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Enrico Tanca – Milano 2014

CONOSCENZA ED EDUCAZIONE A SCUOLA.


SOMMARIO

I) Premesse
A) CONOSCENZA E COMPIMENTO DI SÉ.
1) Natura e fine della conoscenza.
2) Il desiderio e la libertà nella dinamica della conoscenza.
B) EDUCAZIONE
1) Dipendenza strutturale e strutturale relazionalità del soggetto.
2) Generazione ed educazione.
3) Educazione e conoscenza.
4) Il fenomeno educativo o relazione educativa.
II) L’oggetto dell’istituzione ‘scuola’
A) LA RELAZIONE EDUCATIVA
1) La libertà dei soggetti coinvolti.
2) Relazionalità dei soggetti coinvolti.
B) IL PROCESSO DELLA CONOSCENZA
1) Fare per capire.
2) Riflettere per capire.
3) Comprendere per possedere.
4) Conoscere è ricominciare sempre.
III) L’istituzione ‘scuola’ come formalizzazione di un metodo
A) ISTITUIRE UNA RELAZIONE EDUCATIVA CHE REALIZZA CONOSCENZA.
1) L’irriducibile dignità dei soggetti coinvolti: il valore della libertà.
2) La collegialità della forma istituzionale: natura comunionale dell’io.
3) La convivenza e la condivisione come metodo: centralità dell’esperienza.
B) ISTITUIRE UNA RELAZIONE EDUCATIVA COME FORMAZIONE CULTURALE.
1) Istituzione-scuola e funzione magisteriale.
2) Il maestro come autorità: cultura paterna o magisteriale.
3) Il punto di partenza: l'incontro col maestro nel presente.
4) La tradizione come vaglio critico del passato.
IV) La tradizione possibile.
A) IL SORGERE DI UN SOGGETTO CULTURALE
B) DIMENSIONI FONDAMENTALI PER UN LAVORO CULTURALE
1) Essenzialità, ovvero de disciplinārum ratiōne.
2) Sinteticità o de intellectū rei adaequando.
3) La leadership educativa o de magistrō cum auctoritāte.
4) Argomentatività o de ratione et oratione.
C) ALCUNI SPUNTI OPERATIVI

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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CONOSCENZA ED EDUCAZIONE A SCUOLA.


I) Premesse

Riflettendo sul fenomeno “scuola” sono immediatamente portato a riflettere su due altri oggetti: la
conoscenza e l’educazione.

A) CONOSCENZA E COMPIMENTO DI SÉ.

1) Natura e fine della conoscenza:

Che cos’è la conoscenza? Essa è un’azione dell’uomo ed è in relazione alla realtà, poiché ogni
conoscenza è conoscenza di qualcosa. Viceversa, si può forse dire che in ogni nesso che l’uomo
stabilisce con la realtà, cioè in ogni azione, (dai meccanismi biologici al pensiero), potenzialmente si
produce conoscenza, poiché non si dà istante in cui la vita dell’uomo non sia in relazione con la realtà.
Tuttavia, perché ci sia conoscenza in senso pieno (anche il corpo “conosce” “memorizzando” stimoli
sensoriali) comprendiamo che occorre implicare la capacità di consapevolezza dell’uomo, la capacità
cioè di “prendere coscienza”, di com-prendere, di possedere in sé il riscontro del fenomeno della
conoscenza. Questa facoltà umana, che chiamiamo anche ragione, sta all’origine e alla fine di ogni
conoscenza, ne contraddistingue l’esigenza e l’aspetto perfettivo. La ragione possiede in sé l’esigenza del
rapporto con la realtà (conoscenza) e ne acquisisce l’esito raggiunto, come modifica di sé, cioè come
consapevolezza (modificata rispetto a prima) della nuova acquisizione. Ogni conoscenza, quindi, nel
suo aspetto perfettivo, costituisce una modificazione del soggetto, della sua coscienza o ragione (cfr. il
concetto di habit change in Peirce). In questo senso la vera conoscenza non è puro immagazzinare
informazioni nuove, ma il riscontro autocosciente del proprio rapporto con il reale, fatto della totalità
delle dimensioni della persona: da quella sensoriale, a quella affettiva, psichica, intellettiva, spirituale. Per
questo possiamo usare il termine esperienza come sinonimo di conoscenza vera, piena, umana, non
ridotta cioè ad una sola componente.

La modifica del sé ottenuta nel processo di conoscenza ritengo sia inscindibilmente legata alla categoria
del bene. Se infatti, a questa ragione o coscienza va riconosciuta la qualità di essere una dinamica non
sospendibile, pena la morte della coscienza stessa (essa è un ‘cuore’ che batte sempre), - poiché la vita
della ragione o della coscienza non consiste se non nel continuo suo proporsi in termini esigenziali, nel
suo continuo tendere all’incremento di sé, all’approfondimento di sé -, ne consegue che ogni nuovo
acquisto della ragione, ogni nuova modifica della coscienza rappresenta un momento di vita di essa, nel
suo aspetto incrementale. Per stabilire un’analogia puramente illustrativa, come da una parte la nostra
fisiologia ci fa avvertire lo stimolo della fame e della sete, e la loro soddisfazione realizza una funzione
conservativa e incrementale della vita biologica, così l’acquisita conoscenza, come modifica significativa
dell’autocoscienza, costituisce l’incremento della vita della ragione stessa, il bene cui essa aspira. Tale
incremento della vita cosciente del soggetto, quindi, non può avvenire che nella dinamica della

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conoscenza della realtà. Se dunque la conoscenza è una azione e come tale deve avere un fine (quisquis
agit, agit propter finem), tale fine non può che coincidere con quell’incremento di sé sperimentato dalla
coscienza o ragione dell’uomo, nel processo di conoscenza. Tale processo è infinito per due ordini di
fattori: a) innanzitutto per l’infinità della realtà, in quanto essa in ogni suo dato e nella sua totalità,
rimanda sempre per forza ad altro da sé (natura segnica del reale), - e ciò è assai più decisivo della pur
innumerabilità delle relazioni che la coscienza umana può stabilire con essa; b) in secondo luogo, per
l’infinità strutturale - e quindi strutturale sproporzione rispetto alla realtà - che la ragione giunge a
scoprire in sé: una insaziabile curiosità, un desiderio senza limiti (quid animō satis?).

2) Il desiderio e la libertà nella dinamica della conoscenza.

