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Conferenza di

Xavier Lacroix

22 Settembre 2000

Equipes Notre Dame


Santiago de Compostela

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IL LEGAME A TRE FILI

Non ci si meraviglia mai abbastanza di fronte al vincolo coniugale:


ancora oggi, in un ambiente culturale che induce alla pluralità, alla precarietà,
alla rottura, tanti uomini e donne – la maggioranza, non dimentichiamolo -
accetta di impegnarsi a condividere una intera vita, in un legame concepito
come definitivo: tutto ciò ha veramente qualcosa di sorprendente. Alcuni si
mostrano perfino increduli: E’ possibile?
E’ possibile costituire un’unità, secondo i molteplici significati di questa
parola, con tutto ciò che oggi ci aspettiamo ne possa derivare, armonia,
comunicazione, intesa, conoscenza, tra due esseri separati, differenti?
Differenti per il loro sesso, la loro storia, la loro struttura psichica? Scoprire
sempre più che l’altro è “altro” e nello stesso tempo, andare avanti nel
cammino dell’unità: quale paradosso!
E’ possibile tenere insieme i valori legati alla modernità, quali la libertà,
la realizzazione di sé, il primato del desiderio e quelli legati alla durata, che
non può non comportare una parte di rinuncia, di sforzo, di pazienza, perfino
di sofferenza? Come conciliare le immagini contemporanee della felicità con
le esigenze della durata, della lunga durata? Secondo paradosso.
Come conciliare gli apporti delle scienze umane, che mettono in luce i
determinismi, i limiti, i meccanismi del fallimento, da una parte e, d’altra
parte, la fedeltà dell’etica cristiana tradizionale, continuando ad affermare
che l’impegno definitivo ha un senso, è anzi una fortuna per le persone e per
le loro famiglie?
Occorre veramente porsi la domanda che un uditore mi poneva
recentemente: “un essere umano ha la capacità di unirsi per tutta la vita ad
un altro essere umano?” Ha in se stesso questa capacità? Ecco una
eccellente domanda. Vi sono due modi per eluderla:

- il primo sarebbe quello di credere che l’incontro o il patto vada da


sé, sia facile, naturale. E’ il punto di vista che io definirei
“romantico”, che crede nella potenza del sentimento.

- il secondo modo di eluderla è quello, semplicemente, di rinunciarvi,


di rinunciare a costruire una unione durevole, per tutta la vita. E’ il
punto di vista disilluso, rassegnato.

Il punto di vista che io propongo, consiste nel considerare a viso


aperto la difficoltà dell’incontro, arrivando persino a considerarlo, come fanno
molti autori (Devis VASSE, Jacques LACAN, Roland SUBLON, Shamuel
TRIGANO), “impossibile”, pur continuando a scommettere su di esso, ad
affermarlo come desiderabile, come un bene fondamentale, come una
necessità, al limite.

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L’impossibile necessario, ecco il paradosso con il quale ci dobbiamo
misurare. Il patto coniugale è necessario per almeno tre motivi:

(1) Esso corrisponde ad una aspirazione molto profonda dell’uomo e


della donna. Tanto dobbiamo presupporre la separazione, tanto è vero che
non siamo fatti per la separazione. Vi è in noi un’attrazione irresistibile verso
la prossimità, l’unità, il dono e l’accoglienza reciproci, cioè verso la vittoria
sulla divisione, sulla estraneità.

(2) Una seconda ragione è che la fecondità resta l’orizzonte


fondamentale di questa unione. Ora, per i figli che nasceranno, poter contare
sulla solidità del legame che unisce il loro padre e la loro madre, costituisce
un bene senza pari. Nato da questa unione, il figlio crescerà sul suo
fondamento: se è sufficientemente solida, sarà per lui un principio di
sicurezza e di unità interiore, che nessun palliativo potrà rimpiazzare. Nel
quadro dei dibattiti che si tengono oggi in molti dei nostri paesi, sul tema
della famiglia, bisognerà pur affermare il suo migliore fondamento, il suo
elemento fondante non è solo l’armonia affettiva della coppia, né solamente il
riconoscimento del legame di filiazione ma l’istituzione di un patto coniugale
chiaro tra i genitori.

(3) Per ciascuno dei due sposi, inoltre (e questa è la terza ragione),
sarà una fonte di certezza, di sicurezza interiore senza pari, il sapersi amato
da un altro incondizionatamente, cioè totalmente, tutto intero. Che gioia non
avere l’impressione di passare ogni giorno un esame, di essere accettati per
quello che si è e non solo per le proprie qualità! E che gioia, fare questo
stesso dono all’altro!

