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LICENZIAMENTO
E CONTRATTO
A TUTELE CRESCENTI
D.Lgs n. 4 marzo 2015, n. 23
Pierluigi RAUSEI
Di prossima pubblicazione:
• NASPI, ASDI, DIS-COLL E CONTRATTO DI RICOLLOCAZIONE
• CONTRATTI DI LAVORO E TUTELE GENITORIALI
• CIG E CONTRATTI DI SOLIDARIETÀ
• POLITICHE ATTIVE E ISPEZIONI
2015
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© 2015 Wolters Kluwer Italia S.r.l Strada I, Palazzo F6 - 20090 Milanofiori Assago (MI)
ISBN: 978-88-217-5246-9
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tuali errori o inesattezze.
Licenziamento e contratto a tutele crescenti
PRESENTAZIONE
Questo volume intende offrire una sintesi dei contenuti del primo decreto legi-
slativo delegato attuativo della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (c.d. “Jobs Act”)
che riscrive la disciplina sanzionatoria dei licenziamenti individuali e collettivi
per i lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del decreto delegato ampliando
l’area di applicazione della tutela solo risarcitoria, con costi sensibilmente ridot-
ti per le imprese di maggiori dimensioni, e limitando notevolmente le ipotesi di
reintegrazione nel posto di lavoro.
In verità il D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 detta norme in materia di “contratto di
lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”.
L’idea di fondo consiste nel rendere più appetibile e vantaggiosa l’assunzione
con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato attraverso una signi-
ficativa riduzione del peso sanzionatorio dei licenziamenti, ma anche agevolan-
done finanziariamente l’attivazione mediante un apposito incentivo introdotto
dall’art. 1, comma 118, della legge n. 190/2014 (Legge di stabilità 2015).
Il mix delle misure che accantonano, per i nuovi assunti dal 1° gennaio 2015 ri-
spetto all’esonero contributivo e dal 7 marzo 2015 per le tutele crescenti, qual-
siasi ipotesi di reintegrazione nel caso di licenziamento per motivi economici –
sia esso individuale, plurimo o collettivo – portando alle estreme conseguenze il
percorso avviato con la legge n. 92/2012, come pure la forte limitazione della
reintegrazione per i licenziamenti disciplinari (conseguenti ormai alla sola in-
sussistenza del fatto materiale), insieme all’incentivo occupazionale
dell’esonero contributivo, potrebbe spingere le aziende a investire su rapporti di
lavoro a tempo indeterminato, almeno dove forme di lavoro non subordinato
hanno occultato prestazioni lavorative contrassegnate da vincoli di obiettiva ete-
rodirezione ovvero dove più costosi contratti a tempo determinato possono esse-
re sostituiti da un indeterminato a tutele crescenti.
Più difficile, invece, immaginare che la riforma ora licenziata dal Governo pos-
sa impattare su un incremento occupazionale “puro”. In questo senso rileva la
necessità di una valutazione di effettività e, quindi, di una verifica in termini di
efficacia, giacché sovente il legislatore rimane «vittima di una presunzione di
efficacia, che porta a ricondurre a un incentivo tutti gli effetti che si osservano
successivamente alla sua introduzione. Un’ormai consolidata letteratura, fon-
data sull'analisi cosiddetta “controfattuale” (tesa cioè ad indagare cosa sareb-
be comunque accaduto in assenza dell'intervento), mostra che gli effetti netti
degli incentivi per l’occupazione sono spesso assai inferiori a quanto comune-
mente si ritiene» (XI Commissione – Camera dei deputati “sulle misure per
fronteggiare l’emergenza occupazionale con particolare riguardo alla disoccu-
pazione giovanile”, Indagine conoscitiva 16 ottobre 2013).
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NOTA SULL’AUTORE
Pierluigi Rausei Dirigente del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Avvocato. Docente di “Diritto sanzionatorio del lavoro” presso la Scuola di dot-
torato in Formazione della persona e mercato del lavoro di ADAPT e CQIA
dell’Università degli studi di Bergamo. Collaboratore del Centro Studi Interna-
zionali e Comparati DEAL del Dipartimento di Economia “Marco Biagi” della
Università di Modena e Reggio Emilia. ADAPT professional fellow. Componen-
te del Comitato scientifico della rivista “Diritto & Pratica del Lavoro”. Membro
del Comitato di redazione della rivista “Diritto delle Relazioni Industriali”. Col-
labora con le riviste “ISL Igiene & Sicurezza del lavoro”, “Guida alle Paghe”,
“Esperto”, “Diritto e lavoro nelle Marche” e “Bollettino Adapt”, ed anche con
“Il Quotidiano Ipsoa” e con il quotidiano “Il Sole 24 Ore”. Dirige, con Michele
Tiraboschi, la collana ADAPT professional series - ADAPT law school. Docente
in corsi di formazione e di aggiornamento professionale. Autore di numerosi
saggi e volumi sui temi del diritto del lavoro, della sicurezza sul lavoro e della
amministrazione del personale. Twitter @RauseiP Sito web www.rausei.it
Si segnala che le considerazioni contenute nel presente volume sono frutto esclusivo del pensiero
dell’Autore e non hanno carattere impegnativo per l’Amministrazione alla quale appartiene. Inoltre
l’elaborazione dei testi, anche se curata con scrupolosa attenzione, non può comportare specifiche responsabi-
lità per eventuali involontari errori o inesattezze.
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In base alla nella lett. c) del comma 7 della legge delega, a prescindere dalle
dimensioni aziendali - e qui si ribadisce si situava una delle novità gestionali di
maggior peso -, i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (cosiddetti
economici) non dovevano mai più dare luogo alla reintegrazione del lavoratore
ingiustificatamente licenziato. La norma di delega prevedeva, infatti, la indivi-
duazione, da parte del decreto attuativo, di un indennizzo economico certo, il
cui importo doveva crescere progressivamente, in proporzione all’anzianità di
servizio.
La sfida del legislatore delegato, dunque, è stata quella di individuare parametri
che fossero, al contempo, idonei a condizionare le scelte gestionali delle aziende
più grandi (che quindi avrebbero dovuto ricevere un disincentivo congruo in
termini di sanzione), senza penalizzare tuttavia le aziende più piccole (che da un
aggravio progressivo dell’importo da riconoscere al lavoratore avrebbero potuto
ricevere una condanna esiziale per la stessa permanenza in attività a causa di
una onerosità eccessiva, evitata nei confronti dei vecchi assunti dai massimali
espressamente individuati dalla legge n. 604/1966).
L’intendimento della legge delega di parificare i licenziamenti delle piccole e
medie imprese con quelli delle grandi, d’altra parte, è in stretta continuità (e in
diretta applicazione) con quanto aveva formato esplicita richiesta normativa al
Governo da parte di Confindustria, nel documento «Proposte per il mercato del
lavoro e per la contrattazione» di maggio 2014.
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In presenza di una giusta causa, non occorre dare preavviso all'altra parte e,
di conseguenza, non è neppure dovuta l'indennità sostitutiva del preavviso.
Nell’individuare i fatti che possono costituire «giusta causa» di licenziamento,
partendo dalla definizione contenuta nell’art. 2119 cod. civ., si può affermare, in
prima approssimazione, che costituiscono giusta causa di licenziamento quei
fatti, comportamenti e situazioni per i quali i contratti collettivi prevedono il li-
cenziamento senza preavviso (c.d. licenziamento in tronco). La previsione da
parte della contrattazione collettiva di una specifica ipotesi di giusta causa di li-
cenziamento del lavoratore, non esime il giudice dal procedere alla valutazione
della proporzione della sanzione adottata in relazione alla gravità del fatto in
concreto addebitato (Cass. 3 novembre 1980, n. 5880).
In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra fatto
addebitato e recesso, viene preso in considerazione ogni comportamento che,
per la sua gravità, sia suscettibile di minare la fiducia del datore di lavoro e di
far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli
scopi aziendali. Ai fini del giudizio di proporzionalità è ritenuto determinante,
infatti, l'influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il compor-
tamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di rife-
rimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adem-
pimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi
assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e cor-
rettezza. Spetta al giudice valutare la congruità della sanzione espulsiva non sul-
la base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni
aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento
unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un'utile
prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi a tal fine preminente rilievo
alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione col-
lettiva, ma pure all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento
richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attua-
zione del rapporto, alla sua natura e tipologia (Cass. 22 giugno 2009, n. 14586).
Per dimostrare la legittimità della interruzione ex abrupto di un rapporto con-
trattuale di lavoro subordinato, occorre precisare e chiarire l'interesse che ragio-
nevolmente solleciti il datore di lavoro a porre in essere tale interruzione. In
questo senso il vanificarsi della fiducia che il datore di lavoro deve poter osser-
vare nel suo dipendente risponde ad un criterio di ragionevolezza che il giudice
ha il compito di approfondire, procedendo ad una raccolta completa degli ele-
menti di fatto inerenti alla fattispecie concreta (qualità del rapporto contrattuale;
circostanze modali e temporali del fatto riprovevole commesso dal dipendente;
grado dell'affidamento; intenzionalità della condotta; proporzionalità tra fatto e
sanzione), onde pervenire, attraverso il filtro di tutti questi elementi, alla con-
clusione che il datore di lavoro, a tutela del proprio legittimo interesse, non po-
teva fare altrimenti che adottare il più grave provvedimento di natura disciplina-
re, recedendo in tronco dal rapporto di lavoro (Cass. 5 ottobre 1985, n. 4829).
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Il licenziamento per giusta causa in tanto può considerarsi legittimo quando «at-
traverso un’attenta considerazione di tutte le circostanze del caso concreto,
qualsiasi altra sanzione risulti insufficiente a tutelare l'interesse dell'azienda»
(Cass. 16 luglio 1980, n. 4632). Fatti e comportamenti del lavoratore estra-
nei all'ambito strettamente contrattuale, non verificatisi nel corso e nel luogo
dell'attività lavorativa, sono, in linea generale, irrilevanti ai fini della valutazio-
ne degli addebiti quando non hanno alcuna incidenza sulla sfera contrattuale.
Se, al contrario, tali fatti e comportamenti sono collegati, anche indirettamente,
con l'esecuzione della prestazione lavorativa oppure assumono un rilievo tal-
mente grave da far ritenere il lavoratore professionalmente inidoneo alla prose-
cuzione del rapporto, non è dubbio che essi valgono a determinare una irrepara-
bile compromissione dell'elemento fiduciario, che costituisce la base del rappor-
to di lavoro subordinato, specialmente quando, per le sue caratteristiche e pecu-
liarità, richiede una collaborazione qualitativamente elevata e una fiducia che
può estendersi anche alla serietà dei comportamenti privati del lavoratore (Cass.