Questo desiderio senza limiti costituisce il motore, la spinta inesorabile, mai doma, della coscienza
stessa, ciò che la spinge nel rapporto col reale a cercare il compimento di sé: esso può identificarsi
anche col termine libertà, poiché, come si può facilmente constatare, in ogni ottenuta soddisfazione di
un qualunque desiderio – espressione cosciente o no del carattere esigenziale della ragione – il soggetto
fa un’esperienza di incremento, di compimento, che si può identificare con la parola libertà. Essa, nel
suo significato totale, identifica quindi come sua essenza la completa realizzazione della natura del
soggetto. Il soggetto, pertanto, giunge alla sua piena libertà nella piena realizzazione del desiderio
strutturale, che ne caratterizza la natura a tutti i livelli, e supremamente a quello della coscienza.
Tuttavia, proprio a questo livello occorre riconoscere la misteriosa non meccanicità del processo per cui
il desiderio spinge la ragione ad inoltrarsi nella realtà fino al riscontro della autocoscienza come
incremento di sé, e quindi come esperienza di libertà. Anche in questo secondo caso adoperiamo il
termine libertà per esprimere la reale e misteriosa possibilità del soggetto di assecondare o no il
processo di cui sopra, di determinarne i passi in un senso o in un altro, di accettarne o no i risultati, di
aderire o no alle implicazioni conseguenti, lasciandosi o no trasformare. Tale potenzialità, virtualità del
soggetto, mai del tutto dominabile, coartabile, e quindi vera traccia di una natura nell’uomo che non è
riconducibile alle leggi della ‘gran macchina del mondo’, si esprime come libero arbitrio, cioè come
capacità di scelta tra opzioni mai del tutto equivalenti. Se la libertà nel suo aspetto perfettivo si identifica
con la compiuta soddisfazione, la compiuta realizzazione di sé da parte del soggetto, essa, come
dinamica, si esprime nella libera scelta. Ne consegue che non si può avere processo di conoscenza
senza l’implicazione della libertà nelle sue due dimensioni, come dinamica e come natura, la prima
esperibile nella scelta, la seconda nelle provvisorie soddisfazioni che si operano nell’esistenza.

B) EDUCAZIONE

1) Dipendenza strutturale e strutturale relazionalità del soggetto.

Il soggetto della conoscenza, dotato di ragione (capacità della conoscenza), desiderio (esigenza della
conoscenza) e libero arbitrio (capacità di scelta) ha una natura dipendente e relazionale: non si fa da sé
e la relazione con altri esseri personali lo costituisce in ogni fase della sua esistenza. Il che vuol anche

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dire che la strutturale condizione di bisogno che lo caratterizza dalla nascita alla morte, esige la
relazione con gli altri. La persona non solo cioè è data, frutto di una relazione e spinta a esprimersi nella
relazione, ma non può non farlo, poiché è bisogno, nel duplice senso, del bisogno che chiede di essere
colmato dal darsi dell’altro, e del bisogno di darsi al bisogno dell’altro. Questo fatto, soprattutto nel
primo aspetto è evidente in tutta la lunga – se confrontata con gli altri esseri viventi – fase evolutiva,
tanto che è condizione necessaria alla stessa sopravvivenza. Tuttavia, non è meno evidente anche in età
adulta, quando si equilibra con la seconda componente, per quanto oggi tenda a essere obliterato, per
influsso di una secolare stratificazione di pregiudizi. La sostanza della persona, l’umano nell’uomo, si
esprime nella relazionalità. Credo che si possa riutilizzare così il famoso adagio aristotelico (ho ánthrōpos
phýsei politikòn zôon1).

2) Generazione ed educazione

L’uomo dunque non è solo un essere personale il cui aspetto culminativo è l’irriducibilità a tutto (di cui
il libero arbitrio è esistenzialmente il segno più evidente), ma è anche un essere relazionale: posto in
essere da una relazione e in una relazione, proiettato alla relazione sia come bisogno di ricevere che
come bisogno di darsi. In quest’ottica assumono grande rilevanza i termini generazione ed
educazione. L’uomo è strutturalmente esigenza di generazione, da quella istintivo-biologica a quella
che si può riferire alle creazioni dell’azione umana in tutti i campi della sua applicazione. Ma certamente
il suo senso primo e imponente è quello legato alla relazione interpersonale: da questo punto di vista la
generazione è strettamente connessa all’educazione, poiché non si dà compiutamente generazione
umana senza il fenomeno educativo. Il fenomeno generativo a livello umano implica la promozione di
un altro essere umano nella totalità delle sue componenti: far essere l’altro nella totalità della sua
persona, e non solo nel suo aspetto biologico. Se ci si può illudere di essere padroni della generazione
biologica, tanto che oggi può essere isolata e concepita come la mera produzione di un manufatto, al
primo destarsi della personalità, caratterizzata eminentemente da ragione, desiderio e libertà, occorre
riconoscere l’irriducibile alterità dell’altro, che rimanda necessariamente ad una origine altra, misteriosa.
Sorge a questo punto decisiva la parola educazione, ad indicare il bisogno di cura e il bisogno di
prendersi cura dell’altro, perché possa giungere a essere pienamente se stesso, perché possa cioè
compiere sé stesso.

3) Educazione e conoscenza

Qui l’educazione trova il suo punto di contatto con la dinamica della conoscenza. Se la conoscenza
come dinamica è apertura della ragione - mossa dal desiderio - alla realtà totale, e nella realizzazione di
questa dinamica si attua l’incremento di sé desiderato, fino al suo pieno compimento, l’educazione è la
grande cura che l’uomo si prende degli altri per aiutarli a compiere questa dinamica essenziale: trova qui
giustificazione la definizione dell’educazione come introduzione alla realtà totale. Senza educazione il

1 Cfr. Aristot. Polit. 1253α: ὁ ἄνθρωπος φύσει πολιτικὸν ζῷον.

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soggetto percorrerà la strada della conoscenza della realtà teso al compimento di sé, con grande fatica.
L’educazione, quindi, serve la dinamica della conoscenza che porta il soggetto (educando) al
compimento di sé. L’educazione è la grande ‘coltura/coltivazione’ dell’io umano.

Tuttavia l’educazione non è solo un bisogno dell’educando ma anche dell’educatore, che tende così a
realizzare la propria natura, il compimento di sé nell’atto generativo. Tutti gli uomini hanno bisogno di
essere educati e tutti prima o poi hanno anche bisogno di educare. L’educazione quindi è anche
realizzazione della dinamica conoscitiva che porta al compimento di sé (dell’educatore), nella forma
della condivisione. Condividendo quello che so e quello che sono, conosco di più, incremento me
stesso.

4) Il fenomeno educativo o relazione educativa

Il fenomeno educativo, allora, si struttura come relazione di soggetti tra loro e con la realtà, in quanto
entra nell’orizzonte conoscitivo dei soggetti. Recuperiamo qui il termine esperienza, introdotto sopra
[cfr. I,A,1], nel suo duplice significato, di acquisita modificazione autocosciente di sé grazie al processo
di conoscenza della realtà, ma anche come processo stesso in cui la realtà si incontra con l’energia
conoscitiva del soggetto, nella totalità delle sue componenti: sensoriale, affettiva, psichica, intellettiva,
spirituale. La relazione educativa, quindi, si struttura come relazione di soggetti ciascuno con una
capacità di esperienza, ovvero come relazione di due strutture esperienziali (rapporto ‘io’ - realtà, o
correlazione ragione – natura2). La dualità si riferisce a due tipi di soggetti (educatore – educando), la
cui diversità di esperienza istituisce una differenza di potenziale nella relazione, rendendola sempre
asimmetrica, benché non unidirezionale. In questo senso giova l’analogia tra la relazione educativa e la
relazione comunicativa, dato che l’educazione può anche essere definita come ‘una comunicazione (di
sé)’. Come tale, anche l’educazione presenta un “messaggio” e una direzione, che implica però anche il
riscontro di pertinenza, e il cambiamento di posizione (Habit / Einstellung / ἕξις) di tutti i soggetti
coinvolti. Una volta quindi che si accetta di entrare in una relazione educativa, cioè di condividere la
propria esperienza, ovvero il proprio rapporto con la realtà, la relazione è veramente tale e quindi
efficace3 solo se tutti i soggetti sono disposti a lasciarsi cambiare dalla relazione. Riemerge qui,
all’interno della relazione educativa, il ruolo centrale di quella libertà dei soggetti coinvolti, di cui si è
parlato sopra [cfr. I,A,2]: questo ruolo è tanto più rilevante quanto più ciascun soggetto esperisce
consapevolmente la propria libertà, fatto questo che è certamente legato anche all’età anagrafica di ogni
soggetto coinvolto.

