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Corso di laurea in Storia

(Classe l-42)

IL PRIMO ANNO DI PROCONSOLATO DI


GIULIO CESARE:
DALLA LEX VATINIA ALLA SCONFITTA DI ARIOVISTO

Relatore:
Dott. Michele Bellomo
Elaborato finale di:
Morgan Magonara
n. 831011

a.a. 2017-2018
INDICE

Premessa ...................................................................................................................... 1

Capitolo I: il consolato di Giulio e Cesare ................................................................... 2

Capitolo II: Cesare e il comando in Gallia ................................................................ 19

Capitolo III: la campagna contro gli Elvezi ............................................................... 35

Capitolo IV: la campagna contro Ariovisto ............................................................... 54

Conclusioni ................................................................................................................ 65

Bibliografia ................................................................................................................ 67
PREMESSA

Con il seguente trattato si è cercato di far luce su alcuni aspetti controversi delle
vicende che si svolsero a Roma nel periodo di massima crisi del sistema
repubblicano. L’Urbe era stata recentemente sconvolta dalle guerre civili tra Mario e
Silla, con quest’ultimo che ne uscì vincitore. Proprio questo scontro darà i
fondamenti per il successivo conflitto civile, quello fra Cesare e Pompeo. Ma cosà
portò a questo scontro? Questo testo è un’occasione per parlare della figura del
(divo) Iulio, del suo anno di consolato e di come gli avvenimenti del 59 a.C.
condizionarono il conflitto in Gallia e tutta la sua carriera, politica e militare.
Essendo la nostra quantità di fonti non sufficientemente ampia da concederci una
visione completa delle vicende della Roma antica, molte questioni sono soggette
all’interpretazione e al ragionamento. Ho cercato di riportare, nel caso in cui i pareri
siano discordi tra loro, le due o più versioni, offrendo poi la mia visione delle
questioni. Il testo si pone quindi con l’atteggiamento il più possibile critico e
distaccato. Si è cercato di confrontare le fonti antiche con le interpretazioni dei
moderni, sia contemporanei sia del secolo scorso. Con il passare degli anni la nostra
conoscenza sulle questioni dell’Urbe aumenta grazie a studi e scavi; non per questo
le interpretazioni passate sono meno valide in alcuni casi. Spero che questo breve
saggio possa offrire uno spunto per un’analisi più profonda delle vicende legate alla
figura di Giulio Cesare.

1
CAPITOLO I: IL CONSOLATO DI GIULIO E CESARE

È difficile avvicinarsi alla figura di Caio Giulio Cesare senza avere alcun tipo di
pregiudizio. Si tratta di una delle figure storiche più studiate, ammirate e controverse
della storia antica. Come abilità bellica ha pochissimi eguali nel mondo romano e
ancor meno nel mondo ellenistico, con qualche rara eccezione macedone e spartana.
La figura di Cesare è giunta a noi sotto la luce del vincitore, di colui che ha innalzato
Roma al rango di impero mediterraneo, il riformatore dello Stato (con alcune delle
sue riforme che rimasero in uso per secoli) e infine il martire, ucciso da una cricca di
congiurati gelosi del suo potere, della sua fama e del consenso di cui godeva presso il
popolo e l’esercito.

È dunque una figura controversa, alla quale bisogna avvicinarsi con cura. Per
apprendere informazioni sulle sue campagne militari basta analizzare le sue opere
quali il De Bello Gallico e il De Bello civile, scritti da lui o comunque supervisionati
da Cesare stesso durante la pubblicazione. Rimane difficile, però, analizzare la sua
persona solo da queste cronache belliche.

Di lui abbiamo una descrizione di Svetonio:

“Si tramanda sia stato alto di statura, di colorito chiaro, di membra


proporzionate, un po’ troppo pieno nel volto, di occhi neri e vivaci, di
buona salute…. Era tanto preciso nella cura del corpo da farsi non solo
tagliare i capelli e radere con diligenza, ma anche depilare…. Non
riusciva a rassegnarsi alle sue calvizie, (…) per questo era uso far
scendere i radi capelli dall’alto della testa sulla fronte…. Dicono che si
sia fatto notare anche nel vestire” 1.

Oltre ad una sua descrizione fisica, Svetonio ci informa della sua passione per
l’eleganza delle proprie abitazioni2, per le pietre preziose, le statue3 e per le donne,
sia che esse fossero matrone romane4, sia che fossero “…mogli dei provinciali” o

1
SUET, Iul, 45.
2
SUET, Iul, 46.
3
SUET, Iul, 47.
4
SUET, Iul, 49-50.

2
regine di paesi lontani. Alla sua descrizione si può aggiungere che non era un assiduo
bevitore5 e che le sue abilità militari e oratorie erano superlative, al punto che “egli
eguagliò e superò la gloria dei più grandi”. Nelle ultime parti della sua opera,
Svetonio aggiunge che era abile a cavalcare e nel maneggiare armi, che aveva
un’ottima resistenza fisica e racconta di episodi eroici e salienti delle sue campagne
lodandone il coraggio e il condizionamento che avevano le sue azioni sui soldati6. Un
busto rinvenuto nel foro di Tuscolo nel 1825, certificato autentico da Maurizio Borda
nel 1940, e collocato oggi nel museo nazionale di Torino, conferma la descrizione
che ci dà Svetonio della figura di Cesare. La sua è quindi, nel complesso, una
valutazione ampiamente positiva: di buon politico, di militare capace, di un
convincente oratore e di una persona capace di legare a sé gli altri, convincerli ed
infonder loro fiducia. Inoltre, le sue azioni erano rivolte non solo alla gloria
personale ma anche al bene della res publica, e dei suoi abitanti, soprattutto quelli di
Roma.

Anche Sallustio ne fa una descrizione in occasione del processo contro i catilinari


durante l’anno del consolato di Cicerone: spiega la differenza fra i due contendenti,
Cesare e Catone:

“Orbene, essi, furono pressoché uguali per l’età, la nascita e


l’eloquenza, pari per grandezza d’animo, per fama ma differenti sotto
altri lati. Cesare era considerato grande perché mugnifico e generoso… Il
primo fu reso famoso dalla mitezza e generosità… Cesare fu reso
glorioso dalla prodigalità, dal soccorso prestato ad altri, dal perdono… Il
primo era rifugio per i miseri… Di quello era lodata la condiscendenza…
Insomma, Cesare si era proposto di adoperarsi a vegliare e per curare gli
affari degli amici trascurava i suoi, non rifiutava niente che non fosse
adatto per essere dato in dono. Per sé desiderava ardentemente
comandare, predisporre un esercito, portare una guerra nuova per far
trionfare la virtù”7.

5
SUET, Iul, 51-53.
6
SUET, Iul, 54-70.
7
SALL, Cat, 54.

3
In occasione di questo episodio Cesare pronunciò il più importante discorso
pubblico di tutta la sua carriera politica fino a quel momento. Le conclusioni alle
quali giunge Sallustio per descriverlo sono certamente frutto della visione d’insieme
della sua figura, ma sicuramente con le sue parole impressionò la Curia romana,
facendo sfoggio di eloquenza e di abilità oratoria.

Dalle fonti antiche pervenute a noi su Cesare riusciamo a riconoscere già nel
periodo giovanile una certa temerarietà, visto il diniego nel ripudiare la moglie
Cornelia, figlia di Cinna, pur sotto richiesta del dittatore Silla8. Un segno della sua
sicurezza si evinse in occasione della cattura subita dai pirati cilici (i quali saranno
successivamente sconfitti da una brillante operazione di Pompeo Magno). Questi
richiesero un riscatto: Cesare mandò i suoi emissari per cercare il denaro nelle
province vicine, ma nel frattempo rimase presso i pirati. Cesare non venne trattato
come un prigioniero anzi, sembrava che “quelli gli facessero non da custodi ma da
guardie del corpo”9. Una volta pagato loro il riscatto, si portò a Mileto, allestì delle
navi e si diresse contro i pirati stessi, sorprendendoli e mandandoli poi a morte per
crocifissione10. Poco importa se l’episodio risalga a prima del rientro a Roma, come
sostiene Plutarco, o dopo la morte del dittatore Silla, come dice Svetonio; questa
vicenda denota la fermezza del personaggio già prima che diventasse il Cesare
politico. Tornato a Roma, dovette seguire il classico cursus honorum; ottenne il
tribunato militare, fu curatore della via Appia, la sua candidatura risultò vincente per
la carica di Pontifex Maximus. Fu infine pretore e propretore della provincia di
Spagna prima del suo rientro a Roma per concorrere al consolato. Durante questo
periodo vanno riportati alcuni episodi che possono ulteriormente chiarire la criptica
personalità del futuro dittatore. In occasione della morte della nonna Giulia, moglie
di Mario “tenne nel foro uno splendido elogio e osò esporre, durante il trasporto
funebre, le statue di Mario”11. È giunta a noi anche una parte del discorso che fece,

8
SUET, Iul, 1.
9
PLUT, Caes, 2,3.
10
PLUT, Caes, 2,7.
11
PLUT, Caes, 5,2: ἐπὶ τούτῳ γὰρ ἐνίων καταβοησάντων τοῦ Καίσαρος ὁ δῆμος ἀντήχησε λαμπρῶς,
δεξάμενος κρότῳ καὶ θαυμάσας ὥσπερ ἐξ Ἅιδου διὰ χρόνων πολλῶν ἀνάγοντα τὰς Μαρίου τιμὰς εἰς
τὴν πόλιν. τὸ μὲν οὖν ἐπὶ γυναιξὶ πρεσβυτέραις λόγους ἐπιταφίους διεξιέναι πάτριον ἦν Ῥωμαίοις,
νέαις δὲ οὐκ ὂν ἐν ἔθει πρῶτος εἶπε Καῖσαρ ἐπὶ τῆς ἑαυτοῦ γυναικὸς ἀποθανούσης: καὶ τοῦτο ἤνεγκεν
αὐτῷ χάριν τινα καὶ συνεδημαγώγησε τῷ πάθει τοὺς πολλοὺς ὡς ἥμερον ἄνδρα καὶ περίμεστον ἤθους
ἀγαπᾶν.

4
nel quale egli si poneva erede dei re per stirpe materna ed erede degli Dei immortali
da parte paterna12. Oltre a dare sfoggio di una notevole abilità oratoria, si poneva
anche come erede della ormai sconfitta “fazione Mariana”, e metteva in risalto le sue
origini nobili, dichiarandosi discendente degli antichi re e degli dei. Mandava inoltre
un messaggio forte facendo esporre le statue dello zio Mario nel foro, alienandosi
alcune simpatie all’interno della fazione aristocratica, ma guadagnando favore presso
il popolo. Questa ardita mossa serviva a Cesare per far risaltare la sua parentela e
vicinanza con lo zio, almeno dal punto di vista della fazione politica. Un’ulteriore
dimostrazione di eloquenza si ebbe sotto il consolato di Cicerone nel 63 a.C., quando
presentò un discorso in difesa dei Catilinari, responsabili di aver ordito una congiura
per sovvertire la Repubblica romana. Con le sue abili e sensate parole chiedeva che
non si mettessero a morte importanti cittadini di Roma senza regolare processo,
almeno fino alla sconfitta di Catilina13. In questo caso, si scontrò con la figura di
Catone, rigido conservatore, difensore della decadente Repubblica e nemico di
Cesare durante tutta la sua vita. Anche Cicerone riporta il fatto, segno che il discorso
di Cesare non passò inosservato14. Il discorso completo, la risposta di Catone ed il
confronto fra i due sono giunti a noi tramite Sallustio, che ne riporta le parole ne “La
congiura di Catilina”.

Durante il viaggio verso la Spagna, dove andava per esercitare la funzione di


propretore, Cesare ed il suo entourage, nell’attraversare le Alpi, sostarono in un
piccolo villaggio barbaro. Gli amici derisero la condizione del villaggio: “dicevano:
“anche qui ci sono ambizioni per arrivare al potere, e contese per ottenere il primo
posto, e invidie dei potenti tra loro?” utilizzando un evidente tono ironico. La
risposta che diede Cesare fu inaspettata: “E Cesare, parlando sul serio, disse loro: ʻ
Vorrei essere il Primo tra costoro piuttosto che il secondo a Roma”15. Episodio
analogo si verificò quando Cesare scoppiò a piangere durante la lettura di un libro
sulle guerre di Alessandro Magno, addolorandosi per la pochezza delle sue imprese
in confronto a quelle del grande conquistatore macedone16, che alla sua età aveva già
sottomesso e conquistato un impero; lui si era solamente distinto in qualche missione
12
SUET, Iul, 6.
13
PLUT, Caes, 7, 7-9.
14
G. BELLARDI, 1978: p. 789.
15
PLUT, Caes, 11, 3-4.
16
PLUT, Caes, 11, 5-6.

5
diplomatica in Asia e con le battaglie contro le sfuggenti genti iberiche. Che fosse un
libro o un busto come riportano altre fonti, l’idea che esce da questo episodio è di un
Cesare rammaricato per il poco da lui compiuto fino a quel momento, desideroso di
conquiste e gloria, di essere ricordato e di passare alla storia, di essere il primo di
Roma, sia del suo tempo sia nel passato della Repubblica. Un desiderio di grandezza
che ne accompagnerà le gesta durante tutto il suo cammino politico e militare; e il
confronto con il leggendario comandante macedone lo metteva in una posizione di
decisa inferiorità. Spinto da questo desiderio di gloria, cercò di rientrare il prima
possibile a Roma.

Avrebbe dovuto, una volta rientrato nella capitale, celebrare il trionfo per le
vittorie militari ottenute sulle tribù iberiche ma, per farlo, avrebbe dovuto rinunciare
a concorrere al consolato: era infatti regola che il candidato presentasse
personalmente la sua candidatura al senato, mentre il comandante che riceveva il
trionfo doveva attenderlo fuori dal pomerio, visto che esercitava ancora l’imperium,
il potere di comandare le truppe. Le due cose erano inconciliabili, soprattutto per via
dell’ostruzionismo di Catone e dei suoi avversari politici, che non gli consentirono di
candidarsi in absentia. Dovette quindi rinunciare al trionfo, per potersi candidare per
l’anno 59 a.C. al consolato. Questa mossa gli fece guadagnare consenso presso il
popolo: passò come un’ingiustizia il fatto che un nobile e valoroso comandante
romano dovesse rinunciare ad un meritato trionfo per via di una cricca di gelosi e
conservatori. Inoltre, la plebe urbana aspettava con ansia le varie celebrazioni, per
via delle elargizioni e dei benefici che di solito riceveva, che fossero cibo o
spettacoli.

Siamo nel 59 a.C., e Cesare si appresta a candidarsi come console all’età di


quarant’anni. Attraverso il conseguimento del consolato, Cesare era giunto al
culmine del cursus honorum previsto dall’ordinamento romano, raggiungendo la più
alta carica statale. Lo aveva fatto sfruttando al massimo le opportunità che gli erano
state offerte, potendo fregiarsi di un nomen antico ma oramai lontano dai vertici della
politica romana. Aveva sfruttato il suo carisma e la sua oratoria, alleandosi con le
persone giuste e cavalcando il consenso popolare. Aveva contratto numerosi debiti,
aveva blandito, minacciato, corrotto. Ora si apprestava ad affrontare l’anno decisivo
della sua carriera politica, con la speranza poi di ottenere una provincia dove

6
esercitare l’imperio proconsolare e conquistarsi la gloria militare. E possibilmente un
altro trionfo da celebrare insieme a quello iberico che non gli era stato concesso.

Era tradizione che fosse il console che avesse ottenuto più voti ad iniziare
l’attività legislativa, oltre a celebrare l’inizio dell’anno con sacrifici e preghiere, per
la durata del primo mese, per poi alternarsi con il collega17. Fu quindi la volta di
Cesare a presenziare la prima seduta del senato. Con un abile discorso, si dichiarò
disponibile all’accordo con i patres conscripti, e di voler governare in armonia con il
senato e con l’altro console. Come gesto di buona volontà stabilì che quando Bibulo
avesse portato i fasci, i suoi littori avrebbero camminato dietro di lui e che sarebbe
stato preceduto solo da un funzionario subalterno18. Come era usanza, dovette
interrogare i senatori, e il primo ad essere sentito fu Crasso: i senatori che venivano
consultati per primi erano i più vicini politicamente al console e sarebbero stati i suoi
consiglieri e gli uomini su cui avrebbe fatto maggior affidamento19. La scelta ricadde
su Crasso e non su Pompeo per la maggiore sicurezza che questi dava in merito al
supporto per le successive proposte di legge e probabilmente anche per la storica
collaborazione fra i due. Vennero creati i presupposti per un consolato sereno.
Cesare, oltre a godere del supporto di Pompeo e Crasso, con i quali aveva stretto un
patto informale di reciproco sostegno, era appoggiato anche da uno spregiudicato
tribuno della plebe, che era stato questore nello stesso anno di Cicerone, ovvero
Publio Vatinio. Quest’ultimo non è un personaggio particolarmente gradito
all’Arpinate che, durante una sua lettera ad Attico, lo definisce così: “Illa opima ad
exigendas pecunias Druso, ut opinor, Pisaurensi an epuloni Vatinio reservatur”20.
Cesare cercò dunque di porre le basi per riuscire nella sua attività riformatrice, e per
rimanere in armonia con il senato, ma l’ottusa lotta contro le sue proposte finì per
convincerlo della necessità di lavorare senza il supporto del senato stesso. Questo si
tradusse nel ricorso al voto popolare, alla violenza e all’imposizione delle riforme da
lui proposte, che piacessero o meno. Durante la febbrile attività legislativa registrata
nei primi mesi del 59 a.C., si venne a delineare un netto schieramento che vedeva la
parte conservatrice del senato, capeggiata da Catone e Bibulo, opporsi al triumvirato

17
PINA POLO, 2011.
18
GOLDSWORTHY 2014: pp. 178-179.
19
MEYER 2004: p. 213; Cfr. F. RYAN, 1988.
20
CIC, Att, 27, II, 7.

7
e al sostegno popolare del quale i triumviri godevano. Quando Cesare propose una
legge agraria nella quale si assegnavano delle terre demaniali pubbliche ai veterani di
guerra di Pompeo e alle famiglie con più di tre figli a carico, la parte conservatrice
del Senato si sollevò, ritenendo la proposta inaccettabile. Svetonio riporta, durante
questo episodio, la cacciata in armi del collega Bibulo21, per indicare una rottura
immediata con la fazione opposta. Dopo l’approvazione della legge e il fallito
tentativo di denunciare le mosse di Cesare al senato, Bibulo si rinchiuse in casa sua
per tutta la durata del suo mandato, limitandosi a scrivere invettive contro il
triumvirato ed i suoi membri e facendo ostruzione attraverso la visione di segni
religiosi nefasti. I più malevoli cominciarono a scrivere che quell’anno erano stati
consoli Giulio e Cesare, essendo di fatto il console sine collega. Svetonio riporta i
versi che divennero così popolari:

“Non Bibulo quidam nuper, sed Caesare factum est: Nam Bibulo fieri consule nil
memini.”

Mi permetto una piccola digressione sull’atteggiamento dell’aristocrazia romana


nei confronti di Cesare. Fino al momento dell’elezione al consolato e con ciò che ne
conseguì, Cesare non aveva avuto una carriera diversa da molti giovani romani.
Aveva seguito le tappe del cursus honorum senza particolari forzature, era stato
edile, pretore e pontefice massimo senza suscitare clamorose polemiche né
particolari attenzioni, almeno fino al processo contro i catilinari. Non ci fu quindi una
diffusa diffidenza verso di lui se non proveniente da Catone e dallo stesso Bibulo,
oscurato dal collega durante la pretura. Le parole che si pensa abbia pronunciato Silla
nei suoi confronti22, non bastano a giustificare una iniziale preoccupazione verso di
lui. Lo stesso Cicerone, in una lettera della fine del 60 a.C. verso l’amico Attico, si
dice contento della visita di Cornelio Balbo, fedele seguace di Cesare, che “…mi
assicura che Cesare si gioverà del consiglio mio e di Pompeo” e ancora:
“Imbarcandomi così, ricavo i seguenti frutti: solidarietà completa con Pompeo, e, se
lo ritengo opportuno, anche con Cesare”23. La figura di Cicerone rimane ancora oggi

21
SUET, Iul, 20.
22
PLUT, Caes, 1, 4: eglì ribattè che non avevano senno se non vedevano in quel giovane molti Marii;
SUET, Iul, 1: quandonque optimatium partibus, quas secum simul defendisset, exitio futurum; nam
Caesari multos Marios inesse.
23
CIC, Att, 23, II, 3.

