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Dalle ENNEADI di PLOTINO - VI,9

3. - Ora, che sarà mai l'Uno e quale sarà la sua natura? Ecco, nessuna maraviglia che non
sia facile dare una risposta, dal momento che non è neppure facile darla e per l'essere e per
l'idea, sempre che, tuttavia, la nostra conoscenza trovi nelle idee il suo punto d'appoggio.
Pure, quanto più l'anima penetra in seno all’informe, spossata nel suo vano tentativo di
coglierlo, per la indeterminatezza e per il fatto ch'essa non viene più, per così dire,
impressionata da una varia impronta, ella allora sdrucciola e teme di trovarsi a mani vuote.
Perciò, si travaglia fra tali angustie e ben volentieri tante volte se ne scende e cade, di
grado in grado, fino a venirsene nella zona del sensibile, quasi riposando sulla terra salda:
così anche la vista, affaticata negli oggetti piccoli, si getta avidamente sui grandi.
Ma allorché, di per se stessa, l'anima vuole contemplare, poiché la sua visione ha luogo
esclusivamente per via di comunione e la sua unità è dovuta al fatto che s'è unificata con
Lui, ella non crede ancora di possedere quel che ricerca, appunto perché non è più qualcosa
di diverso dall'oggetto del suo pensiero. E, nondimeno, proprio così deve comportarsi chi si
accinge a filosofare intorno all’Uno. Ora, poiché quello che cerchiamo è l'Uno e poiché
andiamo scrutando il fondamento di tutte le cose, cioè il Bene e il Primo, noi non dobbiamo
allontanarci dai dintorni del Primo per cadere nelle cose estreme; ma dobbiamo, con uno
slancio, balzare su verso i primi Valori, dopo aver svincolato il nostro « io » dalle cose
sensibili - che sono le cose estreme! - e da ogni malizia, appunto perché, ansiosi di
appressarci al Bene, dobbiamo così salire al principio che si trova nel nostro « io » e farci «
uno » dalla molteplicità, se vogliamo davvero riuscire alla contemplazione del Principio e
dell'Uno!
Urge, dunque, trasformarsi in Spirito e porre in balìa dello Spirito 1'anima. propria e
fissarla lì sotto, affinché accolga, in pieno risveglio, proprio ciò che vede lo Spirito; occorre
contemplare l'Uno mediante lo Spirito senza aggiungere sensazione alcuna e senza insinuare
in lui nulla che da essa derivi; occorre invece con puro Spirito anzi con la primizia dello
Spirito contemplare il Purissimo.
Mi spiego: appunto poiché l'essenza dell'Uno è la generatrice di tutte le cose, essa non è
nessuna di quelle cose: essa non è pertanto « qualcosa », né è qualità, né quantità, né
Spirito, né Anima; non è neppure « in movimento » né, d'altronde, « in quiete »; non è « in
uno spazio »; non è « in un tempo »; essa è invece 1' Ideale solitario, tutto chiuso in se
stesso o, meglio, 1' Informe che esiste prima di ogni ideale, prima del moto, prima della
quiete; poiché tali valori aderiscono all'essere e lo fanno molteplice. Ma, dal momento che
non è mosso, perché allora non è neppure in quiete? Perché l'una di queste due alternative o
entrambe aderiscono solo all’essere, necessariamente; inoltre ciò che è in quiete è quieto in
virtù della quiete e non s'identifica con la quiete stessa; a segno che quiete e moto gli
aderirebbero solo accidentalmente, ond' Egli non resterebbe più semplice.
Del resto, anche se noi lo riconosciamo come causa, questo non vuol già dire che noi gli
assegniamo un attributo accidentale; ma l'espressione vale solo per noi uomini, in quanto noi
possediamo qualcosa che proviene da Lui, mentre Egli in realtà persevera in se stesso.
Pure, a rigor di termini, non si dovrebbe applicare a lui, né « quello », né « questo »; e,
intanto, è fatale che noi uomini, quasi correndo intorno a Lui, dal di fuori, bramiamo
interpretare i sentimenti umani, a volte giungendogli vicino, a volte respinti indietro per le
difficoltà che sperimentiamo in Lui.

