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L’Europa tra scetticismo e impotenza. Come uscirne?

di Paolo Feltrin

Qualche mese fa è uscito un saggio di Wofgang Streeck(Europe under Merkel


IV: Balance of Impotence, in “American Affairs”, vol. II, n. 2, summer 2018).
L’autore, già direttore del Max Planck Institute di Colonia, è noto per le sue
posizioni di sinistra radicale ma, al contempo, per la capacità analitica che ha
sempre contrassegnato i suoi lavori.

In apertura del suo intervento Streeck elenca i motivi del suo scetticismo sul
futuro della Comunità europea, una sorta di ircocervo, caratterizzato da 5
anomalie: 1) le politiche interne degli stati membri si sono via via intersecate
tra loro senza un disegno organico; 2) gli stati membri sono ancora “stati
sovrani” che perseguono i propri legittimi interessi nazionali attraverso le loro
distinte politiche estere, dando luogo a relazioni di tipo intra-europeo; 3) gli
stati nazionali, quando si muovono all’interno delle istituzioni comunitarie
possono optare di volta in volta tra fare affidamento su una varietà di istituzioni
sovranazionali o su accordi intergovernativi tra coalizioni selezionate di
aderenti volontari; 4) dall’avvio dell’Unione monetaria europea, di cui fanno
parte solo diciannove dei ventotto stati membri della Ue, si è andata
strutturando un’altra arena decisionale sovranazionale, composta da
istituzioni informali e intergovernative, di fatto in concorrenza con le
tradizionali istituzioni formali dell’Unione Europea; 5) politiche sovranazionali
e politiche monetarie in ambito europeo devono fare i conti con i diversi
interessi geo-strategici di ogni nazione, in particolare rispetto agli Usa, alla
Russia, al Medio Oriente (più la Cina); 6) da ultimo, sotto sotto, continua dalla
quasi settant’anni una battaglia per l’egemonia sempre negata da entrambi i
protagonisti, Francia e Germania, le quali, entrambe, l’ammantano di spirito
europeista. E l’Italia? Il paragrafo dedicato al nostro paese è intitolato da
Streeck in modo beffardo “il cugino povero”: e questo dovrebbe bastare a
capire in che direzione va a parare il discorso.

La conclusione del saggio è pessimistica: “di fronte alle incapacità dei


principali paesi europei e alle crisi di leadership interna ed internazionale ad
esse associate dovremmo aspettarci una continua deriva e un decadimento
istituzionale, scandito da successive operazioni di emergenza a breve termine
che sono profondamente inadatte a fermare l’imputridimento”. Forse non
andrà così, ma ci si dovrebbe chiedere cosa si possa fare per evitare questa
deriva, per certi versi “naturale”, degli eventi. La prima operazione da fare è
quella di abbandonare la retorica europeista di maniera, la quale ha impedito
nei decenni passati di guardare in faccia i problemi veri del progetto europeo
(in primis, la presenza di interessi nazionali contrastanti, pur se legittimi), per
poi, in secondo luogo, provare a immaginare quali “piccoli passi” sperimentali
da adottare per rimettere un po’ in sesto l’imbarcazione, ora senza una guida,

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senza una meta definita, priva di fiducia popolare, e in balia delle avversità. Al
resto, cioè al lungo periodo, è inevitabile metterci mano se e quando le
difficoltà attuali saranno superate.

Ma, lo ripeto, il primo passo è dirci davvero come sono andate le cose, fin
dall’inizio, nella costruzione dell’avventura europea. Noi tutti siamo convinti di
essere tra i padri nobili dell’Europa, ma non è così. A ricordarcelo sono stati
negli anni scorsi alcuni lavori storici come, ad esempio, quelli di Ruggero
Ranieri e di Marco Gervasoni. Ricordiamo come emblematico il percorso di
adesione italiana al Piano Schuman per la creazione di un’autorità
sovranazionale del carbone e dell’acciaio, nel mese di maggio 1950. I caratteri
del progetto francese a cui lavorò in primo luogo Jean Monnet, furono alla
base della Ceca, Comunità europea del carbone e dell’acciaio, che sarebbe poi
sorta nel 1952, dopo la firma del Trattato di Parigi, sottoscritto nell’aprile del
1951. E’ importante ricordare quella vicenda perché i problemi di allora sono
in larga parte gli stessi di oggi.

