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Il Jazz

di Piero Donato
A causa del processo di industrializzazione, nel 1910, circa un milione e ottocentomila neri lasce-
ranno le piantagioni del sud del Mississipi, vagabondando per le campagne e riversandosi nelle città
in grado di accoglierli e di offrire loro quei lavori più rischiosi e massacranti, volutamente scartati
dai bianchi; e nei ghetti delle grandi città, i neri mischieranno il loro patrimonio musicale (work
song, blues, gospel, spiritual) per dare origine al Jazz: questo genere farà la comparsa sugli spartiti
americani grazie al ragtime, forma strumentale prevalentemente ritmica (afroamericana), ma con
influssi melodici riconducibili alla cultura europea. Scott Joplin, eminente musicista di colore rap-
presentante del genere, autore di popolarissimi ragtime, è il primo musicista storico a essere inclu-
so nel jazz. La paternità di questo importante anello di congiunzione tra il canto popolare ed
il jazz viene attribuito alla razza creola, anche se, successivamente, verrà fatto proprio dai musicisti
bianchi.
Fu la città di New Orleans, importante porto fluviale della Louisiana, a raccogliere e favorire i più
significativi incontri dei musicisti neri dell’epoca, e a segnare una svolta storica nella musica popo-
lare americana. Ma il primo documento originario ci viene fornito, a New Orleans, dalla Original
Dixieland Jazz Band, che nel 1917 incide, appunto, il primo disco della storia del jazz. A quattro
anni dopo risale, invece, la prima incisione di jazz di una band nera, mentre nel 1923 la Creole Jazz
Band, con Louis Armostrong allora seconda cornetta, inizierà ad incidere a Chicago. Fin dall’ini-
zio, le improvvisazioni jazzistiche appaiono radicalmente diverse dalle variazioni sul tema di matri-
ce europea, fattore dovuto al concetto ispiratore del jazz di cui abbiamo accennato in precedenza: il
definirsi qui e ora come unico e irripetibile momento musicale, rappresentazione di una vera e pro-
pria filosofia di vita. Mentre le variazioni sul tema europee vengono, da secoli, puntualmente defini-
te sullo spartito, in piena libertà e assolutamente svincolata da ogni scrittura resterà l’improvvisa-
zione jazzistica, a prescindere dall’epoca e dalle correnti cui appartenga.
Dal Dixieland di New Orleans, per sommi capi, si passa al texano Boogie-Woogie, poi diffusosi
anche a Chicago, diretto discendente del blues, ma anche le successive forme precedenti l’arrivo
di Duke Ellington risentiranno delle atmosfere ritmiche da sale da ballo, nascendo, appunto, da esi-
genze commerciali. Ellington si pone, di fronte al jazz, come arrangiatore, più che come tipico
compositore, e fa apprezzare anche al tradizionale gusto classico europeo le sue orchestrazioni com-
poste per le Big Bands dagli organici decisamente meno contenuti. Approdiamo quindi
allo Swing di Count Basie, di Lester Young, di Benny Goodman e della cantante nera Billie Holi-
day, ritenuta una delle più rappresentative voci nere, dalle struggenti sonorità che la comparano a
quelle di un saxofono. Certo, le orchestre swing dei bianchi Goodman e compagni non fanno altro
che rendere sempre più ballabili e leggeri i prodotti della musica jazz. Il secondo dopoguerra vede
schierarsi le correnti dei musicisti neri di fronte a un unico obbiettivo: l’establishment americano
dei bianchi e della cultura cristiana, identificata con il potere razzista.
