2
P. TOGLIATTI, La politica culturale, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1974,
p. 201.
3
B. CROCE, Taccuini di lavoro (1937-1943), Arte Tipografica, Napoli 1987, pp. 33-
34.
4
B. CROCE, Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900). Da
lettere e ricordi personali, «La Critica», 1938, pp. 35-52 e pp. 109-124. Poi in B. CROCE,
Materialismo storico ed economia marxistica, a cura di M. Rascaglia e S. Zoppi Garampi,
Bibliopolis, Napoli 2001, pp. 265-305.
5
B. CROCE, La morte del socialismo, in ID., Cultura e vita morale, a cura di M.A.
Frangipani, Bibliopolis, Napoli 1993, pp. 147-156.
6
B. CROCE, Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. 305.
3
come uomo di pensiero – scrisse – egli fu dei nostri, di quelli che nei primi decenni
del secolo in Italia attesero a formarsi una mente filosofica e storica adeguata ai problemi
7
Ivi, p. 118.
8
B. CROCE, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Roma-Bari 1977, p. 146.
9
Ivi, p. 152.
10
B. CROCE, Taccuini di lavoro (1946-1949), Arte Tipografica, Napoli 1987, p. 124.
4
del presente, tra i quali anch’io mi trovai come anziano verso i più giovani. […] Nel leg-
gere i suoi molti giudizi su uomini e libri, mi è accaduto di accettarli quasi tutti o forse
addirittura tutti11.
11
B. CROCE, recensione a A. GRAMSCI, Lettera dal carcere (Einaudi, Torino 1947),
«Quaderni della critica», 1947, fasc. 8, pp. 86-88.
12
Archivio Balbo.
13
P. TOGLIATTI, La politica culturale, cit., pp. 83-84.
14
Cfr. G. VACCA, Gramsci e Croce in Inghilterra, in ID., Togliatti sconosciuto,
L’Unità, Roma 1994, pp. 171-176.
5
15
A. LABRIOLA, Scritti filosofici e politici, a cura di F. Sbarberi, Einaudi, Torino 1973,
p. 675.
16
A. LABRIOLA, Carteggio. III. 1890-1895, a cura di S. Miccolis, Bibliopolis, Napoli
2003.
17
A. LABRIOLA, Scritti filosofici e politici, cit., p. 498.
18
Ivi, pp. 5-32.
19
Ivi, p. 583.
6
dell’uomo, e questo rinviava a una dialettica più originaria con la natura, con
uno sfondo indeterminato20. Nella riflessione sul marxismo, insomma, La-
briola ritrovava quello che era stato il problema di Spaventa, il problema del-
la genesi delle forme storiche, determinate, dall’indeterminato, che lo stesso
Spaventa aveva concepito come presupposto informe, come natura (meritan-
do per ciò la critica di Gentile). E nel terzo saggio il presupposto idealistico
della riflessione di Labriola emergeva con forza nella definizione del marxi-
smo come filosofia della praxis, passaggio fatale, come vedremo, nella storia
del marxismo italiano. La filosofia della praxis – scriveva – è «il midollo del
materialismo storico. Questa è la filosofia immanente alle cose su cui filoso-
feggia. Dalla vita al pensiero, e non già dal pensiero alla vita; ecco il proces-
so realistico»21. E la citazione continua, parlando del rovesciamento della
dialettica hegeliana, con accenti che sempre più riconducono a Vico e a Spa-
venta, fino alla battuta finale sulla storicizzazione integrale, dove non esiste
più un fatto «che non fu mai in fieri», e dove si parla di «creazione di conti-
nuo in atto». Fin dalla sua nascita, insomma, il marxismo italiano aveva me-
diato Marx con i tratti più caratteristici della filosofia nazionale, almeno co-
me erano emersi nel modello spaventiano della «circolazione» del pensiero
europeo.