2 Cfr. il discorso di Benedetto XVI al Bundestag di Berlino del 22.09.2011: “[Das Christentum] hat […] auf Natur und
Vernunft als die wahren Rechtsquellen verwiesen – auf den Zusammenklang von objektiver und subjektiver Vernunft, der
freilich das Gegründetsein beider Sphären in der schöpferischen Vernunft Gottes voraussetzt. […] Vernunft und Natur in
ihrem Zueinander”.
3 Mi sembra che si possa vedere qui una analogia con la distinzione operante nell’analisi degli atti comunicativi, tra felicity (=
rispetto delle condizioni necessarie a rendere il testo appropriato rispetto al contesto) e happiness (= successo dell’atto
comunicativo) della comunicazione. Cfr. L. Cantoni, N. Di Blas, S. Rubinelli, S. Tardini, Pensare e comunicare, Apogeo Editore,
2008, p. 178.

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II) L’oggetto dell’istituzione ‘scuola’

Porsi il problema della scuola, allora, vuol dire riflettere su una istituzione chiamata a formalizzare il
metodo in forza del quale possa esistere una relazione educativa in modo autentico ed efficace, rispetto
al suo scopo, che è promuovere la dinamica della conoscenza / esperienza in vista di un incremento
autocosciente di sé.

Se dunque questa istituzione formalizza il ‘metodo per’, allora la sua forma deve nascere
dall’osservazione del suo oggetto, che è la relazione educativa nella totalità delle sue implicazioni, fino,
come si è visto, all’interdipendenza con il processo della conoscenza.

A) LA RELAZIONE EDUCATIVA

1) La libertà dei soggetti coinvolti

Se è vero che: 1°) la libertà come natura coincide con l’esperienza di soddisfazione; 2°) che questa non
può che essere soddisfazione del desiderio strutturale; 3°) che esso è destato dall’impatto con la realtà e
tende a esprimersi in una ‘domanda’ tesa a ottenere una immedesimazione con quella realtà (=
conoscenza) che ha suscitato il desiderio medesimo; 4°) che la dinamica di immedesimazione è
determinata dal libero assenso del soggetto;

⇨ ne consegue che deve essere riconosciuta una grande dignità al libero arbitrio di tutti i soggetti
coinvolti nel fenomeno educativo, sia come capacità di scelta, sia come responsabilità. Proprio
perché ogni soggetto è relazionale, il suo libero arbitrio non è autoreferenziale ma risponde agli
altri delle scelte operate.

Genitori: l’uomo e la donna che liberamente e responsabilmente decidono di generare dei figli,
decidono anche di prendersi in cura l’educazione dei nuovi nati. I genitori hanno il dovere di
provvedere all’educazione dei figli, ma hanno quindi anche il diritto di stabilire la relazione educativa
con essi, in accordo con i loro convincimenti profondi. Questo compito (funzione eticamente
connotata) non è mai in ultima analisi delegabile a nessuno (tantomeno allo stato), proprio perché
coincide con la realizzazione vera del concetto di generazione, che è – si è visto sopra [cfr. I, B, 1-2] –
un’esigenza strutturale del soggetto che tende alla realizzazione di sé. L’ipotesi educativa che i genitori
propongono ai figli, però, deve sempre, benché in una progressione graduale, tenere conto della dignità
del libero assenso dei figli, che lungo la crescita evolve sia come capacità di espressione che come
capacità di autocoscienza, in proporzione della crescente capacità di rapporto con la realtà tutta. Per
questo la relazione educativa tra genitori e figli tende ad aprirsi coinvolgendo nuovi soggetti per cerchi
concentrici, dai diversi membri della famiglia alle relazioni che strutturano la società. Idealmente si
potrebbe utilizzare come categoria comprensiva quella di ‘popolo’. In questo lungo percorso, i genitori
hanno il dovere e il diritto di scegliere i collaboratori dell’educazione dei figli: dalla babysitter agli
insegnanti.

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Educando: restringendoci al soggetto identificato nella sua lunga stagione evolutiva, esso possiede alla
nascita quella capacità di libero assenso che emerge a livello espressivo solo nel tempo, e quindi, nel
diritto a ricevere una educazione sta anche il diritto di vedersi riconosciuta la dignità della propria
libertà. Il primo modo di riconoscerla è sollecitare tale libertà facendo una proposta educativa.
L’educando ha per converso il dovere (che è tale in fondo solo verso la propria natura, che è desiderio
di compimento) di coinvolgersi gradualmente nella misura della possibilità espressiva della propria
libertà. Nessuno può essere educato malgrado il proprio libero assenso.

Educatore o collaboratore educativo dei genitori: proprio perché la libertà del soggetto tende ad aprirsi
progressivamente a settori sempre più grandi della realtà (in conformità alla sua natura di apertura
all’infinito) e perché la famiglia sussiste in una relazionalità con altri soggetti e corpi sociali, i genitori
sono chiamati a coinvolgere progressivamente nella relazione educativa coi propri figli altri soggetti
come collaboratori, e anche in ciò tenendo in conto sempre e per gradi progressivi la libertà dei figli.
Tale collaboratore è di nuovo un soggetto che in quanto tale ha il diritto e il dovere di esprimere una
ipotesi educativa, sulla base della quale incontra o meno l’assenso dei responsabili primi dell’educazione
cioè i genitori. Egli quindi, nei diversi contesti educativi, deve poter esprimere liberamente la propria
ipotesi e metodo educativi e su questa base essere scelto o no come collaboratore.

2) Relazionalità dei soggetti coinvolti

Nessuno dei soggetti sopra descritti, quindi si può concepire isolatamente o in modo autoreferenziale.
Ogni soggetto è sempre inscritto in una rete polidirezionale di relazioni, in cui interagiscono i diritti e i
doveri di ciascuno. Per questo è importante che ciascun soggetto sia consapevole delle diverse relazioni
che interagiscono come funzioni che costituiscono insiemi che si intersecano.

