, all’epoca, quel
venduto... Ne hanno fatti fuori per molto meno!
Ed ecco che Nazim, cinque anni dopo, non trovava niente di meglio da
portare a Marc che una maglietta di Dündar Siz! La maglietta di un traditore,
in esilio sotto falso nome. Bell’esempio per i ragazzi. Marc, giovane e
ingenuo, si infilò la maglietta senza porsi domande. Normale, non aveva
vissuto l’82, la notte di Siviglia, il trauma di un’intera generazione...
Ovviamente la piccola Emilie se ne infischiava. Quel giorno di marzo del
1987 lei sfidava il vento e la pioggia. Si era infilata un K-way malva
fluorescente, con il cappuccio che le incorniciava il viso e lasciava
intravedere solo i capelli biondi. Con ai piedi un paio di stivali dello stesso
colore, saltava nelle pozzanghere dei tombini di rue Pocholle e correva dietro
ai gatti. Nicole, commossa quasi alle lacrime, mi spiegò perché.
Emilie aveva sette anni e, dopo solo sei mesi di scuola, sapeva già leggere
e divorava Le storie del gatto sornione di Marcel Aymé. Le storie rosse.
Delphine e Marinette, gli animali parlanti della fattoria...
«Le storie del gatto sornione!» mi disse Nicole prendendomi a testimone.
«A sette anni, appena cominciate le elementari! Crédule, si rende conto?»
Dovevano esserci meno di venti libri nella loro casetta di pescatori, e
quello era l’unico per bambini. Che rapporto c’era con i gatti del quartiere? vi
domanderete. Ci arrivo. A Emilie era piaciuta tantissimo la storia del gatto
della fattoria che, per dar fastidio al mondo intero, tutti i giorni al momento
della toeletta si passava la zampa dietro l’orecchio, facendo regolarmente
piovere il giorno successivo. Settimane di diluvio solo per colpa dell’umore
del gatto e del suo caratteraccio, finché i fattori decisero di sbarazzarsene... e
Delphine e Marinette lo salvarono in extremis. La logica deduzione di Emilie
era che se il diluvio si era abbattuto su Dieppe da quindici giorni, con
pioggia, vento e grandine, era colpa dei gatti del quartiere, i quali
evidentemente si passavano anche loro la zampa dietro l’orecchio. C’era
un’unica soluzione: convincerli a lavarsi in un altro modo. Tutti i gatti del
Pollet. Immaginate un quartiere di pescatori! Emilie passava ore ad
avvicinarsi ai mici, a farli ragionare, a spiegargli con dolcezza che per causa
loro sua nonna Nicole non poteva lavorare. E che anche loro, che amavano
tanto il sole, non potevano uscire a godersi il tepore sull’asfalto.
Emilie cercò di trascinare sotto la pioggia me, e perfino Nazim, per
acchiappare i gatti. Per intimorirli. Qualcuno non voleva sentire ragioni.
Quelli selvatici soprattutto.
«Dài, vieni, Credu-lo-Scivolo! Seguimi, Baffo!»
Ci tirò con la manina. Le gocce colavano lungo il suo K-way.
Nazim scoppiò a ridere fragorosamente, ma restò all’asciutto davanti a un
caffè. Io pure. Solo Marc, dall’alto dei suoi otto anni, finì per cedere, uscendo
sotto la pioggia battente. Con la maglietta turca di Didier Six, troppo grande,
infilata sopra il cappotto marrone. Zuppa, quasi trasparente.
Trasparente come Dündar Siz, isolato sull’ala sinistra al Parc des Princes.

Forse vi annoio con i miei ricordi sgocciolanti. Capisco. È l’indagine che vi


interessa... Solo l’indagine. Ci arrivo, ci arrivo. Non avevo rinunciato,
nonostante tutto. Vedrete, non rimarrete delusi. Il 22 dicembre 1987, come
ogni anno, andai in pellegrinaggio al Mont Terrible. Arrivai la sera sulle
sponde del Doubs per posare i bagagli. Avevo già le mie abitudini da
scapolone. La titolare, Monique Genevez, una donna un po’ robusta ma
deliziosa, con l’accento della Franca Contea così pesante che mi ricordava
quasi quello del Québec, mi riservava sempre la stessa camera, la 12, con
vista sul Mont Terrible, e faceva maturare con un buon mese d’anticipo la
cancoillotte, il formaggio che mi serviva con un vino d’Arbois. L’inchiesta
era a un punto morto, io stavo preparando il terreno per la mia nevrosi, di
già... quindi avevo pur diritto a qualche gratificazione.
Quel giorno, dunque, Monique, che mi aspettava alla fine del viottolo, non mi
lasciò neanche il tempo di parcheggiare. «Signor Grand-Duc, c’è qualcuno
per lei!»
La guardai stupito.
«È qui da due ore. Ha telefonato diverse volte il mese scorso. Voleva
vederla, ma gli ho detto che sarebbe arrivato come ogni anno il 22 dicembre
nel pomeriggio. Credo che sia per la sua indagine.» Monique ridacchiò come
Miss Moneypenny davanti a James Bond.
Sorpreso ed eccitato, entrai subito nel salone. Un uomo sui cinquanta ben
portati, con un lungo cappotto invernale scuro, mi attendeva leggendo gli
opuscoli turistici della regione. Si alzò e mi venne incontro.
«Augustin Pelletier. Sono mesi che desidero incontrarla, signor Grand-
Duc. Ho visto per caso i suoi annunci su “L’Est Républicain”. Pensavo che
l’inchiesta sull’incidente del Mont Terrible fosse chiusa da tempo. Ma, a
quanto pare, lei sta cercando ancora. Forse mi potrà aiutare...»
Mi aspettavo piuttosto il contrario, un aiuto da parte sua, ma Augustin
Pelletier aveva l’aria di un uomo equilibrato, stile dirigente d’impresa, deciso,
con un forte senso della responsabilità. Non pareva certo un affabulatore.
Mi sistemai accanto a lui, nella hall del rifugio. Dalla vetrata si poteva
ammirare tutto il crinale, con il Mont Terrible, quell’anno non ancora
innevato.
«Farò il possibile, signor Pelletier. Mi coglie di sorpresa...»
«È una vecchia storia, signor Grand-Duc. Sarò breve. Sto cercando mio
fratello, Georges Pelletier. È scomparso, da anni ormai. L’ultima traccia che
ho di lui risale al dicembre del 1980. All’epoca viveva come un eremita sul
Mont Terrible, in una piccola capanna, non lontano dal luogo dell’incidente
dell’Airbus.»
34

2 ottobre 1998, ore 15.09


Marc alzò gli occhi. Le lettere luminose del tabellone degli annunci si
mescolarono come quelle del gioco dello Scarabeo elettronico. PARIGI-CAEN.
BINARIO 23.
La maggior parte della gente, fino allora immobile nella sala d’aspetto, si
precipitò verso lo stretto binario 23, come granelli colorati trascinati nel collo
di una clessidra. Marc aveva scoperto che in un treno ci possono stare più di
mille persone, il numero medio di abitanti di una circoscrizione elettorale.
Non stupiva, allora, quella folla in sala d’aspetto: bastavano due o tre treni in
ritardo, ed ecco che diverse migliaia di viaggiatori vi si accalcavano, in
attesa. Come quelli del Parigi-Rouen, il cui binario non era ancora apparso.
Guardò il telefono: doveva continuare a chiamare gli ospedali, seguire la sua
unica pista per ritrovare Lylie, per quanto minima fosse la speranza di
riuscirci. Con la mano esitò tra il cellulare e il quaderno verde, poi la curiosità
ebbe la meglio. Poteva concedersi qualche minuto, leggere ancora qualche
pagina. Grand-Duc aveva davvero trovato un testimone?

Diario di Crédule Grand-Duc


Le nuvole arrivavano dalla Svizzera. Era piuttosto raro. Dopo anni di
esperienza, cominciavo a essere un esperto del clima dell’Alto Giura.
«Georges è mio fratello minore» spiegò Augustin Pelletier. «È sempre
stato più fragile di me. Una personalità complessa. Eravamo molto diversi. La
prima volta che è scappato di casa, a Besançon, aveva solo quattordici anni.
Frequentava le bande del quartiere. I poliziotti lo riportarono dai miei
genitori. Alla fine rimase due anni in un istituto specializzato, ma non servì a
nulla.»
Tamburellavo con le dita sui braccioli della poltrona. Dove voleva andare
a parare quel tale?
«Arrivo all’episodio del Mont Terrible, signor Grand-Duc» disse lui, che
probabilmente si era accorto della mia impazienza. «Non si preoccupi. A
sedici anni Georges se ne andò definitivamente di casa. Non serve che le
spieghi. Dormiva per strada. Alcol. Droga. Spacciava anche un po’. Niente di
serio. Era diventato un vagabondo, ecco. Adesso si dice “senza fissa dimora”.
Era conosciuto a Besançon, insieme a qualche altro. I miei genitori
rinunciarono. Lo stesso feci io. All’epoca avevo un lavoro e una moglie che
non ne voleva sapere più niente di lui. Può immaginare, vero, signor Grand-
Duc? Non è facile invitare un drogato al cenone di Natale.»
Le mie dita continuavano a picchiettare sui braccioli, ma Augustin non le
guardava più, o faceva finta di non badarci.
«Gestivo la situazione come potevo» continuò. «Con lui avevo una specie
di legame indiretto, tramite i servizi sociali e la polizia. Ma Georges non
voleva aiuto. Ogni volta che gli tendevo la mano, mi rispondeva con uno
schiaffo. Capisce cosa intendo?»
Capivo e me ne fregavo. Lo diedi a vedere: “Stringi, Augustin!”.
«Sto arrivando al punto, signor Grand-Duc. Avevamo sempre qualche
notizia di Georges, fra una sparizione e l’altra. Nel maggio del 1980 però
persi definitivamente le sue tracce. Georges allora aveva quarantadue anni,
anche se ne dimostrava almeno quindici di più.»
La mia pazienza era agli sgoccioli. Le nuvole bianche, svizzere, si
avvicinavano al crinale, giocando a nascondino con il Mont Terrible. «Signor
Pelletier, cosa c’entro io in tutto questo? Che rapporto c’è con il 23 dicembre,
con l’incidente?»
«Ci arrivo. Ci arrivo. Ero terribilmente preoccupato. Lo può immaginare.
Nessuna notizia. Condussi un’indagine presso gli altri senzatetto di
Besançon. Non fu facile... Le risparmio i dettagli, ma finirono per dirmi che
Georges se n’era andato per sfuggire alla polizia. Ne aveva abbastanza dei
marciapiedi. E soprattutto c’era più di qualcuno a Besançon che cercava di
incastrarlo. Brutti traffici. Erano coinvolti anche dei poliziotti, capisce?»
Avevo capito.
«Mi hanno detto che l’ultima volta che aveva dato sue notizie viveva in
una capanna, in mezzo alla natura, in montagna, al confine svizzero. Sul
Mont Terrible, il posto si chiamava così. Se ne era parlato tanto all’epoca per
via del disastro. Ecco, quella fu l’ultima volta che qualcuno mi diede notizie
di mio fratello. Sono passati quasi sette anni ormai. Ho cercato per mesi,
inutilmente. Da allora ho più o meno abbandonato le ricerche e anche la
speranza di rivederlo un giorno. Cosa che non ha certo traumatizzato mia
moglie, lo può immaginare. Ma quando ho letto i suoi annunci per me è stato
uno choc! Mi sono detto: “Perché no? Se qualcuno continua indagare sui fatti
di quella notte, forse indirettamente si è imbattuto nelle tracce di mio
fratello...”.»
Augustin aveva concluso il suo monologo. Tenevo le mani aggrappate ai
braccioli della poltrona come un capitano al timone della sua tre alberi. I miei
occhi cercarono l’orizzonte lontano attraverso il vetro, le cime arrotondate,
lassù, ora perse nella nebbia. E se quel Georges avesse dormito nella famosa
capanna, quella notte fra il 22 e il 23 dicembre 1980? E se quel Georges fosse
stato quello che non avevo mai osato sperare né mai cercato in sette anni di
indagini?
Un testimone.
Qualcuno che aveva assistito alla catastrofe. E se Georges fosse stato il
primo ad arrivare sulla scena del dramma? E se avesse trovato, accanto alla
miracolata, il famoso braccialetto di Lyse-Rose? E se fosse stato lui a scavare
quella tomba?
Le domande sorsero spontanee.
«Georges aveva un cane?»
Augustin fece un’espressione sorpresa.
“Fidati, Augustin” c’è mancato poco che gli dicessi. “Sono sette anni che
sgobbo sul caso!”
«Sì. Un bastardino marrone, con le zampe corte. Perché?»
Stavo già prendendo appunti sul retro di un opuscolo. «Che sigarette
fumava suo fratello?»
«Le Gitanes, credo, ma non sono sicuro.»
«Che numero di scarpe aveva?»
«Mi sembra il 43 o il 44.»
«E che marca di birra beveva?»
«Di birra? Be’, non ne ho idea... Davvero.» Augustin sembrava non
seguire più. Fermò il gioco. «Signor Grand-Duc, perché tutte queste
domande? Ha trovato Georges? Morto? È così? Ha trovato il suo corpo?»
“Calma, Augustin!”
Monique Genevez, impeccabile nel suo ruolo di padrona di casa, ci portò
del tè e dei biscotti secchi. Augustin non li toccò. Sgranocchiando per
entrambi, gli raccontai tutto della mia scoperta, l’anno precedente. La
capanna, i mozziconi, la tomba... Augustin Pelletier fu quasi deluso: non
avevo notizie concrete da dargli su suo fratello. Lo rassicurai inzuppando i
biscotti nel tè bollente. Non potevo garantirgli che avrei ritrovato Georges,
ancora meno che lo avrei ritrovato vivo, ma gli promisi che ci avrei dedicato
tutte le mie energie nei mesi successivi. Non stavo mentendo. Lo avrei
marcato stretto, il mio unico potenziale testimone! Augustin aveva fatto bene
a farsi il viaggio da Besançon: aveva vinto un detective privato, a tempo
pieno, il tutto a spese di Mathilde de Carville. Mi lasciò il suo biglietto da
visita. Era responsabile del servizio clienti alla Société Générale di Besançon.
Gli promisi ancora una volta che avrei fatto tutto il possibile.

Quella notte dormii solo qualche ora. Un po’ per l’eccitazione, ma più per la
bottiglia di vino d’Arbois che mi ero scolato per festeggiare la notizia la sera
prima, seguita da qualche bicchiere di passito per chiudere in bellezza. La
padrona di casa ne aveva uno eccellente.

L’indomani mattina all’alba partii, armato fino ai denti: pale, rastrelli,


setaccio... Ero deciso a giocare al tombarolo per controllare che a essere
sepolto accanto alla capanna fosse proprio il bastardino marrone con le
zampe corte di Georges. Avevo anche sacchetti di plastica e provette,
l’ultimo grido della polizia scientifica, per metterci i mozziconi e i tappi di
bottiglia raccolti nella capanna, in modo da appurare l’identità degli ultimi
occupanti. Il mio zaino pesava circa quindici chili. Quando passai davanti al
centro d’accoglienza del Parco naturale regionale dell’Alto Giura, dopo
l’ansa del Doubs, Grégory Morez mi fece un cenno con la mano.
Mi prese in giro per tutta quella bardatura. «Se vuoi farti una ottomila
metri, non è qui che devi venire...»
Grégory... A parte qualche rara visita di gruppi scolastici, doveva passare
praticamente tutta la giornata a provarci con le stagiste del servizio
accoglienza. Almeno, questa era l’impressione che dava. Quel bastardo
sembrava diventare più bello anno dopo anno, con la sua criniera sale e pepe,
mentre le stagiste avevano ogni anno esattamente la stessa età.
Piantò in asso un amore di biondina che se lo mangiava con gli occhi e mi
disse: «Dài, Crédule, mi fai pena. Ti porto su con la jeep. Dovrai farti a piedi
solo gli ultimi chilometri. Julie, torno fra venti minuti. Non muoverti se vuoi
sentire il resto di quello che mi è successo quella notte sull’isola di
Spitsbergen...».

Grégory mi scaricò alla fine del sentiero sterrato, mi fece l’occhiolino e tornò
a corteggiare la sua bionda. Lungo il tragitto gli avevo rivolto qualche
domanda: non aveva mai sentito parlare di Georges Pelletier. Logico, risaliva
tutto a più di sette anni prima.

Camminando, cercavo di rievocare i miei ricordi di un anno addietro: la


pioggia fredda, la luce della torcia, le pietre accatastate sulla tomba. Ritrovai
senza difficoltà la capanna. Ero tutto sudato. Il clima non aveva nulla a che
vedere con quello dell’anno precedente. Un bel sole invernale inondava la
cima del monte e indorava le punte degli abeti, come in una specie di estate
indiana che volgesse al termine. Ci mancava poco che non spuntassero
primule, giunchiglie e genziane.
Ero sopraffatto dall’eccitazione, come al mio primo appostamento. Non
mi capitava da tempo, in quell’indagine. Cominciai con la capanna.
Sembrava tutto immutato. Con ogni probabilità nessuno oltre a me era entrato
in quel rifugio in capo al mondo dall’anno precedente. Con estrema cura,
munito di guanti, raccolsi diversi campioni di rifiuti sparsi sul terreno.
Raschiai un po’ per portare alla luce diversi oggetti conficcati nel suolo
friabile.
Mozziconi, tappi di bottiglia, cartacce unte.
Tutto ciò sarebbe potuto servire, forse, per ritrovare le tracce di Georges
Pelletier, anche se probabilmente aveva lasciato quel luogo da un bel po’ di
tempo.
Uscii dalla capanna. Mi aspettava l’impresa più difficile: la tomba.
Raggiunsi le pietre ammonticchiate. La piccola croce di legno era ancora al
suo posto. Ai suoi piedi, il gelsomino nel vaso era ormai appassito.
Quell’anno quindi nessuno era tornato a mettere dei fiori sulla tomba.
Perché? Faceva molto caldo; mi ero tolto la maglia ed ero rimasto in camicia
ma sudavo lo stesso. Il vento fresco del mattino faceva frusciare solo le cime
degli alti pini.
Mi chinai sul rettangolo di pietre.
Uno strano dettaglio mi mise in allarme: i sassi non erano posizionati
come ricordavo. Erano stati spostati.
Mi sforzai di ragionare. Come potevo esserne così certo? Avevo osservato
quei sassi un anno prima, di notte, sotto la pioggia; li avevo mossi a casaccio,
alla luce della torcia.
Eppure non era solo un’impressione. Qualcuno era tornato. Da un anno
avevo scolpiti nella memoria i punti di riferimento, perfino la forma delle
pietre, le loro dimensioni, la disposizione. Non per vantarmi, ma sono
abbastanza bravo in queste cose, ho una memoria visiva quasi infallibile.
Credetemi sulla parola, i sassi erano stati spostati.
Pazienza. Non avrei trovato la risposta alle mie domande senza sporcarmi
le mani. Cominciai a sollevare le pietre con infinita cautela. Mi ci volle una
buona mezz’ora. Il sole radioso rendeva la scena meno macabra. Mi fermai
più volte per bere.
Quando ebbi rimosso l’ultimo sasso, iniziai a spalare la terra con
delicatezza. “Tutto questo per cosa?” pensavo. “Per disseppellire il cadavere
di un cane.” Che altro avrei potuto trovare? Un neonato sepolto sulla cima del
Mont Terrible?
Scavai per quasi un’ora. Il sole si era spostato a ovest e l’ombra benevola
dei pini si allungava ormai sulla tomba profanata. La buca era profonda oltre
un metro. Avevo tolto anche la croce. Continuai un’altra mezz’ora, ostinato.
Alla fine... niente.
Nemmeno un osso di cane, di capra o di coniglio.
Niente, ripeto.
Quel mausoleo, quella croce, quella pianta appassita erano stati deposti
sulla terra vergine. Mi accasciai, sfinito. Avevo speso tante energie senza
ottenere alcun risultato. Bevvi mentre riflettevo. Avevo la camicia sporca di
fango. All’ombra, sudato, sentivo un po’ freddo. Feci qualche passo per
riscaldarmi, continuando a pensare e a parlare da solo o con gli abeti.
All’improvviso sorrisi per la mia stupidità.
Non avevo scavato inutilmente! La cosa peggiore per me, per la mia
indagine, sarebbe stata trovare il cadavere di un animale. In quel caso la
storia della tomba sarebbe stata un vicolo cieco. Se avessi dissotterrato le
ossa del bastardino di Georges, che cosa avrei fatto? Avrei riportato i resti del
cane al fratello Augustin?
Ma una tomba vuota era una scoperta quasi insperata, a ben pensarci.
Quella grande buca mi apriva una serie di prospettive. Mi asciugai la fronte,
poi estrassi il panino con il formaggio comté che Monique mi aveva
preparato. Alla fine c’erano solo due spiegazioni possibili...
Innanzitutto poteva trattarsi di una tomba simbolica, come quelle che si
incontrano lungo le strade, dove qualcuno depone mazzi di fiori; magari su
una curva, nel punto in cui una persona cara è rimasta uccisa in un incidente.
Era possibile che qualche familiare di una delle vittime dell’Airbus 5403
Istanbul-Parigi avesse avuto il desiderio di fare un gesto di quel tipo. Andare
fin lassù in pellegrinaggio. Erigere una tomba vuota, in mancanza di un
cadavere. Un parente di una delle centosessantotto vittime poteva aver reagito
così. Ma perché lì, a due chilometri, e non sul luogo del dramma? Perché
scavare quella tomba rettangolare, della dimensione di un neonato? C’erano
solo due neonati sull’Airbus. Chi aveva piantato la croce, raccolto le pietre,
annaffiato il gelsomino giallo per tutti quegli anni? Un membro della famiglia
Vitral? Della famiglia de Carville? Chi? Quando? Perché?
Restava la seconda ipotesi. C’era effettivamente stato uno scheletro sotto
le pietre. Qualcuno era venuto per anni a rendere omaggio al defunto, a
mettere fiori sulla tomba, con discrezione. Ma quell’anno, tornando, la
persona misteriosa si era accorta che qualcuno aveva scavato. Il segreto era
stato scoperto, o lo sarebbe stato presto. Perciò la tomba era stata svuotata. Le
pietre erano state rimosse e poi rimesse a posto.
Perché quelle pietre erano state spostate, ne ero certo.
La seconda ipotesi lasciava molte domande senza risposta. Perché mettere
in scena quel rituale e prendere tante precauzioni? Per il cadavere di un cane?
Quale pazzo poteva mai agire così? Georges Pelletier?
No, non stava in piedi!

Mi asciugai ancora la fronte. Ero sereno, calmo. Nuove domande, un


qualunque sviluppo erano in fondo ciò che aspettavo in quell’indagine.
Avevo tutto il tempo per verificare ciascuna delle mie ipotesi. Cercai nello
zaino ed estrassi il setaccio che mi ero premurato di portare. Era di legno e
nylon, simile a quelli usati dai cercatori d’oro nei fiumi o nella sabbia.
L’avrei rastrellato al millimetro, quel mucchio di terra! Se restava un
minuscolo frammento d’osso, di cane, di neonato o di diplodoco, lo avrei
trovato.
Ci misi più di cinque ore, non esagero. Un archeologo non sarebbe stato
altrettanto paziente.

La mia ostinazione fu ricompensata solo a metà pomeriggio. Me li meritavo


proprio, dopotutto, quei centomila franchi all’anno. Nel setaccio, una volta
scartati con la punta dell’indice i sassolini più piccoli ed eliminato tutto il
terriccio, brillava, alla luce del sole, un minuscolo anellino dorato.
La maglia di un gioiello.
Un ovale di appena un millimetro per due.
D’oro.

«Vuoi la mia foto, stronzo?»


Marc sollevò gli occhi, ancora perso sulla cima del Mont Terrible, come
risvegliato bruscamente da un sogno. Il vocio della stazione contrastava con
il silenzio del bosco di pini in cui la lettura l’aveva condotto.
Come buona parte delle persone nella sala d’aspetto, si girò verso quelle
urla da demente. Si trattava solo di un banale incidente da stazione: una
ragazza isterica che insulta il vicino. I viaggiatori alzarono le spalle e si
disinteressarono della scena. Tutti tranne Marc.
Aveva riconosciuto la voce femminile... Il sogno si trasformò in incubo. A
una trentina di metri, davanti a uno sportello automatico, Malvina de Carville
insultava un tizio che le stava dietro; l’uomo era più alto di lei di almeno tre
teste. Nessun dubbio. Non era un caso, era solo la follia che si incaponiva.
Lo aveva seguito.
35

2 ottobre 1998, ore 15.21


La moto si fermò in chemin des Chauds-Soleils proprio davanti alla Roseraie.
Il guidatore scese prontamente, si tolse il casco, si ravviò i lunghi capelli
corvini e suonò il citofono.
«Sì?»
«Posta per la signora de Carville. Corriere espresso. Sembra urgente.
Vengo direttamente dalla sede.»
«La signora non può uscire al momento. Metta la busta nella cassetta.»
«Devo consegnargliela personalmente.»
«Non subito. Ora non posso disturbarla. Può aspettare?»
Il motociclista sospirò. «Non tanto. Lei chi è?»
«Mi chiamo Linda, sono l’infermiera.»
«Va bene» disse il fattorino dopo una breve esitazione. «Mi fido. Darà la
busta alla signora de Carville?»
«Credo di essere in grado di farlo.»
Il motociclista ridacchiò. «Senta, Linda... È un casino, qui da voi!
Ambulanze, pompieri, poliziotti. Ci ho messo una vita ad attraversare la
Marna. Hanno preso un serial killer o cosa?»
«Quasi! Hanno trovato il cadavere di una donna nel bosco di Coupvray,
poco sopra la casa. È stata ammazzata, a quanto ho capito. Non si sa se sia
stata la pallottola vagante di un cacciatore o un omicidio. Si rende conto? Un
omicidio a Coupvray!»
«Almeno movimenta un po’ il quartiere...»
Linda prese in consegna la grande busta marrone. Era indecisa se chiamare
Mathilde de Carville, che si stava dedicando al giardinaggio nella serra. Lei
detestava essere disturbata mentre si occupava dei fiori. La serra era diventata
la sua cappella, il giardinaggio la sua comunione, un momento sacro che
Linda non aveva alcuna intenzione di profanare. Pazienza. La busta avrebbe
potuto aspettare finché la signora non fosse rientrata. Linda la posò accanto al
telefono, sul secrétaire dell’ingresso.
Non voleva lasciare Léonce de Carville da solo a lungo. Soprattutto non
voleva fare tardi, e doveva ancora lavarlo, mettergli il pigiama, dargli da
mangiare e attaccargli la flebo... Se si sbrigava, poteva essere libera per le
diciotto. Léonce de Carville per quell’ora sarebbe stato pulito, nutrito e messo
a letto. Linda avrebbe potuto tornare a casa, recuperare il figlio e goderselo
un po’.
Si avvicinò a Léonce de Carville e spinse la sedia a rotelle fino al bagno.
Era il momento che odiava di più. Far sdraiare l’invalido sul tavolo era come
spostare un materasso. Quando ci fu riuscita, Linda premette il pulsante e il
busto di de Carville si sollevò in orizzontale. Tutto il bagno era
automatizzato, dotato delle apparecchiature più sofisticate, le stesse usate
negli ospedali, se non migliori. Nulla da dire da quel punto di vista. Lei
poteva lavorare bene. Mathilde de Carville metteva a disposizione i mezzi
necessari.
Linda cominciò a spogliare l’infermo.
Quando lo muoveva, per sbottonare i vestiti e far passare le mani dalle
maniche, aveva quasi l’impressione che lui reagisse, come se cercasse di
aiutarla. Tre giorni prima le era anche parso che le avesse sorriso.
Volontariamente. Sapeva bene che era impossibile, almeno stando a quanto
dicevano i medici. L’infermo era incapace di riconoscere un viso, una voce,
un suono o di ricordarsi un semplice gesto. Figurarsi se poteva aiutarla
mentre lo spogliava...
Linda sfilò i pantaloni di tela dalle gambe flosce. Poi gli tolse le mutande
sporche. Qualche foglia d’acero attaccata al tessuto cadde sul tappeto del
bagno.
“E se si sbagliassero?” pensò Linda.
Da quasi sei anni si occupava di lui, due ore al mattino e tre al pomeriggio,
e le piaceva illudersi che non fosse solo un tubo digerente da spingere sulla
sedia a rotelle come si spinge un carrello della spesa.
Fece scorrere l’acqua tiepida, poi frizionò la pelle con il guanto
insaponato. Iniziava sempre dagli organi genitali, per poi dedicarsi alla parte
inferiore del corpo. Da sette mesi Linda era mamma del piccolo Hugo ed era
capace di riconoscere un vero sorriso, di distinguere uno sguardo consapevole
da uno perso dietro un velo.
Il guanto risaliva lungo la gamba sinistra. In fondo a Linda piaceva
Léonce, anche se, in quella casa sinistra, tutti lo odiavano. Sua moglie. Sua
nipote, quella peste di Malvina. Le avevano parlato talmente male di Léonce
de Carville! Le avevano detto che era stato un capo tiranno, capace di mettere
alla porta centinaia di operai in un colpo solo, in Venezuela, in Nigeria, in
Turchia. Un uomo senza scrupoli. Un duro. E allora? Non le importava. Da
sei anni, per lei, Léonce de Carville non era che un manichino di gomma. Un
vecchio indifeso. Una povera creatura fragile che aveva solo lei per
proteggerlo, per curarlo, per prestargli un po’ di attenzione e di tenerezza.
Come suo figlio!
Si capivano, loro due. Il vecchio e l’infermiera. Cinque ore al giorno.
Nessun medico al mondo poteva cogliere quel legame. Ancora meno
Mathilde e Malvina de Carville. Sì, Léonce de Carville poteva ancora
comunicare. A modo suo...

Una porta sbatté.


Il guanto sulla mano di Linda si fermò bruscamente sul ventre flaccido di
Léonce. Era la porta d’ingresso. Linda però era convinta di averla chiusa.
Posò il guanto e andò a controllare.
Nessuno. Solo un colpo d’aria. Non era inconsueto alla Roseraie.
L’edificio era enorme, c’erano una trentina di stanze, e da qualche parte c’era
sempre una porta o una finestra aperta. Linda tornò nel bagno. Léonce
aspettava. Nudo. Aveva bisogno di lei. Proprio come il suo piccolo Hugo,
non bisognava lasciarlo da solo. Linda commise un errore. Persa nei suoi
pensieri, non aveva prestato attenzione a un dettaglio. Non aveva controllato
il secrétaire, accanto alla porta.
La busta marrone non c’era più.

Linda riprese fiato. Aveva finito di lavare Léonce de Carville e gli aveva fatto
indossare un pigiama pulito, come ogni giorno. Si rifiutava di mettergli il
pannolone, come facevano nelle cliniche più esclusive. Non aveva
importanza, preferiva cambiargli il pigiama e le lenzuola tutte le mattine.
Linda issò l’infermo sul letto medico della sua camera, accanto al bagno.
Avevano dovuto modificare la porta per far passare la sedia a rotelle. Il letto
era il miglior modello in commercio, comandato elettricamente. Niente da
dire. Sul piano medico, Léonce stava meglio lì che nella stanza di una di
quelle case di riposo dove i vecchi vengono stipati come in una fossa
comune. Almeno avrebbe avuto il diritto di morire nel lusso. Da solo, ma nel
lusso. Mathilde de Carville dormiva al primo piano da anni.
Linda prese il guanciale di piume dal letto e lo poggiò sulla sedia più
vicina. Fece scivolare il grosso cuscino bianco sotto la schiena di Léonce per
raddrizzarlo e farlo adagiare mentre lo imboccava. Guardò l’orologio. Gli
avrebbe servito la cena di lì a meno di un’ora.
Si assicurò un’ultima volta che Léonce fosse sistemato a dovere.
L’infermo ora aveva gli occhi spalancati, come sempre dopo il bagno,
immobili a parte qualche raro battito delle palpebre. Linda aveva sentito
parlare di un paraplegico che aveva dettato un libro solo battendo le palpebre.
Incredibile! E se il cervello di Léonce, a dispetto di ciò che dicevano i medici,
non fosse stato inerte? E se lui avesse avuto qualcosa da dire? Da raccontare?
Il problema era che lei non capiva il suo modo di comunicare. Cosa aveva
nella testa quel vecchio?
Linda sapeva che Léonce de Carville era stato un uomo straordinario. Un
capo. Uno dei più grandi. Partito dal nulla, aveva costruito un’immensa
ricchezza, fabbriche in tutto il mondo. Aveva guidato un impero. Era stato il
faraone alla testa di una gigantesca piramide. E ora a lei toccava prendersi
cura del suo ricordo mummificato, di imbalsamare il suo corpo.
Probabilmente era proprio perché era stato così potente che aveva suscitato
tanto odio. Per gelosia. I deboli si vendicavano di lui adesso che non poteva
più difendersi. Deboli che gli dovevano tutto, però.

Linda posò sul comodino di Léonce un piccolo trasmettitore, come quelli che
si mettono nelle camere dei neonati. Teneva sempre con sé il ricevitore
mentre preparava da mangiare, per stare tranquilla, anche se a volte si sentiva
un po’ ridicola. Cosa poteva succedere all’infermo mentre era in cucina?
Uscendo, diede un’ultima occhiata al paziente, che aveva ancora gli occhi
spalancati.
Un genio che si era fatto dal nulla e ora era tornato al punto di partenza.
L’ombra scivolò silenziosa alle spalle di Linda e si nascose tra il muro e la
scala. Lei avrebbe potuto scorgerla se avesse girato un poco la testa. Invece
andò dritto in cucina.

Linda ci teneva a preparare la cena di Léonce de Carville. La sua pappa. Si


imponeva di usare prodotti freschi: verdure, prosciutto e altri ingredienti che
comprava al mercato di Marne-la-Vallée. Lui ne risputava la metà e cagava il
resto, ma lei non cedeva sui suoi principi. Da un mese, poi, prendeva due
piccioni con una fava: ne preparava un po’ di più in modo da poterla dare
anche a Hugo. Tornando a casa tardi, era l’ideale. Stesso menu per il vecchio
Léonce e per il piccolo Hugo. Linda era una donna organizzata. Non aveva
detto niente a Mathilde de Carville, ma quella strega non le avrebbe certo
rotto le scatole per un paio di porri, tre patate e una fetta di prosciutto!
Linda posò il ricevitore accanto al mixer e cominciò a pulire le carote. Le
piaceva quel momento di silenzio. La rassicurava.

L’ombra passò davanti alla porta della cucina e spinse quella della camera di
Léonce de Carville. Entrò piano nella stanza. Linda non aveva sentito niente,
non aveva visto niente.

L’infermo guardò con gli occhi spalancati e pietrificati dalla paura la figura
che si avvicinava, come se avesse capito le sue intenzioni. L’ombra esitò.
Quello sguardo fisso sembrava irreale. Minaccioso, quasi. L’incertezza durò
solo un secondo. L’ombra si avvicinò. Non provava nessuna compassione per
quel corpo inerte disteso di fronte a lei. Solo odio e disprezzo.
L’ombra si avvicinò ancora, determinata. Aveva individuato il cuscino
accanto al letto. Sorrise. Era la soluzione ideale. Rapida. Silenziosa. Si
diresse verso la sedia. Lo sguardo dell’infermo non l’aveva seguita, fissava
sempre, con gli occhi fuori dalle orbite, la porta aperta. L’ombra si sentì un
po’ rassicurata. La sua paura non aveva fondamento. L’infermo non l’aveva
riconosciuta; non era più in grado di riconoscere nessuno, d’altro canto. Sotto
i suoi piedi, il parquet scricchiolò leggermente.

La punta del coltello restò sospesa a mezz’aria. L’infermiera aveva sentito


distintamente un rumore nella camera di Léonce. Uno scricchiolio. Con un
gesto meccanico, senza nemmeno poggiare il coltello sul tavolo della cucina,
Linda andò nell’ingresso e si diresse verso la stanza dell’infermo. Non poteva
certo essere il vecchio che si era alzato!
Impulsivamente strinse il manico del coltello. Quel pomeriggio stava
prendendo una strana piega. Prima il delitto nel bosco. Poliziotti ovunque.
Poi il fattorino con la busta. Poco prima la porta sbattuta. E ora quello
scricchiolio nella camera dell’invalido.
Linda tese il braccio e perlustrò con il coltello lo spazio davanti a sé. La
mano le tremava. Quella casa le aveva sempre fatto paura, come i manieri
infestati dai fantasmi nei film. Psycho e tutto il resto. Di solito cercava di non
pensarci, ma avvertiva sempre un po’ d’inquietudine. In quel momento le
gambe la reggevano a malapena ed era scossa dai brividi.
Puntò ancora la lama davanti a sé ed entrò nella camera. Lo sguardo di
Léonce de Carville la fissava. Vuoto, come il resto della stanza. Non c’era
nessuno. Linda scaricò la tensione con una risata nervosa. Quella famiglia di
squilibrati avrebbe finito per farla diventare pazza. Era arrivata al punto di
aggirarsi per la casa con un coltello da cucina in mano solo perché aveva
sentito il parquet scricchiolare. Doveva trovare un altro impiego. Lungo la
Marna le famiglie ricche non mancavano. Pazienza per il vecchio Carville.
Avrebbe dimenticato quella strana tenerezza che provava per lui... Aveva
Hugo, adesso.
Linda abbassò il braccio che teneva il coltello. Pensò che doveva
rimettersi al lavoro e finire di preparare la pappa del vecchio e del bambino.
Poi avrebbe tagliato la corda. Ritornò con passo più deciso nell’ingresso.

Con sollievo, l’ombra sentì il rumore del mixer in cucina. Qualche minuto
prima era stata imprudente. Impaziente. Questa volta l’infermiera di là non
l’avrebbe sentita.
Aprì con precauzione la porta della stanza in cui si era rifugiata, la sala
con il pianoforte bianco. Le mani afferrarono il cuscino di piume sulla sedia.
Ancora due passi. La seta si modellò sulla forma del viso di Léonce de
Carville. Non un gesto. Non una reazione. Era così facile. Anche troppo.
Quanto tempo ci voleva per soffocare un paraplegico? In quel caso non
c’erano segnali inequivocabili, come quando un corpo si dimena e poi di
colpo si affloscia. Doveva aspettare un minuto? Due? Tre? Un’eternità.
L’ombra non contò. Come fare? Semplicemente attese. Il più a lungo
possibile.

A un tratto successe l’impensabile. L’impossibile, secondo i medici. Il


braccio di Léonce de Carville si irrigidì bruscamente. Era forse l’ultima
reazione di un corpo morente? Una difesa disperata?
L’ombra non lasciò la presa. Il braccio sinistro di Léonce de Carville era
come in preda agli spasmi. Urtò il comodino. Il bicchiere e la caraffa d’acqua
posati sul centrino all’uncinetto si infransero sul parquet.

Linda urlò.
Questa volta non era stata un’allucinazione, aveva sentito un rumore di
vetri infranti proveniente dalla camera. Stava impazzendo? Riprese il coltello
da cucina e si precipitò fuori. Senza neanche riflettere, entrò velocissima
nella stanza del suo paziente.
Un bicchiere rotto accanto al letto.
Dell’acqua un po’ appiccicosa.
Nessuno.
A parte Léonce de Carville, con gli occhi spalancati, quasi ovali. Folli. La
bocca era contorta. Livida. Come la maschera di Scream.
Non respirava.
Linda sapeva riconoscere la morte. Poteva sentirla, dopo quasi dieci anni
che lavorava con gli anziani.
Léonce era morto.
Soffocato.
Il cuscino era ancora sul letto, ai suoi piedi.