23 luglio 1985, n. 4336).
La giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione
degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, di quello della
fiducia, che deve necessariamente sussistere fra le parti, con riferimento non già
al fatto astrattamente in sé considerato, bensì agli aspetti concreti di esso, alle
circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed all'intensità dell'elemento intenzio-
nale o di quello colposo (Cass. 12 luglio 1985, n. 4135).
Per stabilire, dunque, l'esistenza della giusta causa di licenziamento occorre ac-
certare in concreto se (in relazione alla qualità del rapporto intercorso tra le par-
ti, alla posizione che in esso ha avuto il lavoratore e alla qualità e al grado del
vincolo di fiducia che il rapporto comporta) la specifica mancanza commessa
dal dipendente, considerata e valutata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma
anche nella sua portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari circo-
stanze e condizioni in cui è posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti ed all'in-
tensità dell'elemento psicologico che ha mosso il lavoratore, risulti obiettiva-
mente e soggettivamente idonea a ledere, in modo grave, al punto da farla veni-
re meno, la fiducia che il datore di lavoro ripone nel dipendente e tale da esigere
sanzioni non minori di quelle massime, definitivamente espulsiva.
L’entità materiale del danno subito dal datore di lavoro, a causa della condotta
del lavoratore, ha un rilievo del tutto secondario, dovendosi tener conto delle
modalità di tale condotta e della sua idoneità a scuotere irreparabilmente l'ele-
mento fiduciario che è alla base del rapporto di lavoro (Cass. 1° febbraio 1990,
n. 659). D’altronde perché sia configurabile una giusta causa di licenziamento
possono rilevare anche i comportamenti del lavoratore anteriori a quello conte-
stato, che devono essere considerati non come ulteriori cause autonome di re-
cesso, ma come circostanze confermative della mancanza contestata, in quanto
aiutano a valutare sia la gravità dell'azione del lavoratore, sia la proporzionalità
del provvedimento adottato dal datore di lavoro (Cass. 26 agosto 1987, n.
7042).
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unicamente nell'art. 3 della legge n. 604/1966, per cui qualora il giudice riscon-
tri nel licenziamento per giusta causa gli estremi del giustificato motivo, e con-
verta l’una nell’altro, la richiesta dell’indennità sostitutiva del preavviso deve
intendersi ricompresa nella più ampia domanda di risarcimento dei danni per li-
cenziamento illegittimo proposta dal lavoratore (Cass. 27 ottobre 1973, n.
2800).
1.2.2. Licenziamento per giustificato motivo
La definizione di giustificato motivo di licenziamento individuale è rinvenibile
nell'art. 3 della legge n. 604/1966 dove si legge che «il licenziamento per giusti-
ficato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli
obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti l'attivi-
tà produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di es-
sa».
Si configurano quindi due tipi di «giustificato motivo»:
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Licenziamento disciplinare
Dopo l’entrata in vigore dell’art. 7, legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto
dei lavoratori), sono cominciati a sorgere dubbi circa l'applicabilità delle norme
in materia di sanzioni disciplinari al licenziamento per motivi disciplinari,
soprattutto quando le norme contrattuali non includono espressamente fra le
sanzioni disciplinari i licenziamenti per giusta causa e per giustificato motivo
soggettivo.
La situazione attuale deriva da una importante sentenza della Corte
Costituzionale, precisamente la n. 204 del 30 novembre 1982, che ha
dichiarato l'illegittimità costituzionale del primo, secondo e terzo comma
dell'art. 7 della legge n. 300/1970 proprio in quanto interpretati nel senso della
loro inapplicabilità ai licenziamenti disciplinari, per i quali essi non siano
espressamente richiamati dalla normativa legislativa, collettiva o validamente
posta dal datore di lavoro. Sulla base della citata sentenza della Corte
Costituzionale, dunque, i licenziamenti disciplinari, indipendentemente dal
fatto che le norme dell'art. 7 dello Statuto dei lavoratori siano o meno
espressamente richiamate, possono essere legittimamente intimati solo nel
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rispetto della procedura disposta da tale norma, con riguardo ai suoi primi tre
commi: comma 1 (pubblicità ed affissione della relativa normativa), comma 2
(preventiva comunicazione dell'addebito e difesa del lavoratore) e comma 3
(possibilità del lavoratore di farsi assistere da un rappresentante sindacale). Le
conseguenze dell'inosservanza di tali garanzie procedurali, peraltro, non
consistono soltanto nel risarcimento del danno, ma, in quanto coincidenti con
quelle previste dall'art. 18 della legge n. 300/1970, implicano il diritto alla
reintegrazione nel posto di lavoro.
Per i licenziamenti disciplinari, e, in modo particolare, per il licenziamento
senza preavviso nell'ipotesi di «giusta causa», non è necessario attendere il
trascorrere dei 5 giorni dalla contestazione scritta per dare esecuzione al
provvedimento, occorre tuttavia rispettare eventuali normative contrattuali
più favorevoli (alcuni contratti collettivi prevedono, ad esempio, che nel caso
di licenziamento senza preavviso per giusta causa, il lavoratore sia sospeso dal
lavoro, con decorrenza della retribuzione, per 5 giorni nel corso dei quali può
presentare le sue giustificazioni).
Anche dopo il pronunciamento della Corte Costituzionale si sono
presentati due contrastanti orientamenti giurisprudenziali: secondo un primo
filone l’art. 7, commi 1, 2 e 3, della legge n. 300/1970 devono trovare
applicazione in tutti i casi nei quali il licenziamento sia intimato a seguito di una
colpa (o presunta colpa) del lavoratore, e quindi sia concretamente di natura
disciplinare, indipendentemente dalla sussistenza di una previsione di natura
formale di «sanzione disciplinare» da parte della normativa legale o
contrattuale, applicabile al rapporto; secondo un diverso orientamento, per
l’applicazione delle norme anzidette occorre comunque che la normativa
collettiva, o altra norma validamente posta in atto dal datore di lavoro,
permetta di ricomprendere formalmente il licenziamento in questione tra le
«sanzioni disciplinari».
La giurisprudenza, inoltre, è prevalentemente orientata nel senso di
ritenere applicabile ai licenziamenti disciplinari la procedura di cui all'art. 7
della legge n. 300/1970 indipendentemente dal numero dei dipendenti in forza
all'azienda, sulla considerazione che la norma non rientra fra quelle che
trovano applicazione soltanto nelle sedi, stabilimenti, filiali, uffici o reparti
autonomi che occupano più di 15 dipendenti per quanto riguarda le imprese
industriali e commerciali o più di 5 dipendenti per quanto riguarda le imprese
agricole.
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2. CAMPO DI APPLICAZIONE
Ai sensi dell’art. 1 del D.Lgs. n. 23/2015 sulle tutele crescenti il nuovo regime
di tutela nel caso di licenziamento illegittimo trova applicazione per i lavoratori
che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri assunti con contratto
di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata
in vigore del decreto legislativo stesso, vale a dire dal 7 marzo 2015.
La prima considerazione, quindi, riguarda l’esclusione dal campo di applicazio-
ne del D.Lgs. n. 23/2015 dei dirigenti, il cui licenziamento individuale rimane
governato dal regime sanzionatorio già vigente, così come integrato per i licen-
ziamenti collettivi dalla legge n. 161/2014.
Nel silenzio della norma la nuova disciplina dovrebbe comunque tenere fermi i
regimi speciali di libera recedibilità (c.d. recesso ad nutum) previsti per presta-
tori di lavoro domestico, per gli sportivi professionisti e, in particolare, per i la-
voratori assunti in prova (in forza dell’art. 2096, comma 3, cod. civ. secondo cui
«durante il periodo di prova ciascuna delle due parti può recedere dal contrat-
to, senza obbligo di preavviso o d’indennità», in qualunque momento) e per i
lavoratori che hanno raggiunto l’età pensionabile.
Ancora nel silenzio normativo (nonostante le esplicite richieste di chiarimento,
di segno contrapposto ben è vero, recate nei pareri resi dal Senato della Repub-
blica l’11 febbraio e dalla Camera dei Deputati il 17 febbraio) sembrano doversi
escludere dal campo di applicazione i dipendenti delle Pubbliche Amministra-
zioni anche in considerazione della declaratoria di inquadramento declinata dal-
la norma che non trova riscontro nelle Amministrazioni Pubbliche (operai, im-
piegati, quadri).
Il secondo comma, entrato nel testo del decreto in fase di approvazione finale su
sollecitazione del parere del Senato, stabilisce che il regime sanzionatorio dei li-
cenziamenti in oggetto si applica anche nei casi di conversione del contratto a
tempo determinato in contratto a tempo indeterminato o di stabilizzazione del
contratto di apprendistato, se avvenuta successivamente all’entrata in vigore del
D.Lgs. n. 23/2015.
Ciò sta a significare che la stabilizzazione dei contratti a termine come quella di
un contratto di apprendistato intervenuta dal 7 marzo 2015 in poi rientra nel
campo di applicazione del D.Lgs. n. 23/2015 per quanto attiene alla monetizza-
zione progressiva e certa delle indennità risarcitorie in caso di licenziamento il-
legittimo. D’altro canto analogo effetto hanno le stabilizzazioni che provengono
da contratti di lavoro non subordinato (contratti di collaborazione coordinata e
continuativa anche a progetto o associazioni in partecipazione) i quali assunti
con lavoro subordinato a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015 entrano a pieno
titolo nel regime delle tutele crescenti.
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che l'unità produttiva sia costituita dall'intera azienda (Cass. 16 gennaio 1984, n.
354).
I magazzini e i luoghi di deposito devono considerarsi unità produttive ogni
qualvolta vi sia preposto un capo-deposito, iscritto alla locale Camera di com-
mercio fra gli imprenditori, il quale abbia supremazia disciplinare ed organizza-
tiva sui dipendenti piazzisti e svolga l'attività aziendale con larga autonomia
operativa (Cass. 18 dicembre 1982, n. 7007).
