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Alcune osservazioni sul marxismo italiano.

Da Labriola a Gramsci passando per Croce e Gentile

1. Le osservazioni che vi proporrò chiedono alcune premesse. La prima


premessa è che il discorso mirerà soltanto a tracciare il profilo di un «para-
digma», di quella che mi sembra la «linea principale» di un periodo del mar-
xismo italiano, all’interno di una vicenda molto più ampia e variegata, nella
quale intervengono tante altre voci, autorevoli e importanti: voci che io igno-
rerò quasi del tutto. Il secondo preambolo, di natura metodologica, riguarda
l’uso che noi facciamo delle «etichette»: l’espressione «marxismo», in que-
sto caso, è una di tali «etichette». Le «etichette» sono inevitabili nella storio-
grafia filosofica, ma a volte, dietro una parola o una formula, si nascondono
significati che possono rivelarsi inattesi o paradossali. In un altro contesto mi
è accaduto di discutere la denominazione di «idealismo» o di «neo-
idealismo» per una intera corrente della filosofia italiana, arrivando a soste-
nere che questa parola («idealismo», appunto) non arrivi mai a corrispondere
alle rigorose promesse che vi sono implicate1. Se vogliamo indagare oggi la
«filosofia italiana» e la sua storia, dobbiamo avere il coraggio di contaminar-
ne linee e tracciati, di guardare alle intersezioni meno ovvie, a volte sotterra-
nee, senza arrestarci alle comode definizioni del passato. È necessario, per
questo verso, sperimentare altri modi di praticare la storia della filosofia.
Tanto più ci allontaniamo dalle passioni che animarono i protagonisti del
passato, tanto più la storia delle idee può recuperare prospettive ampie e di
lunga durata, e perciò riconoscere, in tratti minori e in episodi a lungo trascu-
rati, intersezioni feconde di correnti e il convenire di spinte molteplici. Que-
sto discorso vale, in misura persino maggiore, per il marxismo. Il marxismo
italiano presenta alcuni paradossi, che cercherò di esporre. Forse il paradosso
più evidente riguarda il posto che, in questa storia, deve essere assegnato ad
autori come Croce e Gentile: i quali non possono essere considerati solo co-
me avversari, semplici interlocutori o compagni di strada, ma sono parte co-
stitutiva di questa vicenda. Stanno dentro la storia del marxismo, non fuori di
essa. Che autori come Croce e Gentile, che non furono mai marxisti né socia-
listi o comunisti, costituiscano passaggi fondamentali nella storia del marxi-
smo, dice già molto sulle peculiarità di una tradizione. A questo va aggiunto
un rapporto molto selettivo, spesso tendenzioso e deformante, con l’opera di
Marx. Se noi considerassimo il «marxismo» come un rapporto autentico con
Marx, come lettura e interpretazione fedele dei suoi scritti, o anche come
messa in atto delle sue intenzioni teoriche e politiche, qui avvertiremmo su-
bito una sensazione di disagio e di estraneità. Se cercassimo in autori come
Gentile o Mondolfo, o anche in Gramsci, una interpretazione comprensiva di
Marx, probabilmente non troveremmo molto di utile. Il marxismo italiano si
1
M. MUSTÈ, La filosofia dell’idealismo italiano, Carocci, Roma 2008, pp. 213 ss.
2

può intendere solo se teniamo presenti, in maniera costante, sia il contesto


storico-politico – le prime avventure del socialismo italiano e gli echi della
rottura sovietica – sia il tentativo, questo sì essenziale, di operare una media-
zione di alcuni princìpi del marxismo con il nucleo costitutivo di una tradi-
zione nazionale. Come una volta disse Togliatti, parlando, nel 1952, alla
commissione culturale del Pci, «una cultura socialista è tale per il suo conte-
nuto, ma è nazionale per la forma»2: parole che si adattano bene all’intera vi-
cenda del primo marxismo italiano, che a partire da Labriola cercò, appunto,
quella «forma nazionale», capace di coniugare le tesi marxiste con la com-
plessità di un lungo percorso ideale.

2. La dichiarazione di morte del marxismo italiano venne pronunciata da


Benedetto Croce in un articolo – Come nacque e come morì il marxismo teo-
rico in Italia – che il filosofo scrisse tra il 3 e il 5 agosto del 1937, durante
una villeggiatura a Meana3, e che pubblicò in due puntate, l’anno successivo,
sulla «Critica»4. L’articolo aveva un lontano precedente nella conversazione
su La morte del socialismo, che era apparsa nel 1911 su «La Voce» e sul
«Giornale d’Italia»5, ma del tutto diversa, a ben vedere, ne risultava la tesi di
fondo: se nell’intervista del 1911 si dichiarava, appunto, la «morte del socia-
lismo» come utopia politica e si elogiava, invece, il materialismo storico, qui
si perveniva alla più radicale conclusione sull’esaurimento del marxismo teo-
rico. Raccontando e documentando la sua frequentazione con Antonio La-
briola, Croce segnò «la data della nascita del marxismo teorico in Italia» al
27 aprile 1895, quando Labriola (inviando al «Devenir social» il primo sag-
gio In memoria del Manifesto dei comunisti) aveva iniziato l’opera di inter-
prete del materialismo storico; e fissò la data di morte «intorno al 1900»,
quando lui stesso aveva abbandonato gli studi marxisti e, consacratosi agli
studi filosofici, aveva pubblicate le Tesi di estetica. Lo scopo dell’articolo
emerse in modo nitido nelle ultime battute: si trattava di negare che la rivo-
luzione d’ottobre, a cui ora guardavano i marxisti europei, significasse un
rinnovamento e una riabilitazione delle tesi marxiste6. In sostanza, il marxi-
smo teorico era «morto» perché Marx alla fine si era rivelato né filosofo né
scienziato, ma «vigoroso ingegno politico, o piuttosto un genio rivoluziona-
rio, che aveva dato impeto e consistenza al movimento operaio, armandolo di