La prima relazione, ‘genitori – figli’ (a), si apre al collaboratore educativo, stabilendo le relazioni
‘genitori – educatore’ (b) e ‘educando – educatore’ (c). Tuttavia l’educatore a sua volta fa parte di una
‘relazione con altri educatori’ (d), chiamati anch’essi a intervenire nella ‘relazione educativa con
l’educando’ (e) e ‘con i suoi genitori’ (f). L’educando poi viene inserito nell’ulteriore ‘relazione con i
compagni’ (g), e quindi ‘con i loro genitori’ (h), a loro volta chiamati a ‘interagire con i propri’ (i). Per
citare un proverbio africano, “per educare un figlio ci vuole un villaggio”4.

Come si può facilmente riconoscere, in ognuna di queste relazioni è sempre attiva non solo la dinamica
interpersonale io – tu, ma anche quella io – noi, cioè la dinamica dell’appartenenza a una comunità.
Riconosciamo così: la comunità della famiglia (padre – madre – figli) [= a], la comunità degli educatori
[= d], la comunità degli educandi [= g], la comunità mista di educatori ed educandi [= c + d + e + g],
la comunità dei genitori [= i], la comunità mista definita dalla parentalità educatori – genitori [= b + d
+ f + i], la comunità delle famiglie tra loro [= a + g + h + i], infine la comunità sociale derivante

4 Cfr. Discorso di Papa Francesco alla scuola italiana, 10.05.2014

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dall’insieme di tutte queste relazioni. Si costituisce un corpo sociale che a sua volta si relazionerà, come
singoli soggetti e come corpo, agli altri soggetti e corpi sociali entro quell’orizzonte che sopra abbiamo
definito con il termine ‘popolo’.

Una istituzione scolastica autentica si costituisce nel momento in cui pone in essere una relazione
educativa tra persone, in cui siano riconosciuti e favoriti tanto la libertà dei soggetti coinvolti, quanto la
dinamica delle relazioni che si istituiscono. In altre parole, la formalizzazione del metodo per cui
l’istituzione scolastica si costituisce dovrà dipendere dalla relazione educativa come è emersa
dall’osservazione.

B) IL PROCESSO DELLA CONOSCENZA

Per quanto si è visto nelle premesse, tuttavia, l’istituzione scolastica, si deve costituire non solo come
formalizzazione della relazione educativa ma anche come formalizzazione del processo della
conoscenza, centralmente collocato nella relazione educativa. E’ necessario, quindi, analogamente a
quanto si è fatto per la relazione educativa, osservare in cosa consiste il processo della conoscenza.

Recuperando una lunga tradizione, sintetizzabile nel dettato dantesco (però che solo da sensato apprende
[l’uomo, scil.]/ ciò che fa poscia d’intelletto degno5), si può descrivere la conoscenza come un processo
costituito da: ‘3 momenti più uno’. Col termine ‘momento’ intendo sia il fatto che possa trattarsi di
eventi temporalmente bene distinti (e ciò in modo preferenziale, ma non esclusivo, nella lunga stagione
evolutiva del soggetto cosciente), sia in senso quasi ‘fisico’6, di ‘forze’ che agiscono in correlazione, nella
dinamica della relazione complessa tra la realtà e il soggetto, con tutti i suoi fattori (e ciò in modo
preferenziale, ma non esclusivo, a partire dall’adolescenza). L’insieme organico di tutti i ‘momenti’ della
conoscenza si può chiamare esperienza: solo in questa visione sistemica e organica la parola assume
tutta la sua dignità umana, fuori di ogni riduzionismo.

1) Fare per capire.

Se osserviamo lo stato naturale del bambino, notiamo che egli è attratto da ciò che c’è intorno a lui. Ciò
lo spinge a cercare di entrare in relazione con l’oggetto in un coinvolgimento dei fattori della sua
persona, secondo una gradualità e diversa gerarchia tra di essi che è in proporzione della sua coscienza.
Dal semplice ‘mettere in bocca’, ‘annusare’, ‘toccare’ ecc., progressivamente il bambino si spinge a una
‘manipolazione’ dell’oggetto in gradi crescenti di capacità operativa, che vede di pari passo pian piano
emergere la formulazione di desideri (‘voglio’) e domande (‘cos’è?’, ‘perché?’), destati da - e proiettati su
- l’oggetto7. Cioè in qualche modo il soggetto umano provocato dall’attrattiva del reale si coinvolge in

5 Cfr. Pd IV, 41-42.


6 Giusta l’etimologia latina del sostantivo mo(vi)mentum derivato da: movēre.
7 Devo all’amico e collega Fabrice Butlen di Lyon la scoperta che il metodo di insegnamento linguistico (leggasi: del Latino)

degli umanisti, fondato su questa osservazione, aderiva a tale gradualità naturale, realizzandosi nei seguenti principi didattici,
traduzione delle mosse elementari del bambino: Quid est hoc? - Cūr hoc? - Nārrā pater!

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un ‘fare’ (anche il dire è un fare8, anche un pensiero è un’azione9) per conoscere, per comprendere, per
capire ciò che lo interessa. In altre parole il dato di realtà che intercetta l’energia conoscitiva del
soggetto lo attrae in un coinvolgimento pragmatico, prima che ci sia consapevolezza dell’attrattiva e del
coinvolgimento, ma inconsapevolmente già teso alla sua com-prensione (‘prendere per com-prendere’?).
Tuttavia, nella misura della crescita della coscienza, questo coinvolgimento cui l’attrattiva del reale
spinge, provocando una irresistibile e inevitabile reazione, desta desideri e domande che si affacciano
via via sempre più esplicitamente alla ragione e che spingono a non sentirsi soddisfatti (‘compiuti’) solo
dal primo impatto con l’oggetto, ovvero da una comprensione ridotta alla sola ‘presa’ o manipolazione
dell’oggetto. Questa dinamica che si osserva dilatata negli anni dell’infanzia, non viene superata in età
adulta, quando contestualmente al primo impatto con le cose, cui continuiamo a non poter rinunciare,
urge sempre più il coinvolgimento di quel ‘cuore della ragione’ che sono le esigenze e le evidenze messe
in moto da quell’impatto medesimo. C’è tuttavia un’età dell’uomo in cui questo livello dell’io si affaccia
nella dinamica esistenziale in modo dirompente, totalizzante e – vorrei dire: proprio per questo –
paradigmatico per tutta la vita: l’adolescenza. Proprio in questa fase occorre non interrompere il
metodo della conoscenza che deve partire da un ‘fare’ teso già a comprendere.

2) Riflettere per capire.

Solo nella misura in cui il soggetto, in modo congruo al grado di manifestazione della sua coscienza, si
implica con quelle evidenze ed esigenze, che il coinvolgimento con il dato gli desta, quel
coinvolgimento iniziale tende a evolvere in conoscenza. Solo cioè nella misura in cui la capacità di
evidenza e la capacità di esigenza del soggetto, messe in moto dall’impatto col reale, ricevono il compito
di illuminare l’esperienza in cui il soggetto si è coinvolto con un dato di realtà, quel primo impatto può
diventare conoscenza. Nella sua evoluzione il soggetto scopre di avere in sé il criterio per giudicare
quello che ‘prova’. In tal modo, il dato reale scoperto come valore in quanto interessa la vita (cosciente)
del soggetto, viene riconosciuto come tale, nel momento in cui il soggetto trova risposta alle domande
(‘cos’è?’, ‘perché?’, ecc.) che l’impatto con il dato gli ha destato.