2.1.3. Dimensioni aziendali e calcolo del personale secondo la
Circolare n. 3/2013 del Ministero del Lavoro
Il Ministero del Lavoro nella Circolare n. 3 del 16 gennaio 2013 ha segnalato
che la giurisprudenza è uniforme nell’affermare, riguardo all’onere della prova
sul numero dei dipendenti che determina limitazioni alla facoltà di recesso, che
grava sul datore di lavoro l'onere di eccepire e provare l'inesistenza del re-
quisito occupazionale (Cass. 19 gennaio 2012, n. 755; Cass., Sez. Un., 10 gen-
naio 2006, n. 141); tenendo altresì conto del fatto che tale presupposto, concer-
nendo le dimensioni occupazionali dell'impresa, con riferimento alle eventuali
articolazioni organizzative e alla distribuzione su territori diversi, riguarda con-
notazioni proprie dell'imprenditore e perciò, sicuramente rientranti nella sua
consapevolezza, ma non altrettanto sicuramente conosciute e percepibili dal la-
voratore dipendente (Cass. 22 gennaio 1999, n. 613).
A proposito di dimensioni aziendali, peraltro, la stessa Circolare n. 3/2013 chia-
risce, che «il calcolo della base numerica deve essere effettuato non già nel
momento in cui avviene il licenziamento, ma avendo quale parametro di riferi-
mento la c.d. "normale occupazione" nel periodo antecedente (gli ultimi 6 me-
si), senza tener conto di temporanee contrazioni di personale».
Il Ministero precisa ulteriormente che in quelle aziende in cui, «per motivi di
mercato o di attività svolta in periodi predeterminati», l’occupazione risulta
«fluttuante», si possono seguire le indicazioni giurisprudenziali che variano dal
concetto di «media» a quello di «normalità della forza lavoro riferita all'orga-
nico necessario in quello specifico momento dell'anno».
Per il computo occorre fare riferimento al numero dei dipendenti normalmente
occupati in modo continuativo, compresi gli assenti per malattia, infortunio, ma-
ternità. La determinazione del numero va operata secondo le esigenze medie,
normali, complessive dell'azienda nel corso del periodo del lavoro del dipenden-
te licenziato, per cui nel numero medio degli occupati nell'impresa devono esse-
re considerati i lavoratori assenti durante più o meno lunghi intervalli di tempo
per malattia, in quanto stabilmente inseriti nell'organizzazione imprenditoriale,
non possono, invece, essere compresi nel computo i lavoratori assunti per con-
tingenti necessità stagionali, le persone che prestano la loro attività solo saltua-
riamente ed occasionalmente (Cass. 14 ottobre 2011, n. 21280; Cass. 20 ottobre
1983, n. 6165). Si deve tener conto non solo dei lavoratori occupati all'interno
dell'impresa, ma anche di quelli esterni che, adibiti a lavori da svolgersi, per lo-
ro natura, fuori dell'unità produttiva, ad essa facciano capo per riceverne diretti-
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ve e controlli e per rendere conto della attività svolta, nonché dei dipendenti as-
senti per malattia od altra causa, con esclusione dei lavoratori temporaneamente
impiegati in sostituzione di quelli assenti (Cass. 21 giugno 1980, n. 3922). Non
sussistono dubbi circa l’esigenza di considerare l’intera forza lavoro occupata in
azienda, a prescindere dalla circostanza che una parte dei lavoratori siano as-
soggettati a differenti trattamenti normativi, retributivi e previdenziali: la giuri-
sprudenza sul punto ha già chiarito che se l’impresa svolge attività distinte, deve
tenersi necessariamente conto del numero complessivo dei lavoratori occupati
nello stesso Comune con riguardo a tutti i settori di attività, perché tutti riferibili
allo stesso datore di lavoro (Cass. 29 gennaio 1997, n. 879; Cass. 19 dicembre
1991, n. 13719).
Un’altra importante puntualizzazione operata dalla Circolare n. 3/2013, in meri-
to alle modalità di computo del personale, attiene al chiarimento secondo cui le
previsioni riferite espressamente dalla legge n. 92/2012 ai soli lavoratori a tem-
po parziale, da calcolarsi "pro-quota" in relazione all'orario pieno contrattuale,
devono intendersi riguardanti anche i lavoratori occupati con forme di lavoro
flessibili per modulazione di orario. Il Ministero afferma infatti che le indica-
zioni sul part-time devono estendersi anche ai lavoratori intermittenti e a quelli
in lavoro ripartito, che devono quindi essere «computati complessivamente in
relazione all'orario svolto e che vanno considerati come un'unità allorquando
l'orario complessivo coincida con il tempo pieno».
Non tutti i lavoratori, peraltro, sono da computare nell’organico aziendale.
La Circolare n. 3/2013 elenca espressamente le tipologie contrattuali che, in
conseguenza di specifiche disposizioni legislative, non sono computabili nel
novero dell’organico aziendale al fine di determinare la soglia di insorgenza
dell’obbligo di conciliazione preventiva:
a) assunti con rapporto di apprendistato;
b) assunti con contratto di inserimento, fino a quando il contratto risulterà
operativo;
c) assunti con contratto di reinserimento;
d) assunti già impiegati in lavori socialmente utili o di pubblica utilità;
e) lavoratori somministrati (che non rientrano nell'organico dell'utilizzatore).
Inoltre, in base alle previsioni dell’art. 18, comma 9, della legge n.
300/1970, non si computano il coniuge e i parenti del datore di lavoro en-
tro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale.
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In base all’art. 2120 cod. civ. la nozione di retribuzione utile ai fini del TFR concerne la
natura e la tipologia degli emolumenti da prendere in considerazione, escludendo
soltanto quelle erogazioni che hanno natura sporadica ed occasionale, conseguenti a
condizioni peculiari dell’azienda non prevedibili o del tutto fortuite.
Rientrano, pertanto, nella retribuzione utile ai fini del TFR gli emolumenti derivanti da
situazioni connesse al rapporto di lavoro come pure alle caratteristiche della
organizzazione del lavoro (Cass. 19 giugno 2004, n. 11448) ovvero che dipendono
strettamente dalle mansioni svolte in maniera stabile dal lavoratore (Cass. 14 giugno
2005, n. 12778). Non è richiesto che l’emolumento sia definitivo, essendo sufficiente che
il lavoratore ne sia stato destinatario in modo del tutto normale durante il rapporto di
lavoro, a prescindere dal tempo nel quale il compenso è stato percepito (Cass. 25
novembre 2005, n. 24875).
Alla luce di tali considerazioni nella retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR vanno
ricompresi tutti i compensi con carattere continuativo, che trovano nel rapporto di lavoro
la causa tipica: minimo contrattuale, indennità di contingenza, elemento distinto della
retribuzione, superminimi, scatti di anzianità, mensilità aggiuntive.
La giurisprudenza ha inoltre considerato elementi integranti della retribuzione ai fini del
calcolo del TFR, fra gli altri:
- l’indennità sostitutiva del preavviso (Cass. 22.2.1993, n. 2144);
- i premi di produzione benché variabili (Cass. 21.8.1987, n. 6986);
il compenso per tempo di viaggio o casa–lavoro (Trib. Milano 8.6.1986);
- l’indennità per il lavoro notturno ed il compenso per turni avvicendati (Cass. S.U.
24.2.1986, n. 1102; Cass. 5.11.1986, n. 6472; Cass. 5.12.1985, n. 6115);
- l’indennità sostitutiva di ferie e festività (Cass. 8.6.2005, n. 11936);
- i compensi percepiti per lavoro straordinario prestato con frequenza in base alla
particolare organizzazione del lavoro (Cass. 5.2.1994, n. 1002);
- il valore d’uso dell’autovettura (Cass. 15.11.2002, n. 16129);
- l’equivalente dei canoni di locazione dell’abitazione concessa in uso in via continuativa
ed il rimborso delle spese telefoniche private (Cass. 22.6.2004, n. 11644).
Esempi di contratti collettivi che elencano i compensi utili ai fini del calcolo del TFR:
ALIMENTARI: minimo contrattuale, ex indennità di contingenza, aumenti periodici di
anzianità e scatti consolidati, aumenti di merito e/o superminimi, premio di produzione,
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stesso regime sanzionatorio trova applicazione anche nei confronti del licen-
ziamento che sia dichiarato inefficace perché intimato in forma orale anzi-
ché scritta.
In conseguenza dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro deve inten-
dersi risolto se il lavoratore non ha ripreso servizio entro 30 giorni dall’invito
del datore di lavoro, salvo che il lavoratore, chieda al datore di lavoro (in sosti-
tuzione della reintegrazione) la corresponsione di una indennità pari a 15
mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (non assoggettata a contri-
buzione previdenziale), fermo restando il diritto al risarcimento del danno (in-
dennità che non può essere inferiore a 5 mensilità, commisurata all’ultima retri-
buzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento fino a quello del-
la reintegrazione, diminuita di quanto percepito per lo svolgimento di altre atti-
vità lavorative nel periodo di illegittima estromissione dal rapporto di lavoro).
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5.1.Tutela obbligatoria
Il primo comma dell’art. 3 del D.Lgs. n. 23/2015 regola la tutela obbligatoria,
prevedendo che nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del
licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa
(licenziamento disciplinare), il giudice deve dichiarare estinto il rapporto di
lavoro alla data del licenziamento e condannare il datore di lavoro al pagamento
di una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari
a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per
ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore
a 24 mensilità.
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fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e si
esaurisce nell'accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere
condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione
della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi quale fatto
materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della
reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione
rispetto alla gravità del comportamento addebitato».
La nuova formulazione, dunque, fa venire meno l’occasione di pronunce
giurisprudenziali come quella contenuta nella ordinanza del Tribunale di
Bologna del 15 ottobre 2012 che ha ritenuto illegittimo il licenziamento
disciplinare intimato ad un lavoratore ordinando la reintegrazione pure a fronte
della dimostrata sussistenza del fatto materiale contestato. Nella pronuncia
menzionata, infatti, si è affermato che l'art. 18 della legge n. 300/1970, pur
prevedendo espressamente la reintegra soltanto in caso di «insussistenza del
fatto contestato», invero parlando di “fatto” fa necessariamente riferimento al
“fatto giuridico” inteso come “il fatto globalmente accertato, nell'unicum della
sua componente oggettiva e nella sua componente inerente l'elemento
soggettivo”. Sul punto, peraltro, l’ordinanza del giudice del lavoro di Bologna
insiste sottolineando come non sia possibile ritenere «che l'espressione
“insussistenza del fatto contestato” utilizzata dal legislatore facesse riferimento
al solo fatto materiale, posto che tale interpretazione sarebbe palesemente in
violazione dei principi generali dell'ordinamento civilistico, relativi alla
diligenza e alla buona fede nell'esecuzione del rapporto lavorativo, posto che
potrebbe giungere a ritenere applicabile la sanzione del licenziamento
indennizzato, anche a comportamenti esistenti sotto l'aspetto materiale ed
oggettivo, ma privi dell'elemento psicologico, o addirittura privi dell'elemento
della coscienza e volontà dell'azione». A tal fine si precisa che «la
qualificazione e la valutazione di tale fatto, come di qualunque fatto storico,
richiede la contestualizzazione del fatto medesimo e la sua collocazione nel
tempo, nello spazio, nella situazione psicologica dei soggetti operanti, nonché
nella sequenza degli avvenimenti e nelle condotte degli altri soggetti che hanno
avuto un ruolo nel fatto storico in esame».