Sul momento Linda non sentì tristezza per quell’essere senza vita di fronte a
lei, nessuna pietà per quell’infermo a cui si era affezionata. L’unico
sentimento che provava, l’emozione che dominava su tutte le altre era la
paura.
Un terrore immenso che le ghiacciò la nuca. Il desiderio di scappare dalla
Roseraie urlando.
Uscire a ogni costo da quel castello di pazzi.
36

2 ottobre 1998, ore 15.22


Nell’atrio della Gare Saint-Lazare, Malvina de Carville si placò alla stessa
velocità con cui si era infuriata. Si allontanò ringhiando contro la fila di gente
allo sportello. Il gigante che aveva aggredito si girò alzando le spalle e più
nessuno prestò attenzione a quella donnina isterica.
Più nessuno, eccetto Marc.
E così l’aveva seguito. Marc sentiva una collera incontenibile salirgli
dentro. Quella pazza aveva deciso di corrergli dietro fino a Dieppe. Solo che
per il momento lui era in vantaggio perché si trovava in un luogo pubblico.
La folla lo proteggeva. Tanto valeva approfittarne...
Si alzò di scatto. Ripose il quaderno di Crédule Grand-Duc nello zaino,
che cacciò in mano al cameriere del bar della stazione, senza dargli il tempo
di reagire. «Me lo può tenere per qualche minuto? Torno subito. Faccia
attenzione, è prezioso. Ci sono... ci sono tutti i miei appunti di quest’anno.»
Sbigottito, il cameriere strinse lo zaino contro il petto. Marc si stava già
allontanando. Malvina era a qualche decina di metri. Sembrava incerta se
affrontare l’interminabile coda agli sportelli della stazione, dirigersi alle casse
automatiche o forse rinunciare all’acquisto del biglietto. Gli dava le spalle.
L’occasione era insperata.
Marc si intrufolò tra i passanti pieni di bagagli e le piombò addosso.
Provava un bisogno istintivo di scaricare la tensione. Le posò una mano sulla
spalla, strinse la maglia di lana e quasi sollevò Malvina da terra. Lui la
superava di trenta centimetri e pesava il doppio di lei. La trascinò senza tanti
complimenti per qualche metro, vicino a un distributore automatico di
bevande fresche e di panini incellofanati, un po’ al riparo dalla folla.
Malvina fece un sorriso appena sorpreso. «Non puoi più fare a meno di
me, Vitral?»
Marc strinse ancora di più la maglia. «Che cavolo ci fai qua?»
«Indovina...»
Marc spostò la mano sul collo esile di Malvina e la tirò più vicino a sé.
Nessuno attorno a loro prestava attenzione alla scena: dovevano averli presi
per una coppia che si scambiava effusioni prima di separarsi.
«Mi hai seguito? Come facevi a sapere che sarei venuto a Saint-Lazare?»
«Troppo difficile, tesorino... Troppo difficile... Dove poteva mai scappare
di corsa il piccolo Vitral? Sotto la gonna della sua nonnina, naturalmente.»
«Okay, hai vinto tu, sei la più furba. Ti avviso, se ti rivedo sul mio treno, ti
scaravento fuori.» Marc aumentò la pressione. Il collo della maglia lasciò un
segno rosso sulla pelle di Malvina. «Hai capito?»
Lei cominciava a far fatica a respirare, ma aveva ancora un’espressione a
metà fra un sorriso e una smorfia.
Marc ripeté la domanda, senza mollare la presa: «Hai capito?».
Malvina stava soffocando. Lui si chiese fino a che punto sarebbe potuto
arrivare. Per quanto tempo sarebbe riuscito a stringerle la gola. Malvina era
come un punching ball da strapazzare. Non aveva nessun sintomo di
agorafobia in mezzo alla folla, anzi, provava una sorta di onnipotenza, di odio
cieco. Fin dove si sarebbe spinto?
Non dovette domandarselo a lungo. Sentì la canna d’acciaio infilarsi tra le
sue gambe e appoggiarsi alla patta dei pantaloni. Istintivamente allentò la
presa.
«Resta incollato a me, Vitral» gli sussurrò Malvina all’orecchio «devono
prenderci per fidanzati. Non devono vedere il Mauser che ti ho puntato sulle
palle. Ma levami subito le zampe dal collo.»
Lo sguardo di Marc si perse nel grande atrio della stazione. Nessuno
prestava attenzione a loro. Un fratello maggiore e la sorella. Abbracciati. Non
era molto lontano dalla la verità, in fondo.
La voce acuta di Malvina sibilò: «Non ce l’hai lo zaino?».
«No, come vedi. Magari vuoi che mi spogli? Qui davanti a tutti...» Un
tentativo maldestro di guadagnare tempo. Marc si maledisse per la sua
stupidità. Eppure sapeva che quella pazza era armata.
«Spogliarti qui? Perché no, Vitral? Sei piuttosto carino nel tuo genere. Un
po’ scemo, ma carino. E poi comunque adesso sei obbligato a fare quello che
ti dico.»
Gocce di sudore imperlavano il collo di Marc. Tenendo il Mauser sempre
puntato fra le sue gambe, Malvina fece scivolare la mano sinistra sulla sua
coscia e risalì. Lui sussultò. La canna indietreggiò di qualche centimetro e le
dita di Malvina si insinuarono sotto le pieghe dei jeans. Poi lei si avvicinò
ancora di più, aumentando la pressione con la mano.
«Se ti muovi ti sparo.»
Marc ripensò al cadavere di Grand-Duc. Una pallottola dritto al cuore.
Non stava scherzando. Quella pazza era veramente capace di ammazzarlo in
mezzo alla stazione, davanti a centinaia di testimoni.
Malvina continuò: «Non ti ecciti, Vitral? Non ti piaccio?».
Marc aveva esaurito la riserva di sarcasmo. Le dita della donna
strisciavano su di lui come le zampe lisce di un rettile.
Malvina gli accarezzava il sesso. Maldestramente, con troppa forza
nonostante la mano da bambina. Sillabò: «Allora, non ti ecciti? Non ci riesci?
Preferisci mia sorella, forse?».
Marc fece qualche respiro per calmarsi. Aveva voglia di tentare il tutto per
tutto, di afferrare quella matta per le spalle e di scaraventarla via. Forse non
avrebbe osato sparare. Però alla fine non fece niente e rimase in silenzio.
«Sei diventato muto, Vitral? Non hai più niente da dire? Non vorrai farmi
credere che mia sorella non ti eccita! Non preoccuparti, non sono gelosa.
Proprio per niente, credimi. So che è bella, tanto bella quanto io sono brutta.
Se fai la media tra noi due, arriviamo alla sufficienza. La bella e la bestia. Il
brutto anatroccolo!»
La mano di Malvina scese ad accarezzare i testicoli di Marc. A
massaggiarli, piuttosto, con goffaggine, come se fosse la prima volta che
toccava i genitali di un uomo.
«Non riesci a fartelo venire duro, eh? Ti dirò perché non sono gelosa. Non
vuoi indovinare?»
Malvina imparava velocemente. Le sue dita da bambina si muovevano con
maggior delicatezza, scivolavano sul suo sesso, si insinuavano tra le sue
gambe. Marc si sentiva violato. Peggio per lei, non aveva scelta, doveva
spingerla via. Sbatterla contro il muro della stazione. Come se gli avesse letto
nel pensiero, Malvina gli piantò la canna fra i testicoli. Marc provò dolore.
«Non capisci, eh? Allora te lo spiego io: se sono un mostro, non è colpa di
Lyse-Rose. Niente affatto. È colpa tua. È colpa dei Vitral. Siete stati voi a
rubarmi mia sorella... Cos’hai da dire? “Rifiuto di crescere” hanno
sentenziato i medici. Prima ero bella come Lyse-Rose. Sarei diventata
affascinante come lei. Alta come lei. Eccitante come lei. Eh, sì. Ma mi sono
rifiutata di crescere! I Vitral mi avevano preso la sorellina per cui sarei
diventata bella. Ci saremmo pettinate, truccate, travestite. Tutte e due.
Avremmo scelto gli abiti insieme. Anche i ragazzi. Ma tu mi hai portato via
tutto, Vitral! Per chi vuoi che sia bella io, eh? Per chi?» Il sudore adesso gli
scendeva a rivoli. Malvina allentò un po’ la pressione delle dita sul suo sesso.
Gli bisbigliò all’orecchio: «Hai scopato con mia sorella, vero? Dimmelo».
Si aspettava davvero che lui rispondesse? Marc tremava. I passanti li
sfioravano, indifferenti. Nessuno in quella stazione sembrava trovare strano il
loro atteggiamento.
Le dita di Malvina ripresero il loro gioco perverso. «Non sei male, Vitral.
Ti fai sicuramente tante ragazze. Un sacco. Perché vuoi anche mia sorella? È
perché sei un pervertito, vero?» La canna del Mauser premette ancora più
forte contro il suo sesso. «Se non riesci a fartelo venire duro, ti faccio
crepare, Vitral. Adesso Lyse-Rose tornerà da noi; a casa sua. Tutto questo
delirio è finito. Quella puttanella di Emilie è morta nell’aereo, l’hai detto
anche tu prima. Non mi prenderai la mia sorellina un’altra volta...»
Marc dovette rinunciare a riflettere. Non era in grado di muoversi, ma
poteva almeno agire, recuperare lo svantaggio, provocare Malvina. Chissà se
avrebbe funzionato. Si sforzò di parlare con voce sicura e ironica. «Vuoi una
sorellina, è così?»
Non pronunciava una parola da un bel po’. Malvina fu sorpresa e allentò
leggermente la presa.
«Credimi, Malvina, non sono le sorelline che ti mancano e nemmeno i
fratellini. Devi averne un sacco, dalle parti del Bosforo. Tuo papà Alexandre
ha lasciato qualche bel ricordino in Turchia, prima di andarsene in fumo, non
so se mi spiego. Non aveva problemi di erezione, tuo padre...»
La canna del Mauser non lo toccava più. Malvina si stava liquefacendo.
Marc continuò. «Non eri così piccola, dovresti ricordare le puttane che tuo
padre si scopava a Istanbul. Nel suo ufficio. Ovunque. Tua madre che
piangeva. E che scopava, anche lei, con quelli che rimpiazzavano tuo padre,
tizi con gli occhi celesti...»
Malvina si rattrappì.
Marc insistette. «E magari Lyse-Rose non è neanche tua sorella!»
Malvina urlò. Nell’atrio della Gare Saint-Lazare si girarono tutti. La
manina da rettile si chiuse brutalmente sui genitali di Marc, con tutte le sue
forze.
Lui si accasciò, fulminato dal dolore. Il Mauser scomparve nella tasca e
Malvina si allontanò a piccoli passi in mezzo alla folla; un’anguilla in una
foresta di alghe.
Marc era in ginocchio. Muto. Cercava di riprendere fiato, fra atroci dolori.
Alcuni passanti si precipitarono verso di lui per prestargli soccorso.
Finalmente.
37

2 ottobre 1998, ore 16.13


Marc stava attraversando il quinto vagone. Non trovava posto a sedere.
Malediceva la linea Parigi-Rouen, soprattutto i treni del venerdì sera. La SNCF
evidentemente vendeva il doppio dei biglietti rispetto ai posti a sedere.
Avvertiva ancora delle fitte dolorose tra le gambe, anche se si andavano a
poco a poco attenuando. Era rimasto seduto quasi dieci minuti per terra
nell’atrio della stazione. Alcuni passanti premurosi gli si erano avvicinati.
“Tutto a posto? Ha preso bene la mira quella, eh?” aveva commentato
qualcuno, tra il preoccupato e il divertito. Come reagire vedendo un tizio
piegato in due perché la ragazza che stava abbracciando gli aveva triturato le
palle? Era difficile non fare dell’ironia.
Marc aveva recuperato lo zaino dal cameriere del bar della stazione ed era
corso verso il binario del treno Parigi-Rouen, finalmente annunciato. Ogni
volta che allungava una gamba sentiva dolore.
Al settimo vagone Marc rinunciò. Crollò sui gradini tra i due piani del
treno. Non era l’unico. Una madre di famiglia e i suoi tre bambini, un
manager assorto in un documento di lavoro e un’adolescente assopita
occupavano già la scala. La postazione era scomoda ma era meglio che
rimanere in piedi. Probabilmente era vietato stare lì, in mezzo al passaggio,
ma visto l’affollamento di quel treno per pendolari del venerdì sera nessun
controllore avrebbe osato farsi vivo.
Si sistemò lo zaino fra le gambe. Prese di nuovo il telefono. Nessun
messaggio.
Compose il numero di Lylie.
Sette squilli, come sempre.
«Lylie... sono Marc! Ti prego, rispondi! Dove sei? Ho avuto il tuo ultimo
messaggio. Ho sentito le ambulanze in sottofondo. Sto impazzendo. Ho
iniziato a telefonare agli ospedali e alle cliniche di Parigi. Chiamami. Ti
prego.»

Marc imprecò. Fece scorrere la serie di SMS di Jennifer con i numeri degli
ospedali. Ne aveva contattati più di una ventina per il momento. Quelli
principali. Doveva continuare. Decise di dedicarvi mezz’ora prima di
riprendere la lettura del diario di Grand-Duc.
Ogni volta la stessa storia: “Buongiorno signora, una ragazza di nome
Emilie Vitral è stata ricoverata da voi oggi? No, non so in che reparto... Forse
al pronto soccorso?”. Il treno faceva un frastuono infernale. Marc aveva
difficoltà a sentire quello che gli rispondevano le segretarie. Sempre le stesse
parole, comunque. Non c’era nessuna Emilie Vitral nei loro registri.
In mezz’ora contattò altri ventidue ospedali. Guadagnava in efficienza
quello che perdeva in gentilezza. Aveva iniziato a chiamare anche le cliniche
private e gli studi medici, nonostante sapesse bene che Lylie non poteva
essere lì.
La situazione era senza speranza. Inseguiva una chimera, non avrebbe
trovato Lylie così... Non quel giorno.
Doveva riflettere, incastrare tutti i pezzi del puzzle. Come prima cosa
avrebbe finito di leggere il quaderno di Grand-Duc. Ne aveva tutto il tempo
prima di arrivare a Dieppe. Gli restavano ancora una trentina di pagine al
massimo.
Rimise il telefono nella giacca ed estrasse dalla tasca dei jeans delle
pagine strappate dal quaderno di Grand-Duc. Il retro dell’ultimo foglio era
bianco. Marc prese una penna dallo zaino e scrisse, nervosamente, in
stampatello:

DOV’È LYLIE?

Poi, sotto, in una grafia minuta e stretta:

In un ospedale? Viaggio senza ritorno?


Sottolineò le ultime tre parole ed elencò tre interrogativi:

Suicidio?
Omicidio?
Vendetta?

Senza sapere perché, Marc sottolineò la parola “vendetta”. Continuò a


scrivere.

CHI HA UCCISO CRÉDULE GRAND-DUC?

Poi, in minuscolo:

Malvina de Carville.

Mordicchiò per qualche secondo la penna e aggiunse un punto di


domanda. Il convoglio vibrava, ma Marc era abituato a studiare in treno e in
metrò. Riuscì a rileggere quello che aveva scritto, era questo l’essenziale.
Poi scrisse, febbrilmente:

Perché Grand-Duc non si è sparato in testa, tre giorni fa?


Cos’ha scoperto, quella sera, poco prima di mezzanotte?
Che nuove prove ha trovato?
Erano tanto importanti da costargli la vita?
L’INCIDENTE DEL NONNO. QUAL È IL DETTAGLIO MANCANTE?

La penna scivolò. Le righe scritte da Marc somigliavano alle onde di un


mare in tempesta.

Cercare in camera mia, a Dieppe. Con calma.


Tentare di ricordare.

Marc rilesse il testo. Si divertì a contare i punti interrogativi. Dodici in


tutto. E non aveva finito. Sentiva nella tasca della giacca il peso della busta
blu che gli aveva affidato Mathilde de Carville. La penna continuò la sua
corsa.

TEST DNA. LA SOLUZIONE?


Aprire la busta?
Avrebbe risolto il problema profanando il segreto? No. Non sarebbe
servito a nulla. Marc sapeva cosa conteneva la busta. Lylie non era sua
sorella. Era la nipote di Mathilde de Carville. La sorella di quella pazza di
Malvina. Tutto lo confermava. I progressi dell’indagine di Grand-Duc.
L’anello con lo zaffiro chiaro che lei portava. E anche i suoi sentimenti, da
sempre...

PARLARE A NICOLE?

Marc aveva aggiunto un ultimo punto di domanda per fare cifra tonda.
Quindici!
Il treno sarebbe arrivato a Dieppe alle diciotto e ventiquattro.
Mancavano meno di tre ore.

Il treno si fermò a Mantes-la-Jolie. Circa un terzo dei viaggiatori scese e si


liberarono dei posti a sedere. Marc si alzò e si sistemò nello scompartimento
inferiore, lato finestrino. L’inguine gli doleva ancora, ma stava meglio ora
che poteva allungare le gambe. Malvina non si trovava più nei paraggi: era
già qualcosa, anche se nulla poteva garantire che quella matta non fosse salita
su quel treno. Si era dileguata tra la folla della Gare Saint-Lazare... Marc
sospirò. Tirò fuori il quaderno di Grand-Duc e si reimmerse nella lettura.

Diario di Crédule Grand-Duc


La minuscola maglia d’oro partì, meticolosamente imballata in un sacchettino
di plastica, per Rosny-sous-Bois, diretta al miglior laboratorio della
Scientifica di Francia, così come i mozziconi di sigaretta e i tappi di birra
recuperati nella capanna del Mont Terrible. Avevo mantenuto qualche
contatto nella polizia. Avevo i mezzi per pagare, anche. Non c’era niente di
illegale, o non proprio. Solo un’indagine parallela non del tutto ufficiale, ma
comunque d’indagine si trattava.
I risultati arrivarono otto giorni dopo. La maglia di due millimetri trovata
nella tomba vicino alla capanna era effettivamente d’oro. Quella era la sola e
unica certezza. A partire da un campione così piccolo era impossibile stabilire
se provenisse da un braccialetto per bambini, da una catenina, da un ciondolo
o magari dalla medaglietta di un cane. Non si poteva sapere se l’oggetto era
stato realizzato da Tournaire di place Vendôme o da un qualunque gioielliere
di un paese di provincia della Franca Contea.
La maglia di un gioiello d’oro... Ecco che il caso si complicava. Perché
questo frammento era stato seppellito in quella tomba, sotto quel piccolo
mausoleo di pietra? Un frammento di cosa? Seppellito da chi?
Mistero su tutta la linea!
La quotazione del braccialetto, sugli annunci, era salita a
settantacinquemila franchi. Una cifra del genere sfiorava il ridicolo...
soprattutto per un gioiello a cui, teoricamente, mancava una maglia. Una
somma virtuale, a ogni modo. Avevo perso da tempo la speranza che
qualcuno si presentasse.
Eppure, nonostante allora non lo sapessi, il filo della lenza non avrebbe
tardato a tendersi. E ci sarebbe stato un pesce all’amo. Un grosso pesce. Be’,
“non avrebbe tardato” è relativo. Il pesce avrebbe abboccato solo due anni
dopo. Ma non siate troppo impazienti, ci arriverò. Presto. Quanto a suspense,
credo che non possiate lamentarvi: un anno interminabile per me si riassume
per voi in qualche pagina da leggere.

I campioni di mozziconi e gli altri resti raccolti nella capanna del Mont
Terrible non furono più loquaci. A distanza di sette anni, c’era da
scommetterci. Dopo Georges Pelletier, nel 1980, generazioni di abusivi o di
innamorati della domenica si erano di sicuro succeduti nella capanna.
Eravamo di nuovo al punto di partenza; non avevo scelta, dovevo trovare
Georges Pelletier. Ho passato notti intere a farmi ascoltare dai disperati di
Besançon. Besançon by night, fa quasi sorridere... Può sembrare un po’
folkloristico: gli ubriaconi di una città di provincia, una manciata di persone
al massimo, non propriamente pericolosi, ben noti alla polizia. Gli alcolizzati
della porta accanto. Quasi simpatici.
Non fidatevi! Posso assicurarvi che fare il barbone a Besançon esige
rispetto. Immaginatevi a vivere sotto un cartone, d’estate e d’inverno, nella
città più fredda di tutta la Francia. Niente metrò. Atrio della stazione chiuso
di notte.
Ho passato solo una decina di giorni con loro, tra gennaio e marzo del
1988, e pensavo che sarei crepato di freddo. Tornavo congelato di primo
mattino e stavo tre ore in apnea nella vasca d’acqua bollente. Adesso potete
credermi, non la rubavo, anche dopo otto anni di indagine, la grana di nonna
de Carville.
Tutto questo per cosa? Giudicate voi.
Gli ex compagni di strada e di droga di Georges Pelletier, tutto il fior fiore
della società notturna di Besançon, mi confermarono che Georges era
riapparso dopo il 23 dicembre 1980. Vivo, sceso dalla sua montagna, neanche
sfiorato da un Airbus che avrebbe potuto colpirlo in mezzo alla faccia.
Nessun braccialetto al polso. Sempre silenzioso. Era rimasto sei mesi a
Besançon e aveva ricominciato a fare cazzate. Traffico di droga. Furti. Poi
aveva tagliato la corda e se n’era andato a Parigi prima di essere trovato dalla
polizia. O da suo fratello Augustin. Secondo i suoi compagni di marciapiede,
Georges temeva meno i poliziotti che le lezioni di morale del fratello.
Aggiungo solo un dettaglio, l’ultimo. Georges Pelletier non era sceso dalla
montagna con il suo cane. Un punto interessante... Ma Augustin si sbagliava,
il cane non era di piccola taglia, era un pastore belga. Un maschio. Versione
XXL , secondo i suoi compagni. Sarebbe stato impossibile farlo entrare nella
tomba della capanna senza tagliarlo a pezzi. Ma perché sezionare il proprio
cane? Perché non scavare una buca più grande? Un maledetto mistero in più
attorno a quella fottuta tomba!

Come immaginerete, non rinunciai. Non mi restava altro che trovare le tracce
di Georges nella giungla di matti e di poveracci di Parigi. Mi portavo
appresso anche Nazim. Altri tre mesi d’indagine a tempo pieno. Piccoli
annunci. Contatti di ogni genere con i poliziotti, con i servizi sociali
comunali, con le famiglie. Ricerche per strada, di notte, con una lampadina
tascabile puntata sulla foto di Georges, tutto sorridente davanti all’albero di
Natale, a casa di Augustin. La foto più recente che il fratello aveva trovato...
Un lavoro da professionisti. Certosino. I bassifondi, un mestiere da
detective privato, come piaceva a me, finalmente. Mathilde de Carville aveva
ragione: per trovare la soluzione ci volevano tempo e denaro. Tralascio i
dettagli. Io e Nazim abbiamo finito per seguire la pista di Georges Pelletier
fino ad arrivare a un certo Pedro Ramos. Lo incontrai nel giugno del 1989
alla festa della Foire du Trône, davanti al Tagadà. Sì, avete capito bene,
davanti al Tagadà!
«Georges ha lavorato per me due stagioni» spiegò Pedro controllando di
sottecchi la sua giostra.
Adolescenti isterici, ragazzi e ragazze, pagavano cinque franchi a testa per
farsi maltrattare le chiappe per due minuti e mezzo su un vassoio girevole. Il
Tagadà era una versione collettiva delle altalene a bilico dei giardinetti.
«Non gli ho chiesto il CV » spiegò Pedro con un sorriso eloquente. «Ho
capito che voleva prendere il largo. Non era un fannullone. Era pulito quando
veniva a lavorare. Di tutto il resto me ne fregavo.»
«Quanto l’ha visto l’ultima volta?» chiesi.
Pedro non ci rifletté nemmeno. Fece solo segno con la mano di darsi una
mossa a una ragazza vestita di rosa che stava alla cassa. I suoi capelli
cambiavano colore in base ai neon.
«Nell’autunno del 1983. A metà novembre, per la precisione, dopo la fiera
di Saint-Romain, l’ultima della stagione, sul lungofiume di Rouen. Abbiamo
smontato tutto per l’inverno e chiuso la baracca. Arrivederci alla prossima.
Pelletier sapeva dove trovarmi. La stagione successiva non si è fatto rivedere.
Non ho pianto né l’ho cercato. Sono frequenti da noi gli stagionali. Già due
anni è tanto. Non è mai più tornato.»
Un vicolo cieco...
Rivolsi qualche altra domanda a Pedro Ramos, ma senza convinzione.
Non ottenni niente. La pista si fermava sul lungofiume di Rouen. Non così
lontano da Dieppe, a ben pensare, non così lontano dai Vitral...
Che rapporto poteva esserci? Nessuno, probabilmente.
I mesi seguenti cambiai registro. Mi feci tutte le fiere. I Tagadà e tutte le
altre scemenze!
A Nazim piaceva tanto, più dei bassifondi. A volte ci andava con la sua
piccola Ayla, nel weekend. Il luna park... Era la de Carville a pagare
l’ottovolante, il treno dei fantasmi e le mele caramellate. Ci volle un mucchio
di tempo prima di trovare qualcosa di nuovo. Anni...
Di tanto in tanto, per schiarirmi le idee, tornavo a Dieppe.
38

2 ottobre 1998, ore 16.19


«Ti dico che è un matrimonio!» Le manine di Judith si aggrappavano alla rete
del cortile della scuola materna.
«Ma no, stupida! Non è un matrimonio! Non vedi che sono tutti vestiti di
nero. È qualcuno che è morto...»
Il corteo si allontanava lentamente lungo la strada. Judith non credeva
molto a quello che le diceva la sua amichetta Sarah. Le raccontava sempre
storie per farsi bella. Quando le persone camminavano per la strada vestite
bene, in fila come per andare in mensa, quando uscivano dalla chiesa, quando
le campane suonavano, voleva dire che c’era un matrimonio, lei lo sapeva
bene. Ne aveva già visti tanti. Due almeno, più altri quando era troppo
piccola per ricordarsene. «Non ti credo, Sarah!»
La ragazzina scosse la rete per l’irritazione. «È qualcuno che è morto, ti
dico! Vanno a metterlo in una buca. Hanno fatto la stessa cosa con mia
nonna...»
«Non ti credo!»
«E va bene. Allora dov’è la sposa?»
«L’abbiamo persa, è già passata, ecco!»
«Come no! È venerdì, per prima cosa! Non ci si sposa in un giorno di
scuola. Ma quando si muore è diverso, non si può scegliere il giorno.»
Judith doveva riconoscere che la sua amichetta aveva ragione.
Sarah infatti insistette: «E poi, a un matrimonio, le persone sono più
giovani. Guarda, quelli sono tutti vecchi».
«No, non tutti!»
«Sì invece...»
«No! Guarda. Là. Signora! Signora!»

Lylie, ripresasi bruscamente dal suo torpore, vide due adorabili bambine di
cinque anni imbacuccate in cappotti di lana dai colori vivaci e con i capelli
raccolti sotto berretti peruviani.
«Signora, signora, è un matrimonio o un morto?»
Lylie sorrise suo malgrado. Trovava sconvolgente il contrasto tra le grida
gioiose nel cortile della scuola e il silenzio del corteo di quel funerale
anonimo. Si accovacciò per essere alla stessa altezza delle bambine. «È un
funerale» rispose con voce dolce.
«Eh, visto?» replicò Sarah trionfante.
Judith fece una smorfia. Altre tre bambine vennero ad attaccarsi alla rete.
Sul marciapiede, Lylie diventò l’attrazione della classe, come un pony dietro
un filo spinato.
«Chi è morto?» chiese Sarah.
«Non lo so, non lo conoscevo» disse Lylie. «Stavo solo passando. Non
sono una parente. Vengo da quel grande palazzo bianco di fronte. Adesso
devo tornarci.»
«Se non lo conoscevi, allora perché sei triste?» insistette Judith.
Lylie non riuscì a dissimulare la sorpresa. Si avvicinò ancora alla
bambina. Minuscoli puntini rossi le imperlavano le guance rosee. «Cosa ti fa
pensare che sono triste?»
«Be’, hai gli occhi tutti rossi. E devi essere super triste se preferisci star
dietro a un morto che non conosci invece di andare, non so, per negozi, a
giocare al parco, a vedere un film...»
Quindici paia d’occhi, appena visibili tra berretti, passamontagna e
sciarpe, scrutavano adesso Lylie.
«Hai indovinato» mormorò lei all’orecchio di Judith. «Ma non bisogna
dirlo a nessuno. Come ti chiami?»
«Judith Poitier. Sono nella classe dei grandi all’asilo. E tu?»
«Non lo so...»
Judith si morse il labbro, come se avesse fatto una domanda indiscreta.
Rimase un attimo pensierosa. Probabilmente era la prima volta che
incontrava qualcuno che non aveva un nome. Sorrise alla sconosciuta, come
quando cercava di far rappacificare due amiche che litigavano. «È per questo
che sei triste, allora?»
39

2 ottobre 1998, ore 16.39


Il treno si fermò a Vernon. Marc guardò dileguarsi i viaggiatori appena scesi.
Nessuno ad aspettarli sui binari, nessun abbraccio commovente, nessun grido
di gioia, solo qualche decina di lavoratori che avevano fretta di tornare a casa.
Quando il treno ripartì, il binario era già deserto e le auto parcheggiate nel
piccolo spiazzo dall’altro lato dei binari erano in fila all’uscita.
Il sole non era ancora completamente scomparso dietro le colline della
Senna. Per schermare la luce e leggere comodamente il quaderno di Grand-
Duc sul tavolino grigio, Marc tirò la tenda. Il detective stava per varcare la
soglia dei dieci anni d’indagine... Ormai i ricordi di Marc non si limitavano
più a vaghe impressioni, a un’eco lontana, ma formavano una versione
precisa degli eventi. Una versione personale dei fatti, da confrontare con
quella di Grand-Duc.

Diario di Crédule Grand-Duc


Alla riapertura delle scuole, nel 1991, Emilie Vitral frequentava la prima
media. Finora non vi ho parlato molto di Emilie, però è importante che
capiate com’è cresciuta, in tutti quegli anni, fino a far cedere Nicole Vitral,
fino a far trionfare Mathilde de Carville. A suo modo.
Emilie avrebbe compiuto undici anni, quindi...

Penso di essere sempre piaciuto a Emilie. Il sentimento era reciproco. Doveva


essere attirata dal mio lato un po’ burbero, solitario. I bambini amano
ascoltare gli adulti che parlano poco. Evidentemente condividono con loro lo
stesso pudore. Per lei ero Credu-lo-Scivolo. Credo che anche Marc fosse
affascinato da me, non solo per le mie inesauribili conoscenze calcistiche, ma
soprattutto perché un detective privato fa colpo su un ragazzino. È come uno
uscito dritto dalla televisione. Un MacGyver, un Mike Hammer o un
Magnum P.I. senza i dobermann e con la BMW al posto della Ferrari... Io ci
mettevo del mio. Mi piaceva. Facevo ridere Nicole Vitral con le mie storie
inventate. E con la coda dell’occhio guardavo crescere Emilie...

In segreto speravo in una somiglianza. Aspettavo che un mattino cambiasse


in maniera radicale, sbilanciandosi da un lato o dall’altro. Fisicamente dico.
Vitral o de Carville. Che prendesse il sorriso di Marc o i tic del nonno de
Carville. Che ne so? Una certezza, una qualsiasi.
Nulla. La bilancia continuava a pendere dal lato Vitral. Gli occhi,
soprattutto. Nient’altro...
Per quanto riguardava il resto, tutto si complicava. Nicole Vitral fece il
possibile per nasconderlo, almeno all’inizio, ma era talmente evidente. In rue
Pocholle, Emilie sembrava caduta da un disco volante più che da un Airbus.
Adorava la scuola. Alle elementari era sempre stata la più brava della classe,
dalla prima alla quinta, mentre Marc se la cavava onestamente, nulla di più,
lavorando con serietà, diligente ma senza un particolare entusiasmo. Emilie
amava la musica. Emilie amava le arti. Emilie amava i libri. Emilie divorava
tutto. A casa Vitral c’erano dischi, libri, quadri, in modica quantità, per
necessità più che per bisogno. Come si tiene in garage una bicicletta. Vuoi
mai che...
Emilie veniva su diversa, era lampante. Pur essendo adorabile, adorante e
adorata, soffocava. Saccheggiava la biblioteca ambulante che si fermava nel
parcheggio della stazione di Dieppe tutti i martedì sera. Tempestava di
domande sua nonna, perplessa. Le storie del gatto sornione in prima
elementare e poi Roald Dahl, Igor Stravinskij, Rudyard Kipling, Sergej
Prokof’ev. Nomi complicati di cui Nicole non aveva mai sentito parlare.

Una simile eccezione, in una famiglia, può capitare. Era quello che mi dicevo
per convincermi. Il fiore che cresce in mezzo ai rovi. L’autodidatta della
scuola repubblicana. Il sogno americano in versione francese, il giovane
eccezionalmente dotato che sale da solo tutti i gradini, senza appoggio, senza
rete di sicurezza, dalle medie alle grandi università; che trae la sua forza, la
sua voglia di riscatto dalle proprie origini modeste. Partito da lontano, dal
basso, orgoglioso delle proprie radici. E per sempre portatore di quel marchio
distintivo – rispetto ai figli di papà, nati nelle famiglie bene dei primi
arrondissement parigini, ai cloni del liceo Henri-IV – che è la sua linfa, che
l’ha fatto svettare più in alto. Il suo stendardo. E lui diventa il portabandiera
della sua famiglia, la quale scoppia d’orgoglio. Il piccolo che ce l’ha fatta. È
per questo che i poveri fanno tanti figli? Per moltiplicare le possibilità di
pescare il numero vincente?
Be’, interrompo qui la mia manfrina da quattro soldi sul determinismo
sociale. Volevo solo spiegarvi come Emilie stava sbocciando nel quartiere del
Pollet. La piccola che sarebbe andata lontano... Protetta dai suoi. Protetta
anche da Nicole, naturalmente. Solo che dovete immaginare il dubbio
lancinante che incrinava quella sua adorazione.
Nicole aveva il diritto di essere fiera di sua nipote? Dopo più di dieci anni
l’ombra del dramma planava ancora. Se la piccola era Emilie Vitral, sua
nipote, carne della sua carne e sangue del suo sangue, allora sì, che fortuna,
che gloria, che miracolo, quella bambina dal destino già tutto segnato! Ma se
era Lyse-Rose de Carville, mandata per errore in collegio, lontano da casa,
smarrita in un altro mondo, prigioniera...
Oggettivamente, guardando Emilie crescere nel quartiere di pescatori di
Dieppe, non potevo fare a meno di pensare che assomigliava a un
extraterrestre precipitato sugli Stati Uniti, a un Tarzan dimenticato nella
giungla, a un Gulliver tra i lillipuziani.
“È normale” mi sussurrava talvolta Nicole. “Una bambina cresciuta dalla
nonna. Da sola. Per forza è diversa.”
Aveva ragione. In parte.

A undici anni, alla fine delle elementari, Emilie cominciò a pretendere di più.
Be’, in realtà si limitò a dichiarare di voler vedere più in là della ruota della
sua bicicletta. Passare sull’altro versante delle falesie. Scoprire altri luoghi.
Altri interessi, anche. La musica, soprattutto. Continuare lo studio del
pianoforte. Non solo perché era dotata o perché i professori la
incoraggiavano. No, semplicemente perché ne aveva voglia. Più che voglia,
anzi: bisogno.
I termini della questione erano chiari. Emilie poteva continuare a
migliorare solo se avesse avuto un pianoforte a casa, per suonare diverse ore
tutti i giorni. Lei sapeva essere persuasiva a suo modo. Aveva preso le misure
del salotto. Un pianoforte verticale ci sarebbe stato, spingendo il televisore
nell’angolo e il divano di lato. Ci entrava e faceva anche bella figura con
sopra un vaso e il posacenere in cristallo della valle della Bresle.
Restava il problema del costo.
Primo prezzo trentamila franchi. Diciamo ventimila, usato.

«Un pianoforte! Piccola mia, ho già difficoltà a comprarti i vestiti» disse


Nicole Vitral. «Ho dovuto lavorare tutte le domeniche di maggio e di giugno
per poter andare una settimana a Saint-Quay e non so ancora come farò a
pagarti tutte le cose per la scuola. Già ci sono i tuoi corsi di musica. Non sono
più gratuiti da quando hai dieci anni. Allora, piccola mia, un pianoforte...»

Emilie non protestò. Capiva. A undici anni aveva già una sorta di maturità
quasi anomala. Sembrava capire, per lo meno. Si rifugiò nella sua cameretta,
che condivideva con Marc. Nicole sentì attraverso il muro un’aria per flauto.
Il suo unico strumento. Il flauto di plastica di Marc. Nicole riconobbe la hit
del momento, la canzone di Goldman, Leidenstadt.
Aveva il cuore a pezzi.
Quando Marc tornò dallo stadio, trovò sua nonna in lacrime, prostrata sul
divano. Lui aveva tredici anni. Non sapeva come reagire. Sentiva soltanto
Emilie suonare il flauto. Era una bella canzone. Triste, anche.
Nicole invitò Marc a sedersi sul divano, lo abbracciò e lo strinse forte.
«Non devi essere geloso di Emilie. Mi hai capito? Mai.»
Certo. Come poteva essere altrimenti?
«Dovrai continuare a vivere con lei come prima. Emilie sarà sempre la tua
sorellina...»
Sicuro. Dove voleva arrivare?
«Anche se faccio differenze. Tu sei grande adesso, Marc. Puoi capire.»
Differenze? Quali differenze?
Nicole si alzò piano. Marc la imitò. Le era tornato il sorriso o, meglio, una
parvenza di sorriso. Fece segno a Marc di prendere l’altro lato del divano.
«Aiutami a spingerlo. Non sono mica sicura io che ci possa stare un
pianoforte qui!»
L’acquisto del pianoforte nuovo, in contanti, un Hartmann-Milonga, nel
negozio specializzato più grande di Rouen, intaccò appena la cifra sul conto
in banca di Emilie.
Emilie aveva ragione: spingendo bene, tra il divano e il televisore ci stava.
Da allora gli eventi si susseguirono. Gli stage a Parigi, innanzitutto.
Qualche giorno, poi più a lungo. Saggi e concerti all’estero. Londra.
Amsterdam. Praga... Poi gli acquisti di dischi e libri. Perché privare Emilie
dei libri? Gli abiti. Perché privarla della moda? Era umano. Emilie aveva
diritto al meglio. Se lo meritava. Nicole non se la sentiva di trascurare il
minimo dettaglio per il suo futuro, nel caso in cui...

Capite adesso la strategia di Mathilde de Carville. Fin dall’inizio era


consapevole di quello che stava facendo. Il conto in banca per Emilie era un
uovo di serpente deposto in un baule che si era schiuso; il rettile era cresciuto,
a poco a poco, sotto il tetto dei Vitral e alla fine era pronto a soffocarli.
Tra Emilie e Marc si stava scavando un fossato. Quanto al resto, ci tornerò
più avanti...
Emilie poteva ormai chiedere tutto quello che voleva, dal più futile dei
capricci al più costoso dei desideri. Nulla era troppo caro per lei. Marc,
invece, doveva accontentarsi degli scarti. I vestiti del vicino. La bicicletta del
nonno. Le scarpe da rugby dei compagni più grandi.
All’inizio Emilie aveva insistito: voleva pagare anche per Marc.
Dopotutto, glielo avevano spiegato, erano soldi suoi! Nicole Vitral non aveva
ceduto. Per lei era una questione d’onore, un impegno morale preso con
Mathilde de Carville.
Una linea rossa impossibile da oltrepassare.
Non avrebbe speso un centesimo dei de Carville per suo nipote. Può
sembrare strano, lo riconosco. Ma chi di voi può sapere come avrebbe reagito
al posto di Nicole Vitral? Sì, ve lo ripeto, Mathilde de Carville sapeva quello
che faceva, quella sera di maggio del 1981, quando aveva offerto l’uovo di
serpente a Nicole Vitral.
L’anello di zaffiro chiaro in pegno.
Contro ogni aspettativa, c’è una morale in questa storia. Per quanto ho
potuto constatare, la strategia del serpente fallì. Marc non era geloso. Non lo
fu mai, e non per obbedire a sua nonna. Era semplicemente felice della gioia
di Emilie. Ci tornerò, in dettaglio, promesso.
Altro miracolo, più strano ancora forse, nonostante tutto quel fiume di
melassa, di regali sdolcinati e di vita dorata, Emilie non si trasformò in
un’appiccicosa caramella rosa. Continuò a essere vivace, semplice, a non
provare disprezzo per il salotto stretto, per le case attaccate l’una all’altra di
rue Pocholle, per il mare grigio e i ciottoli troppo duri sotto i piedi scalzi.
Emilie cresceva. Sempre con gli occhi celesti dei Vitral e i gusti raffinati
dei de Carville. La gentilezza dei Vitral... e il denaro dei Carville.
Vai a capirci qualcosa.

Marc sollevò la testa, commosso fino alle lacrime.


Il treno lanciato a tutta velocità attraversava gli stagni di Poses. Chiatte
cariche di sabbia risalivano la Senna in senso inverso. Marc rivedeva tutto. Il
flauto. Il divano. Il pianoforte. Emilie che suonava Chopin, Berlioz, Debussy.
Non ci capiva nulla ma lo trovava toccante. Emilie, i capelli raccolti, seduta
con la schiena dritta, le mani e le dita in costante movimento. Il piano era
muto adesso. Polveroso. Sempre nel salotto di Dieppe. Marc si ricordava
anche dei vestiti di Lylie. Come dimenticarli? I suoi abiti, le sue gonne.
Sempre più belli, con il passare degli anni. Comprati per lui, solo per lui.
Come avrebbe potuto essere geloso?
Nessuno l’aveva capito. Né Grand-Duc, né Nicole, né ancora meno
Mathilde de Carville.
Il treno si fermò a Val-de-Reuil, la stazione in mezzo ai campi che la città
nuova non aveva mai raggiunto. Marc esitò. Restavano solo quindici minuti
prima di Rouen. Tirò fuori il cellulare: poteva provare a contattare qualche
altra clinica. Tanto per fare... Compose tre numeri, invano. Emilie non era
stata ricoverata in quelle strutture. Pazienza. Lui non ci metteva più troppa
convinzione. Aveva soprattutto voglia di finire di leggere il quaderno di
Grand-Duc. La sua adolescenza raccontata dal detective.
Qualcosa come il vostro diario segreto scritto da un estraneo.
40

2 ottobre 1998, ore 16.48


Nicole Vitral camminò lentamente verso il mercato, alla fine del porto
peschereccio di Dieppe. Si avvicinò al banco. «Gilbert, cos’hai oggi di non
troppo caro?»
Il pescivendolo rispose senza esitare: «Sogliole. Direttamente dalla pesca
di stanotte. Te ne do una?».
«Due.»
L’occhio di Gilbert, di profilo, si arrotondò come quello di uno dei suoi
pesci morti. «Due? Hai qualcuno a cena? Emilie? Marc? O è uno
spasimante?»
«È Marc, sciocco!» precisò Nicole.
«Okay, allora ti do roba buona. Come sta?»
Persa nei suoi pensieri, Nicole rispose in modo evasivo. Banalità. Pagò.
«Grazie, Gilbert. Questa settimana passo a lasciarti dei volantini del comune,
per il porto. C’è scritto tutto.»
Il pescivendolo sospirò. «Ancora con ’ste stupidaggini. Al comune
farebbero meglio a occuparsi dei commercianti invece che dei portuali.
Credimi, siamo noi che crepiamo per primi, anche prima dei pescatori...»
Nicole si stava già allontanando. Gilbert Letondeur era il miglior
pescivendolo di Dieppe, ma anche un cretino schierato con gli armatori e la
Camera di commercio e dell’industria di Dieppe. Insomma, uno che votava a
destra... Nicole ammetteva che la sua visione delle cose era un po’ riduttiva,
ma era così che vedeva la città di Dieppe: due campi opposti. Nonostante il
suo furgone sul lungomare, non si era schierata dalla parte dei commercianti.
Una traditrice!
Doppiamente traditrice. Mangiava il pesce della fazione avversaria.
Continuò verso il lungomare. Le piacevano il clima secco, il vento
costante. Si gustò anche il grande movimento sul prato. Avevano finito di
montare decine di piccoli tendoni bianchi, tutti uguali, allineati, decorati con
bandierine multicolori che rappresentavano gli Stati di tutto il mondo. Ogni
due anni, per dieci giorni Dieppe viveva al ritmo del Festival internazionale
dell’aquilone.
Il cielo era già pieno di rombi variopinti, di immensi cerchi immobili, di
triangoli che descrivevano curve strette. Molto in alto si potevano scorgere un
drago cinese, una maschera inca, un gatto blu gigantesco, un cerchio dentro
cui girava a tutta velocità una girandola. Come costellazioni immaginarie e
colorate.
Nicole Vitral procedette, lo sguardo rivolto al cielo, un po’ nostalgica.
Non poteva fare a meno di ripensare alle precedenti edizioni del festival.
Dieppe era stata la prima stazione balneare, alla fine degli anni Settanta, a
lanciarsi in quell’iniziativa. Da allora la manifestazione era stata copiata da
tutte le grandi spiagge di sabbia ventose del Nord Europa.
Nicole era stata con Pierre ai primi due festival, nel 1980 e nel 1982. Due
volte dieci giorni di ricordi. Festosi. Redditizi, anche. La loro friggitoria
ambulante, sul lungomare, era un’istituzione già all’epoca. Alla prima
edizione, la nuora, Stéphanie, era quasi al termine della gravidanza. Aveva
comunque passato il weekend ad aiutarli come poteva. Pierre e Pascal, padre
e marito premurosi, avevano provato a convincerla a rimanere seduta su una
sedia, a farle capire che non era proprio il momento di partorire. Emilie era
nata qualche giorno dopo, il 30 settembre, come se si fosse premurata di
aspettare.
Poi la tragedia dell’Airbus e la sentenza. Pierre Vitral aveva partecipato al
secondo festival, nel 1982, prima di addormentarsi per non svegliarsi mai più,
il 7 novembre, a Le Tréport. Il Festival internazionale dell’aquilone ritmava
la vita di Nicole come un simbolo macabro: la vita e la morte erano appese a
un filo, ai capricci del vento. Tuttavia aveva continuato a parcheggiare il
furgone sul lungomare, durante i dieci giorni della festa, senza l’aiuto di
Pierre. Non aveva altra scelta: quella manifestazione restava comunque una
delle sue principali fonti di reddito.
Marc ed Emilie erano troppo piccoli per ricordarsene. Il festival per loro
non era che un gigantesco carnevale atteso per settimane. Marc non se la
cavava male con i fili tra le mani, per far colpo sulla sorella. Un vicino gli
aveva regalato un aquilone a forma di insetto gigante, rosso e oro, dalla
lunghissima coda con un fiocco e dalle ali di carta velina trasparente.
Naturalmente lui aveva chiamato il suo aquilone Libellula, perché
chiamavano ancora così Emilie qualche volta. Gli stronzi. Certi commercianti
di Dieppe, per esempio.
Emilie si gettava a capofitto nella folla. Correva di stand in stand,
percorrendo tutti i paesi del mondo: Perù, Cina, Acrocoro Etiope, Mongolia,
Ecuador, Yemen. Québec. L’aquilone era come un filo teso fra tutti i bambini
del pianeta. Solo un po’ di vento, non c’era bisogno d’altro.
L’arte di addomesticare il cielo per puro divertimento.
Sempre più in alto. Senza passeggeri, senza viaggiatori.
Senza schianti.
Nicole, dopo il 1980, non aveva mai più guardato il cielo come prima. La
piccola Emilie macinava chilometri. Giappone. Mali. Colombia. Tornava
correndo al Citroën H, con gli occhi scintillanti. La gente di tutto il mondo si
dava appuntamento sul suo prato.
“Hai visto, nonna? Hai visto, nonna?”

Nicole Vitral lasciò il lungomare, sconvolta. Emilie quest’anno, per la prima


volta in vita sua, si sarebbe persa gli aquiloni di Dieppe.