2
P. TOGLIATTI, La politica culturale, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1974,
p. 201.
3
B. CROCE, Taccuini di lavoro (1937-1943), Arte Tipografica, Napoli 1987, pp. 33-
34.
4
B. CROCE, Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900). Da
lettere e ricordi personali, «La Critica», 1938, pp. 35-52 e pp. 109-124. Poi in B. CROCE,
Materialismo storico ed economia marxistica, a cura di M. Rascaglia e S. Zoppi Garampi,
Bibliopolis, Napoli 2001, pp. 265-305.
5
B. CROCE, La morte del socialismo, in ID., Cultura e vita morale, a cura di M.A.
Frangipani, Bibliopolis, Napoli 1993, pp. 147-156.
6
B. CROCE, Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. 305.
3

una dottrina storiografica ed economica, fatta apposta per esso»7. Il «Ma-


chiavelli del proletariato», insomma, come aveva scritto altrove. E a soste-
gno della sua tesi citava i libri recenti di Sidney Hook e la biografia di Nico-
laievski e Maenchen-Helfen.
L’articolo del 1937 segnò una svolta in senso negativo nel giudizio di
Croce sul marxismo teorico. Tra il 1900 e il 1937, quando il suo interesse per
il marxismo rimase occasionale, i toni erano stati per lo più diversi. Il marxi-
smo era penetrato nella sua filosofia, soprattutto nella Filosofia della pratica.
Il punto più alto può forse essere indicato nella Storia d’Italia, in particolare
nel capitolo sesto. La Storia d’Italia uscì nel 1928 ed era stata scritta fra la
metà del 1926 e il 1927. Parlando della «ripresa e trasformazione di ideali»
che si era dispiegata tra il 1890 e il 1900, proprio in Labriola e nel giovane
marxismo italiano riconobbe il momento del risveglio e della benefica ripre-
sa della ragione hegeliana, che il vecchio idealismo non aveva saputo custo-
dire, trasformare e rinnovare: «il risveglio filosofico – scrisse in un passaggio
della Storia d’Italia –, che, contro il positivismo soverchiante, i sopravviven-
ti della classica filosofia idealistica avevano invano tentato di promuovere
[…] si effettuò invece primamente in Italia attraverso il marxismo e il suo
materialismo storico, il quale, nato dallo hegelismo, ne serbava in sé il con-
cetto fondamentale della storicità dialettica»8. Nelle pagine che seguivano
segnò con forza l’antitesi che, in quella fase, divideva la ragione storica dei
marxisti e il nascente irrazionalismo, indicando in tale dialettica il luogo es-
senziale della stessa vicenda politica, fino alle repressioni del Crispi e di Ba-
va Beccaris. Era un marxismo «impuro»9, come lo definì, fin dall’inizio di-
sponibile al revisionismo e, sul piano politico, al «riformismo», cioè alla
«trasformazione liberale del socialismo»: ma, appunto per ciò, era l’unica
forza capace, fin quando ebbe vita e possibilità di movimento, di tenere testa
alle crescenti sirene del misticismo e della decadenza.
Il saggio del 1937 non rinnegava la Storia d’Italia, ma certo ne limitava
l’analisi. La chiusura derivava dagli effetti che la rivoluzione d’ottobre co-
minciava ad avere sulla cultura politica europea. E Croce mantenne questa
chiusura nel periodo successivo, ma con una eccezione di straordinario rilie-
vo. L’eccezione riguardò la sua prima conoscenza di Gramsci, che accadde
nell’aprile del 1947, quando lesse l’edizione einaudiana delle Lettere dal
carcere. Lesse il libro il 29 aprile e il giorno successivo, il 30 aprile, ne scris-
se una recensione che possiamo definire entusiastica10. Si osservi che l’elogio
non riguardava affatto la «pratica», la posizione politica, la figura eroica
dell’antifascista, ma riguardava propriamente la teoria e la filosofia che vi
traspariva:

come uomo di pensiero – scrisse – egli fu dei nostri, di quelli che nei primi decenni
del secolo in Italia attesero a formarsi una mente filosofica e storica adeguata ai problemi

7
Ivi, p. 118.
8
B. CROCE, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Roma-Bari 1977, p. 146.
9
Ivi, p. 152.
10
B. CROCE, Taccuini di lavoro (1946-1949), Arte Tipografica, Napoli 1987, p. 124.
4

del presente, tra i quali anch’io mi trovai come anziano verso i più giovani. […] Nel leg-
gere i suoi molti giudizi su uomini e libri, mi è accaduto di accettarli quasi tutti o forse
addirittura tutti11.

