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Psicologia o carattere?

Maurizio Blondet 12 Febbraio 2009

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Ringrazio due lettori che protestano. Eccoli:

«... Mi inqueta molto notare come ‘di fondo’ ci sia un irragionevole astio o perlmeno diffidenza verso
la Psicologia che altro non è: ... la disciplina che studia il comportamento degli individui e i loro
processi mentali. Tale studio riguarda le dinamiche interne dell’individuo, i rapporti che intercorrono
tra quest’ultimo e l’ambiente, il comportamento umano ed i processi mentali che intercorrono tra gli
stimoli sensoriali e le relative risposte.... La psicologia esiste perche noi siamo ‘psicologia’. Che sia
scienza umana e quindi imperfetta precisamente come la medicina o altro mi pare evidente. Ma cosa
c’é di ‘strano’ nella psicologia? Le sue ‘radici’ ebraiche... ma perché gli ebrei non hanno forse delle
dinamiche emozionali e formate dalla società dove vivevano che li induce magari proprio ad essere
quello che sono?La psicologia può essere usata male o bene, è amorale di suo, come la medicina o la
matematica (scienza già ‘più’ certa). L’etica come sappiamo non è la morale e per tanto se Blondet
vuole dire che la psicologia non ha morale è ovvio... ma cosa scopre? Se invece non gli piace l’idea che
esista la possibilità di conoscere se stessi anche senza la morale allora si deve arrendere alla
evidenza... non piace neanche a me, ma purtroppo è cosi. Non a caso, in Italia esiste una associazione
di psicologi e psichiatri cattolici... un motivo evidente ci sarà? Ma in tutto questo la psicologia non
c’éntra niente, perche lo si voglia o meno esiste... siamo noi. Quindi lasciamo stare vecchi retaggi di
diffidenza verso la psicologia che non è ne amica ne nemica, è solo uno strumento che può essere usato
e conosciuto».

E l’altro:

«La psicologia dell’età evolutiva fa propri gli studi sui processi cognitivi. Lo psicologo, il più delle
volte in buona coscienza, adotta delle tecniche che tentano di far fronte a delle ‘lacune’ delle sviluppo,
a disturbi specifici dell’apprendimento e spesso utilizza storie, favole, giochi, oggetti, forme e racconti
come forme alternative di insegnamento. (Perchè non si utilizzano a scuola?). Sono ‘disturbi’ che
caratterizzano il bambino in età scolare, il bambino ha difficoltà ad apprendere a leggere, a scrivere o
a fare 3 più 3, oppure legge ‘la’ invece di ‘al’, oppure non ricorda il contenuto di storie lette e rilette.
Ora mi chiedo: ‘Un contadino un po’ più indietro dei suoi coetanei avrebbe approfittato di un aiuto se
per esempio avesse avuto difficoltà nel fare dei conti o con dislessia? Credo e spero di sì.
Probabilmente molte di queste difficoltà di apprendimento si sviluppano proprio nella scuola o meglio
nei metodi di insegnamento, ciò non toglie che si debba far fronte a queste difficoltà. Se la scrittura è
nata anche per far fronte alla ‘limitatezza’ della memoria umana (per scrivere le quantità e le
scadenze sulle derrate alimentari) è necessario che si debba saper scrivere e leggere, anche poco ma
con precisione. Nessuno psicologo pretende dei geni alla Mozart ma ha il piacere di vedere bambini
che superano le difficoltà. Direttore, Lei dice: ‘il presupposto che nei bambini esista una psicologia,
che negli esseri umani sia importante la psicologia, e che esista addirittura una scienza della
psicologia’. Mi spieghi: ‘perchè la voce psicologia, nei testi da voi in vendita nel sito, è sotto la voce
Scienze?’ E’ una cazzata ma mi incuriosisce. Ci sono molte altre voci come ‘Esoterismo’, ‘Pedagogia’,
‘Satanismo’, ‘Filosofia’... Certo la psicologia in molte sue questioni mi fa schifo e ribrezzo ma in altre è
interessante e vi trovo molti spunti per aiutare esseri umani in difficoltà, si vedano per esempio i
progressi della neuropsicologia. L’importante non è la materia che l’uomo sviluppa, l’importante è
l’intenzione con cui la sviluppa e l’utilizzo che ne fa».