Entrò in panetteria. Temeva di dover affrontare lo stesso teatrino del


pescivendolo. Aveva ragione.
«Una baguette, Nicole?»
«Una baguette. E mettimi anche un Salammbô.»
«Davvero? Un Salammbô? Torna Marc?»
Il Salammbô. Il dolce preferito di Marc. Quando aveva dieci anni, per lo
meno. Nicole si sentiva ridicola a voler accontentare ancora così il suo
ragazzone, con le sue voglie di bambino. Ma dopotutto le faceva piacere e
Marc era un ragazzo educato.
Guardò l’orologio. Suo nipote sarebbe arrivato di lì a due ore. Costeggiò a
passi lenti il porto turistico, diretta al ponte di trasbordo che separava il
quartiere del Pollet dal resto di Dieppe. Un’isola nel cuore di una città.
Non riusciva a non pensare alla conversazione telefonica con Marc. Alla
busta blu di Mathilde de Carville. Al test del DNA affidato a suo nipote. Al
divieto di aprire il regalo per sua nonna.
Che furbacchiona!
Nicole dovette fermarsi. Il ponte si stava alzando per lasciar passare un
piroscafo non molto grande battente bandiera nigeriana. Ne transitava ancora
qualcuno. Banane? Ananas? Legno esotico?
Che cosa pensava la de Carville? Di avere il monopolio della
lungimiranza? Di essere stata l’unica a pensare al test del DNA ? Che Crédule
Grand-Duc fosse al suo servizio? Che avesse preso una goccia di sangue a
Emilie così, tranquillamente, senza che sua nonna reagisse?
La fila di macchine si allungava davanti al ponte. Nicole fece qualche
colpo di tosse grassa per via dell’odore di marea mischiato al gas di scarico.
La de Carville non aveva capito niente! Grand-Duc non era così stronzo. Non
aveva creato gelosie. Aveva fatto eseguire due test. C’erano due buste blu,
una per ogni nonna.
Nicole si voltò. Un aquilone gigante, il drago cinese, sorvolava la cima
degli edifici del lungomare. Sorrise. Nel secondo cassetto del suo comò,
chiuso a chiave, aveva riposto la busta blu datale da Grand-Duc. Il risultato
del test di confronto fra il suo sangue e quello di Emilie avrebbe confermato
quello ricevuto da Mathilde de Carville che Marc, obbediente, le stava
portando.
Finalmente il ponte di trasbordo si abbassò. Le macchine scalpitavano.
Nicole tossì di nuovo.
Aveva aperto la busta nel 1995. Aveva la risposta, anche lei, da tre anni
ormai.
Doveva parlarne a Marc. Doveva farlo, certo. Quella sera stessa. Poteva
ancora salvare una vita. Dopo sarebbe stato troppo tardi. Perché non glielo
aveva rivelato prima? Facile a dirsi.
Una risposta simile.
Una liberazione?
Forse...
A condizione di accettare di perdere tutto.
41

2 ottobre 1998, ore 17.11


Il treno costeggiava la Côte des Deux-Amants. Attraversò senza rallentare il
ponte ferroviario di Le Manoir-sur-Seine e superò la stazione di Pont-de-
l’Arche. Marc non sentiva nemmeno il freddo del vetro contro la fronte. Si
era limitato ad accendere la luce da lettura sopra di sé.

Diario di Crédule Grand-Duc


I primi anni Novanta furono anni morti. Altri soggiorni in Turchia, in
Canada; Corno d’Oro e Chicoutimi, vi risparmio le cartoline nostalgiche.
Senza dimenticare i miei pellegrinaggi annuali sul Mont Terrible. Nazim era
rimasto appostato vicino alla capanna giornate intere! Per niente.
Nessuna novità. Fu l’inizio della mia depressione. Per lo meno, dovendo
indicare una data, sceglierei questa. Tra il 1990 e il 1992. La fine delle
illusioni.
Anche la pista Georges Pelletier era un vicolo cieco. Il senzatetto era
svanito, risucchiato da non so quale giostra, dal Tagadà o dal treno dei
fantasmi. La quotazione del braccialetto non saliva più, bloccata a
settantacinquemila franchi.
A che pro alzare la posta? Mi godevo una pensione dorata, o quasi.
Non lavoravo sul caso da circa tre settimane quando ricevetti una
telefonata da Zoran Radjic. Gli annunci – “75.000 franchi per il braccialetto”
– continuavano a essere pubblicati su una decina di giornali, tutte le
settimane, pagati anticipatamente con bonifico automatico.
«Crédule Grand-Duc?»
«Sì...»
«Zoran Radjic. Ho letto il suo annuncio a proposito di una ricompensa per
un braccialetto d’oro smarrito. Penso di avere delle informazioni da darle.»
Vi immaginate la mia reazione? Ero diffidente, scottato dall’esperienza
con il falsario turco, anni prima, in un’altra vita. «Sa dove si trova il
braccialetto?»
«Sì... Credo...»
Ero eccitato, nonostante tutto. Crédule. Non si cambia mai!

Lo incontrai due ore dopo all’Espadon, un bar in rue Gay-Lussac.


Ordinammo entrambi una birra. Zoran Radjic aveva tutto del piccolo
imbroglione di quartiere, del truffatore di strada; la tentazione era di
mandarlo al diavolo senza esitare. Con la faccia di faina, lo sguardo sfuggente
e i capelli impomatati tirati indietro, c’era da chiedersi come potesse
concludere qualche affare.
Era possibile che fosse quel tizio a consegnarmi l’unica prova utile? Un
braccialetto raccolto sul Mont Terrible dodici anni prima. Tutto il resto
poteva finire nell’immondizia: il colore degli occhi, la passione per il
pianoforte, la tomba accanto alla capanna... Mi sarebbe bastato avere quel
fottuto gioiello tra le mani e avrei vinto la posta in gioco. La bambina
miracolata sbalzata fuori dall’aereo si sarebbe chiamata Lyse-Rose de
Carville.
«Allora?» sbottai, deciso a parlare il meno possibile.
«Ho visto il suo annuncio ieri. Non leggo spesso i giornali. Mi si è accesa
una lampadina...» Zoran giocava con il suo anello in argento con le iniziali.
Chi poteva portare ancora quel genere di roba?
«E...» Dovevo lasciar parlare lui.
«L’ho visto molto tempo fa. Quasi dieci anni. Nell’83 o forse nell’84, un
tizio malconcio me l’ha mostrato. Non glielo nascondo, all’epoca qualche
volta aiutavo la gente nella merda.»
Mi ero imbattuto nel buon samaritano...
«Be’, passavo loro anche un po’ di droga. Insomma, la vendevo. Il tizio
era in crisi d’astinenza. Lo conoscevo di vista, girava da qualche tempo nel
quartiere. Non aveva più soldi, più niente. Voleva scambiare una dose con un
gioiello. Un braccialetto d’oro, a quanto diceva. Originale, no?»
Il buon samaritano giocava con il suo anello, come se niente fosse. Come
se non si rendesse conto che stava giocando con i miei nervi. Oppure era un
vero furbo, un professionista: mi lasciava cuocere nel mio brodo.
Probabilmente il suo trucco era sfruttare quell’aria da imbroglione
individuabile alla prima occhiata. La gente con cui aveva a che fare, a forza
di credersi più furba di lui, finiva per non diffidare più.
Non dovevo cadere nella trappola, se di quello si trattava. Meglio lasciarlo
parlare.
«Penso che le interessi il nome, no?»
«Il nome lo conosco. Sono prove quelle che cerco. Meglio ancora, il
braccialetto. I settantacinquemila franchi sono per il braccialetto. Per il resto,
si tratta.»
L’anello sparì nella mano destra del buon samaritano. Strinse forte il
palmo. «Okay. Ci sto. Forse non parliamo della stessa persona, a conti fatti.
Quanto per il nome?»
Banco. L’anello era riapparso nella mano sinistra dello slavo. Come ci
riusciva quell’idiota?
«Diecimila franchi per il nome» risposi. «Se è quello giusto...»
«Non ci sto. Come faccio a sapere che non mi stai imbrogliando? Ti dico
il nome e tu sostieni che non è quello che ti aspetti. Te la squagli e io resto
fregato.»
Mica scemo, lo slavo.
«D’accordo. Hai una penna?»
«Sì.»
«Io scrivo il nome sul sottobicchiere della mia birra. Tu fai lo stesso sul
tuo. Se sono uguali vinci diecimila franchi. E continuiamo...»
Il buon samaritano fece un sorriso da bambino. L’anello era di nuovo nella
mano destra. «Fatta. Adoro questo genere di giochi.»
Ci chinammo entrambi sui sottobicchieri, nascondendo come potevamo
quello che stavamo scrivendo dietro la mano sinistra. Come due ragazzini che
non vogliono farsi copiare il compito all’esame.
Diecimila franchi per la partita, comunque.
Alzammo i sottobicchieri insieme.
Georges Pelletier.
Su entrambi.
Un brivido mi attraversò tutta la schiena. Stavamo parlando della stessa
persona. Era proprio Georges Pelletier che aveva offerto il braccialetto a
quell’imbroglione. Tutto collimava.
“Attento, Crédule!” mi sussurrò una vocina nella testa. “Non ti
entusiasmare. Hai smosso mari e monti nei bassifondi di Parigi per cinque
anni per trovare Pelletier. La voce corre veloce, nei vicoli. Il meno informato
di tutti gli informatori della capitale è di sicuro al corrente del nome del tizio
che cerchi. Fare il collegamento con l’annuncio da settantacinquemila franchi
è alla portata del primo che capita...”
«Okay» concessi «hai vinto diecimila franchi. Tutto legale, tranquillo. Ti
faccio un assegno... Ti lascio anche il mio sottobicchiere per ricordo. Con
dedica a Georges...»
L’altro fece una specie di smorfia. Un assegno? Probabilmente non era
abituato a quel genere di pagamento.
«L’hai visto, il braccialetto?»
«Sì... Quanto per l’informazione?»
«Diecimila, se li vale. Hai dettagli?»
«Vediamo. Cosa vuoi sapere?»
Quel tizio che giocava con l’anello forse era dotato di un certo talento da
mago del quartiere, ma io avevo in mano un’ultima carta. Anche a me gli
anni avevano insegnato qualche trucco. «Se hai visto davvero il braccialetto,
quello giusto, dovresti immaginare cosa voglio sapere.»
Lo slavo mi rivolse un sorriso candido. Impossibile capire se stesse
bluffando. Mi prendeva per il culo o era l’unico testimone della mia
indagine?
«Diecimila franchi in più, dici? Per la prova? Posso fidarmi?»
«Sono un tipo a posto. Se ti sei informato, te l’avranno confermato...»
Le mani del buon samaritano si agitarono. Sbagliò la mossa e l’anello
cadde sul tavolo. Era nervoso. Oppure voleva farmelo credere, quel gran
furbone...
Presi il sottobicchiere e la penna. Scrissi: “Lise-Rose. 27 settembre 1980”.
Come nell’annuncio. Feci scivolare il sottobicchiere verso di lui. «Confermi
che c’era scritto questo sul braccialetto?»
Lo slavo si fregò le mani. L’anello era tornato al punto di partenza, infilato
al dito. «Per la data di nascita, scusami, ma non ne ho idea. L’ho visto anni fa
e anche allora non so se ci avevo fatto attenzione. Il nome, invece, è quello
giusto.»
“Bastardo!” pensai. Ancora uno stronzo approfittatore...
«Però» aggiunse lo slavo «se mi ricordo bene non era scritto così. Lyse
aveva la y.»
Un’altra scarica elettrica mi fulminò la schiena. Radjic non era caduto
nella trappola dell’annuncio. L’ortografia sbagliata del nome, per incastrare
un eventuale imbroglione. “Controllati, cazzo” pensai. «Okay, è giusto. Hai
vinto altri diecimila franchi. E il braccialetto, alla fine, l’hai scambiato con
Pelletier per fargli un favore?»
Crédule, lo so... Sarebbe stato troppo bello.
«Se avessi saputo all’epoca che valeva settantacinquemila franchi... Pensa
te. Ma no, poteva fottersi, Pelletier, con il suo gingillo del cazzo che mi
sbandierava sotto il naso. Nessun baratto. Niente contanti, niente droga.» Mi
fissò con ironia. «O un assegno, eventualmente...»
Merda!
«Pelletier se n’è andato con il gioiello, allora?»
«Sì.»
«L’hai più rivisto, poi?»
«Mai. Secondo me, considerando lo stato in cui era, non deve aver fatto
tanta strada.»
Merda, di nuovo!
Feci l’assegno. Senza rimorsi. Per Mathilde de Carville ventimila franchi
non facevano una grande differenza. Anche se il dubbio restava. La mia
trappola, la “y” trasformata in “i”, non era difficile da individuare per un
imbroglione un po’ accorto; i nomi Lyse-Rose de Carville ed Emilie Vitral
erano stati citati in un sacco di articoli di giornale all’epoca. Zoran il
samaritano poteva aver vinto ventimila franchi grazie a un po’ di buonsenso e
di sangue freddo.
Le sue dita irrequiete afferrarono l’assegno, che lui esaminò con
attenzione. Finalmente soddisfatto, si alzò. Mi tese la mano, quella con
l’anello. «Grazie. Ah, senti. Un ultimo dettaglio. Regalo della casa.»
Sentii la pelle d’oca invadermi tutto il corpo. «Di che si tratta?»
«Mi ricordo, ora, che se non ho accettato il baratto di Pelletier è stato
anche perché il braccialetto era rotto. La catenina, intendo. Mancavano una o
due maglie.»
I tavoli e le sedie del bar si misero a girare attorno a me. Mio Dio!
Nessuno, oltre a me e Nazim, poteva conoscere quel particolare.
42

2 ottobre 1998, ore 17.29


Una volta tanto il treno Parigi-Rouen era puntuale. Si fermò sul binario alle
diciassette e trenta esatte. Il Rouen-Dieppe partiva otto minuti dopo. La
coincidenza era quasi immediata, ma quando l’Intercity era in ritardo tutti gli
altri treni regionali pazientavano diligentemente fino all’arrivo del loro
fratello maggiore dalla capitale. Da che studiava a Parigi, Marc aveva fatto
quel cambio decine di volte. Otto minuti erano più che sufficienti.
Dopo aver chiuso a malincuore il quaderno di Grand-Duc, si diresse
rapidamente verso il negozio che vendeva panini. Aveva davanti una sola
persona. Comprò una fetta di torta di mele e una bottiglia di San Pellegrino.
Probabilmente quella sera Nicole gli avrebbe preparato un banchetto come
solo lei sapeva fare, ma ciò nonostante Marc aveva digerito da tempo il
panino al prosciutto e burro divorato sulla RER .

L’espresso regionale per Dieppe era quasi vuoto. Dopo la calca del Parigi-
Rouen, il contrasto era sorprendente. Marc si sistemò vicino al finestrino,
come al solito. C’erano solo altri due passeggeri nel vagone: un adolescente,
con un walkman inchiodato alle orecchie, e un tizio grasso che dormiva
occupando più di due sedili.
Aprì il tavolino grigio davanti a sé e vi posò sopra lo zaino da cui tirò fuori
il diario di Grand-Duc. Gli restavano al massimo venti pagine da leggere, poi
avrebbe fatto il punto. Ripensò ai messaggi di Lylie: aveva a disposizione una
sera e una notte per risolvere tutto.
Sul binario, il capostazione fischiò nervosamente.
Marc girò la testa di riflesso. Si bloccò, la fronte incollata al vetro, come
tramortito.
Era lei!
La sagoma gracile lanciò uno sguardo malevolo al capostazione, biascicò
qualche insulto fra i denti e balzò sul treno quasi in movimento.
Malvina de Carville.

Marc rimase alcuni minuti a scrutare le porte scorrevoli delle due piattaforme
che regolavano l’accesso allo scompartimento. Invano. Malvina doveva
essersi nascosta da qualche parte sul treno, ma lui non aveva nessuna voglia
di correrle dietro. Non si sarebbe fatto beccare come un bambino per due
volte di seguito. Adesso aveva venti pagine da leggere.
Poi si sarebbe occupato della pazza.

Diario di Crédule Grand-Duc


Lasciai Zoran Radjic all’Espadon animato da una convinzione che era quasi
una certezza: quel piccolo imbroglione da quattro soldi mi aveva detto la
verità. Più ci pensavo, più tutto si collegava in modo logico. Georges
Pelletier, occupando la capanna, era stato un testimone diretto dello schianto
del Mont Terrible. Essendo già lì, sul luogo del dramma, si era ritrovato
faccia a faccia con la miracolata. Aveva raccolto il braccialetto d’oro prima
che arrivassero i soccorsi, come un miserabile predatore in astinenza.
Mi seguite? La miracolata, sbalzata fuori dall’aereo, era quindi Lyse-Rose
de Carville... Era quasi sicuro ormai. Il problema stava in quel “quasi”.
Perché, nonostante le apparenze, poteva essere che Zoran Radjic si fosse
inventato tutta la storia, da professionista della truffa qual era. Aveva avuto
anni per perfezionarla...
Mi trovavo al punto di partenza: c’erano solo presunzioni; forti
presunzioni, certo, ma nulla di più. Nessuna certezza definitiva.
Presunzioni, supposizioni, coincidenze... chiamatele come volete. In
sostanza vi ho raccontato tutto, adesso ne sapete tanto quanto me sul caso.
Sbrigatevela voi!
A essere onesti fino in fondo, c’è una cosa di cui non vi ho ancora parlato.
Più che altro un sentimento, in realtà. Spiegarlo è complicato, molto più che
descrivere un’esplorazione sul Mont Terrible o trascrivere una conversazione
con un testimone. A dirla tutta, ero arrivato al punto di pensare che le varie
prove accumulate – il braccialetto, la tomba, i vestiti del Gran Bazar – non
valevano più di un mucchio di vecchie cianfrusaglie da gettare
nell’immondizia. Idem per il colore degli occhi o il talento per la musica.
La verità era altrove, poggiava su un sentimento. Su un rapporto, più
precisamente.
Marc ed Emilie.
È arrivato il momento, credo, di parlare del loro strano rapporto. Non ci
potevano fare nulla, poveri ragazzi. La vita aveva deciso per loro.

Nonostante tutta la sua buona volontà, Nicole era troppo distante da Marc ed
Emilie. Il lavoro, giorno, notte e weekend. La vita quotidiana. La differenza
di età. Non era una madre, ma nemmeno una nonna. Era logico che loro si
fossero avvicinati. Due teste bionde. Due facce d’angelo, da pubblicità. E
tuttavia erano così diversi...
Via, mi lancio. So che Lylie e Marc leggeranno queste righe. Cercherò di
essere all’altezza. Non ci sarò più, comunque, per affrontare il loro giudizio.
Marc... due occhi azzurri come il cielo, perduti verso orizzonti lontani,
rivolti verso l’età dell’oro dei pirati di Dieppe. Due occhi da acchiappa-
sirene. Però Marc era un falso sognatore. Amava solo la sua casa, il suo
quartiere, i suoi amici, sua nonna... e soprattutto Emilie.
Marc amava quello che conosceva, molto semplicemente; era un
sentimento che si rafforzava con il tempo, alimentato da un’immensa
generosità verso la famiglia. Marc il discreto. Marc il timido. Marc il muto,
quasi.
Ciò nonostante era l’idolo delle ragazzine, se possiamo definire così le
liceali di Dieppe. L’idolo indifferente. Dal giorno in cui l’ho conosciuto e ho
cominciato a osservarlo, come un investigatore minuzioso, Marc non ha mai
avuto altra ambizione se non quella di dedicarsi a Emilie, essere al tempo
stesso suo fratello, suo padre e suo nonno. Tutto quello che le mancava. Il suo
paravento. Il suo parafulmini. Il suo parapioggia.
Il suo paradiso, solo per lei.
La piccola Emilie lo ricompensava adeguatamente. Inondava di vita tutto
quello che incontrava. Era bella davvero, in contrasto con ciò che la
circondava: le fabbriche che chiudevano, i muri di mattoni e di selce, i canali
di scolo. In armonia, invece, con tutto il resto: il tramonto del sole sulla
spiaggia di Dieppe, l’autunno nella foresta di Arques, un arcobaleno sulle
falesie.
Come una farfalla smarrita. Una libellula, volendo...
Emilie moltiplicava per dieci la superficie abitabile della piccola casa dei
Vitral gonfiandola di musica – di melodie di Chopin o di Satie –, facendola
volare in alto, oltre le falesie, come un pallone rigonfio di felicità, che faceva
poi esplodere con uno scoppio di risa.
Quando era triste, si curava con la musica.
Un insetto smarrito.
Semplicemente era diversa. Non orgogliosa. Sola. Non sempre, però.
Emilie non esitava a urlare dalle tribune a ogni placcaggio di Marc nel fango
dello stadio Maurice-Thoumyre. A infilarsi le scarpe da ginnastica per farsi di
corsa la sua decina di chilometri, sei valli sul mare e cinquecento metri di
dislivello. Dieppe-Pourville-Varengeville-Puys.
Un grande sole di città che faceva sciogliere anche me, quando era
piccola.
Credu-lo-Scivolo.
Aveva rischiato troppo di perdere la vita a tre mesi per sprecarne anche
una briciola. Ed era a sua volta così orgogliosa del suo Marc. Il suo angelo
custode. Il suo angelo biondo...
Marc ed Emilie capirono molto presto di non essere fratello e sorella. Non
di sangue, almeno. Non come gli altri. Il segreto gelosamente custodito da
Nicole Vitral esplose nel cortile dell’asilo durante la ricreazione. Gli adulti
parlano, i bambini ripetono. Deformano.
Gli alunni della scuola Paul-Langevin inventarono un gioco: correre
attorno a Emilie con le braccia ben aperte e la testa bassa imitando il rumore
di un reattore; mimavano, girando su se stessi, l’aereo che partiva come una
trottola e poi si schiantava a qualche centimetro da lei. Era quello il gioco
preferito nel cortile della scuola Paul-Langevin: finire lunghi distesi
sull’asfalto, sotto il portico, fingendo di essere morti.
Attorno a Emilie, Marc giocava instancabilmente a pilotare un caccia.
Dall’alto dei suoi centimetri in più, come un King Kong appollaiato sulla sua
cupola, abbatteva gli aerei dei cretini che passavano alla sua portata. Fino alla
punizione. E tutto ricominciava.
Marc ed Emilie non furono mai veramente fratello e sorella. Crebbero nel
dubbio.
“Oh, i fidanzatini!” li prendevano in giro i meno crudeli nel cortile della
scuola.
Sì, si amavano. Era evidente. Ma di che tipo di amore?
Penso che Marc abbia iniziato a porsi la domanda verso i dieci anni. Fino
allora lui ed Emilie avevano sempre dormito nella stessa camera. Marc sotto
e lei sopra, nel letto a castello. Poi Nicole aveva lasciato a Marc la piccola
stanza da letto e sistemato Emilie in qualche modo nella propria.
Nicole cercava di arrangiarsi alla meglio. Ci è riuscita bene, quasi sempre.
Che tipo di amore? dicevo.
Lo confesso, ho tentato di approfondire. Li ho spiati come il più ignobile
paparazzo. Ho fornito un teleobiettivo a Nazim, nel caso in cui...
Inutile. I sentimenti non possono essere impressi sulle pellicole.
Che tipo di amore?
Solo loro sanno la risposta...

Io no. E nemmeno la scienza mi ha aiutato.


Accadde qualche tempo dopo.
Quando Lylie aveva quindici anni.
Il test del DNA ... Quel dannato test del DNA .
Impossibile evitarlo. Mi aspettavo che Mathilde de Carville avrebbe finito
per chiedermelo, che avrebbe rinunciato ai suoi scrupoli etici per far parlare i
geni, nonostante Dio e la sua fede. Voleva sapere. Era umano. Era già un
miracolo che avesse resistito così a lungo.
Per parte mia non ero fiero di me stesso. Avevo soprattutto fifa. Mettetevi
al mio posto: quindici anni di indagini non potevano competere con tre gocce
di sangue in una provetta.
Che strazio! Strafottuta scienza!

Le parole di Grand-Duc danzavano sotto gli occhi di Marc.


“Che tipo di amore? Solo loro sanno la risposta...”
Il paesaggio ondulato di Caux scorreva davanti lui, insieme alle linee
dell’alta tensione delle centrali nucleari di cui si poteva seguire la direzione
fino a Dieppe.
“Che tipo di amore?”
Cosa poteva avere capito quel vecchio detective con il suo squallido
spionaggio a colpi di teleobiettivo? Chi sarebbe riuscito a capire?
“Oh, i fidanzatini...” Le grida dei bambini risuonavano ancora nelle
orecchie di Marc, come il rumore di reattore mal imitato da quei mocciosi.
“Oh, i fidanzatini...”
“Lylie, dove sei?” si chiese.

Marc non aveva più voglia di chiamare le cliniche. Era solo fatica sprecata.
“Oh, i fidanzatini...”
Chi ne era al corrente, a parte loro? Chi conosceva il loro segreto?
Nessuno. Né Grand-Duc né altri lo avevano raccontato in un quaderno.
Erano passati meno di due mesi.
Il 16 agosto.
Lylie non aveva ancora diciotto anni.
Marc chiuse gli occhi.
Erano passati meno di due mesi.
43

16 agosto 1998, ore 18.00


Una pazzia, pensava Marc, andare a correre in pieno agosto! Era pomeriggio
tardi ma c’erano ancora quasi trenta gradi. Un’eccezionale ondata di caldo in
Normandia!
Lylie non demordeva. Si allacciò le stringhe accovacciata sulla soglia
della porta di rue Pocholle, come se un paio d’ali le stesse pizzicando i piedi.
Marc sospirò. Controvoglia, si tolse le espadrillas e andò a cercare le scarpe
da ginnastica.
La voce gioiosa di Lylie squillò: «Forza, scansafatiche!».
Si era legata la chioma bionda in una coda di cavallo con un nastrino
celeste. A Marc piaceva tantissimo quando si tirava indietro i capelli. Metteva
in risalto il viso, la fronte. Prendeva una grazia quasi principesca. Lylie era
pronta e saltellava davanti alla porta, impaziente.
«Muoviti!»
«Arrivo...»
Da quando Lylie aveva preso il massimo in ginnastica alla maturità,
specialità corsa, si dedicava regolarmente al jogging. Si era allenata tutta la
primavera, cinque ore di corsa e una serie di addominali ogni settimana, con
Marc come coach.
Lui si stava innervosendo, non trovava la scarpa sinistra.
«Se non hai voglia di venire...»
«Sì... sì.»
Lylie prese una bottiglia d’acqua minerale e piegò la testa all’indietro per
bere a canna. Un sottile filo d’acqua le scivolò sulle labbra, sul mento, sul
collo. Marc distolse lo sguardo, turbato. Un’altra volta.
«Dietro i secchi. La scarpa, dico...»
«Grazie.»
Marc si allacciò goffamente la scarpa. Lylie indossava una tuta Sergio
Tacchini color malva e bianca. Il genere di abbigliamento da campionessa
olimpica di triathlon. Un sacco di soldi per pochi centimetri di tessuto
elasticizzato. Pantaloncini attillati come una seconda pelle e un top che
schiacciava troppo il seno, ma che in compenso svelava il ventre piatto e la
schiena appena abbronzati.
«Bene! Andiamo?»
Marc si mosse controvoglia.
Un brutto presentimento? L’afa opprimente di quel 16 agosto? L’assenza
di vento? Il tono sovraeccitato di Lylie?
Le prime falcate sono sempre le più pesanti. Attraversarono il Pollet,
superarono il ponte di trasbordo, costeggiarono il molo di cemento sul
lungomare e poi iniziarono la salita, bella tosta, fino al castello-museo.
Lylie correva sempre davanti. Marc regolava il proprio passo su quello di
lei. Passarono davanti al campo di golf, poi al liceo Ango dall’architettura
futurista, ai piedi delle falesie.
Lylie, maliziosa, agitò la mano in direzione del liceo, in segno di addio.
Ora stavano percorrendo un buon chilometro in piano fino a Pourville.
Potevano aumentare il ritmo. Improvvisamente, dopo una curva, il panorama
esplose. Lo scenario era superbo sotto il sole, tra falesie e mare. Lylie
accelerò ancora in discesa. Sul molo, i turisti seduti ai bar o sulla spiaggia si
voltarono al suo passaggio. Soprattutto gli uomini, affascinati
dall’apparizione fuggevole di quella ragazza bionda, slanciata nella tuta
attillata. Ipnotizzati dal movimento regolare delle sue lunghe gambe nude
come da quello perpetuo del pendolo di rame di un orologio. Marc adottò un
atteggiamento da bodyguard: sguardo da mosca a trecentosessanta gradi. Per
poco, correndo, non mise la mano sulla spalla di Lylie.
Nonostante fosse abituato agli sguardi concupiscenti che le lanciavano gli
uomini, era comunque geloso. Sfrecciarono lungo i cinquecento metri di
spiaggia di Pourville e si apprestarono ad affrontare la salita di Varengeville,
la più ripida, la più riparata dai venti dell’Ovest. Su quel versante nascosto
erano sorte le ville più belle, per ragioni di veduta e di clima. Quasi cento
metri di dislivello.
Lylie faticava un po’. Marc la seguiva, senza problemi. Osservava la valle
selvaggia della Scie, in lontananza, evitando di indugiare troppo a lungo con
lo sguardo davanti a sé. Le natiche di Lylie si muovevano all’altezza dei suoi
occhi, ondeggianti, saltellanti, vive.
Conturbanti. Lei se ne rendeva conto? Un’ultima svolta e finalmente la
costa terminò. Marc accelerò per affiancare Lylie. Corsero vicini. Lei girò la
testa sorridente. Radiosa.
Così bella.
Un’emozione cresceva dentro di lui. Non era nuova. Oh, no! Ma in quel
momento era più intensa, più potente che mai. La strada era pianeggiante, o
quasi, per quattro o cinque chilometri, fino al cimitero marino di
Varengeville, la loro meta. Varengeville era il comune più boscoso della
Costa d’Alabastro e l’ombra degli alberi fu la benvenuta. Superarono il
maniero di Ango e il parco floreale dei Moutiers, correndo sempre fianco a
fianco, incuranti delle macchine dietro di loro che faticavano a superarli.
A duecento metri dall’arrivo, Lylie fece finta di accelerare. Marc le lasciò
cinque metri di vantaggio. Non avrebbe dovuto... Le gocce di sudore
scivolavano sulla schiena nuda di Lylie. Pelle e perle. Come una gioiosa
fonte in cui Marc avrebbe solo desiderato tuffare le labbra.
Calmarsi. Doveva calmarsi.
Marc accelerò, superò Lylie ridendo e rallentò per affiancarla. Lei crollò
sul prato, sfinita. Lui distolse di nuovo lo sguardo dal suo corpo disteso,
offerto al sole.
Camminò fino al cancello del cimitero marino e lo spinse. Lylie lo
raggiunse qualche secondo dopo. Non erano soli, anzi. Una ventina di turisti
stavano visitando il minuscolo cimitero, cercando la tomba di Georges
Braque; in chiesa si mettevano in posa davanti alla vetrata che dava sul
sontuoso panorama. Dieppe. Criel. Le Tréport. Tutto il litorale fino alla
falesia morta, ad Ault, in Piccardia.
Quante coppie di innamorati sognavano di sposarsi lì? In quella graziosa
chiesa di arenaria sospesa in uno scrigno di verde, tra cielo e mare.
Anche Marc... Anche lui lo sognava?
Scacciò quegli stupidi pensieri.
«Torniamo?»
Sapeva che la falesia lì si stava ritirando più che altrove. Era tutto marcio,
sotto. Il gesso era intriso d’acqua. Friabile. Un giorno o l’altro sarebbe
crollato tutto in mare. La chiesa. Le tombe. Il calvario di arenaria.
In acqua, poi, sarebbero stati spazzati via in due giorni dalla marea.

Lylie aveva bevuto un sorso dal rubinetto all’ingresso del cimitero e si era già
rimessa in moto.
Marc la seguiva, docile.
Il flusso continuo di auto dei turisti gli sfilava davanti. Il bordo della strada
stretta era delimitato da una scarpata alberata meticolosamente curata; lì era
impossibile correre fianco a fianco. Marc era costretto a seguire il passo di
Lylie, rassegnandosi a contemplare la sua schiena bagnata di sudore, le
natiche tornite, la nuca vellutata cosparsa di peluria bionda.
Non doveva, però.
Perché?
“Perché?” gli urlava una voce in testa.
Non guardare più niente. Concentrarsi solo sul battito cardiaco, sulle
falcate. Non essere altro che meccanica senza emozioni.

Stavano già scendendo verso Pourville. I manieri della Belle Epoque si


susseguivano, rivaleggiando in fantasia barocca. Bruscamente Lylie svoltò a
sinistra in direzione della gola del Petit Ailly, una spiaggetta in fondo a una
valle quasi segreta, conosciuta soprattutto dalla gente del posto.
Probabilmente comunque molto frequentata il 16 agosto.
Marc la affiancò di nuovo. «Dove andiamo?»
Lo sguardo di Lylie scintillò. «Un capriccio! Chi mi ama mi segua!»
Svoltò ancora, stavolta a destra, inoltrandosi nella vegetazione. Non c’era
più il sentiero, ormai, solo una piccola foresta di salici. Duecento metri dopo
uscirono dal bosco e superarono un piccolo stagno alla loro destra. Dovevano
essere entrati nei terreni di una fattoria. Lylie attraversò il campo, allo
scoperto. A grandi falcate.
Ora si dirigevano verso il mare seguendo una discesa abbastanza ripida.
Lylie continuava la sua corsa. Sopra di loro, nel prato, le mucche li fissavano
tra lo stupito e l’impaurito.
Nessun fattore, invece. Lylie costeggiò una recinzione elettrificata.
Evidentemente conosceva la zona. Marc fece uno sforzo di concentrazione; le
mappe topografiche del sentiero litorale che aveva percorso spesso sfilarono
nella sua mente. Avevano deviato a nord della gola del Petit Ailly, avevano
quindi attraversato la fattoria del Pin-Brûlé, poi quella di Mordal. Marc non
aveva ormai più dubbi sulla loro destinazione: il porto di Mordal, di cui
conosceva l’esistenza solo dalle mappe. Era una di quelle piccole insenature
inaccessibili ai turisti, nascoste dagli altri accessi al mare. Una caletta privata
a uso esclusivo del proprietario dei terreni, che probabilmente non ci andava
mai neanche per bagnarsi la punta degli stivali.
Gli ultimi venti metri della valle prima di arrivare al mare erano franati.
L’argilla affiorava e colava in lingue color ocra verso l’acqua. Dovevano
superare una buca di dieci metri, non molto difficile da scavalcare, che
rendeva la spiaggia totalmente invisibile dal campo.
Lylie scivolò sull’argilla. Le lunghe gambe e la tuta che le aderiva al corpo
come una seconda pelle si tinsero di fango rosso. Riuscì a rimanere in piedi
sui ciottoli. Orgogliosa. Vittoriosa.
Marc l’aveva seguita senza difficoltà. Il mare cominciava leggermente a
ritirarsi, lasciando liberi tre metri buoni di sabbia oltre i ciottoli.
Lylie fece scivolare via il nastrino dai capelli, che ricaddero come una
cascata d’oro. Marc fu percorso da un brivido.
«Un colpo di testa!» fece Lylie con una smorfia incantevole, come per
farsi perdonare. «Ci facciamo un bagno?»
Marc non rispose. Sopraffatto. Inquieto. Sempre quel brutto
presentimento.
«Dài» insistette lei. «Sono sudata fradicia! Per una volta che c’è il sole. È
la giornata più bella dell’estate!»
Lylie aveva ragione. Da un punto di vista strettamente meteorologico, per
lo meno.
Il mare calmo. Il caldo. La sabbia. Il silenzio.
La loro intimità.
Come resistere?
Lylie, in ogni caso, non attese la risposta di Marc. Le scarpe da ginnastica
volarono sui sassi e lei si tuffò in acqua. Il suo completo da triathlon era
adatto per la corsa ma anche per il nuoto.
Marc aveva una T-shirt larga con i colori del Tolosa e un paio di
pantaloncini lunghi di tela. La maglia raggiunse le scarpe sui sassi. I
pantaloncini si sarebbero inzuppati. Pazienza.
Nuotarono per quasi un’ora. Diligentemente.
Marc cominciava a ritornare in sé. Il corpo di Lylie era nascosto
dall’acqua grigia della Manica. Alternavano rana e stile libero, fianco a
fianco, complici, felici.
Lylie aveva ragione, come sempre. Aveva ceduto a un capriccio delizioso.
Cosa si era immaginato?
Una trappola?
Era la sua mente perversa che lo aveva fatto fantasticare...

Un getto d’acqua inondò i suoi pensieri. Lylie scoppiò a ridere e lo schizzò


una seconda volta. Lui reagì. Lei protestò senza troppa convinzione, lasciò
che ripartisse e poi, con un agile colpo di reni, gli balzò sulla schiena e gli
spinse la testa sott’acqua. Marc non resistette, anche se lei non pesava molto.
Riemerse sputando l’acqua salata. Lylie aveva preso due metri di
vantaggio e rideva fragorosamente.
Marc le afferrò un piede.
Lei protestò, scherzosa: «Non vale!».
Lui la tirò verso di sé. Quando erano piccoli, avevano giocato così spesso
insieme nell’acqua saponata di una minuscola vasca da bagno. La mano
ferma di Marc cinse la vita di Lylie. Leggera come una piuma. Il tessuto che
le aderiva alle natiche gli sfiorò il torace.
«Stai barando...» Lylie rideva ancora.
Marc fece risalire la mano e le afferrò una spalla. Spinse dolcemente, solo
per farla affondare di qualche centimetro. Il seno di Lylie strusciò contro il
torace di Marc; il viso, con gli occhi chiusi, sfiorò il suo ventre.
Un altro metro sott’acqua.
Il viso si incollò al tessuto inzuppato dei pantaloncini di Marc. La bocca
toccò il sesso, quasi per caso.
Marc aveva un’erezione.
Poderosa.
Come poteva essere diversamente?

In lontananza, sul mare d’olio, un traghetto lasciava il porto di Dieppe,


direzione Newhaven. Qualche triangolo bianco si agitava sulla sua scia;
gabbiani, probabilmente, o piccole barche a vela, difficile stabilirlo a quella
distanza.
Lylie e Marc stavano in silenzio. Nuotarono lentamente verso la spiaggia.
La sabbia era quasi asciutta. Lylie si stese a pancia in giù.
«Mi asciugo un po’ prima di ripartire?»
Furono le sue uniche parole, dette in tono imbarazzato. La voce era
diversa, come se stesse mutando. Una voce da adulta. Marc rimase seduto,
rannicchiato, con le braccia attorno alle ginocchia piegate, a fissare
l’orizzonte.
Per quanto? Qualche minuto? Qualche ora?

Il traghetto era scomparso da tempo all’orizzonte, verso l’Inghilterra, e i


gabbiani, o le barche a vela, erano rientrati in porto. Il mare sembrava vuoto
come un deserto.
Lylie si alzò di scatto. Silenziosa. Marc distingueva solo la sua ombra
sulla sabbia. Lei incrociò le braccia e con un solo gesto si sfilò dalla testa il
top della tuta. Lo posò con delicatezza sulla sabbia, ben steso, come per farlo
asciugare. Quando si chinò, Marc non ebbe bisogno di girare la testa per
vedere spiccare sulla sabbia il profilo dei suoi seni, piccoli e sodi. Un’ombra
cinese, come quelli di una geisha.
Come se già non bastasse...
Lylie allungò le braccia lungo i fianchi. L’ombra ondeggiava, quasi come
se danzasse. Il tessuto scivolò lentamente, millimetro dopo millimetro. La sua
seconda pelle si stava staccando. Sì, stava mutando. L’indumento cadde sulla
sabbia.
Come pelle morta. Floscia. Inutile.
Marc contemplò l’ombra nera, immobile, pigmentata da milioni di granelli
chiari. Era uguale a qualche istante prima. Stessa vita, stesse gambe, stesse
cosce. Identica forma, con o senza seconda pelle.
Tuttavia...

Lylie tornò a stendersi sul ventre.


Marc aspettò ore. Minuti.
Nessuno venne in suo soccorso. Non c’erano vele all’orizzonte, né turisti
persi né fattori indispettiti.
Lylie sentì la mano calda di lui posarsi sui suoi reni. La sabbia attaccata al
palmo lo rendeva un po’ ruvido. Ebbe un fremito e si girò.
A chi altri poteva offrire i suoi diciotto anni?

Marc aprì gli occhi. Era madido di sudore. Attraverso il finestrino del treno,
una serie interminabile di piloni dell’alta tensione lo colpì in pieno volto.
Istintivamente si ritrasse.
Era un mostro?
Sentiva i venti grammi della busta blu del laboratorio pesare nella giacca.
Il test del DNA .
Erano dei mostri?
Aprirla. Sapere. Avere la prova...
La porta del vagone si spalancò ed entrò Malvina de Carville.
44

2 ottobre 1998, ore 17.49


L’acqua bollente scrosciava sul corpo nudo di Lylie. Lei teneva gli occhi
chiusi sotto il getto, cercando di ritrovare un minimo di serenità. Di calma,
almeno. Con la mano premette alla cieca il contenitore molle a forma di pera
del sapone antisettico. Si sfregò il corpo con foga: il seno, il ventre, il pube.
La crema bianca scivolava, lattiginosa, fino ai piedi. Poi si sciacquò, a lungo.
Voleva essere pulita, per quanto possibile. La facciata esterna, per lo meno.
Salvare le apparenze.
Finalmente uscì, avvolta in un grande telo di spugna bianco. I capelli
bagnati sgocciolavano sul tessuto. Asciugò lo specchio appannato con il
dorso della mano. Il suo riflesso sfocato la spaventò, come se il viso di una
sconosciuta avesse preso il posto del suo. La chimera dello specchio
scomparve di nuovo nel vapore. Lylie si lavò i denti, spazzolandoli forte,
troppo forte, fino a far sanguinare le gengive.
Poco prima aveva vomitato per strada, all’angolo di avenue de Choisy.
Aveva riversato sul marciapiede le sue viscere liquefatte. La vodka, lo scotch,
la tequila... Un giovane poliziotto l’aveva raccolta, carponi, sul bordo di un
tombino. Le aveva dato un Kleenex. Lei si era pulita, sempre piegata in due,
mentre una madre di famiglia faceva rotolare le ruote del passeggino nel suo
vomito. Il poliziotto avrebbe potuto sbatterla dentro. L’avrebbe fatto se lei
non lo avesse guardato con quei suoi occhi di cerbiatta, lucidi.
“È la prima volta, agente.”
Aveva funzionato. Per un pelo.
Si era liberata una seconda volta una mezz’ora prima, nella sua camera, ai
piedi del letto. Non aveva più niente da vomitare, a parte le budella. Le aveva
fatto un male cane.

Lylie uscì dal bagno.