3) Comprendere per possedere.

Quando incontriamo nuovamente un caro amico che abbiamo conosciuto molto tempo prima,
possiamo facilmente descrivere, se ce lo chiedessero, tutta la differenza che intercorre tra quel primo
impatto in cui ‘abbiamo fatto la conoscenza’ di quell’amico (cfr. il tedesco: kennenlernen) e la conoscenza
che ne abbiamo dopo anni, dove però l’elemento principale che fa la differenza, non è tanto
l’incremento quantitativo dei dettagli noti, ma piuttosto il riconosciuto valore che quella persona ha per
noi, ha nella nostra vita. In altre parole, pensiamo di essere giunti a com-prendere (= ‘prendere
totalmente’) una certa persona, non certo per l’illusione di averne esaurito la conoscenza in dettaglio,

8 Cfr. Plat., Crat. 387b: tò légein mía tis tôn práxeón estin [τὸ λέγειν μία τις τῶν πράξεών ἐστιν].
9 Cfr. L. Giussani, Alla ricerca del volto umano, Rizzoli 1995, p. 9.

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che è e rimarrà impossibile, poiché per natura innumerabile, bensì perché siamo giunti a riconoscerne il
senso che ha per noi. Viceversa, possiamo accorgerci con sgomento, dopo una vita passata insieme con
qualcuno di cui pensiamo di ‘sapere tutto’, di avere invece di fianco uno ‘sconosciuto’. Da ciò spero sia
facile comprendere che il processo della conoscenza non è tale se non giunge alla scoperta del senso
per sé che l’oggetto sottoposto a indagine ha o non ha. Qui e solo qui, si produce quella significativa
modifica del sé, per cui il soggetto non è più tale senza implicare la relazione con ciò che ha conosciuto.
E il conosciuto è diventato davvero ‘possesso per sempre’ (ktêma es aieì10), in quanto coincide con un
incremento della coscienza di sé.

4) Conoscere è ricominciare sempre

Il riposizionamento rispetto all’oggetto che la ragione è sfidata ad accettare nel processo di conoscenza,
porta a una ‘nuova visione’ della realtà, nei diversi sensi: vedo più e meglio di prima o addirittura vedo
quello che prima non vedevo. Ma ciò vuol anche dire, dinamicamente, che la conoscenza spinge a una
nuova conoscenza. Se ho imparato a distinguere il porcino dagli altri funghi, sono invogliato ad una
nuova ricerca, certo che essa procederà più speditamente ed efficacemente. Ovvero, la conoscenza
acquisita, spinge il soggetto a coinvolgersi nuovamente in una esperienza, che risulta così l’inizio di un
nuovo processo di conoscenza. L’esperienza maturata spinge a fare ancora - e più profondamente -
esperienza.

In conclusione l’istituzione scolastica deve formalizzare in termini metodologici il processo di


conoscenza così descritto, ovvero dipendere da esso nella concezione complessiva come nella
determinazione dei singoli momenti.

10 Cfr. Thuc. 1,22: κτῆμα (…) ἐς αἰεὶ.

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III) L’istituzione ‘scuola’ come formalizzazione di un metodo

Se dunque il metodo che una scuola va a formalizzare deve discendere dall’osservazione del suo
oggetto, (una relazione educativa che serve il processo della conoscenza), il metodo di questa
scuola nuova deve discendere dalle osservazioni fin qui svolte.

A) ISTITUIRE UNA RELAZIONE EDUCATIVA CHE REALIZZA CONOSCENZA

1) L’irriducibile dignità dei soggetti coinvolti: il valore della libertà

Se come si è visto il processo educativo si struttura in una relazione tra soggetti dotati di ragione,
desiderio e libero arbitrio, la forma organizzativa istituzionale della scuola deve sottostare a questo dato.
Ciò implica innanzitutto:

a) che la famiglia e lo studente siano posti di fronte ad una reale libertà di scelta, cioè di fronte ad un
vero pluralismo dell’offerta formativa; b) che il soggetto che prende in carico l’educazione nella forma
di una scuola deve quindi poter esprimere la libertà di una proposta, di un’ipotesi educativa; c) che
soprattutto in età adolescenziale occorre coinvolgere gradualmente la capacità di consapevolezza
dell’educando nel riconoscere il proprio interesse, cioè la capacità di riconoscere e verificare
l’interazione che i diversi aspetti della realtà producono nella singolarità irripetibile di una personalità in
formazione.

Da ciò discendono come conseguenze operative: a) che in un società plurale lo stato deve garantire la
libertà di scelta delle famiglie, riconoscendo pari opportunità giuridiche ed economiche a percorsi
formativi diversi; b) che lo stato deve garantire quindi la libertà dei soggetti attivi nella società di dar
vita a proposte formative istituzionalizzate, che siano frutto di una ipotesi educativa o ipotesi culturale
condivisa tra le persone che si coinvolgono nel progetto – e solo ciò realizza una effettiva pluralità di
offerta che salvaguarda la libertà delle famiglie; c) a parte discipulōrum, la singola istituzione scolastica
dovrebbe realizzare per ogni alunno il curricolo personalizzato. In questa ottica si dovrebbero poter
valorizzare: competenze diverse e variamente acquisite anche al di fuori di istituzioni scolastiche (lingue
straniere, portati culturali, ecc.); talenti strettamente intellettuali, o operativi, o artistici; last but not least,
l’attrattiva del singolo per questo o quel contenuto. Su quest’ultimo aspetto, la partita non può essere
risolta con una scommessa al buio su un pacchetto già preconfezionato di (troppe!) discipline (più
lingue straniere o più matematica e fisica?), ma deve rimanere aperta come una costante lungo tutto il
percorso, in cui sia possibile ad ogni grado operare delle scelte, in una vera differenziazione di percorsi.
Solo in quest’ottica riesco a concepire in modo non puramente retorico il discorso della valorizzazione
delle eccellenze.

2) La collegialità della forma istituzionale: natura comunionale dell’io

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Come si è visto sopra (cfr. II, A, 2), la relazionalità propria della dimensione educativa si struttura in
modo sia polidirezionale che per cerchi reciprocamente intersecantisi. Non è pertanto ammissibile che
si concepisca l’educazione a scuola: a) come la giustapposizione di singolarità docenti tra loro slegate e
con ipotesi culturali differenti, che si susseguono come in una catena di montaggio; b) che l’istituzione
si concepisca sostanzialmente a prescindere se non apertamente in opposizione alla famiglia, alla società
e alla tradizione di popolo in cui invece deve inserirsi.

Come un bambino cresce sano per l’unità di padre e madre, così nella scuola ciò che educa è una
‘comunità educante’. Essa è innanzitutto data dalla comunità dei docenti, che ha al suo interno una
gerarchia di funzioni e responsabilità diverse, fino all’individuazione di una funzione magisteriale ultima,
non in termini burocratici bensì di ‘leadership educativa’. In quest’ottica, si introduce il principio di
responsabilità dei singoli docenti nei confronti della funzione-guida e di tutto il corpo docente nei
confronti delle famiglie con cui è chiamato a interagire secondo quella nozione di ‘parentalità’ cui si è
accennato sopra. In tal modo si struttura la ‘comunità docenti – genitori’, chiamati ad un compito
comune.