D’altra parte, nel nuovo scenario regolatorio disegnato dall’art. 3 del D.Lgs. n.
23/2015, il fatto materiale non è indicizzato rispetto ai profili di gravità o di
proporzionalità, né collegato a ipotesi previste dalla contrattazione collettiva,
escludendo, quindi, ogni valutazione discrezionale del giudice anche in merito
alla sproporzione del licenziamento rispetto alla effettiva gravità del fatto
contestato (sebbene un margine di operatività, anche sul piano sanzionatorio,
sebbene indiretto, venga mantenuto dai contratti collettivi, in quanto
l’applicazione integrale della parte normativa dei contratti collettivi è
condizione essenziale, fra l’altro, per la fruizione delle agevolazioni e degli
incentivi in materia contributiva e non solo; più difficile, invece, ma non
esclusa, appare la possibile azionabilità della lesione diretta dei diritti del
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relazione alle mansioni suddette, senza che il recedente debba fornire la prova
di non aver potuto adibire il lavoratore ad altro posto nell'azienda, anche con
mutamento di mansioni, essendo tale prova necessaria solo quando
l'impedimento non sia addebitabile al lavoratore (Cass. 6 giugno 2005, n.
11753, per il caso di licenziamento di due dipendenti ai quali era stato ritirato il
tesserino di accesso all'area aeroportuale in seguito a denuncia in flagranza per
tentato furto di bagagli).
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Opera:
- in quanto manca la giu-
sta causa o il giustificato
motivo soggettivo;
- per l’insussistenza dei
fatti contestati;
- perché il fatto rientra
tra le condotte punibili
con sanzione conservati-
va secondo i contratti
collettivi o i codici disci-
plinari.
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6. LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO
PER VIZI FORMALI E PROCEDURALI
Se il licenziamento è intimato con violazione del requisito di motivazione di
cui all’art. 2, comma 2, della legge n. 604/1966 (perché la comunicazione del li-
cenziamento risulta priva della specificazione dei motivi che lo hanno deter-
minato) ovvero della procedura di cui all’art. 7 della legge n. 300/1970 (per-
ché non sono state rispettate le regole del procedimento disciplinare), in base
all’art. 4 del D.Lgs. n. 23/2015 il giudice dichiara estinto il rapporto di lavo-
ro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento
di una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pa-
ri a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR
per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non supe-
riore a 12 mensilità, salvo che il giudice, in base ai contenuti della domanda
del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tu-
tele di cui agli articoli 2 e 3, ritenendo il licenziamento discriminatorio, nullo,
inefficace o ingiustificato ovvero (solo per giusta causa e per giustificato motivo
soggettivo) fondato su un fatto materiale insussistente.
Anche qui l’indennità risarcitoria rientra nello schema delle “tutele crescenti”
per la maggiorazione progressiva, in misura predeterminata, in conseguenza
della crescente anzianità di servizio, a partire sempre dal terzo anno, primo sca-
glione superiore al minimo inderogabile. Pure confermando la misura massima
della indennità, nella misura minima il D.Lgs. n. 23/2015 riduce di due terzi
quella prevista dall’art. 18 della legge n. 300/1970, escludendo ogni discrezio-
nalità del giudice riguardo alle operazioni di calcolo.
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7. LICENZIAMENTO COLLETTIVO
Nell’art. 10 del D.Lgs. n. 23/2015 è contenuta la disciplina delle conseguenze
del licenziamento collettivo (articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991) illegittimo
o inefficace, nella medesima prospettiva della revisione del sistema sanzionato-
rio per i licenziamenti individuali, vale a dire nel senso di una riduzione
dell’area della tutela reale (ossia della reintegrazione) e, contestualmente, di un
ampliamento dell’area della tutela obbligatoria (indennità risarcitoria).
La norma prevede l’applicazione del regime sanzionatorio introdotto con l’art. 2
(tutela reale piena) nel solo caso in cui il licenziamento sia stato intimato senza
l’osservanza della forma scritta e l’applicazione dell’art. 3, comma 1 (tutela
obbligatoria piena), con il riconoscimento della sola indennità risarcitoria pro-
gressiva in base all’anzianità di servizio dei singoli lavoratori licenziati, nel caso
di violazione delle disposizioni relative alla procedura sindacale (art. 4, comma
12, della legge n. 223/1991) e ai criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (art.
5, comma 1, della legge n. 223/1991).
D’altro canto, va sottolineato che nel caso in cui la procedura di licenziamento
collettivo coinvolga lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore del
D.Lgs. n. 23/2015 e lavoratori assunti successivamente, il trattamento riserva-
to a ciascuna categoria di lavoratori sarà differente, essendo i primi vincolati al
regime sanzionatorio pregresso e i secondi a quello delle “tutele crescenti”, con
la sola eccezione del datore di lavoro che abbia superato la soglia dimensionale
per l’accesso alla procedura di licenziamento collettivo a seguito di assunzioni
successive al 7 marzo 2015, vale a dire all’entrata in vigore del D.Lgs. n.
23/2015, giacché in tal caso le nuove norme sanzionatorie disciplinerebbero le
vicende di tutti i lavoratori licenziati collettivamente.
Più precisamente l’art. 10 del D.Lgs. n. 23/2015 disciplina le seguenti due di-
stinte fattispecie sanzionatorie:
licenziamento privo di forma scritta: per effetto dell’art. 2, comma 1, il giudi-
ce, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento, ordina al
datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipenden-
temente dal motivo formalmente addotto. In ragione dell’ordine di reintegrazio-
ne, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non ha ripreso
servizio entro 30 giorni dall’invito formulato dal datore di lavoro, salvo che il
lavoratore richieda l’indennità sostitutiva prevista (art. 2, comma 3, del D.Lgs.
n. 23/2015). Il secondo comma stabilisce che il giudice condanna altresì il dato-
re di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento
di cui è stata accertata la nullità, stabilendo una indennità commisurata
all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rap-
porto (art. 2120, comma 2, cod. civ.). L’indennità risarcitoria deve tener conto
della retribuzione di riferimento, appunto, maturata dal giorno del licenziamento
fino a quello della effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel perio-
do di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative (aliunde per-
ceptum). In ogni caso il risarcimento non potrà essere inferiore a 5 mensilità
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ziamento sia inferiore a 10, il termine è ridotto a metà). L’esame congiunto non
potrebbe ritenersi avvenuto ove ai sindacati dei lavoratori non fosse stata data la
possibilità di discutere i contenuti della comunicazione dell'azienda ed even-
tualmente di chiedere chiarimenti su determinati aspetti di essa (Ministero del
Lavoro, Circolare n. 155/1991). Se si raggiunge un accordo il datore di lavoro
ne dà comunicazione scritta all’Ufficio compente; se nei 45 giorni (o nel termi-
ne dimezzato se sono interessati meno di 10 lavoratori) non si raggiunge l'ac-
cordo il datore di lavoro dà parimenti comunicazione scritta sul risultato della
consultazione e sui motivi dell'esito negativo in modo che ne risulti l'effettività
dell'esame congiunto.
L’Ufficio competente, ricevuta la comunicazione del mancato accordo, convoca
le parti per tentare la conciliazione della controversia, anche formulando pro-
poste per la realizzazione dell'accordo; la legge quindi attribuisce
all’Amministrazione un ruolo attivo e non puramente di conciliazione delle con-
trapposte istanze delle parti. La legge dispone che la procedura di conciliazione
di competenza dell'Amministrazione deve esaurirsi entro 30 giorni (15 se sono
interessati meno di 10 lavoratori) dalla comunicazione del datore di lavoro (art.
4, comma 7, legge n. 223/1991).
Trascorsi i 30 giorni (o i 15), il datore di lavoro riprende la propria libertà di
azione e può legittimamente intimare il recesso ai lavoratori eccedentari (art. 4,
comma 9), e ciò non deve essere inteso nel senso che con l'inutile decorso del
termine si consumi la potestà di mediazione dell'Ufficio, ma soltanto che la con-
tinuazione della mediazione è rimessa alla disponibilità del datore di lavoro
(Circolare Ministero del Lavoro n. 155/1991). La facoltà di licenziare deve es-
sere esercitata per tutti i lavoratori assoggettati alla procedura nel termine di
120 giorni dalla sua conclusione, ovvero entro il diverso termine previsto
dall'accordo sindacale. L’art. 1, comma 44, della legge n. 92/2012 interviene per
modificare proprio la previsione contenuta nell’art. 4, comma 9 della legge n.
223/1991, sostituendo la dimensione temporale della comunicazione dei licen-
ziamenti intimati all’Ufficio regionale competente. Nel quadro normativo pre-
riforma, infatti, il datore di lavoro che intimava i licenziamenti ai lavoratori
coinvolti nella procedura, aveva l’obbligo di comunicare «contestualmente» alla
Amministrazione regionale e alle associazioni di categoria l’elenco dei lavorato-
ri licenziati collettivamente e collocati in mobilità, con espressa indicazione dei
dati identificativi anagrafici e quelli relativi all’inquadramento professionale di
ciascun lavoratore licenziato, accanto alla esplicazione puntuale delle modalità
con le quali sono stati operativamente applicati i criteri di scelta dei lavoratori.
La legge n. 92/2012 interviene, propriamente, a sostituire l’avverbio temporale
provvedendo ad inserire un termine più ampio per l’invio della comunicazione
all’Ufficio regionale e alle organizzazioni datoriali, stabilendo che essa debba
essere effettuata «entro sette giorni dalla comunicazione dei recessi». Tale pre-
visione si lascia apprezzare per una obiettiva semplificazione procedurale anche
con riferimento agli inevitabili dubbi operativi che sono scaturiti dalla scarsa
chiarezza e dall’incerto campo di applicazione del concetto di “contestualità”.
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datore di lavoro, salvo che richieda l’indennità sostitutiva di cui al novellato art.