Li ringrazio perchè mi permettono, per quanto posso, di precisare e approfondire.


Ma certo che ognuno ha una sua «psicologia»; esattamente come ciascuno di noi può avere i capelli
rossi o bruni o essere calvo, soffrire di miopia o di daltonismo, essere anemico o zoppo o grasso.
Voglio dire: la psicologia individuale è una «condizione», ossia uno dei tanti limiti del nostro
essere.

Per lo più irrilevante (come avere il naso grosso, che pure accascia tanti adolescenti, o la calvizie
che angoscia tanti adulti) a volte la psicologia diventa - come segnala il lettore che parla dei disturbi
dell’età evolutiva - un vero ostacolo all’espansione vitale; che va curato (ma come ammette il
lettore, forse non è il caso di «curare» i metodi di apprendimento usati nella scuola, che portano a
queste deformazioni?); anche se il mio dubbio è che lo psicologo usi qui non tanto la psicologia
come scienza terapeutica, ma una forma di pedagogia.

Quel che contesto è la concentrazione sulla psicologia che ci è rimasta (come residuo) dalla gran
moda della psicanalisi freudiana: quell’insieme di teorie per cui esiste un inconscio e un subconscio,
sotto la coscienza di veglia, e un «super-ego» moralizzante sopra l’«io», figura del «padre
castrante» della sessualità primordiale infantile, non-specializzata, tendenzialmente incestuosa.

La supposta «rivalità» del neonato per il padre come amante della mamma; la sessualità come
motore fondamentale dell’esistenza, e le lunghissime «sedute terapeutiche» con cui si supponeva
che il paziente (un semplice nevrotico; i malati mentali, Freud li lasciava prudentemente ad altri)
recuperasse il suo «io» irraggiungibile perchè sub-conscio, e bla bla bla.

Magari i lettori, più giovani di me, non sanno come fu travolgente questo psicanalismo. Esso
pretendeva di spiegare tutto, non potevi dimenticare un appuntamento e ti cercava le motivazioni
inconfessabili, sepolte nelle esperienze infantili; in ogni donna di cui ti innamoravi, ti spiegava che
vedevi la madre con cui volevi unirti da piccolo.

Di questo è rimasto poco o nulla come «terapia», ma invece ha creato una mentalità collettiva, che
ancora svolge i suoi malefici effetti: il narcisismo abnorme individuale, la concentrazione sul
proprio «io» supposto interessante, la convinzione che l’io sia un dato «naturale» con profonde
radici (inconscie, ovvio) e quindi immodificabile, con la giustificazione sempre pronta: «Io sono
fatto così», che pronuncia anche il giovanotto che ammazza la fidanzata che vuol lasciarlo.

In questo senso Karl Kraus chiamò la psicanalisi «la malattia di cui pretende di essere la cura».
Intendiamoci, Freud, gran rimestatore di miti, rimesta in realtà primordiali. Ma su queste, le cose
fondamentali e definitive erano già state pronunciate da antiche tradizioni.

Il pansessualismo psicanalitico è povero e parziale, in confronto alla visione indù di Kali: potenza
cosmica che gli indù intesero come una corrente indomabile, informe, fatta esclusivamente di
«desiderio», di «voglia», che tutti ci trascina e ci fa ballare (letteralmente: i teschi che sobbalzano
sul seno di Kali, siamo noi: noi che crediamo di agire come «io» quando inseguiamo le nostre
voglie, mentre «siamo agiti» da lei).

Il punto è che queste tradizioni ponevano tutto questo - un «questo» in cui è compresa tutta la
psicanalisi, e gran parte della psichiatria - nel lato di Kali. Ossia di ciò che è femminile, oscuro,
senza-forma, «materia»; e indicavano come compito dell’uomo (vir) il suo superamento, verso la
luce e la forma.

In termini contemporanei, potremmo dire: la propria psicologia è precisamente quel che dobbiamo
superare, che dobbiamo vincere, per ottenere il nostro «carattere». La psicologia è una delle
condizioni che dobbiamo vincere per essere veramente noi stessi. Ovviamente, per ciascuno di noi
le condizioni possono essere particolarmente «condizionanti».