8
dibattuta. Sicuramente era un grande oratore, influente e rispettato: ma era anche un
homo novus, cioè non appartenente alle antiche famiglie senatorie. Si era conquistato
il posto nella Curia non grazie ai suoi nobili natali, ma per i suoi meriti. Questo
caratterizzò buona parte della sua vita politica, rimanendo sì un fedele sostenitore
della Repubblica con i suoi valori, ma mai decisamente schierato con gli aristocratici.
Questa sua non completa appartenenza all’élite del senato può aver contribuito alla
formazione del suo carattere. Abbiamo un’immagine di un Cicerone spesso insicuro,
capace di farsi trascinare dal discorso ma non di causarlo. Dalle lettere ad Attico
ricaviamo che gli piaceva essere blandito e apprezzato; un esempio quando fa
riferimento alla possibilità di visitare l’Egitto:

“…Aegyptum visere et simul ad hac hominum satietate nostri discedere et cum


aliquo desiderio reverti”24.

Rimase dunque imprevedibile e una costante preoccupazione per Cesare:


quest’ultimo gli offrì anche un posto come legato per la sua campagna in Gallia, ma
Cicerone declinò l’offerta. Meyer, nella sua biografia su Cesare, gli dedica un
interessante paragrafo, cercando di entrare nella mente dell’Arpinate per capirne le
mosse e le decisioni25. Bisogna anche saper contestualizzare il momento nel quale si
viveva: la Repubblica e le sue istituzioni non erano ormai più in grado di
amministrare un territorio così vasto, e le guerre civili degli anni precedenti lo
avevano dimostrato. Atteggiamenti che prima erano considerati anticostituzionali o
sconvenienti e che non rispettavano rigidamente il mos maiorum, adesso non erano
più osteggiati ed erano quasi diventati consuetudine. Era sicuramente necessaria una
forza nuova che portasse Roma a evolversi e a prepararsi per il futuro, a trasformarsi.
Non fu Pompeo questa forza, forse troppo timoroso del Senato o delle conseguenze
che le sue azioni potevano generare; forse non ci sarebbe riuscito neppure Cesare
senza il supporto dei triumviri, e fu proprio la loro alleanza a porre le basi per la
guerra civile. Se la sua carriera non avesse giovato del supporto economico di Crasso
e del supporto politico di Pompeo, probabilmente non sarebbe riuscito ad operare
quel vasto programma di riforme durante il suo consolato. Conseguentemente non
avrebbe ottenuto e mantenuto il governo proconsolare sulle Gallie così a lungo,

24
CIC. Att. 25, II, 5.
25
MEYER 2008: pp. 236-239.

9
evitando quindi tutto ciò che accadde durante le guerre civili. Questa situazione
richiede una parentesi che ne spieghi le vicende.

L’alleanza di Cesare con Pompeo e Crasso, che erano gli uomini più influenti di
Roma nel 60 a.C., uno per prestigio e l’altro per denaro e clientele, fece sì che la sua
posizione in senato fosse salda come non mai. Crasso aveva investito molto oro per
sostenere la carriera di Cesare, assumendosi molti dei suoi debiti e sostenendolo nei
momenti di crisi, e si preparava ora a raccogliere i frutti del suo investimento. La sua
enorme disponibilità di denaro non era riuscita però a procurargli incarichi militari di
prestigio e la fama militare che ne sarebbe conseguita; la rivolta degli schiavi di
Spartaco fu l’unico comando importante che ottenne. Dal 73 al 71 a.C. le bande
armate ribelli fecero scorrerie nella penisola senza che Crasso riuscisse a sconfiggerli
definitivamente. Fu il rientro nella penisola di Pompeo ad eliminare ciò che restava
dell’esercito schiavista, comunque indebolito da Crasso. Ciò non permise a Crasso di
conseguire la vittoria totale. Pompeo, d’altro canto, era sì riconosciuto ed affermato
come uomo militare e come brillante generale, ma non era mai riuscito a sfruttare
questo suo favore per far approvare le leggi a lui care, ovvero quella per la
sistemazione dei suoi veterani, e quella per il riassetto delle province asiatiche da lui
riorganizzate, dopo essere subentrato a Lucullo e aver sconfitto Mitridate26. Mancava
di quella spregiudicatezza necessaria in quel frangente per affermare le sue riforme.
Da soli non erano dunque riusciti a imporre la loro volontà contro la vecchia classe
dirigente romana. Con una magistrale opera politica, Cesare li legò a sé,
convincendoli che insieme avrebbero potuto ottenere ciò che singolarmente non
avevano ottenuto. Il capolavoro politico di Cesare, che creò questa alleanza ed il
modo in cui la tenne in vita, non ha eguali: inoltre il supporto dei tribuni della plebe,
Clodio in particolare, renderà i tre potentissimi, dei veri e propri signori di Roma27.
L’accordo viene definito primo triumvirato, ed è un accordo ufficioso, non accettato
o approvato dal senato. Quando poi la reciproca fiducia stava venendo meno, il
capolavoro politico di Cesare si materializzò negli accordi di Lucca del 56 a.C.
Cesare convinse i due della necessità del loro accordo28; per sé chiese una proroga
del mandato proconsolare, conscio che la situazione in Gallia avrebbe richiesto più
26
APP, Mith, 91; PLUT, Luc, 35, 7.
27
GRUEN, 2009: pp. 32-35.
28
GOLDSWORTHY, 2016: pp. 275-279.

10
tempo per essere risolta; per gli altri due propose il consolato per l’anno seguente,
con conseguente imperium consolare da esercitare in una delle province. Otteneva
quindi, oltre a dei consoli a lui favorevoli per il 55 a.C., che l’accordo continuasse ad
esistere e che venissero legittimate le sue azioni. Cosa che peraltro fece Cicerone,
che sostenne la validità del comando di Cesare in Gallia:

“Itaque cum acerrimis Germanorum et Helvetiorum nationibus et


maximis proeliis felicissime decertavit, ceteras conterruit, compulit,
domuit, imperio populi Romani parere adsue fecit et, quas regiones
quasque gentes nullas nobis antea litterae, nulla vox, nulla fama notas
fecerat, has noster imperator noster que exercitus et populi Romani arma
peragrarunt”.29

Inoltre, accontentava il desiderio di gloria bellica di Crasso, che scelse la Siria


come provincia: egli intendeva portare guerra ai Parti, da sempre vicini scomodi dei
romani. Gli accordi vennero ratificati dalla lex Trebonia. Pompeo, che era ancora
sentimentalmente legato alla figlia di Cesare, non si diresse mai nella sua provincia
spagnola, ma delegò dei suoi collaboratori. Furono la scomparsa della giovane
moglie di Pompeo e dell’altro triumviro nella sanguinosa disfatta di Carre nel 53 a.C.
le cause che misero nuovamente in crisi l’accordo. Inoltre, l’ostilità del senato nei
confronti di Cesare era enorme: ciò spinse gli aristocratici a muovergli contro una
vera e propria guerra politica, e cercarono di fare di Pompeo il campione della causa
repubblicana da contrapporre a Cesare. Ma, prima che questi eventi si sviluppassero,
Cesare si avvalse del loro supporto e concesse loro il suo sostegno con leggi mirate
durante il suo consolato. La legge agraria sistemò l’irrisolto problema dei veterani di
Pompeo, costringendolo a schierarsi apertamente con Cesare; venne proposta la
legge ai padri coscritti. Questi, per la spregiudicatezza delle leggi che “non si
addicevano a un console, quanto piuttosto a un tribuno della plebe particolarmente
audace”30, non sembravano intenzionati ad appoggiarle e l’ostruzionismo di Catone
sembrava voler posticipare anche il solo voto. Cesare dunque, prese in mano la
situazione, fece arrestare Catone e allontanare Bibulo e propose la legge al popolo.
Questi si mostrò entusiasta e il sostegno di Pompeo fu decisivo per la sua

29
CIC, Prov. cons, 33.
30
PLUT, Caes, 14, 2.

11
approvazione. Convocata l’assemblea popolare al foro, Cesare interrogò sia Crasso
che Pompeo sulla bontà della riforma: Cesare, infine, domandò al Sampsiceramo31 se
fosse disposto a difendere le leggi con le armi in caso di necessità. Pompeo replicò:
“Se si fa avanti qualcuno con la spada, io porterò anche lo scudo”32. Cesare stava
forzando enormemente le istituzioni: Bibulo, dopo un tentativo fallimentare di
richiesta al senato di un senatus consultum per i fatti accaduti, si rinchiuse in casa e
non si presentò più alle sedute del senato, imitato anche da Catone (che era stato
rilasciato poco dopo vista l’ostilità del senato dopo il suo arresto) e dai suoi. Crasso
venne invece accontentato con la lex de publicanis e la lex Iulia de repetundis con le
quali si favoriva l’ordine equestre, si regolavano i reati di concussione e si
diminuivano le imposte che i pubblicani dovevano allo Stato. Ciò garantiva i
commerci e gli affari con gli uomini della provincia di Asia, affari in cui lo stesso
Cesare probabilmente partecipava.

Cesare si preoccupò allora di rafforzare la sua posizione cercando di ostacolare i


suoi avversari politici33: Catone venne allontanato con l’incarico di assumere il
governo dell’isola di Cipro per il 58 a.C. e di annetterla a Roma34; serviva un uomo
politico incorruttibile, capace di non farsi tentare dalle ricchezze dell’isola e di
provvedere nell’interesse dell’Urbe. Così venne presentata la missione a Catone.35 In
realtà era probabilmente un pretesto per allontanarlo da Roma, ma da uomo politico
integerrimo quale era, non osò opporsi. Cicerone si mostrò più difficile da
convincere: rifiutò un incarico come legato di Cesare in Gallia e costrinse il
triumviro a ostacolarlo con l’azione di Clodio, mentre il fratello entrò nell’entourage
di Cesare36.

Era ormai chiaro che lo “schieramento” Cesariano teneva saldamente il potere,


con l’aiuto di due degli uomini più potenti di Roma e delle clientele di cui essi
godevano. Qui penso si possa parlare di vero e proprio schieramento cesariano
perché la plebe vedeva in lui il campione nel quale porre la fiducia e che fosse
capace di tutelarla. Inoltre, il carisma di cui era dotato spinge a pensare che per molti
31
CIC, Att, 34, II, 14.
32
MEYER, 2008: pp. 216-218.
33
DUGGAN, 1964: p. 85.
34
PLUT, Cato min, 34-39; LIV, Per. CIV.
35
CASS. DIO, XXXIX, 22, 4; STRABO, XIV, 6,6.
36
DUGGAN, 1964: p. 86.

12
era diventato una figura centrale non solo nella vita politica; tutte le persone che lo
incontravano erano affascinate dal suo carisma e dalla sua personalità, che ne
facevano l’uomo ideale nel quale credere. Sotto l’aspetto militare non mancarono poi
gli episodi di eroismo e di cieca fedeltà che gli tributarono i suoi soldati: Svetonio ne
dà una veloce spiegazione37mentre Plutarco gli dà più spazio, soffermandosi anche
sui singoli episodi38, ma queste dimostrazioni sono successive al fortissimo legame
che si creò con la truppa, che la spinse a gesti eclatanti per la fedeltà verso il proprio
comandante.

Forse Pompeo si pentì delle sue scelte, dopo aver osato tanto per l’approvazione
della legge agraria. Ancora una volta la politica di Cesare fu magistrale: vi era un
periodo consuetudinario di licenza dall’attività legislativa che riguardava i mesi di
aprile e maggio, e Cesare ne approfittò per rinsaldare l’alleanza con il potente alleato
mediante un matrimonio39, concedendogli la figlia Giulia, giovane e affascinante; la
giovane aveva ereditato molto del carisma del padre oltre alle doti estetiche, e
Pompeo se ne innamorò. Sembra che la cosa fosse reciproca, nonostante i 30 anni di
differenza. I due vissero felicemente, fino alla di lei prematura scomparsa nel 54 a.C.

Sia Svetonio che Plutarco riportano dopo questa unione la decisa mossa di
Pompeo che promosse l’assegnazione delle province della Gallia e dell’Illirico a
Cesare. Si tratta della lex Vatinia, promossa dall’omonimo tribuno della plebe.
Svetonio riporta che “(Cesare) ebbe dapprima la Gallia Cisalpina e l’Illirico in virtù
della legge Vatinia. Il senato vi aggiunse subito dopo la Gallia Comata...”. E’,
secondo me, più verosimile la proposta riportata da E. Horst nella sua biografia su
Cesare, che sostiene che le prime due province gli furono assegnate secondo il
disegno di legge presentato da Vatinio, mentre la Comata gli fu assegnata sotto
pressione di Pompeo. Sulla reale legge che assegnò la zona della Cisalpina a Cesare
sono sorti dei dubbi, in base ai quali si è arrivato a pensare che il reale nome della
legge avrebbe potuto essere Iulia, anziché Vatinia. “Lex de Actis Cn. Pompeii
Confirmandis: Lex Ivlia or LexVatinia?” è il nome del brillante articolo, pubblicato
sulla rivista “The Classical Quartearly”, da L.G. Pocock, che tratta il tema. Il

37
SUET, Iul, 68.
38
PLUT, Caes, 16.
39
GRIFFIN, 2009: pp. 37-39.

13
dibattito è stato acceso dal fatto che, secondo l’autore, la legge possa essere in realtà
frutto del volere di Cesare. Si è a lungo discusso se il tribuno della plebe agisse per
conto suo, su disegno di Cesare o si sia via via emancipato con il tempo e con la
lontananza di Cesare. Quindi il testo cerca di dare una risposta al quesito,
evidenziando comunque lo stretto legame che incorreva fra i due (fu proprio Cesare,
con l’aiuto di Pompeo, a farlo ufficializzare plebeo, attraverso una cerimonia che
prevedeva l’adozione da parte di un plebeo di Clodio). La provocatoria domanda
pone quindi in discussione la paternità di Vatinio sulla legge, scorgendo la prepotente
figura di Cesare alle spalle. Ci sono quindi degli aspetti innovativi di questa proposta
di legge; come prima cosa bisogna evidenziare la durata del mandato proconsolare di
Cesare, aumentato fino a 5 anni; la seconda invece è l’assegnazione straordinaria di
alcune province scelte contravvenendo all’iniziale disegno del senato; infine ci si
interroga sul perché delle province illiriche e galliche.
Sulla durata sono molte le ipotesi diffuse. Sicuramente Cesare aveva bisogno di
un lasso di tempo più ampio del normale per poter realizzare il suo disegno di
conquista e per ottenere la fama e la gloria alla quale aspirava. In solo un anno, come
era previsto dalle leggi, era difficile poter riportare vittorie decisive e durature: sia
Scipione prima, che Silla poi, fino allo stesso Pompeo, avevano dovuto impiegare
diversi anni di guerra per arrivare a capo dei rispettivi avversari; In secondo luogo,
probabilmente la durata non era neanche un grosso problema per i patres conscripti
visto che lo scomodo ormai ex console sarebbe stato lontano dalla capitale per
diversi anni perdendo inevitabilmente influenza e legami con il mondo politico
romano ed esponendosi agli attacchi dei suoi avversari. Il problema era inerente al
fatto che, assumendo un immediato incarico straordinario, Cesare non sarebbe stato
perseguibile per ciò che aveva fatto nel periodo del suo consolato. In un interessante
articolo intitolato: “The Extraordinary Commands from 80 to 48 B. C.: A Study in
the Origins of the Principate”40, Boak definisce tutti i governi straordinari che hanno
caratterizzato l’ultimo secolo della repubblica romana, spiegandone le modalità, le
cause e il reale potere del quale i beneficiari del comando godevano.

Era uso che gli incarichi per i consoli che terminavano il loro mandato venissero
decisi prima della elezione di questi ultimi, quando ancora non se ne conoscevano i

40
A. E. R. BOAK, 1918.

14
nomi. Data la probabile vittoria di Cesare, e visto il suo sostegno popolare e
l’appoggio economico fornitogli da Lucio Luculleio, candidato anch’esso per il
consolato, i senatori, sotto pressione di Catone, decisero che per il mandato per il
proconsolato ”si assegnassero ai futuri consoli degli incarichi di scarso interesse,
vale a dire i boschi e la viabilità rurale”41. Ovviamente questa era una scelta volta a
svantaggiare Cesare, ma anche lo stesso Calpurnio Bibulo, cognato di Catone,
entrambi poi eletti al consolato. Nel corso della recente storia romana vi erano già
stati dei casi di mandati straordinari che avevano assegnato comandi a personaggi
che non avevano i requisiti legali necessari o che venivano chiamati per esigenze
politiche-militari. Il primo ad aprire questa sequenza fu Publio Cornelio Scipione,
detto poi l’Africano, quando nel 211 a.C. gli venne assegnato il comando
proconsolare a soli 25 anni per la guerra contro i cartaginesi in Spagna. Livio riporta
il momento dell’assegnazione della carica:

“Dopo che tutti gli sguardi si rivolsero verso di lui, la moltitudine con
grida di simpatia e favore gli augurò senza indugio un comando felice e
fortunato. Quando poi si iniziò a votare, tutti fino all'ultimo, non solo le
centurie ma i singoli cittadini, deliberarono che il comando supremo
militare in Spagna fosse dato a P. Scipione”42.

Fu un caso eccezionale, non solo per l’età del giovane Scipione, ma anche perché
venne inviato come cittadino privato dotato di un imperium consolare. La scelta
venne anche dettata dalla situazione tragica in cui versava Roma, che costringeva i
senatori ad adottare misure eccezionali. Dopo di lui anche lo zio di Cesare, Mario, fu
investito di un comando straordinario per la guerra giugurtina combattuta nel 107
a.C. andando a sostituire il precedente comandante Quinto Cecio Metello, del quale
era stato luogotenente, sfruttando la situazione di stallo delle operazioni militari e il
malcontento popolare. Successivamente si fece affidare anche il comando per la
guerra mitridatica, assegnata precedentemente a Silla, grazie ad una proposta del
tribuno della plebe Sulpicio Rufo, che fece approvare nel 88 a.C. la lex Sulpicia de
bello mithridatico C.Mario decernendo con la quale otteneva pieni poteri in Asia ed
in Grecia. Infine, anche il comando di Pompeo in Asia avvenne grazie ad una legge,

41
SUET, Iul, 19.
42
LIV, XXVI, 18. 6-9.

15
la lex Manilia approvata nel 66 a.C., per farsi assegnare la direzione della guerra con
Mitridate, portata avanti fino a quel momento da Lucullo, che aveva inflitto pesanti
sconfitte al nemico e lo aveva messo sulla difensiva, ma non era riuscito ancora a
risolvere completamente il problema. Pompeo aveva ottenuto anche un incarico
straordinario con pieni poteri per combattere i pirati Cilici che infestavano il
Mediterraneo e disturbano i traffici commerciali. Con questo incarico egli aveva la
possibilità di reclutare fino a 20 legioni, di armare un gran numero di navi e
un’auctoritas superiore a tutti i vari magistrati locali. Accumulò nelle sue mani un
potere enorme, che però depose una volta sconfitti i pirati.

Come il senato era stato scavalcato nel secolo precedente, così accadde
nuovamente: fu costretto ad approvare la legge, per mantenere un barlume di autorità
e non costringere Cesare a fare ricorso al voto dei comizi.

Una fortunata coincidenza fece sì che il governatore della Gallia Ulterior, Metello
Celere, morisse improvvisamente (aprile 59 a.C.) lasciando quindi vacante il suo
posto. Entrò dunque in scena Pompeo, che propose al senato che il governo della
provincia fosse assegnato a Cesare, cosi come la legione annessa. Il senato non
mostrò particolari opposizioni, accettando tacitamente anche le assegnazioni della
Lex Vatinia.

Meyer sostiene che la Gallia non era il terreno di guerra inizialmente previsto da
Cesare43, anzi. Molti storici quali Goldsworthy, Horst, Fezzi e lo stesso Meyer sono
concordi nell’affermare che l’Illirico era la zona in cui Cesare voleva guadagnarsi la
gloria militare. Il problema era che in quella regione regnava la pace, e quindi
bisognava trovare un motivo per scatenare la guerra, esponendosi agli attacchi dei
suoi nemici. Fu probabilmente una fortunata coincidenza la migrazione degli Elvezi,
che offrì a Cesare il casus belli.

Canfora, invece, sostiene che Cesare scelse le province alpine per un rimando alle
imprese gloriose dello zio Mario, che circa un cinquantennio prima aveva vinto le
popolazioni galliche e germaniche che minacciavano la penisola44. Io non credo che
avesse bisogno di un’ulteriore spinta ideologica per guadagnare prestigio o consensi.