Eccoci dunque di fronte all’impossibile necessario. Mi ritorna in mente


una parola del Talmud: “L”unione dell’uomo e della donna è un miracolo
ancora più grande del passaggio del Mar Rosso” (Trattato Sota, 2a).
L’accostamento non è casuale. E’ vero che da un lato abbiamo
un’unione e dall’altro lato una separazione. Ma la stessa unione presuppone
la separazione, senza dimenticare, per giunta che, il passaggio del mare, é
appunto una traversata: si tratta di passare da una riva all’altra.
E’ necessario credere ai miracoli, in questo campo? Ecco una bella
domanda, alla quale non bisogna rispondere troppo rapidamente.
In un primo tempo, vi propongo di considerare come il legame
duraturo e felice – che per me significa duraturo e vivo – sia il frutto di tre
attitudini, di tre realtà che si intrecciano nel vincolo, richiamandosi
vicendevolmente.
Il vincolo è, nello stesso tempo, una volontà, un’arte e un dono.
Vedremo in seguito come questo intreccio supponga l’apertura della coppia a
una vita più grande, quella di un Terzo, quella del Totalmente Altro che è
nello stesso tempo il Totalmente Vicino, vita che si rivelerà essa stessa, in un
terzo tempo, come relazionale, ternaria, trinitaria.
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In tre modi, quindi, saremo introdotti alla comprensione di questa
parola enigmatica dal libro dell’Ecclesiaste “Il legame a tre fili non si rompe
facilmente (Qo,12).

Nel suo primo momento, il vincolo nasce dal desiderio, dall’incontro di


due desideri. Dalla meraviglia davanti alla bellezza dell’altro, dall’attrattiva del
corpo, dalla corrispondenza tra due psicologie. Tuttavia, perché il vincolo sia
duraturo, bisogna ancora passare dal desiderio alla libertà, dallo psichico allo
spirituale. E’ qui che interviene la volontà.
Una cosa è desiderare vivere insieme l’unità, desiderarla, sognarla,
altra cosa è volerla effettivamente. Una cosa sono i processi che avvengono
in noi, il funzionamento, i meccanismi della nostra vita affettiva, altra cosa è
ciò che noi decidiamo, la fedeltà a ciò che abbiamo deciso. Il legame
coniugale non è un “prodotto naturale” una cosa bella e fatta. E’ una
realizzazione, una costruzione, una vittoria sulla separazione, che richiede
uno sforzo.

Un elemento decisivo per l’avvenire della coppia sarà il fatto che l’uno
e l’altro vogliano insieme costruire il vincolo. In assenza di questa ferma
volontà, il primo ostacolo serio spazzerà via la coppia. Solo una volontà
determinata farà trovare i gesti, talvolta costosi, necessari alla vita o alla
salvezza della coppia.
Atti di parole vere, di riconciliazione, di correzione dei propri
comportamenti, di servizio, di solidarietà.
Una frase di France Quéré lo dice molto bene: ”Le coppie che
camminano sono quelle che fanno cammino”.
E’ importante, di conseguenza che la coppia sia stata fondata su una
decisione chiara, che deve assumere la forma di una parola di riferimento, di
inquadramento, punto fisso nei momenti di turbolenza. Una parola che ha
aperto un avvenire, ha fissato una meta: non c’è nessuna navigazione se
non si fissa una meta. Come diceva il filosofo Seneca: “Non c’è buon vento
per colui che non sa dove va”.
Occorre riconoscere, tuttavia, che la volontà può essere determinata,
ma non onnipotente. Se fosse sufficiente voler durare, per durare, le cose
sarebbero più semplici. Ma, evidentemente le cose non stanno così. Non
basta voler durare, bisogna sapere come fare. In altre parole, si tratta qui di
un “saper fare”, di un’arte. Ecco la seconda dimensione del legame.
Due sposi che stavano per divorziare dicevano un giorno: “Ci amiamo,
ma siamo incapaci di vivere insieme”. Possiamo esserne incapaci per una
collezione di sbagli, per un susseguirsi di scenari negativi, per essere
prigionieri di situazioni che rendono difficile il progredire. Vorrebbero vivere
insieme, ma non sanno come fare. L’amore stesso non è solo uno slancio,
una intenzione, ancor meno un fluido magico. E’, secondo le definizioni di
numerosi filosofi, un “opera d’arte”, un’opera, un lavoro, che richiede talento,
ispirazione.
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Un’ “arte”, nel senso largo e più antico del termine, techné in greco,
che significa un “saper fare”, una competenza.
“Le relazioni di coppia sono indubbiamente più ricche di una volta, ma
richiedono, in contropartita, più competenze”, dichiarava un sociologo
(Claude HERAUD, in “La Croix, 27 febbraio 1998) Il vincolo è un’ “arte”
anche nel senso ristretto di “belle arti”, inteso cioè come capacità di creare, di
creare una opera bella. Ricorderei qui alcuni aspetti di questa arte.

- Arte di saper dire “SI”, ma anche di saper dire “NO”. Saper


affrontare il disaccordo, serenamente, senza confonderlo con il conflitto,
senza confondere il conflitto, se c’è stato, con la crisi, né la crisi con la
catastrofe.