La ragazza distesa sull’altro letto della stanza aspettava con palese
impazienza il suo ritorno. «Sono venute a pulire mentre ti facevi la doccia...»
Non aveva nemmeno sedici anni, capelli rossi tagliati a spazzola e denti già
ingialliti. «Sei fortunata, in un certo senso. Io trattengo tutto. Ho
l’impressione di marcire da dentro, a volte. La darei via gratis per poter
vomitare.»
Lylie non aveva la minima voglia di fare conversazione. Dentigialli se ne
fregava. Cercava un orecchio disponibile, nient’altro.
«È la seconda volta che vengo qui» continuò. «Sono una recidiva! Quindi
mi fanno un sacco di storie! Tre ore di morale, ieri. Mi costringono ad
aspettare, gli stronzi.»
Lylie si allontanò e guardò dalla finestra.
Dentigialli finì con l’offendersi. «Non tirartela. Vedrai, ci passerai anche
tu.»
Lylie osservava i giri di giostra delle ambulanze nel parcheggio. Aveva
vagato quasi un’ora per strada prima di entrare. Era arrivata perfino a seguire
il corteo funebre di uno sconosciuto. Dalla finestra scorgeva distintamente il
campanile della chiesa di Saint-Hippolyte, ma il cortile della piccola scuola
materna, lì accanto, era nascosto dagli edifici haussmaniani. Il rumore dei
veicoli sul viale copriva le grida dei bambini. A meno che non fossero
rientrati in classe o tornati a casa. Lylie aveva solo una vaga idea dell’ora. La
sua mente era una poltiglia, il suo corpo un martirio. Che cosa ci faceva lì?
Come sarebbe riuscita a tenere duro tutte quelle ore?
«Ero come te la prima volta...»
“Chiudi il becco!” urlò in silenzio Lylie.
Aveva lasciato il cellulare spento nella tasca della giacca, sull’attaccapanni
in bagno. In quel momento però aveva un solo desiderio, irresistibile:
chiamare Marc! Che venisse. Che la abbracciasse, che la proteggesse, come
sempre, come nel cortile della scuola, che mandasse via i cattivi.
Che fosse lì, semplicemente.
Le bastava accendere il telefono. Marc sarebbe arrivato in tempo.
Ovunque fosse.
Dentigialli non mollava l’osso. «Non devi avere rimorsi, sai. Fregatene di
quello che possono pensare tutti ’sti coglioni. Cercheranno di farti sentire in
colpa. Sbattitene!»
«Grazie» rispose Lylie a fatica.
Non poteva fare di meglio. Fissava il grande cedro davanti a sé cercando
un uccello, un qualche segno di vita. Invano.
No, Marc non sarebbe venuto. Non lo avrebbe chiamato. Né lui né nessun
altro potevano rintracciarla. L’anonimato era il minimo che si potesse
pretendere in quel posto. No, non lo avrebbe chiamato. Malgrado il suo
desiderio imperioso, malgrado il ventre a pezzi e la bile che saliva ancora in
gola, doveva tenerlo fuori da quella storia.
Almeno fino al giorno dopo.

Lylie si girò verso Dentigialli. C’era almeno una cosa che quella ragazza
poteva fare per lei. Abbozzò una sorta di sorriso. «Hai una cicca?»
Lylie non ebbe mai la risposta. La porta si aprì. Un’infermiera col fisico
da guardia carceraria entrò nella stanza.
«Signorina Emilie Vitral?»
«Sì?»
«Venga. Lo psichiatra la aspetta.»
45

2 ottobre 1998, ore 17.57


Malvina de Carville fissò Marc con il suo inimitabile sorriso da ragazzina
perversa di buona famiglia; una serial killer immaginata dalla contessa di
Ségur. Si accomodò sul primo sedile del vagone, dirimpetto a quello
occupato da lui.
Il paesaggio monotono della regione di Caux scorreva dietro i finestrini.
Marc rimase immobile. Malvina doveva sicuramente avere il Mauser a
portata di mano. La cosa più ragionevole da fare era aspettare. In quel
momento voleva innanzitutto finire di leggere il quaderno di Grand-Duc. Gli
restavano solo cinque pagine.
Represse un brivido. Gli tornò alla mente l’immagine conturbante di Lylie
sulla spiaggia di Morval, seguita dall’elenco degli ospedali. Era importante
non perdere la concentrazione. Doveva leggere quelle ultime pagine tenendo
d’occhio Malvina... e approfittare della prima occasione utile per disarmare
quella pazza.

Diario di Crédule Grand-Duc


So a cosa state pensando. Avete contato le pagine che mancano! Cominciate
ad andare nel panico. Reclamate la soluzione. Vi avevo avvisati, però, di non
aspettarvi un lieto fine, un colpo di scena conclusivo, l’indice di Hercule
Poirot che designa il vero colpevole all’ultimissima riga.
Lo so, non è più la mia psicologia da strapazzo che vi interessa. Ne avete
avuto abbastanza. Facciamola finita con i metodi di zio Grand-Duc, con le
interminabili descrizioni degli stati d’animo e gli indizi inafferrabili; avete
ascoltato da bravi il mio racconto, ma adesso vi interessa una sola cosa: il test
del DNA ! La Scienza con la S maiuscola. Il miracolo della genetica. State
tranquilli, ci arrivo, a quel benedetto test del DNA . Niente panico. È stato il
regalo di compleanno di Lylie: tre gocce di sangue per i suoi quindici anni.
Perdonatemi, ma prima resta qualche piccolo dettaglio da chiarire. Io e
Nazim continuammo a braccare, ostinati, il famigerato Georges Pelletier,
senzatetto drogato che forse andava in giro con un braccialetto da
settantacinquemila franchi in tasca.
Alla fine fu Nazim a trovarlo, quasi per caso. Da diversi mesi cercavamo
di stilare un inventario dei barboni e degli altri disperati della strada trovati
morti, accidentalmente o no. Quel giorno, in un mattino di nebbia del luglio
del 1993, Nazim mostrò la foto a un vigile di Le Havre, nel quartiere delle
Neiges, una periferia bizzarra incuneata tra i magazzini del porto. L’agente se
lo ricordava vagamente. Consultammo alcuni archivi al commissariato in cui
c’era un fascicolo.
Il 23 gennaio 1991 un uomo non identificato era stato ritrovato annegato
nel bacino petroli. Le temperature scendevano sottozero da una settimana e
l’uomo non doveva essere sopravvissuto più di cinque minuti nell’acqua
ghiacciata, anche se aveva più di duecento grammi di alcol nel sangue.
Addosso non aveva documenti d’identità, ma i poliziotti avevano scattato una
fotografia al cadavere. Nessun dubbio, era proprio Georges Pelletier, steso su
una coperta tutta bucata. Nulla in mano, nulla nelle tasche. Né testamento né
guinzaglio del cane... né braccialetto.
Il muro in fondo al vicolo cieco.
Informai io stesso il fratello Augustin, che sembrò quasi sollevato. La sua
ricerca personale si concludeva lì. Poteva voltare pagina. Io no.
Quel bastardo di Georges Pelletier era volato via in inverno con il suo
segreto. Cosa cavolo aveva fatto, quella sera, sul Mont Terrible? Cosa aveva
visto?

Malvina stava chiudendo gli occhi.


Il paesaggio ondulato della regione di Caux sembrava cullarla.
“Non è abituata ai viaggi lunghi, la ragazzina” pensò Marc.
Alternava la lettura del quaderno di Grand-Duc e la sorveglianza di
Malvina, in fondo allo scompartimento. Da alcuni minuti lei lottava contro il
sonno; si assopiva un breve istante, poi si svegliava bruscamente, muovendo
gli occhi spiritati alla ricerca di Marc. Adesso però aveva abbassato le
palpebre da più di trenta secondi.
Marc si decise. Si alzò senza far rumore e avanzò in punta di piedi. Meno
di venti metri lo separavano dalla ragazza. Malvina non doveva aprire gli
occhi, non ora...
Aveva già percorso più di dieci metri e la testa di Malvina era sempre
inclinata, immobile, sul lato del sedile blu e giallo, con il sorriso quasi
angelico di una ragazzina esausta per essersi divertita troppo. Marc continuò
ad avvicinarsi. Si rivedeva bambino, al centro ricreativo di Dieppe, quando
giocava al “re del silenzio”: senza farsi toccare dagli artigli di un drago cieco,
un amichetto con gli occhi bendati, doveva liberare la sua principessa legata a
una sedia. Lylie, naturalmente.
Ancora cinque metri. Il treno si inclinò leggermente a destra. La testa di
Malvina si mosse di qualche centimetro. Marc si immobilizzò trattenendo il
respiro.
Malvina aprì gli occhi e li puntò dritto su di lui. Due biglie scure scagliate
con la fionda.
Non ebbe però il tempo di fare un solo gesto perché gli ottanta chili di
Marc si abbatterono su di lei. Si era tuffato, senza riflettere, fidandosi del suo
istinto da tre quarti ala. Con la mano destra le tappò la bocca, mentre con la
sola sinistra le bloccò entrambe le braccia. Malvina si dovette accontentare di
lanciargli un’occhiata con i suoi occhi tondi e di agitare freneticamente i
piedi. Nel vagone, gli altri due passeggeri, l’adolescente con il walkman e il
tizio addormentato, non si erano mossi di un millimetro.
Marc spinse Malvina contro il finestrino tenendola ferma. Una vecchia
borsa da nonna in falso coccodrillo verde era poggiata accanto a lei. Marc
aveva in testa un piano semplice: prenderle il revolver. Dopo avrebbero
potuto discutere. Tenne la mano destra a mo’ di bavaglio, premette il proprio
corpo contro il suo per impedirle qualsiasi movimento e frugò nella borsa con
la sinistra.
Gli bastò qualche secondo per tirare fuori il Mauser L100. Gli occhi di
Malvina lo fucilarono. Marc le puntò addosso l’arma, poi le tolse lentamente
la mano dalla bocca.
«Avevi voglia di visitare Dieppe?»
Malvina fece una smorfia. «Sì. Sono una fanatica di aquiloni. Pare che
Dieppe, questo weekend, sia La Mecca.»
«Hai una risposta a tutto tu, eh?»
«Dipende dalle domande. Cosa fai se mi metto a urlare?»
«Ti sparo.»
«Non credo proprio. Non vorrai mica mettere le mani addosso alla tua cara
cognatina?»
«Chissà... Sono un Vitral. Un cattivo...»
Malvina sospirò. Evidentemente non aveva intenzione di attirare
l’attenzione su di loro.
«Lo sapevi che questo è l’ultimo treno della sera, Malvina? Pensi di
dormire a Dieppe?»
«Chissà... Sono una de Carville, io. Ho i soldi...»
«Con o senza soldi, ti avviso, se mia nonna Nicole ti incrocia, finirai prima
fatta a pezzi e poi divorata dai gabbiani.»
«Quando la pianti col tuo umorismo squallido?»
Marc si raddrizzò di qualche centimetro. La sicurezza di Malvina lo
irritava. Doveva strapparle quella spocchiosa lingua lunga. Doveva farla
scoppiare e costringerla a parlare! Come quando si tiene testa a una ragazza
con un caratteraccio, aggredendola con le sue stesse armi finché crolla. La
mano libera di Marc si posò sulla coscia di Malvina. Lei si ritrasse e sbatté la
testa contro il vetro.
«Volevi che ti ospitassimo noi, eh... Contavi di dormire in camera mia,
magari?» La mano risalì. Vendetta meschina. Marc se ne fregava. «Spiacente,
mia cara, ma stasera sono indisposto alle palle, non so se hai capito cosa
intendo...»
«Se non la pianti mi metto a urlare...»
La mano di Marc si posò sulla maglia color malva di Malvina, appena
sotto il seno. «Sai che non saresti troppo brutta se ti vestissi bene?»
«Levami le zampe di dosso...» Il timbro della voce di Malvina sembrò
incrinarsi, come un muro di cemento che si crepa.
Marc insistette. «Più sexy, intendo. Avresti delle curve niente male. Due
belle tettine...» Posò la mano su una delle piccole protuberanze che
gonfiavano la parte superiore della maglia. Sentì il cuore di Malvina in
subbuglio. «E poi hai i mezzi per fartene fare un paio più grosse. No?»
Il cuore accelerò. Le dita di Malvina si contrassero sul braccio destro di
Marc: dieci moncherini inoffensivi, incapaci di graffiarlo. Corrosi a sangue.
Lui si chinò. La sua bocca le ansimò sul collo. Sentì il corpo di Malvina
irrigidirsi per alcuni secondi, le dita stringersi convulsamente, il corpo magro
trasformarsi in un tronco d’albero morto. Poi lei cedette, di colpo, come se il
suo scheletro si fosse sciolto.
Marc spostò la mano e le sussurrò all’orecchio: «Non toccarmi mai più,
Malvina! Hai capito? Mai più». La porta del vagone si aprì di scatto ed entrò
un controllore. Una donna piuttosto giovane. Passò davanti a loro senza
fermarsi. Lanciò solo una rapida occhiata ai due corpi avvinghiati. Fece un
sorriso e scomparve nel vagone successivo.
Marc allentò ancora la stretta e puntò il Mauser sulla sua prigioniera.
«Basta giocare. Che cosa ci fai qui?»
«Vaffanculo...»
Marc sorrise. «Sei ridicola, Malvina. Dovrei avere paura di te e invece mi
viene voglia di farti la morale, come a una sorellina.»
«Sono più grande di te, coglione!»
«Lo so. Strano, no? Tutti ti descrivono come una pazza pericolosa. Ma io
non riesco a crederci.»
«Tutti chi? Grand-Duc?»
«Anche, sì...»
«Se stai a sentire quello che racconta...»
Malvina riprese un po’ di coraggio. Marc non doveva lasciarsi ingannare
da quella strana fiducia che gli ispirava. La tenne sotto tiro.
«Sicuramente adesso non potrà dire più niente di male su di te. Un
proiettile dritto al cuore... Era perché ti odiava che lo hai fatto fuori?»
Per la seconda volta in meno di un minuto il corpo di Malvina sembrò
liquefarsi. Spalancò gli occhi come se fossero biglie marroni, quasi
commoventi. «Che cavolo dici, Vitral? Io... io non l’ho ucciso, Grand-Duc...»
La sua voce riprese una parvenza di sicurezza. «Mi sarebbe piaciuto eccome,
sai. Ma il lavoro era già stato fatto quando sono arrivata da lui...»
«Non prendermi per fesso! Il suo cadavere mi è caduto addosso. La tua
Mini era parcheggiata davanti a casa sua.»
Le pupille di Malvina si dilatarono. I suoi occhi scuri si agitavano come
due mosche impazzite in un barattolo. «Era già morto quando sono arrivata.
Te lo giuro! Sono entrata da Grand-Duc al massimo due ore prima di te. Era
già freddo. Come le braci del camino in cui era ficcata la sua testa.»
Marc si morse le labbra. “Sta dicendo la verità” pensò. Grand-Duc era
morto da diverse ore quando lo aveva trovato. Malvina sembrava sincera, la
sua versione era plausibile. Era così stupido da fidarsi delle dichiarazioni di
quella pazza nonostante le apparenze? Chi aveva ucciso Crédule Grand-Duc,
allora? L’immagine di Lylie passò davanti ai suoi occhi. «Perché dovrei
crederti?»
«Me ne fotto che tu mi creda o no...»
«Okay. Cosa ci facevi, allora, da Grand-Duc?»
«Sono un’appassionata di libellule. Volevo ammirare la sua collezione.
Anche tu, no?»
Marc sorrise d’istinto, facendo però attenzione a mantenere il Mauser alla
dovuta distanza.
Malvina fece un altro affondo. «Vitral, forse sei stato tu a ucciderlo,
Grand-Duc, dopotutto. Sono le tue impronte quelle che troveranno i
poliziotti, non le mie.»
“Non è poi così matta, la stronzetta!” Marc, interdetto, bofonchiò: «Sai...
sai cos’è successo? Grand-Duc doveva suicidarsi, stando al suo quaderno. Un
proiettile in testa sopra un vecchio giornale...».
«No...» Malvina esitò un istante, giusto il tempo di seguire tre piloni
elettrici sfilare fuori dal finestrino. «Quel coglione evidentemente non sapeva
prendere la mira» concluse.
Mentiva! Su questo punto, almeno, mentiva! Grand-Duc aveva contattato i
de Carville prima di essere assassinato? Aveva rivelato loro qualcosa che non
aveva scritto nel quaderno?
«Grand-Duc aveva scoperto qualcosa!» quasi gridò Marc. «Sicuramente lo
ha detto a tua nonna. Cosa vi ha raccontato?»
«Piuttosto crepo!»
Era quasi una confessione. Malvina incrociò le braccia e girò la testa verso
il finestrino, come a significare che non avrebbe detto nient’altro. Il vetro era
abbassato di dieci centimetri e un leggero vento le agitava i pochi capelli che
sfuggivano dal fermaglio lucido. Gli occhi di Marc si posarono sulla borsa.
«D’accordo» sbottò. «Se non vuoi dirmi niente, mi servirò da solo.» Fece
scivolare la mano libera nella borsa.
«Non toccarla, Vitral!» Malvina si piegò come una molla. Con furia sbatté
la mascella sul polso che teneva il Mauser, a bocca aperta, cercando di
strappargli le vene con i denti.
Marc stese il braccio libero, con il palmo colpì il petto della ragazza e la
spinse violentemente contro il sedile.
«Stronzo» sibilò Malvina aggrappandosi al suo braccio.
I piedini mitragliavano di colpi le ginocchia di Marc. Lui era indeciso se
metterla al tappeto una volta per tutte, poi rinunciò. Si accontentò di tenerla a
distanza con il braccio. Malvina si aggrappò alla sua giacca cercando di
pizzicarlo, di tirarlo, di strappare quello che poteva, con tutte le forze che le
restavano.
Non erano sufficienti contro Marc. Era una lotta impari. Le dita mollarono
la presa. Si ritrovò di nuovo spinta in fondo al sedile, la testa contro il
finestrino.

Marc sospirò. Malvina nascose sotto i lunghi capelli spettinati un sorriso di


giubilo. Nella colluttazione, una busta blu gli era caduta dalla tasca
scivolando sotto il sedile senza che lui se ne accorgesse. Doveva solo
aspettare di essere da sola per recuperarla. Forse non era niente di che: i voti
del semestre, una bolletta del telefono... O magari si trattava di
qualcos’altro...
Marc aveva aperto la borsa di coccodrillo.
La busta poteva aspettare, pensò Malvina, quel figlio di puttana non
avrebbe di certo osato...
«Non farlo, Vitral!» Stava andando su tutte le furie e si sentiva impotente.
«Fuochino? Cosa nascondi qua dentro, furbetta?» Marc scandagliò alla
cieca il contenuto della borsa: un mazzo di chiavi, un telefono, un rossetto, un
portamonete, anch’esso in finto coccodrillo, una penna d’argento,
un’agendina...
Le mani di Malvina presero a tremare come se lei non le controllasse più.
Fuoco! Era l’agenda che la rendeva isterica. A dire il vero non si trattava
di una vera e propria agenda, quanto piuttosto di un quadernetto di circa sette
centimetri per dieci. Marc aveva già indovinato il motivo del terrore di
Malvina: un diario segreto, o qualcosa del genere.
«Vitral, se lo apri... sei morto.»
«Sputa il rospo allora. Cosa sai su Grand-Duc?»
«Sei morto! Te lo giuro...»
«Peggio per te.»
Marc sfogliò il quadernetto con una mano. I fogli si presentavano quasi
tutti nello stesso modo: Malvina aveva illustrato le pagine di sinistra con
disegni, foto o collage e aveva scritto tre righe sulle pagine di destra con una
minuta grafia infantile. Tre brevi righe, come brevi poesie.
Probabilmente lui era il primo ad aprire quel quaderno, a maggior ragione
a leggerlo. Si premurò di continuare a puntare il Mauser contro Malvina. Lei
sembrava aspettare la minima distrazione da parte sua per afferrarlo alla gola.
Marc si fermò su una pagina a caso. A sinistra era incollata l’immaginetta di
un crocifisso. Sul corpo nudo di Cristo, la testa coronata di spine era stata
sostituita da quella di un giovane dagli occhi di brace, probabilmente una star
della TV che lui non conosceva. Lesse a bassa voce le tre righe a destra.

Massaggiare le tue curve, con il mio rosario


Toccare il tuo corpo, sulla sua croce
Offrirmi a te

«Guarda, guarda» commentò Marc con voce stridente. «Ecco a cosa pensi
durante la messa quando guardi Gesù bambino...»
«Sei troppo cretino per arrivarci!» ringhiò Malvina. «Sono haiku. Poesie
giapponesi. Non capisci niente!»
«E tua nonna? Anche lei è troppo cretina? Potrei mandarle un SMS ...»
Malvina aggrottò le sopracciglia, come una bambina colta in fallo.
Marc insistette. «Allora? Parla, o continuo. Cosa sai su Grand-Duc?»
«Fottiti...»
Le dita di Marc strapparono la piccola pagina del quaderno, la
appallottolarono e la lanciarono dal finestrino socchiuso. «Hai ragione. Sarò
sincero, quella faceva veramente schifo. Proviamo con un’altra pagina? Dài,
giochiamo un po’. Io ti faccio una domanda e se non rispondi leggo una
pagina. Se non mi piace ci faccio una pallina; se mi piace mando un SMS alla
nonna de Carville.» Fece scivolare le pagine tra le dita lasciandosi scappare
una risata rumorosa. Troppo rumorosa. Tentava di darsi una sicurezza di
facciata ma si sentiva sempre più a disagio nella veste di ladro di intimità.
Malvina si raggomitolò sul fondo del sedile, come fosse un passerotto
indifeso. Ogni pagina che lui strappava era come la piuma estirpata da un’ala.
Le pagine scorrevano. Marc si fermò sulla foto di un aereo, un Airbus,
ritagliato con cura e posizionato nel focolare di un caminetto.

Uccello di ferro
Angelo dell’inferno
Mia carne

«Carina, questa» commentò Marc. Una bolla gli cresceva in gola,


impedendogli di deglutire. Non voleva far trasparire nulla. «Tranne l’ultima
riga: “Mia carne”. Avresti dovuto almeno aggiungere un punto di domanda,
mia cara Malvina. Via, pallina!»
I due fogli finirono fuori dal finestrino del treno. Malvina tremava.
«Allora, sempre niente da dire, Malvina?» insistette Marc. «Cosa ci facevi
da Grand-Duc?»
«Vai a farti fottere!»
«Come vuoi...»
Marc sfogliò le pagine e si fermò sull’immagine di una camera di
bambina, probabilmente ritagliata con cura da un catalogo di arredamento.
Sul lato destro Malvina aveva incollato una fotografia di Banjo, l’enorme
orso di peluche marrone e giallo. In mezzo alla stanza, sul letto, era stata
aggiunta una seconda foto, di Lylie, naturalmente. Era seduta a gambe
incrociate, doveva avere otto o nove anni. Un’altra fotografia rubata da
Grand-Duc...
Marc si sforzò di leggere in tono neutro. La gola gli bruciava.

Giocattoli dimenticati
Mi sei mancata
Abbandonata?

«Stronzo di un Vitral» sibilò Malvina. «E dire che ti ho mostrato la camera


di Lyse-Rose...»
«Sto aspettando.»
Malvina gli mostrò il dito medio.
Pallina. Finestrino.
Marc cercò tra i fogli con più attenzione. Doveva violare il diario, ancora
più a fondo. Le sue dita si fermarono su una pagina, verso la fine. A destra
c’era una fotografia sua e di Lylie. Era facile da datare: 10 luglio 1998, meno
di tre mesi prima. Lylie aveva appena saputo i risultati del diploma. Giudizio:
buono. Lei e Marc che si abbracciavano davanti al lungomare di Dieppe.
Marc sorrise tra sé. E così Crédule Grand-Duc e Nazim Ozan avevano
giocato ai paparazzi. Ci poteva stare! In fondo erano sempre sotto contratto,
pagati dai de Carville. Grand-Duc non ne aveva fatto mistero, peraltro, nel
suo diario. Solo che Malvina Mani-di-Fata si era divertita con il découpage.
Nell’immagine incollata sull’agenda Marc abbracciava il corpo perfetto di
Lylie sul quale era incollata la testa della stessa Malvina. Un fotomontaggio
scadente. La testa striminzita, come rimpicciolita dai jívaros, era posata su un
corpo da dea.
Marc lesse con voce monocorde.

Covare i tuoi amanti con gli occhi


Gemere, stringere i tuoi innamorati
Sola, gioco delizioso

Malvina chiuse gli occhi. Era solo un topolino intrappolato, senza una tana
dove rifugiarsi. Marc lottava contro l’impulso di ridarle il quaderno, alzarsi,
lasciarla lì, andarsene. Lei non era che una vittima, triturata dall’immensa
carambola della catastrofe del Mont Terrible. Smarrita, distrutta.
Come lui.
Un ragazzino che alzandosi una mattina aveva visto un mostro allo
specchio. Un bambino annegato in un fango sordido di sentimenti proibiti.
Marc si sentì tuttavia pronunciare parole più letali delle pallottole del Mauser
che continuava a tenere puntato. «Questa la teniamo, Malvina? Oppure la
mando a tua nonna?»
Lei, con lo sguardo perso nell’immensità dei campi di mais della regione
di Caux, si torceva le dita come se cercasse di staccarne uno.
Marc affondò ancora di più il coltello. La sua gola era un deserto arido.
«Oppure la posso mostrare a Lylie. Credo che la divertirà parecchio!» Iniziò
a strappare la pagina.
Malvina aprì gli occhi e parlò, con una strana lentezza. «Grand-Duc
l’altroieri ha telefonato a mia nonna. Le ha detto che aveva scoperto qualcosa.
La soluzione di tutto il caso, a quanto sosteneva. Così, a mezzanotte meno
cinque, l’ultimo giorno! Proprio nel momento in cui si doveva sparare un
colpo in testa sopra l’edizione de “L’Est Républicain” del 23 dicembre 1980!
Aveva bisogno ancora di un paio giorni per raccogliere le prove, ma
affermava di essere sicuro, aveva risolto il mistero. Gli servivano anche altri
centocinquantamila franchi...»
Marc chiuse piano il quaderno. «Come lo sai?»
«Ho ascoltato, su un altro telefono. So rendermi invisibile. Sono piuttosto
dotata in questo senso.»
«Tua nonna gli ha creduto?»
«Non ne ho idea. Nel dubbio, ha accettato di pagare comunque. Lei se ne
sbatte dei soldi, in fondo. Grand-Duc l’ha menata per il naso per diciotto
anni. Un giorno in più o uno in meno...»
«E tu?»
«Io cosa?»
«Tu hai creduto a Grand-Duc?»
Sul viso di Malvina si dipinse un’espressione di incredulità. «Perché, tu lo
trovi credibile? Trovare così la soluzione, con un colpo di bacchetta magica,
proprio prima dello scoccare della mezzanotte. Pensi che stia in piedi?»
Marc non rispose. Dal finestrino, i meleti della valle della Scie seguivano i
campi di mais.
Malvina si voltò verso di lui e continuò a parlare a voce bassa. «Sono
andata a cercare Grand-Duc per dirgli di smetterla di romperci le palle. Era
tutto finito, Lyse-Rose aveva diciotto anni, l’età per decidere da sola. Tu hai
letto tutta l’indagine, ma anch’io conosco i dettagli. Il braccialetto, il
pianoforte, l’anello... Non c’è storia! L’hai detto anche tu prima, alla
Roseraie: è Lyse-Rose la sopravvissuta. Emilie è bruciata nell’aereo diciotto
anni fa. Potrai riferire questo a tua nonna. È ciò che pensi, vero? È ciò che
pensa anche lei, no?»
Sì, era quello che pensava Marc. Malvina aveva ragione su tutta la linea.
«Se non sei stata tu, sai chi ha ucciso Grand-Duc?» chiese Marc.
«Non ne ho idea. E non me ne frega niente.»
«Tua nonna? Per non pagare?»
Malvina sghignazzò. «Centocinquantamila franchi? Trova un’altra
scusa...»
Marc incassò e le rivolse un’altra domanda. «Grand-Duc ha detto a tua
nonna dove pensava di trovare le ultime prove?»
«Sì. Ha raccontato che sarebbe andato nel Giura. In un rifugio, sul Doubs,
vicino al Mont Terrible. Era lì che mia nonna doveva mandargli il resto dei
soldi.»
Nel Giura? Il suo famoso pellegrinaggio? In ottobre? Per quale dannata
ragione?
«Cosa andava a fare laggiù?» indagò Marc. «A cercare le prove promesse
a tua nonna?»
«Ci prendeva per il culo e basta.»
Marc non replicò. Si alzò, ripose cautamente il Mauser nella tasca della
giacca, poi porse il quadernetto a Malvina. «Nessun rancore, allora?»
«Vaffanculo!»
46

2 ottobre 1998, ore 18.10


Marc tornò al suo posto passando in silenzio davanti all’adolescente con le
cuffie sempre inchiodate alle orecchie e al tizio addormentato, che aveva
spinto le sue Dr. Martens sotto il sedile. Il Rouen-Dieppe attraversava
Longueville-sur-Scie e gli ultimi meleti scomparivano nuovamente in un
oceano giallo di mais e colza. Sarebbe arrivato a Dieppe di lì a meno di un
quarto d’ora.
Si sedette e bevve con avidità più di metà bottiglia di San Pellegrino.
Tastò la tasca in cui teneva il Mauser, poi lanciò uno sguardo verso il fondo
dello scompartimento. Malvina, prostrata, non si era mossa. Marc estrasse
febbrilmente il quaderno di Grand-Duc. Aveva deciso di finire la lettura d’un
fiato. Restavano meno di cinque pagine. Andava tutto troppo veloce. Se non
voleva diventare pazzo, doveva salire uno per volta i gradini della scala a
chiocciola infernale, con quanta più calma possibile, anche se non sapeva
dove lo avrebbe portato quella montagna di misteri. Quando avrebbe richiuso
il quaderno, sarebbe stato il momento di riflettere sulle rivelazioni di
Malvina, quell’ultimo colpo di scena che Grand-Duc aveva estratto dal
cappello prima di essere condannato definitivamente al silenzio.

Diario di Crédule Grand-Duc


Mathilde de Carville avanzò la sua richiesta in modo molto semplice, nel
corso dell’anno 1995: confrontare il DNA della piccola Lylie Vitral con quello
di tutta la discendenza dei de Carville. Avevo contatti nella polizia scientifica
e lei sapeva anche che ero diventato intimo dei Vitral. Mettetevi al mio posto.
Come rifiutare? Però non era mica facile, potete immaginarlo, essere accolto
la sera dai Vitral come un amico di famiglia e l’indomani andare a raccontare
tutto ai de Carville. Tenevo il piede in due scarpe. Ma sorvoliamo. Anche in
questo caso ve ne fregate dei miei stati d’animo da spia depressa e avete
perfettamente ragione!
Da un punto di vista puramente tecnico, non avevo certo intenzione di
presentarmi con una torta di compleanno chiedendo un campione di sangue di
Emilie Vitral. Lo stratagemma che architettai era abbastanza prevedibile, lo
ammetto: regalai a Lylie un vaso soliflore incrinato che si sarebbe
sicuramente rotto fra le sue dita. Funzionò alla perfezione. Il vaso esplose
appena lei lo prese tra il pollice e l’indice. Mortificato, raccolsi i pezzi di
vetro insanguinati e li gettai nell’immondizia, infilandone però prima
qualcuno in un sacchetto di plastica che cacciai in fondo a una tasca.
Un gioco da ragazzi. Come se niente fosse.

Ricevetti il risultato dal laboratorio qualche giorno dopo. Se vi dicessi che


provavo rimorso, ve ne infischiereste comunque. Ma questo spiega perché ne
chiesi due copie al mio contatto del laboratorio scientifico. Una sola analisi.
Due buste. Una per Mathilde de Carville, una per Nicole Vitral. Consegnai
personalmente a entrambe la busta blu.
Pari.
Così, da tre anni, loro sanno la verità. La scienza ha parlato.
Ecco fatto! Potrei fermarmi qui, al punto in cui ho sganciato le buste alle
due famiglie. Ciao, nonnine. Adesso arrangiatevi!
Ma non sono un santo. No, ovvio che no, e non ho resistito alla tentazione.
Sì, l’ho letto quel referto. Cazzo! Quindici anni d’indagini senza nessuna
certezza. Mi ci sono fiondato sopra come un ergastolano che dopo quindici
anni di galera si butta a capofitto su una prostituta.
La metafora è giusta. Un risultato del cazzo.
Dire che mi ha sorpreso sarebbe, nel gergo dei colti, un eufemismo. Ho
sbattuto il culo per terra, ecco. Come se qualcuno lassù, Dio o la Vergine del
Mont Terrible, continuasse a prenderci per i fondelli.
È stato quel referto, credo, che mi ha fatto sprofondare una volta per tutte
nella depressione, che mi ha fatto rotolare inesorabilmente verso il fondo,
verso il baratro. Un risultato assurdo, risibile, che poteva indurmi a gettare
tutti quegli anni di ricerche in un rogo, e a gettarmici anch’io per non essere
riuscito a trovare la strega nascosta dietro questa storia.

Nonostante tutto, dal 1995 ho continuato a essere leale, come un vecchio


cane poliziotto fedele. Portai avanti l’indagine a fatica. Al rallentatore. Nazim
aveva mollato da un po’ di tempo. Faceva diversi lavoretti in nero e qualche
volta aiutava Ayla al chiosco del kebab, in boulevard Raspail.

Nel dicembre del 1997 ho intrapreso il mio ultimo pellegrinaggio al Mont


Terrible. Vi svelo adesso il tassello finale del puzzle. Non il meno
sconcertante. Giudicherete voi.
Mi misi dunque in viaggio verso il Giura. Contavo di gustare fino in fondo
i miei piaceri, per l’ultima volta: la cancoillotte, il comté stagionato e il vino
d’Arbois di Monique Genevez. Di camminare sugli ultimi fili d’erba, di
afferrare gli ultimi ramoscelli, prima del tuffo finale. Il mio pellegrinaggio, la
mia Lourdes personale. Il miracolo agognato che non si realizza mai.
L’idea mi venne durante la notte, nel rifugio, vai a capire perché.
Probabilmente mi ci voleva una bottiglia di vino bianco per avere un po’ di
immaginazione. Mathilde de Carville aveva avuto ragione a darmi diciotto
anni per indagare. A quanto pare sono piuttosto lento di comprendonio e lei
lo aveva capito. La mattina dopo sono risalito sul Mont Terrible con una pala
e un grande sacco dell’immondizia. Ho scavato come un dannato accanto alla
capanna, nel punto esatto della tomba. Per un’ora. Dieci chili di terra! Senza
fare una cernita. Prendevo tutto ciò che mi capitava sotto la pala. Ho
trasportato quel carico sulle spalle come un forzato per due chilometri.
Arrivato al sentiero, Grégory, il bello del parco naturale, mi ha portato giù
con la jeep. Il giorno successivo ho imbrattato tutto il bagagliaio della mia
BMW con i dieci chili di terra e ho guidato fino a Rosny-sous-Bois per portarli
al mio amico della Scientifica.
Non serve dirvi che ha storto il naso.
Dieci chili di rifiuti da esaminare al microscopio! Per cercare cosa?
L’ultimo capriccio strampalato di un pazzo furioso?

Jérôme, l’amico in questione, che aveva sulle spalle il terzo marmocchio,


l’ultimo nato, e un mutuo ventennale per una casetta a Bondoufle, non esitò a
lungo dinanzi alla busta contenente una cifra pari a sei mesi del suo stipendio
da ricercatore nella polizia scientifica, equivalente a un quarto di quello di un
medico. Forse gli ci sarebbero volute parecchie ore, ma io me ne fottevo.
Mi richiamò meno di una settimana dopo.
«Crédule?»
«Sì?»
«Ho giocato a fare il giardiniere, come mi hai chiesto. Vuoi il pH,
l’humus, l’acidità del tuo terriccio del cazzo? Cosa intendi coltivarci, un orto
per quando sarai vecchio?»
«Stringi, Jérôme.»
«Okay. È terra, Crédule... solo terra.»
Quella breve esitazione mi aveva dato un po’ di speranza. Credulone fino
in fondo. «Nient’altro?»
«Sì, ma siamo nel micro-micro. Nulla di affidabile...»
«Spara.»
«Se proprio ci tieni... Nella terra ci sono dei resti di ossa. Particelle.
Polvere. Qualche grammo. È del tutto logico, in un bosco. La terra non è mai
solo compost, o solo l’accumulo di diversi elementi morti sopra...»
Dovevo insistere. Jérôme Larcher era il migliore nel suo campo. Uno
sveglio. Con la strumentazione più sofisticata di Francia a sua disposizione.
«Ossa di cosa, Jérôme?»
«Qualche grammo di ossa, ti ho detto, Crédule. A partire da qualche
grammo, scientificamente, non si può dire niente.»
«Okay, scientificamente. Ma tu cosa diresti?»
Jérôme Larcher esitò. «Quello che mi suggerisce l’intuito? È questo che
vuoi sapere? D’accordo, ma non lo metterò mai per iscritto, ti avviso.
Potrebbero essere ossa umane più che animali.»
Cazzo!
Ossa umane!
Dovevo torchiarlo ancora. Non aveva vuotato il sacco, lo sentivo. Era al
corrente dell’indagine su cui lavoravo da anni. «La datazione, Jérôme?»
«Impossibile... Non posso stabilire un range di meno di dieci anni, e non ti
sarà di nessun aiuto...»
«Mi riferisco all’età della persona sepolta, Jérôme, non all’anno della
sepoltura.»
Lui rimase a lungo in silenzio. Intuii che il seguito non mi sarebbe
piaciuto. «Crédule» rispose alla fine «qui siamo veramente nel campo della
soggettività. Improvvisazione totale...»
«Risparmiami i preamboli, Jérôme.»
«Okay, okay. Secondo me sono frammenti di ossa di un essere umano
piuttosto giovane...»
Gocce di sudore ghiacciato mi scesero lungo la schiena. «Quanto
giovane?»
«Be’...»
«Un bambino?»
«Ci sei quasi, Crédule.»
Il mio cranio era serrato in una morsa e ogni nuova parola era come un
giro di vite in più. «Cosa vuoi dire, Jérôme? Un neonato? Dei cazzo di
frammenti di ossa di neonato?»
«Mi sto buttando. Te l’ho detto, affidabilità zero. Ma è proprio quello che
direi... Frammenti di ossa di neonato.»

Cazzo!

Cosa avreste fatto al mio posto, scoprendo tutto questo dopo diciotto anni
d’indagini? Francamente, cosa avreste fatto voi? A parte spararvi un colpo in
testa?

Gli ultimi otto mesi non contano, né gli ultimi dieci giorni passati a scrivere
questo quaderno. Ed eccoci qua. È il 29 settembre 1998. Mezzanotte meno
venti. Ogni cosa è in ordine. È finita. Lylie compirà diciotto anni fra qualche
minuto. Riporrò la penna davanti a me, mi sistemerò su questa scrivania,
stenderò “L’Est Républicain” del 23 dicembre 1980, la copia di quel giorno
maledetto, e con calma mi sparerò un colpo in testa. Il mio sangue si
mescolerà alla carta ingiallita di questo giornale. Ho fallito...
Lascio solo questo testamento. Per Lylie. Per chi vorrà.
Ho trascritto nel quaderno ogni indizio, ogni pista, ogni ipotesi. Diciotto
anni di indagini. Tutto è affidato a questo centinaio di pagine. Se le avete lette
con attenzione, ora ne sapete tanto quanto me. Forse voi sarete più
perspicaci? Forse seguirete un percorso che io ho trascurato? Forse troverete
la chiave, ammesso che ne esista una? Forse...
Perché no?
Per me è finita.
Dire che non ho rimpianti né rimorsi sarebbe esagerato, ma ho fatto del
mio meglio.

Le ultime parole. La pagina successiva era bianca.


Marc chiuse con estrema lentezza il quaderno di Grand-Duc. Svuotò in un
sorso la bottiglia di San Pellegrino. Il treno sarebbe entrato nella stazione di
Dieppe di lì a cinque minuti. Come per incanto, il tizio grasso si era svegliato
e l’adolescente stava mettendo via il walkman.
Marc aveva l’impressione che il suo cervello girasse a vuoto, come la
ruota di una bicicletta a cui è caduta la catena. Doveva prendersi del tempo
per riflettere. Doveva parlare a sua nonna Nicole, innanzitutto. Quindi lei era
in possesso del referto del test del DNA e sapeva da tre anni che Lylie non era
sua nipote. Era chiaro: in fondo regalando a Lylie lo zaffiro celeste lo aveva
anche ammesso.
La sopravvissuta era Lyse-Rose, non Emilie. Questa era l’unica certezza.
Quanto al resto...
Chi aveva scavato la tomba del Mont Terrible? Che cosa vi era stato
sepolto? Il braccialetto? Un cane? Un neonato? Quale neonato? Le domande
si rincorrevano nella sua mente arida. Grand-Duc non aveva trovato neanche
una risposta. Chi l’aveva ucciso? Per nascondere quale verità? Chi aveva
ucciso suo nonno?
Dov’era Lylie?
Un urlo ruppe il silenzio del vagone.
Un grido da pazza.
Malvina!
Marc si precipitò da lei prima che il tipo che si allacciava le Dr. Martens
avesse il tempo di reagire. Malvina stava raggomitolata in fondo al sedile,
con il corpo magro scosso dai tremiti. Una mano le penzolava, aperta, come
quella di una suicida che si è tagliata le vene.
Con lo sguardo implorò Marc, cercando disperatamente aiuto, come
un’alpinista che tende la mano al compagno qualche istante prima di
precipitare.
Marc abbassò gli occhi. Qualche centimetro sotto le dita irrigidite di
Malvina, una busta blu strappata e un foglio bianco giacevano sul sedile.
Lui capì. La busta doveva essergli scivolata fuori dalla tasca durante la
colluttazione. Malvina non era riuscita a resistere, l’aveva aperta e aveva letto
il referto del test del DNA ; lei ne era all’oscuro, sua nonna non le aveva mai
detto niente. Perché allora quella crisi di pazzia?
Marc afferrò nervosamente la lettera dattiloscritta con l’intestazione della
polizia scientifica nazionale di Rosny-sous-Bois. Il referto consisteva in sei
brevi righe.

RICERCA DEI LEGAMI DI PARENTELA

tra Emilie VITRAL (campione 1, lotto 95-233)


e Mathilde de CARVILLE (campione 2, lotto 95-234)

tra Emilie VITRAL (campione 1, lotto 95-233)


e Léonce de CARVILLE (campione 3, lotto 95-235)

tra Emilie VITRAL (campione 1, lotto 95-233)


e Malvina de CARVILLE (campione 4, lotto 95-236)

E, una riga sotto... il colpo di grazia:

Risultati negativi.
Nessun legame di parentela.
Percentuale di affidabilità 99,9687%.

Il foglio cadde dalle mani di Marc.


Lylie non aveva nessun legame di sangue con i de Carville.
Lyse-Rose era morta. Emilie era sopravvissuta; lei e Marc possedevano gli
stessi geni, gli stessi genitori, lo stesso sangue. Nonostante le sue
convinzioni, nonostante tutto ciò che il suo cuore gli diceva, il desiderio che
provava per Lylie era solo una malsana ed esecrabile pulsione incestuosa.
47

2 ottobre 1998, ore 18.28


Marc costeggiava a passo lento il porto turistico di Dieppe. La stazione era a
meno di un chilometro dal Pollet. La figura terrificante di un drago cinese
disegnava una smorfia nel cielo, proprio sopra di lui; era come se quell’essere
avesse strappato le nuvole per andare personalmente a sfidarlo, per
aggiungere altra follia a quell’atmosfera.
Accelerò. Non desiderava altro che parlare con sua nonna. Non riusciva a
togliersi dalla mente il referto del test del DNA . Lui e Lylie erano fratello e
sorella. Eppure tutte le sue convinzioni, i suoi sentimenti più intimi si
opponevano a quel risultato. Che valore aveva un pezzo di carta, una
pseudoperizia scientifica, in rapporto a ciò che sentiva nel suo profondo?
No!
Lylie non era sua sorella!
Di fronte a lui e ai modesti yacht del porto di Dieppe che voltavano
ordinatamente le spalle al mare, i bar erano gremiti. Il Festival internazionale
dell’aquilone si accompagnava a una profusione di patatine e cozze che non
aveva nulla da invidiare alle bancarelle delle città fiamminghe. Marc rallentò
arrivando davanti al ponte di trasbordo che collegava l’isolotto del Pollet alla
città. Aveva lasciato Malvina nel vagone del treno, raggomitolata sul suo
sedile. Aveva raccolto e infilato in tasca il foglio del laboratorio della
Scientifica. Lei non aveva protestato, immobile in posizione fetale.
Davanti ai ristoranti, le code chiassose si allungavano. Indifferente, Marc
si sforzava di reprimere la rabbia sorda che cresceva in lui.
No!
Lylie non era sua sorella!
Grand-Duc doveva per forza essersi sbagliato: aveva fatto confusione
consegnando al laboratorio i campioni sbagliati. O aveva mentito. Oppure
Mathilde de Carville cercava di manipolarli e gli aveva dato un falso, un falso
grossolano! O magari Lyse-Rose non aveva legami di sangue con i de
Carville perché era stata adottata. Forse suo padre non era Alexandre de
Carville. Non si sapeva niente di preciso della sua nascita in Turchia. Grand-
Duc stesso, nel quaderno, durante i primi mesi di indagine, aveva espresso
dei dubbi. Il noleggiatore di pedalò dagli occhi celesti...