43
MEYER, 2004: pp. 220-221.
44
CANFORA, 2006: pp. 101-104.

16
Era già arrivato alla carica più alta dello stato e ora avrebbe dovuto mettere a frutto
quello che aveva conquistato, attraverso imprese belliche. Tutti già sapevano chi
fosse, e quali fossero le sue tendenze politiche. La provincia della Gallia dava sì la
possibilità ad eventuali conquiste, ma le aspirazioni militari di Cesare furono forse,
almeno inizialmente, rivolte verso l’Illirico.

La questione della discendenza mariana è discussa. Cesare, da abile uomo politico


quale era, può aver sfruttato la vicinanza familiare con Mario per acquisire prestigio
e favore popolare, almeno all’inizio del suo percorso politico. Ma, le sue azioni non
sempre coincidevano con la sua appartenenza popolare. Sicuramente il fatto di essere
parente di Mario gli procurò dei vantaggi; ma se fosse stato così vicino al sette volte
console, non sarebbe stato perseguitato più ferocemente da Silla, senza neanche
ricevere la possibilità di cambiare schieramento e “redimersi”? Cesare sfruttò
abilmente il suo albero genealogico finché reputò potesse aiutarlo, non credo per un
sentimento di appartenenza. Indubbiamente però, sia che sfruttasse sia che fosse
convinto del suo attaccamento alla “fazione Mariana”, questo legame venne meno
quando si alleò attraverso il primo triumvirato con Pompeo e Crasso. Questi, oltre ad
essere degli aristocratici, erano stati due Sillani convinti ed erano stati al servizio
dell’ex dittatore. Quindi quando il comodo politico lo portò ad abbandonare gli ideali
del suo schieramento, Cesare non ci pensò due volte. Si può dire che la presunta
appartenenza ai mariani cessò con il triumvirato. Plutarco parla di fazione mariana45
ma nel primo periodo della carriera di Cesare, poi non ne fa più riferimento. Anche
Svetonio non fa più rimandi al fatto che fosse discendente di Mario.

Sembra chiaro il legame che Cesare ebbe con le comunità della transalpina, alle
quali promise la cittadinanza latina46, ma ciò non credo possa bastare per dire con
assoluta certezza il perché della Gallia. Credo che qualsiasi provincia con possibilità
di scontro bellico potesse andare bene per Cesare: i requisiti erano avere dei validi
avversari, riuscire a non essere troppo distanti da Roma per poter comunicare meglio
con i suoi collaboratori e una forte disponibilità di armati.

45
PLUT, Caes, 6.
46
CANFORA, 2006: pp. 101-104.

17
Bisogna infine chiarire anche gli aspetti che spinsero Pompeo alle sue azioni in
favore dell’alleato. Nella prima fase del consolato fu quasi obbligato a sostenerlo
visto il suo personalissimo interesse nel far approvare la legge agraria per i suoi
veterani, ma poi cosa lo spinse a sposare Giulia e a identificarsi politicamente con
Cesare? E perché? Molte sono le ipotesi. La più accreditata rimane che seguisse
Cesare per comodo politico, per riuscire a far approvare le leggi e le riforme a lui
care, e che i rapporti con il senato si fossero ormai deteriorati a tal punto che l’unica
valida soluzione politica consistesse nel legarsi ancor di più al collega. Un’altra
ipotesi fa riferimento all’influenza che la figlia di Cesare, Giulia, ebbe su di lui47.
Un’ultima e poco probabile ipotesi fa riferimento al senso della lealtà che Pompeo
avrebbe sviluppato nei confronti di Cesare.

Pompeo aveva comunque un probabile interesse affinché lo scomodo alleato


rimanesse lontano da Roma il più possibile, permettendogli di rinsaldare i legami con
Cicerone e il senato, deteriorati durante il 59 a.C. L’aver assegnato un’ulteriore
provincia aumentava gli incarichi di Cesare, in modo da tenerlo più occupato
possibile trascurando la politica romana. Difatti, quando anche lui ottenne un
governo proconsolare in Spagna dopo gli accordi di Lucca, delegò i suoi subalterni,
in modo da poter rimanere a Roma48. Anche Crasso, infine, aveva interessi su
Cesare: desiderava che riuscisse, attraverso il suo proconsolato, a risarcirgli le
somme di denaro che gli aveva prestano e delle quali si era fatto garante. Sperava
dunque di raccogliere i frutti del suo investimento. Erano tutti d’accordo per la Gallia
e l’Illirico e dunque egli partì. Ma non prima di aver insediato un console a lui
favorevole per l’anno successivo, in modo che potessero essere garantite le sue
riforme e non abrogate a causa dei mezzi poco consoni che erano stati usati. Rimase
anche a Roma quando il suo mandato consolare scadde, almeno finché la situazione
in Gallia non richiese la sua presenza a causa della migrazione degli Elvezi.49

47
GOLDSWORTHY, 2016: pp. 186-188.
48
CUFF, 1958: pp. 445-471.
49
CAES, BGall, 1, 6.

18
CAPITOLO II: CESARE E IL COMANDO IN GALLIA

Il turbolento anno di consolato che lo aveva visto protagonista, aveva mobilitato


le forze conservatrici del senato contro di lui. Svetonio ci riporta che venne promossa
da dei pretori un’inchiesta contro di lui, venne citato in giudizio da un tribuno della
plebe ed un suo questore venne chiamato a comparire per accuse di reati50. Era
quindi necessario assicurarsi che il suo lavoro non venisse reso vano da consoli a lui
ostili o a qualche provvedimento della Curia. Cesare si assicurò quindi che i consoli
per il 58 a.C. fossero due persone di fiducia. Vennero scelti dunque Aulo Gabinio e
Lucio CalpurnioPisone.51

Aulo Gabinio era un uomo di Pompeo: come già detto era stato lui il promotore
della lex Gabinia che gli aveva concesso così ampi poteri per la guerra contro i pirati
nel 67 a.C. e sarà uno dei suoi più fedeli seguaci durante la guerra civile. Lucio
Calpurnio Pisone era invece il suocero di Cesare, e portò avanti le sue disposizioni
durante il suo consolato. I due potenti scelsero dunque due tra i loro uomini più
fidati, consci dell’importanza del loro supporto. Anche negli anni successivi la
vigilanza sulle magistrature romane fu molto importante per Cesare, sia per
controllare il terreno politico, sia per giustificare le sue azioni non sempre rispettose
delle leggi. Inoltre, egli rimase in un primo momento a Roma anche per sorvegliare
(o forse per sostenere) un’eventuale azione di Clodio, il quale aveva in mente di
esiliare Cicerone con l’accusa di aver mandato a morte dei cittadini romani senza
processo durante il suo consolato mentre proseguiva con le accuse a Catilina. Una
volta che la legge fu approvata, e l’esilio confermato, Cesare poté partire alla volta
della sua provincia, visto l’incalzare degli avvenimenti. Era probabilmente il 20
marzo del 58 a.C.

Per lo studio del periodo bellico diminuiscono la quantità delle fonti antiche.
Svetonio, in un solo paragrafo di circa 15 righe, sintetizza i 9 anni di guerra di
Cesare, dicendo che ridusse il territorio tra i Pirenei, le Alpi e i fiumi Reno e Rodano
sotto il dominio di Roma, con conseguente tributo e dose di schiavi. Aggiunge quindi
che sconfisse i Germani aldilà del Reno, arrivandoci costruendo un ponte, che assalì i

50
SUET, Iul, 23.
51
BROUGHTON, 1952: pp. 193-194.

19
Britanni e che nell’arco di tutti questi anni subì solo 3 sconfitte52. Plutarco ci dà una
più ampia descrizione degli avvenimenti, probabilmente perché, scrivendo in greco,
puntava ad arrivare ad un tipo di lettore diverso da quello di Svetonio. Quest’ultimo
dava forse per scontato che chi si apprestasse a leggere la sua opera fosse a
conoscenza degli avvenimenti gallici, già narrati da Cesare stesso del De bello
gallico. Quindi entrambi si soffermarono su altri aspetti, lasciando gli aspetti militari
al racconto del proconsole e del suo aiutante Aulo Irzio.

Le informazioni che ci danno sono anche errate per alcuni aspetti: Svetonio, ad
esempio, sintetizza l’intervento armato in Britannia in un’unica spedizione, mentre in
realtà esse furono due; così come gli interventi in Germania, che furono anch’essi
due: in una prima fase, dopo aver sconfitto delle genti germaniche che avevano
attraversato il Reno, Cesare fece costruire un ponte e si spinse all’interno del
territorio germanico per 18 giorni, facendo fuggire anche i Suebi, i più bellicosi dei
germani53, poi tornò indietro e distrusse il ponte. Il secondo fu invece effettuato nel
53 a.C. in occasione della rivolta che stava montando in Gallia e servì, pare, per
ricordare la potenza dei romani alle genti al di là del Reno e quindi come monito di
non prestare soccorso ai ribelli. In entrambi i casi si trattò di azioni dimostrative,
senza che si giungesse a un confronto armato.

Prima dell’intervento di Cesare oltralpe, i romani avevano sempre avuto brutti


precedenti con i Galli. Il leggendario sacco di Roma del 390 a.C. ad opera di
Brenno54 rimase per molto tempo vivo nella memoria dei romani: le fonti ci
informano che addirittura si istituì un fondo intoccabile di riserva da utilizzare solo
per fronteggiare la minaccia gallica55. Le successive sconfitte con Cimbri e Teutoni
avevano poi gettato Roma nella disperazione più totale, facendo credere a molti
dell’invincibilità dei Galli e dei Germani. Chiamato di gran urgenza, Caio Mario
dovette riformare l’esercito e il suo modo di combattere per riuscire ad avere la
meglio su queste popolazioni selvagge: pose fine alla minaccia con le vittorie di

52
SUET, Iul, 25.
53
PLUT, Caes, 22, 5-7.
54
LIVIO, V, 40-48.
55
Questo fondo venne poi requisito da Cesare al suo ritorno a Roma nel 49 a.C. con il pretesto che,
avendo sedato la Gallia, il fondo non necessitasse più di esistere.

20
Aquae Sestiae nel 102 a.C. e dei Campi Raudii nel 101 a.C.56 Anche se la
maggioranza dei soldati era di origine Germanica, Cesare richiamerà poi anche la
presenza di genti galliche, in particolare degli Elvezi, per giustificare il suo
successivo intervento militare57.

Prima di iniziare a parlare degli avvenimenti che sconvolsero la Gallia nel


decennio di governo di Cesare bisogna aprire una piccola parentesi per
contestualizzare le fonti che noi utilizziamo. La principale e più ovvia fonte di
informazioni è il De Bello Gallico. L’ovvio problema che ci si pone è
sull’attendibilità dei libri, proprio perché scritti da Cesare stesso, ergo il protagonista
delle vicende. In un mondo romano dove era necessario fregiarsi di gloria militare
per poter eccellere a livello politico, è immaginabile che Cesare abbia esagerato con
il suo racconto, rimarcando i numeri sempre a lui sfavorevoli di truppe, evidenziando
il valore e la furia degli avversari (secondo il famoso detto che un grande nemico
porta un grande onore), lodando le sue abilità di stratega e di capo carismatico e via
così. Era abilissimo nel far passare i suoi nemici sempre come più forti, più abili,
animati dall’istinto bellico e temibili avversari. L’articolo titolato “The Image of
Caesar in ʻBellum Gallicumʼ ”58 di Hubert Martin, Jr., parla proprio di questo: di
come Cesare ponga in risalto i suoi avversari (come nel caso degli Elvezi, che
vengono definiti una popolazione temibile e avvezza alla guerra, abituati a
quest’ultima per via della vicinanza con i bellicosi germani59), delle sue capacità
persuasive (come quando, prima dell’incontro con Ariovisto, serpeggiava paura e
timore nella truppa: solo con un suo discorso ispirato poté scongiurare il pericolo di
diserzione e far marciare compatto l’esercito verso il nemico) e della sua celebre
clemenza verso i nemici. Si può anche definire il De Bello Gallico un’eccellente
opera propagandistica, che gli valse lodi e ammirazione da parte sia della critica
letteraria del suo tempo, sia del popolo romano, infiammato ed inorgoglito per le sue
gesta.

Quindi bisogna avvicinarsi con attenzione alla sua lettura. La sua attendibilità
storica non è in discussione chiaramente, ma alcune sfumature o alcune cifre

56
ANTONELLI, 1995.
57
CAES, BGall, 1, 13-14.
58
HUBER MARTIN JR., 1965: pp. 63-67.
59
CAES, BGall, 1, 1.

21
potrebbero essere state messe ad hoc. Lo studio dei Commentarii ha portato alla
nascita di varie teorie, secondo le quali Cesare avrebbe manomesso i reali
avvenimenti o trascurato alcune parti. Nell’articolo “I mezzi espressivi e stilistici di
Cesare nel processo di deformazione storica dei Commentari: la battaglia contro i
Nervi (Cesare, B. G., 15-28)”60, analizzando nel dettaglio l’episodio della battaglia
con i Nervi, una temibile popolazione barbara che viveva nel nord della Gallia, nella
zona odierna delle Fiandre, presso il fiume Sambre nel 57 a.C., Giovanni Pascucci
evidenzia alcuni punti di contrasto nell’opera. L’autore fa riferimento al lavoro di M.
Rambaud61 il quale introdusse il concetto di “deformazione storica” per i
Commentari di Cesare. Non è questa la sede per citare ogni deformazione stilistica
presente, ma è necessario riportare la differenza fra un Cesare “narratore”, che
conosce gli avvenimenti ed arriva anche a spiegare il piano di battaglia delle truppe
nemiche come nel caso del capitolo 17 del De Bello Gallico, ed un Cesare “generale”
che non è a conoscenza di queste preziose informazioni e che deve agire celermente
durante la battaglia, inviando ordini e disposizioni. Queste preziose informazioni
proteggeranno la truppa, giungeranno in tempo in un momento di crisi e
contribuiranno alla vittoria finale, confermando la straordinaria chiaroveggenza di
Cesare e dimostrandone le immense capacità. E ancora, in un articolo
particolarmente critico sull’opera62 e sulla descrizione di Cesare, Hester Shadee parla
di come Cesare porti l’attenzione sugli argomenti che gli interessano di più, ad
esempio: nella celeberrima descrizione iniziale della Gallia “Gallia est omnis
divisam in partes tres, quarum una mincolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiamqui
ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellarunt. Hi omnes, lingua, institibus, legibus
inter sé differunt” l’autore pone l’accento sul fatto che si dia più visibilità ai
Galli/Celti che abitano l’omonima regione e dei quali si conosce di più. Cesare
riporta informazioni di cui era già a conoscenza per descrivere quella che sarà la
prima parte di Gallia con la quale verrà a contatto. Il tema del saggio si porta poi
sulle popolazioni che abitano il nord della Gallia, quali Belgi, Nervi, Suebi. Parlando
dei Belgi, Shadee fa riferimento alla loro rinomata abilità bellica, arrivando a
definirli “fierced man”, una popolazione agguerrita e ne mette in risalto il valore

60
GIOVANNI PASCUCCI, 1957: pp. 134-174.
61
RAMBAUD, 1953.
62
HESTER SHADEE, 2008: pp. 158-180.

22
militare ma la scarsa fertilità delle terre. Viene quindi lamentata una descrizione
impari della Gallia, nella quale Cesare evidenzia solo ciò che fa più comodo a lui. È
un parere severo secondo me: nell’articolo ci viene presentato il De Bello Gallico
come un manifesto propagandistico, che mirava come unico scopo ad aumentare la
fama del suo autore senza alcun interesse dal punto di vista storico. È indubbio che la
sua veridicità storica venga meno in alcuni passaggi, ma l’opera deve essere
analizzata sotto una moltitudine di aspetti, in primis quello storico, per via della
moltitudine di fatti e aspetti di cui tratta. Jane F. Gardner, in un breve ma efficace
articolo63, dopo un’iniziale digressione sulle popolazioni della Gallia e sulla
situazione all’arrivo di Cesare, spiega come le mosse del proconsole vennero
rivestite di una “missione per Roma” nella quale Cesare faceva solo quello che
andava fatto per la salvaguardia di quest’ultima, per la protezione degli alleati e per
mantenere salda la situazione gallica, altrimenti pericolosa per la penisola. L’autrice
pone l’accento su quanto i Galli fossero una “menace”, una minaccia per l’Urbe.

Cesare narra anche di aspetti della vita quotidiana di queste popolazioni, delle loro
credenze religiose, del loro vivere la guerra, di come combattevano e altro ancora.
Un lavoro simile a quello che farà poi Tacito nel De origine et situ Germanorum, il
quale sarà molto più preciso e accurato, per via della finalità diversa dell’opera: uno
voleva riportare gli avvenimenti della guerra appena condotta e fornire informazioni
aggiuntive sui barbari appena conquistati, l’altro voleva diffondere la conoscenza
completa di una popolazione mal considerata dai romani ed avvolta dal misticismo.
Dal punto di vista stilistico, l’opera raggiunse un ottimo livello: il semplice ma
efficace linguaggio usato mira a rendere chiari gli avvenimenti dei quali Cesare si
rese protagonista. I periodi sono piuttosto brevi e i verbi sono declinati al perfetto o
al presente e l’uso della terza persona evita spesso l’utilizzo del discorso diretto.
Molti suoi contemporanei furono soddisfatti dello stile dell’opera; tra questi lo stesso
Cicerone che, secondo Svetonio, nel Bruto, definì cosi l’opera:

“Commentarios scripsi tualde quidem probandos: nudi sunt, recti et eunusti, omni
orantu orazioni tamquam ueste detracta: sed dum uolui talios habere parata,

63
JANE F. GARDEN, 1983: pp. 181-189.

23
undesumerent qui uelent scribere historiam, ineptis gratum fortasse fecit, qui illa
uolent calami strisi nurere, sano equide homines a scribendo deterruit”64.

Degli otto libri dei quali è composto il De Bello Gallico, si pensa che solo l’ultimo
(l’ottavo) sia stato scritto da Aulo Irzio, un segretario che faceva parte del circolo dei
suoi stretti collaboratori. Probabilmente corresse o comunque partecipò anche alla
stesura degli altri libri, ma il grosso del lavoro fu fatto da Cesare. Ci sono diverse
teorie in merito alla composizione e alla pubblicazione del De Bello Gallico: una di
queste riporta che egli scrisse i libri durante le campagne galliche, probabilmente
durante gli spostamenti dettando a un suo segretario (o allo stesso Irzio) o la sera
prima di coricarsi; dunque i vari libri dei Commentarii venivano pubblicati ogni
anno. Secondo altre teorie Cesare pubblicò l’opera solo dopo la fine delle conquiste,
riunendo i suoi appunti, quelli dei segretari e quelli dei luogotenenti, nel periodo
storico che va dalla caduta di Alesia (estate del 52. a.C.) all’inizio delle ostilità con
Pompeo (settembre del 51 a.C.). A proposito di questo dibattito sulla paternità di
Cesare del De Bello Gallico, si segnala l’articolo di Luca Canali, “Osservazioni sul
Corpus Cesariano”65, nel quale si prova a venire a capo o comunque a creare
un’opinione sull’intero gruppo di opere che sono state attribuite a Cesare, ma su cui
gli storici non sono unanimemente d’accordo. Il fatto che ogni libro riguardi un
preciso anno di guerra fa forse presupporre che venissero curati durante il periodo
bellico e che la pubblicazione avvenisse poi a Roma per diffondere le sue gesta e
riportare all’Urbe le notizie delle sue vittorie, dimostrando ancora la sua capacità di
concentrarsi sia sul piano militare sia su quello politico. Parlando di come scrisse
l’opera, Irzio commenta che:

“Cuius tamen rei maior nostra quam reliquorum est admiratio;


ceterienim, quam bene atque emendate, nos etiam, quam facile at que
celeriter eos perscripserit, scimus”66.

Sempre nello stesso passo viene riportato il parere di Asinio Pollione che li
considerava scritti con poca accuratezza ed attendibilità, perché Cesare evidenziava i
suoi meriti ed imprese a discapito dei subalterni (tra i quali è impossibile non citare

64
SUET. Iul, 16; CIC. Brut. 75, 262.
65
CANALI, 2006: pp. 267-286.
66
PLUT, Caes, LVI.

24
Tito Labieno, che passerà poi tra le fila dei Pompeiani durante la guerra civile). La
sua idea, cosi come lo sarà poi per i Commentari del Bellum Civile, è quella di
giustificare la sua condotta presentandola come indispensabile alla sua posizione e
coerente ai principi suoi e romani, e di perseguire l’interesse di Roma come obiettivo
principale.