4. - Ma la via di uscita ci è preclusa soprattutto perché la intelligenza di Lui non si


ottiene né su la via della scienza né su quella del pensiero, come per i restanti oggetti dello
Spirito, ma solo per via di una presenza che vale ben più della scienza. Eppure, l'anima
sperimenta un allontanamento dalla sua unità e non resta completamente una, allorché
acquista la conoscenza scientifica di qualche cosa; 1a scienza, difatti, è un processo logico;
ma il processo logico è molteplice. Quindi essa valica l'unità, poiché è caduta nel numero e
nel molteplice. Urge pertanto oltrepassare di corsa la scienza e non deviare giammai dal
nostro essere unitario; è necessario frattanto allontanarsi sia dalla scienza sia dallo scibile
sia da ogni altro spettacolo per quanto bello; poiché ogni bellezza è posteriore a Lui e da lui
deriva come la luce diurna deriva tutta quanta dal sole. Gli è per questo che di Lui non si può
né parlare né scrivere, come fu detto. Frattanto noi parliamo e scriviamo per indirizzare
verso di Lui, per destare dal sonno delle parole alla veglia della visione, e quasi per additare
la strada a colui che desidera contemplare un tantino. Francamente, il magistero non va
oltre questo limite di additare cioè la via e il viaggio; ma la visione è già tutta una opera
personale di colui che ha voluto contemplare.
Pure, se uno non giunge alla visione, se l'anima sua non sa nemmeno comprendere lo
splendore di lassù, se essa non sperimenta e non serra in sé il travaglio amoroso - sorgente
dalla visione - dell'amante che si riposa in colui che ama; se, pur accogliendo la luce vera e
precingendone l'anima interamente per una maggiore vicinanza raggiunta, quegli sale
tuttavia ma risulta appesantito alle spalle da qualcosa che gli inceppa la visione; se, insomma,
sale non solitario ma in compagnia di qualcosa che lo separa da Lui o non ancora si è raccolto
nell’unità... - in verità non è lontano da nessuno, Lui, eppure è lontano da tutti; sicché Egli,
presente, non è presente se non a coloro che sono in grado di accoglierlo e sono predisposti
in modo da aggiustarglisi accanto ed entrare in contatto e toccarlo addirittura per via di
somiglianza e in virtù di quella potenza ch'è in Lui, congeniale a ciò che deriva da Lui stesso,
qualora tale potenza si serbi tale com'era quando uscì da Lui, ecco, allora, che essi sono
capaci di contemplarlo nella maniera ond'Egli secondo la sua natura è visibile -; ... se,
dicevamo, costui non si trova ancora lassù ma se ne sta al di fuori per gli ostacoli ora
menzionati o per la mancanza di una concezione razionale che lo governi e gli sappia
instillare una convinzione intorno a Lui, allora attribuisca pure a se stesso la colpa per tutto
il resto e si studii di starsene solo lontano da tutti; ma quanto al fatto che, sfiduciato nelle
ragioni addotte, egli era venuto meno, rifletta a quel che segue.

7. - Se, per il fatto ch' Egli non è niente di tutto questo, tu cadi nell'indeterminatezza
col tuo pensiero, fissati tuttavia lì e da quella prospettiva comincia a contemplare.
Contempla, però, senza scagliare al di fuori il tuo pensiero. Poiché Egli non se ne sta in un
punto qualunque, lasciando ogni altro luogo deserto di sé, ma a chi riesce a toccarlo Egli è lì
presente, e a chi non riesce non è presente. Pure, come nel resto non è dato pensare
qualcosa a chi ne pensa qualche altra e ad essa si applica, ma non deve costui connettere
nulla a ciò che va pensando perché possa proprio trasformarsi nell'oggetto pensato, così
pure occorre procedere anche in questo campo poiché non è dato, a chi abbia già nell'anima
l’impronta di un'altra cosa, pensare quell'Uno finché tale impronta è ancora lì operante;
anche perché l'anima tutta presa e dominata da altri oggetti non si presta più ad essere
impressionata dall'impronta dell'oggetto contrario; per contro, come è stato detto a
proposito della materia, che cioè questa vuol essere spoglia di ogni qualità, se intende
accogliere le impronte di tutte le cose, così, anzi in un grado ben più alto, l'anima deve
restarsene nuda di forme, se intende davvero che nulla s'insedii lì a far da impaccio alla
piena inondante ed alla folgorazione che si riversa su lei da parte della Natura primordiale.