Attraversò il ponte, lasciò alla sua destra il bar tabacchi del Pollet e si avviò
lungo rue Pocholle. Tornava sempre meno spesso a Dieppe, solo una volta al
mese, soprattutto da quando Lylie studiava a Parigi. La sua casa era là,
davanti a lui, con la facciata di mattoni simile ad altre quindici nella strada. Il
cortile era completamente occupato dal Citroën H arancione e rosso, come se
il giardino gli fosse stato piantato attorno. Marc notò le macchie di ruggine
sui parafanghi anteriore e posteriore del veicolo, l’ammaccatura sulla
portiera, le strisciate nere. Da quanto tempo non veniva messo in moto, anche
solo per uscire dal cortile? Ormai nessuno usciva più a giocare in quel
giardino delle bambole.

Marc suonò. Nicole aprì subito. Il calore del corpo generoso di sua nonna lo
sommerse. Lo abbracciò, tenendolo stretto a lungo. In un altro momento si
sarebbe sentito in imbarazzo. Non quella volta. Ne erano entrambi
consapevoli.
Nicole alla fine si staccò. «Stai bene, Marc?»
«Sì...» Non fece nemmeno lo sforzo di dirlo in tono convinto. Con lo
sguardo percorse il piccolo salotto. Sembrava rimpicciolirsi ogni volta che
tornava. Incupirsi, anche. Il pianoforte Hartmann-Milonga era sempre lì, tra il
divano e il televisore, polveroso. Una pila di carte, bollette, opuscoli, giornali
e volantini era accatastata sulla tastiera. Non c’era posto per sistemare altrove
tutta quella roba, e poi tanto il pianoforte non serviva più a niente.

La tavola era già apparecchiata: due piatti, due tovaglioli di lino beige e una
bottiglia di sidro. Marc si sedette. Nicole faceva avanti e indietro tra la cucina
e il salotto, brevi tragitti di cinque metri. Portò due filetti di sogliola cucinati
alla dieppoise, con panna e salsa alle cozze e gamberetti. Nicole era una
brava cuoca e sapeva anche fare conversazione, rivolgere domande e dare
risposte. Gli studi di Marc, il futuro del porto di Dieppe, i volantini da
distribuire, i polmoni che la facevano tribolare, la grondaia rotta («Marc, se
puoi darle un’occhiata...»). Con entusiasmo, come qualsiasi nonna che abbia
a disposizione pochi minuti di dialogo con i propri cari separati da lunghe
settimane di silenzio. Marc rispondeva a monosillabi. I suoi occhi giravano
per la stanza e tornavano sempre a posarsi sullo stesso punto, sopra il
pianoforte. Sulla pila di carte, Marc aveva notato una busta blu uguale a
quella che Mathilde de Carville gli aveva dato alla Roseraie e che Malvina
aveva aperto. Il regalo avvelenato di Grand-Duc. Nicole aveva quindi
riesumato quella busta che doveva aver tenuto nascosta da tre anni da qualche
parte, nei cassetti segreti dei suoi ricordi.
Chi avrebbe osato parlarne per primo?
Nicole stava raccontando di un vicino ricoverato in ospedale, in fase
terminale. Marc si rifugiò nei suoi pensieri. E così sua nonna conosceva la
verità da tre anni. Ne aveva la prova: Emilie era sopravvissuta. Era proprio
sua nipote quella che aveva cresciuto in tutti quegli anni. Nicole aveva vinto,
su tutta la linea. Probabilmente aveva consegnato a Lylie l’anello di zaffiro
chiaro per compassione nei confronti di Mathilde de Carville, così come dava
sempre qualche spicciolo ai mendicanti per strada.
Quel paragone fra i de Carville e i mendicanti, esposti alla carità di sua
nonna, suscitò in lui sentimenti contraddittori. L’immagine di Malvina
prostrata nel treno, alla stazione di Dieppe, continuava a ossessionarlo.
Nicole servì il formaggio. Come sempre lei non prese il dolce ma posò
tutta soddisfatta nel piatto del nipote un Salammbô. Una disgustosa ghianda
verde e marrone. Marc già a dodici anni non lo sopportava più, però non
aveva mai osato confessarlo a sua nonna. Era il dolce meno costoso...
Masticò diligentemente la crema pasticcera. Nicole stava tornando sulla storia
dei volantini, del comune, del porto commerciale. Lui non la seguiva più. Il
suo sguardo scivolò sulla fotografia incorniciata dei genitori, Pascal e
Stéphanie, sopra il caminetto. In posa, con i vestiti del matrimonio, davanti
alla cappella Notre-Dame-de-Bon-Secours, sotto una pioggia di chicchi di
riso. Marc aveva sempre visto quella cornice nello stesso posto, appesa allo
stesso chiodo. Sinistra felicità.
Nicole portò del caffè riscaldato in un pentolino e lo versò in due tazze, il suo
senza zucchero. Fu lei a fare il primo passo. Un piccolo passo.
«Hai notizie di Emilie?»
«No... Cioè, non direttamente.» Marc esitò. «Credo che sia in ospedale o
in clinica, qualcosa del genere...»
Nicole abbassò gli occhi. «Non preoccuparti, Marc. Stai tranquillo. È
maggiorenne adesso. Sa quello che fa...» Si alzò per portare via le tazze.
“Sa quello che fa...” La frase rimbalzò nella testa ammaccata di Marc.
Erano solo le parole rassicuranti di una nonna oppure nascondevano
qualcos’altro?
Si alzò per aiutare Nicole nel suo andirivieni fra la cucina e il salotto.
Passando per la seconda volta davanti a una fotografia, nella sua cornice di
legno, sulla mensola, tra un gioco africano e un barometro, si fermò. Marc la
conosceva bene, ritraeva Pierre e Nicole Vitral che sfilavano in corteo davanti
alla sottoprefettura di Dieppe, fianco a fianco, dietro un immenso cartello con
scritto SOTTO I CIOTTOLI C’È LA SPIAGGIA, lo slogan simbolo del maggio del
’68, data a cui risaliva la foto. Nicole e Pierre non avevano ancora trent’anni.
Nicolas, il loro primogenito, teneva la madre per mano, mentre Pascal era
issato sulle spalle di Pierre. Doveva avere cinque o sei anni e stringeva una
bandierina rossa nel pugno chiuso. Marc fissò suo nonno, suo padre e suo zio
riuniti nella stessa immagine. Erano tutti scomparsi, senza lasciargli il
minimo ricordo.
Si sforzò di assumere un tono naturale. «Vado in camera mia, Nicole.
Devo dare un’occhiata ai miei appunti. Torno subito.»
Gli rispose un rumore di stoviglie poggiate sul piano di ceramica.
Marc entrò in camera sua. Era in perfetto ordine. Nicole continuava a
rovinarsi la salute facendo le pulizie in una stanza in cui lui dormiva meno di
una volta al mese.
Ebbe l’impressione di riscoprire la sua cameretta di bambino; era colpa di
quel fottuto quaderno di Grand-Duc e di tutto il passato che aveva rivangato.
Il flauto con il bocchino di plastica era ancora poggiato sulla scrivania. Il suo,
quello che prestava a Lylie per suonare Goldman, Cabrel o Balavoine. Il letto
a castello era sempre attaccato alla parete. Quello sopra era vuoto da otto anni
ormai, da quando Lylie si era trasferita in camera di Nicole. Marc si ricordava
delle loro notti insonni. Lylie amava inventare storie infinite. Marc, coricato
nel suo letto, ascoltava la sua voce; qualche volta, quando lei aveva paura,
allungava un braccio. Allora Marc si sedeva sul letto e le teneva la mano fino
a quando Lylie allentava la stretta e si addormentava. Quando lei leggeva fino
a tardi, la luce gli impediva di prendere sonno, ma Marc non diceva niente.
Non si chiede al sole di spegnersi.
Lylie non avrebbe mai barattato quella promiscuità con l’immensa camera
che la aspettava dai de Carville, con la tonnellata di regali, con l’orso Banjo e
gli altri pacchetti. Marc ne era sicuro. Le libellule sono come le farfalle, in
fondo, hanno bisogno di un bozzolo quando sono piccole. Almeno prima
della crisalide...

Marc si scrollò di dosso la nostalgia come se fosse una pellicola che gli
avvolgeva le spalle. Si avvicinò all’armadio e osservò gli abiti. Ne
rimanevano pochi. Nicole aveva dato quasi tutto ai bisognosi, eccetto le sue
maglie da rugby gialle e blu: taglia pulcino, taglia allievo, taglia junior; c’era
anche una maglietta da calcio rossa e gialla, tutta sola nell’armadio, con la
scritta DÜNDAR SIZ a lettere di velluto sulla schiena. Taglia dodici anni.
Marc si chinò. Archiviava i suoi documenti in scatoloni poggiati per terra.
Ciò che cercava era sopra la pila: appunti di diritto europeo dell’anno
precedente. Il corso consisteva in buona sostanza nell’imparare a memoria
una serie di date: entrata degli Stati membri nell’Unione europea, trattati,
direttive, elezioni... Erano così gli studi di diritto, un palloso esercizio
mnemonico. Marc trovò con facilità il raccoglitore che cercava, poi la pagina.
Se non era uno studente brillante, era senza dubbio ordinato. Lesse: “Lezione
del 12/02/1998. I confini dell’Unione europea”. Era stato un po’ più attento
durante quella lezione che parlava del caso turco. Rilesse gli appunti: la
Turchia dei militari, il colpo di Stato, il ritorno alla democrazia...
Impiegò alcuni minuti a verificare i dettagli. Gocce di sudore gli
imperlavano le braccia. Alla fine chiuse il raccoglitore; aveva le mani umide
e la pelle d’oca. Adesso aveva capito cosa non quadrava nel racconto di
Grand-Duc.
Tutto tornava.
Si sedette sul letto e tentò di ragionare il più rapidamente possibile.
Suo nonno non era morto in un incidente. Era stato assassinato. Adesso ne
aveva la prova. Ma se quel dettaglio, quell’unico dettaglio, non combaciava,
allora il senso di tutta l’indagine sarebbe crollato...
«Marc?» La voce di Nicole attraversò le sottili pareti della camera.
«Marc? Tutto bene?»
Un accesso di tosse cavernosa, resa ancora più cupa dalle pareti di cartone,
sottolineò la domanda. Marc decise di rimandare quelle riflessioni. Si alzò,
fece scivolare il raccoglitore nell’Eastpack e mise a posto lo scatolone.
Rimase alcuni istanti in piedi, appoggiato al letto a castello. Vampate di
calore gli impedivano di respirare normalmente.
Nicole insistette, con voce tremante: «Marc?».
«Eccomi, Nicole. Arrivo.»

La porta della camera dava direttamente sul salotto. Le stoviglie erano state
messe a posto, un centrino di pizzo troneggiava in mezzo al tavolo. Nicole
era seduta. Piangeva. Davanti a lei, sul piano, Marc riconobbe la busta blu.
Il test del DNA .
La copia consegnata tre anni prima a Nicole da Crédule Grand-Duc.
48

2 ottobre 1998, ore 23.19


Marc prese una sedia e si sedette al tavolo di fronte a sua nonna. Estrasse
lentamente dalla tasca il referto ricevuto da Mathilde de Carville e lo posò
davanti a sé.
Due risultati. A ciascuno il suo.
«Ero a conoscenza che Mathilde de Carville aveva avuto il referto» disse
Nicole quasi sottovoce. «Ovviamente. Ma credo non sapesse che Grand-Duc
mi aveva informato.»
«Hai ragione» confermò Marc. «Non lo sapeva.»
Nicole si passò un fazzoletto bianco sugli occhi. «Cosa ti ha detto di
preciso?»
Marc non aveva scelta. Era andato lì per quello, per spiegare. Parlò a
lungo, raccontando la sua visita dai de Carville, riassumendo il contenuto del
quaderno di Crédule Grand-Duc, le ultime pagine, il test del DNA , la
coscienza sporca del detective... Omise un solo fatto, l’omicidio di Grand-
Duc. Un inspiegabile disagio gli impedì di annunciarlo così brutalmente a sua
nonna. Prima doveva riflettere, ripensare a ciò che Grand-Duc aveva scritto.
Verificare ogni dettaglio.
Nicole si portò il fazzoletto alle labbra e fece qualche colpo di tosse.
«Marc, Crédule Grand-Duc non ha mentito nel suo diario, ma non ha neanche
detto tutta la verità. La sua versione è un po’ diversa. A Crédule piace molto
ricamare su quello che racconta...»
L’utilizzo del verbo al presente turbò Marc. «Io c’ero» precisò «al
quindicesimo compleanno di Lylie. Me lo ricordo. Ho visto tutto. Il regalo, il
vaso andare in frantumi, Lylie che si tagliava, Grand-Duc che raccoglieva i
cocci scusandosi...»
«Certo. Hai ragione. È il seguito che ha omesso.»
Marc impallidì.
«Il seguito?»
«Ti ricordi, Marc? Dopo sei uscito con Emilie a festeggiare. Andaste da
Manon e tornaste dopo mezzanotte...»
Marc aveva poggiato la mano sul foglio del referto e la faceva scivolare
nervosamente sul tavolo.
Nicole tossì ancora, cercando di schiarirsi la voce. Fatica sprecata.
Riprese: «Sono rimasta da sola con Crédule. Beveva un calvados sul divano
mentre io lavavo i piatti. Stavo piangendo in cucina».
«Stavi... piangendo?»
«Marc. Non sono stupida. Crédule lavorava per i de Carville. Sapevo che
un giorno Mathilde avrebbe chiesto quel test del DNA . Era un suo diritto.
Avrei fatto la stessa cosa al suo posto... Ma non così, con uno squallido
stratagemma. Quella trappola incartata in un pacchetto regalo. Crédule è
l’unico amico che invitavamo per il compleanno di Lylie...»
Marc si sentiva sempre più a disagio. Sua nonna non si era mai confidata
così con lui. «Quando l’hai capito?»
«Quando ho visto il sangue di Emilie e Crédule che raccoglieva i pezzi di
vetro. Crédule con quei suoi grossi zoccoli. Avrebbe fatto meglio a
presentarsi con una siringa e un laccio emostatico, a giocare a carte scoperte.
Tutto ciò che gli chiedevo era di rispettare gli accordi che avevamo preso fin
dall’inizio: gli aprivo la mia porta, ma avevo diritto alle stesse informazioni.»
«È quello che ha fatto, no? Ti ha dato una copia delle analisi...»
Gli occhi di Nicole si riempirono di nuovo di lacrime. «Per niente, Marc.
Per niente. Sarebbe andata così se non fosse stato per un dettaglio. Mentre
piangevo in cucina, a un tratto ho preso la decisione. Stavo sciacquando un
coltello, ho stretto i denti e mi sono tagliata il mignolo. Solo una ferita
superficiale, sufficiente perché uscisse qualche goccia di sangue. Ho avvolto
il dito in uno strofinaccio e ho portato a Crédule un bicchierino da liquore
contenente qualche millilitro del mio sangue. Lui ha capito subito. Non era
uno stupido.»
«E come ha reagito?»
Nicole sorrise, per la prima volta. «Era un po’ offeso, capisci, come un
bambino colto in fallo. Ma non era una persona cattiva. Si è scusato e ha
riconosciuto di essersi comportato come un idiota. Era quasi commovente.
Mi ha assicurato che avrebbe fatto eseguire entrambi i test, per i de Carville e
per me. Poi...» Nicole tossì ancora, come se volesse liberare la gola per far
uscire le parole successive.
Marc era sempre più a disagio. «Nicole, cosa vuoi dirmi?»
Il fazzoletto bianco si contorse tra le dita di Nicole. «Ci tieni veramente a
saperlo? In fondo non è un crimine. E dubito che Crédule ne parli nel suo
quaderno.»
No, infatti, Marc non ci teneva a saperlo. Nicole lasciò scorrere le lacrime
senza nemmeno asciugarle.
«Quella sera, mentre voi eravate fuori a festeggiare, abbiamo fatto
l’amore. Come due vecchi. Era la prima volta per me da quando tuo nonno
era morto. L’unica volta. Grand-Duc mi divorava con gli occhi da anni. Era
gentile. Era quasi l’unico uomo a entrare in casa. Era...»
«Nicole...» Marc si alzò, posò le mani sulle spalle di sua nonna con una
tenerezza goffa, poi le mise un dito sulle labbra. L’immagine del cadavere di
Grand-Duc lo ossessionava. «Non c’è bisogno che mi racconti tutto questo...»
«Invece sì, Marc. Io ne avevo bisogno.» Si asciugò le lacrime, si tirò su e
infilò il fazzoletto nella manica. «Vai, Marc. Hai ragione, non ti annoierò
ancora con queste storie da vecchia.» Fece qualche passo, risistemò il
centrino sul tavolo, poi osservò con attenzione il foglio davanti a Marc.
«Dunque hai aperto la busta.»
«È una lunga storia. Diciamo che è stato un incidente. Ma sì, l’ho aperta e
ho letto il referto.»
«Allora capisci perché piango, Marc. Non per Crédule. Non solo. Piango
per Emilie.»
Marc fu invaso da un terribile presentimento. Gli tremavano le gambe.
Non capiva. “Piango per Emilie.” L’eco delle parole di Nicole gli risuonava
nel cranio. Perché piangere per Emilie? Quel test del DNA era il suo
certificato di nascita ufficiale.
Sollevò delicatamente il referto che gli aveva consegnato Mathilde de
Carville e lo porse a Nicole. Prese poi la busta sul tavolo, quella che Grand-
Duc aveva dato a sua nonna.
Aprì la busta.
Lesse.
Il salotto scuro si mise a girare in tondo: il pianoforte, i quadri, i centrini, il
divano, il televisore, trascinati nello stesso vortice irreale.
Il foglio gli cadde dalle mani.
Il risultato del test del DNA non aveva senso.
49

2 ottobre 1998, ore 23.37


I ciottoli le si infilavano nelle natiche e Malvina si sentiva a disagio. Erano
duri e freddi. Una pallida mezzaluna illuminava vagamente la spiaggia. Non
aveva trovato un altro posto dove passare la notte. Il controllore era ripassato
molto dopo che il treno Rouen-Dieppe si era fermato in stazione. La donna
era stata piuttosto gentile con lei, le aveva chiesto in modo cortese di
scendere. Aveva cambiato però atteggiamento sentendosi chiamare “puttana
schifosa”. Erano arrivati due suoi colleghi e l’avevano aiutata a portare di
peso Malvina fuori dalla stazione.
Lei si era ritrovata sul marciapiede. A causa di quel fottuto festival non
c’era una sola camera libera in città.

Aveva vagato per tutta la sera, senza cenare. Non aveva fame. Non le
importava. Si era trascinata a lungo per le strade prima di dirigersi verso la
spiaggia. Aveva aspettato che la gente si desse una calmata, con le sue
scemenze: i balletti degli aquiloni, la musica, le bandierine, le canzoncine
popolari, i palloncini, i waffle e le altre schifezze vendute dai successori dei
Vitral sul lungomare di Dieppe.
In quel momento mancava poco a mezzanotte ed era finito tutto. Restava
solo qualche figura geometrica fluorescente sospesa in cielo, collegata alla
terra da lunghi fili tesi, annodati a dei pali piantati nell’erba. Malvina se ne
fregava, non era di certo dell’umore adatto per apprezzare lo spettacolo. Anzi,
avrebbe avuto voglia di tagliare tutti quei fili e far precipitare gli aquiloni in
mare come tanti soli morti.
Tagliare i fili. Spegnere il telefono. Maledire sua nonna che aveva
commissionato il test del DNA , che le aveva mentito per tutti quegli anni.
Tagliare il cordone.
Malvina si distese. Avrebbe dormito lì. Sui ciottoli. Tutto sommato se ne
fregava anche dei sassi freddi sotto il sedere.

«Ehi, bella, non dovresti essere già tornata da mamma e papà a quest’ora?»
Malvina rimase immobile, girò solo la testa in direzione della voce.
C’erano tre tizi in piedi sulla spiaggia, a una decina di metri da lei. Ognuno
aveva in mano una bottiglia di acqua minerale con del liquido arancione
dentro. Doppia finta. Non erano sicuramente né acqua né aranciata.
«Bellezza, potresti fare dei brutti incontri, così, tutta sola...» Era stato il
più alto a parlare. Aveva la palpebra destra bucata da un anello d’argento.
Un tipo più basso, calvo, in posizione un po’ arretrata, aveva difficoltà a
stare in equilibrio sui sassi. I suoi stivali incerati da cowboy, lunghi e stretti,
non lo aiutavano. Il terzo, la cui stazza ricordò a Malvina l’orso Banjo, aveva
invece i piedi ben piantati al suolo.
Il tizio con l’anello d’argento si avvicinò ancora, fino a tre metri da lei. Gli
altri lo seguirono. Malvina alzò la testa.
«Oddio, è una vecchia» esclamò Stivali da cowboy. «E dire che da lontano
pareva una verginella...»
«Magari lo è» commentò Anello d’argento.
Orso bruno e Stivali da cowboy scoppiarono a ridere.
Malvina si rannicchiò e frugò febbrilmente nella borsa. Imprecò per la
rabbia. Si era appena ricordata che in treno Vitral le aveva fregato il Mauser.
Anello d’argento avanzò di un altro metro. «Tu cerchi un’avventura, bella
mia. Ho fiuto per le ragazze come te. Sai, è il tuo giorno fortunato. Tre
uomini tutti per te...»
«Levati dalle palle, stronzo.»
I tizi indietreggiarono di un metro, tranne Stivali da cowboy, che scivolò
sui sassi.
Poi Anello d’argento fece qualche passo avanti. «Oh, ragazzi. C’è capitata
una vera puttanella...»
Orso bruno sapeva anche esprimersi. Era il gentiluomo del gruppo. «Non
ti faremo del male. Ci divertiamo solo un po’...»
«Sì» proseguì Anello d’argento. «Mi piace il tuo look, tesorino. Anni
Cinquanta, eh? Che figata. Ho sempre sognato di farmi fare un pompino da
mia nonna.» Guadagnò un altro metro e aggiunse: «Solo che mia nonna ha
più denti...».
Orso bruno e Stivali da cowboy scoppiarono di nuovo a ridere. Un buon
pubblico. Si avvicinarono anche loro, in seconda linea.
Malvina tentò di indietreggiare strisciando e urlò: «Se vi avvicinate ancora
vi ammazzo tutti!».
I tre guardarono divertiti il suo corpo gracile rannicchiato fra i sassi.
«Morde, la piccola. Dài, non fare la scontrosa, non aspetti altro...»
Anello d’argento si avvicinò ancora. Non avrebbe dovuto. Sentì un sibilo e
forse intravide anche un debole chiarore. Subito dopo il suo occhio si chiuse.
L’anello d’argento penzolava, miracolosamente trattenuto dal lembo di
palpebra lacerato, immerso in una pozza di sangue. Nell’attimo che seguì un
secondo sasso gli fracassò la cartilagine del naso.
«Brutta stronza...»
Un terzo sasso mancò di poco la sua bocca spalancata, sfondandogli la
parte destra della mascella.
Un buon sasso può ucciderti se è della grandezza giusta e viene lanciato a
bruciapelo da tre o quattro metri di distanza. O, comunque, in caso il tiro sia
meno preciso, può sfigurarti a vita. Malvina forse non ne era consapevole, ma
quei tre lo intuirono subito. In determinate circostanze anche i più ottusi
capiscono velocemente. Questione di sopravvivenza.
Se la svignarono.
Una pioggia di sassi continuò ad abbattersi su di loro. Stivali da cowboy
scivolò ancora sui ciottoli e bestemmiò. Un proiettile gli esplose sulla
clavicola. Orso bruno non era molto più agile. Le pietre gli bersagliarono la
schiena e la nuca. Malvina adesso lanciava alla cieca, con una forza
ingigantita dalla rabbia.
«Ti ritroveremo, puttana!» urlò Anello d’argento quando fu fuori tiro. «Ci
rivedremo!»
«Esatto» sibilò Malvina. «La polizia non avrà difficoltà a riconoscere il
tizio che voleva violentarmi. Un guercio non si vede mica tutti i giorni...»

Le ombre si allontanarono, claudicanti.


Un’ora dopo sulla spiaggia si alzò il vento. Malvina aveva freddo. Si mise
in piedi stiracchiandosi gli arti indolenziti. Camminò a passi lenti nella città
morta fino alla stazione. Era chiusa, naturalmente. Finì per addormentarsi su
una panchina, lì davanti.
50

2 ottobre 1998, ore 23.51


Il salotto dei Vitral si era pietrificato. Per l’eternità.
La mano tremante di Marc si allungò per raccogliere il foglio caduto per
terra. Era esattamente identico a quello che aveva letto in treno: stessa
intestazione della polizia scientifica nazionale di Rosny-sous-Bois. Stessa
grafica dattiloscritta. Stessa concisione nell’esposizione dei risultati: tre righe.

RICERCA DEI LEGAMI DI PARENTELA

tra Emilie VITRAL (campione 1, lotto 95-233)


e Nicole VITRAL (campione 2, lotto 95-237)

Risultati negativi.
Nessun legame di parentela.
Percentuale di affidabilità 99,94513%.

Marc lasciò cadere il foglio sul tavolo come si getta un pezzo di carta in
fiamme. Nicole fece la stessa cosa, poi crollò sul divano.
Entrambi i test del DNA erano negativi.
Marc farfugliò una domanda, in tono quasi impercettibile. «Cosa
significa?»
Nicole tirò fuori il fazzoletto, si asciugò una lacrima che le era spuntata
all’angolo dell’occhio e fece uno strano sorriso. «Crédule Grand-Duc è
proprio uno a cui piace scherzare, non credi?»
«Tu... tu lo sapevi?»
«No, Marc, te lo giuro. Nessuno lo sapeva. A parte Crédule, naturalmente.
Da quando ho visto il risultato del test, tre anni fa, mi sono convinta che
Emilie fosse morta nell’incidente dell’Airbus, che quella che ho allevato
come mia nipote fosse Lyse-Rose de Carville... Mi ero abituata a questa idea.
L’avevo anche accettata. Per questo le ho dato lo zaffiro per i suoi diciotto
anni. Ero quasi arrivata a esserne felice.» Nicole fece una pausa. Tirò
meccanicamente lo scialle di lana che portava sulle spalle per coprire la
camicetta abbottonata fino al collo. Guardò Marc con infinita tenerezza. «A
rallegrarmi per il suo futuro. Per voi due, soprattutto. Era molto più semplice.
Quel risultato era così evidente...»
Marc non replicò. Si alzò di scatto, afferrò di nuovo i due fogli e li posò
l’uno accanto all’altro, per raffrontarli. Nulla lasciava pensare che si trattasse
di documenti falsi. Cercò di dominare l’impulso irrefrenabile di ridurli in
mille pezzi. «Grand-Duc ha commesso un errore, Nicole!» quasi gridò. «Può
essersi sbagliato sui campioni, averli confusi, invertiti... Anche il laboratorio
può aver fatto un pasticcio. Ci dev’essere una spiegazione!»
«Forse Crédule ci ha dato le risposte che ci aspettavamo» osservò con
dolcezza Nicole.
Marc sussultò. «In che senso?»
«Solo lui sa quali campioni di sangue ha consegnato per l’analisi. Ha agito
come meglio credeva, in base alla verità che voleva far emergere. Dopo
quindici anni d’indagini non aveva trovato niente, perciò forse ha scritto lui
stesso la fine della storia.» Nicole rifletté qualche istante prima di aggiungere:
«Due test negativi... Non è una brutta trovata, in fondo. Anzi, ha funzionato
molto bene. Così Mathilde de Carville si è convinta che sua nipote fosse
morta, definitivamente, e ci ha lasciati in pace. A Grand-Duc non piace
molto, credo. Io reprimevo il mio dolore. Emilie non era mia nipote, non era
tua sorella. Quel test mi ha fatto piangere per notti intere, ma ha anche sciolto
il terribile groppo che mi bloccava lo stomaco, che mi dilaniava, che mi
bruciava i polmoni ogni volta che tu ed Emilie vi guardavate. Ogni minuto,
ogni secondo...».
Marc andò a sedersi sul divano accanto a Nicole e posò la testa sulla sua
spalla. Passò la mano attorno all’ampia vita di sua nonna. Con le dita
giocherellava con la lana dello scialle.
Lei girò il viso verso il nipote. «Capisci, Marc? Certo che capisci.
Significava che non avevate legami di sangue, non eravate fratello e sorella.
Eravate liberi, mio caro Marc. A modo suo, Crédule vi voleva bene, vi
osservava; era capace di escogitare un simile stratagemma...» Osservò i fogli
sul tavolo. «Se i due risultati non fossero stati messi a confronto, il suo piano
avrebbe potuto funzionare.»
Marc si alzò e prese a camminare nervosamente per la stanza. Nonostante
le argomentazioni di sua nonna, non riusciva a credere a quella versione, a
quel trucco orchestrato da Grand-Duc! Stando agli appunti sul quaderno, il
detective sembrava costernato tanto quanto loro dai risultati dei test del DNA .
Anche se poteva aver mentito di proposito. Come sul resto... «Esco, Nicole,
vado a fare un giro.»
Lei non disse niente. Si tamponava con delicatezza gli occhi con un
angolo del fazzoletto. Marc mise la mano sulla maniglia della porta
d’ingresso. La voce di Nicole tremò ancora di più, se possibile. «Non mi hai
chiesto dov’è Emilie...»
Marc si bloccò. «Perché, tu lo sai?»
«Non di preciso, no. Non ho idea di dove si trovi, ma ho capito qual è il
grande viaggio di cui parla, il delitto che progetta. Mio Dio, come si può
chiamarlo delitto?»
Marc sentì che il suo cuore era sul punto di scoppiare. Per la terza volta in
meno di dieci minuti la sua vita era in bilico. I sintomi dell’agorafobia a un
tratto svanirono, come il singhiozzo dopo uno spavento.
Nicole tentennò. «Una nonna lo intuisce.»
La mano di Marc si strinse sulla maniglia. «Intuisce cosa, Nicole?» quasi
urlò.
Nicole, per discrezione o forse per pudore, rispose con voce dolce:
«Emilie è incinta, Marc. Aspetta un figlio da te».
La mano di Marc scivolò sulla maniglia, bagnata di sudore.
Nicole aggiunse nello stesso tono, dolce e pacato: «Vuole abortire, Marc.
È in ospedale per questo».

Marc si era appoggiato a un cassonetto di rue Pocholle. La luna rischiarava


con la sua luce fioca la schiera di piccole casette gemelle. Alla fine del vicolo
due gatti si studiavano silenziosamente, il pelo irto. Lui si chiese se fossero
gli stessi che Emilie cercava di far ragionare quando aveva sette anni. Poteva
essere, tutto sommato. Gli stessi gatti, undici anni più vecchi.
Marc si sentiva stranamente calmo, molto più di qualche minuto prima. Le
priorità erano cambiate in modo brusco, come se la sua mente si fosse
sbarazzata del superfluo. Un bel repulisti. Il mistero dei due test del DNA
avrebbe potuto aspettare e lo stesso l’assassinio di suo nonno. Adesso aveva
un solo pensiero fisso: Lylie, da sola, in una camera d’ospedale, con un
bambino nella pancia.
Il loro bambino.
Marc si avvicinò all’unico lampione acceso del vicolo. I gatti, come statue,
non si mossero di una virgola. Aveva cercato di telefonare cinque volte di
seguito a Lylie, invano. Contattare le decine di ospedali e cliniche parigini a
quel punto era inutile, dal momento che erano tenuti a mantenere l’anonimato
delle pazienti che lo avessero chiesto.
Lylie di certo lo aveva fatto.
Ancora una volta Marc si rassegnò a lasciare un messaggio in segreteria
telefonica, appoggiato al lampione, come un ubriaco che parla da solo sotto la
luna.
«Lylie, Nicole mi ha detto tutto. Non ho visto niente, non ho capito niente.
Scusami, ero come cieco. Dove sei? Devo essere lì, accanto a te. Non ti farò
la morale, non cercherò di convincerti a tenere il bambino. Niente di tutto
questo. Non ti mentirò, non ho fatto progressi nella mia indagine. Buio più
assoluto. Nebbia più che mai. Posso solo fidarmi delle mie convinzioni. Le
conosci. So che non ti bastano. Aspettami, Lylie, ti prego. Permettimi di
venire. Chiedimelo, ti supplico. Ci tengo immensamente a te.»

La voce del messaggio volò via nella notte chiara.


I due gatti si erano avvicinati l’uno all’altro. Lanciavano i sibili strazianti
di un rituale che annuncia una lotta all’ultimo sangue. Era solo un gioco,
però, che inscenavano ogni sera, da anni.
Marc si sedette per terra, sul marciapiede di cui conosceva ogni
centimetro. Un giorno Lylie era caduta proprio in quel punto. Nulla di grave,
un volo dal triciclo, un piccolo graffio, un po’ di sangue lavato via dalla
pioggia normanna.
Chiuse gli occhi.
Un bambino. Il loro bambino.
Una collera sorda cresceva in lui. Non contro Lylie. Contro l’ordine delle
cose, piuttosto. Non sopportava di sentirsi inutile.
La finestra al primo piano di una casa si aprì. Un vicino infilò la testa fra
le persiane e lanciò un urlo irritato. Marc non lo conosceva, forse era nuovo
del quartiere. Richiamato dal padrone, uno dei due gatti prese il largo. L’altro
aspettò qualche secondo, indispettito, dopodiché trotterellò verso Marc.
Il ragazzo tese la mano e lui andò a strofinarvisi contro. Aveva ancora il
pelo un po’ ritto, grigio e sporco. Quel vecchio gatto doveva aver fatto spesso
le fusa in risposta alle carezze di Lylie.
Certo, Marc capiva le ragioni che spingevano Lylie ad abortire. Prese il
telefono e fece scorrere i messaggi precedenti. Non era una questione di età,
di sicurezza economica, di progetti di vita o di carriera. Lei non voleva
portare in grembo il frutto di una relazione incestuosa.
Marc strinse tra le dita il pelo grigio del gatto. Senza una prova
inequivocabile della sua identità, Lylie non avrebbe mai corso il rischio di
mettere al mondo un mostro. Certo che no.
Alzò gli occhi al cielo. E se lui l’avesse scovata, quella prova
inequivocabile? Poteva ancora fermare tutto. Gli bastava trovare la chiave.
Il gatto gli saltò sulle ginocchia e Marc lo guardò. «Ho ragione, bello? A
cosa serve un papà, prima della nascita, altrimenti? Pensa che figurone farei
se un giorno, quando mia figlia sarà grande, potessi guardarla in faccia, dritto
negli occhi, prenderle la mano e dirle: “Sai, tesoro, ci è mancato poco. Se non
avessi scoperto la verità, quella maledetta prova, in extremis, non saresti qui.
Non ti avrò portata in grembo, certo, questo no, ma ti ho salvata, tesoro mio.
Sì, ti ho salvata. Perché amavo tanto la tua mamma e volevo tanto un
bambino da lei. Un figlio dell’amore”...»
Il gatto tagliò la corda bruscamente.
«Hai ragione» disse Marc «sto dando i numeri!»

Lylie fumava sul balcone. Non avrebbe dovuto, ma non le importava. Una
sigaretta, solo una. Be’, tre a dire il vero. La ragazza con i capelli rossi e i
denti gialli che dormiva accanto a lei non era tirchia. Le aveva lasciato il
pacchetto: “Serviti pure”.
Aveva ascoltato il messaggio di Marc e stava digitando la risposta. Lui
non aveva nessuna possibilità di trovarla. Era meglio così. Doveva andare
fino in fondo. Da sola.
Tenere quel bambino sarebbe stata una pazzia. Non si vive senza identità,
Lylie ne era consapevole più di chiunque altro. Come poteva pensare di
infliggere lei stessa quella condanna a vita a un altro essere innocente, a un
altro bambino, il suo? Come poteva sopportare di diventare a sua volta lo
strumento di quella maledizione?
Strinse nel palmo della mano sinistra la croce tuareg che le aveva regalato
Marc. Le dita della destra le tremavano mentre, tenendo la sigaretta,
premevano sui tasti del telefono. Il fumo volava via, leggermente
azzurrognolo alla luce del piccolo schermo. Lylie divise il lungo SMS in
quattro invii.

Marc. Presto sarà tutto finito. È un’operazione banale. Ci vuole solo qualche minuto.
Domani i medici mi faranno altri controlli. Dicono che c’è bisogno di ulteriori esami per
l’anestesia. Forse è uno stratagemma degli psichiatri per darmi il tempo di riflettere. Vai a
sapere. Entrerò in sala operatoria solo dopodomani. Non stare in pensiero per me. Ho
preso la decisione giusta. Andrà tutto bene. Abbi cura di te. Lylie.

Nella camera, disteso nel suo letto di bambino, Marc lesse la risposta di
Lylie. Tentò subito di richiamarla, invano.
Fece scorrere i messaggi, l’uno dopo l’altro. Una frase catturò la sua
attenzione: “Entrerò in sala operatoria solo dopodomani”. Una parola, più
precisamente: “Dopodomani”.
Aveva un giorno di proroga per scoprire la verità, riusciva a pensare
soltanto a questo. Aveva ottenuto un giorno in più. Come un segno del
destino. Non era ancora tutto perduto.
Fissò il letto sopra il suo. Le ore scorrevano, come da piccolo quando
Lylie leggeva fino a tardi, o quando un vicino faceva troppo rumore, o
quando affrontava, da solo, la sua insonnia. Marc era sveglio. Un’idea
cresceva, come un’erbaccia sul viale di un giardino troppo ordinato. Una
certezza: era tutto collegato, in quella storia. L’omicidio di suo nonno, quello
di Grand-Duc, altri delitti, forse, di cui lui non era a conoscenza... e l’identità
di Lylie!
La soluzione del mistero, Crédule Grand-Duc l’aveva trovata. Il detective
l’aveva scoperta prima di essere ucciso. Aveva progettato di andare sul Mont
Terrible. Era logico, in fondo. Era cominciato tutto laggiù e laggiù tutto
doveva finire. Le risposte si trovavano lì o da nessun’altra parte.

Le quattro del mattino. Marc si alzò di scatto e si infilò la maglia. Cosa


rischiava, dopotutto? Non aveva nessun’altra pista da seguire, a parte leggere
e rileggere il quaderno di Crédule Grand-Duc. No! Non era la strada giusta.
Non per lui, in ogni caso. Si mosse con cautela nella penombra e si diresse
verso la camera di sua nonna.
«Marc?» chiese la voce addormentata di Nicole.
«Nicole. Il furgone va ancora?»
«Il Citroën?» Nicole si strofinò gli occhi, stupefatta. Lanciò uno sguardo
alla sveglia poggiata sul comodino ma non fece commenti. «Ehm, credo di sì.
Faccio solo qualche chilometro all’anno. L’ultima volta che l’ho preso...»
«Le chiavi sono sempre nel secondo cassetto del mobile in salotto?
Insieme ai documenti?»
«Sì, ma...»
Marc le diede un bacio sulla guancia. «Grazie. Non preoccuparti...»