E poco dopo invitava gli «intellettuali comunisti italiani» a non discostarsi


«dall’esempio del Gramsci» e ne avvicinava il nome a quelli di Tommaso
d’Aquino, di Giordano Bruno, di Giambattista Vico.
La simpatia che Croce provò per le Lettere di Gramsci costituisce già un
problema interpretativo importante. È chiaro che vide nei suoi scritti proprio
quel marxismo «impuro» di cui aveva parlato nella Storia d’Italia. Ma il
problema interpretativo più importante è forse un altro, e riguarda, per così
dire, la storia esterna di questo scritto di Croce. Come ho detto, l’articolo era
stato scritto il 30 aprile del 1947 e venne poi pubblicato, nel luglio,
sull’ottavo fascicolo dei «Quaderni della Critica», per poi essere raccolto nel
1948 nel volumetto sui Due anni di vita politica italiana. Le bibliografie
spesso dimenticano, tuttavia, di ricordare che l’articolo apparve, il 6 luglio
1947, come editoriale della «Stampa» di Torino, e che, anche per questo, sol-
levò una drammatica discussione nella casa editrice Einaudi. Felice Balbo
scrisse allora, il 7 luglio, per «l’Unità» di Torino, un durissimo articolo con-
tro Croce, accusandolo di volersi appropriare indebitamente dell’eredità di
Gramsci: «Quest’articolo – affermò – Croce non lo doveva scrivere»12. Sul n.
6 di «Rinascita» (che porta la data del giugno), anche Togliatti intervenne
con un riferimento implicito all’articolo di Croce, invitandolo ironicamente
ad «adeguarsi anche lui a questo esempio, che fu, tra l’altro, esempio di sin-
cerità intellettuale e di indagine storica e filosofica spassionata»13. E la que-
stione non finì lì, ma si riaprì tra il 1948 e il 1949, a proposito della traduzio-
ne inglese delle Lettere di Gramsci. Si affacciò l’ipotesi di pubblicare
l’articolo di Croce come prefazione. Anche questa volta la discussione fu ac-
cesa e l’iniziativa naufragò per la vigorosa opposizione di Piero Sraffa. Ma
Togliatti era favorevole e, con molta probabilità, proprio da lui era partita
l’iniziativa14.
La vicenda della recensione di Croce assume un significato esemplare per
leggere quell’epoca della cultura italiana. Da un lato si delineò il tentativo di
leggere Gramsci senza Croce o contro di lui: un tentativo coltivato da una
parte significativa del marxismo italiano e dell’ambiente einaudiano, e che si
faceva drammatico, perché Gramsci, a mano a mano che uscivano i suoi
scritti carcerari, rinviava a ogni passo a quella radice che si voleva negare.
D’altro lato si affacciava la tendenza a porre al centro dell’analisi quel rap-
porto tra Gramsci e Croce, ma che pure non riuscì (con qualche rilevante ec-

11
B. CROCE, recensione a A. GRAMSCI, Lettera dal carcere (Einaudi, Torino 1947),
«Quaderni della critica», 1947, fasc. 8, pp. 86-88.
12
Archivio Balbo.
13
P. TOGLIATTI, La politica culturale, cit., pp. 83-84.
14
Cfr. G. VACCA, Gramsci e Croce in Inghilterra, in ID., Togliatti sconosciuto,
L’Unità, Roma 1994, pp. 171-176.
5

cezione, tra cui mi limiterò a ricordare i nomi di Garin, Luporini, Badaloni) a


determinare con precisione i punti di continuità e quelli di discontinuità.

3. Croce aveva parlato, a proposito del marxismo italiano, di un marxi-


smo «impuro». «Impuro» già in Labriola, come spiegò, e «impuro» in Gram-
sci, il quale, come scrisse (credo con riferimento alle osservazioni sul canto
decimo dell’Inferno di Dante), onorava la verità e lasciava «al Marx la libertà
di disprezzare» i poeti. Come abbiamo visto, Croce datava l’inizio del marxi-
smo teorico in Italia al 1895, che era l’anno di pubblicazione del primo sag-
gio di Labriola, In memoria del Manifesto dei comunisti. Ora, non vi è dub-
bio che fin dall’opera di Labriola, il marxismo teorico prese in Italia una pie-
ga peculiare. Se la osserviamo sinteticamente, dall’alto, l’opera di Labriola
colpisce per alcuni aspetti. Il primo aspetto è un’assenza sostanziale dell’ana-
lisi economica, su cui, d’altronde, Labriola stesso si dichiarò incompetente.
In una delle rarissime occasioni in cui trattò della teoria del valore, nella se-
conda lettera del Discorrendo di socialismo e di filosofia, la definì come
«premessa tipica», cioè come una astrazione logica, senza esistenza reale,
una specie di finzione destinata ad avere un ruolo logico per l’interpretazione
della società15. Anche nel dibattito sul terzo libro del Capitale, che tanto lo
angustiò negli ultimi anni, arrivò sì a denunziarne le conseguenze politiche
catastrofiche, ma senza mai entrare nel merito del problema16. Come si sa,
nella concezione della storia che aveva elaborata, l’economia rappresentava
un «filo conduttore»17: e l’importante non era concepire la storia secondo il
lessico dell’economia, ma, viceversa, concepire l’economia in forma storica.
Il secondo aspetto che colpisce è un dato indiscutibile della biografia intellet-
tuale di Labriola. Quasi tutti i concetti fondamentali della sua visione erano
emersi prima dell’incontro con il marxismo, e si possono indicare nella pre-
lezione romana del 1887, dove aveva messo a fuoco la critica del finalismo
storico e del monismo, e aveva posto al centro della indagine il problema
della «epigenesi», cioè della genesi delle forme storiche18. Le fonti di quel
discorso erano nello hegelismo napoletano (Bertrando Spaventa) e in un cer-
to herbartismo, come quello di Steinthal e di Lazarus. Soprattutto i primi due
saggi sul materialismo storico portavano i segni di questa impostazione. Il
marxismo appariva come metodo di indagine storica, e nel secondo saggio,
in maniera più diretta, come metodo genetico, come «l’autocritica che è nelle
cose stesse»19. Senza dubbio, Labriola aveva mediato Marx e il marxismo
con lo hegelismo napoletano. E questo si vide bene in due punti capitali della
sua riflessione. In primo luogo, in quello che scrisse sulla tecnica nel secon-
do saggio: il metodo genetico rinviava alla tecnica come carattere elementare