Il daltonico magari non potrà dipingere nè guidare - ma anche qui, bisogna aggiungere che
Beethoven, sordo, compose musica altissima - classico esempio di lotta vittoriosa e terribile sul
proprio limite. Il paranoico delirante di persecuzione che sente «le voci», magari non potrà
diventare un io (e la psichiatria più scientifica può far poco per lui); ma in generale, è un errore
sopravvalutare le proprie caratteristiche psicologiche. Se possibile, è bene darle per scontate, e
«dimenticarle» per raggiungere lo scopo - nonostante esse.

E poi, se la psicologia fosse tanto importante, come spiegare che intere schiere di uomini sono così
«standard»? Specialmente i giovani, così occupati a spasmodicamente cullare il loro «io», sono
«standard», assolutamente prevedibili persino nelle loro trasgressioni - trasgressioni standard. Già
questo suggerisce che essi sono formati da una forza generale e impersonale, che è la loro epoca e la
loro società. La società risultante dalla secolarizzazione, la società permissiva e dell’assenza di
responsabilità.

E’ significativo dell’epoca che il lettore intelligente contrapponga la psicologia alla morale. E


sospetti in me del moralismo. Ma io non contrappongo la psicologia alla morale; la contrappongo al
«carattere», alla forza del carattere. Carattere e moralità o bontà non sono la stessa cosa.

Talleyrand era un cinico deliberato e un vizioso, per Napoleone «une merde dans un bas de soie»,
una cacca in una calza di seta - ma fu necessario a Napoleone, fu il genio della diplomazia
internazionale, e fu il regista del Congresso di Vienna in cui Talleyrand, solo, salvò la Francia.

Tutto congiurò a farne una psicologia disturbata. Primogenito, destinato dunque ad essere principe
di Périgord, affidato dai genitori (grandi nobili, cattolicissimi) a una balia subito dopo il battesimo,
fu storpiato per l’incuria della balia; un piedino fratturato non fu ricomposto, e si deformò per
sempre; da allora, i suoi genitori (cattolicissimi) lo destinarono a diventar prete e gli tolsero la
primogenitura, perchè un principe di Perigord non poteva esser zoppo. Di fatto, l’abbandonarono
durante l’infanzia a una popolana in campagna, dove crebbe vestito di stracci; poi a Chalais affidato
alla bisnonna per due anni, la sola che l’abbia amato, e che gli insegnò quelle sue inarrivabili,
leggendarie, aristocratiche buone maniere. Fu richiamato a Parigi dal padre per essere avviato alla
carriera ecclesiastica, e - a proposito di traumi psico-affettivi - basti dire questo: quel bambino
zoppo, quando scese dalla diligenza con la stampella, ad attenderlo trovò non papà nè mamma. Lo
aspettava un domestico che, incaricato dai suoi genitori, lo condusse direttamente al seminario di
Harcourt. Non lo fecero nemmeno entrare in casa.

Nessuna vocazione, ovviamente. A 15 anni, da seminarista, Talleyrand ebbe relazioni con tre
ragazze, e a 16 si prese ostentatamente un’amante, una giovanissima attrice: come carattere, non c’è
male. Era il suo modo di ribellarsi, ma non servì; gli fu imposto il sacerdozio, i suoi avevano in
mente per lui la carriera vescovile, ricca di onori e privilegi. Divenne infatti vescovo di Autun - e il
primo, fra i preti rivoluzionari, a negare e deridere la fede (grazie, genitori cattolicissimi).

Ma nel 1794 e fino alla caduta di Robespierre, Talleyrand trovò prudente riparare dal Terrore in
America. E questo libertino, incipriato e profumato quand’era a Parigi, si mette a vendere terreni; e
per raggiungerli, percorre per centinaia di chilometri il Massachusetts a piedi e a cavallo, si apre la
strada nelle foreste vergini con l’ascia, guada immensi fiumi primordiali, s’impantana nelle
astissime inesplorate paludi.

«Mi sono imbattuto in una natura selvaggia, intatta. Resti di alberi morti per vetustà coprivano il
terreno... Spesso le liane ci ostacolavano il passo. Le rive dei fiumi erano rivestite di verzura
rigogliosa, a volte di vaste praterie», annota.