18, comma 3, della legge n. 300/1970, secondo cui il lavoratore ha facoltà di
chiedere al datore di lavoro (entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito
della sentenza o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio se anterio-
re), in sostituzione della reintegrazione (fermo restando il risarcimento anzidet-
to), una indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto,
non assoggettata a contribuzione previdenziale, determinando la risoluzione del
rapporto di lavoro.
Il secondo periodo del terzo comma dell’art. 5 della legge n. 223/1991, nel testo
risultante dalla novella dell’art. 1, comma 46, della legge n. 92/2012, in caso di
violazione delle procedure previste dall’art. 4, comma 12, della legge n.
223/1991, si applica il regime di cui all’art. 18, comma 7, terzo periodo, della
legge n. 300/1970, come novellato dalla legge n. 92/2012. Ne consegue che il
giudice applica la disciplina di cui all’art. 18, comma 5, della legge n. 300/1970
per cui dichiara risolto il rapporto di lavoro (con effetto dalla data del licenzia-
mento), ma condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcito-
ria onnicomprensiva determinata tra un minimo di sei e un massimo di dodici
mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Qui la riforma sembra inter-
venire in maniera importate sul regime sanzionatorio dei licenziamenti collettivi
che attualmente, nei casi di vizi procedurali rispetto alle disposizioni contenute
nell’art. 4 della legge n. 223/1991, sono ritenuti inefficaci e determinano la im-
mediata reintegrazione del lavoratore licenziato.
Permane il regime di tutela più forte, in base al terzo periodo del novellato art.
5, comma 3, della legge n. 223/1991, se vi è stata violazione dei criteri di scel-
ta, dovendosi applicare il regime di cui all’art. 18, comma 4, della legge n.
300/1970, come novellato dall’art. 1, comma 42, lett. b), della legge n. 92/2012.
In tale circostanza, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di la-
voro alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di una indennità ri-
sarcitoria, commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del li-
cenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione – dedotto l’aliunde per-
ceptum ed anche quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi “con diligenza”
alla ricerca di una nuova occupazione –, nella misura massima di 12 mensilità.
Ma anche qui la riforma incide in maniera rilevante sull’effettività della misura
risarcitoria giacché scompare il limite minimo delle 5 mensilità, oggi vigente, e
si pone un limite massimo di 12 mensilità.
Più fumoso, invece, appare il tentativo di ridurre l’ammontare quantificato de-
curtando quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire, mancando qualsiasi pa-
rametro oggettivo di riferimento per operare un calcolo attendibile e non total-
mente discrezionale e arbitrario. Il datore di lavoro è comunque condannato an-
che al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per lo stesso perio-
do, «maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di san-
zioni per omessa o ritardata contribuzione», seppure con riguardo ad un impor-
to inferiore a quanto sarebbe stato dovuto in costanza di rapporto di lavoro, fa-
cendo riferimento la legge n. 92/2012 alla differenza contributiva derivante dal
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rapporto fra la contribuzione che sarebbe maturata nel rapporto cessato per li-
cenziamento e quella effettivamente accreditata al lavoratore per lo svolgimento
di altre attività lavorative durante il periodo di estromissione (se questi ultimi
contributi sono stati versati in una altra gestione previdenziale, vengono imputa-
ti d’ufficio alla gestione previdenziale di provenienza del lavoratore licenziato,
con addebito dei costi procedurali al datore di lavoro).
Dopo l’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende comunque risol-
to se il lavoratore non ha ripreso servizio entro 30 giorni dall’invito ovvero non
abbia formulato richiesta della indennità sostitutiva della reintegrazione di cui si
è detto (art. 18, comma 3, legge n. 300/1970).
Con riferimento al licenziamento collettivo dei dirigenti la legge n. 161/2014 ha
previsto che qualora siano violate le procedure o i criteri di scelta, il datore di
lavoro debba corrispondere al dirigente illegittimamente licenziato di una in-
dennità risarcitoria compresa tra 12 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione glo-
bale di fatto, determinata dal giudice in base alla natura e alla gravità della vio-
lazione, fatte salve specifiche differenti previsioni fissate dai contratti collettivi.
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8. OFFERTA DI CONCILIAZIONE
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sa per conoscenza al lavoratore sempre a cura del datore di lavoro (art. 7, com-
ma 1, legge n. 604/1966), al fine di attivare un apposito tentativo obbligatorio di
conciliazione. Con riferimento specifico alla competenza della DTL, la Circola-
re del Ministero del Lavoro n. 3 del 16 gennaio 2013 sottolinea come «la pro-
cedura compositoria in questione si può svolgere soltanto davanti la Commis-
sione di conciliazione istituita presso la Direzione territoriale del lavoro», sot-
tolineando come la scelta esclusiva operata dalla legge n. 92/2012 trovi fonda-
mento nella composizione della Commissione provinciale di cui all’art. 410
cod. proc. civ., dopo la riforma operata dalla legge n. 183/2010, vale a dire il
suo essere «espressione delle Organizzazioni datoriali e sindacali maggiormen-
te rappresentative a livello territoriale», caratterizzazione che viene assicurata
anche quando l’Organo conciliativo opera in Sottocommissioni «composte da
un rappresentante di parte datoriale, da uno di parte sindacale e da un funzio-
nario della DTL delegato dal proprio dirigente». D’altro canto, la stessa circo-
lare ministeriale evidenzia come, a differenza di quanto previsto dall'art. 413
cod. proc. civ., «il nuovo art. 7 della legge n. 604/1966 individua attraverso il
solo luogo di svolgimento dell'attività del dipendente» la DTL esclusivamente
competente per ragioni territoriali.
8.4.1. Campo di applicazione
L’obbligo di conciliazione riguarda esclusivamente il licenziamento per giusti-
ficato motivo oggettivo disposto da un datore di lavoro che in ciascuna sede
occupa alle sue dipendenze più di 15 lavoratori (più di 5 se imprenditore agri-
colo) o che nell’ambito dello stesso Comune occupa più di 15 dipendenti (se
impresa agricola più di 5 dipendenti nel medesimo ambito territoriale) ovvero
che occupa più di 60 dipendenti complessivamente. Il Trib. Milano, con ordi-
nanza del 16 ottobre 2014 ha stabilito che «qualora l’intenzione del datore, cir-
ca la necessità di riorganizzazione, riguarda più di quattro dipendenti nell’arco
di 120 giorni, la procedura di conciliazione deve cedere obbligatoriamente il
passo alla specifica procedura collettiva prevista per i casi di riduzione di per-
sonale individuata dagli articoli 4, 5, 16 e 24 della legge n. 223/1991 (ciò an-
che se il numero dei licenziamenti risulti inferiore alle cinque unità all’esito
della proceduta).».Rispetto alle categorie dei datori di lavoro soggetti
all’obbligo di attivare la procedura di conciliazione presso la Direzione territo-
riale del lavoro competente il Ministero del Lavoro è intervenuto con la risposta
ad Interpello n. 27 del 20 settembre 2013 per affermare esplicitamente che la di-
sposizione si anche quando il datore di lavoro che procede al licenziamento per
giustificato motivo oggettivo è una Agenzia per il lavoro autorizzata alla som-
ministrazione di lavoro, se sussistono i requisiti dimensionali e si tratta di licen-
ziamento «nei confronti dei dipendenti dell’agenzia assunti a tempo indetermi-
nato, siano essi alle dirette dipendenze dell’agenzia o inviati in missione
nell’ambito di un contratto di somministrazione».
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consegnata a mano con ricezione attestata da una firma sulla copia». Come
chiarito dal Ministero, «la procedura pone un intervallo temporale tra il mo-
mento in cui il datore di lavoro manifesta la propria volontà di recedere dal
rapporto - comunicata al lavoratore interessato - e quello nel quale il licenzia-
mento esplica i propri effetti» e secondo le indicazioni ministeriali proprio que-
sto stacco temporale potrebbe acquisire «una propria "utilità" in quanto con-
sente alle parti di confrontarsi presso una sede che offre garanzie di terzietà e
di trovare soluzioni alternative al licenziamento».
Soltanto con la comunicazione obbligatoria avanzata dal datore di lavoro alla
DTL e per conoscenza al lavoratore può e deve attivarsi la Commissione o la
sottocommissione di conciliazione.
Peraltro la comunicazione datoriale deve necessariamente contenere una serie di
elementi essenziali: la espressa dichiarazione dell’intenzione di procedere al li-
cenziamento per motivo oggettivo, l’individuazione del lavoratore da licenziare,
l’indicazione dei motivi del licenziamento, la specificazione delle eventuali mi-
sure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato (art. 7, comma 2,
legge n. 604/1966).
La modalità con la quale la legge caratterizza i contenuti della comunicazione
preventiva del datore di lavoro fa ragionevolmente supporre che laddove
l’informativa datoriale risulti gravemente incompleta, perché priva di ta-
luno degli elementi essenziali espressamente richiesti dalla legge e sopra ri-
chiamati, la Direzione territoriale del lavoro non potrà ritenersi obbligata ad av-
viare il tentativo obbligatorio di conciliazione, giacché il termine perentorio dei
7 giorni entro i quali procedere a convocare lavoratore e datore di lavoro può
decorrere soltanto a far data dalla ricezione di una comunicazione completa di
tutti i suoi elementi caratterizzanti.
Non così, invece, nel caso in cui la comunicazione risulti completa di tutti i
suoi elementi ma non sia stata inviata al lavoratore da licenziarsi (cui deve
essere diretta per conoscenza), ma soltanto alla Direzione territoriale del lavoro.
In tal caso, in effetti, ove la Direzione territoriale del lavoro provveda all’atto
della convocazione del lavoratore ad enucleare dettagliatamente i contenuti che
formeranno oggetto del tentativo obbligatorio di conciliazione il lavoratore po-
trà dirsi senza meno soddisfatto riguardo all’esigenza di conoscere l’intenzione
del datore di lavoro e le motivazioni addotte dallo stesso per determinarsi al li-
cenziamento individuale. Diversamente anche in questa ipotesi la Direzione ter-
ritoriale del lavoro non potrà ritenersi obbligata a procedere se nella convoca-
zione delle parti non vengono fornite, neppure per estratto e sinteticamente, le
ragioni enucleate dal datore di lavoro nella comunicazione all’ufficio territoriale
del lavoro.
D’altro canto, con riguardo alle misure alternative di ricollocazione o di assi-
stenza alla ricollocazione il Ministero del Lavoro nella richiamata Circolare n.