Nicole voleva raccomandargli di essere prudente, ma un accesso di tosse


glielo impedì. Si portò il fazzoletto alla bocca. Sapeva che ormai non avrebbe
più dormito quella notte. Né le notti successive.
51

3 ottobre 1998, ore 04.12


Il furgone partì al primo colpo. Marc l’aveva già guidato diverse volte, anche
se per tragitti molto brevi. Generalmente era lui, da due anni a quella parte, a
prenderlo per andare in centro a Dieppe e a parcheggiarlo in giardino. Nicole
gli aveva indicato i punti di riferimento per fare marcia indietro e sterzare: la
cassetta della posta, la persiana sinistra del vicino di fronte. Ci passava giusto
giusto se si prestavano le dovute attenzioni.
Il furgone dei Vitral era uno degli ultimi Citroën H fabbricati in Francia.
Pierre l’aveva comprato nel 1979 e la casa automobilistica aveva cessato la
produzione nel 1981. Pierre aveva scelto il modello più lungo, lo stesso che
usavano i macellai negli anni Settanta. Era arancione e il muso rosso
appiattito lo faceva assomigliare a un grosso cane, con i due fari rotondi per
gli occhi e gli specchietti per le orecchie. Un cane malridotto di lamiera
ondulata. Il suo “cagnolone”, come lo chiamava Lylie. Uno scansafatiche che
dormiva fuori occupando tutto il giardino. Pierre l’aveva sistemato
personalmente, con l’aiuto di un cugino meccanico a Neuville, il quale ogni
tanto si occupava della manutenzione. Il Citroën non dimostrava i suoi anni.
Duecentottantatremila chilometri. “Un bestione indistruttibile” affermava il
cugino. Marc non aveva altra scelta se non credergli, nonostante la
carrozzeria ammaccata, le macchie di ruggine, il tergicristallo fissato con il
nastro adesivo e il cofano che non si chiudeva più del tutto...
Consultò l’orologio: le quattro del mattino passate da poco. Dieppe
dormiva. Attraversò la città fantasma sotto la bizzarra sorveglianza di
maschere di seta agitate nel cielo da un vento vorticoso. Il Citroën procedeva
rumorosamente, ma procedeva. Marc non voleva cantare vittoria troppo
presto, aveva oltre seicento chilometri davanti a sé. Aveva consultato con
attenzione la cartina. Preferiva evitare Parigi e tagliare da nord. Aveva
annotato tutto su un foglio: Neufchâtel-en-Bray, Beauvais, Compiègne,
Soissons, Reims, Châlons-en-Champagne, Saint-Dizier, Langres, Vesoul,
Montbéliard, il Mont Terrible. Aveva calcolato che ci sarebbero volute circa
dieci ore. Se tutto andava bene.
Costeggiò il porto. Gli restava da risalire boulevard Chanzy e sarebbe
uscito da Dieppe. Sulle strade non incrociava nessuno. Alla fine del viale,
passò davanti alla stazione e girò meccanicamente la testa. Una ragazza
dormiva su una panchina...
Il Citroën inchiodò di colpo. Almeno i freni funzionavano.
Anche il clacson.
Malvina de Carville si svegliò di soprassalto. Un istante dopo la sua mano
si chiuse su uno dei sassi che si era premurata di portare con sé dalla
spiaggia. Pazza forse, ma previdente. Si alzò. Alla fine riconobbe Marc al
volante del veicolo arancione e rosso.
Lui aprì il finestrino a ghigliottina. «Non vorrai mica prendere a sassate il
furgone?»
«Basta che mi ridai la pistola!»
«Ce l’ho qui in tasca. Al calduccio. Sali!»
Malvina spalancò gli occhi, incredula. «Stai andando a lavorare al mercato
o cosa?»
«Sali, ti ho detto. Vado in pellegrinaggio. Svitata come sei, è un viaggio
che ti dovrebbe interessare.»
Malvina si avvicinò senza mollare il sasso. Osservò con scetticismo la
ruggine, la fenditura tra il cofano e il motore. «Non dirmi che pensi di
arrivare al Mont Terrible con questa bara ambulante...»
Marc incassò la battuta evitando di chiedersi se l’ironia fosse voluta.
«Sono sicuro che non hai mai messo i piedi laggiù, nel Giura. E che muori
dalla voglia.»
Malvina lasciò cadere il sasso. «Non sai quanto!»
Marc aprì la portiera del passeggero. Lei ebbe qualche difficoltà ad alzare
la gamba per posare il piede sul predellino di lamiera gialla rialzato. «Con
questo schifo di furgone non arriviamo neanche a Parigi» borbottò.
«Vaffanculo. E poi non passiamo da Parigi, tagliamo da nord...» Marc le
porse l’itinerario.
«Cazzo» sbottò lei. «Andiamo per i campi... Speriamo di non restare a
piedi. Alla fine sei tu il più suonato dei due!»
Marc non replicò. Imboccarono in silenzio la provinciale 1. I lunghi
tornanti seguivano i fondovalle della regione di Bray.
Dopo dieci minuti fu lui a rompere il silenzio. «Scusaci per ieri sera, non ti
abbiamo invitata a cena... Sarà per un’altra volta, eh?»
«Figurati. Me la so cavare. Ho fatto amicizia con dei ragazzi del posto...»
Altro silenzio di dieci minuti. Si avvicinavano a Neufchâtel-en-Bray.
«Ma che ci andiamo a fare, laggiù?» chiese d’un tratto Malvina.
«In pellegrinaggio, ti ho detto...»
Lei lo guardò con un’espressione strana. «Ah, è così? Pensavo che il caso
fosse chiuso. Quel fottuto test del DNA chiesto da mia nonna dice nero su
bianco che Libellula è tua sorella. È perché te la scopi che sei incazzato?»
Marc stava entrando nel centro abitato. Frenò bruscamente e Malvina si
ritrovò inchiodata al sedile. La cintura di sicurezza, troppo alta, le graffiò il
collo.
«Se freni ogni volta che ti lancio una frecciatina non arriviamo più...»
Una frecciatina... Pensare che avrebbe dovuto sopportarla per dieci ore.
«Scusami per la cintura» replicò Marc «ho dimenticato il seggiolino per
bebè...»
«Ah ah ah. Se fai sfoggio del tuo senso dell’umorismo, penso che non ci
annoieremo per strada.»
Marc non aveva nessuna voglia di stare al gioco. Dopo una lunga pausa di
silenzio le domandò: «Perché tu ci credi a quel fottuto test del DNA ?».
«Morirei piuttosto che crederci!»
«Perfetto, su questo siamo d’accordo.»
«È una balla!» rincarò Malvina tirando la cintura. «L’ho sempre saputo
che Grand-Duc era dalla vostra parte. Per via dei suoi rimorsi e anche delle
tette di tua nonna...»
Quella volta Marc non frenò, ma si chiese seriamente se fosse il caso di
scaricarla lì, sul ciglio della strada. Lo avrebbe fatto se non avesse avuto
bisogno di lei. Doveva essere paziente, Malvina gli sarebbe stata utile; si era
già tradita, senza rendersene conto. Aveva parlato dei rimorsi di Grand-Duc.
Era solo l’inizio...
Restarono in silenzio per quasi un’ora, fino a Beauvais. La statale
scorreva, deserta, monotona. Malvina si chinò in avanti. La vecchia cintura di
sicurezza polverosa, rigida, le grattò l’orecchio. «L’autoradio non funziona,
scommetto.»
«La radio è rotta di sicuro. Ma credo che il mangianastri vada. Le cassette
che ascoltavamo da bambini dovrebbero esserci...»
Malvina scoppiò a ridere. «Cazzo! Esistono ancora?»
«Guarda dentro il cassettino sul cruscotto. Ce n’erano una decina.»
Malvina aprì lo scomparto. «Com’è fatta una cassetta?» Si girò verso
Marc, una luce quasi maliziosa negli occhi. «Non inchiodare! Sto
scherzando!» Passò qualche minuto a scrutare le musicassette, poi ne infilò
una nel mangianastri senza farla vedere a Marc. Un riff brutale di chitarra
mescolato al suono di una sirena della polizia riempì l’abitacolo di lamiera
ondulata. La ballade de Serge K. I vagabondaggi notturni di un uomo
solitario.
Marc riconobbe l’album dal primo accordo. Poèmes rock.
Demain, demain. Demain comme hier, cantava la voce nasale di Charlélie
Couture. “Domani, domani. Domani come ieri.”
«Ero sicuro che avresti messo questa» osservò Marc.
«Lo immaginavo. Non volevo deluderti...»
Lui sorrise. Stavano entrando a Beauvais. Anche alle cinque del mattino,
attraversare la città non fu facile. Avanzarono a balzi tra semafori
apparentemente regolati da un funzionario sadico in modo che un
automobilista rispettoso dei limiti di velocità trovasse sempre rosso.
«Buona scelta» disse Marc fra una sosta e l’altra. «Poèmes Rock è il
miglior album di rock francese mai scritto...»
«Non so. Conosco solo una canzone. Indovina quale... Ma siccome non
hai il CD bisogna sorbirsi tutto il lato A...»
«Cosa ascolti di solito?»
«Niente.»

La voce di Charlélie Couture riempì il silenzio che seguì. Finalmente stavano


uscendo da Beauvais. Il lato A era terminato. Malvina girò la cassetta, senza
dire una parola, e alzò il volume dell’autoradio. Troppo. La lamiera vibrò ai
primi accordi di piano.
Comme un avion sans aile...
J’ai chanté toute la nuit,
oui j’ai chanté pour celle
qui m’a pas cru toute la nuit...

Come un aereo senz’ala...


Ho cantato tutta la notte,
sì, ho cantato per colei
che non mi ha creduto tutta la notte...

Un brivido percorse la nuca di Marc.


Malvina, a occhi chiusi, muoveva le labbra per cantare il testo; o per
mimarlo, piuttosto, dal momento che la sua bocca non emetteva alcun suono.
Même si j’peux pas m’envoler,
j’irai jusqu’au bout,
oh oui, je veux jouer,
même sans les atouts.

Anche se posso volare via,


andrò fino in fondo,
oh, sì, voglio giocare,
anche senza le carte.

Suo malgrado Marc rallentò un po’. Aveva ascoltato quella canzone


centinaia di volte. Quando era da solo. Quando cercava conforto, quando
aveva dei dubbi. Sempre senza Lylie. Lei non la sopportava. Si metteva a
urlare appena la sentiva. A otto anni, aveva scaraventato una radiolina sul
pavimento della cucina, a casa della sua amica Manon, solo perché stavano
trasmettendo quella canzone.
Écoute la voix du vent,
qui glisse, glisse sous la porte,
écoute on va changer de lit, changer d’amour,
changer de vie, changer de jour...

Ascolta la voce del vento,


che scivola, scivola sotto la porta,
ascolta, cambiamo letto, cambiamo amore,
cambiamo vita, cambiamo giorno...

Malvina sembrava commossa fino alle lacrime. Lo straziante assolo di


chitarra non migliorava la situazione. Marc continuava a fissare l’orizzonte.
Oh, libellule,
toi, t’as les ailes fragiles,
moi, moi j’ai la carlingue froissée...

Oh, libellula,
tu, tu hai le ali fragili,
io, io ho la carlinga accartocciata...

La voce di Charlélie Couture si allontanò lentamente. Malvina tirò su col


naso. Marc non disse niente. Continuò a guidare. La statale scorreva,
attraversando tristi paesini che, nella vana attesa di una tangenziale,
comunicavano a suon di manifesti il numero di morti sulla strada e il numero
di mezzi pesanti che passavano ogni giorno. Venti minuti dopo erano in
prossimità di Compiègne. Il traffico cominciava a intensificarsi.
All’uscita da Compiègne, Marc si girò verso Malvina. «Al prossimo
paese, se troviamo una panetteria aperta ci possiamo fermare per mangiare
qualcosa.»
Lei diede un’occhiata al retro del furgone. «Ma come? Pensavo che mi
avresti lasciato il volante e saresti andato dietro a preparare da mangiare.
Crêpe, waffle... Come il nonno e la nonna.»
Marc non rispose. Non ne valeva la pena, ormai aveva preso la sua
decisione. Era giunto il momento... In fondo, in un certo senso, era stata
Malvina a toccare l’argomento. Attraversarono Catenoy, un paesino il cui
centro – chiesa, scuola e municipio – era stato saggiamente costruito un po’
arretrato rispetto alla statale. Marc si fermò in un ampio parcheggio
polveroso. Intorno, case e negozi erano chiusi, compreso il ristorante che
esibiva con orgoglio il menu completo a quarantanove franchi per i
camionisti. Lui verificò di avere ancora il Mauser in tasca, sfilò le chiavi dal
cruscotto e scese dal Citroën. Il parcheggio era costeggiato da qualche betulla
con le foglie annerite dai gas di scarico dei mezzi pesanti. Si allontanò un po’,
svuotò la vescica dietro un tronco e tornò al furgone.
Malvina non si era mossa. Lui si avvicinò alla portiera del passeggero e la
aprì. Estrasse dalla tasca posteriore dei jeans cinque fogli strappati e glieli
porse. «Tieni. Leggi.»
Lei spalancò gli occhi, stupita.
«Sono alcune pagine del resoconto di Grand-Duc, il famigerato quaderno»
spiegò Marc. «La sua indagine. Leggi, è un passaggio istruttivo. Poi ti
mostrerò qualcos’altro.»
52

3 ottobre 1998, ore 06.13


Mathilde de Carville accese un fiammifero e lo avvicinò al gas. Un cerchio di
piccole fiamme blu lambì la casseruola piena d’acqua. Si girò, osservò
un’ultima volta la copia de “L’Est Républicain” del 23 dicembre 1980, poi
strappò la prima pagina. L’attorcigliò e la tenne sospesa sul fornello. Il pezzo
di carta si trasformò in una torcia. Mathilde lo lasciò cadere nel lavello solo
quando il fuoco le ebbe annerito le unghie. Ormai non serviva più a niente.
Lei aveva trovato la busta sul mobile dell’ingresso il pomeriggio del giorno
prima. La copia del quotidiano era piegata all’interno, come aveva chiesto
alla segretaria. Una ragazza sveglia, tutto sommato. Mathilde aveva letto. Ci
aveva messo meno di un minuto a capire. Era talmente evidente...
Grand-Duc non stava imbrogliando. Aveva ragione su tutta la linea. La
verità balzava agli occhi, è il caso di dirlo, ma a una condizione: aprire quel
giornale diciotto anni dopo.
Che ironia! Dunque erano stati fuori strada fin dall’inizio.
Peggio. Suo marito si era comportato come il più spregevole dei criminali.
Aveva ucciso. Per niente. Lei non valeva di più. Aveva chiuso gli occhi. Per
Lyse-Rose. L’aveva accettato, con assoluta cognizione di causa. Avevano
colpito degli innocenti. Delle vittime, come loro. La verità sarebbe venuta
fuori un giorno o l’altro. Lei non avrebbe avuto il coraggio di affrontare il
giudizio degli uomini. Quanto al giudizio di Dio...

Mathilde de Carville intinse un dito nell’acqua, senza esitazione. Era appena


tiepida. Linda era di sopra, nella camera degli ospiti. Dormiva. Era svenuta
nell’ingresso dopo avere scoperto il cadavere di Léonce. Non era riuscita a
fare più di dieci passi prima di cadere sul parquet. Mathilde le aveva dato un
calmante, poi un sonnifero, l’aveva distesa sul letto e aveva avvertito il
marito che si sarebbe fermata a dormire alla Roseraie; capitava a volte
quando Léonce non stava bene. Lui non aveva fatto domande: la paga era
abbastanza buona perché Linda facesse qualche straordinario.
Mathilde aprì un armadietto e ne estrasse un flacone di vetro avvolto in un
foglio di giornale. Linda presto si sarebbe svegliata e la prima cosa che
avrebbe fatto sarebbe stata correre alla polizia, naturalmente. Lei non glielo
avrebbe impedito. Come poteva? Non avrebbe ucciso quella povera ragazza.
Riflettendoci, lo scorso pomeriggio avrebbe dovuto aspettare qualche ora,
pazientare finché Linda non fosse tornata a casa sua. Allora sarebbe rimasta
sola con Léonce, come tutte le sere. Sarebbe stato tutto più semplice... Solo
che quello andava oltre le sue forze. Attendere diverse ore dopo avere
ricevuto quel giornale, dopo avere capito. Mille volte, in tutti quegli anni,
aveva pensato di farsi giustizia da sola. “Giustizia”, una parola grossa.
L’unica cosa di cui poteva andar fiera era di aver abbreviato le sofferenze di
un infermo. A fare giustizia ci aveva già pensato Dio.
Era ora il suo turno di mettere i rimorsi sulla bilancia.
E poi la polizia, lo scandalo...
Poco importava. Non sarebbe stata lì per affrontarli.

Il dito di Mathilde de Carville s’immerse di nuovo nella casseruola piena


d’acqua sul fornello. Era quasi bollente. Sospirò di sollievo. Presto sarebbe
finito tutto. Spense il gas, versò l’acqua in una grande ciotola di terracotta
color ocra, la poggiò su un piccolo vassoio d’argento, con il flacone e un
cucchiaino, e uscì dalla cucina.
Salì lentamente la scala di ciliegio e aprì la prima porta sulla destra, quella
della camera di Lyse-Rose. Contemplò l’immensa stanza piena di giocattoli e
pacchetti regalo. Il loro valore non aveva importanza; erano stati, ogni
compleanno e ogni Natale, come un messaggio di speranza. Lyse-Rose non
era stata dimenticata. Ogni fragile candelina rappresentava la flebile speranza
che fosse ancora viva. La scintilla. Spenta, definitivamente, dal pomeriggio
del giorno prima.
Léonce aveva ucciso per niente.
Mathilde posò il vassoio d’argento sul comodino. Per arrivare fino al letto
scostò una carrozzina celeste con il bordo di pizzo e scavalcò con
precauzione un servizio di porcellane cinesi in miniatura. Spostò
delicatamente il grosso orso che Malvina chiamava Banjo. Si stese sul letto,
quello in cui avrebbe dovuto dormire Lyse-Rose tutti quegli anni; dove non
avrebbe mai più dormito. Svitò il tappo del flacone di vetro e versò tutto il
contenuto giallastro nella ciotola color ocra piena d’acqua bollente.
«La mia preferita» mormorò Mathilde. «La mia pianta segreta. La
celidonia, conservata gelosamente nella mia serra per le grandi occasioni. La
grande occasione. L’ultima.»
Mescolò il contenuto della ciotola con il cucchiaino d’argento. Il succo di
celidonia si sciolse nell’acqua calda producendo una tisana letale.
Mathilde sapeva di non poter assassinare qualcuno con la celidonia,
nemmeno suo marito. Il sapore della pianta era disgustoso. Per questo anche
gli incidenti erano molto rari: un solo morto, una volta, in Germania, stando a
quanto aveva letto. Ecco perché l’erba delle verruche era ignorata dagli
scrittori di romanzi gialli.
Posò con delicatezza il cucchiaino sul vassoio d’argento, si passò le mani
dietro il collo e sganciò la croce.
La celidonia non era raccomandata neanche per suicidarsi... O, meglio, era
riservata alle volontà superiori. Sorrise. Non era il tipo di persona da farla
finita ingoiando una scatola di tranquillanti o iniettandosi un prodotto
indolore nelle vene. Un suicidio delicato: il peggiore degli ossimori! Che
modo ipocrita di presentarsi al giudizio finale!
Mathilde de Carville si bagnò le labbra con il decotto di celidonia. Fece
una smorfia ma continuò a inclinare la ciotola di terracotta. Bevve fino
all’ultimo sorso.
Era disgustoso.
Non si sarebbe lamentata.
In altri tempi, per espiare la sua colpa, avrebbe chiesto di essere flagellata
a morte, che le venisse infilzato un palo di legno nel cuore o che la
bruciassero viva.

Mathilde si stese sul letto di Lyse-Rose. Il letto di una morta.


Strinse la croce in pugno.
Non ci sarebbe voluto molto, ormai.
53

3 ottobre 1998, ore 06.22


Marc misurò a grandi passi il parcheggio mentre Malvina, seduta sul sedile
del passeggero, leggeva le cinque pagine strappate. Nello zaino aveva biscotti
secchi e del succo d’arancia. Divorò qualche biscotto e bevve metà del succo.
Un semirimorchio si fermò nel parcheggio, a oltre cinquanta metri dal loro
furgone. Ne scese un tizio con un thermos in mano. Caffè, probabilmente.
Marc ebbe la tentazione di chiedergliene un po’.
Malvina saltò giù dal furgone con i fogli in mano. «Contento? Ho letto!
Era quello che volevi? Farmi venire la strizza con l’incidente di tuo nonno?
Non è stato fortunato, certo... Ma, a parte questo, dove vuoi arrivare? Avevo
otto anni allora, però tu sospetti che sapessi qualcosa. Qual è il tuo problema?
Se volevi mettermi al corrente che il tuo furgone arancione e rosso è un carro
funebre, non preoccuparti! Non contavo di dormirci dentro stanotte...»
Marc non reagì. Forse cominciava ad abituarsi all’umorismo macabro di
Malvina. Era il suo unico modo di comunicare, in fondo, e probabilmente
anche una sorta di terapia. Forse l’elettroshock avrebbe funzionato anche per
lui, dopo tutti quegli anni di silenzio, di segreti e di tabù. Rientrò nel furgone,
frugò nello zaino e ne estrasse il raccoglitore che conteneva gli appunti del
corso di diritto costituzionale europeo.
«Tieni, leggi questo adesso...»
«Cosa? Tutto?»
«Ma no, solo la lezione del 12 febbraio, quella sulla Turchia.»
Malvina sospirò. «Prima passami il succo e i biscotti.»
Marc le tese i resti della colazione e Malvina mandò giù tutto con avidità.
Se era anoressica, lo nascondeva bene.
«Be’, cos’è ’sta puttanata?» Prese il raccoglitore, lo aprì alla pagina
indicata da Marc e fece una smorfia. «Mi dispiace, non riesco a leggere la tua
scrittura da gallina. Devi essere proprio scarso all’università, soprattutto
rispetto a Lylie... Sono sicura che lei fa scintille.»
Marc incassò. Umorismo. Umorismo dalle virtù terapeutiche! «E tu cosa
studi?»
«Io ho il record del mondo dei prof privati. Trentasette in quindici anni...
L’ultimo ha retto solo due giorni...»
«Allora non prendere per il culo.»
Malvina si mise a ridere. Gettò per terra la carta dei biscotti e il
contenitore vuoto. «Sì, ma è perché sono troppo oltre per i prof. Non rientro
nelle loro caselline, capisci?» Alzò gli occhi. «E che cazzo, non capisco
niente dei tuoi appunti...»
«Ti basta leggere le date. Riesci a leggerle, le date, no? Non sei troppo
oltre per questo?»
«Mi stai facendo innervosire...»
«Leggi!»
«Non rompere...»
Alla fine lesse.
«“29 ottobre 1923, la Turchia di Atatürk diventa repubblica; 17 settembre
1961, il primo ministro Adnan Menderes viene giustiziato per attentato alla
costituzione...” Bene, dove vuoi arrivare?»
«Continua!»
«’Fanculo... “12 settembre 1980, colpo di Stato e ritorno dei militari al
potere; 7 novembre 1982, referendum nazionale per la restaurazione della
democrazia”...»
«Okay» la interruppe Marc. «Adesso riprendi i fogli del diario di Grand-
Duc. Le primissime righe.»
«Sei un gran rompiballe!» Malvina gettò i fogli per terra. «Be’, andiamo?
Se vuoi arrivare nel Giura con il tuo carro armato prima del ponte di
Ognissanti...»
Marc si chinò con calma, raccolse le pagine e cominciò a leggere.
«“Quella domenica, il 7 novembre 1982, avevo trascorso il weekend ad
Antalya, sul Mediterraneo – la Riviera turca, trecento giorni di sole all’anno
–, ospite nella residenza delle vacanze di un alto funzionario del ministero
dell’Interno”... Salto un pezzo. “Stanco di guerra, l’alto funzionario in
questione finì per invitarmi, un weekend in cui riceveva a casa sua tutta la
crème della sicurezza nazionale turca. Per una volta Nazim non c’era. Ayla
aveva insistito che rientrasse perché stava male, mi pare di ricordare... Questo
non mi facilitava le cose, anzi, avevo sgobbato tutto il weekend senza un
interprete che mi aiutasse a spiegare cosa volevo, tanto più che quei tizi erano
là per rilassarsi al sole con le mogli, per nulla convinti del carattere prioritario
delle mie richieste. Anch’io, peraltro, iniziavo a dubitarne. Sempre di più.”»
Malvina torturò nervosamente l’anello marrone tra le dita e spostò lo
sguardo verso il camion fermo in fondo al parcheggio. «E adesso?» urlò
abbastanza forte perché il conducente sentisse. «Ormeggiamo il tuo furgone
di merda e prepariamo i waffle per questi bestioni?»
Il camionista con il thermos, che aveva sentito, guardò Malvina come se
fosse un animale strano, poi alzò le spalle e si girò, non più arrabbiato che se
un cane ringhioso gli avesse abbaiato alle calcagna. Marc fissava Malvina.
Ancora una volta la sua furia suonava falsa. Una penosa manovra di
diversione...
«Mettiamo i puntini sulle i, Malvina. È una piccola questione cronologica
che non quadra... Crédule Grand-Duc, nel suo quaderno, racconta di essere
stato in compagnia dei funzionari del ministero dell’Interno turco al gran
completo, che se la spassavano in riva al mare con mogli e figli, domenica 7
novembre 1982...»
«Grazie. So leggere.»
«... Solo che» continuò Marc «per l’appunto il 7 novembre 1982 fu il
giorno del referendum in Turchia. Il ritorno alla democrazia! La fine del
regime militare. Una giornata storica. Non credi che quel weekend gli alti
funzionari turchi avessero altro da fare?»
Malvina alzò le spalle. «Grand-Duc ha sbagliato data. Punto e basta.
Quindici anni dopo, sai...»
«Col cazzo!» urlò Marc.
Il camionista con il thermos si era appoggiato al parafango del suo veicolo
e osservava la scena come se Marc e Malvina fossero i protagonisti di una
sitcom.
«Non ci senti? Hai bisogno dell’apparecchio acustico?» gli gridò Malvina.
L’uomo non batté ciglio, indifferente.
Marc continuò: «Ti dico io com’è andata, Malvina. Grand-Duc non era in
Turchia il 7 novembre 1982. In ogni caso, non in una villa ad Antalya. Per
quale ragione ha mentito, allora? Perché era altrove, per forza di cose.
Altrove, d’accordo, ma dove? Dove poteva nascondersi quel weekend del 7
novembre 1982? In quale posto non avrebbe dovuto essere? Perché precisare
che Nazim era in Francia e lui in Turchia, se non per lasciar ricadere i sospetti
sul suo socio?».
«Stai delirando» sussurrò Malvina. «Davvero, sei tanto più tarato di me.»
Marc la afferrò per il collo della maglia. Malvina non si difese. Non aveva
più la pistola in tasca. E neanche un sasso.
«E se il gentile Grand-Duc, il detective paziente, il minuzioso, l’onesto
Credu-lo-Scivolo, l’amico dei Vitral, il timido corteggiatore di mia nonna, il
narratore disilluso da tutta questa indagine, il fedele, il puro, il povero
Crédule Grand-Duc... E se costui non fosse stato altro che uno sporco
mercenario? Una merda a cui tuo nonno aveva chiesto di eliminare i miei
nonni per recuperare Lylie? Una merda che aveva risposto di sì...»
Marc deformava con le dita contratte il maglione di Malvina, la quale
continuava a tacere. Nel parcheggio, il camionista con il thermos era tornato
sul suo semirimorchio. Un gracchiare di autoradio giungeva fino a loro.
Marc continuò, sull’orlo delle lacrime: «Non preoccuparti, Grand-Duc non
lo scrive nel suo quaderno, questo dettaglio. Anche se tutto il resto
probabilmente è vero, forse anche l’attaccamento alla sua famiglia di
adozione, a mia nonna... Classico, il boia che si affeziona alla vittima a cui
non è riuscito a dare il colpo di grazia. Il rimorso che diventa un fantasma.
Patetico, sì! E dire che lo abbiamo invitato per anni a casa nostra...
L’assassino di mio nonno. E dire che mia nonna ha anche...».
Marc mollò di colpo Malvina, fece qualche passo nel parcheggio e
raccolse meccanicamente da terra la carta dei biscotti e il contenitore di succo
d’arancia. Si diresse verso il cestino dell’immondizia più vicino, a dieci
metri. «Puoi raccontarmi quello che ti pare!» urlò. «Io so che è andata così. È
stato Grand-Duc! Quando capisci questo, tutta la storia scritta sul suo
quaderno di ipocrita del cazzo diventa chiara. Un mercenario. Uno senza
scrupoli, che non ne aveva fatto mistero...» Marc lanciò i rifiuti nel cestino.
«È stato mio nonno» disse Malvina.
Marc non l’aveva mai sentita esprimersi con una voce così dolce. Si voltò.
«È stato mio nonno» ripeté Malvina. «Lui da solo, dopo il suo primo
infarto. Non credeva alla lunga indagine di mia nonna. Era una persona
sbrigativa. Ha contattato anche lui Grand-Duc, un po’ dopo mia nonna. Lo ha
pagato molto caro, all’incirca il prezzo di una villetta in rue de la Butte-aux-
Cailles, tanto per darti un’idea. Doveva sembrare un incidente... Secondo gli
avvocati, se i nonni Vitral fossero morti, Weber, il giudice minorile, sarebbe
stato nei guai, ma noi avremmo avuto ottime possibilità di recuperare la
piccola. Grand-Duc non era un santarellino, mio nonno si era informato. Quel
weekend, nel novembre del 1982, ha fatto un biglietto di andata e ritorno
Francia-Turchia. Nessuno ha mai saputo niente. Il resto non era difficile per
lui.»
«Come lo hai saputo?»
«Avevo otto anni. Non ho capito ogni cosa all’epoca, ma spiavo già tutti.
Il brutto topolino che scava piccoli buchi ovunque e ci si nasconde dentro.
Anche mia nonna se n’è resa conto quando era troppo tardi, dopo la morte di
Pierre Vitral. Non sto a raccontarti il putiferio che deve essersi scatenato nella
sua povera piccola coscienza. Un delitto! Come confessarlo durante la sua
preghiera al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo? Mio nonno ha avuto il
secondo infarto subito dopo. Il suo piano era andato a monte. Mia nonna l’ha
presa come una punizione della giustizia divina e si è tappata la bocca!»
«E tu, Malvina, cosa ne pensi?»
Lei esitò un secondo. Tamburellò nervosamente con la suola delle sue
ballerine sul predellino di alluminio, poi rispose: «Che mio nonno aveva
ragione! Cosa credi? Avrebbe potuto funzionare, spariti i nonni Vitral. Sciò!
Lyse-Rose, la sorellina che mi avevate rubato, sarebbe tornata nella sua
cameretta. E tu saresti finito all’orfanotrofio. Ben fatto! Ecco quello che
pensavo».
«E adesso? Oggi cosa pensi?»
Malvina questa volta non esitò. «La stessa cosa!»

Ripresero il viaggio. Malvina aveva cambiato cassetta nell’autoradio. Aveva


scelto a caso, attratta dal colore celeste della custodia, Brothers in Arms dei
Dire Straits. La voce di Mark Knopfler si alternava ai deliri elettrici della sua
chitarra. Fu lei a parlare per prima. «Comunque Grand-Duc era uno stronzo.
Non mi ha mai potuta sopportare, non so perché. Forse aveva capito che
sapevo.»
Marc ascoltava distrattamente. Provava una sgradevole sensazione di
tradimento. Fino a che punto Grand-Duc aveva falsificato la verità nel suo
diario?
«Quattro giorni fa ha voluto ricattare mia nonna» continuò Malvina. «Con
la sua storia del cazzo di uno sviluppo dell’ultimo minuto.
Centocinquantamila franchi. Il triplo una volta che ci avesse portato le
prove... Non so chi lo abbia fatto fuori, ma chiunque sia stato ha liberato la
terra da un leccaculo di merda!»
Le dita di Marc si muovevano sul volante al ritmo delle note del sassofono
di Your Latest Trick. Ripensava alle ultime parole di Malvina – “Non so chi
lo abbia fatto fuori...” – e a quando aveva scoperto il corpo di Grand-Duc. Un
proiettile nel cuore. La testa nel caminetto, secondo un rituale macabro. Il
viso coperto di bolle e di cenere.
«Per non parlare del test del DNA » continuò Malvina. «Sappiamo tutti e
due che la sopravvissuta è Lyse-Rose. Allora quel test prova che Grand-Duc
è disonesto fino al midollo.»
Un dubbio atroce nacque nella mente confusa di Marc; una minuscola
scintilla attizzata da un vento violento, che si propagava nel suo cervello
come un fuoco nella savana.
«E poi» concluse Malvina «era un vero inetto, Grand-Duc. Pagato un
milione e incapace di far fuori due vecchi addormentati...»
Le mani di Marc si contrassero sulla pelle consunta del volante. La
chitarra di Mark Knopfler liberò un ultimo riff.
Soltanto umorismo. Terapeutico.
54

3 ottobre 1998, ore 11.33


Viaggiavano ormai da oltre cinque ore. Il Citroën H arancione e rosso teneva
duro. Penava solo un po’ sulle tratte autostradali, raggiungendo al massimo i
cento, centodieci chilometri orari. La scorta di cassette era finita: un florilegio
di qualche must degli anni Ottanta. Sauver l’amour di Daniel Balavoine;
Famous Last Words dei Supertramp; Morgane de toi di Renaud; Positif di
Jean-Jacques Goldman.
Si fermarono a Vitry-le-François, una città sorta dal nulla in mezzo ai
campi di mais della Champagne, senza neanche un campanile di
avvertimento. Mangiarono in un ristorante incuneato fra la statale e la Marna.
Erano gli unici clienti. Marc, perso nei suoi pensieri, si accontentò di
un’omelette con insalata. Malvina approfittò di tutte le offerte del menu del
giorno: piatto di salumi, lombo allo scalogno e crème brûlée.
«È una buona forchetta la sua ragazza» commentò il padrone facendo
l’occhiolino a Marc. «Mi domando dove lo metta tutto questo cibo!»
Ripartirono.
Saint-Dizier. Chaumont.
I litorali del bacino parigino si snodavano in successione. I campi di
cereali erano delimitati da linee costiere, bruschi pendii ripidi come i gradini
di una scala ai cui piedi si stendevano le valli ortoclinali boscose; poi ancora
distese di cereali. Il furgone Citroën sobbalzava scendendo lungo i declivi,
come se per poter rallentare dovesse incontrare una salita. Renaud cantava En
cloque per la terza volta.
Da quasi due ore nessuno dei due diceva una parola. Malvina ruppe il
silenzio. «Credi che Lyse-Rose la vorrà una sorella come me?»
Marc, che stava guidando attraverso un villaggio chiamato Fayl-Billot,
non rispose.
«Tu la conosci» continuò Malvina. «Credi che sarebbe in grado di capire?
Di accettare una sorella come me? Brutta. Volgare. Cattiva.»
Marc tacque ancora. Tutto sommato preferiva l’umorismo terapeutico di
Malvina.
«Posso cambiare» insistette lei. «Glielo dirai che posso cambiare?»
«Sei davvero sicura che Lylie sia tua sorella?»
«Certo. Siamo d’accordo tutti e due su questo, no?»

Rimasero in silenzio per altre due ore. Marc invidiava la sicurezza di


Malvina, la sua determinazione. Lei sembrava vivere in una bolla che niente
poteva far scoppiare.
Marc ricevette l’SMS di Lylie subito dopo Vesoul. Il telefono gli vibrò in
tasca. Lo prese con una mano continuando a guidare.

Marc, entro in sala operatoria domani mattina alle dieci. È tutto okay. Non preoccuparti.
Ti chiamo dopo. Andrà tutto bene. Un bacio. Emilie.

“Domani mattina alle dieci”... Meno di ventiquattr’ore dopo.


Goldman urlava Envole-moi! Istintivamente Marc premette
sull’acceleratore. Stavano affrontando un terreno in finto piano, ma non per
questo il Citroën H acquisì maggiore velocità. Più scorrevano i chilometri,
più la folle ipotesi che la mente di Marc aveva costruito prendeva corpo,
diventava credibile e pronta a imporsi come un’evidenza.

Tre ore dopo attraversavano agevolmente Montbéliard. La rete viaria della


cittadina della Franca Contea pareva sovradimensionata rispetto alla modesta
circolazione: immensi viali, ampie strade, circonvallazioni. La città sembrava
ancora concepita a dimensione dello stabilimento Peugeot all’epoca del suo
apogeo e dei suoi oltre quarantamila dipendenti. La fabbrica più grande
d’Europa... Oggi era ridotta a meno di un terzo.
Marc sbatté sulle ginocchia di Malvina un atlante stradale francese
affidandole il compito di condurli fino all’incrocio tra il Doubs e la frontiera
svizzera, ai piedi del Mont Terrible, in località Clairbief; da lì avrebbe dovuto
localizzare il rifugio di Monique Genevez, lo chalet più bello della regione
secondo quanto raccontava Grand-Duc.
«Si può sapere che ci andiamo a fare laggiù?» brontolò Malvina. «Intendi
recuperare i quattrini che mia nonna ha mandato a Grand-Duc?»
Marc si strinse nelle spalle e verificò con discrezione di avere ancora il
Mauser in tasca. Si sarebbe dovuto servire di quell’arma? Aveva forse
ragione? Erano stati tutti manipolati fin dall’inizio?
Malvina non insistette e si concentrò sulla cartina. Se la cavò
egregiamente. Dieci chilometri dopo Montbéliard, passato Pont-de-Roide, il
prode furgone arancione e rosso affrontò i primi pendii del Giura: all’inizio
una strada stretta tipo canyon, lungo il Doubs, fino a Saint-Hippolyte, poi la
ripida pendenza di una piccola provinciale. Il Citroën H penò, sbuffò, cigolò,
ma riuscì comunque a valicare la montagna. La vista sull’ampia ansa del
Doubs, che si concedeva una deviazione di una trentina di chilometri in
Svizzera prima di tornare docilmente in Francia, il suo luogo di nascita, era di
una bellezza stupefacente. Il furgone ridiscese senza problemi verso il fiume,
in una foresta di pini adornati dall’oro delle foglie caduche degli alberi vicini.

Era impossibile non trovare il rifugio di Monique Genevez. Una sola strada
costeggiava il Doubs, fino alla frontiera svizzera, proprio di fronte. Il legno
chiaro dello chalet si rifletteva sull’acqua placida del fiume. Marc trattenne il
respiro. Toccò ancora una volta il Mauser in tasca, inquieto. Parcheggiò di
fronte allo chalet. Un cartello RIFUGI DI FRANCIA confermava che erano nel
posto giusto.
Il parcheggio, a eccezione del furgone arancione e rosso, era deserto. Il
tempo sembrava essersi fermato in quel villaggio di frontiera ai confini del
mondo. Marc faceva fatica a respirare. E se la sua ricerca si fosse fermata lì,
alla fine di quella strada?
«Be’, andiamo?» disse Malvina.
«Un attimo...»
Marc estrasse il Mauser L100 e si assicurò che fosse carico.
«Cosa pensi di fare con la mia pistola? Di puntarla contro la Genevez?»
Marc fissò Malvina a lungo, poi replicò: «Ti ricordi il cadavere di Grand-
Duc?».
«Sì...»
«Cosa ti ricordi?»
«In che senso?»
«Ti ricordi un cadavere trovato a casa di Grand-Duc, con addosso i vestiti
di Grand-Duc, le sue scarpe, il suo orologio...» Malvina impallidì di colpo.
Marc continuò: «Un cadavere con la testa nel caminetto. Il viso bruciato,
coperto di bolle, tanto da essere irriconoscibile».
Malvina si tormentava le dita. «Cosa intendi dire?»
«Seguimi!»
Scesero dal furgone. Monique Genevez era sulla soglia dello chalet,
incorniciata da immense fioriere di gerani.
«Buongiorno!» esclamò Marc. «È questo il rifugio Genevez?»
L’esordio non era particolarmente audace: il nome del rifugio era inciso a
lettere enormi sul pannello di legno verniciato.
«Siamo... siamo amici di Crédule Grand-Duc.»
Il viso di Monique si illuminò. «Il signor Grand-Duc! Certo che lo
conosco. Sono più di dieci anni che viene qui nel mese di dicembre.»
«Doveva... doveva venire prima quest’anno, credo.»
La padrona assunse un’aria desolata. «Esatto, ma non siete stati fortunati.
È ripartito proprio stamattina.»
Marc sentì la terra mancargli sotto i piedi. Accanto a lui, Malvina trattenne
il respiro.
Monique Genevez continuò nello stesso tono, senza percepire il loro
turbamento. «Ha dormito qui, nella camera 12, come sempre, ieri e l’altroieri.
L’altroieri è rimasto nel rifugio per buona parte della mattina ad aspettare il
postino. Infatti ha ricevuto una grossa busta. Stamattina è andato via molto
presto, verso le sei.»
Marc riuscì ad articolare qualche parola. «Sa... sa se tornerà?»
«Oh, mi stupirebbe. Quando viene, generalmente si ferma una notte o due.
Per il suo pellegrinaggio, come lo chiama lui. È un signore abbastanza
particolare il vostro amico. Gentile, educato, su questo nulla da dire. Ed è
anche una buona forchetta. Invece, tutta quella storia del Mont Terrible... la
catastrofe, l’aereo eccetera, diciotto anni dopo...! Come se fosse impossibile
dimenticare tutte quelle sciagure. Non pensate?»
Marc rimase muto per alcuni secondi prima di balbettare: «Ha... ha detto
qualcosa... Sa dove è andato?».
Monique strappò qualche gambo secco dai gerani. «Mah, il signor Grand-
Duc non è certo il tipo da fare confidenze, nemmeno dopo essersi scolato un
litro di passito. E a me non piace fare domande. Quindi, no davvero, non lo
so. Di sicuro sarà tornato a Parigi. È quello che fa di solito, no?»
Marc insistette un po’, senza convinzione. Non ottenne più nulla dalla
donna. Risalirono sul furgone.
Seduta accanto a lui, Malvina vomitò la sua rabbia. «Te l’avevo detto che
quello stronzo ha cercato di fotterci fin dall’inizio!»
Marc non replicò. Avvertiva una tremenda sensazione di impotenza.
Crédule Grand-Duc... vivo. Scomparso... L’ultimo filo dell’indagine gli era
appena scivolato tra le dita.
Malvina insistette. «Se avevi capito che Grand-Duc aveva inscenato la sua
morte ed eliminato qualcuno al posto suo, cosa siamo venuti a fare qui?»
«Taci...»
Malvina applaudì fragorosamente. «Sei un genio, Vitral. Dieci ore di
strada. Seicento chilometri. Per ritrovarci qua come dei coglioni... Potevamo
telefonare, no?»
«Zitta.»
«Potresti almeno pagarmi una camera da Monique. Sembra piuttosto
chic.»
«Sta’ zitta, ho detto.»
«Almeno mangiamo. Una bella sbronza di passito, ne avrei proprio
voglia...»
«Sei troppo cretina, dovrei farti fuori qui, subito, buttarti nel Doubs e
filarmela in Svizzera...»
Malvina lo fissò stupita. «Che Grand-Duc fosse una merda non è un
grande scoop. Allora qual è il tuo problema? Perché di colpo ti metti a fare il
nervosetto? Vai di fretta? Dovevi sposarti domani con mia sorella? Avevi già
prenotato la torta?»
«Lascia perdere, non puoi capire. Non hai studiato.» Marc mise in moto il
Citroën con un gesto concitato.
«Dove andiamo?» chiese Malvina. «Ripartiamo? Non facciamo un giro
turistico?»
«Muta! Ti avevo promesso un pellegrinaggio, cazzo, perciò seguiamo il
cammino della croce fino alla fine.»
55

3 ottobre 1998, ore 12.01


Crédule Grand-Duc seguiva con il binocolo il percorso del postino. Era
impossibile perdere di vista il furgoncino. La vernice gialla del veicolo
spiccava a ogni curva nel verde dei boschi di abeti. Saliva lentamente, con
calma. Si fermava a tutte le cassette delle lettere degli chalet che si
susseguivano sulla stradina, orientati a sud, sul versante esposto al sole della
montagna. Non sarebbe arrivato prima di dieci minuti.
La Xantia era parcheggiata qualche chilometro più su, a una trentina
buona di tornanti, un po’ prima dell’ingresso a Saint-Hippolyte. Il detective
scrutò ancora qualche istante le manovre del postino alla guida del suo
furgone.
Dieci minuti...
Sarebbe stato quello giusto, finalmente? Era l’ottavo postino che pedinava
invano. Ma prima o poi la fortuna avrebbe finito per girare dalla parte giusta.
Peraltro, non era questione di fortuna bensì di metodo e tenacia, come
sempre. Da tre giorni Grand-Duc si era messo sulle tracce di Mélanie Belvoir.
La donna non aveva più legami con la famiglia e il suo nome non appariva in
nessun elenco telefonico. Dal punto di vista burocratico, non esisteva. Forse
era sposata, però lui non aveva trovato riscontri nei registri anagrafici della
zona, pur avendo controllato nei quarantacinque comuni di Montbéliard.
Allora il detective aveva pensato al postino. Se Mélanie Belvoir non aveva
autorizzato la pubblicazione del suo numero nell’elenco telefonico, se aveva
cambiato nome, forse continuava comunque a ricevere posta con il suo
vecchio cognome. Lettere di un’amica d’infanzia, vecchi abbonamenti... Un
postino poteva sapere, soprattutto in un’area rurale, una zona di montagna;
doveva conoscere tutti gli indirizzi...
Solo che i primi sette interpellati non avevano mai sentito parlare di
Mélanie Belvoir.
Pazienza. Doveva tenere duro, continuare. Ne aveva viste tante dall’inizio
di quell’indagine. Ed era motivato... Non si era mai avvicinato così tanto al
sole.
A cosa è appesa la vita? Quattro giorni prima c’era mancato pochissimo
che si sparasse un colpo in testa.