15
A. LABRIOLA, Scritti filosofici e politici, a cura di F. Sbarberi, Einaudi, Torino 1973,
p. 675.
16
A. LABRIOLA, Carteggio. III. 1890-1895, a cura di S. Miccolis, Bibliopolis, Napoli
2003.
17
A. LABRIOLA, Scritti filosofici e politici, cit., p. 498.
18
Ivi, pp. 5-32.
19
Ivi, p. 583.
6

dell’uomo, e questo rinviava a una dialettica più originaria con la natura, con
uno sfondo indeterminato20. Nella riflessione sul marxismo, insomma, La-
briola ritrovava quello che era stato il problema di Spaventa, il problema del-
la genesi delle forme storiche, determinate, dall’indeterminato, che lo stesso
Spaventa aveva concepito come presupposto informe, come natura (meritan-
do per ciò la critica di Gentile). E nel terzo saggio il presupposto idealistico
della riflessione di Labriola emergeva con forza nella definizione del marxi-
smo come filosofia della praxis, passaggio fatale, come vedremo, nella storia
del marxismo italiano. La filosofia della praxis – scriveva – è «il midollo del
materialismo storico. Questa è la filosofia immanente alle cose su cui filoso-
feggia. Dalla vita al pensiero, e non già dal pensiero alla vita; ecco il proces-
so realistico»21. E la citazione continua, parlando del rovesciamento della
dialettica hegeliana, con accenti che sempre più riconducono a Vico e a Spa-
venta, fino alla battuta finale sulla storicizzazione integrale, dove non esiste
più un fatto «che non fu mai in fieri», e dove si parla di «creazione di conti-
nuo in atto». Fin dalla sua nascita, insomma, il marxismo italiano aveva me-
diato Marx con i tratti più caratteristici della filosofia nazionale, almeno co-
me erano emersi nel modello spaventiano della «circolazione» del pensiero
europeo.

4. È noto che, negli ultimi anni, Labriola lanciò vere e proprie invettive
contro Croce e Gentile. Il 2 gennaio 1904 (sarebbe morto il 2 febbraio dello
stesso anno) scriveva a Croce parole di fuoco su Gentile, definendolo «infa-
tuato», «presuntuoso», «pazzo». Ma anche Croce si rivelò per lui una delu-
sione, almeno dal momento in cui cominciò a interpretare la teoria del valore
come «paragone ellittico» (in una nota aggiunta al saggio su Loria) e, appog-
giandosi alle tesi della scuola austriaca, elaborò la categoria dell’utile o eco-
nomico: invece di storicizzare l’economia, obiettò Labriola, la aveva plato-
nizzata, alla maniera dei «tante casecavalle appise» di cui una volta gli ave-
va parlato un professore di filosofia al Liceo del Salvatore22. Però entrambi,
Croce e Gentile, si erano richiamati a Labriola, lo avevano a loro modo con-
tinuato, e senza dubbio ne avevano svolti alcuni concetti fondamentali.
La loro ripresa delle tesi di Labriola si rivelò decisiva per il successivo
svolgimento del marxismo italiano. Avvenne, per altro, in una maniera carat-
teristica. Nessuno dei due, come si sa, aveva alcuna simpatia politica per il
socialismo. Anzi entrambi ebbero, fino all’ascesa del fascismo al potere, un
rapporto debole con la dimensione politica. Quando istituirono un rapporto
autentico con la politica – Gentile nel 1922, Croce nel 1925 – le loro stesse
filosofie mutarono di aspetto, e, come è noto, si arrivò a una rottura completa
tra loro. Anche le momentanee simpatie di Croce per il socialismo (con le
visite a Londra a Eleanor Marx e le passeggiate napoletane con Karl Lie-
bknecht) vanno nettamente ridimensionate: il testo in cui Croce aveva
espresso, obliquamente, la sua ideologia politica, era stato la pubblicazione,