4. È noto che, negli ultimi anni, Labriola lanciò vere e proprie invettive
contro Croce e Gentile. Il 2 gennaio 1904 (sarebbe morto il 2 febbraio dello
stesso anno) scriveva a Croce parole di fuoco su Gentile, definendolo «infa-
tuato», «presuntuoso», «pazzo». Ma anche Croce si rivelò per lui una delu-
sione, almeno dal momento in cui cominciò a interpretare la teoria del valore
come «paragone ellittico» (in una nota aggiunta al saggio su Loria) e, appog-
giandosi alle tesi della scuola austriaca, elaborò la categoria dell’utile o eco-
nomico: invece di storicizzare l’economia, obiettò Labriola, la aveva plato-
nizzata, alla maniera dei «tante casecavalle appise» di cui una volta gli ave-
va parlato un professore di filosofia al Liceo del Salvatore22. Però entrambi,
Croce e Gentile, si erano richiamati a Labriola, lo avevano a loro modo con-
tinuato, e senza dubbio ne avevano svolti alcuni concetti fondamentali.
La loro ripresa delle tesi di Labriola si rivelò decisiva per il successivo
svolgimento del marxismo italiano. Avvenne, per altro, in una maniera carat-
teristica. Nessuno dei due, come si sa, aveva alcuna simpatia politica per il
socialismo. Anzi entrambi ebbero, fino all’ascesa del fascismo al potere, un
rapporto debole con la dimensione politica. Quando istituirono un rapporto
autentico con la politica – Gentile nel 1922, Croce nel 1925 – le loro stesse
filosofie mutarono di aspetto, e, come è noto, si arrivò a una rottura completa
tra loro. Anche le momentanee simpatie di Croce per il socialismo (con le
visite a Londra a Eleanor Marx e le passeggiate napoletane con Karl Lie-
bknecht) vanno nettamente ridimensionate: il testo in cui Croce aveva
espresso, obliquamente, la sua ideologia politica, era stato la pubblicazione,
20
Ivi, pp. 618-619.
21
Ivi, p. 702.
22
B. CROCE, Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. 291.
7
nel 1897, degli scritti di Silvio Spaventa sul «Nazionale»23. In politica, Croce
era un seguace di Silvio Spaventa, non di Marx. Però, prima del pubblico
contrasto del 1913 sull’unità e le distinzioni dello spirito, questi studi sul
marxismo segnarono il momento di massima lontananza tra i due pensatori.
Anzi tutto per un serio motivo filosofico: per la diversa valutazione
dell’elemento economico, che per Croce indicava una forma dello spirito, un
momento insopprimibile della realtà, e per Gentile invece una astrazione, su-
bordinata alla volontà morale. Ma completamente diverso fu anche l’approc-
cio, il metodo, delle loro ricerche. Croce studiò a fondo l’economia classica,
era interessato al contributo del marxismo per la storia, e non diede alcun pe-
so alla filosofia di Marx, che, come è noto, definì un «condimento» poco op-
portuno. Gentile, al contrario, ignorò del tutto le teorie economiche di Marx
e si restrinse (è il caso di dirlo) alle Tesi su Feuerbach e a pochi o pochissimi
altri testi di Marx. I loro studi delinearono due diversi Marx e due diverse
immagini del marxismo; tuttavia erano due lati che trovavano nell’opera di
Labriola la loro origine. Labriola li aveva tenuti insieme, con molta fatica e a
volte poca coerenza; loro li divisero.
Certo, contro Labriola Croce negò che il marxismo fosse una «filosofia
della storia» e, più in generale, negò che costituisse una filosofia, una visione
del mondo, risolvendo tutto nella «precoltura hegeliana» del giovane Marx.