Sul piano militare riporta molto dettagliatamente i vari movimenti e la geografia


del luogo nel quale si spostava. Sulla precisa collocazione di alcune battaglie siamo
tuttavia ancora oggi incerti: le regioni che le truppe romane andavano ad attraversare
erano state calcate solo da alcuni mercanti diretti nelle regioni più a nord della Gallia,
mai da eserciti romani. Rimangono quindi non semplici gli spostamenti e il
coordinamento fra le varie legioni dell’esercito, le quali riuscirono comunque a
destreggiarsi. Cosa inoltre molto più complicata quando Cesare si ritrovò in
Britannia o oltre il Reno, dove le informazioni logistiche e geografiche dei romani
erano praticamente nulle. Nei Commentari vengono fornite diverse informazioni
geografiche67 che ci aiutano ad orientarci in zone altresì molto più ampie.
Christopher B. Krebs, nella prima parte di un suo articolo68, parla di queste
informazioni che Cesare fornisce, analizzandone alcune, parlando della geografia del
luogo e di come esso venne a conoscenza in Roma grazie a Cesare.
Cesare forniva sempre informazioni sul morale delle truppe e sul numero degli
avversari. Nel modo in cui narra le battaglie, sembra che riporti le informazioni come
se fosse un dispaccio da inviare al senato. Tende spesso a porre l’accento sulle sue
abilità e ad evidenziare le sue intuizioni strategiche, allo scopo di meravigliare il
lettore.

“Il De Bello Gallico dovrebbe essere il breviario di ogni uomo di


guerra, essendo Cesare il vero sovrano padrone dell’arte militare. Dio sol
sa poi di quale bellezza egli abbia cosparso questa ricca materia, di quale
stile cosi puro, cosi raffinato e perfetto che a mio gusto non vi è alcuno
scritto al mondo, in questo genere, che possa essere paragonato al suo”69.

67
CAES, BGall, 1.2.3.
68
KREBS 2007: pp. 111-136.
69
FAUSTA GARAVINI, 1992.

25
Ho voluto inserire questo passo di Eyquem per rendere meglio l’idea
dell’importanza e della bellezza del lavoro di Cesare. Un così brillante genio militare
non poteva lasciare indifferenti, e la sua abilità nella scrittura rese l’opera
memorabile, suscitando ammirazione e lodi dai contemporanei fino a Napoleone, che
commentò a sua volta l’opera e ne trasse preziosi insegnamenti. L’opera è stata
riletta molto nel Medioevo, ne sono la prova i molti codici che ci sono rimasti. Le
prime copie che vennero pubblicate con strumenti moderni sono datate nel ʼ500 a
Venezia, la patria per eccellenza dell’editoria italiana70, fino ad arrivare alle versioni
dell’800, tra le quali segnalare quella di Camillo Ugoni, Brescia, 1812, che ebbe
particolare fortuna, per concludere con le moderne versioni del ʼ900 e del nostro
secolo.

È necessario spiegare brevemente il contesto che Cesare trovò al suo arrivo nelle
province. La Cisalpina, ad oggi l’intera zona del nord Italia delimitata a Nord dalle
Alpi e a sud dai fiumi Rubicone ed Arno, era una regione fertile, popolosa, ricca di
risorse e minerali. Attraverso un processo di centuriazione, Roma era lentamente
riuscita a farla entrare nella sua orbita, dopo anche aver sconfitto temibili popoli che
la abitavano, quali Boi, Insubri, Liguri, Veneti. Il processo era iniziato nel IV secolo
a.C. ed era durato circa 200 anni. Nel 232 a.C. il tribuno della plebe C. Flaminio
Nepote aveva dato avvio ad una campagna per popolare quei luoghi con cittadini
romani: nel 218 a.C. vennero fondate le prime colonie di Piacenza e Cremona. Nel
181 a.C. fu fondata Aquileia. Dal I secolo a.C. venne assegnata annualmente ad un
governatore come provincia ordinaria, ma si hanno dei dubbi su quando sia stata
ufficialmente creata71. Rimase per circa quarant’anni l’unico caso di provincia
costituita da cittadini romani e da città di diritto romano e latino 72. Dal 42 a.C. smise
di essere una provincia per volere di Ottaviano e dei triumviri ed entrò a far parte
dell’Italia.

Per la Gallia Narbonensis, il discorso è leggermente diverso. Ottenuta, come già


detto, grazie alla morte del precedente governatore, venne immediatamente assegnata
a Cesare. Ad oggi occuperebbe la zona di Nizza, Marsiglia e della Savoia, fino ai

70
BARBIER, 2004.
71
LETTA, SEGENNI, 2015: p. 116.
72
LETTA, SEGENNI, 2015: p. 111.

26
Pirenei. Confinava con gli allora fedeli (per gran parte del mandato di Cesare) galli
Edui, che potevano fregiarsi del titolo di amici ed alleati del popolo romano. Fondata
come provincia nel 121 a.C.73 con il nome di Transalpina, dovette il suo successivo
nome alla capitale Narbona, fondata nel 118 a.C. La conquista definitiva avvenne poi
con le vittorie di Mario sui Cimbri e sui Teutoni alla fine del II secolo a.C. Fu questa
prima provincia in particolare oggetto di interesse degli Elvezi che volevano
attraversarla durante la loro migrazione. Cesare sfruttò la popolazione della
provincia, per quanto non fosse in realtà una pratica accettata dal senato (solo i
cittadini romani potevano far parte delle legioni), per arruolare e rimpinguare i
numeri delle sue legioni sia all’inizio74 che durante il suo intero mandato Gallico75.
La Narbonese entrò poi a far parte del territorio delle Tres Galliae con le quali
Augusto divise la Gallia.

Il mandato di Cesare era dunque rivolto alle province della Gallia Cisalpina, della
Gallia Transalpina e dell’Illirico. Questa regione è stata poco considerata da Cesare
nel suo mandato pluriennale, ma erano proprio questi i suoi piani? Voleva veramente
concentrare tutte le sue forze in Gallia? Si pensa in realtà che fosse proprio l’Illirico
il terreno bellico prescelto da Cesare. Prima di tutto non sappiamo bene se e quando
questa provincia divenne effettivamente tale: forse nel 59 a.C. proprio grazie alla lex
Vatinia76; perché, almeno fino ad Apollonia77 il territorio faceva parte della provincia
di Macedonia. Mentre poi, nella sua opera “De Provincie Consolaribus”, Cicerone fa
riferimento, per il governo di Cesare, alle due Gallie, quella Transalpina e quella
Cisalpina, alla quale dunque apparterrebbe il territorio dell’Illiria78. Quindi si può
ipotizzare che fino alla legge la provincia non esistesse, ed il suo territorio venisse
diviso ed amministrato dal governatore della Macedonia (per la parte meridionale
della regione) ed il governatore della Cisalpina (per la parte superiore). La più
valente prova a supportare la tesi che vuole un piano di Cesare per portare la guerra
in Illirico è l’iniziale stanziamento delle legioni vicino ad Aquileia79 e quindi più

73
LETTA, SEGENNI, 2015: pp. 121-122.
74
CAES, BGall, 1, 10.
75
KEPPIE, 1998: p. 98.
76
DZINO, 2010: pp. 80-82.
77
Oggi frazione di Pojan, Albania.
78
CIC, Prov. Cons. 2, 3: 15, 36.
79
CAES, BGall, 1.10.3.

27
vicine e più pronte per un intervento nella regione che non in Gallia. Quando la
migrazione degli Elvezi rischiò di interessare la provincia romana, Cesare accorse a
nord delle Alpi con una sola legione. Se avesse progettato operazioni militari su
vasta scala in Gallia, non avrebbe condotto già con sé tutte le legioni? Probabilmente
Cesare incontrò gli ambasciatori degli Elvezi senza avere ancora in mente bene come
comportarsi. La richiesta di attraversare la provincia romana in armi era troppo
ardita, così si preparò solamente alla difesa della stessa. Probabilmente valutò la
situazione come un’occasione e colse allora il pretesto per una battaglia, giudicando
la migrazione pericolosa per Roma e i suoi alleati: anche Cicerone giustifica le azioni
militari se erano utili per la salvaguardia degli amici di Roma: “noster autem populus
sociis defendendi sterrarum iam omnium potitus est”80. Era diventata tradizione, da
dopo le guerre puniche, cercare di perseguire la pace ad ogni costo; i romani
utilizzarono spesso il “dictat” di Vegezio “Igitur qui desiderat pacem praeparat
bellum”81. Cesare allora abbandonò l’idea della guerra nell’Illirico, tra l’altro in una
situazione di pace e quindi con nessun pretesto per un intervento bellico, per
concentrarsi in Gallia. L’Illirico rimase dunque ai margini dei piani cesariani; forse
coltivò il sogno di una guerra lì, ma gli avvenimenti degli anni successivi non gli
permisero mai di realizzarlo. Per uno sguardo più approfondito sulla situazione che
visse il nord-est Italia, si può leggere l’articolo di Santangelo, Ceasar’s aims in
North-East Italy82. Ci informa per esempio di un attacco che subì la città di Promona
da truppe illiriche e dalmate. Ma a Cesare interessava la pace e non compì alcuna
rappresaglia contro queste popolazioni. Il proconsole ci informa inoltre sulla
geografia del luogo, delle tecniche agricole che vennero introdotte e così via; ci
fornisce una panoramica sulla regione che è sempre stata problematica per Roma:
furono condotte delle operazioni militari conto i Dalmati tra il 48 ed il 44 a.C. ma
senza esito positivo, per colpa della situazione di guerra civile e per il successivo
assassinio di Cesare appunto nelle idi di marzo del 44 a.C.83 Ultima come ordine
temporale, ma non per importanza, la rivolta scoppiata sotto il principato di Augusto

80
CIC, Rep, III, 23, 35.
81
VEG. Mil. III proem.
82
SANTANGELO, 2016: pp. 101-129.
83
LETTA, SEGENNI, 2015, pp. 157-158.

28
nel 6 d.C., sedata poi da Tiberio, che portò alla divisione del territorio e alla
formazione di due nuove province, cioè la Dalmazia e la Pannonia84.

Prima di iniziare a parlare delle conquiste di Cesare e della sua avventura in Gallia
bisogna tenere presente una cosa: qualsiasi atto da lui compiuto avrebbe dovuto
essere nel bene di Roma, e da Roma (quindi dal senato) giudicato. Nel 59 a.C.,
durante il suo consolato, aveva promulgato la lex de repetundis la quale, oltre a
regolare il comportamento dei magistrati romani nelle province e a controllare i
movimenti di denaro, proibiva ad un governatore delle provincie di condurre una
guerra di propria iniziativa. Ciò non vietava però un intervento armato dello stesso
nel caso l’Urbe o i suoi alleati dovessero subire un attacco. Importantissima fu questa
clausola: Cesare fece quasi sempre riferimento al fatto che per evitare pericoli per
Roma, aveva dovuto intervenire con le armi. Le azioni di Cesare, giustificate sempre
nel De Bello Gallico, sono state soggette spesso a dibattiti a causa delle loro
interpretazioni: in molte occasioni la battaglia veniva ricercata da Cesare stesso;
oppure poneva condizioni inaccettabili alle varie tribù obbligandole a rifiutarle, e
quindi scendere in campo per lo scontro armato. Questo garantiva un pretesto al
proconsole per giustificare un intervento armato, anche se praticamente costruito da
sé85. Le reazioni suscitate nell’Urbe erano molteplici e tra loro discordanti: vi era chi
si mostrava indignato per il comportamento tenuto da Cesare nel condurre la guerra e
voleva che fosse destituito dal comando e processato per la sua condotta. Questa
“corrente” era capeggiata dai massimi antagonisti di Cesare, come Catone (che
giunse a chiedere che il proconsole venisse consegnato nelle mani del nemico86) e
Bibulo; vi erano però molti che invece erano entusiasti delle sue azioni come
Cicerone, che sembra, in questa occasione, aver cambiato idea su di lui. Propongo
ora il discorso che Cicerone fece al senato dopo che furono giunte a Roma le notizie
ed i dispacci di Cesare sul proseguo della guerra.

“La guerra gallica, padri coscritti, è stata veramente condotta solo


sotto il comando di Caio Cesare, mentre prima era stata solo arginata. I
nostri generali infatti hanno sempre ritenuto di dover soltanto tenere a

84
BRIZZI, 2008, pp. 145-146.
85
MEYER, 2004: pp. 241-242.
86
PLUT, Caes, 22; PLUT, CatMin, 51.

29
bada i popoli ivi insediati, ma non di doverli sfidare… Caio Cesare, come
posso constatare, è guidato da ben altri principi. Egli credette di dovere
non solo combattere quelli che vedeva già in armi contro il popolo
romano, bensì di ridurre l’intera Gallia in nostro potere. Così ha
felicemente sconfitto le diverse tribù dei Germani e degli Elvezi in
violente battaglie, e ha intimidito, respinto, assoggettato e abituato le
altre a sopportare il dominio del popolo romano. Regioni e stirpi di cui
non sapevamo nulla, attraverso nessuna opera letteraria o notizia o sentito
dire, il nostro generale, il nostro esercito e le armi del popolo romano le
hanno percorse in tutte le direzioni. Noi abbiamo posseduto finora, padri
coscritti, solo una striscia di Gallia, mentre i territori restanti erano nelle
mani di stirpi nostre nemiche, o inaffidabili, o sconosciute, o in ogni caso
costituite da barbari terribili e bellicosi. Mai venne in mente ad alcuno di
ridurre all’obbedienza e assoggettare queste popolazioni. Da che sussiste
il nostro dominio, chiunque abbia riflettuto con intelligenza sul nostro
bene comune ha creduto che nessun paese fosse per noi più pericoloso
della Gallia. Tuttavia, a causa della forza e del numero delle stirpi ivi
insediate, mai prima d’ora abbiamo condotto una guerra contro tutte;
abbiamo sempre e soltanto opposto resistenza quando siamo stati
aggrediti. Ora finalmente abbiamo ottenuto che il nostro impero si
estenda fino ai territori che si trovano laggiù”87.

Ho voluto riportare praticamente l’intero discorso di Cicerone perché, con le sue


parole, va a confermare molto di quanto detto in precedenza. Cita ripetutamente il
territorio gallico, le sue temibili genti e la difficoltà che esse creavano in battaglia,
confermando il timore che Roma aveva nei confronti delle sue tribù. Si è già detto
delle sconfitte subite dall’Urbe causate dai galli; il fatto che essi siano stati vinti (nel
momento in cui viene fatto il discorso la Gallia non è, però, ancora pacificata) è
motivo di grande gioia e giubilo. Un grande avversario è stato sconfitto, un
avversario brutale che ha sempre spaventato i romani. Ora il senato di Roma può
fregiarsi di una nuova enorme provincia (estremamente importante poi per
l’economia dell’impero), di territori prima ostili che adesso sono al servizio

87
Per il testo di Cicerone vd. MEYER, 2004: pp. 243.

30
dell’Urbe. Qui viene inoltre rimarcato lo stupore e l’ammirazione che suscitò nel
popolo la spedizione in Britannia e la marcia oltre il Reno: le armi romane davano
l’impressione di poter arrivare ovunque, attorniate da un alone di invincibilità dopo
le ripetute vittorie su Galli e Germani, anche questi ultimi sconfitti e relegati al di là
del Reno.

Cicerone parla di territori sconosciuti calcati per la prima volta dalle armi romane;
essi sono fonte di estremo orgoglio per Roma, che ne è entrata in possesso grazie alle
conquiste e le battaglie del coraggioso proconsole. È anche un riferimento al fatto
che queste scoperte erano avvenute grazie all’opera di un Cesare, in questa
particolare circostanza, nelle vesti di esploratore; Cicerone implicitamente loda
quindi anche il fatto che Cesare avesse portato a Roma nuove informazioni, sia su
popolazioni ostile e barbare, sia sui loro usi e costumi, sia sulla geografia della
provincia, facendo riferimento a terre prima sconosciute ed ora assoggettate al
controllo dell’Urbe. Superfluo sottolineare la captatio benevolentiae con la quale
Cicerone loda l’operato e il genio di Cesare. Infine, con questo discorso, Cicerone
mira anche a giustificare l’operato di Cesare e il fatto che lui solo sia e sia stato in
grado di venire a capo della difficoltosa situazione d’oltre Alpe. Crede che la sua
condotta sia stata necessaria per via delle condizioni che si erano create. Non poteva
lasciare che l’onore ed il nome di Roma venissero macchiati o messi in ridicolo: ad
ogni affronto subito, che fosse dall’Urbe o dai suoi alleati, bisognava intervenire con
forza. I romani avevano l’idea di condurre una guerra giusta; che non venisse
scatenata da loro o che fosse combattuta secondo i voleri divini, rispettando i presagi
e combattendo per la salvaguardia degli alleati, o dell’onore. Ovviamente il più delle
volte i pretesti non erano così gravi da giustificare un intervento armato ma, in
ripetuti casi durante il governatorato di Cesare, essi furono da lui ritenuti più che
sufficienti. Anche Meyer fa riferimento al concetto di guerra giusta, di come dovesse
essere e di come Cesare la condusse, andando contro la tradizionale politica
difensivista del senato in termini di espansione88.
Cesare, come risposta alle accuse di Catone, inviò una lettera durissima chiedendo
che venisse letta in Senato e nella quale spiegava le sue ragioni89, mentre si

88
MEYER, 2004: pp. 262-264.
89
CANFORA, 2006: pp. 118-120.

31
congratulò con Cicerone, ringraziandolo per il suo supporto e per aver preso le sue
difese davanti ai padri coscritti.

L’ultima questione che rimane da chiarire prima di iniziare a parlare delle guerre
Galliche, è l’aspetto militare. L’esercito romano si era evoluto nel corso della
Repubblica, passando dall’arcaico schieramento a falange, di origine ellenica, fino ad
arrivare alle legioni che poté guidare Cesare. Di mezzo una fase nella quale l’esercito
romano era diviso in 3 categorie ben precise: i velites, solitamente i più poveri e
giovani, armati alla leggera, gli hastati, i quali facevano parte del ceto medio, con
armamento pesante, ed infine i principes, che componevano l’ultima parte
dell’esercito e dei quali facevano parte anche i triarii, armati ugualmente con solo
un’unica modifica: una lancia lunga da urto (hastae appunto) al posto del classico
pilum90, reminiscenza della vecchia falange ellenica, e chiamati ad intervenire solo in
caso di necessità e solitamente verso la fine dello scontro. L’armamento leggero era
composto da un elmo semplice, a volte ricoperto con delle pelli, dei giavellotti
chiamati pila; i velites erano occupati di solito in attività di foraggiamento o
esplorazione e nelle prime fasi della battaglia e poi fatti ritirare per evitare il contatto
con la fanteria nemica. L’armamento pesante era di solito completo: la panoplia si
componeva di un elmo con tre piume sulla sommità, di una corazza in bronzo e/o una
cotta di maglia in ferro (varia in base al censo) con una placca fissata sul petto
chiamata appunto pectorale, di uno scudo rettangolare rinforzato ai bordi, di un
gladius, una spada corta usata per colpire più di punta che di taglio e due giavellotti
da lancio. Inizialmente i vari reparti della fanteria erano divisi su tre file: quella
pesante, a sua volta, era organizzata in 30 manipoli, 10 per ogni scaglione. Ad
accompagnare l’esercito vi era una forza di circa 300 cavalieri per legione91. Gli
effettivi delle legioni ammontavano a circa 4000 uomini.

La prima iniziale modifica dell’assetto militare tradizionale venne operata da


Publio Cornelio Scipione che, per fronteggiare l’esercito del temibile cartaginese
Annibale, dovette apportare delle modifiche al classico schieramento, visto che le
tradizionali tattiche e tecniche avevano fallito. Ma fu con Caio Mario che le cose
cambiarono considerevolmente. La distinzione tra le varie unità andò a perdersi,

90
POLYB, VI, 21-23.
91
BRIZZI, 2008: pp. 31-37.

32
soprattutto per via dell’armamento che divenne prerogativa statale; inoltre il periodo
di servizio divenne di più anni, andando a formare un vero e proprio esercito di
professionisti. L’hasta, prerogativa degli hastati, scomparve dall’esercito e ci fu un
processo che portò gli uomini ad avere lo stesso tipo di armamento. La fanteria
leggera scomparve, e venne sostituita dagli auxiliari, sempre presenti in numero
equivalente al numero di uomini delle legioni92. L’obsoleto manipolo venne
sostituito dalla coorte (prendendo come spunto le modifiche operate da Scipione
circa un secolo prima), una forza di circa 600 uomini che poteva essere indipendente
e fungere da unità autonoma. Ma l’unità forse più importante era la centuria,
comandata da un centurione e da un optio (che faceva le veci del centurione in sua
assenza), dalla composizione variabile tra i 60 e i 100 uomini, solitamente di 80. Era
il nerbo dell’esercito e i centurioni erano, forse, l’unità più importante in battaglia, e
quella con il più alto tasso di mortalità. Due centurie davano vita ad un manipolo, 10
coorti formavano la legione, andando così ad aumentare gli effettivi a circa 6000
uomini. Questo solo in via teorica visto che le legioni non si trovavano praticamente
mai con i ranghi completi. Questa divisione faceva delle legioni abili e mobili
strumenti nelle mani dei vari legati: all’interno delle legioni, le varie coorti potevano
anche operare autonomamente e sopperire a quella mancanza di mobilità ed elasticità
che aveva caratterizzato i vari conflitti dei secoli precedenti di Roma.