A ciò si deve la conversione di parte della popolazione nera e comunque le tendenze sempre più in-
calzanti dei jazzisti neri a stringersi, in formazioni sempre più ridotte, attorno al bebop, più tardi de-
finito semplicemente bop. Questo genere lascerà spazio a un ritorno dell’improvvisazione totale, ca-
ratteristica del primigenio blues, al quale si riallaccerà anche ideologicamente. Padre del bop viene
considerato Christopher “Charlie” Parker, rapido sax alto, mentre i batteristi più significativi, sia
a livello tecnico che di espressività, sono l’indomabile Max Roach, e, nel tardo bop, Art Blakey;
sempre nell’ambito del bop, ricordiamo Dizzy Gillespie, trombettista leader di una big band dalle
caratteristiche dimensionali più uniche che rare, il pianista percussivo e concettuale Thelonious
Monk e il lirico trombettista Miles Davis, artefice di sperimentazioni che collegheranno da vici-
no jazz e rock, fondendoli in unico tessuto (definito appunto jazzrock; leggermente diverso, sebbe-
ne con simili caratteristiche, sarà la fusion o pop jazz).
Delle sperimentazioni di Davis parleremo più avanti; a noi ci piace ricordarlo come musicista mi-
liare nell’ambito dell’hard bop, o tardo bop, dove suonò a lungo una musica essenziale e parca di
note, ma dall’alto di contenuti ricercati, assieme al sassofonista John Coltrane, che sperimentò il
superamento delle forme modali attraverso il suo stile urlato; altro perno significativo del bop ai
confini del free, nonché nel free stesso, la ricerca di Coltrane è assimilabile, per certi versi, a quella
dell’altro sassofonista, Ornette Coleman, abile anche alla tromba e al violino. Un accenno dovero-
so al cool jazz, o jazz freddo, quantomeno per ciò che hanno significato le atmosfere atonali del
primo dopoguerra: le sonorità povere di ritmo di Lennie Tristano costituivano l’inusuale, ma raffi-
nata, offerta bianca a un genere musicale, quello del jazz, dalle mille proposte e sfacettature, che
così da vicino ripercorse tappe e contraddizioni di un ventesimo secolo dalle caratteristiche in conti-
nuo mutamento.
Dicevamo del free jazz, o più semplicemente free music. Era questo il rifugio dell’americano nero
degli anni sessanta – settanta, ove preferisse aggredire per irridere, stravolgere e vanificare ogni te-
matica tonale e consumistica, rappresentativa di quelle tradizioni culturali dei bianchi nelle quali
non si riconoscesse affatto e che, anzi, combattesse senza sosta, ponendosi, come unico obbiettivo
dignitoso, la parità sociale dei diritti. Era una musica di difficilissimo ascolto, per coloro che non
avevano potuto condividerne le esperienze, nella stessa misura, d’altra parte, delle sperimentazioni
elettroniche e dodecafoniche della musica contemporanea (provenienti da assunti di diversa origine:
quest’ultime, infatti, rigorosamente fissate su spartito).
La storia dell’afroamericano era troppo densa di oppressioni e tragedie, troppe menti sprofondate
nella Nothingness (termine intraducibile se non nell’unico significato che la storia ha assegnato al-
l’americano di colore: nullità…). Troppo caro era il peso dell’esser nero: ora il jazz pretendeva li-
bertà, libertà assoluta. Perché “quando gli Americani devono andare nel Vietnam o a Berlino, noi
non chiediamo solo bianchi, ogni americano dovrebbe avere il diritto di essere trattato come lui de-
sidera esserlo, come vorrebbe che i suoi bambini fossero trattati; ma non accade così…”, come af-
fermava il presidente John F. Kennedy nel giugno del 1963, pochi mesi prima di essere assassina-
to. “Nero è bello” affermava Malcom X, ottenendo echi e risultati: naturalmente anch’egli in cam-
bio del prezzo della vita (fu assassinato a New York nel 1965). Identica sorte sarà serbata a Martin
Luther King nel 1968; Nobel per la Pace nel 1964, di ispirazione Gandhiana, organizzò manifesta-
zioni non violente in disobbedienza civile, riuscendo ad attirare cortei dalle dimensioni incalcolabili
(stimati nell’ordine delle 250.000 unità). La schiavitù era ormai superata, ma bisognava ancora rag-
giungere, evidentemente, l’eguaglianza razziale.
Per approfondire: http://www.storiadellamusica.it

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