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Mai fidarsi di Google


Dario Guarascio
Per i colossi del web è vitale poter acquisire masse di informazioni sempre più grandi,
sempre più personali e sempre più aggiornate. Estrarre, mercificare e controllare, come
funziona il capitalismo della sorveglianza
Nella Londra di 1984, il solo luogo dove Winston Smith può nascondersi per sfuggire allo sguardo
inquisitorio di Big Brother è una piccola intercapedine della sua casa. Asserragliarsi in quel rifugio è
l’unica strategia per pensare in modo autonomo fuggendo dall’eterno presente in cui sono costretti gli
abitanti di Oceania. La sorveglianza ininterrotta e la sistematica distruzione di tutto ciò che è esperienza
e storia annichilisce l’arbitrio, erigendo il riflesso condizionato a norma comportamentale. Nel 1984, lo
stato d’emergenza permanente giustifica ogni forma di repressione e rende accettabili le più odiose
condizioni sociali. Una comunicazione di massa cacofonica e martellante inverte e mortifica il reale, ad
uso e consumo dei governanti. “Guerra è pace. Ignoranza è forza. Libertà è schiavitù”. Più si dimostra
contraddittoria e priva di coerenza e più la cultura dominante stringe il giogo al collo delle masse,
conformando i pensieri nei loro meandri più profondi.
A sessantotto anni dalla pubblicazione del visionario romanzo di George Orwell, il modo di produzione
capitalistico sta attraversando una profonda trasformazione che, a tratti, ricorda lo scenario distopico
governato dalla IngSoc. Secondo la sociologa Shoshana Zuboff, il regime di accumulazione che va oggi
consolidandosi ha nella sorveglianza uno dei suoi tratti essenziali. E nella capacità di catturare
informazioni riguardanti i dettagli più intimi dell’individuo una fondamentale fonte di potere economico
e politico. Analizzando con cura le tesi recentemente esposte da Hai Varian, capo economista di Google
e tra i padri della microeconomia contemporanea, Zuboff ha identificato i tratti salienti di quello che
definisce il “capitalismo della sorveglianza”.
Estrazione. Che le regole lo prevedano o meno, che vi sia o non vi sia il consenso da parte degli
interessati, per le imprese del capitalismo digitale è vitale poter acquisire masse di informazioni sempre
più grandi, sempre più Intime e sempre più aggiornate. Tutto questo, seguendo Varian, avrebbe solo
implicazioni positive in quanto: “Le persone sono ben contente di vedere la loro privacy invasa (…)
purché ricevano in cambio quello che desiderano (…) uno sconto su una polizza assicurativa o sanitaria,
un mutuo ad un tasso più conveniente (…) tutti sono pronti ad essere tracciati e monitorati poiché i
vantaggi attesi in termini di risparmio, efficienza e sicurezza sono enormi”. Chi denuncia i problemi etici
e i rischi per la privacy impliciti in un monitoraggio permanente di questo tipo è rapidamente liquidato
da Varian. Quest’ultimo propone un inquietante parallelismo tra Google ed il proprio medico di fiducia.
Se ci si “fida” di Google, sostiene Varian, se si è disposti ad affidargli la nostra esistenza in formato
elettronico, proprio come si fa con il medico quando ci affidiamo a lui “senza avere segreti”, lui
disegnerà attorno a noi un eden. Un eden dove i desideri sono anticipati ed esauditi da assistenti
personali che, nutrendosi dei nostri dati più Intimi, arriverebbero a conoscerci meglio di quanto
effettivamente conosciamo noi stessi. Questi profili individuali, informatizzati e in continuo
aggiornamento, costituiscono il filone aurifero su cui soggetti economici come Google, che guadagnano
vendendo identità digitali a chi poi bombarda le controparti umane con iniziative commerciali di ogni
genere, vorrebbero l’esclusiva. Questi profili digitali sono la base del nuovo regime di accumulazione,
quelli che Zuboff chiama i “beni sorveglianza”.
Mercificazione i miliardi di soggetti che “si fidano” di Google e delle altre imprese che mettono a valore
i “beni sorveglianza” vengono immediatamente risucchiati in un processo di aggregazione e
decontestualizzazione. Se, da un lato, meccanismi quali la trasparenza radicale e la pornografia
emotiva (Anime elettriche, JacaBook 20l6) spingono gli individui a rivelare tutto di se stessi fino al più
imbarazzante dei particolari contribuendo cosi ad arricchire il filone aurifero dei big data, dall’altro, per
le corporation come Google o Facebook, i dati individuali non sono altro che dei bit da trasformare in
profitti. Ecco, quindi, che le soggettività nascoste dietro i trilioni di informazioni su relazioni,
spostamenti, preferenze, reazioni emotive, vengono rielaborate, combinate e mercificate con finalità
del tutto avulse da ciò che ha originariamente spinto l’agire di quelle stesse soggettività. Da questo
punto di vista, le imprese che accumulano “beni sorveglianza” guardano alla popolazione di fornitori di
soggettività come ad una massa indistinta. Le caratteristiche e le intenzioni individuali sono irrilevanti,
ciò che conta è trasformare queste ultime, strappandole dalle soggettività che le hanno originate, in
profili informatizzati vendibili sul mercato. Il capitalismo della sorveglianza, dunque, sembra spingere il
processo di mercificazione oltre ciò che già Marx aveva preconizzato. Lungo la catena di montaggio, la
mercificazione del lavoro e l’estrazione del plusvalore avvengono entro un perimetro ove il conflitto tra
soggettività individuale e condizione sociale sono ben riconoscibili. Nell’acquario dove nuotano i
fornitori inconsapevoli di “beni sorveglianza”, al contrario, viene meno la capacità di cogliere la propria