Altra eccellenza romana era quella ingegneristica, specializzata nelle tecniche di


assedio e nella creazione di temibili macchine d’artiglieria. Cesare fece ampio uso di
questi strumenti durante le sue campagne: abbiamo già citato il ponte sul Reno che
gli permise di trovarsi in brevissimo tempo in Germania, ma il successo maggiore lo
ebbe durante il leggendario doppio assedio che fece ad Alesia per bloccare gli
assediati e difendersi contemporaneamente dalle forze nemiche esterne.

L’unico aspetto negativo dell’esercito romano era la mancanza di cavalleria e di


armi da tiro di qualità. La cavalleria romana non fu mai all’altezza di quelle
asiatiche, galliche, numidiche ed iberiche; queste furono quindi arruolate dai generali
romani per le varie guerre. Cesare stesso fece molto affidamento sulla cavalleria
degli alleati gallici, specialmente sugli Edui. Dopo la battaglia con Ariovisto, il

92
TAC, Ann. IV, 5.

33
proconsole arruolò tra le sue fila una componente di cavalieri germanici, efficienti,
leali e abili in battaglia. Cesare ne fece la sua guardia personale e ne sfruttò
abilmente le caratteristiche per tutta la durata delle sue guerre, dalla Gallia, all’Asia,
fino all’ultima battaglia a Munda nel 45 a.C. Per le armi da tiro il discorso è molto
simile: i romani utilizzavano i vari alleati per completare i loro reparti: le unità
migliori erano quelle fornite dalle isole Baleari, con i temibili frombolieri, e gli
arcieri orientali, con una menzione particolare per quelli cretesi, famosi per le loro
abilità già dal tempo delle guerre persiane93.

93
SILVANA CAGNAZZI, 2003: pp. 23-34.

34
CAPITOLO III: LA CAMPAGNA CONTRO GLI ELVEZI

Possiamo finalmente iniziare ad analizzare l’inizio delle operazioni che si


svilupparono in Gallia. La nostra fonte principale è, ovviamente, il De Bello Gallico,
dal quale trarremo la maggior parte delle informazioni. La descrizione di Cesare si
apre con il racconto di Orgetorige, capo degli Elvezi. Sono appunto questi ultimi il
soggetto principale del primo libro di Cesare. Il nobile elvetico viene descritto come
nobilissimus et ditissimus94, come quindi molto superiore per nobiltà e ricchezza a
tutti gli altri principi elvetici. Cesare riporta che durante il consolato di Valerio
Messalla Corvino (quindi il 61 a.C.), Orgetorige convinse il popolo della necessità di
spostarsi da quei territori, intraprendendo una migrazione di massa. Argomentò
facendo leva sulla sete di guerra del popolo e ricordando il difficile territorio nel
quale essi vivevano, delimitato ad est dal Reno, che li separava dai vicini germanici,
da est dal monte Iura, che li divideva dal territorio dei Sequani, mentre a sud erano
sul confine con la provincia romana il Rodano ed il lago Lemano. Qui Cesare cerca
di dare anche una dimensione approssimativa del loro territorio:” …qui in
longitudinem milia passuum CCXL, in latitudinem CLXXX patebant”95 aggiungendo
che esso era piccolo in relazione alla loro potenza e gloria militare. Cicerone scriveva
nel 60 a.C. ad Attico queste parole, a conferma della bellicosità degli Elvezi:

“Atque in re publica nunc quidem maxime Gallici belli versatur metus. Nam
Haedui, frates nostri, pugnam nuper malam pugnatur, et sine dubio sunt in armis ex
cursionesque in provinciam faciunt96”.

Dunque, spinti dalle parole di Orgetorige, gli Elvezi iniziarono l’organizzazione


della migrazione. Credendo che fossero necessari loro due anni per compiere tutti i
preparativi per la partenza, essi la fissarono dunque per il terzo anno. Orgetorige, nel
frattempo, venne mandato in missione diplomatica (grazie al potere del quale
godeva) per cercare di assicurare il passaggio per il proprio popolo. Del resto, non
era una cosa insolita lo spostamento di una tribù. Egli si accordò con il sequano
Castico, il quale padre era stato re della sua gente, e l’eduo Dumnorige, fratello di

94
CAES, BGall, 1, 2.
95
CAES, BGall, 1, 2.
96
CIC, ad Att, I, 19.

35
Diviziaco, affinché essi arrivassero ad assumere la guida dei loro rispettivi popoli,
stringendo poi un patto di amicizia reciproco. Con l’alleanza fra questi tre potenti
popoli gallici, ed il temibile esercito degli Elvezi, diventava possibile la
sottomissione di tutta la Gallia. Questo patto venne sancito con un matrimonio tra la
figlia di Orgetorige e Dumnorige97. Il popolo elvetico, informato di quello che egli
stava ordendo, lo mise sotto processo: il giorno fissato si presentò con tutti i suoi
seguaci, clienti e familiari, per un totale di circa 10000 uomini. Si sottrasse così al
processo. Il popolo prese allora a radunarsi e a far rispettare le leggi con le armi e i
magistrati fecero accorrere uomini dalle campagne; tutti questi movimenti vennero
resi inutili dall’improvvisa morte di Orgetorige; Cesare sospetta che egli si fosse
tolto la vita98: dalle informazioni che egli aveva recepito dai suoi concittadini, egli
per la vergogna aveva deciso di suicidarsi. Gli Elvezi, come molti dei popoli gallici
non erano una monarchia: probabilmente Orgetorige aveva convinto molti nobili e
personaggi influenti a sposare la sua causa. Aveva ottenuto così vasto seguito e
influenza che furono coniate delle monete con inciso il nome ORCITIRIX99. Ed in
virtù della considerazione di cui godeva gli vennero affidate le missioni diplomatiche
con gli altri leader tribali. Ciò però non bastò affinché egli riuscisse ad ottenere la
corona per sé. La versione di Cesare nella quale Orgetorige si suicidò non convince
appieno. Forse venne fatto uccidere dai romani per cercare di prevenire una
migrazione tanto pericolosa per Roma; o semplicemente fu eliminato da un membro
della sua tribù per salvaguardare il regime oligarchico elvetico. Qualunque sia il
motivo per il quale egli perse la vita, il processo migratorio degli Elvezi non venne
arrestato: l’anno successivo, quando ritennero di essere pronti, diedero fuoco ai loro
villaggi e le alle loro terre, per essere sicuri di non tornare indietro e si accinsero alla
partenza. Accolsero tra le loro fila anche la popolazione dei Boi, arrivati da oltre il
Reno e reduci dall’assedio a Noreia100. Gli Elvezi pensavano di poter persuadere gli
Allòbrogi affinché essi potessero concedere loro un passaggio sicuro attraverso la
provincia romana101. Questi ultimi si erano resi protagonisti di una sollevazione nel

97
CAES, BGall, 1, 3.
98
CAES, BGall, 1, 4.
99
GOLDSWORTHY, 2016: pp. 219-221.
100
CAES, BGall, 1, 5.
101
MURPHY, 1977: pp. 234 -243.

36
62 a.C. e sedata l’anno successivo102. Probabilmente i romani non compresero subito
il pericolo nel quale stavano incorrendo, avendo sottovalutato la possibilità di una
migrazione di massa dopo la morte di Orgetorige, come detto sopra. Ne è la prova il
fatto che Cesare sia dovuto accorrere a nord delle Alpi in fretta e furia, senza
conoscere bene la situazione e la possibile minaccia (tramutata poi da lui in una
fantastica occasione) rappresentata da uno spostamento di circa quattrocentomila
anime. Di queste, circa 92000 erano gli uomini atti alle armi103. Come già detto,
bisogna sempre fare una riflessione sulle cifre fornite da Cesare: secondo Jullian104,
le cifre fornite in questo caso sono corrette, mentre per Gesche105 i numeri reali
assommerebbero a meno della metà, approssimandosi alle 150000 persone.
Interessante la riflessione di Goldsworthy106, che ricorda la tendenza romana ad
esagerare il numero di nemici per aumentare la propria gloria, ed evidenzia che cifre
del genere sono spropositate rispetto ai dati che abbiamo sulla densità abitativa di
quei territori: ma è anche vero che senza le cifre forniteci da Cesare, non avremmo
alcun tipo di informazione a riguardo. Essi dunque si prepararono lungo le rive del
Rodano, nelle vicinanze del lago di Ginevra, il 28 marzo del 58 a.C. È probabile che
non si fossero mossi tutti insieme ma che fossero partiti in gruppi separati e che
potessero essersi ritrovati sulle rive del fiume per tentare l’attraversata.

Fino al momento del proconsolato di Cesare, la politica del senato era stata quella
del non intervento: l’anno precedente, i Sequani avevano ceduto circa un terzo del
loro territorio agli invasori germanici, capeggiati da Ariovisto, che aveva sconfitto il
loro esercito in battaglia. Gli Edui, spaventati dagli ultimi avvenimenti avevano,
tramite un’ambasceria a Roma, chiesto l’aiuto da parte dell’alleato capitolino contro
il possibile invasore germanico. I romani, oltre a rifiutare un intervento armato fuori
dalle proprie province, avevano stretto un paradossale patto di amicizia con i Suebi:
Ariovisto potè fregiarsi del titolo di “amico del popolo romano” e non vennero
intraprese azioni né diplomatiche né tantomeno militari contro di lui. L’Urbe aveva

102
CASS. DIO, 37, 47: 1-48.
103
CAES, BGall, 1, 29, 1-3.
104
JULLIAN, 1909: p. 194.
105
GESCHE, 1976, pp. 90 - 93.
106
GOLDSWORTHY, 2016: pp. 223-234.

37
dunque evitato qualsiasi interferenza nel mondo gallico107. Ma ora le circostanze
obbligavano Cesare ad intervenire.

Egli ordinò che le forze disponibili della provincia, circa una legione, accorressero
sul luogo. Come prima cosa fece distruggere il ponte sul fiume, per prevenire un
eventuale tentativo di attraversamento. Accolse quindi gli ambasciatori degli Elvezi
(Cesare riporta che a capo della delegazione vi erano Nammeius e Verucloetius), che
gli chiesero il permesso di attraversare la provincia, assicurando a Cesare che non le
avrebbero arrecato alcun danno108. Il proconsole ricorda qui, come a giustificare le
sue successive mosse contro gli Elvezi, che il console L. Cassio, circa 50 anni prima,
era stato ucciso da loro e l’esercito romano sconfitto costretto a passare sotto il
giogo, considerata la massima umiliazione militare del tempo e che carica di un
significato molto forte “symbolising their loss of warrior status”109; inoltre non
credeva che il loro passaggio avrebbe lasciato la provincia intatta ed incolume. Un
eventuale spostamento di circa 350000 persone, anche solo per il mantenimento e la
logistica della traversata (senza considerare l’inciviltà della popolazione e la loro
tendenza bellica), sarebbe stato destabilizzante per la provincia. Disse loro però che
si riservava qualche giorno per pensarci, e li invitava a ritornare alle idi del mese
(una o due settimane dopo). In realtà egli non disponeva delle forze necessarie per
difendere la provincia, e approfittò del tempo guadagnato per raccogliere ulteriori
truppe e costruire un vallo difensivo, lungo circa 30 chilometri e alto 5, con fossati e
torri di guardia110. Quando gli ambasciatori tornarono, i preparativi difensivi erano
terminati e Cesare aveva raggruppato un numero sufficiente di soldati per presidiare
il confine. La risposta fu dunque negativa e aggiunse che:

“negat se more et exemplo populi romani posse iter ulli per


prouinciam dare et, si uim facere conentur, prohibiturumos tendit”111.

Veniva quindi negato loro il passaggio attraverso la provincia e aggiunse che si


sarebbe opposto con la forza ad ogni tentativo di passaggio. Cesare forse in questo
caso maturò l’idea di una vera campagna gallica: era ben conscio che, dopo aver

107
HORST, 2000: pp. 135-137.
108
CAES, BGall, 1, 7.
109
GOLDSWORTHY, 2016: pp. 210 (la citazione è tratta dalla versione inglese dell’opera).
110
MEYER, 2004: p. 245.
111
CAES, BGall, 1, 8.

38
bruciato le loro case e i lori campi, sarebbe stato impossibile che gli Elvezi
tornassero indietro. Questa gente era ben decisa e sarebbe stato impossibile
dissuaderla dal suo obbiettivo; e un semplice divieto di passaggio non era
minimamente sufficiente. Ci furono probabilmente dei tentativi sparsi e occasionali
di attraversamento del fiume ma essi furono prontamente sventati: non costituivano
una vera minaccia. È inoltre probabile che non ci furono assalti concreti contro le
fortificazioni romane; i tentativi singoli ed isolati erano frutto della mancanza di un
comando centrale e dell’indipendenza delle varie tribù, caratteristiche entrambe delle
popolazioni galliche. La soluzione ideata dai capi elvetici fu quella di tentare
l’impervio territorio dei Sequani: per farlo serviva assolutamente la loro
approvazione. Non avendola ottenuta, chiesero allora all’eduo Dumnorige (che aveva
sposato la figlia di Orgetorige112), perché intercedesse per loro con i Sequani per
fargli ottenere il passaggio, data la sua grande influenza presso il loro popolo. L’eduo
accettò, “sia per il piacere verso le cose nuove sia perché voleva raggiungere un
grande potere personale”113. Cesare, riportando questi suoi pensieri, contribuisce a
formare nella mente del lettore un’immagine negativa dei galli, considerati
inaffidabili e smodatamente ambiziosi. Criticando il proprio nemico, e mettendone a
nudo i maggiori difetti, cerca di giustificare le sue mosse contro di lui.

Cesare, allarmato dalla possibilità del loro passaggio, lasciò le truppe sul Rodano
al comando del suo legato Tito Labieno (forse proprio perché i tentativi di
attraversata del fiume avvenivano da parte di sparuti gruppi, indipendenti dal grosso
della popolazione114) e tornò a sud delle alpi per richiamare le altre legioni e
arruolarne due nuove. Lui non aveva l’autorità per arruolare nuove truppe; solo il
senato poteva decretare una nuova leva e solo in casi particolari. Ma nonostante fosse
anticostituzionale, ciò non fermò Cesare, ora come nel passato: come privato
cittadino aveva reclutato truppe per combattere contro i pirati e l’invasione pontica
dell’Asia115, e come propretore durante il mandato in Spagna aveva reclutato circa
dieci coorti, arrivando a formare una legione. Credeva che le sue azioni venissero
giustificate dagli eventi: il vincitore aveva sempre ragione. Le due nuove legioni, la

112
Cfr.
113
CAES, BGall, 1, 9.
114
GOLDSWOTHY, 2016: pp. 225-226.
115
SUET, Caes, 4.

39
XI e la XII, erano composte principalmente da abitanti della Cisalpina; come già
detto, Cesare avrebbe voluto concedere loro la cittadinanza anni prima, e ne affrettò
il processo di romanizzazione trattandoli come cittadini romani e arruolandoli nel suo
esercito116. È molto probabile che l’ordine di leva di nuove truppe fosse già partito
prima dell’arrivo di Cesare, altrimenti sarebbe stato molto complicato avere le truppe
praticamente già pronte per una nuova traversata delle Alpi. Su tutti questi problemi
temporali, si segnala il saggio di James Thorne117 che, in contrapposizione con
l’opera di Napoleone III, L’histoire de Jules Cèsar, riprende tutti i vari lassi di tempo
della prima campagna, passando dalla traversata delle Alpi, al periodo di
arruolamento, fino al momento dell’inseguimento di Cesare sugli Elvezi. Sostiene
che in 8 giorni le truppe vennero arruolate e furono a disposizione del proconsole,
ricordando che Livio riporta che ben 4 legioni furono arruolate in soli 11 giorni118. I
successivi tempi di spostamento che riporterò faranno riferimento ai suoi studi, basati
principalmente sul calcolo che le truppe romane percorrevano una media di circa 24
chilometri al giorno. Le tre legioni di stanza ad Aquileia vennero spostate ad
Ocelum, un paesino che potrebbe oggi essere localizzato nella val di Susa, per un
totale di circa 700 chilometri. Seguendo appunto le stime precedenti, le legioni
avrebbero dovuto impiegare circa un mese per effettuare lo spostamento. Vista la
necessità di Cesare di muoversi con rapidità, è dunque probabile che anche
quest’ordine fosse partito prima di lui. Raccolte le sue truppe, si mosse per
riattraversare le Alpi. Qui Cesare fa riferimento al fatto che il passaggio venne
ostacolato da alcune popolazioni che abitavano la catena montuosa, quali: Ceutrones,
Graioceli e Caturiges119. Le Alpi, a dispetto da quanto le cartine dei libri di testo più
elementari ci vogliono far credere, furono a lungo una spina nel fianco di Roma, e
solo sotto Augusto, grazie all’intervento armato congiunto di Tiberio e Druso, furono
occupate stabilmente: nel 25 a.C. vennero sconfitti i Salassi della Val D’Aosta,
mentre fra il 16 ed il 15 a.C. vennero occupati anche i distretti centrali ed orientali,
grazie appunto all’azione congiunta dei due figli adottivi di Augusto120. Nonostante
le difficoltà, le truppe di Cesare respinsero i barbari; in soli 6 giorni raggiunsero le

116
CIC, Prov. Cons. 28; SUET, CAES, 24.
117
JAMES THORNE, 2007: pp. 27-36.
118
LIV, XLIII, 15.
119
CAES, BGall, 10.
120
LETTA, SEGENNI, 2015: pp. 142-143.

40
terre dei Voconti, nella provincia transalpina121. Da qui il comandante romano
apprese che gli Elvezi avevano superato le terre dei Sequani ed erano entrati in
territorio eduo, operando saccheggi e devastazioni. Nel paragrafo 11 del De Bello
Gallico, Cesare riporta come diversi popoli gli chiedessero aiuto: in primis gli Edui,
da sempre fedeli amici del popolo romano ed incapaci di difendersi dagli invasori,
poi gli Ambarri, che erano “necessarii et Consaguinei Haeduorum122” e che
domandavano aiuto perché non sarebbero stati in grado di sostenere la resistenza
ancora a lungo; infine gli Allabrogi che cercavano rifugio presso Cesare dicendo che
era rimasta loro solo la terra. Con questi pretesti era impossibile rifiutare un
intervento armato perché, come sosteneva anche Cicerone, era dovere di Roma
difendere gli alleati. Con più popoli che chiedevano aiuto, Cesare aveva ampiamente
il pretesto per intervenire, e così si mise in marcia iniziando l’inseguimento degli
Elvezi con 6 legioni al suo seguito. Il problema più grave che preoccupava Cesare
era l’approvvigionamento: con sé aveva una forza di 25000-30000 legionari, a cui
vanno aggiunti circa 4000 cavalieri alleati, la fanteria leggera, gli schiavi, cavalli ed
il bestiame123. Prendendo spunto dal libro di Roth, il fabbisogno medio di un
legionario era di circa 70 grammi di proteine al giorno. Ad essi andavano integrati
altri alimenti ricchi di vitamina C per prevenire malattie come lo scorbuto. Quindi
magari della carne o dei legumi conditi con un po' di aceto. Inoltre, erano necessarie
circa 1600 calorie per mantenere nella migliore condizione possibile i soldati:
altrimenti nell’arco di 2-3 giorni si sarebbe avuto un drastico calo delle loro
performance sia fisiche che psichiche124. Una massa enorme da sfamare, che
comportava molti problemi, in primis l’avere disponibilità immediata di cibo. Non
essendo stata una campagna premeditata, come abbiamo già più volte ripetuto,
Cesare non aveva fatto in tempo a raccogliere sufficienti scorte alimentari nei
magazzini della primavera; inoltre il raccolto era ancora lontano perché si era ancora
in primavera ed in Gallia, ci dice Cesare, il grano maturava dopo. Quindi
approvvigionarsi mentre si era in marcia era un progetto difficilmente realizzabile.
Vennero dunque inviate richieste agli alleati, specialmente agli edui, affinché
mettessero a diposizione delle truppe le loro riserve alimentari. Per tutta la durata
121
CAES, BGall, 10.
122
CAES, BGall, 11.
123
GOLDSWORTHY, 2016: pp. 226-227; HORST, 1999: pp. 140-141.
124
ROTH, 1999: pp. 7-9.