- Arte di chiedere, di saper rivelare all’altro i propri desideri, le proprie


attese, le proprie delusioni: senza che ciò appaia come una lamentela, un
rimprovero o un’accusa.

- Arte di ricevere e donare. Alcuni fanno solo l’una o l’altra cosa. In


tutti e due i casi, è ugualmente dannoso. Il dono, sotto le sue diverse forme,
dalle più grandi alle più piccole, è ciò che fa vivere il legame. Ma è solo il
rovescio dell’accoglienza dell’altro. Essere capaci di lasciarsi amare,
lasciarsi “ammansire”, saper riconoscere e dire che si ha bisogno dell’altro,
saper donare senza alimentare l’egoismo del “partner” se il dono non è
reciproco.

- Arte di saper essere uomo e donna, nel rispetto delle differenze,


della differenza di genere in particolare. Senza che l’uno dei due imponga
all’altro il suo modello, o i suoi criteri o il suo modo di essere. E’ da un gioco
sottile di rassomiglianze e differenze tra i coniugi, che nascerà il profilo unico,
inedito, della differenza sessuale, differenza che prenderà un volto specifico
in ogni coppia, per ogni coppia, al di là degli stereotipi.

- Arte di coltivare il desiderio e le tenerezze carnali, di trovare loro


risorse nuove, rinnovate ad ogni tappa della vita comune, al di là degli slanci
degli inizi.

- Arte di parlare con i bambini e, cosa più delicata, con gli adolescenti,
trovando una parola di padre, una parola di madre, di nuovo con le loro
differenze, discernendo ciò che è opportuno secondo i momenti e le tappe
della vita.

- Arte di creare una comunità di vita originale, tanto originale quanto


lo sono le persone che la costituiscono, dove si condividono le gioie comuni, i
momenti di festa, le scoperte. Tutto ciò suppone attenzione, immaginazione,
intuizione.

- Arte di esercitare l’ospitalità, di aprire la famiglia. La casa aperta, la


tavola accogliente, la conversazione con gli amici, il posto fatto all’ospite
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imprevisto, tutto fa parte non solo dell’arte di vivere, ma della stessa
coniugalità, e contribuisce a costruirla.

Ci rendiamo anche conto, tuttavia, che per quanto sia importante


l’arte, il saper fare, ciò che fa vivere il legame è ancora al di là. E’ evidente
che il legame non è, né potrebbe essere il risultato di tutte queste pratiche,
considerate come ricette, né il frutto di tecniche appropriate. Il legame non è
solo una questione di volontà; non è solo una questione di “saper fare”: è,
anzitutto il frutto di un dono.

Ho ricordato prima la nozione di dono, in senso attivo. Il dono crea


relazioni, solo il dono è creatore di legami, fondatore del vincolo. Donando
all’altro esprimo il valore che attribuisco al legame, e, così facendo, lo faccio
esistere. Il dono realizza ciò che significa, cioè la “Koinonia”, la messa in
comune, la comunità, che è un altro nome del vincolo.
In una cultura dominata dal pensiero che solo la ricerca dell’interesse,
dell’interesse individuale, governa i nostri atti, dobbiamo osare dire che il
desiderio di donare è in noi ugualmente profondo, anzi più profondo, del
desiderio di possedere. Ne facciamo l’esperienza molto concretamente: nella
gioia di donare. La gioia è il segno che la vita cresce: la vita si sperimenta
donando e donandosi. Vita, gioia e dono, queste tre parole sono
indissociabili: “L’amore è la corcolazione stessa della vita come dono” (Jean
Claude SAGNE, La loi du don, Presses Universitaires de Lyce, 1997).
Non si tratta di un dono a senso unico: il dono autentico significa
accoglienza. Il più bel regalo che possa fare all’altro è quello di accoglierlo.
Amore, è proprio questo. Ciò non significa che si dona per ricevere, perché
così si ritornerebbe nello schema utilitarista. Si dona perché l’altro viva,
perché il legame viva, senza calcolo. La gioia di donare, quella di ricevere,
non sono il fine dell’atto, ma il suo frutto. Non è il frutto di un calcolo egoista,
ma il frutto di una atto generoso.
Mi direte, tuttavia: siamo capaci di questo movimento? Siamo capaci,
da soli, di dono autentico e generoso?
Ecco la domanda, la grande domanda, che si congiunge con quella
posta all’inizio, alla possibilità stessa di un vincolo.
Abbiamo l’intuizione e sperimentiamo che la gratuità e la generosità
oltrepassano le risorse del nostro psichismo, della nostra vita naturale.
Che l’amore come dono non può scaturire dalla sola alchimia della
nostra vita psicoaffettiva. Lasciata a se stessa, quest’ultima resta
immancabilmente centrata sull’”ego”, su di me e sui miei interessi. Il filosofo
Emmance Levinas ha potuto affermare: “Lo psichismo è egoismo”.
Per decentrarci, per entrare in quel movimento che ci conduce verso
l’altro, bisogna ricevere una spinta, un dinamismo che viene da più lontano di
noi, per condurci oltre a noi. Ci alleggerisce da noi stessi, ci scioglie da noi
stessi, per legarci all’altro. Questo slancio ci è dato, così come ci è dato il
movimento per cui doniamo: è un dono, un regalo, in latino “gratia”, una
grazia.