3/2013 ha specificato quanto affermato dalla Suprema Corte (Cass. 23 marzo
2011, n. 6625) in merito alla circostanza che la proposta datoriale di accordo
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Due soltanto sono i momenti previsti dalla legge nei quali la procedura concilia-
tiva preventiva obbligatoria può subire una dilatazione dei termini:
- il primo è determinato dalla manifestazione di volontà delle parti di pro-
seguire le trattative per addivenire ad un utile accordo dinanzi alla
Commissione in data successiva, e non ha una limitazione temporale fis-
sata dalla legge;
- il secondo consiste nella rappresentazione documentata da parte del lavora-
tore di un legittimo impedimento a presenziare e a partecipare al tentativo
di conciliazione, ed è limitato ad un massimo di 15 giorni.
8.6.2. Accordo fra le parti per proseguire le trattative
La procedura può proseguire oltre il ventesimo giorno se entrambe le parti, “di
comune avviso”, dichiarino l’intenzione di proseguire la discussione al fine
di raggiungere un accordo (art. 7, comma 6, primi due periodi, legge n.
604/1966).
In tal caso la legge non prevede un limite temporale massimo entro il quale le
parti devono presentarsi dinanzi alla Commissione per raggiungere una intesa
ovvero per formalizzare il mancato raggiungimento di un accordo.
8.6.3. Impedimento del lavoratore
Riguardo alla durata della procedura, va precisato, peraltro, che in caso di legit-
timo e documentato impedimento del lavoratore a presenziare all’incontro pres-
so la DTL, la procedura può essere sospesa per un massimo di 15 giorni
(nuovo art. 7, comma 9, legge n. 604/1966). Secondo la Circolare n. 3/2013
l’impedimento del lavoratore può consistere «in uno stato di malattia ma anche
in un motivo diverso afferibile alla propria sfera familiare», e deve comunque
«trovare la propria giustificazione in una tutela prevista dalla legge (…) o dal
contratto».
Il motivo, secondo i chiarimenti del Ministero, deve essere comunicato dal lavo-
ratore alla Commissione o alla Sottocommissione davanti alla quale deve esple-
tarsi il tentativo di conciliazione “che, se lo ritiene valido, accorda la sospen-
sione per il tempo richiesto”.
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tori e dei datori di lavoro che vantano la maggiore rappresentatività a livello ter-
ritoriale.
Quanto alla identificazione della Commissione di conciliazione competente
territorialmente va altresì evidenziato che a differenza di quanto previsto
dall'art. 413 cod. proc. civ. per la ordinaria conciliazione facoltativa pregiudizia-
le, la conciliazione obbligatoria che precede il licenziamento radica la compe-
tenza dell’organo di conciliazione esclusivamente con riguardo al solo luogo di
svolgimento dell'attività lavorativa da parte del dipendente che si intende li-
cenziare.
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Pure a fronte della mancata esplicita previsione da parte della legge n. 92/2012
(la norma si limita ad affermare la possibilità di assistenza «da un componente
della rappresentanza sindacale dei lavoratori») si ritiene che il lavoratore possa
del tutto legittimamente affidare l’assistenza durante l’intera procedura di conci-
liazione obbligatoria ad un componente della rappresentanza sindacale azienda-
le o unitaria (R.S.A. o R.S.U.).
La Circolare n. 3/2013 precisa che «pur non escludendo che in linea di princi-
pio le parti possano delegare altre persone alla trattazione» dal dettato norma-
tivo sembra emergere «l'opportunità che i soggetti interessati siano tutti presen-
ti e, in particolar modo, il lavoratore», anche per consentire di esaminare «solu-
zioni alternative al licenziamento che possono essere diverse ed articolate”
emerse durante la discussione dinanzi all’Organo conciliativo.
Nel merito delle prospettive solutorie e mediatorie da contrapporre alla manife-
stata intenzione di procedere al licenziamento, la Circolare ministeriale n.
3/2013 offre una serie di esempi puntuali quali possibili soluzioni alternative al
licenziamento che i conciliatori potrebbero favorire nell’esame delle posizioni
di ambo le parti, pur «senza la necessità di una formalizzazione di una vera e
propria proposta conciliativa», come pure sottolinea il Ministero.
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Ne consegue che all’atto della cessazione del rapporto di lavoro in atto con un
proprio dipendente o collaboratore o tirocinante il datore di lavoro, quale che sia
la causa che ha determinato la cessazione, dovrà valutare se il rapporto di la-
voro è a tempo indeterminato ovvero se, trattandosi di contratto a termine,
la cessazione è avvenuta in data diversa da quella originariamente prevista
e già comunicata preventivamente all’atto dell’assunzione.
Una comunicazione che, dunque, da obbligatoria sic et simpliciter, come è stata
fino al 31 dicembre 2006, si trasforma in “eventuale” a seconda delle condizioni
contrattuali originarie e della coincidenza o meno della data di cessazione con
quella risultante fin dall’atto di assunzione. Soltanto in tali casi, infatti, il datore
di lavoro, ex post, sarà tenuto ad inviare al Centro per l’Impiego competente per
territorio, entro cinque giorni dal verificarsi dell’evento che ha comportato la
cessazione del rapporto di lavoro, mediante apposito modello, una comunica-
zione contenente i dati del lavoratore di cui è cessato il rapporto di lavoro, la ti-
pologia del rapporto stesso e la data di cessazione.
In questo senso si esprime, di fatto, lo stesso Ministero del Lavoro nella Nota
n. 4746 del 14 febbraio 2007, laddove annota:
[…] La comunicazione relativa alla cessazione del rapporto di lavoro va effettuata solo
nel caso di rapporto a tempo indeterminato oppure nei casi di risoluzione anticipata del
contratto a termine per qualsiasi causa (consensuale, recesso durante il periodo di
prova, dimissioni, licenziamento per giusta causa, ecc.). In caso di rapporto a tempo
determinato che si protrae oltre il termine inizialmente fissato dovrà essere effettuata
entro cinque giorni da tale data una comunicazione di proroga.[…].
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caso del contratto a tempo determinato che si prolunghi per prosecuzione di fat-
to (art. 5, commi 1 e 2, D.Lgs. n. 368/2001).
Il Ministero del Lavoro ha altresì specificato che la sezione in argomento del modu-
lo “Unificato Lav” deve essere compilata anche in occasione di eventi che compor-
tano la sospensione legale del rapporto di lavoro, facendo slittare il termine finale
dello stesso così come già comunicato al momento della instaurazione del rapporto
(l’esempio offerto è quello della malattia di lungo periodo).
Inoltre, è stato precisato anche che in caso di “cessazione anticipata di un la-
voratore distaccato o comandato il datore di lavoro dovrà re-inoltrare l’intera
comunicazione con l’indicazione del nuovo periodo”, dal tenore letterale della
Nota ministeriale si è portati a ritenere che il modulo “Unificato Lav” debba es-
sere compilato nuovamente con riferimento a tutti i dati del lavoratore che rien-
tra anticipatamente in azienda dopo l’esperienza del distacco, con indicazione
del nuovo periodo lavorativo. Infine, va rilevato che tutte le informazioni relati-
ve al rapporto di lavoro, come precisato dalla Nota del 21 dicembre 2007, si ri-
feriscono alla data di cessazione, ad eccezione dei campi “data inizio”, e “data
fine rapporto”.
Per quanto attiene all’apparato sanzionatorio, l’espresso richiamo dell’art. 19,
comma 3, del D.Lgs. n. 276/2003 all’art. 21, comma 1, della legge n. 264/1949,
nel testo modificato dall’art. 6, comma 3, del D.Lgs. n. 297/2002, fa sì che il da-
tore di lavoro inadempiente (o che adempie in ritardo o con indicazioni errate o
incomplete) venga assoggettato, per ogni lavoratore interessato, alla sanzione
pecuniaria amministrativa da 100 a 500 euro, che in misura ridotta è pari a
166,66 euro (art. 16 della legge n. 689/1981).
Per quel che concerne l’applicabilità della diffida obbligatoria (art. 13 D.Lgs.
n. 124/2004, come sostituito dall’art. 33 della legge n. 183/2010) alla sanzione
in materia di omessa comunicazione di cessazione, si segnala, sulla scorta delle
precisazioni fornite dalle Circolari ministeriali n. 9 del 23 marzo 2006 e n. 24
del 24 giugno 2004, che l’inosservanza in parola è da ritenersi senza dubbio sa-
nabile, trattandosi di adempimento omesso, in tutto o in parte, che può essere
materialmente realizzabile anche in conseguenza dell’accertamento ispettivo,
pure se la legge stabilisce un preciso termine (5 giorni) per l’effettuazione della
comunicazione. Da qui la possibilità per il datore di lavoro inadempiente che
regolarizza in ritardo ovvero che viene diffidato a regolarizzare e ottempera alla
diffida, di procedere col pagamento della sanzione in misura minima pari a 100
euro.
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Comunicazione di cessazione
COMUNICAZIONE DI CESSAZIONE
Illecito Sanzione
Art. 6, c. 3, D.Lgs. n. 23/2015 Art. 19, c. 3, D.Lgs. n. 276/2003
Per non aver comunicato al Centro per Sanzione amministrativa da euro 100 a
l’Impiego competente, entro 65 giorni dalla euro 500 per ogni lavoratore.
cessazione del rapporto di lavoro a tempo
indeterminato a seguito di licenziamento, Diffida (art. 13, D.Lgs. n. 124/2004,
l’essere avvenuta o non avvenuta come sost. da art. 33, legge n.
conciliazione a seguito dell’offerta 183/2010): sanzione pari a 100 euro per
conciliativa. ogni lavoratore
Sanzione ridotta (art. 16, legge n.
689/1981): è pari a 166,66 per ogni
lavoratore
Codice tributo (per versamento su
Mod. F23): 791 T
Art. 21, c. 1, legge n. 264/1949 come sost. Art. 19, c. 3, D.Lgs. n. 276/2003
dall’art. 6, c. 3, D.Lgs. n. 297/2002 Sanzione amministrativa da euro 100 a
Per non aver comunicato al Centro per euro 500 per ogni lavoratore.
l’Impiego competente, entro 5 giorni dalla
cessazione del rapporto di lavoro a tempo Diffida (art. 13, D.Lgs. n. 124/2004,
indeterminato ovvero di rapporto cessato in come sost. da art. 33, legge n.
data diversa da quella inizialmente 183/2010): sanzione pari a 100 euro per
comunicata, il nome e la qualifica dei ogni lavoratore
lavoratori di cui per qualunque motivo sia Sanzione ridotta (art. 16, legge n.
cessato il rapporto di lavoro. 689/1981): è pari a 166,66 per ogni
lavoratore
Codice tributo (per versamento su
Mod. F23): 791 T
Art. 10, c. 5, legge n,. 68/1999 - Art. 21 c. Art. 19, c. 3, D.Lgs. n. 276/2003
1, legge n. 264/1949 come sost. dall’art. 6, Sanzione amministrativa da euro 100 a
c. 3, D.Lgs. n. 297/2002 euro 500 per ogni lavoratore.