41
delle varie campagne militari, il problema dell’approvvigionamento degli eserciti in
territorio straniero comportava sempre varie difficoltà: di trasporto, di conservazione,
di igiene. Trasportare una certa quantità di grano, orzo o di frumento per 40000
uomini per svariate settimane richiedeva, oltre che una certa preparazione, una
quantità di carri o trasporti elevatissima. Oltretutto le riserve alimentari erano sempre
soggette alle intemperie del tempo, per quanto le tecniche romane per proteggerle
fossero molto all’avanguardia non sempre erano protette adeguatamente. Oltre al
grano, i legionari avevano diritto a una dose variabile di carne e/o latticini, a seconda
della disponibilità momentanea. Senza considerare l’acqua. L’organizzazione per le
salmerie era quindi fondamentale per la buona riuscita di un conflitto. Oltre ai
soldati, bisognava approvvigionare anche i cavalli e gli schiavi che spesso i militi si
portavano al seguito. Non era cosa insolita che diversi mercanti seguissero gli eserciti
in marcia per vendere loro beni alimentari o altri oggetti, quali tessuti, oli, pelli ecc.
Quando l’esercito non si trovava in territorio romano, oltre alle normali scorte, i
generali solitamente compivano delle requisizioni (o forse sarebbe più adatto dire
saccheggi) in territorio nemico per approvvigionare il proprio esercito. Un’altra fonte
di risorse alimentari erano gli alleati: essi fornivano, oltre ad un supporto di truppe
ausiliare, anche derrate per contribuire al mantenimento della truppa. Sempre nel suo
saggio, Roth ci informa di come variava il contributo che i paesi del nord Africa
erano soliti pagare in modi in grano, fondamentale per la sopravvivenza della città
capitolina (che erano, insieme alla Sicilia i principali “granai” della Roma di età
repubblicana125). Anche altri paesi, come quelli asiatici e quelli iberici, integrarono
poi alle dovute tasse alle autorità romane alcune quantità di derrate alimentari.
Essendo comunque uomini di altri paesi, gli ausiliari avevano le loro abitudini
alimentari e che non sempre coincidevano con quelle romane: per esempio sappiamo
che il re Perseo di Macedonia, non era solito predisporre l’abituale razione di grano e
vino per i suoi mercenari gallici: da ciò si capisce che essi erano abituati ad un altro
regime alimentare e si deduce la loro preferenza per la carne. O ancora altre
popolazioni, come i germani o i numidici, potevano accontentarsi di alcune
particolari erbe o radici126.

125
ROTH, 1999: pp. 227-230.
126
ROTH, 1999: pp. 16-17.

42
A differenza delle popolazioni barbare, i romani erano molto meglio organizzati:
il popolo elvetico in marcia comprendeva tutta la popolazione, quindi anche donne,
vecchi e bambini, e ciò rallentava enormemente la loro avanzata. Cesare giunse a
contatto con il grande cordone migratorio mentre essi si apprestavano a guadare il
fiume Saona127. Tre quarti degli Elvezi lo avevano già attraversato quando il
proconsole giunse sul posto. Piombò loro addosso nottetempo, uccidendone molti e
facendo fuggire gli altri nei boschi128. Qui Cesare lascia spazio per una personale
digressione sui Tigurini, una delle quattro tribù degli Elvezi, che in passato aveva
sconfitto l’esercito romano e ucciso un parente di Cesare, il legato L. Cassio avo di
suo suocero L. Pisone. Come al solito fa riferimento alla giustizia delle cose
(giustizia sempre dal punto di vista dei romani) che ha portato vendetta a lui e a
Roma. Qui Cesare fa uno dei pochi riferimenti agli dei, dicendo che non sa se quello
che è successo è capitato per caso o per la volontà delle divinità129. Sarebbe
interessante poter meglio analizzare ciò che significava l’aspetto religioso per i
romani e per Cesare in particolare. Qui ci limiteremo a dire che, nonostante egli fosse
stato eletto pontefice massimo, non era molto interessato alla sfera religiosa. La
carica era stata una tappa fondamentale per la carriera politica, ma non aveva per lui
un valore così importante. L’aspetto religioso è stato analizzato in un sintetico
articolo di David Wardle130, che parla del ruolo che ebbe la carica di pontifex
maximus a Roma, di come Cesare sfruttò appunto la carica a livello politico, dei
riferimenti religiosi nelle sue opere e di come era da lui intesa, in senso più ampio, la
religiosità.

Dopo questo primo contatto con le retrovie degli Elvezi, Cesare ci informa che
essi si mostrarono sorpresi del fatto che i romani impiegarono un solo giorno per
costruire un ponte ed attraversare il fiume, mentre a loro erano occorsi venti giorni di
“aegerrime” fatiche per guadarlo131 (non si sa come Cesare apprenda questa
informazione, probabilmente messa appositamente per lodare il lavoro ingegneristico
dei suoi legionari); decisero quindi di mandare degli ambasciatori per parlare con

127
Affluente del Rodano, che scorre nelle terre degli Edui e dei Sequani.
128
CAES, BGall, 1, 12.
129
CAES, BGall, 1, 12: “ita siue casu siue consilio deorum immortalium quae pars ciuitatis Heluetiae
insignem calamitatem populo romano intulerat, ea princeps poenas persoluit”.
130
WARDLE, 2009: pp. 100-111.
131
CAES, BGall, 1, 13.

43
Cesare. A capo della delegazione vi era un tale Divicone, uomo sicuramente anziano
ed esperto perché nel 107 a.C. aveva sconfitto i Romani in battaglia132. Egli pose
condizioni abbastanza ragionevoli, chiedendo che il proconsole indicasse loro un
territorio dove insediarsi, e che da lì non si sarebbero più mossi. L’ambasciatore
degli Elvezi ricordò però a Cesare (questa potrebbe essere una “deformazione
storica” delle quali avevamo parlato nel secondo capitolo) il valore mi litare della sua
gente, che gli Elvezi avevano già in precedenza sconfitto i romani, e che egli aveva
ottenuto solo una piccola vittoria con l’inganno e con dei trucchi e non con l’onore e
la virtù, che gli Elvezi avevano invece ereditato dai loro padri. Divicone concluse
ammonendo Cesare di non far diventare celebre quel luogo per la sconfitta
dell’esercito romano133. Quest’ultima era una, non molto velata, minaccia. Queste
parole potrebbero essere state attribuite arbitrariamente da Cesare, essendo i dialoghi,
specialmente quelli privati, più facilmente manipolabili. Potrebbe essere che Cesare,
abbia manipolato il dialogo per influenzare il lettore, facendo sembrare i nemici
superbi ed arroganti, quasi offensivi per il popolo di Roma. La risposta di Cesare
poteva essere solo di un tipo: ricordò l’antica offesa della sconfitta di Cassio, che era
stato attaccato senza che ci fosse un motivo o uno status di guerra a giustificare tale
azione. Ricordò i danni subiti dalla provincia, dello sconfinamento degli Elvezi in
territori altrui e delle azioni ai danni degli Edui e Allabrogi. Consigliò di non fare
affidamento sugli déi immortali (uno dei pochissimi riferimenti religiosi) perché essi
avrebbero presto inflitto un castigo a tutti loro. Cesare si mostrò però disposto a venir
loro incontro (sempre secondo il suo personalissimo punto di vista), chiedendogli di
risarcire i danni ai popoli danneggiati dal loro passaggio e di fornire ostaggi a
garanzia delle loro azioni (pratica diffusa e utilizzata molto durante il mandato di
Cesare in Gallia). La risposta della delegazione fu laconica: “ita heluetios a
maioribus suis institutos esse uti obsides accipere, non dare consuerint”; gli Elvezi
non davano ostaggi, li ricevevano. Detto ciò, Divicone e i suoi lasciarono
l’incontro134.

L’ovvia controfferta che Cesare fece agli ambasciatori gallici era stata
probabilmente pensata per essere rifiutata. A questo punto la volontà di Cesare era
132
HORST, 1999: p. 41.
133
CAES, BGall, 1, 13.
134
CAES, BGall, 1 13-14.

44
quella di arrivare allo scontro. Il giorno successivo, senza che si fosse venuti ad un
accordo, gli Elvezi si mossero e Cesare dietro di loro. Il proconsole li seguì per 14
giorni senza avvicinarsi troppo, mantenendo una distanza di 7-9 chilometri135. Ci fu
un episodio che si può considerare saliente in questa fase: la cavalleria edua, alleata
dei romani e al comando di Dumnorige (vecchio alleato di Orgetorige136), cadde in
un’imboscata e venne sconfitta da circa 500 cavalieri nemici. Fu proprio il capo eduo
a determinare la fuga della cavalleria romana, avendo iniziato egli stesso la ritirata,
determinando quindi l’esito dello scontro. Questa prima iniziale vittoria rese gli
Elvezi più fiduciosi ed intraprendenti. Essi non disdegnavano più il contatto con
l’avanguardia romana; dal canto suo Cesare mantenne invece sempre i suoi a
distanza, limitandosi a contenere le attività di foraggiamento. Abbiamo già parlato
del problema dell’approvvigionamento degli eserciti, e adesso esso si rivelava in
tutta la sua criticità: inseguendo gli Elvezi, Cesare si era spinto in pieno territorio
nemico, allontanandosi dalla Saona, importante fonte di derrate alimentari. I
rifornimenti più importanti dovevano giungere dagli Edui, diretti interessati dal
conflitto visto che gli Elvezi avevano principalmente invaso i loro territori. Stava per
giungere il termine mensile per la distribuzione del grano all’esercito e le scorte
scarseggiavano. A fronte delle continue richieste del proconsole, gli Edui
temporeggiavano: dicevano che stavano raccogliendo il grano, che i primi convogli
erano già in viaggio e che a breve sarebbero giunti. Mentre quindi gli alleati gallici
procrastinavano, Cesare perse la pazienza e convocò tutti i membri Edui ed affini in
assemblea. Lì tenne un solenne discorso in cui lamentava il mancato arrivo dei
rifornimenti, il fatto che gli erano stati promessi e che non erano arrivati, il fatto che
si sentisse tradito e che avesse intrapreso questa guerra solo (qui si potrebbe discutere
a lungo) su loro richiesta. A capo della legazione degli Edui vi era un druido di nome
Lisco, che in quell’anno rivestiva la carica di vergobreto, la suprema magistratura
presso il loro popolo, ma di durata annuale. Costui, dopo il discorso di Cesare,
rispose che presso il suo popolo vi erano dei privati, molto più potenti e influenti di
chi effettivamente rivestiva le magistrature, che ordivano contro il popolo romano,
che sobillavano la popolazione e che impedivano o rallentavano la requisizione di
cibo. Costoro stavano convincendo la plebe che era meglio sopportare il dominio di
135
CAES, BGall, 1, 15.
136
Cfr.

45
un altro popolo gallico in attesa del momento in cui essi sarebbero stati nuovamente
forti, piuttosto che essere schiavi dei romani, dei quali non si sarebbero mai liberati.
Da costoro probabilmente provenivano anche le informazioni sull’esercito romano
per gli Elvezi137. Cesare allora allontanò tutti, facendo rimanere proprio Lisco, che
sospettava potesse essere più chiaro in privato in merito a quanto aveva detto in
assemblea. Qui allora egli si fece più chiaro: “Dicit liberius atque audacius”138.
Confermò allora i sospetti di Cesare: il colpevole era proprio Dumnorige, fratello di
Diviziaco, che ambiva al potere personale. Egli, riporta Cesare, aveva l’appalto sui
dazi (che noi possiamo forse considerare come una tassa sulle merci che transitavano
nei territori controllati direttamente da lui) e degli altri tributi degli Edui (forse come
una specie di governatore romano, che supervisionava i regolari pagamenti ma che
ne tratteneva una parte). Questo sistema era per lui molto vantaggioso dal punto di
vista economico ed il suo potere era talmente accresciuto che nessuno osava
ostacolarlo. Manteneva quindi una combattiva guardia del corpo di cavalieri e
sfruttava le sue ricchezze per elargizioni e doni, non solo presso il suo popolo ma
anche presso i vicini, aumentando notevolmente la sua influenza. Dumnorige era
quindi contrario al dominio romano, che avrebbe potuto limitare o ostacolare il suo
personale sistema, che sarebbe altresì rimasto invariato in caso di sudditanza rispetto
ad un altro popolo gallico, se non accresciuto. Cesare eseguì quindi delle indagini per
confermare le accuse di Lisco: i suoi sospetti furono confermati ed egli venne anche
a sapere che era stato proprio Dumnorige il responsabile della sconfitta della
cavalleria qualche giorno prima. Oltre a ciò egli aveva fatto sì che agli Elvezi fosse
permesso passare per le terre dei Sequani, avendo anche provveduto affinché
avvenisse uno scambio di ostaggi tra i due popoli; la cosa più grave era che egli
aveva agito per conto proprio e non per ordine di un suo capo o di Cesare. Il
proconsole aveva materiale a sufficienza affinché Dumnorige fosse processato.
Prima di agire convocò però il fratello Diviziaco, che si era sempre dimostrato leale
ed amico dei romani. Messo di fronte alle attività illecite del fratello, costui scoppiò
in lacrime ed ammise che era a conoscenza dei fatti: implorava però il proconsole di
non prendere provvedimenti troppo severi per amore del fratello. Inoltre, diceva di
non ignorare il legame di amicizia fra sé stesso e Cesare, e che una possibile morte di
137
CAES, BGall, 1, 17.
138
CAES, BGall, 1, 18.

46
Dumnorige sarebbe stata mal vista dal popolo e gli avrebbe alienato le simpatie della
plebe. Cesare, mostrando la sua clemenza, consolò l’amico gallico e gli assicurò che
non avrebbe preso provvedimenti seri contro il fratello. Dumnorige venne quindi
convocato ed informato delle accuse contro di lui. Cesare aggiunse inoltre che era
stato salvato dall’intercessione del fratello e che da quel momento sarebbe stato
tenuto sotto controllo139. Quanto ci riporta Cesare può essere considerato lo specchio
della società gallica: tradimenti, defezioni, suppliche e sotterfugi erano all’ordine del
giorno. Egli ne riporta una quantità enorme nei suoi racconti, tanto da creare
nell’immaginario un’idea dei galli avvezzi a queste pratiche, spesso considerati infidi
e volubili. Mentre in un primo momento Cesare optò per la clemenza, verso la fine
del conflitto scelse la via più dura: nell’estate del 53 a.C. Accone, principe dei
Senoni, venne catturato dai romani in quanto ribelle. Egli venne prima spogliato, poi
legato ad un palo e flagellato, come era uso dai padri140. O anche nel caso della
ribellione sedata infine a Uxelloduno141: a tutti gli uomini della città venne fatta
amputare la mano destra, come monito per chiunque volesse ancora provare a
resistere e rifiutare il dominio di Roma. Aulo Irzio, nell’ultimo libro del De Bello
Gallico, scrive queste poche parole sul fatto:

“Caesar, cum suam lenitatem cognitam omnibus sciret neque ueretur ne quid
crudelitate naturae uideretur asperius facisse, neque exitum consiliorum suorum
animaduerteret”142.

Irzio aveva riportato, all’inizio dell’ottavo libro, alcuni episodi di tribù che si
erano arrese e verso le quali Cesare aveva avuto clemenza. Aggiunge però che con
questa pratica aveva incoraggiato le altre alla ribellione; visto che il perdono aveva
fallito, sarebbe stato necessario il pugno di ferro per prevenire altre sedizioni. Visto
che uno dei fini del De bello Gallico era quello propagandistico, era sempre stata
evidenziata la clemenza e la giustizia di Cesare con le popolazioni galliche che si
dimostravano amiche sue e di Roma (cosa che fece anche in occasione della guerra
civile). Riportare un fatto così cruento avrebbe potuto creare obiezioni circa la sua
necessità da parte dell’opposizione in Senato. Viene quindi reputato utile da Irzio

139
CAES, BGall, 1, 19-20.
140
HORST, 1999: pp. 176-177; GOLDSWORTHY, 2016: p. 329.
141
Odierna Dorgogna.
142
CAES, BGall, 8, 44.

47
inserire questo passo, dove viene lodata la magnificenza e bontà di Cesare, e viene
presentato questo fatto come necessario, vista l’incapacità dei Galli di mantenere la
parola data e di sottostare pacificamente al dominio romano.

Cesare venne dunque informato che gli Elvezi si stavano muovendo e riprese
immediatamente il loro inseguimento. Ideò un piano per attirarli in una trappola. Una
mossa a tenaglia che avrebbe visto protagonista lui ed il suo legato Tito Labieno.
Quest’ultimo avrebbe dovuto occupare un monte ed attendere lì che le truppe di
Cesare iniziassero l’attacco, per entrare a sua volta in azione. Il piano fallì, ci dice
Cesare nei suoi Commentari, per colpa di un suo collaboratore (che Cesare ha la
premura di segnalarci), P. Considio, che gli aveva riferito di aver visto delle truppe
galliche sul monte che avrebbe dovuto essere occupato da Labieno. Solo a giorno
inoltrato il proconsole si accorse del disguido e che Considio, in preda alla paura,
aveva confuso le armate; ma il piano di battaglia era ormai fallito143. Si era anzi
evitato un disastro: se gli Elvezi si fossero accorti che l’esercito romano era diviso
(Labieno ai suoi ordini aveva almeno due legioni, forse quelle delle reclute) e così
vicino a loro, avrebbero potuto attaccarlo ed averne facilmente la meglio. In più era
trascorso molto tempo prima che i contatti tra i due tronconi dell’esercito fossero
ripristinati, e Labieno con le sue truppe era stato “abbandonato” a sé stesso.

Ristabilita l’integrità dell’esercito, Cesare avrebbe voluto riprendere


l’inseguimento. Ciò non fu possibile per via delle ormai esigue scorte alimentari; non
poteva rischiare di continuare la marcia in territorio nemico nella speranza che esse
arrivassero. Decise quindi di cambiare tappa e di puntare verso Bibracte, la più
grande e ricca città degli Edui che distava circa una trentina di chilometri: l’obiettivo
era quello di rifornire nuovamente il proprio esercito e di riprendere poi
l’inseguimento degli Elvezi, dato che non si spostavano così velocemente ed era
facile trovare le tracce del loro passaggio. Cesare ci dice che i nemici vennero
informati dei loro spostamenti da alcuni schiavi fuggiti dalla decuria di L. Paolo144.
Come al solito Cesare tende a riportare il nome dei suoi collaboratori che falliscono o
che commettono qualche errore: inoltre è un modo per scaricare su altri la colpa di
alcuni avvenimenti. Questo L. Paolo poteva essere o un centurione promosso ma per

143
CAES, BGall, 1, 21-22.
144
CAES, BGall, 1, 23.

48
la cavalleria (visto che si parla di Decuria) o di un giovane di buona famiglia,
mandato a “farsi le ossa” in guerra per poter poi ambire ad una posizione
amministrativa o politica. Visto che il soggetto “perse” degli schiavi, io ipotizzerei la
seconda. Informati degli spostamenti dell’esercito romano e credendolo in fuga, gli
Elvezi cambiarono destinazione e si misero a loro volta sulle tracce dei romani.
Probabilmente più per impedire loro i rifornimenti che per combattere una vera e
propria battaglia.

La retroguardia romana fu presto sotto attacco: Cesare mandò allora tutta la


cavalleria in supporto, per dare il tempo alle legioni di schierarsi: la Settima,
l’Ottava, la Nona e la Decima, che probabilmente occupava il posto d’onore sulla
destra. Erano le legioni più esperte, mentre le due formazioni di reclute,
l’Undicesima e la Dodicesima, furono lasciate nelle retrovie a costruire il campo,
difendere gli averi e le salmerie dell’esercito, insieme alla fanteria ausiliaria. Come
notato da Goldsworthy, i legionari potevano dare il meglio di sé e potevano
combattere più tranquilli sapendo i loro averi (o le loro famiglie in alcuni casi) al
sicuro all’accampamento e difese da altre truppe145. Quella che stava per scatenarsi
era la prima vera battaglia di Cesare. Non consideriamo quindi né i conflitti prima in
Asia Minore (perché non vi prese parte come comandante) né poi quelli in Iberia (per
via della pochezza degli scontri e delle difficoltà che comportarono, anche se questi
gli erano valsi il trionfo)146. Per numero di uomini, per importanza, per valore delle
truppe, la battaglia di Bibracte fu superiore a tutti gli altri. In Spagna per esempio
non aveva avuto a disposizione una quantità di legionari così ampia, né la possibilità
di combattere una vera battaglia campale, data la preferenza per la guerriglia da parte
dei soldati iberici.