20
Ivi, pp. 618-619.
21
Ivi, p. 702.
22
B. CROCE, Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. 291.
7

nel 1897, degli scritti di Silvio Spaventa sul «Nazionale»23. In politica, Croce
era un seguace di Silvio Spaventa, non di Marx. Però, prima del pubblico
contrasto del 1913 sull’unità e le distinzioni dello spirito, questi studi sul
marxismo segnarono il momento di massima lontananza tra i due pensatori.
Anzi tutto per un serio motivo filosofico: per la diversa valutazione
dell’elemento economico, che per Croce indicava una forma dello spirito, un
momento insopprimibile della realtà, e per Gentile invece una astrazione, su-
bordinata alla volontà morale. Ma completamente diverso fu anche l’approc-
cio, il metodo, delle loro ricerche. Croce studiò a fondo l’economia classica,
era interessato al contributo del marxismo per la storia, e non diede alcun pe-
so alla filosofia di Marx, che, come è noto, definì un «condimento» poco op-
portuno. Gentile, al contrario, ignorò del tutto le teorie economiche di Marx
e si restrinse (è il caso di dirlo) alle Tesi su Feuerbach e a pochi o pochissimi
altri testi di Marx. I loro studi delinearono due diversi Marx e due diverse
immagini del marxismo; tuttavia erano due lati che trovavano nell’opera di
Labriola la loro origine. Labriola li aveva tenuti insieme, con molta fatica e a
volte poca coerenza; loro li divisero.
Certo, contro Labriola Croce negò che il marxismo fosse una «filosofia
della storia» e, più in generale, negò che costituisse una filosofia, una visione
del mondo, risolvendo tutto nella «precoltura hegeliana» del giovane Marx.
Eppure tutte le tesi fondamentali di Croce sul marxismo erano, dirò così, una
radicalizzazione, una estremizzazione, di posizioni che già Labriola aveva
sostenuto: anche la negazione della «filosofia della storia» estendeva la criti-
ca di Labriola a ogni determinismo e monismo; l’idea che il materialismo
storico fosse un «canone» per la ricerca storica riprendeva le parole che La-
briola aveva scritto nel secondo saggio, quando aveva parlato del marxismo
come «metodo di ricerca e di concezione»; la rilettura della teoria del valore
come «paragone ellittico» riprendeva anche essa una notazione di Labriola,
nel terzo saggio, sul valore come «premessa tipica», cioè come astrazione.
Insomma, Croce estremizzava e, certo, alterava e deformava le idee di La-
briola, ma in definitiva si muoveva in quella medesima direzione. Il punto su
cui veramente Croce si proiettava oltre la concezione di Labriola era un altro,
in fondo più sottile, e avrà conseguenze di rilievo nel successivo marxismo
italiano: Croce spezzava il rapporto tra materialismo storico e posizione poli-
tica del socialismo, dichiarava la inderivabilità, la indeducibilità, del pro-
gramma politico dall’analisi storica ed economica. Distingueva, insomma,
tra teoria e prassi. Qui portava alla luce un aspetto saliente di tutta la rifles-
sione del marxismo italiano. Cosa significa quella spezzatura? Significa che
il materialismo storico poteva offrire la diagnosi del mondo moderno, ma
non anche una teoria della soggettività politica. Tra l’uno e l’altro momento,
tra la «scienza» e l’«azione», c’era un salto: e quel salto richiedeva un altro
apparato analitico, una diversa strumentazione, uno sforzo teorico ben altri-
menti impegnativo. C’era qualcosa – la costruzione del soggetto politico –
che non si poteva chiedere a Marx. In fondo Gramsci imparerà anche questo
23
S. SPAVENTA, Dal 1848 al 1861. Lettere scritti documenti, a cura di B. Croce, La-
terza, Bari 19232.
8

da Croce, la necessità di una teoria della politica, di una teoria dell’egemo-


nia, oltre la parola stessa di Marx.
Gentile, come dicevo, si mosse in una direzione del tutto diversa. Ma an-
che lui riprese un concetto di Labriola, quello di filosofia della praxis; e non
si può dire che non ne cogliesse non solo il pensiero ma soprattutto il retro-
pensiero: quello che c’era dietro, insomma, in rapporto alla filosofia di Spa-
venta e in generale alla tradizione filosofica italiana, soprattutto a Vico. Un
punto, questo, che emerse non solo e non tanto nei due saggi su Marx, quan-
to nella Introduzione del 1900 agli Scritti filosofici di Bertrando Spaventa,
dove osservò che la teoria spaventiana dell’intelletto pratico coincideva con
la filosofia di Marx, cioè con la filosofia della praxis24. Con le osservazioni
di Gentile, insomma, si rendeva esplicita la connessione tra la filosofia della
praxis di Marx e l’opera di Spaventa e, attraverso Spaventa, di Vico.
Anche Gentile, dunque, estremizzò un pensiero di Labriola, e lo fece con
una specie di fissazione per le Tesi su Feuerbach, che Engels aveva pubblica-
to nel 1888 in appendice al Ludwig Feuerbach, e in cui ritenne di trovare
l’alfa e l’omega del marxismo25. Certo, le conclusioni furono distruttive, per-
ché il pensiero di Marx era stretto in una contraddizione insuperabile: da un
lato la prassi, che altro non era che una cattiva copia della dialettica hegelia-
na; d’altro lato il materialismo, che ricacciava questa filosofia nel peggiore
sensismo del Settecento. Ma distruggendo Marx, Gentile approntò diversi
strumenti per la successiva filosofia della praxis. Un po’ la metafora di tutto
ciò è la traduzione della terza tesi, in particolare di quella espressione «um-
wälzende Praxis», che poi non apparteneva neanche a Marx, che aveva scrit-
to «revolutionäre Praxis», ma a Engels, che aveva cercato di chiarire così il
concetto di Marx, interpolandolo e rendendolo invece molto più oscuro. E
Gentile tradusse (nella prima versione italiana delle Tesi), con una evidente
forzatura, con «prassi rovesciata» o, altrove, «prassi che si rovescia», invece
del più letterale «prassi che rovescia» o «rovesciante». Il passo non era di
Marx, la traduzione era infedele. Ma quel passo e quella traduzione divenne-
ro uno dei tratti essenziali del marxismo italiano; e si troverà ancora, sostan-
zialmente immutata, in Mondolfo e in Gramsci, e in tanti altri testi che (se ne
avessimo il tempo) sarebbe interessante seguire. Un aspetto essenziale del
marxismo italiano nasceva, potremmo dire, da un equivoco. In fondo è così,
ma quell’equivoco racchiudeva una intera intuizione filosofica, che signifi-
cava storicismo, dialettica, negazione del materialismo e del determinismo.
La «prassi rovesciata» significava il superamento della «realtà esterna» in un
circolo dialettico, nel quale il condizionato, l’ambiente, appariva come il
prodotto del soggetto: significava insomma la storia, nell’accezione che a
questo termine era stata conferita da Vico e poi, quando a un certo punto lo
scoprì, da Spaventa, e a cui non era estranea la stessa riflessione di Labriola.