alterità rispetto al rapporto di produzione in cui si è immersi.
Controllo. Se ci si fida delle corporation dei big data, cosa c’è di male nel portare sempre con sé
dispositivi capaci di tracciare ogni dettaglio del nostro essere? La chiave della trasformazione in atto sta
nel grande equivoco che accompagna il processo di digitalizzazione delle relazioni socio-economiche:
l’equivoco della neutralità tecnologica. Quando si manda una mail tramite un account Google o si
accede ad un profilo social mediante un dispositivo mobile per esprimersi, raccontarsi, pubblicare una
foto, si ritiene di compiere innocui e neutrali atti di comunicazione. Quando si accetta che dei cookies di
profilazione siano introdotti nel proprio pc, si pensa a delle banali procedure per migliorare i servizi
online. Quando si assiste alla sempre più intensa informatizzazione di parti della società come i servizi
pubblici o la finanza si spera semplicemente di avere un futuro guadagno in termini di tempo e denaro
risparmiato (Cathy O’Neil, Weapons of math destruction). Ma non è cosi. Il combinato disposto di
algoritmi capaci di processare enormi masse di dati, dispositivi in grado di tracciare un numero sempre
maggiore di caratteri individuali e tendenze culturali per cui le relazioni tra identità digitali sembrano
sovrastare per importanza quelle tra gli esseri in carne ed ossa coincide con l’operare di un enorme
macchina della sorveglianza. Mentre nel processo di mercificazione gli individui divengono una massa
indistinta di profili da valorizzare e le informazioni che li riguardano sono esclusivamente strumentali
all’ottenimento di beni da commerciare, quelle stesse informazioni si trasformano in formidabili
strumenti di controllo quando l’obiettivo è sorvegliare e, se del caso, reprimere.
La trasformazione in atto è visibile anche guardando ai dati economici. In pochissimi anni, una
manciata di multinazionali del capitalismo digitale — Amazon, Google, Facebook, Microsoft, Apple, per
citare le più rilevanti — è divenuto il blocco di potere globale più significativo dal punto di vista del
valore economico e della capacità d’influenza politica. Un blocco di potere fortemente interconnesso al
suo interno: la pervasività dei servizi di Google e Facebook è tale perché aziende come Apple
forniscono i dispositivi per potervi accedere e perché quelle come Microsoft garantiscono interfacce
immediate e intellegibili per usarli. Vi sono, però, differenze sostanziali che rendono i dominus del
capitalismo digitale differenti dai giganti che primeggiavano nelle fasi tecnologiche precedenti. A
dispetto della mole di ricavi che queste imprese continuano ad accumulare, la loro attività ha un
impatto occupazionale risibile se comparato a quello di una qualsivoglia grande azienda manifatturiera
o dei servizi (confrontando le dimensioni occupazionali di Google e Facebook rispetto al gigante dei
servizi WalMart la differenza è impressionante: le prime occupano, rispettivamente, 50.000 e 25.000
persone mentre la seconda circa 1.300.000). In secondo luogo, il modello di business delle imprese
dei big data smantella l’equilibrio su cui si è sin qui costruito il patto sociale proprio delle economie
liberali. Già con Henry Ford, il riconoscimento di salari e condizioni di vita superiori al livello di
sussistenza veniva identificato come un elemento strategico per garantire, alle stesse imprese
capitalistiche, la capacità riproduttiva. La mancanza di masse dotate dei mezzi utili a consumare in linea
con le necessità riproduttive del sistema, infatti, avrebbe pregiudicato la capacità di vendere i beni
prodotti e dunque di ottenere una realizzazione economica. Per le imprese che macinano profitti
accumulando beni sorveglianza, tuttavia, le condizioni di vita di utenti e lavoratori divengono un dato
marginale in ragione della loro bassa intensità occupazionale, del fatto che i dati personali vengono
“donati” e della radicale a-territorialità di questi soggetti economici. Nel capitalismo digitale, in altre
parole, sembrano rarefarsi gli elementi di reciprocità che hanno sin qui temperato il carattere
intrinsecamente conflittuale e caotico delle società capitalistiche.
La gestazione delle tecnologie digitali oggi più diffuse è avvenuta in una fase storica caratterizzata da
acute diseguaglianze economiche e sociali e da una crescente atomizzazione delle relazioni, personali e
lavorative. Il consolidamento di queste tecnologie sembra approfondire queste tendenze con
conseguenze i cui tratti è ancora difficile delineare. La preminenza di un regime di accumulazione
basato sull’estrazione di dati personali e, in ultima analisi, sulla sorveglianza pone seri interrogativi circa
la compatibilità di democrazia e proprietà privata di tecnologie che consentono l’estrazione,
l’archiviazione e la vendita di dati personali.

Riferimenti bibliografici

Ippolita, Anime elettriche, Jaca Book, Milano 2016

Cathy O’Neil, Weapons ofMath Destruction. How Big Data Increases Inequality and Jhreatens Democ-racy, Crown, New Y)rk 2016

Shoshana Zuboff, Big other. Surveillance Capital-ism and the Prospects ofan Information Civilization, “Journal of Information

Technology”, voi. 30, n. 1,2015

Hai R Varian, Beyond Big Data, “Business Eco-nomics”, voi. 49, n. 1, 2014.

Hai R Varian, Computer Mediated Transactions, “American Economie Review”, voi. 100, n. 2,2010

Shoshana Zuboff, In theAge ofthe Smart Machine. The Future ofWork and Power, Basic books 1988

L’articolo è stato pubblicato su l’Indice dei libri del mese

(giugno 2017, https://www.lindiceonline.com/l-indice/sommario/giugno-2017/)

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