Eppure tutte le tesi fondamentali di Croce sul marxismo erano, dirò così, una
radicalizzazione, una estremizzazione, di posizioni che già Labriola aveva
sostenuto: anche la negazione della «filosofia della storia» estendeva la criti-
ca di Labriola a ogni determinismo e monismo; l’idea che il materialismo
storico fosse un «canone» per la ricerca storica riprendeva le parole che La-
briola aveva scritto nel secondo saggio, quando aveva parlato del marxismo
come «metodo di ricerca e di concezione»; la rilettura della teoria del valore
come «paragone ellittico» riprendeva anche essa una notazione di Labriola,
nel terzo saggio, sul valore come «premessa tipica», cioè come astrazione.
Insomma, Croce estremizzava e, certo, alterava e deformava le idee di La-
briola, ma in definitiva si muoveva in quella medesima direzione. Il punto su
cui veramente Croce si proiettava oltre la concezione di Labriola era un altro,
in fondo più sottile, e avrà conseguenze di rilievo nel successivo marxismo
italiano: Croce spezzava il rapporto tra materialismo storico e posizione poli-
tica del socialismo, dichiarava la inderivabilità, la indeducibilità, del pro-
gramma politico dall’analisi storica ed economica. Distingueva, insomma,
tra teoria e prassi. Qui portava alla luce un aspetto saliente di tutta la rifles-
sione del marxismo italiano. Cosa significa quella spezzatura? Significa che
il materialismo storico poteva offrire la diagnosi del mondo moderno, ma
non anche una teoria della soggettività politica. Tra l’uno e l’altro momento,
tra la «scienza» e l’«azione», c’era un salto: e quel salto richiedeva un altro
apparato analitico, una diversa strumentazione, uno sforzo teorico ben altri-
menti impegnativo. C’era qualcosa – la costruzione del soggetto politico –
che non si poteva chiedere a Marx. In fondo Gramsci imparerà anche questo
23
S. SPAVENTA, Dal 1848 al 1861. Lettere scritti documenti, a cura di B. Croce, La-
terza, Bari 19232.
8
24
G. GENTILE, Bertrando Spaventa, a cura di V.A. Bellezza, Le Lettere, Firenze 2001,
pp. 126-127.
25
Rinvio, per questo, a M. MUSTÈ, Gentile e Marx, «Giornale critico della filosofia
italiana», 2015, fasc. 1, pp. 15-27.
9
il marxismo era, nella sua radice ultima, uno storicismo umanistico fondato
sulla teoria vichiana del verum factum.
La riflessione di Mondolfo fu per molti versi fondamentale per la costitu-
zione di un paradigma italiano. Se si salta, c’è come un «anello mancante» in
questa storia. Molto più di quanto i documenti non dicano, ritengo che
Gramsci ne assimilò, nel periodo precarcerario, diversi aspetti. Mondolfo
portò Gentile nel marxismo italiano e superò l’alternativa tra riformismo po-
sitivistico e volontarismo soreliano. Questo fu il suo grande contributo. Il li-
mite della sua posizione emerse tutto nella polemica con Gramsci del 1919 e
nella critica del leninismo, che poi lo avvicinò a Turati. Non bisogna credere
che questa critica sorgesse improvvisa di fronte alle notizie che venivano
dalla Russia, era iscritta nella filosofia che aveva fin lì elaborata. Già nel
1913, nell’articolo su Socialismo e filosofia, Mondolfo aveva criticato un
marxismo che si fondasse sul partito politico messo «in scena quasi deus ex
machina»26. L’argomento a cui ricorse, di fronte alla rivoluzione d’ottobre,
fu quello della immaturità delle condizioni storiche russe, a cui oppose tutte
le citazioni possibili di Marx sulla necessità che la rivoluzione accadesse nei
punti alti del capitalismo. Ma il problema vero non era questo. In certo modo
Mondolfo si nascose dietro una visione gradualistica e necessitante del corso
storico che non era la sua. Il punto era un altro: che nella sua concezione del
marxismo, nella sua filosofia della praxis, non veniva assegnato alcun ruolo
al soggetto politico, in generale alla politica, e tanto meno si poneva il pro-
blema – che sarà essenziale in Gramsci – di una costituzione di quel soggetto
politico. Nell’azione reciproca del soggetto e dell’oggetto, dell’uomo e della
società, tutto accadeva come in un circolo necessario: e la critica di Eugenio
Garin nella Storia della filosofia italiana colpì nel segno sotto questo punto
di vista27. Nel marxismo di Mondolfo mancava la politica. E in fondo questo
difetto di politica ispirò la critica che rivolse a Gramsci in una serie di artico-
li che scrisse a partire dal 1955. Gramsci, spiegava, si era contraddetto tra la
filosofia della praxis e la teoria dell’egemonia, tra la visione innovativa della
praxis e l’adesione alla rivoluzione d’ottobre. L’una escludeva l’altra. O filo-
sofia della praxis o teoria dell’egemonia. Quella che Mondolfo chiamava
contraddizione indicava la sua stessa incapacità di cogliere la novità del pen-
siero di Gramsci, che nella filosofia della praxis cercava appunto le ragioni
costitutive dell’iniziativa politica.