24
G. GENTILE, Bertrando Spaventa, a cura di V.A. Bellezza, Le Lettere, Firenze 2001,
pp. 126-127.
25
Rinvio, per questo, a M. MUSTÈ, Gentile e Marx, «Giornale critico della filosofia
italiana», 2015, fasc. 1, pp. 15-27.
9

5. Lavorando su questa traccia, incontriamo gli scritti di Rodolfo Mondol-


fo. Mondolfo è stato una delle figure più interessanti e rappresentative del
marxismo italiano, soprattutto nel decennio tra il 1909 e il 1919, tra il saggio
su Feuerbach e Marx e la prima presa di posizione contro Lenin e la rivolu-
zione d’ottobre. I suoi studi uscirono in un periodo di sostanziale stasi del
marxismo teorico italiano, in anni segnati quasi soltanto dagli scritti di Artu-
ro Labriola, Enrico Leone, Roberto Michels. Dopo il 1919, la vena di Mon-
dolfo si inaridì, e cercherò poi di spiegare perché. È vero – come ha sottoli-
neato Norberto Bobbio – che Mondolfo aveva studiato il giusnaturalismo,
Hobbes e Rousseau, ma nella sua interpretazione di Marx pesò molto anche
l’insegnamento di Felice Tocco, che era stato suo professore a Firenze. Con
Mondolfo si esce completamente dal clima del revisionismo, e si avvia quel
peculiare «ritorno a Marx» che resterà caratteristico del marxismo italiano. In
linea generale, la novità della sua interpretazione si compone di tre aspetti:
una nuova lettura di Feuerbach e di Engels, una ripresa e una correzione de-
cisiva di Labriola, un recupero di tutta la interpretazione di Gentile ma
all’interno del marxismo e del socialismo.
In primo luogo, come dicevo, Mondolfo riabilitò Engels con il libro del
1912 (Il materialismo storico in Federico Engels), riportandolo a Marx e a
un marxismo genuino, contro le svalutazioni che provenivano sia da Bern-
stein sia da Gentile. Ma tutta la sua concezione del marxismo arrivò a fon-
darsi su una nuova interpretazione del rapporto Marx-Feuerbach, a partire
dal saggio del 1909. In sostanza, tanto Marx stesso tanto Gentile si erano il-
lusi su questo punto, considerando Feuerbach un materialista. Al contrario,
in Feuerbach vi era già il principio della prassi, dello storicismo, sulla linea
hegeliana dell’identità attiva di reale e razionale. Ma in Feuerbach restava un
limite nella concezione del bisogno umano come negatività fissa, priva di
contrasto e di sviluppo, come esteriorità naturale. Attraverso la sua visione
storica dell’economico, Marx era arrivato a correggere questo limite, a tra-
sformare il bisogno nel conflitto sociale, a idealizzarlo e a dialettizzarlo, e
così era pervenuto a una vera e propria «concezione critico-pratica», alla fi-
losofia della praxis intesa come integrale umanismo e storicismo. Alla ma-
niera di Gentile, filosofia della praxis significava «prassi che si rovescia»: la
dialettica, e l’azione reciproca, per cui l’uomo crea le forme sociali e queste
reagiscono sulla sua volizione, innescando un processo circolare tutto interno
alla sfera spirituale. La correzione del giudizio su Feuerbach diventava fon-
damentale: grazie a quella correzione, veniva meno la contraddizione che
Gentile aveva indicato tra dialettica e materialismo, e la filosofia della prassi
poteva essere guadagnata interamente al marxismo.
Per questo, Mondolfo tornava a Labriola, ma ne correggeva il limite ma-
terialistico: soprattutto la frase sull’«autocritica delle cose stesse» divenne
oggetto di una confutazione persistente. A differenza dei teorici del riformi-
smo turatiano, Mondolfo rifiutava ogni visione positivistica e meccanicistica,
anzi «materialista», del marxismo. Il senso di Marx era tutto nelle Tesi, e
questo senso rinviava a Vico (e in parte a Bruno): anzi, scriveva coraggiosa-
mente (tornerò su questo aspetto), Marx lo aveva ripreso da Vico. In sostanza
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il marxismo era, nella sua radice ultima, uno storicismo umanistico fondato
sulla teoria vichiana del verum factum.
La riflessione di Mondolfo fu per molti versi fondamentale per la costitu-
zione di un paradigma italiano. Se si salta, c’è come un «anello mancante» in
questa storia. Molto più di quanto i documenti non dicano, ritengo che
Gramsci ne assimilò, nel periodo precarcerario, diversi aspetti. Mondolfo
portò Gentile nel marxismo italiano e superò l’alternativa tra riformismo po-
sitivistico e volontarismo soreliano. Questo fu il suo grande contributo. Il li-
mite della sua posizione emerse tutto nella polemica con Gramsci del 1919 e
nella critica del leninismo, che poi lo avvicinò a Turati. Non bisogna credere
che questa critica sorgesse improvvisa di fronte alle notizie che venivano
dalla Russia, era iscritta nella filosofia che aveva fin lì elaborata. Già nel
1913, nell’articolo su Socialismo e filosofia, Mondolfo aveva criticato un
marxismo che si fondasse sul partito politico messo «in scena quasi deus ex
machina»26. L’argomento a cui ricorse, di fronte alla rivoluzione d’ottobre,
fu quello della immaturità delle condizioni storiche russe, a cui oppose tutte
le citazioni possibili di Marx sulla necessità che la rivoluzione accadesse nei
punti alti del capitalismo. Ma il problema vero non era questo. In certo modo
Mondolfo si nascose dietro una visione gradualistica e necessitante del corso
storico che non era la sua. Il punto era un altro: che nella sua concezione del
marxismo, nella sua filosofia della praxis, non veniva assegnato alcun ruolo
al soggetto politico, in generale alla politica, e tanto meno si poneva il pro-
blema – che sarà essenziale in Gramsci – di una costituzione di quel soggetto
politico. Nell’azione reciproca del soggetto e dell’oggetto, dell’uomo e della
società, tutto accadeva come in un circolo necessario: e la critica di Eugenio
Garin nella Storia della filosofia italiana colpì nel segno sotto questo punto
di vista27. Nel marxismo di Mondolfo mancava la politica. E in fondo questo
difetto di politica ispirò la critica che rivolse a Gramsci in una serie di artico-
li che scrisse a partire dal 1955. Gramsci, spiegava, si era contraddetto tra la
filosofia della praxis e la teoria dell’egemonia, tra la visione innovativa della
praxis e l’adesione alla rivoluzione d’ottobre. L’una escludeva l’altra. O filo-
sofia della praxis o teoria dell’egemonia. Quella che Mondolfo chiamava
contraddizione indicava la sua stessa incapacità di cogliere la novità del pen-
siero di Gramsci, che nella filosofia della praxis cercava appunto le ragioni
costitutive dell’iniziativa politica.