Se è così, essa deve staccarsi da tutte le cose esteriori, volgersi verso la sua intimità,
completamente, non inclinarsi più verso qualcosa di esterno, ma estinguendo ogni conoscenza
(e, precisamente, dapprima solo attraverso 1' intima disposizione, poi, di fatto, anche nella
stessa nostra configurazione mentale), spegnendo altresì la conoscenza del proprio essere,
l'uomo deve immergersi nella contemplazione di Lui; allora, congiunto a Lui e, per così dire,
dopo una opportuna consuetudine, il contemplante ritorna ad annunziare altrui quella con-
versazione superna, se gli basta l'animo - a tale conversazione, forse, iniziato, Minosse fu
celebrato «il confidente di Zeus» ond'egli, memore di tale conversazione, istituiva le sue
leggi come memoriale figurato di essa, tutto invasato del contatto del divino, vòlto a
legiferare... - ovvero, se reputa l'attività politica indegna di sé, l'anima può, se le aggrada,
dimorare lassù: e proprio questo capiterà a chi abbia assai contemplato.
A nessuno, fu detto, Egli è esteriore, ma a tutti, senza che lo sappiano, Egli è compagno.
Essi fuggono, voglio dire, da Lui o, meglio, da se stessi. Così, non riescono a cogliere colui
che hanno fuggito, ed avendo perduto finanche se stessi non riescono a cercare un nuovo «
io » rinnovellato; certo, un figlio uscito fuori di sé, nella sua demenza, non può riconoscere il
padre suo; ma chi abbia appreso se stesso saprà pure la sua origine.

8. - Ora però, dal momento che una parte di noi è prigioniera del corpo, come se uno
avesse i piedi nell'acqua ed emergesse col resto della persona, naturalmente noi ci
solleviamo al di sopra del corpo con la parte dell'anima che non è sommersa in esso e allora
ci mettiamo in contatto per via del nostro proprio centro con quello che vorrei chiamare
centro del tutto - come i centri dei cerchi massimi sono in contatto con il centro della sfera
che li include -, e lì riposiamo.
Ora, se si trattasse di cerchi corporei e non di vivi cerchi delle anime, essi
coinciderebbero spazialmente con il centro e, poiché il centro è situato in un dato punto,
essi lo attornierebbero; ma dal momento che le anime sono in sé e per sé di essenza
spirituale e Quegli è al di sopra dello spirito, si deve allora pensare che il contatto abbia
luogo non già con quella potenza con cui naturalmente il pensante è in contatto col pensato,
ma con potenze ben diverse, e che anzi tale contatto sia più intimo a segno che si abbia
proprio la presenza dello Spirito pensante in grazia della somiglianza e della identità, e il
vincolo sia cementato dalla comune origine senza che nulla oramai vi si frapponga.
I corpi, sì, trovano nei corpi un ostacolo alla loro vicendevole comunione; per contro, le
cose incorporee non sono scisse dai corpi; esse non possono dunque distanziarsi, le une dalle
altre, spazialmente, ma solo per via di alterità e di differenza; e allora basta che non faccia
la sua comparsa l’alterità ed ecco che le cose non-diverse sono presenti le une alle altre.