Grand-Duc puntò di nuovo il binocolo. Il furgoncino aveva superato una


decina di tornanti.
Strinse nella tasca il calcio del revolver, il suo Mateba, modello 6 Unica
semiautomatico. Quell’arma era diventata quasi un pezzo da collezione da
quando la società americana era fallita. Doveva anche farsi arrivare i proiettili
dal Canada, a peso d’oro: quaranta dollari canadesi per una scatola da sei. Se
ne fregava. Aveva i mezzi, ora più che mai. Il mattino precedente al rifugio di
Monique Genevez aveva recuperato i centocinquantamila franchi extra inviati
da Mathilde de Carville.
Solo un acconto.
Cosa chiedere di più?
Una coscienza pulita forse?
Ripensò al suo quaderno: Lylie e Marc dovevano averlo letto ormai. Era
alquanto improbabile che poi fossero andati da lui, che avessero scoperto il
cadavere. Ma, anche in quel caso, era stato previdente. Ai loro occhi restava
una vittima, non un assassino. Quanto al resto... Era stato abbastanza abile?
Sospettavano la verità? Il sabotaggio mortale di un ridicolo tubo del gas
quella sera di novembre del 1982?
Nel corso degli anni Grand-Duc era riuscito a convincersi di essere stato
solo lo strumento dei de Carville, un semplice mezzo nelle loro mani; a
convincersi di non avere mai avuto l’intenzione di assassinare i Vitral. Se lui
avesse rifiutato il contratto proposto da Léonce de Carville, l’omicidio
sarebbe stato eseguito da qualche scagnozzo, in modo più atroce forse, e
Nicole Vitral non sarebbe stata risparmiata. Si era redento, da allora. Si era
affezionato ai Vitral: a Nicole, ai suoi nipoti. Aveva imparato a conoscerli.
Ad amarli, anche. Sì, amarli. Nicole, soprattutto. Non li aveva mai più traditi.
Aveva cercato di proseguire l’indagine con la maggior imparzialità di cui era
stato capace. Di scrivere tutto in quel quaderno, per loro, il più fedelmente
possibile.
Eccetto la notte di Le Tréport, naturalmente.
Non era un santo, non aveva mai preteso di esserlo. Ma era stato rigoroso,
meticoloso, anche con quei dannati test del DNA che lo avevano fatto
ammattire, fino a quattro giorni prima, quando si era trovato sull’orlo del
suicidio.
Adesso era tutto finito. Il detective privato fallito, il solitario roso dai
rimorsi aveva trovato il bandolo della matassa. Non gli restava che mettere le
mani sull’ultimo testimone.
Mélanie Belvoir.
Il furgoncino giallo sbucò dal tornante e parcheggiò proprio accanto alla
Xantia. Ecco il postino. Giovane, con lunghi capelli rasta stretti in una
bandana rossa. Fisico sportivo. Il tipo capace di farsi il percorso in mountain
bike tagliando per i sentieri escursionistici.
Crédule Grand-Duc gli si piantò davanti. «Mi scusi. Posso farle una
domanda? Può indicarmi dove abita Mélanie Belvoir?»
Il postino lo guardò con diffidenza. «Mi dispiace, per regolamento non
possiamo dare questo genere di informazioni...»
Risposta classica. Ma, senza darlo a vedere, Crédule Grand-Duc esultò. Il
postino aveva reagito al nome di Mélanie Belvoir. La conosceva! Aveva fatto
centro, finalmente. Doveva solo convincerlo a cantare.
Il postino infilò tre lettere nella cassetta davanti a sé e si avviò verso il
furgone.
«Un momento, giovanotto. Parlo sul serio. Polizia!» Crédule Grand-Duc
gli mostrò il suo distintivo di detective privato ufficiale con tanto di timbro
con la bandiera della Repubblica francese, che, nove volte su dieci,
funzionava.
«E allora?» fece l’altro senza neanche guardarlo. «Sto lavorando. Sono in
servizio. Faccia una richiesta ufficiale al mio capo. Le carte sono affar suo...»
Era incappato in un rompiscatole. Non doveva precipitare le cose, non
ancora. Poteva buttarla sul sentimentale. Fece una faccia da commissario
preoccupato. «È urgente. Questione di vita o di morte. Non posso aggiungere
altro, ma ogni minuto è prezioso.»
Il postino lo scrutò per qualche momento. «Io non posso dire niente.
Spiacente, è un’informazione riservata. Le basta una telefonata alla centrale e
saprà.»
«No. Mélanie Belvoir non è sui registri. Non con questo nome, in ogni
caso...»
«Allora è perché non vuole essere scocciata.»
Era veramente incappato in una testa di cazzo. «Giovanotto, è suo dovere
collaborare con la polizia.»
L’altro fischiettò agitando i dreads. «Spiacente, amico. Non è esattamente
nel mio stile denunciare le persone oneste alla polizia. Non sono più quei
tempi, capisci... Perciò, circolare.» Si voltò.
«Okay» replicò Grand-Duc. «Quanto?»
Il postino fece un sospiro. «Quanto cosa?»
«Per l’indirizzo. Cinquemila franchi? Diecimila franchi?»
«Sono metodi da sbirro questi?» Scoppiò a ridere. «Non credo proprio...»
“Ora basta giocare” pensò Grand-Duc. Così non avrebbe ottenuto niente
da quel coglione.
Il postino era già risalito sul furgoncino quando la lunga canna del Mateba
si appoggiò alla sua tempia.
«Questi sono i metodi da sbirro, chiaro?» replicò Grand-Duc.
L’altro tremò, come se tutta la sua insolenza nei confronti dell’autorità
fosse svanita di colpo. Posò istintivamente le mani, ben aperte, sul volante.
«Calma. Calma.»
«Allora, Mélanie Belvoir?»
«Mai sentita. Non la conosco.»
Grand-Duc spinse più forte. Il dito si piegò sul grilletto. Il sudore che
colava dalla tempia del postino inondò la canna del Mateba. «Te l’ho detto. È
una questione di vita o di morte. Anche per te, adesso. Ti faccio una
confidenza, non sono della polizia. Sono un serial killer. Un assassino di
postini. Capito? Ho una fobia per il giallo. Ammazzo tutti quelli che mi
prendono per il culo... Allora, Mélanie Belvoir?»
«Le giuro che...»
«D’accordo, comincerò sparandoti al ginocchio. Fine delle passeggiate in
montagna tra le mucche... Lo sci di fondo, la mountain bike, la via ferrata, le
femmine...» Grand-Duc abbassò la canna, mirando inequivocabilmente alla
gamba.
«Okay, okay!» urlò il postino. «La pianti con queste stronzate. Ha preso il
nome del marito, o dell’uomo con cui vive. Luisans. Mélanie Luisans. Abita
nella valle accanto, sulla D34 uscendo da Montbéliard, a Dannemarie. È il
primo chalet, l’unico, isolato, dopo il villaggio, con le persiane celesti se
ricordo bene...»
«Come lo sai?»
«Continua a ricevere posta con il nome di Mélanie Belvoir, tre o quattro
volte l’anno.»
«Bene, visto? Non era difficile...» Quella volta Grand-Duc esultò senza
ritegno. Aveva scovato l’unico testimone! Era stato il solo a riuscirci. Anche
se qualcun altro avesse aperto quel vecchio numero de “L’Est Républicain” e
avesse avuto un’illuminazione, come sarebbe potuto risalire fino a Mélanie
Belvoir? Come l’avrebbe trovata così velocemente? No, era tranquillo. Aveva
un buon vantaggio.
«Cosa... cosa vuole da Mélanie Belvoir?»
«Non roderti il fegato, mio caro, sei troppo sensibile. Voglio solo parlarle
dei vecchi tempi.»
56

3 ottobre 1998, ore 15.23


Marc guidava d’istinto. Il furgone Citroën non protestava, non era il
momento, e faceva del proprio meglio per salire su per i tornanti fino ai piedi
del Mont Terrible. Marc attraversò Indevillers, poi si avventurò per diverse
centinaia di metri lungo un sentiero di ghiaino bianco bordato da ceppi
impilati. Non poteva sbagliarsi, doveva solo seguire la direzione indicata
dalle frecce di legno sul bordo della strada: CENTRO D’ACCOGLIENZA DEL
PARCO NATURALE REGIONALE DELL’ALTO GIURA.

Parcheggiò davanti allo chalet-museo circondato da un vasto prato. La


facciata dell’edificio era decorata con una grande piantina del Giura franco-
svizzero su cui erano indicati i vari sentieri escursionistici. Accanto al
parcheggio dove si erano fermati, una piccola area ospitava giochi in legno,
sbarre, scivoli e corde lisce, probabilmente destinati agli alpinisti in erba non
ancora stremati dalle gite in montagna con i genitori.
«Sono le quattro» disse Marc. «Possiamo arrivare in cima prima che faccia
buio.»
Malvina lo guardò con un’ironia non dissimulata. «Cosa pensi di trovare
lassù?»
«Niente. Non sei obbligata a seguirmi, sai.»
«Sei veramente troppo scemo. Perché credi che sia venuta fin qui?»

Marc entrò nel centro d’accoglienza. Comprò una cartina dell’Institut


Géographique National della regione e una guida topografica. Una donna alta
e bruna, con lunghe trecce da indiana, stava alla cassa. Un tizio le
accarezzava le dita con una mano, come per mostrarle su quali tasti premere,
mentre con l’altra le palpeggiava apertamente il sedere.
“Grégory” pensò Marc. L’ingegnere del parco con gli occhi da husky.
L’uomo dei boschi collezionista di piccole stagiste appena uscite
dall’università.

Marc raggiunse Malvina fuori, stese la cartina su un tavolo davanti al centro


d’accoglienza e individuò rapidamente il sentiero da seguire fino alla vetta
del Mont Terrible. Ripiegò la mappa, aprì la porta posteriore del furgone, tirò
fuori uno zaino e lo riempì con un sacco a pelo, una lampada tascabile, una
bottiglia d’acqua, un salame e qualche pacchetto di biscotti.
«Avevi organizzato tutto? Il retro del tuo furgone è come la caverna di Alì
Babà!»
«Sai, da mia nonna non c’è tanto spazio. Né cantina né garage. Allora
mettiamo le scorte nel furgone...»
«Posso servirmi?»
«Accomodati. Non caricarti troppo, però: lo zaino non deve pesare più di
te.»
«Non illuderti, sarai tu a piangere prima di arrivare in cima!»
Marc si sforzò di ridere. Non aveva più voglia di pensare in modo
razionale, di pianificare una strategia. Intuiva che il viaggio che stava
intraprendendo non aveva senso: salire sul Mont Terrible, ritornare sui luoghi
della tragedia, cercare la capanna di Grand-Duc e la tomba... Grand-Duc
poteva trovarsi ovunque, ma sicuramente non lassù. Marc era prigioniero di
una spirale senza fine. Il braccialetto d’oro, la polvere di ossa di neonato, le
tracce di un senzatetto testimone dell’incidente... Tanti sassolini seminati da
Grand-Duc come un sadico Pollicino. Cosa sperava di trovare una volta in
cima? Il miracolo, l’illuminazione?
Fece una smorfia. Sì, di fatto era proprio quello che sperava.

Si misero in cammino. Come previsto, l’ascensione durò due ore abbondanti.


Marc procedeva rapidamente e Malvina lo seguiva senza mostrare il minimo
segno di fatica. Il sentiero non era molto impegnativo, cinquecento metri di
dislivello su un tracciato ben segnalato attraverso il bosco. A mano a mano
che salivano, si svelava il panorama sulla valle del Doubs, sulla Svizzera, sul
villaggio fortificato di Saint-Ursanne. Si fermarono per bere a mezzacosta. Il
caldo era piuttosto opprimente. Marc sudava e aveva la camicia fradicia sotto
lo zaino. Malvina, dal canto suo, aveva tenuto la maglia, eppure non una
goccia le imperlava la pelle. Per raggiungere la cima del Mont Terrible
bisognava attraversare un fitto bosco di pini, in leggera pendenza.
Marc accelerò ancora. Malvina si adeguò al suo passo, al suo ritmo, al suo
respiro. Lo sforzo fisico li rendeva complici, si sorprese a pensare Marc. Era
ridicolo.
Poi la scena del dramma gli si parò davanti, senza preavviso.
Il bosco terminava all’improvviso, come se un’orda di contadini
dissodatori fosse venuta sul monte a disboscare un’improbabile parcella con
una minuzia da agrimensore: una fascia di quaranta metri di larghezza per un
chilometro di lunghezza. Erano stati ripiantati dei giovani pini, che non
superavano il metro d’altezza, come nani inviati per ripopolare un pianeta di
giganti. Nani festosi in un cortile multicolore: la parcella rettangolare era
infatti coperta di genziane gialle e blu, di scarpette di venere e di arnica dalle
sfumature aranciate.
Malvina e Marc erano immobili, fianco a fianco. Non restava traccia della
catastrofe. Non un monumento, non una targa di marmo né un cartello.
“Meglio così” pensò Marc. Solo migliaia di fiori di campo. Di lì a una
ventina d’anni i giovani pini sarebbero stati alti come le altre conifere del
bosco, i loro rami si sarebbero uniti come mani che si congiungono e,
progressivamente, all’ombra, i fiori di campo sarebbero soffocati, sprofondati
nel lutto a loro volta, lasciando il posto alle felci, al muschio o al più a
qualche giunchiglia.
E tutto sarebbe stato dimenticato.
Rimasero lì, silenziosi. Marc era in piedi, immobile, tra la foresta e la
radura rettangolare, come se non osasse profanare il luogo. Malvina si
allontanò un po’ e camminò sull’erba. Gli steli più alti le arrivavano alle
cosce. Lui sentì il battito del cuore accelerare. Aveva qualche difficoltà a
deglutire. Conosceva bene i primi sintomi di una crisi di agorafobia, anche se
lì si manifestavano più lentamente, forse a causa dell’altitudine. Quella
fottuta paura di avere paura...
Non disse niente, non si mosse, limitandosi a fare dei respiri profondi.
Probabilmente Malvina lo sentì, o forse lo intuì. Si girò. Il sole la costrinse a
socchiudere gli occhi e sembrò che lei gli stesse sorridendo. Una sorta di
sorriso triste, di tregua melanconica, di quieta disperazione. Marc tossì. Non
gliel’avrebbe mai confessato, ma le difficoltà respiratorie si attenuarono.
Anche se non sarebbe stato disposto ad ammetterlo nemmeno sotto tortura, fu
costretto a riconoscere con se stesso che la presenza di quella pazza lo
rassicurava, ancora di più in quel santuario di cui condividevano il segreto.
Rimasero lì probabilmente oltre un’ora. Il pallido disco del sole sotto le
nuvole aveva quasi raggiunto la cima degli alberi.
«Andiamo alla capanna?» chiese piano Marc.
Malvina non rispose. Si limitò a seguirlo.

Marc dovette consultare diverse volte la cartina. Passarono quasi un’ora a


vagare nel bosco e a fare dietrofront nelle radure, l’una simile all’altra.
Veniva da pensare che Grand-Duc si fosse inventato tutto. Malvina non fece
commenti e, anzi, si sforzò di aiutarlo a leggere la guida topografica.
Cominciava a fare buio quando alla fine scovarono la famosa capanna.
Grand-Duc non aveva mentito! Era tale e quale a come l’aveva descritta nel
diario: una baracca da pastore, di pietre ammonticchiate le une sulle altre, con
il tetto in rovina. Per un istante Marc sperò che Crédule Grand-Duc li
aspettasse all’interno. Istintivamente fece scivolare la mano in tasca, sul
Mauser.
Non ce n’era bisogno.
La capanna era vuota. Più pulita di come l’aveva descritta Grand-Duc, ma
del resto lui aveva raccontato di avere raccolto quasi tutti i rifiuti mentre era
alla ricerca di Georges Pelletier.
Quel fuggiasco almeno esisteva?
Marc uscì dalla capanna e le girò attorno. Tutti i dettagli corrispondevano
a quanto scritto da Grand-Duc: la terra rivoltata, i sassi sparpagliati per
qualche metro, due pezzi di legno che potevano essere stati uniti per formare
una croce, spezzati, accanto. Il detective non aveva mentito neanche su quel
punto. Accanto alla baracca effettivamente c’era la tomba che lui aveva
profanato due volte per trovare una maglia d’oro e i resti di un neonato.
Che importanza aveva?
Marc guardò l’orologio.
Le 19.36.
Non aveva ricevuto nessun altro messaggio da Lylie. Si sedette su un
tronco morto, a qualche metro dalla capanna. Il sole stava tramontando su
quel tetto del mondo. Il tetto del suo mondo, almeno. Lontano da tutto. In
compagnia di una pazza. Non così pazza dopotutto, non così pericolosa, non
così cattiva.
Marc aveva perso. Avrebbe lasciato che i ricordi dolorosi lo invadessero e
lo sommergessero. Si sarebbe lasciato cullare da quella nostalgia morbosa per
evitare di pensare che Lylie era nella camera di una clinica, che avrebbe
abortito di lì a qualche ora, perché il frutto avvelenato del loro amore doveva
essere estirpato in virtù di un insopportabile principio di precauzione. Per
evitare di pensare anche che l’unico in grado di aiutarlo, l’assassino di suo
nonno, era in giro da qualche parte, in libertà, e che non aveva nessuna
possibilità di trovarlo lì.

Malvina lo raggiunse. «È pronto!» Aveva sistemato su un pezzo di stoffa una


bottiglia d’acqua, i biscotti e il salame. Alla rinfusa. «Che scorpacciata, eh?»
Mangiarono in silenzio. Solo la luna illuminava ora la capanna, che
sembrava una catapecchia abitata dai fantasmi in mezzo a un bosco di orchi.
Erano entrambi consapevoli che era troppo tardi per scendere, che avrebbero
dovuto dormire lassù, insieme. Senza essersi scambiati una parola, erano
d’accordo, erano andati là per quello.
Una notte sul Mont Terrible.
Due orfani perduti in un cimitero senza tombe.

Quando si furono sistemati, Marc tirò fuori dallo zaino il quaderno verde di
Grand-Duc e lo porse a Malvina.
«Tieni. Dev’essere un po’ che lo cerchi, no? Forse sei più furba di me.»
«Sono le memorie di quel bastardo?»
«L’hai detto...»
«Grazie comunque.» Malvina prese il quaderno, il suo sacco a pelo e una
torcia ed entrò nella capanna. Marc invece si allontanò, illuminando il terreno
davanti a sé con il filo di luce della torcia. Vagò nel bosco per parecchi
minuti, descrivendo un ampio cerchio attorno alla capanna. Quando tornò, la
lampada di Malvina illuminava timidamente l’interno, come la fiamma di una
candela in una lanterna.
Marc entrò. Malvina dormiva raggomitolata nel sacco a pelo. Il quaderno
di Grand-Duc era aperto, proprio accanto alla sua testa. Lui sorrise. Quella
giovane donna, di quattro anni più grande di lui, torturata da tutto l’odio
accumulato, gli faceva tenerezza, come una sorella che avrebbe dovuto
proteggere. Si avvicinò con cautela, prese il quaderno verde e uscì dalla
capanna. Tornò a sedersi sul tronco e girò meccanicamente le pagine, fino
all’ultima. Le ultime righe.

Ho trascritto nel quaderno ogni indizio, ogni pista, ogni ipotesi. Diciotto anni di indagini.
Tutto è affidato a questo centinaio di pagine. Se le avete lette con attenzione, ora ne sapete
tanto quanto me. Forse voi sarete più perspicaci? Forse seguirete un percorso che io ho
trascurato? Forse troverete la chiave, ammesso che ne esista una? Forse...
Perché no?
Per me è finita.
Dire che non ho rimpianti né rimorsi sarebbe esagerato, ma ho fatto del mio meglio.

“Ho fatto del mio meglio.”


Non ebbe nessuna nuova intuizione. Tentò di telefonare a Lylie, ma in
quell’angolo sperduto di montagna non c’era campo. Marc maledisse la sua
stupidità. Andare in quel posto dimenticato da Dio era stata l’idea peggiore
che avesse mai avuto. Doveva accontentarsi dei messaggi memorizzati sul
telefono. Rilesse l’ultimo, ricevuto sul furgone, nel pomeriggio.

Marc, entro in sala operatoria domani mattina alle dieci. È tutto okay. Non preoccuparti.
Ti chiamo dopo. Andrà tutto bene. Un bacio. Emilie.

“Domani mattina alle dieci.”


Si sentiva talmente inutile...

Il verso di una civetta rendeva ancora più sinistra l’atmosfera della notte.
Forse era un gufo reale, o un “granduca”, come lo chiamavano da quelle
parti. Marc sorrise tra sé e sé. Non sapeva niente di rapaci, ma comunque
quell’uccello notturno aveva trovato un nascondiglio tra i rami, invisibile.
Marc puntò la torcia e illuminò soltanto delle foglie. «Dove ti nascondi?»
chiese a voce alta.
La sua domanda si perse nella montagna.
«Imprendibile, eh? Rintanato nell’ombra? Da quanto tempo sei qui, sul
monte, tutte le notti, a guardare, a spiare? Quando il grande uccello di ferro si
è schiantato nel tuo regno, tanti anni fa, eri già qui, vero? Georges Pelletier, il
braccialetto... Hai visto anche tutto questo? E Grand-Duc, anni dopo, che
giocava al becchino... Cos’hai visto, eh? Dimmi.»
Gli rispose un verso quasi gioioso.
«Mi prendi in giro? Credi veramente che io non abbia più nessuna
possibilità? Non hai torto... Immagina, però. La mia piccola ha dodici anni.
Siamo soli, tutti e due, in mezzo alla natura, sotto una tenda. La notte. Le
parlo delle stelle. Le dico qualcosa del tipo: “Vedi, tesoro mio, quella sera mi
trovavo in una situazione difficile. Ero lassù, sulla montagna, nella nebbia più
totale. Dovevo trovare la soluzione entro il giorno dopo alle dieci. Tua
mamma dormiva all’altro capo del mondo. Ci è mancato poco, tesoro mio,
perché tu non le vedessi mai, le stelle, perché io non sentissi mai la tua risata,
non stringessi mai le tue piccole dita. Il tuo papà ti ha salvata in extremis, sai.
È stato astuto quella sera...”.»
La torcia perlustrò ancora i rami. Un’ombra nera volò via. Un gufo reale o
un altro uccello notturno.
«Hai ragione, sto dando i numeri...»

Marc tornò alla capanna. Aveva freddo. Si infilò nel sacco a pelo e si mise
vicino a Malvina. Steso sulla schiena, i suoi occhi volavano verso il cielo
attraverso le fessure del tetto. Come lucernari sull’infinito. Doveva riflettere
ancora, torturarsi, interrogarsi finché il suo inconscio gli avesse suggerito
qualcosa, un indizio qualsiasi. Una chiave. Doveva sfruttare ogni minuto
delle ore che gli restavano.
Accanto a lui, Malvina si agitava nel sonno. Cambiava posizione di
continuo, senza svegliarsi, lanciando ogni tanto piccole grida. Poco alla volta
si avvicinava a Marc, cercando istintivamente il calore del suo corpo. Aveva
già dormito accanto a un uomo?
Mezzanotte doveva essere passata da un pezzo. Marc, che non aveva
chiuso occhio la notte precedente, sprofondò nel sonno senza neanche
accorgersene.
Sfinito.
Dormì tre ore.
Fu il grido di Malvina a svegliarlo di soprassalto. Un grido da pazza. Lei
era in piedi nella capanna, tutta tremante. I lunghi capelli spettinati le
conferivano l’aspetto di una strega impaurita. Le gambe magre uscivano dalla
maglia che aveva tenuto addosso e i piedi saltellavano come se camminassero
sulle braci.
«Tutto... tutto a posto?» chiese Marc con la voce strozzata.
«Sì, sì. Non preoccuparti per me. Sono abituata.» Malvina tornò a
stendersi. Marc la guardava, inquieto. «Tutto okay, ti ho detto!»
«Sicura?»
«Sì, rimettiti a dormire! Non ho bisogno della balia. Non rompere. Dormi,
ti ho detto!»
«Non sono sicuro di riuscire a riaddormentarmi...»
«Mettiti il dito in bocca, allora. Avrai pur dovuto imparare a convivere con
i tuoi incubi... Arrangiati!» Malvina gli voltò le spalle.
I due sacchi a pelo si toccavano. Strana intimità. Marc rimase steso con gli
occhi aperti. Erano le quattro del mattino. Ora o mai più. Doveva tentare
subito qualcosa. Dopo sarebbe stato troppo tardi. Malvina si era già
riaddormentata. Cosa poteva fare?
Gli occhi di Marc continuavano a fissare la notte. Le stelle apparivano e
scomparivano, probabilmente nascoste da invisibili nubi spinte dal vento del
Giura. Come finte stelle cadenti che invitano a esprimere desideri
irrealizzabili. Come la luce intermittente di un aereo che di notte si confonde
con le costellazioni. Più vicina. Effimera.

Cosa poteva fare?


Le riflessioni lo riportavano immancabilmente alle ultime righe del
quaderno verde, a quel suicidio abortito.
Grand-Duc aveva bluffato? Aveva veramente scoperto qualcos’altro,
quella sera, dopo avere scritto le sue memorie e avere riposto la penna? A
mezzanotte meno cinque? Un fatto nuovo che non aveva annotato nel
quaderno?
Marc tentò di ricordare. Che cosa aveva detto Malvina in treno il giorno
prima? Si concentrò. Davanti ai suoi occhi, le uniche due costellazioni che
era in grado di riconoscere, l’Orsa Maggiore e Vega, erano appena
scomparse.
Le parole di Malvina affiorarono nell’oscurità della sua memoria:
“Crédule Grand-Duc l’altroieri ha telefonato a mia nonna. Le ha detto che
aveva scoperto qualcosa. La soluzione di tutto il caso, a quanto sosteneva.
Così, a mezzanotte meno cinque, l’ultimo giorno! Proprio nel momento in cui
si doveva sparare un colpo in testa sopra l’edizione de ‘L’Est Républicain’
del 23 dicembre 1980! Aveva bisogno ancora di un paio giorni per
raccogliere le prove, ma affermava di essere sicuro, aveva risolto il mistero.
Gli servivano anche altri centocinquantamila franchi...”.
Marc si ripeté più volte quelle parole. Se non stava mentendo, Grand-Duc
aveva trovato la soluzione poco prima di spararsi un colpo in testa, nel suo
ufficio, in rue de la Butte-aux-Cailles, di fronte al caminetto in cui bruciavano
i faldoni. La mattina dopo Marc aveva frugato in ogni angolo di quella stanza
e non aveva trovato niente, a parte un cadavere. E lo stesso Malvina. Che
cosa avevano trascurato? Marc tentò di immaginare la scena del suicidio di
Crédule Grand-Duc. La canna contro la tempia, l’inchiostro del giornale che
avrebbe assorbito il sangue. Perché si era interrotto? Cosa aveva intuito?
Cosa aveva visto o letto? La risposta gli venne naturale: “L’Est Républicain”
del 23 dicembre 1980. Il giornale era probabilmente l’ultimo oggetto su cui
gli occhi di Grand-Duc si erano posati.
E se la soluzione fosse stata stampata su un quotidiano di diciotto anni
prima?
Perché no, in fondo? Al punto in cui era, se non era una pista, almeno era
uno scopo.

Marc si alzò senza far rumore per non svegliare Malvina, che continuava a
lanciare piccole grida nel sonno agitato. Infilò alla rinfusa le sue cose nello
zaino, tirò fuori dalla tasca una delle pagine strappate dal quaderno di Grand-
Duc, la girò e scrisse sul retro:

Sono andato a prendere i croissant. Marc

Posò il biglietto per terra, vicino alla testa di Malvina, accanto alla guida
topografica. Lui avrebbe preso la cartina. Guardò per l’ultima volta la sagoma
di quel corpicino da bambina perso nel sacco a pelo blu e grigio troppo
grande. Malvina sarebbe sicuramente riuscita a cavarsela da sola.
Il sole non si era ancora alzato, ma un leggero chiarore lasciava
intravedere il crinale in lontananza. Le stelle si spegnevano a una a una.
L’alba dell’ultimo giorno. Marc pensò a Lylie, in una camera bianca.
Si mise in cammino.
57

4 ottobre 1998, ore 06.05


Le sei del mattino. Grand-Duc si stiracchiò nella Xantia. Aveva parcheggiato
in un piccolo sentiero sterrato dove i ciuffi d’erba tentavano di sopravvivere
tra i solchi, subito dopo l’uscita di Dannemarie, a qualche decina di metri
dallo chalet di Mélanie Belvoir. Mélanie Luisans, anzi. La sua nuova identità.
La posizione del suo nascondiglio era strategica: poteva facilmente
distinguere i veicoli che salivano da Dannemarie ben prima che gli passassero
davanti, senza essere visto. L’abc del mestiere. Grand-Duc pensò che erano
anni che non faceva un appostamento notturno. Gli ricordò la sua gioventù,
prima dell’accordo con i de Carville, quando passava le notti davanti ai
casinò sulla costa nizzarda o basca. La Xantia di Nazim era scomoda quasi
come i catorci con cui girava all’epoca.
Crédule Grand-Duc afferrò un thermos dallo spazioso cassetto del
cruscotto e versò il caffè in una tazza di plastica. Bevve un sorso e fece una
smorfia al contatto con il liquido ancora bollente.
Aveva tempo. Mélanie Belvoir non sarebbe rientrata prima delle nove del
mattino. Lavorava come infermiera all’ospedale di Belfort-Montbéliard e
faceva il turno di notte. Crédule Grand-Duc si era intrattenuto a lungo con lei,
al telefono, la sera prima. Aveva registrato la conversazione, ovviamente. Era
il minimo, visto il tempo che aveva impiegato per catturarla nella sua rete.
Poi aveva passato buona parte della serata al rifugio Genevez a trascrivere la
conversazione sul computer e ne aveva stampato una copia.
Grand-Duc lanciò un’occhiata al sedile del passeggero. I fogli erano lì
sopra, in una busta. Mélanie Belvoir-Luisans non doveva fare altro che
apporre la sua firma.
Bevve un altro sorso. Il caffè aveva uno schifoso sapore di plastica.
Quanto sarebbero stati disposti a pagare i de Carville per quella busta? Di
certo una vera fortuna. Almeno tanto quanto lo stipendio complessivo che gli
avevano corrisposto in diciotto anni...
Grand-Duc non aveva scrupoli: i de Carville potevano pagare, avevano
mezzi illimitati. Quale poteva essere il prezzo della sua coscienza? Una botte
di bigliettoni, la botte delle Danaidi?
Si morse le labbra. Il calore del caffè. Il dolore, anche. Come un pizzicotto
al cuore. Quella fortuna avrebbero potuto dividersela, se Nazim l’avesse
seguito. Forse non in parti uguali, ma comunque il suo socio avrebbe avuto
abbastanza denaro per comprarsi la sua villa in Turchia. Ma lui non aveva
voluto saperne. Se l’era fatta sotto, quella volta. “Archiviato” aveva detto. I
de Carville avevano pagato abbastanza, secondo lui. Il caso era chiuso.
Crédule Grand-Duc era consapevole che non avrebbe dovuto alzare i toni.
Nazim era una persona ammodo, ma impulsiva. “Vado alla polizia, Crédule”
aveva minacciato. “Se non mi lasci in pace, lo faccio veramente. È un bel
pezzo che ci penso...”
“Come sarebbe? Cosa intendi dire?” Crédule Grand-Duc aveva avuto
paura: Nazim non parlava mai tanto per parlare. Allora gli aveva chiesto
spiegazioni, garanzie, poi la situazione era degenerata.
Nazim aveva estratto l’arma per primo. Grand-Duc era stato più veloce a
sparare, ecco tutto. Uccidere Nazim era l’ultima cosa che avrebbe voluto fare,
e anche tutto il resto era stato casuale. Nazim che aveva battuto il capo contro
il caminetto. Le idee che erano scaturite, l’una dopo l’altra: spingere un po’ di
più la testa nel focolare per impedire il riconoscimento; tirarla fuori per
radere quello che restava dei baffi; mettergli i suoi vestiti, le sue scarpe, il suo
orologio, per guadagnare tempo nel caso in cui Lylie o Marc fossero andati a
curiosare. Non aveva neanche previsto di uccidere Ayla, ma a quel punto non
aveva avuto altra scelta. Grand-Duc la conosceva, sarebbe andata difilato alla
polizia. Nazim non aveva preso parte a niente, ma era al corrente
dell’attentato ai nonni Vitral, naturalmente, e quello stupido doveva aver
raccontato tutto a sua moglie, a letto. Non era colpa di Grand-Duc se Nazim
era incapace di tenere la bocca chiusa con sua moglie. La sera prima gli
aveva telefonato lasciandogli dei messaggi concitati. Grand-Duc era stato
costretto a tornare a Parigi. Cinque ore di autostrada. L’aveva pedinata con
discrezione, dal chiosco in boulevard Raspail fino a rue de la Butte-aux-
Cailles, poi al bosco di Coupvray. L’aveva fatta fuori laggiù – un’occasione
insperata –, poi era tornato nel Giura, a centottanta all’ora in autostrada, per
trovare il postino e chiudere quella storia.
Grand-Duc si sforzò di inghiottire il contenuto della tazza.
Fece un’altra smorfia.
Nazim Ozan. Ayla Ozan.
I suoi unici amici, in tutti quegli anni. Uccisi con le sue mani.
Che ironia!
Sì, i de Carville potevano pagare!

Non aveva voluto nulla, non aveva deciso nulla. Era avvenuto tutto suo
malgrado. Un complesso ingranaggio e fortunatamente, alla fine, un bel
premio di consolazione.
Mélanie Belvoir.
L’ospite a sorpresa.

Crédule Grand-Duc guardò l’orologio digitale con le cifre verdi della Xantia.
Le 06.15.
Aveva ancora tempo. Era dannatamente in anticipo.
Su tutti.
58

4 ottobre 1998, ore 06.29


Marc lasciò il furgone in un parcheggio in centro a Montbéliard, a meno di
cinquanta metri dagli uffici de “L’Est Républicain”. Ci aveva messo circa
un’ora e mezzo per scendere dal Mont Terrible. Lì aveva preso il furgone,
che lo attendeva pazientemente davanti al centro d’accoglienza del parco, e
tre quarti d’ora dopo era arrivato a Montbéliard. Entrato nel primo bar aperto,
un cameriere gli aveva indicato l’indirizzo de “L’Est Républicain”: place
Jules-Viette, 12.
Gli uffici del giornale erano chiusi. Logico. A quell’ora cosa si aspettava?
Marc si aggrappava alla sua chimera: scoprire la verità prima che Lylie
entrasse in sala operatoria, di lì a meno di quattro ore. Una saracinesca
nascondeva completamente l’interno degli uffici. Si voltò e osservò il
parcheggio dove si era fermato. C’erano tre camion con il logo de “L’Est
Républicain”. Evidentemente, a quell’ora del mattino, la consegna dei
giornali non era ancora terminata. Non tutto era perduto.
Marc percorse in fretta boulevard Cuvier, poi svoltò in impasse Maurice-
Deloraine. Un furgoncino era parcheggiato di traverso sulla strada e tre operai
caricavano sul retro pile di giornali imballate nel cellofan. Una radio locale
sbraitava: un conduttore ilare leggeva l’oroscopo.
«Buongiorno» disse Marc. «Gli uffici sono chiusi?» Si morse le labbra.
Difficile fare una domanda più cretina.
L’operaio lo fissò e rispose senza neanche togliersi la sigaretta di bocca.
«Sei fortunato, apro la segreteria tra cinque minuti.» Marc fu abbagliato da
una debole luce di speranza, che svanì non appena l’altro aggiunse: «Dammi
il tempo di infilarmi una gonna e sono da te».
I suoi colleghi scoppiarono a ridere.
Marc incassò il colpo.
«Torna fra tre ore, bello mio. Come vedi qui siamo occupati...»
Marc si piazzò davanti all’operaio. Lo superava di una testa e mezzo.
«Non posso aspettare, signore» disse in tono educato. «Glielo chiedo per
favore, non c’è nessuno che possa aprirmi gli uffici? Ho bisogno solo di
un’informazione...»
«Può sempre chiedere alla marescialla» gli rispose una voce proveniente
dal fondo del magazzino.
I tre scoppiarono di nuovo a ridere. Non Marc.
«E va bene, se ci tieni, ragazzo.» L’operaio premette un tasto su un
piccolo citofono. «Signora Montaigu? C’è qualcuno che chiede di lei
all’ingresso del magazzino.»

Qualche minuto dopo, la signora Montaigu comparve. La marescialla era una


donnina elegante, con un tailleur modellato sul vitino di vespa, la gonna fino
alle ginocchia, le gambe abbronzate e un paio di décolleté rosse; l’insieme era
però rovinato da un viso troppo severo, che esprimeva chiaramente gli anni di
privazione per scalare ogni gradino della gerarchia aziendale. Portava un paio
di occhialetti sulla punta del naso; in una mano teneva una pila di lunghi
elenchi, nell’altra una penna. La marescialla...
«Di cosa si tratta?» chiese con il volto impenetrabile.
Marc tentò di improvvisare. Che dire? Quale pretesto inventare perché la
marescialla Montaigu accettasse di aprire gli archivi alle sette del mattino?
Poteva estrarre il Mauser L100 e minacciarla? Ridicolo.
«Allora?» insistette la Montaigu dando un’occhiata all’orologio da sopra
gli occhiali.
Marc entrò nel panico. «Ehm... Senta... Ho... ho bisogno di consultare un
vecchio numero de “L’Est Républicain”. Molto vecchio. Un numero preciso.
Ho bisogno di consultare il numero del 23 dicembre 1980...»
La marescialla fece un sorrisetto. «Visto il suo stato, suppongo che sia
urgente...»
«Di più...»
«Bene... Per quanto urgente sia, penso che possa aspettare l’apertura della
reception, alle nove.»
I tre magazzinieri, che continuavano a caricare le pile di giornali, non
perdevano neanche una parola della conversazione. La Montaigu stava già
girando i tacchi alti e sottili.
«No!» urlò Marc.
La marescialla si voltò ostentando un’espressione ancora più irritata.
Marc si lanciò, senza pensarci. «Ascolti... La mia ragazza aspetta un
bambino. Il nostro bambino. Abortirà tra poco perché ha un dubbio
sull’identità dei suoi genitori. Ho buone ragioni per credere che la prova della
loro identità si trovi in quel giornale...»
La marescialla Montaigu sgranò gli occhi, sbalordita. I tre operai si
fermarono di colpo. Quando lei li fucilò con lo sguardo, ripresero
immediatamente il lavoro. Poi la donna tornò a guardare Marc, esasperata.
«Vuole impedire alla sua ragazza di abortire, è così? Crede davvero che...»
«Merda!» urlò lui. «Non mi farà mica un discorsetto femminista del
cazzo! Voglio semplicemente dare un’occhiata a quel giornale. Le chiedo
solo una possibilità, una piccola possibilità...» Era almeno riuscito a
destabilizzarla. Proseguì: «Si ricorda del disastro aereo del Mont Terrible?».
La Montaigu fece cenno di no. “Logico” pensò Marc “non doveva avere più
di dieci anni allora.” Pazienza, doveva continuare... «“L’Est Républicain”
all’epoca era uscito con un articolo intitolato La miracolata del Mont
Terrible. La mia fidanzata è lei. E quello è il numero che voglio consultare!»
La marescialla evidentemente non ci capiva nulla. Era confusa, non si
sentiva a suo agio. Gli studi di management le avevano insegnato che non
bisogna mai prendere una decisione prima di avere in mano elementi
sufficienti per farsi un’idea precisa della situazione. «Marcel» disse «lei che è
qui da quarant’anni si ricorda di questa storia dell’incidente aereo del Mont
Terrible?»
Marcel non aspettava altro. Aveva buttato senza farsi notare la sigaretta
per terra. «Eccome, signora. Il più grande dramma della regione, il Natale del
1980. Quasi duecento morti lassù, qui vicino...»
«Il giornale ne aveva parlato?»
«Eccome! Era uscito con un articolo la mattina stessa, un’esclusiva
sull’unica sopravvissuta, una neonata. Tutte le TV avevano ripreso la notizia.
Il giornale ne aveva parlato per mesi... Tralascio i dettagli, ma...»
«Si ricorda il nome della sopravvissuta?» tagliò corto la marescialla.
«Sicuro. Come dimenticare? Emilie Vitral, una piccola normanna.»
La Montaigu si girò verso Marc. «E lei chi è?»
«Marc Vitral...»
«Il marito?»
Marc esitò un istante. «Sì... Cioè, no... È... è un po’ complicato...»
La donna non fece commenti. «A che ora deve abortire?»
«Alle dieci...»
«Qui?»
«No, a Parigi.»
«È pazzesco. Lei è pazzesco...»
«È urgente. Voglio solo consultare quel giornale. Glielo prometto, se
salviamo il bambino, sarà la madrina!»
La marescialla scoppiò in una sonora risata. «Per carità, non ci pensi
neanche! Io odio i bambini.» Esitò per un istante, poi si arrese. «D’accordo,
andiamo, mi segua.»

La Montaigu lo condusse nel seminterrato, in un’ampia stanza che serviva da


archivio. Le pareti non erano pitturate e, in mancanza di finestre, lunghi neon
la illuminavano di una luce bianca. La catalogazione era estremamente
semplice. In grandi armadi di legno, i numeri de “L’Est Républicain” erano
ordinati in orizzontale, catalogati per anno e poi per trimestre.
Marc aprì il cassetto con scritto “1980, settembre-dicembre”. Cercò
direttamente verso il fondo e trovò senza difficoltà il numero del 23
dicembre. Lo posò sul tavolo di lavoro, al centro della stanza.
Una grande fotografia a colori, un po’ sfocata, occupava quasi tutta la
prima pagina: una carcassa di aereo distrutta in mezzo ad alberi in fiamme.
Una scena di orrore. La neve, il fuoco e il ferro sembravano essersi uniti per
annientare qualsiasi forma di vita umana. La speranza era raffigurata in
un’altra fotografia, più piccola, che mostrava un neonato in braccio a un
pompiere davanti all’ospedale di Belfort-Montbéliard. Lylie. Qualche riga
commentava le immagini:

Drammatico schianto dell’Airbus 5403 Istanbul-Parigi sui pendii del Mont Terrible, al
confine franco-svizzero, nella notte fra il 22 e il 23 dicembre 1980. Centosessantotto dei
centosessantanove passeggeri e membri dell’equipaggio sono morti sul colpo o hanno
perso la vita intrappolati tra le fiamme. L’unica miracolosamente sopravvissuta è una
bambina di tre mesi, sbalzata fuori al momento della collisione, prima che la carlinga si
incendiasse.

Tutto lì.
Marc rimase alcuni minuti a osservare le immagini, i volti in secondo
piano, la carlinga, le fiamme, ogni albero, le tracce scure nella neve. A
leggere e rileggere quelle poche righe.
Nulla. Nulla di nuovo.
Una pista sbagliata. Un vicolo cieco. Ancora. Definitivo questa volta.

Marc si prese la testa tra le mani, si raddrizzò un po’ e osservò le pareti


bianche della stanza.
Fu solo allora che i suoi occhi si posarono sulle altre informazioni della
prima pagina del giornale. La vittoria per 3-1 dell’FC Sochaux contro
l’Angers; una manifestazione operaia in una fabbrica di occhiali, vicino a
Morez, nell’Alto Giura; le tappe del giro di Babbo Natale nei comuni della
regione...
E, in fondo alla pagina, un trafiletto. Solo nove parole.

Mélanie Belvoir. Diciotto anni. Scomparsa ormai da tre settimane.

C’era una piccola fotografia a colori, tre centimetri per due.

Per poco Marc non svenne. Era assurdo, non poteva trattarsi che di un falso.
Un fotomontaggio.
Il volto di quella ragazza di diciotto anni, Mélanie Belvoir, era quello di
Lylie.
Non la faccia di una che le assomigliava. No. Era lei. Gli stessi occhi
celesti, gli stessi zigomi, lo stesso sorriso, la stessa fossetta sul mento. Solo la
pettinatura era leggermente diversa: i capelli di Lylie erano un po’ più corti.
La fotografia pubblicata su quel vecchio giornale era il fac-simile di quella
pinzata sul libretto universitario di Lylie, di quella incollata sul suo
abbonamento ai mezzi pubblici, di quella che Marc conservava gelosamente
nel suo portafogli.
Non aveva senso!
Sulla stessa pagina di giornale datato 23 dicembre 1980 in cui si parlava
della tragedia, una fotografia immortalava Lylie all’età di tre mesi, fra le
braccia di un pompiere davanti all’ospedale, e Lylie all’età di diciotto anni,
bella, sorridente, come Marc l’aveva lasciata due giorni prima, il 2 ottobre
1998...
Stava diventando pazzo?
Quello era un incubo, e lui si sarebbe svegliato, sudato, accanto a Lylie?
O, peggio, accanto a Malvina, nella capanna del Mont Terrible?
59

4 ottobre 1998, ore 07.12


I raggi del sole si intrufolavano attraverso le fessure del tetto della capanna
come i raggi laser della camera blindata di una banca in un film poliziesco.
Uno di essi finì per raggiungere il viso di Malvina. La ragazza assaporò
prima il piacevole tepore sulla guancia, poi si girò nel sacco a pelo diverse
volte e infine aprì gli occhi.
Meccanicamente la sua mano cercò il sacco a pelo vicino, quello di Marc.
Si richiuse sulla terra secca.
Nessuno.
Niente più sacco a pelo. Niente più corpo caldo. Nulla.
Solo un pezzo di carta, un biglietto.