In secondo luogo c’è la comunità dei discenti: crescere da soli o tra fratelli e sorelle, non è la stessa cosa.
Esiste infatti anche un apprendimento ‘orizzontale’, per cui non solo si impara dai compagni, ma
proprio l’esperienza di un ‘apprendere con’ permette più facilmente all’educando di esperire la propria
natura di ‘persona’ come essere relazionale. L’esperienza dell’altro in orizzontale è decisiva per tutte le
dimensioni della personalità in crescita, da quella sensoriale, a quella affettiva, psichica, intellettiva,
spirituale.

Infine la comunità è l’insieme dei docenti e dei discenti. Qui si comprende e si realizza quella
bidirezionalità della comunicazione educativa: nella misura in cui, infatti, i diversi soggetti si rendono
disponibili ad una relazione educativa, scegliendo di condividere sé con gli altri, si aprono alla possibilità
che quella relazione operi un cambiamento su di sé. Si vede qui come l’educazione non sia
unidirezionale. La conseguenza operativa più rilevante è che l’insegnamento e quindi l’apprendimento
non si realizza come mera trasmissione di informazioni ma come condivisione. Posso insegnare o
posso apprendere solo se coinvolgo / mi coinvolgo in una esperienza comune.

3) La convivenza e la condivisione come metodo: centralità dell’esperienza.

Si giunge così a identificare il metodo della educazione. Solo infatti in una convivenza e condivisione
tra i soggetti si realizza non solo istruzione, ma anche formazione e soprattutto educazione della
persona. Proprio la comunità di studio e lavoro tra docenti e studenti, infatti, permette quella sana
osmosi o condivisione essenziale11, in cui la relazione educativa serve realmente il processo di
conoscenza di cui sopra (cfr. II, B), perché permette di realizzare un metodo di insegnamento /

11 Cfr. Plat., Ep. VII, 341c-d: ek pollês synousías [ἐκ πολλῆς συνουσίας].

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apprendimento non contraddittorio. Potremmo chiamare tale metodo: metodo ‘del fare con’ (cfr. il
tedesco: mitmachen). Se riprendiamo qui la descrizione di quel processo, ne conseguirà facilmente che
ogni insegnamento debba strutturarsi in un percorso in cui all’esperienza condivisa (‘fare con’) segua
una presa di coscienza (‘riflettere con’) e una elaborazione (‘comprendere con’) anch’esse condivise, in
cui un ruolo importante ha ‘il dire’: dal momento che il linguaggio verbale è il più importante
strumento che l’uomo possiede per attestare il proprio ‘logos’ in rapporto dinamico con la realtà, e la
natura dell’uomo è relazionale – tanto che anche il linguaggio stesso l’uomo riceve nella e dalla relazione
con gli altri - , il principale strumento che la natura fornisce per la presa di coscienza e l’elaborazione
della conoscenza è il dialogo comune. Esso non è da intendersi come mera dialettica verbale o scambio
di ‘opinioni’, ma espressione di una condivisione profonda - in fondo di una appartenenza sostanziale,
per cui conosco me stesso e la realtà solo grazie alla relazione con gli altri, partecipando cioè ad una
memoria più grande12. Tale dialogo comune deve concludersi con una nuova domanda sulla realtà, che
apra cioè un nuovo percorso conoscitivo-esperienziale, ovvero con una nuova ipotesi di ricerca/lavoro
da verificare in un nuovo processo conoscitivo-esperienziale.

Tale metodo presenta delle implicazioni che vale la pena porre in rilievo: 1) Innanzitutto chiede al
docente di essere uomo, impegnato lui con la totalità della vita. 2) In secondo luogo, nella lunga
convivenza è possibile verificare la differenza tra un parolaio e un maestro, poiché occorre saper
insegnare ‘facendo quello che si insegna’, non dicendolo e basta. 3) In terzo luogo, solo così è possibile
procedere dall’implicito all’esplicito, poiché ‘parla’ innanzitutto l’azione condivisa. Quest’ultimo aspetto
è decisivo perché l’educando progredisca in modo vero e sano nella propria esperienza, poiché solo in
una gradualità senza traumi avviene assimilazione (nātūra non facit saltūs) e solo se una definizione
formula una conquista già avvenuta, essa fissa una conoscenza e non risulta invece l’imposizione di un
a-priōrī.

Da ciò consegue che la forma di tutti gli insegnamenti deve essere il più possibile laboratoriale, cioè un
insegnamento che ‘accade’, avviene in classe e non la mera indicazione, per quanto articolata, di
contenuti che ‘accadono’ sempre dopo, a casa o mai. Ovviamente non sto sostenendo che non si debba
studiare in proprio a casa, ma anche in ciò occorre identificare una corretta gradualità, e comunque non
può mai essere qualcosa che avviene in modo del tutto slegato dal corso della mattina.

Provo a fare qualche esempio tratto dalle discipline che insegno. 1) L’insegnamento della scrittura, per
eccellenza, mi offre il modello per cosa può essere un laboratorio del ‘fare con’. Immaginiamo che
diventi un contenuto autonomo, tra quelli base, cui vengano dedicate delle ore ogni mattina, con un
insegnante specifico solo per esso. Alle formulazioni teoriche (p. es. su cosa è e come si fa un riassunto)

12Cfr. Francesco, Lumen Fidei, n°38: “La persona vive sempre in relazione. Viene da altri, appartiene ad altri, la sua vita si fa
più grande nell’incontro con altri. E anche la propria conoscenza, la stessa coscienza di sé, è di tipo relazionale, ed è legata
ad altri che ci hanno preceduto: in primo luogo i nostri genitori, che ci hanno dato la vita e il nome. Il linguaggio stesso, le
parole con cui interpretiamo la nostra vita e la nostra realtà, ci arriva attraverso altri, preservato nella memoria viva di altri.
La conoscenza di noi stessi è possibile solo quando partecipiamo a una memoria più grande”.