Ebbene, l'Uno, immune com'è da alterità, è presente eternamente; noi invece siamo presso di
Lui solo allora che non ne abbiamo. E non aspira a noi Lui, sì da esserci intorno; ma noi aspiriamo a
Lui, sì che noi soli gli siamo intorno. E siamo sempre intorno a Lui, ma non sempre volgiamo a Lui lo
sguardo; bensì come un coro cantante, pur stretto intorno ai Corifeo, può ben volgersi a guardare
al di fuori, ma, quando si è di nuovo rivolto al di dentro, solo allora canta nobilmente e si tiene
davvero stretto intorno a lui; così anche noi siamo sempre schierati intorno a Lui (e se non lo
fossimo, per noi non ci sarebbe altro che dissolvimento totale e non potremmo esistere più), ma
purtroppo non miriamo sempre a Lui, e quando invece fissiamo in Lui lo sguardo, solo allora noi
approdiamo al nostro termine e al nostro riposo e danziamo veramente intorno a Lui una danza
ispirata con un canto che le s' intona.

9. - In questa danza, peraltro, l'anima scorge la fonte della vita e la fonte dello Spirito, il
principio dell’Essere, la causa della bontà, la radice dell'Anima: non si vuol già dire che tali valori
prima scorrano da Lui e poi lo facciano scemare; no, poiché Egli non è massa, altrimenti queste
produzioni dovrebbero riuscire corruttibili; e invece sono eterne poiché il loro principio persevera
così com'è senza frantumarsi in loro ma durando nella sua interezza. Ond'è che anche le sue
produzioni durano, a quel modo che, durando il sole, dura altresì la sua luce. In realtà, noi non siamo
né scissi né separati da Lui, se anche la natura corporea, penetrata furtivamente, ci trascinò a sé:
anzi, se noi respiriamo e siamo conservati in vita, non è perché Egli ce l'abbia elargita una volta per
sempre e poi si sia ritirato; no, ma ce la somministra perennemente fino a che sia quello che è.
Tuttavia, noi esistiamo in maggiore pienezza allorché ci incliniamo su Lui, e in Lui sta il nostro
benessere; già il semplice esserne lontano significa esistere in uno stato di minorità. In Lui, inoltre,
l'anima riposa, ed è fuori dei mali, poiché è risalita alla sede pura dai mali; e in Lui pensa e si libera
dalle passioni, in Lui.
Inoltre, la vita vera è solo lassù; poiché la vita dell’oggi, ch'è vita senza Dio, è solo un'orma di
vita che va imitando la vita superna; mentre la vita di lassù è forza operante dello Spirito; e,
mediante tale forza, essa genera gli dei nel riposante contatto con Lui, genera bellezza, genera
giustizia, genera virtù; di tutto questo, davvero, l'anima è incinta, allorché è stata fecondata da
Dio; e questa maternità è per lei principio e fine: principio, perché deriva di lassù; fine, perché il
Bene è lassù e una volta che sia lì giunta, ella diviene ancora «quello che era ». Francamente, il
vivere quaggiù e tra le cose della terra non è che « crollo » ed « esilio » e «perdita di ali».
Pure, che il Bene regni lassù, sta a provarlo anche 1'amore congenito all'anima: ond'è che Eros è
nuzialmente unito alle anime persino in pitture e in miti. Poiché, siccome ella è, sì, qualcosa di
diverso dal dio ma da Lui deriva, 1'anima è innamorata di Lui, necessariamente; e fino a quando è
lassù, essa serba il suo Eros celeste, quaggiù invece essa scende alla mercé di tutti. Lassù, difatti,
c'è l'Afrodite celeste; ma quaggiù ella si trasforma in volgare (Pandemia) né più né meno che una
cortigiana.
Così, ogni anima è una Afrodite; e a questo alludono la nascita di Afrodite e la congiunta nascita
di Eros: dunque, l'anima, già stando nella legge della sua natura, è innamorata di Dio e vogliosa di
unione, come una vergine di nobile padre serba per lui un amore altrettanto nobile; ma se essa, al
suo entrare nel mondo del divenire, si fa sedurre da brama di pretendenti, trascorsa ad altro
amore mortale nella lontananza dal padre, soccombe al disonore; ma poi, ripresa dal dispetto per le
violenze del mondo, essa si purifica da tutto ciò ch'è terrestre e, disposta a ritornare un altra
volta al padre suo, ritrova la sua felicità. Se all'uomo è ignota tale esperienza, parta egli da questo
punto, dagli amori terrestri, e rifletta che significhi mai conseguire quel che si ama più di tutto al
mondo, pensando poi che questi sono amori di creature, mortali e funesti, amori di fantasmi, amori
mutevoli, giacché non sono né quello che è davvero amabile, né il nostro bene, né quel che noi
andiamo cercando. Lassù, per contro, è il verace oggetto di amore, a cui è dato congiungersi
davvero partecipando di lui e possedendolo realmente, pur senza l'amplesso esteriore della carne.