26
R. MONDOLFO, Umanismo di Marx. Scritti filosofici 1908-1966, Einaudi, Torino
1975, p. 126.
27
E. GARIN, Storia della filosofia italiana, Einaudi, Torino 1978, pp. 1327-1329.
11
Mondolfo dava quasi per scontato che Marx, quando scriveva le Tesi su
Feuerbach, nel 1845, avesse letto Vico. Nel primo saggio, Labriola stesso
aveva affermato, più cautamente, che la concezione marxiana della storia era
stata trovata già da Vico, per il quale la provvidenza «opera come quella per-
suasione, che gli uomini hanno della esistenza sua»28. Ma questa tesi di una
continuità tra Marx e Vico non è nuova nella storia del marxismo: è un tema
ricorrente, per esempio, negli scritti di Paul Lafargue, che spesso riporta
Marx a Vico, e si ritrova, per fare un altro esempio, negli scritti vichiani di
Georges Sorel pubblicati sul «Devenir social». È una questione controversa,
non esistono prove decisive, ma forse non si può escludere del tutto che
Marx, scrivendo le Tesi, avesse presente Vico. Come è noto, Marx si era tra-
sferito a Parigi il 19 giugno del 1843 e rimase nella capitale francese fino al
1845, quando ne venne espulso e si trasferì a Bruxelles. In quel periodo era
di larga diffusione, in Francia, la traduzione di Jules Michelet della Scienza
nuova del 1827 (Principes de la philosophie de l’histoire) e nel 1835 usciva-
no il De antiquissima e l’Autobiografia. Le notizie dirette che abbiamo sui
rapporti tra Marx e Vico sono molto successive: le lettere a Lassalle e a En-
gels del 1862 e la famosa nota a pie’ pagina n. 89 del primo libro del Capita-
le, dunque del 1867. In entrambi i casi Marx utilizza la versione francese di
Cristina Trivulzio principessa di Belgioioso (di cui poteva conoscere anche il
saggio sulla formazione del dogma cattolico del 1842), apparsa per Jules Re-
nouard nel 1844. Anche questa edizione, dunque, precede la stesura delle Te-
si.
Secondo Fausto Nicolini, Marx non lesse Vico prima del 1850. E anche
Giovanni Mastroianni ha sostanzialmente escluso una conoscenza precoce
della Scienza nuova da parte di Marx29. Ma in fondo la domanda resta, il
dubbio non è sciolto del tutto. Lo ha riproposto recentemente Carlo Ginz-
burg30. Se le Tesi fossero state scritte sotto la suggestione di Vico, forse non
cambierebbe molto, ma il rapporto Marx-Vico, così centrale nel marxismo
italiano, si ribalterebbe in maniera suggestiva, aprendo nuove prospettive di
ricerca.