Come arrivava Cesare al momento della battaglia? Con quali conoscenze?


Secondo Ariel Lewin la preparazione dei generali romani doveva basarsi su 4 fattori:
l’esperienza precedente grazie ad incarichi militari minori, i consigli dei veterani,
l’abitudine al comando attraverso il possesso di schiavi, la lettura dei trattati
militari147. Come già detto, Cesare era avvezzo al comando (si ricorda il periodo di

145
GOLDSWORTHY, 2016: p. 234.
146
PLUT, Caes, 12. 2-4; 13. 1.
147
LEWIN, 2005: p. 129.

49
prigionia presso i pirati148) e dotato di un carisma che gli permetteva un’ubbidienza
quasi cieca da parte dei soldati. Si affidava spesso ai centurioni, vera colonna
portante dell’esercito, e ai legati; anche se poi le decisioni importanti le prendeva
autonomamente. Provenendo da una famiglia aristocratica anche se decaduta, aveva
probabilmente goduto di una buona formazione, arricchita anche da trattati militari,
come ad esempio i greci Tucidide e Senofonte (che scrisse l’Ipparchico) e il de re
militari di Catone149.Infine aveva già acquisito esperienze militari suo fronte
orientale ed iberico.

A Roma non esisteva un’accademia militare vera e propria, che preparava i


generali per la guerra. I fattori precedentemente elencati contribuivano alla
formazione e l’esperienza pratica faceva il resto. Ma i generali romani non nascevano
come tali, e solitamente non erano neanche previsti; Roma formava dei governatori
di province o territori che occupavano, qualora ce ne fosse bisogno, anche incarichi
militari150. Ad esempio, Cicerone ci informa che Lucullo, al momento della partenza
per il fronte asiatico, non era pratico di cose militari, e che studiò durante il viaggio
per arrivare pronto: “In asiam imperator factus venit”151. Era quindi molto
considerato lo studio teorico per essere considerati pronti per il campo da battaglia.
Ed affidarsi all’esperienza dei subalterni o che avevano combattuto sul luogo. A
prova di ciò è l’immagine che proviene dalla tradizione di Marco Licinio Crasso, che
perse la battaglia di Carre nel 53 a.C. insieme alle aquile152. Oltre alla responsabilità
della disfatta, il triumviro venne accusato di non aver ascoltato i consigli dei suoi
luogotenenti e di non aver tenuto conto della tipologia dell’esercito nemico: i Parti
schieravano solitamente folti gruppi di cavalleria pesante e di cavalieri con l’arco.
Difettavano di una fanteria che fosse in grado di contrastare quella romana. Crasso,
ignorando i vari suggerimenti, combatté la battaglia con il solito e tradizionale
schema romano, senza applicare nessuna adeguata contromisura. Per un momento il
valore dei legionari aveva quasi salvato il loro generale ma, quando essi cedettero, la

148
Cfr.
149
LE BOECH, 1996: pp. 29, 116.
150
BELLINO, 2009: pp.137-143.
151
CIC, Acad, Pr., II, 1, 2.
152
Le aquile erano le insegne delle legioni, simbolo di esse. Ogni insegna era sormontata da un
animale che caratterizzava le diverse legioni. Si intende aquila perché è l’animale simbolo di Roma.
Far cadere l’insegna nelle mani nemiche era il sommo disonore per dei soldati romani.

50
disfatta fu completa. Tra le varie tattiche militari studiate, Cesare aveva
padroneggiato anche quella della guerriglia153. A differenza di molti che la
consideravano una tattica vile per il fatto che si evitava il confronto campale
limitandosi a disturbare il nemico con rapide e piccole azioni (Fabio Massimo, colui
che salvò Roma da Annibale, deve il suo soprannome alla tattica che usò, cunctator,
il temporeggiatore; usato in senso dispregiativo, proprio per il valore negativo che
era attribuito a questa strategia), Cesare la considerava una valida soluzione: anche
quando la adoperò Vercingetorige nella ribellione finale, il proconsole non la
denigrò, anzi; ne riconobbe il suo valore e la definì semplicemente come un diverso
modo di combattere154.

Cesare aveva quindi una buona conoscenza militare, truppe pronte ed il vantaggio
di potersi difendere e aspettare che fosse il nemico ad iniziare la battaglia. In questo
caso la sua non fu una fuga simulata, tipica della strategia del “mordi e fuggi”, ma
ottenne l’effetto desiderato, la possibilità di uno scontro campale. Schierò quindi le
legioni secondo il solito schema, disponendo i legionari sulle tre fila classiche e
attese la carica del nemico. Schierò ovviamente i veterani per la battaglia (almeno
questa era l’idea per la fase iniziale; se l’andamento dello scontro lo avesse richiesto
probabilmente anche le reclute sarebbero dovute intervenire) perché più adatti a
reggere la tensione e l’urto della battaglia. Essi erano soliti attendere l’avanzata
nemica in silenzio, e con esso intimorire gli avversari. Ed era fondamentale che
l’immagine dell’esercito fosse terribile e spaventosa per il nemico; un compito così
delicato non poteva essere quindi affidato a delle reclute inesperte. Sfruttando la
morfologia del luogo schierò le truppe su un monte lì vicino. Difficile dire con
precisione dove si svolse la battaglia data la mancanza di dati certi: sappiamo che
avvenne nei pressi di Bibracte, quindi possiamo restringere il campo di ricerca.
Secondo gli studi di Constans, l’accampamento romano dovette fu verosimilmente
posto sulla sommità del monte Montmort, nei pressi di Toulount155. Questi
riferimenti geografici sono di circa un secolo fa e non sono, ad oggi, confermati ed
accettati da tutti gli storici (ad esempio Goldsworthy ci riferisce che “Non è stato

153
BELLINO, 2009: pp. 156-159.
154
CAES, BGall, 3, 28.
155
CONSTANS, 1930: p. 24.

51
possibile localizzare esattamente il sito della battaglia”156). Probabilmente la
cavalleria, posizionata a valle, aveva il compito di rallentare e smorzare la forza della
carica nemica. Non sortì l’effetto sperato perché Cesare ci dice che “ipsi
confertissima acie reiecto nostro equitatu”157. Cesare, prima della battaglia, fece
portare via il suo cavallo e quello degli ufficiali: sia per dare lui stesso l’esempio, sia
per infondere sicurezza nella truppa dimostrando che la fuga non era prevista (anche
se credo sia difficile che i legionari si siano tutti accorti di una simile mossa), sia,
infine, perché non sapeva come avrebbero potuto reagire i soldati alla tensione della
battaglia. L’azione baldanzosa dei galli andò via via scemando grazie al classico
lancio di pila dei legionari, della loro incapacità nel difendersi efficacemente e per
via della pendenza del monte, che li lasciò provati e disorientati al momento
dell’impatto con le legioni. Con il vantaggio della pendenza, della freschezza, della
disciplina e della coesione i romani sguainarono la spada e respinsero l’ondata
nemica. I galli, fallito il tentativo di assalto frontale, stancati dalla corsa e incalzati
dai romani si videro costretti ad una ritirata. Essa non fu caotica e disordinata e non
ci furono probabilmente perdite eccessive. I romani li incalzarono, perdendo contatto
dalle loro retrovie e scendendo verso valle, vanificando il vantaggio dell’altezza. A
quel punto giunsero le retrovie degli Elvezi, composte da circa 15000 uomini158,
formati dalle tribù dei Boi e dei Tulingi. Gli Elvezi, che stavano arretrando verso il
loro accampamento con le famiglie e i carri, quando videro i loro supporti prendere
parte al combattimento furono galvanizzati e ripresero la lotta con foga maggiore. I
romani erano quindi impegnati su due fronti: il primo con gli Elvezi, dove in
entrambi schieramenti si combatteva da circa mezzogiorno, e un secondo, composto
dalla retrovia dell’esercito gallico. La composizione dell’esercito romano diede a
Cesare la possibilità di schierare la terza fila dell’esercito, ancora inoccupata e fresca,
contro i nuovi nemici. La battaglia si fece serrata con perdite da ambo le parti. Cesare
ci dice che “auersum hostem uidere nemo potuit”159, e lo scontro terminò solo con la
presa dell’accampamento gallico da parte romana. I guerrieri combattevano con una
foga maggiore quando si trattava di difendere i loro averi e le loro famiglie, ma alla
fine essi dovettero capitolare. Fu una decisa vittoria romana, anche se i capitolini
156
GOLDSWORTHY, 2016: p. 234.
157
CAES, BGall, 1, 24.
158
CAES, BGall, 1, 25.
159
CAES, BGall, 1, 26.

52
subirono gravi perdite. Circa centotrentamila furono i superstiti dell’enorme massa
migratoria degli Elvezi, che fuggirono verso i territori degli Lingoni. Non ci viene
riferito il ruolo che ebbe Cesare durante la battaglia: probabilmente coordinò i vari
reparti e non ci fu mai bisogno di un suo intervento diretto nello scontro, visto che i
romani non furono praticamente mai in difficoltà se non quando giunsero i rinforzi
gallici. Mentre ciò che rimaneva degli Elvezi fuggiva, Cesare e i suoi seppellirono i
morti e curarono i feriti (visto che i numeri di entrambi furono probabilmente alti).
Avvisò però i Lingoni di non fornire né supporto né aiuto ai fuggiaschi, altrimenti
sarebbero stati considerati nemici alla stessa stregua. Il messaggio arrivò forte e
chiaro, costringendo gli Elvezi a mandare una delegazione da Cesare a trattare la
resa. Il proconsole gli ordinò di fermarsi ed aspettarlo e così essi fecero. Dopo tre
giorni dalla battaglia egli si mosse e li raggiunse. Durante le trattative, circa 6000
persone della tribù dei Verbigeno fuggirono durante la notte. Cesare si comportò
come aveva già fatto: mandò messaggeri alle tribù confinanti ribadendo di non
aiutarli, pena la rabbia di Roma. Di quelli che poi si arresero ebbe clemenza, mentre
gli altri vennero trattati come nemici. Accettò quindi la consegna delle armi e di
ostaggi e la resa degli Elvezi. Decise allora che essi avrebbero dovuto ritornare nelle
loro terre di origine. Visto che non erano stati in grado di provvedere al raccolto, il
proconsole comandò ai Allabrogi di provvedere di rifornirli di grano e a loro di
ricostruire i loro villaggi e le loro città. Vennero rimandati indietro perché Cesare
temeva che i germani, attratti dalla fertilità di quelle terre, le occupassero, diventando
una minaccia per l’Urbe160. Sotto richiesta degli Edui invece i Boi vennero stanziati
nelle loro terre ed aiutati da loro ad inserirsi. Chiude Cesare il capitolo con una
descrizione delle forze che comprendevano l’intero esercito degli Elvezi, grazie a
delle informazioni scritte in greco che riportavano un esatto censimento delle genti
che si erano messe in marcia, trovate nell’accampamento gallico. Infine, furono
centodiecimila coloro che fecero ritorno alle loro terre161. Cesare evitò un pericoloso
cambiamento di forze nell’ordine gerarchico in Gallia, ed affermò il valore delle armi
romane, che da lì a poco avrebbero calcato tutte le regioni del paese.

160
CAES, BGall, 1, 28-29.
161
CAES, BGall, 1, 29.

53
CAPITOLO IV: LA CAMPAGNA CONTRO ARIOVISTO

Cesare ottenne questa grande vittoria ed aumentò in modo considerevole il


proprio prestigio e quello di Roma. Aveva debellato un nemico terribile, che avrebbe
portato guerra e rovina per tutta la Gallia162. Venne quindi indetto presso i romani un
concistoro fra i popoli Gallici, riuniti in assemblea. Venivano ringraziati i romani per
i loro servigi e si rendeva loro lode. L’assemblea aveva l’ovvio significato di cercare
di mantenere buoni i rapporti con la nuova potenza della regione, e di “sondare il
terreno” romano, per provare a capire quali fossero le intenzioni del proconsole.
Cesare non riporta alcunché dell’assemblea, probabilmente perché essa non ottenne
per lui l’effetto desiderato. Una volta terminata l’assemblea, gli stessi capi dei vari
popoli chiesero udienza privata a Cesare, che gliela concesse. Il comportamento dei
galli, cioè convocare una dieta per omaggiare i romani poter parlare privatamente
con Cesare di un intervento contro i germani (come tra poco spiegheremo), riconosce
implicitamente il dominio e la potenza romana nella Gallia centrale, territorio che in
teoria Cesare avrebbe dovuto abbandonare dopo la vittoria contro gli Elvezi. Il
proconsole riporta dunque che, appena si trovarono in privato, i capi gallici gli si
buttarono ai piedi supplicandolo di aiutarli contro i Suebi di Ariovisto. Quest’ultimo
poteva fregiarsi del titolo di amico del popolo romano, concessogli dal Senato l’anno
precedente. Per mezzo della descrizione di Diviziaco, che era la voce gallica più
autorevole all’interno dell’assemblea, venne fatto un quadro totalmente negativo di
Ariovisto: egli aveva occupato ormai stabilmente le terre dei Senoni, aveva sconfitto
gli Edui, relegandoli in una condizione di sudditanza, aveva richiesto ostaggi nobili
ad entrambe le popolazioni comportandosi in modo barbaro e con un atteggiamento
iracondo e aggressivo. Adesso era giunto a chiedere un altro terzo delle terre dei
Senoni (tra le più fertili della Gallia) per insediarci altre genti germaniche, attratte
dalle possibilità di vita migliori in Gallia. Infine, il racconto dell’eduo termina con il
climax che rende necessario l’intervento di Cesare. Diviziaco prospetta una
migrazione di massa dalla Gallia per fuggire dalla minaccia germanica163: questo
avrebbe reso molto probabile un continuo e definitivo afflusso di genti provenienti

162
CAES, BGall, 1, 30.
163
CAES, BGall, 1, 30-31.

54
dall’altra sponda del Reno, intollerabile per Roma. Con queste prospettive
l’intervento romano viene prospettato da Cesare come praticamente necessario.
Inoltre, attraverso il discorso dell’eduo, il proconsole rivolge anche una critica ai
patres conscripti che non solo avevano lasciato che si creasse una situazione così
pericolosa per l’Urbe, ma avevano anche fregiato Ariovisto dell’amicizia romana,
quasi ad approvare le sue conquiste164. Horst pone in dubbio la veridicità
dell’accaduto; Cesare non solo ottiene dalle popolazioni galliche il riconoscimento
delle recenti vittorie, ma essi gli chiedono anche supporto in una nuova conquista
(visto che la stagione bellica era ancora lunga). E nell’occasione dello scontro con
Ariovisto, il proconsole sarà nelle vesti di difensore della libertà e dell’indipendenza
dei Galli contro le angherie e la tirannide dei Suebi; inoltre, come già detto, il capo
germanico era stato recentemente fregiato dell’amicizia romana e solo gravi
motivazioni (come quelle che presenta Cesare appunto) potevano giustificare un
intervento armato165. Fondamentale per i romani era il concetto di Bellum Iustum,
cioè della guerra giustificata da motivazioni valide e con il favore degli dei. Un
quadro forse troppo favorevole.

Comunque, Cesare rassicurò i principi gallici che si sarebbe impegnato in prima


persona per assicurarsi che la loro indipendenza venisse assicurata. Inviò quindi un
messaggio al capo Suebo per chiedergli un incontro a metà strada166. Egli rifiutò
dicendo: ”si quid ipsi a Caesare opus esset, sese ad eum venturum fuisse; si quid ille
se velit, illum ad se venire opotere”. Visto il rifiuto di Ariovisto, Cesare gli inviò un
ultimatum: le sue richieste erano di non far passare altri Germani in Gallia, di
restituire gli ostaggi agli Edui e di non muovere guerra a loro e ai loro amici. In caso
di assenso Ariovisto si sarebbe garantito l’amicizia perenne di Roma, altrimenti
Cesare avrebbe dovuto intervenire. La replica del capo germanico fu ovviamente
negativa: egli come vincitore poteva esercitare il diritto di guerra e trattare i vinti
come credeva (cosi come faceva Roma). Aggiunse che non avrebbe mosso guerra
agli Edui se questi avessero continuato a pagare il tributo concordato. Chiuse la
risposta ricordando che lui non aveva mai subito una sconfitta e che i suoi guerrieri

164
MEIER, 2008: pp. 248-249.
165
HORST, 1999: pp. 143-145.
166
CAES, BGall, 1, 34.

55
erano addestratissimi e temprati da quattordici anni di guerra167. Nel momento in cui
giungeva la risposta a Cesare, egli venne informato che gli Araudi devastavano i
campi degli Edui, mentre gli Svevi stavano tentando di attraversare il Reno in massa.
Quando venne a conoscenza di queste informazioni raccolse le provviste necessarie
per la marcia e si mosse verso Ariovisto. Si è lungamente dibattuto sulle
informazioni logistiche di questa fase di guerra. Nel suo saggio Arthur Walker tenta
di venire a capo di questi spostamenti e della locazione della battaglia Si deve al
Colonnello Stoffel (nel 1890) il riconoscimento dell’Alsazia come luogo della
battaglia, tra i paesi di Ostheim e Gemar, vicino a Cernay. Localizzando qui il luogo
della battaglia e calcolando gli spostamenti secondo le fonti, Ariovisto viene
collocato nei pressi di Strasburgo, distante circa una cinquantina di miglia da dove ci
saremmo immaginati egli fosse. Un’altra questione sollevata da Walker è
sull’obbiettivo di marcia di Ariovisto: se egli avesse marciato direttamente su
Vesontio, sarebbe dovuto arrivare giorni prima del proconsole. Si dibatte anche su
quale parte del territorio dei Sequani (parte del quale comprende l’Alsazia) sarebbe
stata concessa ai Suebi e da dove quindi essi cominciarono a muoversi. Non è questo
lo spazio dove affrontare questi temi, peraltro di difficile analisi; rinvio quindi alla
lettura del saggio, nel quale comunque l’autore giunge a concordare con la versione
del colonnello Stoffel168.

Cesare, a marce forzate giunse a Vesontio169 prima di Ariovisto anche se questo si


era mosso prima.170

Qui sorse il primo vero problema per Cesare: dopo aver accasermato le legioni
nella capitale dei Sequani, lui ed il suo entourage si misero al lavoro per preparare il
piano di guerra, di come spostare le legioni e per acquisire informazioni sul nemico.
Nel frattempo, la truppa venne ovviamente a contatto con la popolazione locale e con
i mercanti soliti al commercio aldilà del Reno, quindi conoscitori delle genti
germaniche. I racconti della popolazione gallica parlavano di guerrieri enormi e
feroci, implacabili e assetati di sangue, impossibili da domare né tantomeno da
sconfiggere. Si fecero prendere dunque dal panico: era uso, prima delle battaglie,

167
CAES, BGall, 1, 35-36.
168
WALKER, 1906: pp. 213-220.
169
Odierna Besançon.
170
Vd. supra Cap. III

56
giocare ai dadi con i camerati o bere vino. Nell’accampamento invece vigeva uno
strano silenzio e molti furono i testamenti fatti, anche dai veterani. La paura del
nemico era concreta e molti non capivano probabilmente perché fossero in quel
luogo a “ difendere un oscuro villaggio barbarico a più di cento miglia oltre al limite
del mondo civile”171. Si arrivò quindi molto vicini alla diserzione. Anche negli alti
gradi dell’esercito vi erano ufficiali (specialmente tribuni militari) con poca
esperienza e valore che con qualche pretesto (difficoltà logistiche, dubbi sul piano di
guerra ecc.) chiedevano a Cesare il permesso per rientrare in patria172. A questo
punto Cesare convocò tutti gli ufficiali dell’esercito, compresi i centurioni, e tenne
un memorabile discorso. Riproverò loro l’arroganza con la quale giudicavano il
lavoro e i piani dell’alto comando e la loro poca fiducia. Ricordò i misfatti di
Ariovisto, che aveva tradito i romani e li aveva insultati. Di come i legionari avessero
già vinto i germani ai tempi di Mario e ai tempi della rivolta in Italia di Spartaco
(data la presenza di gladiatori originari dalle terre al di là del Reno); del fatto che
Ariovisto si era scontrato molte volte con gli Elvezi, appena sconfitti dai romani, e li
aveva sottomessi alla fine solo con uno stratagemma. Concludeva quindi il discorso
dicendo che avrebbe anticipato la partenza a quella notte stessa e che si sarebbe
mosso, se necessario, con la sola X legione, nella quale nutriva la massima fiducia e
considerazione173. Con questo discorso infiammò gli animi dei soldati: i legionari
della decima si sentirono carichi di orgoglio e responsabilità e non volevano
assolutamente deludere il loro comandante. Gli altri furono feriti nell’orgoglio e
volevano dimostrare che non erano vili e deboli: ribadirono quindi la loro fiducia al
comandante e si dissero pronti a seguirlo. Questo fu uno dei punti cardine della
campagna di Cesare: come comandante militare la sua fama non era così celebrata e i
soldati non lo conoscevano ancora bene: con la situazione che si stava creando,
rischiava di perdere la loro fiducia e la possibilità quindi che lo seguissero nel suo
sogno di conquista. La loro defezione avrebbe comportato, probabilmente, la sua fine
come comandante militare. Il suo discorso fu un rischio: fece leva sul loro animo e
sul loro orgoglio, e ciò risultò alla fine la mossa vincente. Osserva in modo
interessante Meyer come spesso Cesare lodi il coraggio e la forza dei suoi soldati, di

171
DUGGAN, 1964: p. 99.
172
CAES, BGall, 1, 39.
173
CAES, BGall, 1, 40.

57
come essi siano agguerriti e pronti a tutto, ma di come spesso essi abbiano paura e
che solo con l’intervento decisivo del generale, riacquisiscono fiducia e vincano le
loro riserve. Li tratta un po' come dei “bamboccioni”174. Ciononostante, a loro deve
molto se non tutto: dopo il discorso mantenne la parola data, come aveva detto quella
notte si mosse: seguì un percorso più lungo di quello previsto per prevenire brutte
sorprese e dopo sei giorni di marcia, giunse a contatto con il capo dei Suebi.