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Come dice il nome, la gratuità è la figlia della grazia. Entrambi i termini
vengono dal latino “gratia”, favore, regalo. In verità, noi riceviamo il
movimento attraverso il quale diventiamo capaci di donare, di donarci. Noi
sentiamo di essere incapaci, con le nostre sole forze, di questo
movimento.“Non c’è amore più grande che donare la propria vita per quelli
che amiamo”. Chi è capace, da solo, di un tale dono?
Chi di noi oserebbe dire di essere capace, da solo, di un tale dono?
In fondo, l’alternativa è la seguente: o il legame coniugale è solo il
risultato dell’interazione, dell’alchimia tra due psichismi, caratteri,
temperamenti, storie o è anche il luogo di fioritura, rivelazione, donazione di
una vita altra, introduzione ad una vita nuova, più originale e più universale
che quella di due “ego”, la vita assoluta, che, nella cultura ebraico-cristiana
chiamiamo “agape”, l’amore-carità.
Di questa terza vita, dei non credenti hanno avuto l’intuizione e fatto
esperienza. Alcuni gli hanno perfino dato un nome.
Per esempio Vladimir Jankelevitch, filosofo agnostico, che afferma:
“La carità è figlia della grazia”. In un’opera di stretta filosofia, Shamuel
Trigano, professore a Parigi X-Nanterre, può affermare: “E’ come se ci fosse
sempre un terzo interlocutore che si inserisce nel confronto reciproco e lo
apre dall’interno verso l’altrove”.
Lo psicanalista Jacques Lacan suggerisce in maniera enigmatica:
“Perché la coppia tenga sul piano umano, bisogna che un dio sia presente”.
Il compito proprio dei credenti sarà quello di dare un nome alla
sorgente del dono, da dare un nome a questo terzo, e di celebrarlo in
comunità, facendo corpo con altri e facendo riferimento ad una Scrittura, ad
una storia, ad una presenza.
Riconoscendo come grazia il dono dell’agape e in questo dono
l’iniziativa di colui che si chiama “Dio” ma che è più preciso e più cristiano
chiamare Padre, Figlio e Spirito. E tutto ciò a partire dalla Scrittura e dalla
effettiva esperienza spirituale.
Il Padre come colui che dona, la fonte nascosta del dono, colui al
quale rimanda Gesù quando dice, dopo aver citato il Capitolo 2 della Genesi:
“Ciò che Dio ha unito ….”
Il Figlio come colui che si dona, la forma e il modello del dono, colui
nel quale il dono prende corpo, colui che viene ad abitare il vincolo, come ha
promesso in una parola che certi Padri della Chiesa applicavano al
matrimonio: “Quando due o tre sono riuniti (uniti) nel mio nome, io sono
presente in mezzo a loro”.

Il Padre come colui che dona, la fonte nascosta del dono, colui al
quale rimanda Gesù quando dice, dopo aver citato il Capitolo 2 della Genesi:
“Ciò che Dio ha unito ….”
Il Figlio come colui che si dona, la forma e il modello del dono, colui
nel quale il dono prende corpo, colui che viene ad abitare il vincolo, come ha
promesso in una parola che certi Padri della Chiesa applicavano al
matrimonio: “Quando due o tre sono riuniti (uniti) nel mio nome, io sono
presente in mezzo a loro”.
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Lo Spirito come dono donato, che darà al vincolo soffio, respirazione
ed energia, liberandolo dalle sue schiavitù: lui i cui frutti sono, secondo le
parole di San Paolo:”Amore, gioia, pace, pazienza, bontà, benevolenza,
fede, dolcezza, dominio di sé”.
L’azione della Grazia nella vita coniugale può dispiegarsi secondo due
registri, classici nella teologia cristiana. Secondo l’ordine della “creazione”,
dell’azione creatrice, per dar vita al vincolo, suscitando il desiderio (nel senso
forte di questa parola), la gioia, la meraviglia dell’incontro; ma anche secondo
l’ordine della “salvezza”, per salvare il vincolo dai numerosi pericoli che lo
minacciano.
“Ogni storia d’amore è una storia di salvezza” leggevo recentemente
(Alain Mattheeuws “Le don du mariage” Nouvelle revue Théologique, n. 2,
1966). Ogni coppia avrà bisogno, un giorno o l’altro, di essere salvata e lo
sarà in maniera molto concreta, (cioè non magica o idealizzata), attraverso i
diversi aspetti del lavoro della grazia: dono dell’energia per ricominciare,
dono dell’umiltà per chiedere perdono, dono della speranza, dell’aiuto
fraterno più ampio. Questa necessità e nello stesso tempo questa possibilità,
di una salvezza per la coppia e quindi per la famiglia, è uno dei messaggi più
originali che i cristiani abbiano a formulare nell’attuale situazione.