28
A. LABRIOLA, Scritti filosofici e politici, cit., p. 519.
29
G. MASTROIANNI, Marx e la Belgioioso, «Giornale critico della filosofia italiana»,
2012, pp. 406-426.
30
C. GINZBURG, Microhistory and World History, Cambridge University Press, Cam-
bridge 2015, pp. 446-473.
12
scritto31, non senza qualche ragione, che almeno fino al 1922 Marx sembra
«quasi un ostacolo» ed è considerato per molti aspetti «inutilizzabile». Di
Marx, Gramsci legge le edizioni Mongini a cura di Ettore Ciccotti e la sua
conoscenza accertata è ristretta al Manifesto e alla Sacra famiglia, a cui si
deve aggiungere l’Esposizione popolare di Engels, allora molto diffusa. Ma
questa conoscenza è sempre filtrata da Bergson e Sorel, e soprattutto da Gen-
tile e Croce. La critica del positivismo è continua; per fare solo un esempio,
nel 1918 Gramsci scrive così: «il marxismo si fonda sull’idealismo filosofi-
co. […] L’idealismo filosofico è una dottrina dell’essere e della conoscenza,
secondo la quale questi due concetti si identificano e la realtà è ciò che si co-
nosce teoricamente, il nostro io stesso»32. E questa linea arriva, con una stret-
ta coerenza, al celebre articolo su La rivoluzione contro il Capitale, che è
riassuntivo del suo primo rapporto con il marxismo: il Marx che «non era un
filosofo di professione» e «qualche volta dormicchiava», era stato rinnegato
dai bolscevichi. Perché – scriveva Gramsci – «il pensiero marxista, quello
che non muore mai, è la continuazione del pensiero idealistico italiano e te-
desco, e in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturali-
stiche»33. Si potrebbe continuare con le citazioni, ma sono cose che voi ben
conoscete.
La discussione principale tra gli interpreti è se, nel periodo carcerario,
l’atteggiamento di Gramsci verso Marx cambi in misura determinante. Garin
sostenne una sostanziale continuità34. Certo si allarga, ma non di moltissimo,
il nucleo di testi marxiani considerati da Gramsci: non più solo il Manifesto e
la Sacra famiglia, ma anche la Prefazione del 1859 e la Miseria della filoso-
fia. I riferimenti al primo libro del Capitale sono in definitiva modesti e
spesso risolti nella teoria di Ricardo dell’«astrazione determinata». Poi com-
paiono, nel Quaderno 7, le opere storiche e politiche. Marx è alla base di tut-
te le intuizioni di Gramsci, ma è sempre trasceso: così accade per la teoria
della traducibilità, che prende spunto dalla Sacra famiglia, ma si svolge co-
me una revisione e una critica delle forme distinte della filosofia dello spirito
di Croce. Poi naturalmente nel Quaderno 4, siamo nel 1930, Gramsci rielabo-
ra la filosofia della praxis, torna a Labriola, ripete la traduzione di Gentile
delle Tesi su Feuerbach: cerca – scrive così – «un vocabolo affatto nuovo»
per il marxismo, che superi ogni riferimento al materialismo: «una filosofia –
spiega nel Quaderno 4 – dell’atto (praxis), ma non dell’atto puro, ma proprio
dell’atto impuro, cioè reale nel senso profano della parola»35. E qui, in questa
ricerca dell’atto «impuro», direi che emerge tutta l’inquietudine del suo rap-
porto con l’idealismo.
31
F. IZZO, I Marx di Gramsci, in ID., Democrazia e cosmopolitismo in Antonio Gram-
sci, Carocci, Roma 2009, pp. 23-24.
32
A. GRAMSCI, Il nostro Marx, Einaudi, Torino 1984, p. 348.
33
A. GRAMSCI, La città futura 1917-1918, Einaudi, Torino 1982, pp. 513-515.
34
E. GARIN, Gramsci e il problema degli intellettuali, in ID., Intellettuali italiani del
XX secolo, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 352-353.
35
A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p.
455.
13