Per non aver comunicato al Centro per
l’Impiego competente, entro 10 giorni dalla Diffida (art. 13, D.Lgs. n. 124/2004,
cessazione del rapporto di lavoro a tempo come sost. da art. 33, legge n.
indeterminato ovvero di rapporto cessato in 183/2010): sanzione pari a 100 euro per
data diversa da quella inizialmente ogni lavoratore
comunicata, il nome e la qualifica del Sanzione ridotta (art. 16, legge n.
lavoratore disabile assunto 689/1981): è pari a 166,66 per ogni
obbligatoriamente di cui per qualunque lavoratore
motivo sia cessato il rapporto di lavoro. Codice tributo (per versamento su
Mod. F23): 791 T
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Agenzie di somministrazione
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sto riformato dall’art. 1 della legge 28 giugno 2012, n. 92, rappresenta uno dei
segmenti normativi di più complessa attuazione, anche a causa della pressoché
imprevedibile consistenza degli esiti contenziosi, anche con riguardo
all’indubbio incremento di oneri amministrativi a carico delle imprese. Il Mini-
stero del Lavoro è intervenuto a risolvere tempestivamente qualsiasi querelle in
ordine al contenzioso amministrativo relativo agli obblighi di comunicazione
della cessazione dei rapporti di lavoro, dettando, con la Lettera circolare n.
18273 del 12 ottobre 2012 chiare indicazioni sulle modalità di adempimento
delle comunicazioni obbligatorie a seguito di licenziamento individuale, ma an-
che dopo le dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale.
L’intervento ministeriale giunge a dirimere gravi complicanze operative deri-
vanti dalla riforma del mercato del lavoro in materia di comunicazioni obbliga-
torie della cessazione del rapporto di lavoro in occasione di licenziamenti, di-
missioni e risoluzioni consensuali.
La Lettera circolare n. 18273/2012 detta chiarimenti procedurali in ordine ai li-
cenziamenti individuali (per giustificato motivo oggettivo e disciplinari, ex art.
1, commi 40 e 41, della legge n. 92/2012) e in merito alle dimissioni e alle riso-
luzioni consensuali dei rapporti di lavoro (ex art. 4, commi 16-22), per chiarire
l’insorgenza dell’obbligo di comunicazione della cessazione del rapporto di la-
voro (di cui all’art. 21 della legge 29 aprile 1949, n. 264) in specie con riferi-
mento alla decorrenza dei 5 giorni entro i quali l’adempimento deve essere ef-
fettuato al fine di evitare l’irrogazione delle relative sanzioni pecuniarie ammi-
nistrative.
Anzitutto, a proposito di licenziamento individuale, va segnalato che l’art. 1,
comma 40, della legge n. 92/2012, infatti, sostituisce integralmente il testo
dell’art. 7 della legge n. 604/1966, per sancire che ai licenziamenti per giusta
causa e per giustificato motivo soggettivo si applica l’art. 7 della legge n.
300/1970, mentre al licenziamento per giustificato motivo oggettivo (art. 3, se-
conda parte, della legge n. 604/1966) – quando venga disposto da un datore di
lavoro che in ciascuna sede occupa alle sue dipendenze più di 15 lavoratori (più
di 5 se imprenditore agricolo) o che nell’ambito dello stesso Comune occupa
più di 15 dipendenti (se impresa agricola più di 5 dipendenti nel medesimo am-
bito territoriale) ovvero che occupa più di 60 dipendenti complessivamente –
deve essere necessariamente preceduto da una comunicazione effettuata dallo
stesso datore di lavoro alla Direzione territoriale del lavoro territorialmente
competente in ragione del luogo dove il lavoratore presta la sua attività, che de-
ve essere trasmessa per conoscenza al lavoratore sempre a cura del datore di la-
voro (nuovo art. 7, comma 1, legge n. 604/1966). Inoltre, per contrastare il fe-
nomeno confermato dalla prassi quotidiana, anche giurisprudenziale, secondo
cui appresa la notizia dell’intenzione del datore di lavoro di licenziarlo il lavora-
tore ben potrebbe avvalersi di condizioni soggettive a lui favorevoli che gli
permettano di procrastinare l’evento del recesso annunciato (si pensi ad esempio
all’insorgenza di una malattia), l’art. 1, comma 41, della legge n. 92/2012 pre-
vede che il licenziamento intimato all’esito del procedimento disciplinare di cui
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all’art. 7 della legge n. 300/1970 oppure di quello previsto all’art. 7 della legge
n. 604/1966, produce effetto «dal giorno della comunicazione con cui il proce-
dimento medesimo è stato avviato», fatto salvo l’eventuale diritto del lavoratore
al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva; si ha effetto sospensivo esclu-
sivamente in conseguenza delle norme a tutela della maternità e della paternità
(D.Lgs. n. 151/2001) ovvero a causa di impedimento derivante da infortunio oc-
corso sul lavoro; in ogni caso il periodo di eventuale lavoro svolto in costanza
della procedura si considera come preavviso lavorato (nuovo art. 7, comma 10,
legge n. 604/1966).
Su tale premessa la Lettera circolare n. 18273/2012 sancisce che per «esigenze
di certezza in ordine agli esiti delle procedure di licenziamento» la decorrenza
del termine per effettuare le comunicazioni obbligatorie di cessazione del rap-
porto mediante il Sistema delle Comunicazioni Obbligatorie va individuata, nel
dies a quo, con il giorno della definitiva risoluzione del rapporto di lavoro, sen-
za tener conto del fatto che la risoluzione in realtà ha efficacia anticipata, pro-
ducendo «effetti retroattivi» – secondo l’esplicita indicazione ministeriale – al
momento di avvio e quindi della comunicazione del procedimento che ha porta-
to alla risoluzione stessa.
Il Ministero afferma che gli «effetti retroattivi» non devono «incidere sui termi-
ni di effettuazione» della comunicazione obbligatoria al Centro per l’Impiego, in
quanto una interpretazione in senso contrario renderebbe inevitabile la successi-
va modifica delle comunicazioni di cessazione già effettuate, con un inutile ag-
gravio di oneri amministrativi a carico delle imprese e, più in generale, dei dato-
ri di lavoro, ma anche dei professionisti e delle associazioni di categoria che li
assistono ai sensi della legge n. 12/1979.
D’altro canto la stessa Lettera circolare n. 18273/2012 stabilisce espressamente
che nel modulo di invio della comunicazione di cessazione del rapporto di lavo-
ro deve essere indicata anche «la data a partire dalla quale si producono gli ef-
fetti del licenziamento», pur restando fermo che l’obbligo di comunicazione de-
ve essere adempiuto «dal momento in cui si risolve il rapporto» essendo soltan-
to quello il tempo nel quale «si ha certezza in ordine all’esito delle procedure di
licenziamento».
Con riguardo alla generalità delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali
del rapporto di lavoro (al di fuori delle ipotesi di gravidanza, adozione e affida-
mento) l’efficacia nei confronti della lavoratrice o del lavoratore è sospensiva-
mente condizionata alla convalida effettuata presso la Direzione Territoriale del
Lavoro o il Centro per l’Impiego territorialmente competenti, ovvero presso le
sedi individuate dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni
sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (art. 4,
comma 17, della legge n. 92/2012).
Quale misura alternativa, nel tentativo di semplificazione, l’efficacia delle di-
missioni ovvero della risoluzione consensuale è sospensivamente condizionata
alla sottoscrizione di una apposita dichiarazione della lavoratrice o del lavorato-
re (art. 4, comma 18, della legge n. 92/2012) apposta in calce alla ricevuta di
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tro il termine di 30 giorni dalla data delle dimissioni e della risoluzione consen-
suale, i medesimi atti si considerano definitivamente privi di effetto, la Lettera
circolare ministeriale n. 18273/2012 chiarisce che il ricordato termine di 30
giorni decorre giuridicamente dalla cessazione effettiva del rapporto di lavoro
(nell’esempio formulato dal Ministero dal 1° luglio), mentre resta naturalmente
possibile trasmettere l’invito «anche in data antecedente», allo scopo evidente
di dare con sollecitudine certezza alla risoluzione del rapporto di lavoro per la
quale vi è già una prima manifestazione di volontà da parte del lavoratore o del-
la lavoratrice.
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A seguito della introduzione del ricorso il processo del lavoro di primo grado
dinanzi al Tribunale si conclude con una sentenza impugnabile con ricorso in
appello motivato, il quale deve contenere, a pena di inammissibilità, l'indicazio-
ne delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che
vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo gra-
do (art. 434, comma 1, n. 1, cod. proc. civ.), nonché l'indicazione delle circo-
stanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della
decisione impugnata (art. 434, comma 1, n. 2, cod. proc. civ.). Nel ricorso di
appello, peraltro, non sono ammessi nuovi mezzi di prova, tranne il giuramento
estimatorio, salvo che il collegio, anche d'ufficio, li ritenga indispensabili ai fini
della decisione della causa (art. 437, comma 2, cod. proc. civ.).
Il secondo grado dinanzi alla Corte d’Appello si conclude con sentenza ricorri-
bile in Cassazione, oltre che per questioni di legittimità sulla competenza e sulla
giurisdizione (art. 360, comma 1, nn. 1 e 2, cod. proc. civ.), anche per violazio-
ne o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi na-
zionali di lavoro, (art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) o per nullità della
sentenza o del procedimento (art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.) ovvero
per l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza
risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito ogget-
to di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (art. 360, comma 1, n. 5,
cod. proc. civ., Cass., Sez. Un., 22 settembre 2014, n. 19881).
quale la decretazione delegata attuativa della legge delega di riforma del mercato
del lavoro procederà ad avviare la fase di superamento delle collaborazioni, ma nel
D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 22, recante disposizioni in materia di strumenti di sostegno
in caso di disoccupazione involontaria, in attuazione dell’art. 1, comma 2, lett. b),
della legge n. 183/2014, l’art. 16 introduce una specifica «indennità di
disoccupazione per i lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e
continuativa e a progetto» (DIS-COLL), riconosciuta ai collaboratori coordinati e
continuativi e a progetto, iscritti in via esclusiva alla Gestione separata, non
pensionati e privi di partita IVA, che abbiano perduto involontariamente la propria
occupazione, in relazione ai nuovi eventi di disoccupazione verificatisi a decorrere
dal 1° gennaio 2015 e fino al 31 dicembre 2015, con esplicita possibile estensione
agli anni successivi. Sopravvivenza che si deve riconoscere confermata nello sche-
ma di decreto delegato approvato dal Consiglio dei Ministri del 20 febbraio 2015
contenente il Testo organico delle tipologie contrattuali.
dei contributi è pari ad euro 500,00 mensili e nel corso del quarto mese (ad es.
dicembre), assume il valore di euro 900,00, il datore di lavoro potrà fruire
dell’esonero per l’intero ammontare dei contributi previdenziali del quarto me-
se, dal momento che l’eccedenza (€ 228,34 = 900,00-671,66) è inferiore rispetto
all’importo dell’esonero non fruito nei tre mesi precedenti (€ 514,98 = 171,66 x 3).