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segue subito in classe un tentativo di scrittura, che viene condiviso, discusso, corretto. Se si assegna un
esercizio domestico, non passa un mese o più, ora che viene consegnato, corretto restituito ecc. Si
possono poi immaginare strumenti e forme varie, come la videoscrittura: gli allievi depositano nella
cartella del sito gli elaborati, il docente corregge e rimette a disposizione, o gira a tutti le soluzioni
migliori/peggiori più paradigmatiche, ecc. Non c’è limite alla fantasia. 2) Un esempio negativo:
l’insegnamento del Latino. Il docente presenta delle regole grammaticali, detta tabelle morfosintattiche,
legge e corregge degli esercizi di traduzione guidata. Punto. Assegna delle traduzioni a casa. Punto. Poi
fotocopia un brano, lo dà come compito in classe e corregge la traduzione. Dove sta il coinvolgimento?
E soprattutto, a chi vogliamo raccontare che ‘sta effettivamente insegnando una lingua’? Un insegnante
di violoncello potrebbe fare così? Un insegnante di inglese? In tedesco per ‘insegnare’ una lingua si usa
il verbo beibringen, che ha dentro il ‘portare vicino’. Anche solo ragionare in questi termini costringe a
rivedere molti degli īdōla forī et tribūs che vigono in molte discipline scolastiche. 3) Un altro esempio: se
devo ‘far accadere’ la letteratura, non dico quattro parole di introduzione sul capitolo VIII° de “I
promessi sposi”, spiegando tutte le forme di complicazione narrativa, e poi, finita l’ora, assegno per casa la
lettura. Sarebbe come spiegare un quadro senza vederlo, o parlare di una sinfonia senza ascoltarla. Da
questo punto di vista, la letteratura è un’arte che accade ogni volta che la si legge, e quindi occorre
‘leggere’ in classe: la lectio continua mi pare l’unica modalità coinvolgente la totalità razionale e affettiva
del ragazzo.

B) ISTITUIRE UNA RELAZIONE EDUCATIVA COME FORMAZIONE CULTURALE

1) Istituzione scuola e funzione magisteriale.

L’istituzione scolastica assume significato però solo in relazione ad una esigenza di conoscenza ed
educazione del soggetto cui altre istituzioni o corpi sociali non sono in grado di rispondere.
Recuperiamo qui, allora, l’osservazione fatta sopra [cfr. I, B, 3], che l’educazione è la grande ‘coltura’
dell’io, nel senso di coltivare un seme perché giunga a maturazione13. Pensando alla giustificabilità di
una scuola, cioè di una istituzione specifica, occorre rovesciare l’osservazione, individuando nella
‘cultura’, intesa come formazione culturale, la forma più alta, più umana di educazione. Tale cultura
tuttavia deve essere recuperata nel suo senso più pieno e profondo, lontano da ogni riduzionismo
intellettualistico, ovvero come riflessione critica e sistematica sull’esistenza, in cui certamente anche le
facoltà dell’intelletto giocano un ruolo. Da questo punto di vista occorre riaffermare la piena validità di
tutta la ‘formazione culturale’ che l’educando riceve in famiglia, nei corpi sociali intermedi, fino alla
libera interazione con le persone. Innanzitutto poiché c’è e inevitabilmente struttura la forma della
personalità, quindi della ragione e della libertà (sia come desiderio che come libero arbitrio): da questo
punto di vista non ci sono contesti neutri e influssi zero, poiché l’io è sempre immerso dentro delle
relazioni che lo formano. In secondo luogo, dovrebbe emergere qui la responsabilità educativa di tutti i

13 Per la definizione, cfr. Cic. Tusc. II,13.

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soggetti (con particolare peso per gli adulti): sempre il nostro interagire con le persone, dal gioco al
lavoro, è portatore di una comunicazione che investe i diversi soggetti coinvolti, modificandoli. In terzo
luogo, tanto più quanto più questa formazione culturale è assunta responsabilmente, in particolare dalla
famiglia, essa tende a strutturarsi come riflessione critica e sistematica dell’esistenza, ovviamente
secondo gradi congrui con la capacità di autocoscienza e di strumentazione intellettiva del singolo
educando. Certamente la riflessione su cos’è, come avviene e che importanza ha per il soggetto
l’educazione primaria data dalla cultura familiare, è ampissima, ma per quanto ci interessa qui, può
bastare.

In che cosa dunque si giustifica una scuola, non ridotta a sola istruzione, ma nella sua pretesa educativa?
Se pensiamo all’analogia con le figure primarie della generazione e dell’educazione - madre e padre - si
potrebbe definire l’educazione familiare (includendo in ciò la società di persone in cui si è
inevitabilmente immersi) come la ‘cultura materna’, quella in cui in fondo in fondo ci si trova a vivere,
mentre potremmo definire l’educazione in contesti istituzionalizzati come la ‘cultura paterna’14, in cui la
funzione autorevole non è assegnata dalla natura alla genitorialità, ma è individuata dall’intelligenza e dal
libero assenso delle persone nella magisterialità. Mentre con la madre c’è un legame naturale che
custodisce la vita in modo insostituibile in tutte le sue funzioni primarie, la paternità emerge, anche
psicologicamente, nel tempo come la funzione che taglia il cordone ombelicale, introducendo la ‘ferita’
che apre allo sviluppo della vita stessa15, sollecitando la libertà in maniera drammatica. Ovviamente i
due carismi tendono a compenetrarsi, ma qui basti aver accennato ai termini che strutturano l’analogia.
Essa, poi, è rafforzata dall’interferenza possibile tra le due esperienze (paternità/maternità naturale, da
una parte, magisterialità, dall’altra), poiché i genitori, sono anche i primi ‘maestri’ del piccolo uomo,
mentre la genialità di una grande maestro tende a diventare esperienza di paternità, non per via naturale,
ma a un livello più profondo. In conclusione, c’è nell’esperienza umana una formazione culturale che
implica una funzione autorevole fondata nella natura, e una invece che implica una funzione autorevole,
chiamata a collaborare con la prima, fondata però sull’assenso o sul consenso, cioè su un atto libero e
positivo delle persone all’interno della società. Questa affermazione, se da una parte sottende
l’abolizione della falsa contrapposizione tra natura e cultura (dato che la natura dell’uomo è quella di un
essere culturale e si manifesta nella dimensione culturale)16, ripone l’attenzione al percorso già svolto sul
rapporto tra famiglia e istituzione scolastica, con tutte le implicazioni del caso, ma fa emergere anche la
specificità nella relazione educativa della funzione autorevole e quindi costringe a riflettere sulle sue
caratteristiche nel contesto istituzionalizzato della scuola.

14 Devo il sorgere di questa prospettiva ai suggerimenti dell’amico e collega Stefano Bertani, partecipatimi in frequenti e
intensi dialoghi sulla letteratura e sulla cultura. Per una esplicitazione di questa idea nell’ambito della storia della letteratura
italiana, si veda: S. Bertani, L’apoteosi di Beatrice. Per Francesco De Sanctis lettore di Dante, in: Testo. Studi di teoria e storia della
letteratura e della critica n° 65, XXIV/1, 2013, pp. 75-94.
15 Cfr. C. Risé, Il padre, l’assente inaccettabile, San Paolo 2004.
16 Cfr. E. Rigotti, Conoscenza e significato. Per una didattica responsabile, Mondadori Università 2009, pp. 4-5.

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2) Il maestro come autorità: cultura paterna o magisteriale.