Ma chi contemplò, sa quel ch' io dico, che cioè l'anima, sia perché è progredita sino a Lui, sia
perché è tutta vicina già e partecipe di Lui, possiede allora una vita novella; ond'ella sa ormai, così
disposta, che il largitore della vita è lì presente e che ormai non le occorre più nulla; noi, al
contrario, dobbiamo prima deporre il resto e fermarci in Lui solo; trasformarci, anzi, in Lui,
esclusivamente, sbarazzandoci repente di tutto ciò che ci riveste; a tal segno che aneliamo ad
uscire dal mondo e mal sopportiamo di essere legati ancora da lato sensibile, perché vorremmo
abbracciare Iddio con 1' interezza del nostro essere e non avere più neppure un punto con cui non
siamo in contatto con Dio. Lì, naturalmente, l'uomo può vedere a un tempo e Lui e se stesso, finché
è consentito vedere: se stesso fulgido di splendore, colmo di luce spirituale, o, meglio, divenuto
proprio luce pura, un essere senza peso, lieve; se stesso che diviene o, meglio, è già dio; se stesso
acceso lì, in quei momenti; ma se ricada ancora sotto il peso, estinto quasi...

10. - Perché, allora, il contemplante non rimane lassù? Perché, ecco, egli non ancora è uscito di
qui completamente; tempo verrà, tuttavia, in cui egli contemplerà senza interruzione, non fastidito
più da alcuna molestia del corpo. Peraltro, tale molestia non riguarda la nostra virtù veggente ma la
parte superstite, la quale, quando il veggente è inoperoso rispetto al contemplare, non lascia
inattiva la scienza che si esercita in dimostrazioni e prove per via dei calcoli dell'anima; invece, il
contemplare e il contemplante non sono più ragione ma qualcosa che è più grande della ragione, che
precede la ragione e sovrasta la ragione, proprio come la visione contemplata.
Orbene, allora che il contemplante vede se stesso, dovrà pure vedersi così sublime, o, meglio,
sarà congiunto con se stesso - così sublime -, ed avrà coscienza di tale sublimità, poiché s'è reso
semplice. (Ma, forse, non è bene dire neppure « vedrà »). Il contemplato, invece (se pur occorra
dire che sono due il veggente e il visto e i due non sono, al contrario, uno cosa sola, per quanto
suoni ardita l'espressione), non lo vede e non lo distingue, in quel momento, il contemplante; né
questi si rappresenta due termini, ma s'è trasformato, per così dire, in una persona novella e non è
più lui e lì non sa che farsene del suo essere, anzi appartiene a Lui e gli s'è unificato ed ha fatto
coincidere, per così esprimerci, centro con centro; poiché quaggiù due centri se coincidono sono
uno, se si distinguono ritornano, allora, due. Così anche noi, per ora, parliamo dell' Uno come di un
diverso.
Per questo appunto, la visione è ben difficile ad esprimersi. Infatti, per qual via si potrebbe dar
notizia di Lui come di un diverso, quando chi vide non lo vide diverso nell'atto della contemplazione
ma lo vide una cosa sola con se stesso?

11. - Proprio questo vuol significare quel famoso comando dei nostri misteri: « non divulgare
nulla ai non iniziati »; appunto poiché il divino non è da divulgarsi, fu vietato di manifestarlo altrui,
tranne che quest'altro abbia già avuto di per se stesso la ventura di contemplare.