Ha allora più di quarant’anni e, più che zoppo, è uno storpio.


Nel museo Carnavalet è conservata la sua scarpa destra: una zampa d’elefante con armatura di ferro,
munita di uno stelo d’acciaio che sale lungo il polpaccio e si congiunge ad un collare di cuoio sotto
il ginocchio. Un oggetto di tortura. Eppure, nei suoi biglietti da visita, Talleyrand non avrebbe mai
scritto «Invalido», ma «ministro degli Esteri di Francia», «gran signore», «diplomatico
insuperabile», e momentaneamente, uomo d’affari.

Anche il motivo per cui si sobbarcò quelle immani fatiche in America è singolare. Allora, affaristi
americani vendevano ad europei, che li compravano sulla parola, terreni che magari erano paludi, o
erano già d’altri, o magari nemmeno esistevano. Talleyrand voleva portare a buon fine affari onesti,
vedere i terreni vergini e delimitarli, prima di venderli.

Ho già parlato altre volte di Nelson: senza un braccio e senza un occhio, salute pessima, tutti i
contemporanei sono colpiti dal suo colorito grigiastro, cadaverico. In questo stato, che lo
candiderebbe oggi alla pensione d’invalidità e alla casa di riposo, guida la flotta britannica contro
quelle napoleoniche, da Abukir a Trafalgar, vive nelle condizioni terribili della marineria, su ponti
inondati di sangue, nei fischi dei proiettili. A Trafalgar, colpito, si appoggia al ponte con l’unica
mano, nella pozza di sangue di un altro ferito. Dice al suo secondo: «E’ finita, Hardy. Mi hanno
beccato alla fine». «Spero di no, Sir». «Sì, ho la spina dorsale spezzata». E mentre lo portano
sottocoperta, Nelson ha ancora la forza di tirarsi fuori di tasca il fazzoletto e coprirsi la faccia,
perchè l’equipaggio non lo riconosca e non si demoralizzi.
Ma questi sono caratteri eccezionali, rari, direte. Non è proprio così.

Mi ha sempre colpito un fatto che racconta Tacito: quando Germanico va a sedare una legione
insubordinata, i soldati gli afferrano le mani facendo finta di volergliele baciare, ma in realtà se le
cacciano in bocca per fargli sentire che sono senza denti. Tutte le nostre immagini hollywoodiane si
rovesciano: quelli sono veterani, il che significa che da vent’anni sono in servizio, il servizio
fisicamente durissimo del legionario romano, continue esercitazioni, marce con 40 chili sulle spalle,
e se non è la guerra, tutti a costruire ponti e acquedotti, a portare pietre e pali e secchi di calcina.
Vent’anni a cuocersi e masticare i due chili di schiacciate di grano al giorno, senza denti. La forza
fisica del soldato romano - proverbiale - non veniva dalle palestre di body building per narcisi.
Veniva dalla disciplina, dalla formazione, dal «comando» superiore, oltre ogni limite personale,
infermità e nonostante queste. Era una forza fisica che sfuggirà sempre ai nostri culturisti, per
quanto pompino pesi: questi hanno i muscoli gonfi all’esterno, quelli, da dentro.

A formare il carattere era l’adesione a un compito. Per millenni, la psicologia individuale -


volontariamente o più spesso, per forza - s’è cancellata nella funzione che ciascuno aveva, a cui
veniva preparato senza tante storie nè tenerezze, e che gli lasciava il segno. Anche nel corpo.

Come ancor oggi, in Marocco, i tintori sono riconoscibili per le braccia blu fino al gomito, un
pigmento che non se ne va mai via. Ma anche un Papa non pretendeva di avere un «io»; anzi lottava
contro il suo «io» e le sue idiosincrasie, per essere solo il Papa - un nome non suo seguito da un
numero romano, una funzione dispensatrice di grazia.

E anche il giovane Leonardo, quando è entrato alla bottega del Verrocchio, mica hanno apprezzato
il suo splendido, unico «io». Macchè: Macina i colori, ragazzo, e guarda come facciamo noi. Dopo
secoli, ci dicono che Leonardo era omosessuale, e vogliono che troviamo questo «interessante».

Ma per favore…

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