Quando Ariovisto seppe dell’arrivo di Cesare mandò degli ambasciatori per


richiedere un colloquio, che venne fissato a 5 giorni di distanza. Qui Cesare si lascia
andare ad una digressione nella quale si dichiara fiducioso e speranzoso che il
comandante germanico avrebbe accantonato i propositi ostili per una soluzione
pacifica175. Questa è una sorta di captatio benevolentia nei confronti dei sui lettori: si
dichiara disposto a non ricorrere necessariamente alle armi come soluzione per il
confronto; ma quando scrive queste parole è già a conoscenza del reale svolgimento
dei fatti. Quindi cerca di giustificarsi e di sembrare costretto allo scontro.

Il colloquio venne preceduto da un’intensa attività diplomatica: Ariovisto pose


come condizione che entrambi i generali giungessero al colloquio scortati da un
reparto di cavalleria. Questa fu una mossa molto astuta, perché egli sapeva che i
romani erano sprovvisti di cavalleria propria e che si affidavano a quella gallica.
Cesare dal canto suo, che non poteva riporre la sua fiducia sugli alleati Edui (che già
in precedenza si erano mostrati inaffidabili176), ebbe un’idea geniale. Fece travestire
alcuni legionari della decima legione con gli indumenti tipici gallici e li fece montare
a cavallo. Le condizioni di Ariovisto sarebbero state rispettate e la sua sicurezza
garantita.

Il colloquio si svolse senza che nessuna delle due parti retrocedesse dalle proprie
posizioni: Cesare ribadì i vantaggi di Ariovisto come amico del popolo romano, di
come gli fossero stati concessi dalla magnanimità di Roma e di come egli non avesse
fatto nulla per meritarli. Ricordò il forte legame con gli Edui e di come Roma non
potesse accettare che la loro posizione e la loro forza fossero ridimensionate.
Concluse ripentendo le richieste già fatte in precedenza. Il discorso che ci viene

174
MEYER, 2008: pp. 250 – 251.
175
CAES, BGall, 1, 42.
176
Vd. supra Cap. III.

58
presentato come risposta può essere considerato fededegno; il capo suebo ricorda che
erano stati i Galli a chiamarlo in aiuto, non lui a muovere guerra. Di come fosse stato
poi attaccato da tutti i galli, di come li avesse sconfitti e di come potesse quindi
comportarsi da vincitore. Nuove genti attraversavano il Reno per aumentare le sue
file ma non per muover guerra ma al fine di difendersi. Egli aveva cercato l’amicizia
del popolo romano credendola un vantaggio, non una limitazione: dunque se essa si
fosse rivelata dannosa per lui l’avrebbe rinnegata con la stessa gioia con la quale
l’aveva cercata. Sospettava inoltre che con la scusa dell’amicizia con gli Edui,
Cesare intendesse trovare un pretesto per muovere guerra: gli Edui non avevano né
offerto aiuto a Roma nella recente rivolta degli Allabrogi, né avevano richiesto
l’aiuto degli alleati latini nel conflitto con lui e con i Sequani. Gli ricordava infine
che se lo avesse ucciso avrebbe fatto un favore ai suoi nemici e ai nobili del popolo
romano. Chiedeva dunque che Cesare gli lasciasse libera Gallia e lui si sarebbe
messo al suo servizio per una qualsiasi guerra il proconsole desiderasse
combattere177. Cesare ribadì allora con più forza la posizione romana; che i suoi
predecessori avevano già vinto i galli178 in passato e che avevano comunque lasciato
libera la Gallia e di come essa fosse un terreno di possibile conquista sia per lui come
per Roma. Mentre procedevano i colloqui, il generale romano ci informa che una
parte della cavalleria germanica era entrata in contatto con quella romana lanciando
pietre e frecce. Cesare interruppe dunque il “summit” e ordinò ai suoi soldati di non
cercare lo scontro ma di mantenersi sulla difensiva, non perché temesse il nemico ma
perché non voleva essere accusato di aver sfruttato l’incontro per ottenere una
vittoria.

Come detto in precedenza, il racconto è fededegno: è molto probabile che sia


avvenuta realmente una discussione sulle cause della guerra e su chi avesse
provocato chi. È più sospetta la completa disponibilità di Ariovisto a seguire Cesare
in qualsiasi tipo di avventura bellica e delle parole quasi di sudditanza che gli rivolge
in quel particolare momento di discussione179. In più esse sono in contrasto con il

177
CAES, BGall, 1, 43-44.
178
Fa riferimento al trattamento generoso che Roma aveva riservato agli Arverni sconfitti nel 121 a.C.
da Q. Fabio Massimo.
179
HORST, 1999: p. 147.

59
carattere tipicamente focoso e incline al conflitto dei germani. Inoltre, Ariovisto fa
riferimento anche al fatto che molti romani sarebbero stati contenti della sua morte:

“ Quod si eum interfecerit, multis sesenobilibus principibusque populi Romani


gratum esse facturum (id se ab ipsis per eorum nuntios compertum habere), quorum
omnium gratiam atque amicitiam eius morte redimere posset.180”.

Come faceva un principe germanico, così lontano dal mondo romano, sia
politicamente, sia geograficamente, a sapere delle dispute interne dei romani e del
fatto che i nemici di Cesare a Roma desideravano la sua morte? Quante erano le
probabilità che Catone e gli altri si fossero accordati con Ariovisto e che gli avessero
promesso denaro e terre in cambio della morte di Cesare? Difficile inoltre che il
tradizionalista Uticense, sempre così attento al rispetto delle leggi e al fatto che gli
incarichi venissero conservati anche in tempo di crisi (come durante il periodo della
guerra civile, nella quale Pompeo, Catone e gli altri sono costretti all’esilio ma
rimasero comunque rispettosi delle tradizioni repubblicane) avesse potuto ordire un
tentativo di omicidio di un generale romano? La risposta, secondo il mio parere, più
probabile è che Cesare abbia attribuito queste parole al capo suebo per sottolineare la
crudeltà e la spietatezza dei suoi avversari al pubblico dei suoi oppositori, che si
sarebbero augurati o avrebbero ordito la sua morte mentre egli era in servizio e
operava per la gloria di Roma. Questo è uno dei casi di manomissione di cui
parlavamo nei precedenti capitoli181, in cui Cesare altera il reale svolgimento dei
fatti. Ariovisto chiese un altro incontro con il proconsole che non si fidò di recarvisi
di persona: mandò quindi un’ambasciata con alla testa il suo amico Valleio Procillo,
di cui ci fa una bella descrizione, che parlava correttamente la lingua dei germani e
M. Mezio, che aveva rapporti di ospitalità con Ariovisto. Quest’ultimo, considerando
lo status dei due troppo basso, si indispose e li fece arrestare (entrambi furono
ritrovati nell’accampamento nemico al termine della battaglia incolumi e Cesare fu
enormemente lieto del loro salvataggio182). Il tempo dei negoziati era dunque giunto
al termine.

180
CAES, BGall, 1, 45.
181
Vd. supra Cap. II.
182
“C. Valerius Procillus, cum a custodibus in fuga trinis catenis vinctus traheretur, in ipsum
Caesarem hostes equitatu insequentem incidit. Quae quidem res Caesari non minorem quam ipsa

60
Il girono stesso che arrestò i delegati Ariovisto spostò il campo su un’altura a 10
chilometri di distanza dall’accampamento romano: senza abbandonare quell’altura, il
giorno seguente spostò una parte del suo esercito a circa 3 chilometri più indietro
rispetto alla posizione occupata dai romani, precludendo loro la possibilità di
ricevere rifornimenti dagli alleati. La mossa, evidenziata da Cesare, è evidentemente
frutto di un ottimo generale, esperto nell’arte della guerra: un valido nemico
quindi183. Cesare, per i seguenti 5 giorni schierò l’esercito in posizione di battaglia
davanti all’accampamento dei germani: essi non accettarono battaglia, consci
probabilmente della propria posizione di vantaggio strategico (accampamento
sull’altura, quindi più facilmente difendibile), del fatto che presto i romani avrebbero
esaurito le scorte alimentari e della superiorità della loro cavalleria. È probabile che
le due vennero a contatto, ma furono solo delle schermaglie, non ci fu una vera e
propria battaglia. La superiorità della cavalleria germanica rispetto a quella gallica,
era data dai centeni, dei fanti che erano capaci di mantenere il passo dei cavalli per
un breve tratto. Erano armati alla leggera e fornivano supporto ai germani184. Dopo
che questa tattica si rivelò inefficace, il proconsole provò a diversificare la strategia.
Divise una considerevole parte del suo esercito in tre tronconi, ciascuno dei quali con
le consuete tre linee, le triplex acies. I legionari superarono l’accampamento
germanico e a circa un chilometro di distanza si fermarono e si schierarono per la
battaglia. Mentre le prime linee fronteggiavano i guerrieri che Ariovisto mandava
loro contro, la terza fila iniziava la costruzione dell’accampamento per alloggiare
delle truppe. Quando l’accampamento venne terminato, vennero lasciate a presidiarlo
due legioni, mentre la restante parte dell’esercito, a ranghi compatti, rientrava
nell’accampamento principale. Con questa soluzione Cesare aveva evitato la
spiacevole scelta fra un attacco in condizioni di palese inferiorità e un’umiliante
ritirata.

Cesare continuò per i seguenti giorni a schierare l’esercito in formazione di


battaglia senza che Ariovisto scendesse in campo a combatterlo. Questa strategia

victoria voluptatem attulit, quod hominem honestissimum provinciae Galliae, suum familiarem et
hospitem, ereptum ex manibus hostium sibi restitutum videbat neque eius calamitate de tanta
voluptate et gratulatione quicquam fortuna deminuerat”; “… Item M. Metius repertus et ad eum
reductus est”: CAES, BGall, 1, 53.
183
GOLDSWORTHY, 2016: pp. 242 - 244.
184
GOLDSWORTHY, 1996: pp. 42-53.

61
aveva un doppio effetto: ai legionari dava morale vedere che i germani non
scendevano a combatterli. Mentre aveva l’effetto opposto sui guerrieri di Ariovisto,
che non abituati alla tattica dell’attesa, fremevano in attesa del confronto e si
spazientivano. Un tentativo di assalto all’accampamento minore venne sventato dalle
legioni, pronte a respingere l’assalto.

Cesare si chiedeva il perché Ariovisto non si decidesse ad accettare battaglia,


anche in condizioni di superiorità tattica, ma si limitasse ad azioni di schermaglia. Il
proconsole ebbe la sua risposta quando interrogò uno dei prigionieri germanici che i
romani avevano fatto durante le varie schermaglie: egli gli confermò la riluttanza del
suebo ad accettare battaglia; il motivo erano i responsi negativi delle “maghe” dei
germani, che credevano che solo con la nuova luna avrebbero potuto ottenere la
vittoria. Il loro era un parere molto rispettato e Ariovisto lo teneva in grande
considerazione, tanto da seguire le loro premonizioni. Allora Cesare il giorno
seguente schierò nuovamente l’esercito per la battaglia; questa volta si spinse però a
ridosso dall’accampamento nemico, obbligandolo allo scontro: il proconsole voleva
sfruttare il fatto che i germani non fossero ancora sicuri della vittoria per via dei
responsi dei vaticini. Cesare sfrutta quindi un responso divino dei nemici per
acquisire un vantaggio per la battaglia: come già detto, pur essendo pontefice
massimo, lui non fa riferimento né agli dei né ad alcun tipo di rito religioso prima
dello scontro185. La battaglia che si combatté era fra un gran numero di soldati
(Cesare aveva con sé sei legioni più ausiliari e cavalleria, invece Ariovisto disponeva
di un numero se non superiore, almeno uguale di uomini) e la battaglia fu molto
cruenta tanto che “ i nemici si dilaniarono come bestie feroci”186.

I Romani si schierarono con il tipico schema della triplex acies; Cesare ritenne
ormai giunto il momento di schierare anche la Undicesima e la Dodicesima (le due
legioni delle reclute) reputando che esse fossero ormai pronte alla battaglia, e le
posizionò vicine a legioni di veterani. La Decima fu posta ad occupare il fianco
destro dello schieramento, dove il proconsole riteneva di avere più probabilità di
sfondare. Ciascuno dei cinque legati (ed un questore) di Cesare venne posto a capo di
una legione, in modo che gli uomini avessero ben presente e vicino il loro capo sul

185
GOLDSWORTHY, 2016: pp. 244-245.
186
APPIANO, Celtica, 1, 3, 16.

62
campo e testimone del loro valore187. I Germani si schierarono in linea: lo
schieramento comprendeva le diverse tribù che componevano l’esercito di Ariovisto,
Cesare ce ne menziona sette: Arudi, Marcomanni, Triboci, Vangioni, Nemeti, Sedusi
e Suebi. Alle loro spalle si erano radunati i carri con gli averi dei guerrieri e le loro
famiglie.

La battaglia ebbe inizio senza che il consueto lancio di giavellotti fosse effettuato:
si giunse subito allo scontro fisico. I germani combattevano con il consueto
schieramento a falange: Cesare ci riporta alcuni atti di eroismo dei suoi legionari che
si lanciavano sopra la loro formazione per strappare gli scudi ed insediarsi nelle loro
linee. Come previsto il fianco destro dell’esercito romano prevalè: la Decima mise
presto in fuga i suoi avversari: mentre sul fianco opposto accadeva l’inverso. Il
fianco sinistro romano stava retrocedendo per via della pressione elevata alla quale
era sottoposto. In questo frangente Cesare venne salvato dal fondamentale intervento
del giovane Publio Crasso, figlio del triumviro. Egli, come comandante della
cavalleria, aveva più libertà e possibilità di movimento e di vista degli altri legati:
quando si accorse del pericolo che quella parte dello schieramento correva, fece
subentrare la terza linea. Questo fondamentale intervento risolse la situazione,
ristabilì l’equilibrio e portò lo schieramento romano a travolgere quello germanico.
Quando Ariovisto ed i suoi si videro sconfitti, si diedero alla fuga. L’intero esercito
germanico era in rotta e cercava rifugio presso il Reno. Cesare si mise personalmente
alla testa della cavalleria e si mise a inseguire, catturare o uccidere il maggior
numero di guerrieri nemici. Come spesso accadeva, a rotta avvenuta, avvenivano le
cose peggiori agli sconfitti. Molti furono trucidati, altri giustiziati: molte donne
germaniche a loro volta uccise, stuprate o fatte schiave. Una fonte posteriore ci
riporta che ad un gruppo di Suebi che erano stati accerchiati fosse stata permessa la
fuga solo per poterli ucciderli più facilmente188. Come già detto, vennero ritrovati
salvi anche i due ambasciatori romani inviati in precedenza ad Ariovisto: Cesare dice
che la cosa lo fece felice quanto la battaglia; sicuramente loro lo erano
maggiormente. Di Ariovisto non si ha notizia: probabilmente egli riuscì nella fuga a
differenza della sua famiglia: le sue due mogli vennero uccise, mentre una delle

187
CAES, BGall, 1, 52.
188
GOLDSWORTHY, 2016: p. 245.

63
figlie venne tratta prigioniera. Molti guerrieri che attraversarono il Reno vennero poi
attaccati dagli Ubi, che volevano probabilmente sfruttare il momento di confusione e
debolezza dei nemici per imporsi come popolo predominante in un contesto tutto
germanico189. Cesare rientrò dunque nei territori di sua diretta competenza: lasciò
l’esercito di stanza nei territori dei Sequani al comando di Labieno e rientrò nella
Cisalpina, per presiedere alle sessioni giudiziarie e legislative derivanti dal suo
incarico.

189
CAES, BGall, 1, 54.

64
CONCLUSIONI

Fin dai primi avvenimenti della campagna in Gallia ci si rende conto subito che la
situazione politica era molto frammentata; nel corso degli anni di guerra, Cesare
combatté con molti popoli e tribù anche più volte. Solo alla fine riuscì ad avere la
meglio della voglia di libertà dei galli, “sfruttando” la ribellione generale di
Vercingetorige, che gli permise di avere la meglio su un fronte che comprendeva tutti
i suoi nemici. Stessa cosa che cercò di fare durante la guerra civile: a Farsalo ne ebbe
l’occasione. La vittoria venne colta perché, passatemi la definizione, molte “teste
dell’Idra” riuscirono a fuggire, portando il conflitto in Africa prima e in Spagna poi.
Con questa breve trattazione si è cercato di fare chiarezza sull’anno di consolato di
Giulio Cesare per poter comprendere meglio alcuni aspetti delle prime fasi del
conflitto che sconvolse la Gallia per circa un decennio. Si sono messe in luce diverse
teorie non accettate all’unanimità dagli storici, e ho cercato altresì di fornire il mio
personale pensiero ed interpretazione degli avvenimenti. L’abilità di Cesare non si
limita, come abbiamo visto per una breve parte, al genio militare: dietro al superbo
generale vi era un uomo estremamente intelligente e sensibile verso l’animo umano.
Alcuni storici tendono a considerare addirittura Cesare come il primo degli
imperatori, per via delle cariche e dei poteri che accumulò su di sé e per l’importanza
che ebbe. Dalle fonti che ne parlano sembra quasi che ogni parola, gesto o azione
venisse pensata e programmata e che raramente egli si sia fatto trovare impreparato o
sorpreso. Un lucido calcolatore sia in politica, sia in battaglia. A tutto ciò si aggiunge
un superbo racconto, potenziato dall’effetto “racconto” in terza persona. Poi la storia
ci insegna che la dea bendata ha sempre il suo valore (fortuna audaces iuvat
timidosque repellit!) e che il vincitore ha sempre ragione. Chissà cosa sarebbe
accaduto se le varie e divise realtà della Gallia si fossero coalizzate prima e più
saldamente contro l’invasore romano. O cosa sarebbe accaduto se Pompeo non
avesse dovuto tener conto dei pareri (spesso deleteri) delle molteplici teste pensanti
presenti tra le fila degli anticesariani. Se avesse potuto combattere in Italia o sfruttare
meglio la vittoria di Durazzo. Ma come ben si sa la storia viene fatta dai vincitori, e
con i “se” ed i “ma” non si va da nessuna parte. Noi ci limitiamo ad apprendere i
fatti, provando ad elaborarli criticamente ed a interpretarli. Come, ad esempio, capire

65
il perché Cesare dedichi così tanto spazio all’incontro e al dialogo con Ariovisto e
solo una breve sintesi della battaglia che seguì che coinvolse circa 100.000 uomini.
Volevo ringraziare calorosamente il Dottor Michele Bellomo per essere stato così
paziente e disponibile nei miei confronti; per avermi fornito il suo supporto e la sua
conoscenza, guidandomi alla stesura di questo breve trattato. Spero di aver fornito
uno spunto anche minimamente interessante sull’argomento, fornendo la mia
personale interpretazione sui fatti del biennio 59 - 58 a.C. Da ciò che avvenne in quei
anni dipese la storia della repubblica e forse del mondo intero: le basi per la
“riformazione” dello stato, come si auspicava Cicerone.

66
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