II

Al termine di una conferenza nella regione francese del Jura, un


vecchio parroco mi disse un giorno con convinzione: “In fondo, il matrimonio
non è una questione di amore, è una questione di fede“. Capiamo anzitutto
questa parola nel senso ampio dal latino “fides“, termine con cui S. Agostino
designava uno dei tre “beni“ del matrimonio, parola ricchissima, intraducibile.
La possiamo interpretare secondo tre significati.

- Anzitutto, come fedeltà della parola data. E’ il primo significato della


parola, che si può anche tradurre con lealtà. In un epoca in cui una cultura
superficiale le dà poco valore, prendiamo coscienza dell’importanza del
carattere fondante, per l’uomo e per la persona, del significato di dare la
parola. Siamo tutti cresciuti su parole date e mantenute. E’ la parola che ci
unifica e costruisce. E’ lei che ci lega e ci collega, se siamo affidabili, cioè se
l’altro può contare sulla nostra fides, che è un altro nome di questa
affidabilità.
- Il secondo significato di questa parola è quello di una fiducia di
fondo , che io chiamerei volentieri fiance, vecchia parola francese cara a
Charles Péguy (dal verbo fidarsi). Possiamo stringere alleanze solo sulla
base di una fiducia di fondo, appoggiandosi su una certezza fondamentale.
Non si tratta solo di credenza, di credere che è possibile, ma di "fiance", vale
adire dell’atto positivo di fidarsi, di una scommessa, di un salto nel vuoto.
Per osare questa follia di impegnarsi per una vita intera con qualcuno,
occorre una fiducia di fondo nell’altro, in sé, nel legame. "Fiance" nel valore

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dell’altro, della presenza, in lei o in lui, al di là delle sue qualità e dei suoi
difetti, di un principio di vita, di un mistero insondabile che resterà sempre,
oltre le delusioni, le difficoltà, le sofferenze. "Fiance" in sè, nella presenza in
se stessi, ogni giorno, domani come oggi, di questa buona volontà che è in
me oggi, per costruire il legame.
Si capisce bene che questa doppia fiducia rimanda ad una fiducia
ancora più fondamentale, alla certezza che questa volontà sarà donata
all’uno o all’altro, ogni giorno.
Al di là dei rischi della nostra affettività e degli alti e bassi di
quest’ultima, esiste una roccia o una sorgente, un principio affidabile di
stabilità e di rinnovamento.

La fede è il contrario della paura; la parola “paura” ritorna sulle labbra


di coloro che esitano a sposarsi e, persino (ne ho sentite diverse
testimonianze) di coloro che si preparano al matrimonio. Paura dell’altro,
paura di essere assorbito o utilizzato, paura di perdersi; paura della
ripetizione degli scenari vissuti dai genitori, paura della noia, paura di non
amare più, di non amare abbastanza……Possiamo scommettere sul legame
solo se ascoltiamo una voce che ci dice, come Gesù ai suoi Discepoli sul
mare agitato “Non abbiate paura“ (Mt 14,27).
Per stringere alleanza, per legarsi, bisogna essere capaci di slegarsi,
di allentare certi legami antichi, di liberarsene.
La "fiance" di fondo è credere che donandosi si è accolti, accolti non
solo dall’altro ma dalla vita, credere che si entra così nella vera vita.
Occorre una buona dose di “fiance” per credere per davvero che,
volendo salvare la propria vita la si perde, accettando di perderla la si
ritroverà.
C’è qui un movimento di abbandono radicale, di abbandonare la
presa, che è il centro della vita spirituale.
Vi sono persone che vivono questa “fides” allo stato puro, senza
chiamarla così, al di fuori di ogni convinzione religiosa.
Credono che l’atteggiamento di “fiance”, di fedeltà , di scommessa sul
valore del vincolo, è quello giusto, a dispetto, talvolta, delle apparenze.
E’ ciò che si chiama la fede nuda o “fede al quadrato”, a fede nella
fides ,la fede nella fede.
Senza parole per dirlo, senza promesse esplicite di ricompensa, ma in
virtù di una intuizione che risiede qui la verità della vita.
Che si sia credenti o no ,ci saranno dei momenti in cui la fede
coniugale dovrà passare attraverso “notti”, come l’esperienza mistica stessa,
alla quale, per molti versi può essere paragonata.
Notte dei sensi, quando non si sente più niente, notte della mente ,
quando non si capisce più niente “Ed io non vedevo niente, senz’altro lume
né guida che quella che bruciava nel mio cuore” dice San Giovanni della
Noce nel Cantico della notte oscura.