Sono andato a prendere i croissant. Marc

Stronzo! E pensava anche di essere simpatico.


Accanto, la guida. Il messaggio era chiaro: “Arrangiati!”.
Malvina borbottò tra sé e si alzò di scatto. Che stupida era stata! Non
avrebbe mai dovuto fidarsi di un Vitral.
Aveva un’espressione cattiva in quel momento, da sola, in cima al Mont
Terrible, con un cellulare inutilizzabile perché non c’era campo.
Si era lasciata ingannare come una bambina. Adesso aveva una sola
opzione: scendere giù.
Malvina mollò tutto nella capanna – il sacco a pelo, la lampada e i resti del
pasto frugale della sera prima – e si mise in cammino. Non una sola volta
lungo il tragitto gettò uno sguardo al sole radente del mattino che dava alle
montagne svizzere un aspetto himalayano.
Un’ora dopo avvistò il centro d’accoglienza del parco naturale. Alcuni
bambini si divertivano già nel giardinetto sui giochi di legno mentre i
genitori, qualche metro dietro di loro, erano impegnati a infilare le stringhe
nelle scarpe da trekking. Nessun furgone Citroën nel parcheggio. Ovvio!
Quel bastardo di Vitral l’aveva veramente abbandonata.
Meccanicamente consultò il cellulare. Finalmente c’era campo. Sarebbe
potuta uscire da quel buco. Una bustina gialla sullo schermo attirò la sua
attenzione: un messaggio in segreteria. Qualcuno aveva cercato di contattarla
fra la sera prima e quel mattino. Sua nonna Mathilde, sicuramente. Chi altri?
Malvina armeggiò con il telefono e represse un moto di sorpresa. Il
messaggio proveniva da un numero sconosciuto.
Marc Vitral? Crédule Grand-Duc?
Si portò il cellulare all’orecchio.
“Ciao, Malvina, sono Rachel de Carville, la tua prozia...”
Rachel? La prozia, l’ereditiera delle profumerie Elytis a La Baule. Cosa
voleva da lei? Saranno stati dieci anni che non la sentiva.
“Malvina, mia povera piccola. Devi chiamarmi subito. È successa una
cosa terribile a Coupvray, alla Roseraie. Oddio, tesoro mio. Tua nonna e tuo
nonno non si sono svegliati. Sono stati trovati entrambi morti, ognuno nel
proprio letto. Sono andati in cielo insieme, mio povero angelo.”

Malvina allontanò il telefono dall’orecchio. Il braccio le ricadde lungo il


fianco, come se l’apparecchio pesasse una tonnellata. Fissò il bosco buio e si
lasciò pervadere dal silenzio di quelle montagne che non conosceva. A lungo.
Poi la mano scivolò verso lo zaino. Non doveva più riflettere, piangere,
pregare. Doveva agire. Capire. Vendicarsi. Doveva concentrarsi su un solo
obiettivo, reale, vivo: lui.
Nello zaino, le dita strinsero il calcio del Mauser L100. Vitral credeva di
essere il più furbo, ma non si sarebbe dovuto addormentare quella notte:
quando voleva, lei sapeva fingere benissimo di essere pazza e simulare gli
incubi. Aveva recuperato la sua arma. Comunque, quel falso di Vitral
sicuramente non sarebbe stato capace di usare un revolver.
Lei sì.
60

4 ottobre 1998, ore 07.19


«Pronto, Jennifer?»
Marc era ancora nell’archivio de “L’Est Républicain”. La sua collega del
centralino di France Telecom era in servizio tutto il weekend. Era la sua unica
carta, non doveva sprecarla.
«Jennifer. Sono ancora Marc. Ho bisogno che tu mi faccia un favore, un
immenso favore...»
«Tutto quello che vuoi. Lo sai.»
«Mi servono un numero di telefono e un indirizzo. Mélanie Belvoir.»
«Dove?»
«Cerca prima nei dipartimenti del Giura e del Doubs. Poi in tutta la Franca
Contea. Poi in Francia...»
«Ricevuto...»
Marc sentiva il suono ovattato delle dita di Jennifer che si muovevano
sulla tastiera. Non riusciva a staccare lo sguardo dalla fotografia sulla pagina
de “L’Est Républicain” del 1980. Quella somiglianza surreale. Chi era
Mélanie Belvoir? Doveva per forza esserci una spiegazione razionale...
«Mi dispiace, Marc» disse la voce di Jennifer. «Nada su tutta la linea.
Nessuna Mélanie Belvoir, né nel Giura né da nessun’altra parte in Francia.»
«Forse non ha autorizzato la pubblicazione del nome sull’elenco.»
«Ho già verificato. Nada.»
«Merda. Ci sono altri Belvoir in Francia?»
«Aspetta...» Altro rumore di dita. «Sì, trecentoquarantotto...»
«E nel Giura?»
«Adesso ti dico... Ah, sono meno. Solo ventitré, ma nessuna Mélanie.»
«Merda! Forse ha cambiato cognome...»
«Chi è questa Mélanie?»
«Sarebbe veramente troppo lungo da spiegare. Una storia folle, ma ho solo
pochi minuti per inventare il finale. Jennifer, puoi per piacere verificare tra le
richieste di rescissione, sempre a nome di Mélanie Belvoir?»
«E come si fa?»
«Vai negli archivi. Si ha accesso entrando con l’account amministratore.
Puoi fare delle ricerche sulle richieste di rescissione della linea da quando il
servizio è stato informatizzato, una quindicina di anni fa...»
«Marc, è proibito entrare con l’account amministratore. È da
licenziamento...»
«Figurati. L’ho fatto decine di volte! Per piacere, Jennifer, è urgente...»
«Ti avviso, mio caro, che ti costerà una cena al ristorante, noi due da soli.
Stella Michelin eccetera eccetera.»
«Okay, okay, tutto quello che vuoi.» Marc sentì di nuovo picchiettare sui
tasti del computer. «Jennifer, sono fidanzato, sai... Invece di uscire a cena,
non preferiresti essere la madrina di un bambino che potresti aver contribuito
a salvare...?»
«E poi cos’altro? Non me ne frega niente del tuo marmocchio!» fu la
risposta sferzante. «Minimo due stelle. Me lo merito. Ho trovato la tipa che
cerchi. Ha rescisso l’abbonamento cinque anni fa, il 23 gennaio 1993. Allora
abitava in rue du Comte-de-la-Suze, 65, a Belfort. E poi, puff, è sparita nel
nulla.»
«Jennifer, verifica le richieste di trasferimento di chiamata.»
«Cosa?»
«I trasferimenti di chiamata. Molto spesso, quando i clienti rescindono un
abbonamento, è perché si trasferiscono o vanno ad abitare da qualcun altro;
allora chiedono che il loro vecchio numero sia trasferito sul nuovo per
qualche mese. Anche questo è archiviato e accessibile con l’account
amministratore...»
«Sei pazzo! Tre stelle e champagne a fiumi.»
«Okay, okay, con i violinisti ungheresi e anche gli spogliarellisti se vuoi!»
«Eccome se voglio!»
Marc restò in linea. I secondi gli parvero interminabili.
«Avevi ragione» disse infine la voce di Jennifer. «Mélanie Belvoir ha
chiesto il trasferimento delle chiamate da Laurent Luisans. Suppongo tu
voglia l’indirizzo... Dannemarie, nel Doubs. Al 456 di route de Villars. Sai
che è strettamente riservato. Cosa vuoi da questa Mélanie? È una tua ex? Ha
a che fare con l’elenco degli ospedali che ti ho dato l’altroieri?»
Marc annotò febbrilmente l’indirizzo sul primo pezzo di carta che gli
capitò tra le mani, la pagina de “L’Est Républicain”. «Sei la migliore, Gégé.
Lo avrai, il tuo ristorante. E forse anche i confetti. Posso chiederti un ultimo
favore? Sei su internet adesso?»
Jennifer sospirò. «Sì...»
«Connettiti a Mappy e dimmi l’itinerario più breve per arrivare al 456 di
route de Villars.»
«Oh, cavolo... Ma quanto sarò stupida? Sai dove te li puoi mettere i tuoi
confetti?»

Il furgone Citroën rosso e arancione percorreva lentamente la provinciale 34.


Dopo Montbéliard, la strada andava diretta verso il confine svizzero, dieci
chilometri più in là. Il piede di Marc premeva l’acceleratore a tavoletta, ma
ciò non sembrava motivare il veicolo. L’urbanizzazione ininterrotta dell’area
scemava a mano a mano che aumentava l’altitudine. La provinciale serpeggiò
per un breve tratto lungo il corso di un torrente per poi salire ancora. I paesini
diventavano rari: solo qualche chalet isolato testimoniava ancora la presenza
umana ai piedi delle vette.
Il borgo di Dannemarie apparve dopo la curva di un tornante. Lo chalet di
Mélanie Belvoir-Luisans, secondo le indicazioni di Jennifer, si trovava
proprio all’uscita, ancora più in alto, verso la Svizzera, sotto il crinale. Il
furgone si avventurò nel villaggio deserto. Erano le otto in punto del mattino.
Non c’era neanche un panificio o un bar aperto.
Un ultimo tornante ed era già fuori dal paese.
Marc inchiodò, inserì la retromarcia e dopo una complicata manovra
parcheggiò lungo il marciapiede.
Non si sarebbe gettato ancora una volta nella bocca del lupo! Anche
Crédule Grand-Duc probabilmente stava braccando quella Mélanie Belvoir.
Dopo tutte le volte che in quegli anni era stato a Dieppe, il detective
conosceva bene il furgone arancione e rosso. Difficile non vederlo!
Raggiungere la casa di Mélanie con il Citroën equivaleva ad arrivare da lei a
sirene spiegate.

L’aria era fresca. Marc procedeva di buon passo, facendo attenzione a


camminare lungo il ciglio della strada. Scorse la Xantia dopo il terzo
tornante. La macchina era nascosta in un sentiero, sul lato della strada.
Appena sopra individuò uno chalet isolato; quello di Mélanie Belvoir, senza
ombra di dubbio. Marc risalì sul ciglio, sull’erba bagnata di rugiada.
Proseguì. Non lo si poteva vedere neanche dallo specchietto retrovisore della
Xantia.
Crédule Grand-Duc aspettava tranquillo, con una tazza bianca in mano,
senza nutrire il minimo sospetto. Marc continuò ad avvicinarsi di soppiatto.
Sapeva che in caso di bisogno poteva sempre servirsi del Mauser preso in
prestito da Malvina, ma il suo piano, se di piano si poteva parlare, era
tutt’altro. Più diretto. Crédule Grand-Duc doveva avere circa sessantacinque
anni, lui era un ventenne con un fisico da rugbista. Si sarebbero affrontati da
uomini.
Crédule Grand-Duc non ebbe il tempo di reagire. La portiera della Xantia
si aprì bruscamente e un’ombra sbucata da non si sa dove gli afferrò un
braccio, poi la spalla. Si ritrovò proiettato sul sentiero sterrato, faccia a terra.
Non era ancora riuscito a distinguere il suo aggressore quando un violento
calcio gli straziò le costole. Si contorse dal dolore. Un secondo calcio lo colpì
al coccige.
Il detective urlò. «Porca puttana...»
Il suo grido si perse nel silenzio della montagna. Un terzo calcio, ai reni,
lo obbligò a voltarsi. L’ombra lo dominava, in piedi, davanti al suo corpo
rattrappito.
Marc Vitral.
Come aveva potuto capire? Trovarlo così velocemente?
«Marc?» articolò Grand-Duc. «Co... come hai...» Il detective sputò sangue
nella polvere e tentò di alzarsi.
Marc gli mise un piede sul petto. «Non muoverti... Non muoverti o ti
schiaccio come uno scarafaggio...»
«Marc, cosa...»
«Zitto. Non ricominciare con le tue chiacchiere. Sono due giorni che me le
sciroppo, le tue puttanate. La tua vita, la tua indagine e i tuoi stati d’animo da
ipocrita...» Marc premette più forte il piede sul petto di Grand-Duc. Il
detective fece una smorfia, respirava a fatica. Marc parlò lentamente. «Non
mettiamoci a giocare al gatto e al topo adesso. Andiamo fino in fondo. Dritto
all’obiettivo, ti ricordi? In rete, come nelle partite di calcio che guardavo sulle
tue ginocchia a Dieppe. Sulle ginocchia dell’assassino di mio nonno. Che
avrebbe ammazzato anche mia nonna, se avesse potuto.»
«Marc, non crederai che...»
La suola si spostò sulla faccia di Grand-Duc, schiacciandogli il mento, la
bocca e il naso. Il detective si contorse dal dolore, soffocava.
Quando Marc tolse il piede, Crédule sputò un miscuglio di sangue e fango.
«Non ho più tempo per ascoltare le tue balle, Credu-lo-Scivolo. Credu-
l’Ipocrita, direi piuttosto...»
Il detective sputò ancora. Sembrava avere difficoltà a respirare. «Co...
come l’hai saputo? Sono... sono stati i de Carville a dirtelo? Mathilde?
Malvina?»
«L’ho capito da solo, figurati... Da solo, senza l’aiuto di nessuno.»
«Io... io non volevo, devi credermi. Ho... ho soltanto obbedito... Mi sono
pentito. Ero sincero, poi... amavo...»
Il calcio stavolta colpì la clavicola di Grand-Duc, che rotolò una volta su
se stesso prima di ritrovarsi di nuovo sulla schiena. Con la mano insanguinata
si toccò la spalla. «Smettila, Marc. Smettila... Ti prego.»
«Ma sta’ zitto! Risparmiami la tiritera sui rimorsi, sul boia innamorato...
Non sono qui per questo! È l’identità di Lylie che m’interessa. La verità!»
Per la prima volta, una sorta di sorriso attraversò il volto sfigurato di
Grand-Duc. «Allora non hai capito! Non tutto, se non altro... Hai bisogno dei
servizi del detective...»
Il piede di Marc si alzò di nuovo, minaccioso. «Non ne sono sicuro. Sta a
te confermarlo.»
«Come hai fatto a trovarmi così velocemente?»
«Sono meno lento di te, ecco tutto... Non cercare di prendere tempo, non
ne ho da perdere. Cos’è questa storia del DNA ? E la foto di Lylie sul
giornale?»
Crédule Grand-Duc tentò ancora di sorridere. «Riguardo a tuo nonno...
Qualcuno mi ha tradito o hai veramente capito da solo?»
«Da solo, te l’ho detto. Ti avevo avvisato: non cercare di prendere tempo.»
Un altro calcio lo colpì alle costole. Il detective urlò rotolando sul fianco.
Marc sentiva l’impulso di calpestarlo. Si avvicinò. Grand-Duc si contorceva
dal dolore e muoveva un braccio lungo la gamba.
Marc capì subito cosa cercava di fare: voleva raggiungere la sua arma.
Affondò la mano nello zaino per prendere il Mauser e puntarglielo addosso...
Ma il revolver era sparito.
Marc rivide scorrere le immagini nella mente. Malvina, quella notte, in
piedi, sveglia mentre lui dormiva, fingendo di avere avuto un incubo. Era
troppo tardi per i rimpianti...
Crédule Grand-Duc gli puntava addosso il suo Mateba.
«Sei stato molto rapido, Marc. Davvero impressionante. Ma ti sei lasciato
trasportare dai sentimenti. Un classico. Eppure avevi tutte le carte in mano.
Un vecchio ai tuoi piedi. La soluzione che ti aspettava, sul sedile del
passeggero della Xantia. Il seguito, il finale del mio famoso quaderno. Una
busta contenente un documento in cui si spiega tutto, che mi frutterà una
fortuna. Non dovevi far altro che chinarti per raccoglierla...» Crédule Grand-
Duc si alzò barcollando. Il labbro spaccato gli sanguinava copiosamente. La
lunga giacca beige era sporca di terra e di sangue. Il detective faceva fatica a
stare in piedi sulla gamba destra.
Dalla gola di Marc non uscì una parola. Aveva fallito proprio a un passo
dalla meta. Stupidamente.
«Mi hai conciato per le feste, bastardo. Ci sei andato giù pesante. Sappi
che riconosco di essermelo meritato. Avrei fatto la stessa cosa al tuo posto.
Peggio, anche.» Il detective fece qualche passo, toccandosi con il braccio
sano la spalla dolorante, sempre tenendo sotto tiro Marc con l’altro. «Non mi
lasci altra scelta, te ne rendi conto? Sei l’unico a conoscere la verità
sull’omicidio di tuo nonno... l’unico vivo, adesso... a eccezione del mandante,
naturalmente, ma il vecchio de Carville non sputerà il rospo. Ucciderti è
l’ultima cosa che vorrei, Marc. Ma cos’altro posso fare?»
Alla fine le parole uscirono. Marc parlò piano, girando gli occhi verso la
Xantia. «Anche con Nazim Ozan non potevi fare altro? È così?»
Il detective si appoggiò con difficoltà sulla gamba ferita. «Sai, Marc, la
vita ci riserva molte sorprese. È difficile nuotare controcorrente. Ancora più
difficile risalire le cascate. Sei giorni fa stavo per spararmi in testa, a casa
mia. Da solo. Game over. Bastava pochissimo. Oggi ho vinto la partita,
eppure, mio malgrado, ho dovuto assassinare a sangue freddo le due persone
che contavano di più per me, Nazim Ozan e Ayla. Tre, con te.»
Marc tremava. Aveva il corpo gelato. Tre metri lo separavano dal
detective e dalla canna del Mateba. Era inutile cercare di avvicinarsi e di
disarmare Grand-Duc. Lo avrebbe fatto fuori al minimo gesto, ne era
convinto. La stradina di montagna rimaneva disperatamente deserta e, a ogni
modo, nascosti su quel sentiero laterale, era quasi impossibile scorgerli.
«Marc, lascia che ti spieghi. Sono stato pagato un patrimonio per
assassinare una coppia e farlo sembrare un incidente. Avevo già ucciso, ai
quattro angoli del mondo, diverse volte, per una misera paga da mercenario,
nulla a che vedere con la cuccagna offerta da Léonce de Carville. Una
proposta del genere non si rifiuta... Potevo prevedere allora, Marc, che mi
sarei affezionato alla donna che sarebbe sopravvissuta?»
Che stesse zitto! Grand-Duc non era neanche pazzo. Non aveva nemmeno
quella scusa. Le parole uscirono di getto dalla bocca di Marc. Sperava ancora
di commuovere quell’uomo? «Lylie è incinta. Il bambino è mio. Abortirà tra
un’ora.»
Il revolver non tremò. «Doveva succedere, Marc. Era nella logica delle
cose... Hai fatto male a venire a ficcare il naso. Hai fatto veramente male.
Avresti potuto vivere felice con Lylie. Formavate una bellissima coppia. Lei
sarà inconsolabile. Ma non mi lasci altra scelta... Non tiriamola per le lunghe,
d’accordo?» Grand-Duc puntò il Mateba in direzione del cuore di Marc.
Lui era paralizzato, incapace di muoversi. Tutto sarebbe finito lì. Gli
tornarono alla mente i momenti felici trascorsi in rue Pocholle: i mondiali
dell’86, il rigore di Fernandez, la maglia di Didier Six, le note del pianoforte
di Lylie...
«Non sarebbe dovuto succedere, Marc... tutto questo dolore, tutto questo
strazio. Non è colpa di nessuno. Di Mélanie Belvoir, forse. Ma anche lei
credeva di agire per il meglio.»
“Devo muovermi” pensò Marc. “Tuffarmi ai suoi piedi...”
Come se avesse intuito le sue intenzioni, Grand-Duc indietreggiò
stringendo il revolver. «Ci si aggrappa alla vita, Marc, è questo il problema.
Nonostante non ci sia più speranza. La guerra interminabile tra i de Carville e
i Vitral è stata combattuta per niente. Come tutte le guerre. Un malinteso. Hai
capito la verità, adesso, penso. Sono morte tutte e due, Marc, quella notte sul
Mont Terrible, sia Emilie sia Lyse-Rose. Sono morte entrambe nell’incidente.
Credimi, mi dispiace davvero.»
Il dito di Grand-Duc premette il grilletto.
La detonazione, nel silenzio del mattino bianco, si propagò da una cima
all’altra. L’eco dovette sentirsi fino in Svizzera.
61

4 ottobre 1998, ore 08.14


Crédule Grand-Duc si accasciò, faccia a terra. Una pozza di sangue gli
sgorgava dalla schiena, come una piccola sorgente d’acqua cremisi.
Malvina apparve impugnando il Mauser L100 con entrambe le mani. La
sua voce esile ruppe il silenzio. «Non credere che io abbia sparato per salvarti
la vita, Vitral! È solo che non sopporto che dicano che Lyse-Rose è morta...»
Lasciò cadere il revolver per terra, davanti a sé. Il suo corpo era tutto un
tremito. Non era stata una finta, stavolta... Aveva sparato. Aveva ucciso.
«Tu... Come...?»
«Non... non sono meno intelligente di te» spiegò nervosamente Malvina.
«Ho pensato anch’io al giornale. Il tizio del parco, Grégory Morez, mi ha
portata con la jeep fino alla sede de “L’Est Républicain”. Mi avevi fatto
trovare il lavoro pronto. L’edizione del 23 dicembre 1980 non era ancora
stata rimessa a posto, e sulla prima pagina avevi anche scritto l’indirizzo di
Mélanie Belvoir... Ho preso un taxi al volo e ho chiesto di essere lasciata
all’uscita di Dannemarie.»
Marc esitò. Che atteggiamento adottare? Doveva ringraziare Malvina,
abbracciarla? O non fare niente e lasciarla così? Si avvicinò.
Lei si irrigidì. «Non toccarmi!» Si accasciò a terra, come un burattino
disarticolato. Singhiozzava. Marc riuscì a cogliere solo frammenti di quel che
diceva. «La nonna, il nonno... Volati via, ieri. Andati via. Via...»
Marc si voltò e aprì la portiera della Xantia. Grand-Duc non aveva
mentito. Una busta bianca era poggiata sul sedile. La aprì con foga.
Conteneva quattro pagine dattiloscritte. Raggiunse Malvina. Lei continuava a
piangere, prostrata, rannicchiata in posizione fetale. Le si sedette accanto e
lesse lentamente, ad alta voce.

«Le racconterò tutto, signor Grand-Duc. In fondo non ho fatto niente di male,
non ho nulla da rimproverarmi. È arrivato il momento per me di parlare, dato
che mi ha trovato. Dovevo pur farlo, un giorno. Diciamo che è questo il
momento. Ero un’adolescente difficile, come si dice adesso. Dall’età di
diciassette anni non avevo praticamente più rapporti con i miei genitori.
Avevo lasciato la scuola da tempo. Ero un’emarginata, come tanti altri. I miei
erano riusciti a trascinarmi all’ufficio di collocamento. Passai da uno stage
all’altro, fino a quel contratto di qualche settimana presso il servizio
ambientale del Parco naturale dell’Alto Giura. Sostanzialmente si trattava di
raccogliere i rifiuti nel bosco. Un classico. Insieme a un gruppetto di altri
stagisti ero agli ordini del responsabile, l’ingegner Grégory Morez. Era
incredibilmente bello. Molto tenero con le ragazze che gli piacevano.
Possedeva una sorta di dono nel toccarle, senza mostrarsi insistente. Aveva
oltre dieci anni più di me. Come tante altre, mi sono innamorata di lui.
Facemmo l’amore per la prima volta in mezzo alla natura, vicino a un piccolo
torrente, in quella foresta che conosceva così bene. Poi tante altre volte, tutti i
giorni durante lo stage e anche diverse settimane dopo. Ovunque, nei luoghi
più impensabili. Ero consapevole che aveva altre avventure, ma mi illudevo
che con me fosse diverso, che fosse veramente innamorato. Volevo credere
alle sue promesse. Un classico, no, signor Grand-Duc? La giovane ingenua e
il bell’affabulatore...»
«E poi?»
«Rimasi incinta. Me ne resi conto tardi, dopo sei settimane. Avevo già
cominciato la mia discesa all’inferno. Niente lavoro. Una famiglia che
evitavo sempre di più. Amici poco raccomandabili. Un’ossessione, quel
Grégory Morez. Il suo corpo. Il piacere che mi dava.»
«Era Grégory il padre?»
«Sì. Era il mio solo e unico amante. Glielo dissi una sera, nella camera di
uno squallido hotel alla periferia di Belfort, dopo che avevamo fatto
l’amore.»
«Quale fu la sua reazione?»
«Un classico, signor Grand-Duc. Mi mise alla porta, mi disse che ero solo
una puttanella che cercava di incastrarlo, che non c’era nessuna prova che
fosse lui il padre e che bastava che abortissi.»
«Però non lo fece.»
«No, ma non decisi nemmeno di tenere il bambino. Mi limitai a lasciar
passare le settimane, senza reagire. La settima, l’ottava. Accadde tutto
velocemente. Continuavo a essere ossessionata da Grégory. Ero come pazza.
Pensavo che sarei riuscita a fargli cambiare idea, a farlo tornare da me. Ero in
fondo a una voragine. Non avevo più un domicilio fisso, occupavo case
abusivamente, tornavo dai miei genitori una volta alla settimana. Quando la
mia gravidanza divenne troppo visibile, non ci andai più. Mi accontentai di
telefonare.»
«Partorì in ospedale?»
«Sì, a Montbéliard. Ero da poco maggiorenne e non versavo in buone
condizioni. Il bambino non era molto grande. Poco più di due chili. Nacque il
27 agosto 1980. Una femmina. Uscii dall’ospedale una settimana dopo con i
documenti, ma non li compilai e li gettai nel cestino.»
«Andò davvero così?»
«Sa, signor Grand-Duc, nella settimana che passai in ospedale mi videro
decine e decine di infermiere e tanti medici. Dev’essere rimasta qualche
traccia della nascita della mia bambina. La prova che esiste. Ma chi avrebbe
verificato che fosse con me, che la stessi crescendo? Nessun membro della
mia famiglia ne ha mai saputo nulla.»
«Come chiamò la piccola?»
«Non le diedi mai un nome. È strano, no? All’ospedale dissi che non
avevo ancora deciso, che aspettavo il padre. Una volta uscita con la bambina,
in poche settimane la situazione precipitò. Ruppi tutti i rapporti che avevo
mantenuto con i miei amici d’infanzia e con la mia famiglia. Era estate.
Dormivo per strada con la piccola attaccata al seno tutto il giorno. Ero sfinita.
Frequentavo un giro di persone che non erano interessate a giudicarmi.
Ubriachi, tossici. Non riuscivo più a prendere nessuna decisione. Tornare a
casa, piangere, buttarmi tra le braccia dei miei genitori. Lavoravano entrambi
da Alsthom alla catena di assemblaggio dei TGV , a Belfort. Oppure andare da
Grégory con la bambina e convincerlo. Mia figlia aveva già due incredibili
occhi celesti uguali a quelli di suo padre, due magnifici occhi chiari da cane
lupo. O lasciarmi morire lì, sul marciapiede...»
«Come prese la decisione di andarsene?»
«Non ebbi scelta: una ragazza per le strade di Montbéliard, con una
neonata, alla fine viene notata. Dopo qualche settimana iniziai ad avere i
servizi sociali alle calcagna. Anche se ero maggiorenne, sapevo come sarebbe
andata a finire. I servizi sociali avrebbero dato in affidamento la bambina e
mi avrebbero riportata a casa, a Belfort, senza chiedere il mio parere. Le dirò
francamente, signor Grand-Duc, che avevo fatto cose illegali: spacciato,
rubato e anche venduto il mio corpo, diverse volte. Immagino capisca: per
sopravvivere dovevo lasciare Montbéliard.»
«Fu allora che incontrò Georges Pelletier?»
«Sì. Un poveraccio. Un disgraziato che, come me, aveva bisogno di
andarsene. I poliziotti, i servizi sociali e la sua famiglia gli stavano alle
calcagna. Mi prese in simpatia, mi trovava carina, nonostante tutto. Credo che
si vedesse già come mio protettore, quel tarato. Non gli permisi mai di
toccarmi. Ma, ecco, avevamo degli interessi in comune. Scappare insieme. Il
Giura, il Mont Terrible, mi sembrava una scelta sensata. Era vicino a
Montbéliard ma nessuno sarebbe venuto a cercarci lassù. Era la prima
settimana di dicembre, il tempo era ancora abbastanza mite, ed eravamo
abituati a dormire fuori. E, soprattutto, avrei potuto incontrare Grégory.
Incrociarlo. Lui avrebbe riconosciuto la bambina. I suoi occhi. Non avrebbe
potuto negare di essere il padre. So che può sembrare folle, Grand-Duc, e io
lo ero. Grégory Morez era il mio unico salvagente. Ci credevo ancora.»
«Alla fine lo incontrò?»
«Ci eravamo sistemati in una capanna vicino alla vetta del Mont Terrible.
Non faceva caldo, ma accendevamo un fuoco, avevamo un tetto, stavamo
quasi meglio che in strada, tutto sommato. Adesso rispondo alla sua
domanda, signor Grand-Duc, ci arrivo. Sì, incontrai Grégory Morez. Lo
vedevo quasi tutti i giorni. Il Mont Terrible non è molto alto e il bosco non è
granché esteso. Quando ci incrociammo avevo mia figlia in braccio e lui non
mi riconobbe, signor Grand-Duc! Non mi guardò neanche. In pochi mesi ero
passata dallo status di ragazza piuttosto eccitante a quello di rifiuto. Ero
ingrassata. I miei seni non erano altro che due pezzi di carne flaccida. Non
c’era più nessuna luce nei miei occhi. Ero irriconoscibile.»
«Non gli parlò?»
«Non capisce, Grand-Duc. Ero così umiliata. Non mi aveva neanche
riconosciuta. Ero diventata così brutta? Aveva frequentato altre donne da
allora? Capii che non mi avrebbe toccata mai più. Non mi avrebbe mai più
voluta. Come pensare allora che potesse volere mia figlia... La mia ultima
speranza si era spenta sui pendii del Mont Terrible. Non avevo più niente. La
bambina era come una palla, un’escrescenza, e andavamo a fondo insieme.
Non creda che non l’amassi, quella bambina, Grand-Duc, che ogni istinto
materno fosse morto. Oh, no! Al contrario. Ma non avevo più nulla da
offrirle. Non un padre. Nemmeno più latte. Neanche un nome. Si rende
conto? All’improvviso iniziò a nevicare. Era il mattino del 22 dicembre. Ci
scaldammo come potemmo attorno a un fuoco, nella capanna. Dovevo
occuparmi di tutto io. Pelletier era strafatto di cocaina i tre quarti del tempo e
si sarebbe lasciato morire se non ci fossi stata io. Lo dovevo spingere fuori
per obbligarlo ad andare a raccogliere la legna.»
«E poi arrivò la notte...»
«Sì. La tempesta raddoppiò di intensità. Pelletier era fatto. Credo che non
abbia neanche sentito l’impatto. La capanna vibrò, come se ci fosse stato un
terremoto, come se fosse la fine del mondo. Da quel punto si vedevano gli
alberi bruciare a un chilometro di distanza. Bruciavano sotto la neve. Ero
affascinata. Avvolsi la bambina in una coperta e uscii. Non faceva freddo,
anzi, a causa dell’immenso rogo il calore pizzicava la pelle...»
«Non aveva paura?»
«No. In nessun momento. Era una scena strana, irreale. La neve e il fuoco.
E poi quell’aereo in mezzo alla montagna, contorto... L’acciaio fondeva
davanti a me nelle fiamme come un banale pezzo di gomma. Sapevo che ero
la prima testimone della catastrofe ma non pensavo che i soccorsi avrebbero
tardato tanto ad arrivare.»
«Fu allora che la vide?»
«Si riferisce alla bambina? Sì, fu in quel momento.»
«Era... era...»
«Sì, era morta. Tumefatta. Deceduta in seguito all’impatto già da parecchi
minuti. Nessun bambino sarebbe riuscito a sopravvivere da solo, lassù,
nell’inferno. Non so come tutti abbiano potuto credere a quella favola... Era
morta, Grand-Duc. E ho subito pensato che fosse ingiusto.»
«In che senso?»
«Crudele, se preferisce. Un’intera famiglia avrebbe pianto quella bambina
morta. Un lutto. Una vita andata. E io ero incapace di offrire un futuro a mia
figlia. Avrebbe vissuto senza nessuno, senza famiglia, nient’altro che me, e io
contavo così poco. Capisce cosa intendo con “crudele”? Con “ingiusto”?»
«Capisco...»
«Sì. Non è molto difficile. La neonata morta nella neve aveva quasi la
stessa età di mia figlia. Agii senza riflettere. Come posso spiegare? Per la
prima volta avevo l’impressione di essere veramente utile. Di compiere una
sorta di atto di coraggio. Di salvare una vita, ecco cosa pensavo. Salvare una
vita, salvare una famiglia, salvare anche la mia bambina. È un po’ quello che
devono provare i medici o i vigili del fuoco. Fu la sensazione sorprendente di
quella notte a farmi venir voglia di diventare infermiera, o qualcosa del
genere, di salvare delle vite.»
«Ha spogliato il cadavere della bambina morta nella neve?»
«Per salvarla, Grand-Duc. Per salvarla! Gliel’ho detto, non ha capito?
Offrivo a una bambina senza futuro una famiglia amorevole, magari ricca,
che non avrebbe mai saputo del mio sacrificio, che avrebbe pianto di gioia di
fronte al miracolo, non sospettando nulla. C’era quasi qualcosa di sacro...»
«Ma non è quello che è successo. Niente affatto...»
«Come avrei potuto immaginare, Grand-Duc, che c’erano due neonate
sull’aereo? Morte entrambe, come tutti gli altri passeggeri. Come avrei potuto
immaginare le conseguenze? Credetti di agire come una santa, quella sera. Sì,
come una santa. Poi seguii il caso sui giornali. Le due famiglie che si
facevano la guerra. La sentenza. Cosa potevo dire? Cosa potevo fare, a parte
tacere? Avrebbe dovuto essere tutto più semplice. Quella notte aspettai quasi
un’ora, fino all’arrivo dei soccorsi, tenendo la mia bambina tra le braccia,
vestita con i suoi nuovi abiti. Quando sentii da lontano le prime sirene dei
vigili del fuoco che si avvicinavano, poi le grida, e vidi le torce, deposi la
piccola nella neve, abbastanza lontano dall’aereo perché non venisse bruciata
ma potesse ugualmente scaldarsi al calore delle fiamme. La baciai un’ultima
volta. Di lì a qualche ora avrebbe avuto una nuova famiglia. Scappai nella
notte rovente con il corpicino nudo della bambina morta nello schianto
avvolto nella mia coperta.»
«È stata lei a seppellirla accanto alla capanna?»
«Cos’altro potevo fare? Pelletier stava dormendo, ancora sotto l’effetto
della coca. Scavai come una pazza, con le mie mani, nella neve. Ero fradicia.
Le dita mi sanguinavano. Lavorai a lungo. Pelletier mi raggiunse quando
avevo quasi finito. Il cadavere della bambina riposava già nella tomba.
Inventai preghiere prima di ricoprirlo di terra, perché non ne conoscevo
nessuna. Pelletier era fuori di sé, credeva che fosse la mia piccola, che
l’avessi uccisa...»
«Capì quando vide il braccialetto al polso della bambina?»
«Sì. Nel panico, non avevo fatto caso a quel piccolo gioiello. Un
braccialetto con inciso il nome Lyse-Rose. Pelletier lo vide subito e si rese
conto al primo sguardo che era d’oro. L’accordo era semplice: io gli lasciavo
il gioiello e lui avrebbe tenuto la bocca chiusa. Strappai il braccialetto dal
polso della bambina. Lui se ne andò. Non l’ho mai più rivisto. Io rimasi
ancora un po’. Spinsi la terra bagnata di neve giù nella tomba. A tentoni
afferrai delle pietre e le impilai. Avevo le dita ghiacciate e non riuscivo quasi
più a piegarle. Ci misi un’eternità a fabbricare una croce con due pezzi di
legno. Trascorsi il resto della notte nella capanna, vicino alle ceneri. Non
credo di aver dormito né quella né le notti seguenti.»
«Tornò alla tomba gli anni successivi?»
«Sì... Questo lei lo ha capito. A poco a poco la mia vita si rimise sul
binario giusto. I miei genitori mi cercavano, pubblicavano annunci sui
giornali. Alla fine tornai a Belfort e ripresi gli studi. Mi diplomai infermiera,
come le ho detto, e sei anni fa incontrai Laurent. Laurent Luisans. È
portantino all’ospedale. I miei genitori erano anziani, mio padre morì cinque
anni fa e mia madre l’anno dopo. Io e Laurent non siamo sposati, ma ho
voluto comunque prendere il suo cognome. Lui non sa niente del mio
passato. Nessuno ne è al corrente, peraltro. Laurent vorrebbe un bambino.
Non è troppo tardi, ho solo trentasei anni. Non so. Per me è complicato,
capisce.»
«Capisco, Mélanie. Non mi ha risposto, riguardo alla tomba.»
«Ci arrivo, signor Grand-Duc. Sì, tornavo tutti gli anni, il 27 agosto, il
giorno della nascita della mia bambina. È come se fosse mia figlia quella che
ho sotterrato sul Mont Terrible, capisce? Mia figlia, non un’estranea. Non
quella Lyse-Rose. Andavo a sistemare la tomba, a mettere dei fiori. Un anno,
tempo fa... era il 1987... mi resi conto che qualcuno aveva rovistato fra le
pietre. Chi era stato? Sapevo che il caso Vitral-de Carville non era chiuso,
che non lo sarebbe mai stato, peraltro.»
«A meno che qualcuno non riesumasse il cadavere della neonata sepolta in
una coperta accanto alla capanna. Un detective tenace, per esempio.»
«Per esempio. Ebbi paura che riesumando quel cadavere venisse riesumato
anche il mio passato. Svuotai la tomba e cancellai l’ultima prova.»
«Scavò un’altra tomba altrove? Più discreta?»
«Questo non la riguarda, signor Grand-Duc. Riguarda solo me. Cosa farà
adesso?»
«Non lo so. Possiamo incontrarci?»
«Credo di non avere scelta. Sono alla sua mercé, come si suol dire. Prima
è, meglio è. Laurent prenderà servizio domani mattina alle cinque. Io faccio
la notte. Non è facile, come vede, la vita di noi ospedalieri. Finirò alle otto a
Montbéliard. Mi dia il tempo di rientrare. Diciamo alle nove a casa mia,
domani mattina? Se è riuscito a trovare me, dopo tutti questi anni, immagino
che saprà trovare la strada... Spero che sarà discreto, signor Grand-Duc. Ho
cambiato vita. Ci sono riuscita, non è stato semplice dimenticare. Non
intendevo fare niente di male, quella notte, sul Mont Terrible. Al contrario.
Non potevo prevedere...»
«Prevedere cosa, Mélanie?»
«... prevedere che mia figlia mi sarebbe somigliata tanto quando avrebbe
avuto diciotto anni...»

Erano passate da poco le nove. La leggera nebbia incollata lungo i pendii del
Giura cominciava a dissiparsi in veli che si sollevavano verso le cime. Marc
scorse per primo la piccola macchina bianca, qualche tornante più in basso,
prima di Dannemarie. Una Fiat Panda. Si avvicinò lentamente, passò davanti
a loro e parcheggiò qualche metro più su, di fronte allo chalet dalle persiane
celesti. Marc osservò il bastone di Asclepio – simbolo della medicina –
attaccato al parabrezza posteriore. La donna al volante, di cui si distingueva
solo la capigliatura bionda, rimase immobile per alcuni istanti. Alla fine i fari
dell’auto si spensero.
La portiera si aprì sul sorriso stanco di un viso stranamente familiare.
62

20 maggio 1999, reparto maternità Aubépines, Dieppe


Tom dormiva con i pugnetti chiusi nel lettino di plastica trasparente. Il suo
corpo si sollevava e si abbassava a ritmo regolare. Si distinguevano solo un
visino paffuto e i capelli biondi, sorprendentemente lunghi per un neonato di
quattro giorni.
Marc stringeva la mano di Lylie. Lei era stanca e non riusciva a tenere gli
occhi aperti. Assaporava la pace. Finalmente sola con Marc e Tom. Afferrava
il silenzio come aria fresca rarefatta, prima che un’altra infermiera entrasse
come un tornado.
Nicole era appena uscita dalla stanza, perché Lylie le aveva fatto capire
gentilmente che aveva bisogno di riposare. Sarebbe rimasta volentieri, notte e
giorno, a vegliare il piccolo Tom. Tutta Dieppe era già al corrente
dell’evento. Per prima cosa Nicole era stata da Pierre, al cimitero di Janval,
poi aveva ritrovato le gambe da ventenne per passare di negozio in negozio
ad annunciare la nascita. Un pronipote! Poco ci mancava che distribuisse
volantini... Marc aspettava con angoscia il momento in cui tutta la città, dal
sindaco al direttore del porto commerciale, avrebbe fatto irruzione con mazzi
di fiori in mano.
La testa di Lylie cadeva sulla spalla di Marc, seduto sul bordo del letto.
Lui non osava muoversi. Con la punta delle dita prese il bigliettino inviato da
Mélanie Belvoir. Era pinzato a un enorme mazzo di rose. Tre volte più
grande di quello che aveva comprato lui.
Buona fortuna al piccolo Tom. Lylie, non ho saputo essere tua madre. Ti chiedo ancora
perdono. Forse mi accetterai come nonna? Cercherò di fare del mio meglio per recuperare
il tempo perduto, tutto quello che ho rovinato con il mio silenzio. Non è troppo tardi,
credo, se tu lo vorrai. Per Tom almeno. Chi non ha sognato di avere una nonna di trentasei
anni?
Abbi cura di Marc.
Mélanie

Lylie, fino allora, si era rifiutata di incontrare sua madre. Le serviva


tempo.
Mélanie non aveva insistito. Tom era lì, adesso, e sarebbe stato il legame
tra le generazioni.
Lylie stava riposando da pochi minuti quando un’infermiera entrò nella
camera.
“Non si può mai stare tranquilli” pensò Marc.
Era per un valido motivo: l’infermiera trasportava a fatica un gigantesco
pacco.
«Lo ha appena consegnato un fattorino» spiegò. «Fortuna che non ne
riceviamo di così grandi tutti i giorni. Il biglietto per il papà, il regalo per la
mamma.»
L’infermiera uscì. Lylie sgranò gli occhi alla vista della scatola di un
metro per due.
«Be’, aprila» disse Marc.
«Sembra un regalo di Puffo Burlone» commentò Lylie. «Sei sicuro che
non esploda?»
«Tutto dipende da chi l’ha mandato...»
Mentre Marc apriva la bustina bianca, Lylie strappò i grandi lembi della
carta colorata che avvolgeva lo scatolone.

Marc riconobbe subito la grafia minuta, quasi illeggibile.


Malvina.
Un senso di felicità lo sommerse.
«Chi è?» chiese Lylie, tutta intenta a spacchettare.
«Una carissima amica» rispose Marc con dolcezza.
«Eh?»
Lylie, stanca di lottare, strappò il cartone con entrambe le mani. Spuntò
fuori un grosso orso di peluche marrone. Lei lanciò un grido di gioia.
«Oddio! Che bello!»
Marc decifrò i graffiti di Malvina sul biglietto.

Per il piccolo bastardo. Gli conviene trattarlo bene.

Non riuscì a trattenere un sorriso. Strinse forte la mano di Lylie, poi si girò
verso il peluche. «Ciao, amico. Era da un sacco che aspettavi questo
momento, vero? Conoscere la nostra Lylie!»
La giovane mamma sgranò gli occhi, stupita.
«Lylie, ti presento Banjo.»
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quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge
applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo
testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei
diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà
sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge
633/1941 e successive modifiche.
Indice

Il libro
L’autore
Un aereo senza di lei
DICIOTTO ANNI DOPO
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Copyright

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