Il 9 maggio 1950 alle ore 16 venne annunciato in una conferenza stampa a


Parigi il piano Schuman, a cui nel breve volgere di poche ore rispose
positivamente il cancelliere tedesco Adenauer, il quale a sua volta aveva
preventivamente concordato con Parigi di riunire proprio nelle stesse ore il
suo consiglio dei ministri. L’Italia non era sta neppure avvisata dell’iniziativa. Il
problema che spinse la Francia a operare in favore di un processo di
integrazione sovranazionale era la paura di una rinascita tedesca, che pareva
fra l’altro imposta dall’urgenza degli Usa e dell’Inghilterra di consolidare il
blocco occidentale rispetto alla minaccia sovietica. La Francia temeva
l’aumento della produzione di acciaio tedesca se non altro perché essa veniva a
ostacolare i propri progetti di rilancio economico espressi nel Piano
quinquennale portato avanti sotto la direzione di Jean Monnet, che, tra l’altro,
prevedeva l’accesso alle risorse carbonifere tedesche.

Nei giorni immediatamente successivi all’annuncio l’Italia fu lasciata ai


margini. Ferita nel suo protagonismo, la diplomazia italiana si interrogava
ansiosamente su cosa potesse riservarle l’iniziativa francese e veniva
confermata nei suoi timori e nei suoi sospetti verso il cugino d’oltralpe. Non
era infatti prevista in alcun modo l’adesione dell’Italia. Come reazione, nei
giorni successivi De Gasperi aprì contatti informali con i due leader francesi e
tedeschi ai quali lo accomunava una antica amicizia e la comune
frequentazione della lingua tedesca. Secondo alcune fonti, l’anziano leader
trentino cercò comprensione con quasi atteggiamenti supplichevoli. Diede
anche un’intervista al quotidiano “Die neue Zeitung” in cui esprimeva il favore
italiano per la riconciliazione franco-tedesca e la convinzione che occorresse
valorizzare i punti di identità fra partiti di ispirazione cattolica che
governavano in Francia, in Germania e in Italia.

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Ma la svolta arrivò a metà mese, come conseguenza della crescente ostilità
inglese al progetto, tanto che ad un certo punto l’intera iniziativa sembrava sul
punto di fallire. Adenauer e Schuman furono costretti a modificare la loro
impostazione originaria: l’asse franco-tedeso faceva troppa paura agli alleati.
De Gasperi e l’ambasciatore Sforza colsero al balzo il momento favorevole e
accettarono senza mettere condizioni l’offerta franco-tedesca di un
allargamento del progetto a una dimensione europea, inglobando cioè l’Italia e
i tre piccoli paesi del Benelux (Belgio, Olanda, Lussemburgo). Dopo poche
settimane venne firmato un primo documento di intesa a sei, il seme della
futura Unione europea.

Analoghe ricostruzioni potrebbero essere svolte per quanto riguarda la


successiva iniziativa di difesa comune nei primi anni cinquanta. Ma non molto
diverso fu il percorso di adesione alla moneta unica negli anni novanta. Ogni
volta abbiamo di fronte Francia e Germania, le quali, sulla base dei loro
interessi nazionali, raggiungono un accordo al quale, bon gré mal gré, viene
alla fine associato anche il “cugino povero”, l’Italia. Il compito di conseguenza
oggi più urgente sarebbe quello di portare in evidenza le fratture che dividono
Francia e Germania, per poi provare a modificare la logica opaca che
caratterizza da sempre la discussione europea, dove una bolsa retorica di
facciata ha il solo scopo di mascherare la durezza dei conflitti tra i due
principali protagonisti (opera meritoria alla quale si è dedicato Streeck nel
saggio citato all’inizio). Poi, se anche il “cugino povero” provasse a capire come
contare qualcosa in più e come difendere i suoi interessi nazionali, forse, la
costruzione europea avrebbe almeno una base più solida, fondata cioè sul
riconoscimento delle reciproche esigenze e non su un ipocrita gioco a
rimpiattino su chi è più europeista.

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