Il terzo significato della parola fides, quello più esplicito, è


l’accoglienza del dono di Dio, riconosciuto e professato come tale.

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Il riconoscimento di questo dono come sorgente di vera libertà, come il
“Signore dell’impossibile”.

Siamo stati tentati, per cominciare, da quest’ultima parola che poteva


rassomigliare alla domanda di Maria nel racconto dell’Annunciazione: “Com’è
possibile?”
Questo racconto, come sapete, termina con il versetto ripreso dalla
Genesi: “Niente è impossibile a Dio”. Notiamo inoltre questo: nel Vangelo di
Matteo la proibizione del ripudio, parola originaria di ciò che chiamiamo
indissolubilità del matrimonio, fa parte di un insieme di parole che formulano
appelli altrettanto radicali: il celibato per il Regno, essere simili ai bambini,
vendere e donare tutti i propri beni.
Al termine di questo discorso, i Discepoli restano interdetti e non
possono fare a meno di porre la domanda:” Ma allora, chi potrà salvarsi ? “
alla quale Gesù rispose “ Agli uomini è impossibile, ma a Dio tutto è
possibile” (Mt 19,26)
La fede più radicale sta qui. Essa potrà prendere delle forme molte
concrete nei momenti di paura, di oscurità,al momento delle scelte cruciali.
Vi sono cose che sembrano superiori alle nostre forze, ma bisogna
ricordarsi della parola sentita da Paolo “La mia forza ti basta, perché la
mia potenza si afferma nella debolezza” (2Co 12,9).
Una delle bellezze del vincolo coniugale è proprio questo affermarsi
della forza nella debolezza; dobbiamo particolarmente confrontarci con le
nostre debolezze.
Noi crediamo che, se Dio ci chiama alla fedeltà incondizionata, ci darà
anche la grazia di viverla.
Mi piace molto l’adagio secondo cui “ Dio dona ciò che ordina”.
Un contemporaneo, Denis Vasse, ha potuto scrivere : “La realtà dell’amore è
impossibile tra le creature. E’ possibile veramente solo in Dio; solo il cuore
affidato a Dio ama” (Denis VASSE, La souffrance sans jouissance ou le
martyre de l’amour,Seuil,1998,p.64). E quando ci consegniamo a Dio, Dio
non resiste. L’amore vero è al di sopra delle nostre risorse, possiamo amare
veramente solo innestandoci sul cuore di Dio.

III

“ Mai potrò amare le mie sorelle come voi le amate, o mio Gesù, le
amo in me” esclamava la piccola Teresa, Teresa di Lisieux. Ogni sposo
potrebbe dire la stessa cosa a proposito dell’amore cui è chiamato verso la
propria sposa, così come ogni sposa verso il proprio sposo. “Mai potrò amare
mia sorella, mio fratello, la mia sposa, il mio sposo se tu stesso, Gesù non li
ami in me”. Siamo così condotti a percepire il vincolo coniugale come atto di
Dio ; non, fondamentalmente, come il risultato della nostra iniziativa, del
nostro agire, ma come il luogo e il frutto dell’azione di Dio stesso.

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Molto concretamente, ciò si traduce nell’accoglienza del lavoro dello
Spirito, che supplisce alla nostra debolezza e ci rende capaci di amare
secondo il cuore di Dio. Solo lo Spirito è capace di realizzare la più grande
unità nel più gran rispetto dell’alterità. E’ Spirito di comunione e nello stesso
tempo Spirito di personalizzazione.
In ciascuno infonde lo sviluppo dei suoi carismi particolari, della sua
libertà e della sua bellezza, tra i due ispira un movimento di ricettività, di
flessibilità, di docilità, capace di suscitare una forma di armonia cui nessuna
risorsa solamente umana potrebbe portare.
“Essere vivo, attraverso un libero dono reciproco” , scrive E. Stein nel 1942, “
è possibile solo a cuori spirituali” (Edith STEIN, La science de la croix (1942),
trad. fr. èd. Nauwelaerts, 1998, p. 198).
Spirituali significa : capaci di vivere il mistero della mutua presenza nell’altro:
“Tu in me , io in te”, che è il movimento stesso della vita Divina, come
possiamo leggere in San Giovanni :”Io sono nel Padre e il Padre è in me”,
dice Gesù (Gv 14,11); o ancora “ Rimanete in Me come Io in voi “ (15,4);
“che siano uno come noi siamo uno, io in loro e tu in me, che siano
perfettamente uno” (17,23).
Ogni vera unità, che non aliena né incatena, ma al contrario libera,
viene da Dio, si trova in Dio, “L’amore nel suo compimento più perfetto,
scrive ancora E.Stein, è essere uno in un libero dono reciproco, è la vita
intima di Dio, la vita della Trinità “.
Sentiamo certo, e sperimentiamo che nel vincolo coniugale autentico,
cioè nel legame che poggia sull’amore come dono reciproco, c’è un mistero
non sovrumano ma “ al di sopra” dell’uomo.
E’ straordinario che gli sposi , aprendosi al Terzo, alla vita Divina
come terza tra loro, si aprono ad una vita che è essa stessa ternaria,
Trinitaria.

