in copto è l’equivalente di ψυχη, psykhé in greco. E la psykhé è
un elemento della psicologia antica – molto più antica dei Vangeli – che ci tornerà utile nelle prossime pagine. Il termine veniva usato, fin dai tempi di Omero, per indicare ciò che noi chiamiamo “mente”, e anche ciò che chiamiamo “vita”, e anche “anima di un defunto”. E non perché allora si facesse confusione tra queste tre cose, ma perché la psykhé c’entrava con tutte e tre. Propriamente, la psykhé è il modo in cui trattiamo le informazioni che ci giungono dai nostri sensi, dai nostri sentimenti, e pensieri, e intuizioni. Gli antichi si erano accorti (gli occidentali cominciarono a capirlo solo nel XVIII secolo) che l’uomo opera sempre una selezione tra le cose che sente, pensa, intuisce: ne nota pochissime, e ignora le altre. La psykhé è sia questa selezione, sia lo sforzo di combinare tra loro quelle pochissime cose per formare un’immagine complessiva del mondo – cioè per non accorgerci che sono troppo poche. Tutti lo fanno, e ognuno lo fa a modo suo. In ciò, la parola psykhé corrisponde appieno al significato della nostra parola “mente”, che appunto limita a questo modo ogni nostro atto di conoscenza. Ma dal nostro modo di far quadrare quel poco che notiamo delle nostre percezioni, sia esteriori sia interiori, dipende direttamente la vita che facciamo: la nostra vita è in quel poco, noi non viviamo nient’altro, di tutto ciò che siamo e che ci capita. In questo senso psykhé è anche l’equivalente della nostra parola “vita”, per esempio quando Gesù dice che “chi non odia la propria psykhé” non può essere suo discepolo (Lc 14,33). E siccome i greci credevano che nell’oltretomba ognuno continuasse a essere il tipo di persona che l’aveva fatto diventare il suo modo di vivere, e continuasse a elaborare le proprie percezioni così come aveva fatto in vita, usavano psykhé per indicare ciò che sopravvive alla morte. La psykhé – in tutte queste sue accezioni – può crescere, può ampliare il proprio orizzonte, imparare ad accorgersi di più, a stabilire nuove connessioni tra ciò di cui si è accorta. Può insomma diventare quella che noi chiamiamo una “grande anima”. Ma il Gesù gnostico esclude che possa vedere un risorto. E in tal modo ci dà una nuova informazione decisiva sulle visioni: non solo non consistono di percezioni sensoriali, ma nemmeno di ciò di cui la psykhé può accorgersi. Sono fuori dalla sua portata, come ciò che sogniamo è fuori dalla portata del nostro apparato percettivo. Nelle visioni un’altra facoltà coglie e assembla informazioni più numerose di quelle che costituiscono la nostra vita quotidiana, mentre la psykhé si fa da parte e non sa che dire.