6. Per molti versi, Mondolfo tornava a Gentile, ma ne rovesciava gli esiti


e innestava la filosofia della praxis nel tronco del marxismo italiano. Forse il
punto più controverso della sua interpretazione stava nell’asserzione, che ri-
peté più volte, per cui la filosofia della praxis di Marx era stata condizionata
da Vico. In sostanza, non era stato il marxismo italiano a «vichianizzare»
Marx, perché Marx stesso aveva subìto, fin dalla giovinezza, la suggestione
della Scienza nuova.

26
R. MONDOLFO, Umanismo di Marx. Scritti filosofici 1908-1966, Einaudi, Torino
1975, p. 126.
27
E. GARIN, Storia della filosofia italiana, Einaudi, Torino 1978, pp. 1327-1329.
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Mondolfo dava quasi per scontato che Marx, quando scriveva le Tesi su
Feuerbach, nel 1845, avesse letto Vico. Nel primo saggio, Labriola stesso
aveva affermato, più cautamente, che la concezione marxiana della storia era
stata trovata già da Vico, per il quale la provvidenza «opera come quella per-
suasione, che gli uomini hanno della esistenza sua»28. Ma questa tesi di una
continuità tra Marx e Vico non è nuova nella storia del marxismo: è un tema
ricorrente, per esempio, negli scritti di Paul Lafargue, che spesso riporta
Marx a Vico, e si ritrova, per fare un altro esempio, negli scritti vichiani di
Georges Sorel pubblicati sul «Devenir social». È una questione controversa,
non esistono prove decisive, ma forse non si può escludere del tutto che
Marx, scrivendo le Tesi, avesse presente Vico. Come è noto, Marx si era tra-
sferito a Parigi il 19 giugno del 1843 e rimase nella capitale francese fino al
1845, quando ne venne espulso e si trasferì a Bruxelles. In quel periodo era
di larga diffusione, in Francia, la traduzione di Jules Michelet della Scienza
nuova del 1827 (Principes de la philosophie de l’histoire) e nel 1835 usciva-
no il De antiquissima e l’Autobiografia. Le notizie dirette che abbiamo sui
rapporti tra Marx e Vico sono molto successive: le lettere a Lassalle e a En-
gels del 1862 e la famosa nota a pie’ pagina n. 89 del primo libro del Capita-
le, dunque del 1867. In entrambi i casi Marx utilizza la versione francese di
Cristina Trivulzio principessa di Belgioioso (di cui poteva conoscere anche il
saggio sulla formazione del dogma cattolico del 1842), apparsa per Jules Re-
nouard nel 1844. Anche questa edizione, dunque, precede la stesura delle Te-
si.
Secondo Fausto Nicolini, Marx non lesse Vico prima del 1850. E anche
Giovanni Mastroianni ha sostanzialmente escluso una conoscenza precoce
della Scienza nuova da parte di Marx29. Ma in fondo la domanda resta, il
dubbio non è sciolto del tutto. Lo ha riproposto recentemente Carlo Ginz-
burg30. Se le Tesi fossero state scritte sotto la suggestione di Vico, forse non
cambierebbe molto, ma il rapporto Marx-Vico, così centrale nel marxismo
italiano, si ribalterebbe in maniera suggestiva, aprendo nuove prospettive di
ricerca.