Il Dio Cristiano non è un individuo, una sostanza statica, è relazione,


comunione.
“Al Dio Trinitario corrisponde l’uomo comunione”, dice felicemente
Olivier Clement. “; “Corrisponde” , in un senso preciso e forte, cioè: in
corrispondenza, in armonia, in dialogo “ con “.
La Rivelazione e l’esperienza spirituale ci portano a riconoscere tra la
vita Trinitaria e l’alleanza coniugale non solo una analogia ma una relazione
reale, di partecipazione.
Conviene certamente evitare ogni trasposizione troppo ingenua,
troppo diretta, della vita coniugale nella vita Trinitaria e inversamente.
La Triade Padre, Figlio, Spirito, non è assolutamente la Triade :
Padre-Madre-Figlio.
Quanto meno perché non c’è differenza sessuale in Dio.
Bisogna sempre cominciare dal riconoscere l’alterità Divina, la
differenza radicale tra Dio e tutte le nostre rappresentazioni, qualunque esse
siano.

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Tuttavia, essendo passati attraverso la notte, la notte della fede,
possiamo avere l’intuizione del movimento ternario della vita, della vita
assoluta, della vita divina.
Suscitare un terzo aprendosi all’altro, dar luogo ad una terza vita
comunicando la propria vita all’altro, ecco un passaggio fondamentale.
Il movimento della spoliazione di sé, il consegnarsi radicalmente
all’altro, conducono le due persone ad un dono tale da donare, ancor più, da
comunicare la propria vita, in un movimento che le oltrepassa, un movimento
creatore e fecondo, “Il grande dono dell’amore è donarsi l’uno all’altro per
donarsi insieme”, diceva Paolo VI in una allocuzione alle Equipes Notre
Dame, il 4 Maggio 1970.
Tra il Padre e il Figlio , lo scambio è così profondo, così definitivo, così
totale, che è il loro essere intimo, la loro vita essenziale a circolare tra Loro,
suscitando tra Loro il fuoco e la luce di una terza persona, persona che è
precisamente quella attraverso la quale essi si comunicano alle creature
nella maniera più intima.
L’uomo e la donna sono invitati ad entrare nello stesso movimento,
nello stesso mistero.
L’unione tra i loro corpi, immagine ed espressione dell’unione tra i loro
cuori, va così lontano nello scambio, coinvolge a tal punto la sostanza più
intima dei loro corpi, da raggiungere in essi le sorgenti della vita, il luogo
dove una vita scaturisce.
La loro unione si incarna in una terza; eccoli dunque introdotti in due
modi in una vita più grande della loro, a monte attraverso l’accoglienza del
dono di Dio, a valle attraverso la fecondità.

La cosa meravigliosa è che questi due movimenti sono una cosa sola.
Ciò che è accolto è una vita, la cui essenza è di donarsi, raddoppiarsi,
moltiplicarsi. Il movimento verso la più grande interiorità è movimento verso
l’esterno, verso gli altri, verso l’avvenire. Così è la respirazione dello Spirito,
raccoglimento e apertura, inspirazione-espirazione. La fecondità è come il
dono del dono, il suo raddoppio, la sua incarnazione.
La sua forma più evidente e la più naturalmente desiderata è certo la
procreazione e l’accoglimento dei figli. Giovanni Paolo II ha potuto scrivere:
“Ogni generazione porta in sé la rassomiglianza, cioè l’analogia, con la
generazione divina” (Giovanni Paolo II, La dignità della donna, Lettera
apostolica, 1988). Bisogna tuttavia capire che esistono altre fecondità della
coppia e della famiglia, abitate da questa respirazione. Riprendendo una
tradizione molto antica Giovanni Paolo II parla a più riprese di “Ministero”
proprio degli sposi “ministero autentico della Chiesa al servizio
dell’edificazione dei suoi membri” (Giovanni Paolo II, I compiti della famiglia
cristiana, Esortazione apostolica, 1981).
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Spirituale non vuol solo dire interiore, intimo, introverso, intersoggettivo, ma
anche radioso, capace di iniziative, inventivo, integrato con gli altri membri
della Chiesa.