La Circolare Inps n. 17 del 29 gennaio 2015 chiarisce che l’esonero non può es-
sere superiore alla misura massima di 8.060,00 euro su base annua. In relazione
ai rapporti di lavoro part-time (di tipo orizzontale, verticale ovvero misto), la
misura della predetta soglia massima va adeguata in diminuzione sulla base del-
la durata dello specifico orario ridotto di lavoro in rapporto a quella ordinaria
stabilita da legge o contratti collettivi. Analoga operazione di adeguamento è da
effettuare in relazione ai contratti di lavoro ripartito in base alla durata effet-
tiva delle prestazioni rese dai lavoratori coobbligati in rapporto a quella ordina-
ria stabilita da legge o contratti collettivi.
Il Messaggio Inps n. 1144 del 13 febbraio 2015 ribadisce che in relazione ai
rapporti di lavoro part-time (di tipo orizzontale, verticale ovvero misto), la mi-
sura della predetta soglia massima va ridotta sulla base della durata dello speci-
fico orario ridotto di lavoro in rapporto a quella ordinaria stabilita dalla legge
ovvero dai contratti collettivi di lavoro. Analoga operazione di adeguamento è
da effettuare in relazione ai contratti di lavoro ripartito sulla base della durata
effettiva delle prestazioni rese da ognuno dei due lavoratori coobbligati, in rap-
porto a quella ordinaria stabilita dalla legge, ovvero dai contratti collettivi di la-
voro.
In ogni caso l’esonero non riguarda i premi e contributi dovuti all’Inail, la
Circolare Inps n. 17/2015 specifica meglio che l’esonero contributivo è pari ai
contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, con eccezione delle se-
guenti forme di contribuzione:
- i premi e i contributi dovuti all’Inail;
- il contributo, ove dovuto, al «fondo per l’erogazione ai lavoratori dipenden-
ti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all’art. 2120 del
cod. civ.» (commi 755-765 della legge n. 296/2006);
- il contributo, ove dovuto, ai fondi di cui all’art. 3, commi 3, 14 e 19, della
legge n. 92/2012.
L’esonero contributivo non spetta se il lavoratore è stato occupato a tempo
indeterminato nei 6 mesi precedenti presso qualsiasi datore di lavoro. La Cir-
colare Inps n. 17 del 29 gennaio 2015 precisa che il contratto di apprendistato
costituisce un rapporto a tempo indeterminato. Analoghe considerazioni valgo-
no nel caso in cui il lavoratore assunto abbia avuto un rapporto di lavoro a tem-
po indeterminato a scopo di somministrazione ovvero un rapporto di lavoro
domestico a tempo indeterminato. La sussistenza di un rapporto di lavoro in-
termittente a tempo indeterminato nell’arco dei sei mesi precedenti la data di as-
sunzione non costituisca condizione ostativa per il diritto all’esonero contributi-
vo triennale recato dalla norma in esame. Per avere contezza della precedente
assunzione a tempo indeterminato del lavoratore il datore di lavoro che inten-
Generale
Datori di La generalità dei datori di lavoro privati, anche non imprendito-
lavoro ri, anche datori di lavoro agricoli per impiegati, quadri, dirigenti.
Assunzioni Solo per i nuovi contratti di lavoro subordinato a tempo inde-
terminato stipulati dal 1° gennaio al 31 dicembre 2015. Riman-
gono in ogni caso esclusi i contratti di apprendistato e quelli di
lavoro domestico.
Beneficio L’esonero contributivo riguarda i soli contributi previdenziali a
carico dei datori di lavoro e interessa un arco temporale mas-
simo di 36 mesi per un importo complessivamente non superio-
re nel massimo a 8.060 euro su base annua. In ogni caso
l’esonero non riguarda i premi e contributi dovuti all’Inail.
Status dei L’esonero contributivo non spetta se:
lavoratori - il lavoratore è stato occupato a tempo indeterminato nei 6
mesi precedenti presso qualsiasi datore di lavoro;
- il lavoratore è stato occupato dallo stesso datore di lavoro o
da società controllate o collegate in un precedente rapporto di
lavoro a tempo indeterminato nei mesi da ottobre a dicembre
2014 (vale a dire nei 3 mesi precedenti l’entrata in vigore della
legge n. 190/2014);
- per il lavoratore per il quale il beneficio è stato usufruito in re-
lazione ad una precedente assunzione a tempo indeterminato
con lo stesso datore di lavoro (Circ. Inps n. 17/2015).
Divieto di L’esonero non è cumulabile con altri incentivi, sgravi, esoneri o
cumulo riduzioni previsti dalla normativa, fatte salve le eccezioni speci-
ficate nella Circ. Inps n. 17/2015.
Operai agricoli
Datori di la- La generalità dei datori di lavoro agricoli (si ritiene che in tale
voro categoria non siano comprese le industrie di trasformazione dei
prodotti agricoli o di allevamento) per gli operai.
Assunzioni Solo per i nuovi contratti di lavoro subordinato a tempo inde-
terminato stipulati dal 1° gennaio al 31 dicembre 2015.
Generale
Esclusi i contratti di apprendistato.
Beneficio L’esonero contributivo riguarda i soli contributi previdenziali a
carico dei datori di lavoro e interessa un arco temporale mas-
simo di 36 mesi per un importo complessivamente non superio-
re nel massimo a 8.060 euro su base annua. In ogni caso
l’esonero non riguarda i premi e contributi dovuti all’Inail.
Limite di E’ stabilito un tetto massimo di fruizione, a livello nazionale.
spesa In caso di risorse insufficienti, si procede secondo l’ordine cro-
nologico delle istanze.
Status dei L’esonero contributivo non spetta se il lavoratore è stato occu-
lavoratori pato nel 2014 presso qualsiasi datore di lavoro (anche non del
settore agricolo):
- a tempo indeterminato;
- a tempo determinato per almeno 250 giorni.
Divieto di L’esonero non è cumulabile con altri incentivi, sgravi, esoneri o
cumulo riduzioni previsti dalla normativa, fatte salve le eccezioni speci-
ficate nella Circ. Inps n. 17/2015.
(c.d. Legge di Stabilità 2015). I datori di lavoro aventi titolo all’esonero contri-
butivo in oggetto devono inoltrare all’Inps, prima della trasmissione della de-
nuncia contributiva del primo mese in cui si intende esporre l’esonero medesi-
mo, la richiesta di attribuzione del codice di autorizzazione “6Y”, avente il
significato di “Esonero contributivo articolo unico, commi 118 e seguenti, legge
n. 190/2014”. Detta richiesta andrà effettuata avvalendosi della funzionalità
“contatti” del cassetto previdenziale aziende, selezionando nel campo oggetto la
denominazione “esonero contributivo triennale legge n. 190/2014”, utilizzando
la seguente locuzione: “Richiedo l’attribuzione del codice di autorizzazione 6Y
ai fini della fruizione dell’esonero contributivo introdotto dalla legge n.
190/2014, art. 1, commi 118 e seguenti, come da Circolare n. 17/2015”. La sede
territorialmente competente attribuirà il predetto codice di autorizzazione alla
posizione contributiva interessata con validità 1.1.2015-31.12.2018, dandone
comunicazione al datore di lavoro attraverso il medesimo cassetto previdenzia-
le. Il controllo in ordine alla legittimità di fruizione dell’esonero contributivo in
oggetto sarà realizzato attraverso l’istituenda base dati “lavoratori agevolati”.
Va rispettata la soglia mensile indicata nella Circolare n. 17/2015 e ribadita dal
Messaggio n. 1144/2015. Nell’elemento <ImportoCorrIncentivo> nei flussi
UniEmens va indicato l’importo posto a conguaglio relativo al mese corren-
te, calcolato in base alla Circolare n. 17/2015. L’esonero riguarda la contribu-
zione previdenziale e assistenziale a carico del datore di lavoro, fatta eccezione
per la contribuzione al “fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del set-
tore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all’art. 2120 del cod. civ.” e ai
fondi di cui all’art. 3, commi 2, 14 e 19 delle legge n. 92/2012, fino al limite
della soglia massima mensile pari a euro 671,66 (€ 8.060,00/12). Per i rapporti
di lavoro instaurati ovvero risolti nel corso del mese, il massimale mensile va
ridotto proporzionalmente al numero dei giorni di lavoro, assumendo a riferi-
mento la misura giornaliera di esonero contributivo di euro 22,08.
Nell’elemento <ImportoArrIncentivo> dovrà essere indicato l’importo
dell’esonero contributivo relativo all’esonero contributivo dei mesi di compe-
tenza di gennaio e/o febbraio 2015. La valorizzazione del predetto elemento può
essere effettuata esclusivamente di competenza di febbraio 2015, relativamente
all’arretrato del precedente mese di gennaio, o di marzo 2015, relativamente
all’arretrato dei precedenti mesi di gennaio e/o febbraio.
Nell’ipotesi in cui, in un determinato mese, spetti un beneficio superiore alla
soglia massima mensile di € 671,66, l’eccedenza può essere esposta nel mese
corrente e nei mesi successivi e comunque rispettivamente entro il primo, il se-
condo e il terzo anno di durata del rapporto di lavoro, fermo restando il rispetto
della soglia massima di esonero contributivo alla data di esposizione in UniE-
mens. In tal senso nella denuncia relativa al mese di riferimento luglio, il datore
di lavoro deve indicare nell’elemento <ImportoCorrIncentivo> la somma di €
671,66, mentre la differenza fra l’importo dell’esonero spettante e la soglia
massima mensile è conguagliata in corrispondenza dell’elemento <ImportoA-
APPENDICE NORMATIVA
DECRETO LEGISLATIVO 4 MARZO 2015, N. 23
Art. 11 Art. 12
Rito applicabile Entrata in vigore