Ora, poiché non erano due, ma egli stesso, il veggente, era una cosa sola con l'oggetto visto (non
« visto », sicché, ma « unito »), chi divenne tale, allora, quando si fuse con Lui, ove mai riuscisse a
ricordare, possederebbe presso di sé una immagine di Lui. Egli però era già uno di per sé, in quel
momento, e non serbava in sé nessuna differenziazione né in confronto a se stesso né in rapporto
alle altre cose; poiché non c'era in lui alcun movimento: non animosità, non brama di nulla erano in
Lui, asceso a quell'altezza; ma non c'era nemmeno ragione né pensiero alcuno; non c'era neppure lui
stesso, insomma, se è proprio inevitabile dire questa enormità! E invece, quasi rapito o ispirato, egli
è entrato silenziosamente nell' isolamento e in uno stato che non conosce più scosse e non declina
più dall'essere di Lui e non si torce più verso se stesso, compiutamente fermo, quasi trasformato
nella stessa immobilità.
Persino le cose belle, egli le ha oramai valicate; anzi, egli corre già al di sopra del bello stesso,
al di là del coro delle virtù: somiglia a uno che, penetrato nell' interno dell'invarcabile penetrale,
abbia lasciato alle spalle le statue rizzate nel tempio; quelle statue che, quando egli uscirà di nuovo
dal penetrale, gli si faranno innanzi per prime, dopo 1'intima visione e dopo la comunione superna
non con una statua, non con una immagine, ma con Lui stesso; quelle statue che sono, per certo,
visioni di second'ordine.
Pure lì non ci fu certo una visione pura e semplice ma una visione in un senso ben diverso: estasi,
dico, e semplificazione estrema e dedizione di sé e brama di contatto e quiete e studio di
aggiustarglisi ben bene; solo così si può vedere ciò che si trova nel penetrale; ma se uno guardi in
altra maniera, tutto dilegua per lui.
Ora, tutto questo è una pallida immagine, una allusione velata di Vati sapienti, della maniera
onde si lascia contemplare quell'altissimo Iddio; pure, un saggio sacerdote, che comprenda
l'allusione, può ben giungere alla verace visione del penetrale sol che entri lì dentro. Anche se non
vi entra, se cioè pensa che questo penetrale sia qualcosa d' invisibile, la Sorgente e il Principio, egli
saprà tuttavia che solamente il Principio vede il Principio, e che solo con il simile il simile si fonde; e
non trascurerà nulla di tutto quel contenuto divino che l'anima sua riesce a serrar dentro, già
prima della visione; e il resto, poi, lo pretenderà dalla visione stessa. Il resto, cioè, per chi ha
valicato tutto, è proprio Colui che è anteriore al tutto.
L'anima, è vero, non può mai e poi mai pervenire all'assoluto non-essere; ma, se va in basso,
scende al male, e così, verso il non-essere, ma non proprio al completo non-essere; invece, correndo
sulla via opposta, ella giunge non a un altro ma a se stessa; e in questo senso, poiché non è in un
altro, non può essere in nulla ma solo in se stessa; ma l'espressione « in sé sola e non nell'essere »
equivale « in Lui »; e il contemplante, quale che sia, diventa persino « non-essere » ma « al di là
dell'essere » proprio in quanto si unisce intimamente a Lui.
Dunque, se alcuno si veda già trasformato in Lui, questi possiede in se stesso una similitudine di
Lui e se trapassa da sé, copia, all'originale, ha oramai toccato il termine del suo viaggio. Ma se
decade dalla contemplazione, egli può ridestare di bel nuovo la virtù ch'è in lui e, meditando sul suo
essere così perfettamente adorno, ritroverà la sua leggerezza e salirà allo spirito su la via della
virtù e a Lui mediante la saggezza.
Ed ecco la vita degli dèi e degli uomini divini e beati: separazione dalle restanti cose di quaggiù,
vita cui non aggrada più cosa terrena, fuga da solo a solo.

[traduzione di Vincenzo Cilento, Antologia plotiniana, Laterza, Bari 1958, pp. 170-181]

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