Bisogna saper dire ciò che, molto concretamente, l’accogliemento


della vita del Padre, la consacrazione alla persona del Figlio e
l’impregnazione dei doni dello Spirito Santo possono apportare alla vita della
coppia e della famiglia.
Colui che ha uno spirito filiale, che non si considera proprietario della
propria vita, che sente la fonte della propria libertà nell’abbandono e
nell’obbedienza, sarà più capace di diventare bambino, di non considerarsi
come un dio, di riconoscere la filiazione divina negli altri uomini.
Colui che accetta di entrare nel movimento della morte e della
resurrezione del Figlio, che riceve da lui il vino nuovo delle nozze di Cana, si
nutre della sua eucarestia, sarà più capace di trovare la sua vita nel dono, ad
accettare la parte di sofferenza che è nel fondo di ogni amore, di prendere il
posto del servitore.
Colui che si lascia trasformare dal soffio di Dio, che si mette sotto la
protezione del Consolatore, che è abitato dallo Spirito di Verità, sarà più
capace di ricevere l’energia per venire alla luce, il coraggio per vincere le
paure e le angosce, la speranza per vivere i necessari momenti di ripresa.
L’essenziale, in definitiva, è molto semplice. Si tratta di entrare in una
respirazione. Di entrare nel movimento di una vita che viene dal Padre, ci
conduce con l’altro e gli altri verso Cristo, per ritornare con questi al Padre.

Questo movimento è il movimento stesso dello Spirito, il cui nome è


soffio, vento, respirazione.

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Siamo ora in grado di interpretare la parola enigmatica


dell’Ecclesiaste. Dopo aver fatto l’elogio della vita a due, senza alcuna
ragione apparente, il testo afferma che: “il legame a tre fili non si rompe
facilmente”. Dettaglio casuale? Forse. Ma ci sono dei cristiani che ci hanno
riflettuto. In un altro contesto, San Gregorio di Nazianza, Padre della Chiesa,
in una meditazione sulla Trinità, ha scritto: “Uno è il numero dell’isolamento,
due è il numero della separazione, tre è il numero che vince la separazione”.
Significa che tre è il numero della relazione, della relazione vera che è,
come abbiamo intravisto, una separazione superata.
In un’epoca in cui la relazione coniugale è sempre più vista come
relazione di coppia, secondo una logica duale, è forse compito dei cristiani
ricordare o annunciare il posto del Terzo nella relazione.
Un terzo non solamente simbolico, come si dice talvolta nelle scienze
umane, ma reale, veramente reale, più reale delle chimere inseguite dalle
nostre passioni.
Esistono differenti figure di questo Terzo, nella vita sociale, nei
rapporti fraterni, nella comunità ecclesiale e, come abbiamo visto, nei figli.
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Dio è il Terzo primordiale, il Soggetto assoluto, la cui vita dà al vincolo più
grande solidità, nella misura in cui viene accolta.
Questo punto è da precisare. Il dono, bisogna accoglierlo. Così come
il poeta Paul Claudel ha potuto scrivere: “L’onnipotenza di Dio si ferma alla
porta del cuore dell’uomo”. E prima di lui San Paolo: “La grazia, la portiamo
come un tesoro in vasi d’argilla”.
Non si tratta quindi di magia. Si tratta di un dono affidato alla nostra
libertà, al nostro accoglimento o al nostro rifiuto. La cultura odierna ci rende
particolarmente sensibili a questa fragilità. Bisognerebbe tuttavia che non ci
impedisca di vedere, di osare dire, e prima di tutto sperimentare, quanto
l’accoglienza del dono della vita divina, cioè della grazia del sacramento,
consolidi il vincolo, dandogli la capacità di rinascere e ricominciare sempre.

Tutto ciò è molto concreto, lo sappiamo bene nelle Equipes Notre


Dame. Possiamo sperimentare, ogni giorno, ogni settimana, ogni mese,
quanto la preghiera, cioè l’entrata cosciente nella circolazione del dono
Trinitorio, ci faccia entrare in una comunione più larga della nostra, convalidi
il nostro vincolo e ci aiuti a porre gli atti che lo mantengono vivo. Questa
comunione più larga é, non esclusivamente ma molto particolarmente, la
comunione con i nostri “co-equipiers”. Il legame si tesse anche con la vita
spirituale condivisa con altri, in una fraternità più larga di quella della famiglia.
Così, l’apertura al Terzo divino e l’apertura ai terzi umani non sono
distinte, non possono essere disgiunte. L’apertura verso l’Altissimo e
l’apertura verso i fratelli coincidono, si arricchiscono e si alimentano
vicendevolmente.
Alla fine, il vincolo che non si rompe facilmente non è costituito solo da
tre fili. Nel terzo filo vengono ad incrociarsi, confermarsi, arricchirsi tutti i
diversi legami umani, divini, divino-umani.
Sappiamo guardare con occhi stupiti e ammirati questo fatto: che il
riconoscimento della persona dell’altro, nella sua unicità e singolarità, coglie
l’essenza del dinamismo dell’amore fraterno, cioè dell’amore più universale.

Xavier Lacroix

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