7. Attraverso il percorso che ho sommariamente delineato, Marx era stato


mediato con la tradizione filosofica nazionale. In certo modo il marxismo ita-
liano non dico che prescindesse del tutto da Marx, ma certo aveva seleziona-
to in modo drastico la sua opera, appropriandosi di alcuni testi più facilmente
riconducibili al proprio lessico. Dobbiamo chiederci, in conclusione, come
stanno le cose in Gramsci. La via preliminare è tornare a domandarsi quale
rapporto Gramsci stabilì realmente con l’opera di Marx. La questione è stata
chiarita in modo abbastanza persuasivo per il periodo precarcerario. È stato

28
A. LABRIOLA, Scritti filosofici e politici, cit., p. 519.
29
G. MASTROIANNI, Marx e la Belgioioso, «Giornale critico della filosofia italiana»,
2012, pp. 406-426.
30
C. GINZBURG, Microhistory and World History, Cambridge University Press, Cam-
bridge 2015, pp. 446-473.
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scritto31, non senza qualche ragione, che almeno fino al 1922 Marx sembra
«quasi un ostacolo» ed è considerato per molti aspetti «inutilizzabile». Di
Marx, Gramsci legge le edizioni Mongini a cura di Ettore Ciccotti e la sua
conoscenza accertata è ristretta al Manifesto e alla Sacra famiglia, a cui si
deve aggiungere l’Esposizione popolare di Engels, allora molto diffusa. Ma
questa conoscenza è sempre filtrata da Bergson e Sorel, e soprattutto da Gen-
tile e Croce. La critica del positivismo è continua; per fare solo un esempio,
nel 1918 Gramsci scrive così: «il marxismo si fonda sull’idealismo filosofi-
co. […] L’idealismo filosofico è una dottrina dell’essere e della conoscenza,
secondo la quale questi due concetti si identificano e la realtà è ciò che si co-
nosce teoricamente, il nostro io stesso»32. E questa linea arriva, con una stret-
ta coerenza, al celebre articolo su La rivoluzione contro il Capitale, che è
riassuntivo del suo primo rapporto con il marxismo: il Marx che «non era un
filosofo di professione» e «qualche volta dormicchiava», era stato rinnegato
dai bolscevichi. Perché – scriveva Gramsci – «il pensiero marxista, quello
che non muore mai, è la continuazione del pensiero idealistico italiano e te-
desco, e in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturali-
stiche»33. Si potrebbe continuare con le citazioni, ma sono cose che voi ben
conoscete.
La discussione principale tra gli interpreti è se, nel periodo carcerario,
l’atteggiamento di Gramsci verso Marx cambi in misura determinante. Garin
sostenne una sostanziale continuità34. Certo si allarga, ma non di moltissimo,
il nucleo di testi marxiani considerati da Gramsci: non più solo il Manifesto e
la Sacra famiglia, ma anche la Prefazione del 1859 e la Miseria della filoso-
fia. I riferimenti al primo libro del Capitale sono in definitiva modesti e
spesso risolti nella teoria di Ricardo dell’«astrazione determinata». Poi com-
paiono, nel Quaderno 7, le opere storiche e politiche. Marx è alla base di tut-
te le intuizioni di Gramsci, ma è sempre trasceso: così accade per la teoria
della traducibilità, che prende spunto dalla Sacra famiglia, ma si svolge co-
me una revisione e una critica delle forme distinte della filosofia dello spirito
di Croce. Poi naturalmente nel Quaderno 4, siamo nel 1930, Gramsci rielabo-
ra la filosofia della praxis, torna a Labriola, ripete la traduzione di Gentile
delle Tesi su Feuerbach: cerca – scrive così – «un vocabolo affatto nuovo»
per il marxismo, che superi ogni riferimento al materialismo: «una filosofia –
spiega nel Quaderno 4 – dell’atto (praxis), ma non dell’atto puro, ma proprio
dell’atto impuro, cioè reale nel senso profano della parola»35. E qui, in questa
ricerca dell’atto «impuro», direi che emerge tutta l’inquietudine del suo rap-
porto con l’idealismo.

31
F. IZZO, I Marx di Gramsci, in ID., Democrazia e cosmopolitismo in Antonio Gram-
sci, Carocci, Roma 2009, pp. 23-24.
32
A. GRAMSCI, Il nostro Marx, Einaudi, Torino 1984, p. 348.
33
A. GRAMSCI, La città futura 1917-1918, Einaudi, Torino 1982, pp. 513-515.
34
E. GARIN, Gramsci e il problema degli intellettuali, in ID., Intellettuali italiani del
XX secolo, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 352-353.
35
A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p.
455.
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Roma, 4 ottobre 2016

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