Innanzitutto occorre recuperare il senso pieno, umano del termine ‘autorità’, come “colui che fa
crescere” (auctōritās < augēre), e in ciò è evidente perché i genitori sono per natura autorità, anche se ciò
ha poi delle implicazioni sulla libertà dei genitori stessi, che non è però qui pertinente sviluppare. La
funzione di autorità a scuola, per tutto quello che si è visto, è tanto svolta dai singoli educatori, quanto
dall’insieme, in un duplice significato. Mentre infatti è ovvio attribuire tale funzione al singolo, lo è
meno in riferimento all’istituzione: tuttavia, per quanto si è esposto sopra, se è la comunità che è
‘educante’, vuol dire che svolge la sua funzione come autorità, e ciò implica che l’autorità del singolo
docente si strutturi in relazione anche agli altri docenti in una collegialità. Certo, non si toglie mai la
dimensione della persona (educatore o educando), entro cui anzi si specifica sempre la funzione
autorevole, cioè educativa, poiché essa avviene nella dimensione dell’incontro interpersonale. Tuttavia
c’è una dimensione di cooperazione che rende la comunità docente ‘autorità’ per gli alunni, esattamente
come l’unità tra padre e madre fa di più che non la singola ‘autorità’ dell’uno o dell’altra. Viceversa il
singolo docente, cioè la singola autorità è tale perché riconosciuta dal sistema che la ingloba, e ciò vuol
dire dall’istituzione che lo assume, dall’accettazione/riconoscimento da parte della comunità di pari o
comunità professionale, e infine dagli alunni e dalle famiglie. Insomma, nell’istituzione scolastica, che
quindi è chiamata a veicolare la ‘cultura paterna’, la funzione d’autorità non è data a priōrī ma è
sottoposta al vaglio di un riconoscimento.

In che cosa dunque si giustifica la scuola come autorità e il maestro come autorità? In che cosa
svolgono una funzione del ‘far crescere’ coessenziale e complementare a quella naturale dei genitori? Si
tratta del legame profondo con la cultura, e la cultura paterna. Si è detto che l’uomo è per definizione
un animale culturale, nel senso che tende a strutturare le conoscenze di sé e del mondo in un tutto
organico, condiviso all’interno di una comunità e trasmesso nell’interazione comunicativa tra le
generazioni. In ciò si riconosce il valore della cultura come Weltanschauung, e quindi come sostrato o
sostanza di una comunità antropica, ma anche come struttura dell’accoglienza del nuovo nato, il trádito
non genetico che permette al piccolo uomo di compiere la sua natura, realizzare la sua propria umanità,
funzione per cui la sola biologia è terribilmente insufficiente17.

In che cosa però la cultura della/nella scuola è diversa, complementare e necessaria, rispetto a quella
prima forma di accoglienza che è la cultura familiare e sociale, ovvero la cultura materna? C’è, mi pare,
innanzitutto un aspetto informativo, nel senso che ci sono dei saperi specifici che non sono disponibili
nell’ambito di quella cultura. In questo senso la cultura (paterna/scolastica) assume il valore del tedesco
Bildung, ovvero quello di un patrimonio di conoscenze o saperi specifici, acquisibili in gradi diversi in
luoghi istituzionali privilegiati. Tuttavia questo insieme di saperi e la loro contestualizzazione a scuola
dipende in grande misura dalle condizioni storiche, socio-economiche e politiche di un paese. Ci sono

17 Su tutto ciò, cfr. E. Rigotti, Conoscenza …, pp. 4-17.

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conoscenze di cui un tempo i maestri di scuola erano gli unici depositari e che oggi sono di dominio
pubblico o che sono reperibili con innumerevoli strumenti di comunicazione, al di fuori dell’istituzione
scolastica, oppure banalmente ci sono dei saperi che sono stati superati dall’evoluzione delle
conoscenze e delle loro applicazioni. E poi non si può escludere che un genitore possa veicolare, se non
tutti e non in tutti i gradi possibili, alcuni dei saperi tradizionalmente considerati esclusivi della scuola.
Oggi si tende allora a spostare l’attenzione sui saperi per comunicare, individuando cioè la specificità
dell’insegnante – della sua funzione autorevole - nel possesso non solo di conoscenze da veicolare, ma
nel possesso di saperi, teorici o pratici, che permettono all’insegnate di essere un ‘gestore esperto o
professionista’ della comunicazione educativa. A prescindere dalla sua concreta realtà storica, per cui ciò
è più vero in alcuni paesi fuori d’Italia che in Italia, poiché da più tempo sono state inserite nel percorso
di formazione degli insegnanti la didattica e la pedagogia, si corre però il rischio di fare dell’insegnante
uno specialista di tecniche comunicative. E anche in ciò non è affatto detto che su questo aspetto non ci
possano essere fuori della scuola professionisti o dilettanti più o allo stesso modo ‘capaci di’. In
secondo luogo, ciò presuppone poco o tanto la divaricazione tra saperi e metodi, mentre tutta
l’impostazione che stiamo dando a questa riflessione, si fonda sull’inerenza del metodo all’oggetto. Ciò
non vuol dire cancellare il contributo che la pedagogia, la riflessione didattica e docimologica apportano
alla formazione della funzione magisteriale, ma non ne fanno per sé sole la funzione autorevole. Se
l’esperienza dell’autorità sorge come riconoscimento in un incontro, occorre osservare questa dinamica.

3) Il punto di partenza: l'incontro col maestro nel presente.

L’incontro avviene nel presente, e in esso c’è il riconoscimento di una forza (autorevolezza) che muove
l’io in tutti i suoi fattori. Questa forza è nella figura autorevole l’esperienza di un’autocoscienza più
grande, che appare a livello psicologico ed esistenziale come certezza. Essa si fonda su due aspetti: a) la
sinteticità, cioè l’esperienza sintetica di sensatezza, che si comunica didatticamente come proposta di un
ordine, i cui elementi o punti di forza o ragioni si sveleranno nel tempo di un rapporto; b) la
comprensività di un ventaglio più ampio di fattori, che dispiegata nel tempo di un rapporto didattico
mostra l’adeguata ragionevolezza dell’ipotesi culturale sintetica. La conseguenza di una personalità certa
perché veramente autocosciente del rapporto pieno di senso tra sé e la realtà tutta, vista in direzione
dell’educando, è quella della pazienza, che è la vera virtù dell’educatore. Chi è certo non ha paura del
tempo e può aspettare la libertà dell’altro. Per questo in sintesi la cultura o l’ipotesi culturale - per
l’educando che esce dalla famiglia ed entra nel mondo per quella porta che è la scuola - coincide con
l’esperienza di rapporto sensato con la realtà che ne ha il maestro, e cui quindi il maestro invita a
partecipare. Questa dinamica può essere letta come valida anche per l’istituzione in quanto tale, poiché
sempre realizzata da persone: in questo caso si costituisce il capitale di un credito, che tuttavia non può
mai essere dato per scontato.

Che cosa permette l’accadere di quanto appena detto nella funzione autorevole? Cioè, in forza di cosa
l’esperienza del maestro è una relazione con il reale dotata di senso, cui si può invitare il giovane a

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partecipare? Mi pare coincida con la relazione, esperita coscientemente e coscientemente vissuta nel
presente, tra il particolare e la totalità, in ogni suo ambito. Questa relazione tra sé, il particolare vissuto e
la totalità è il senso. Nella funzione autorevole, tale dinamica è frutto di un grande lavoro personale e
comunitario. Si tratta di una continua ricomprensione critica di quanto già appreso e formulato, in
risposta agli stimoli interni ed esterni. Questa presenza vivente del passato nel presente si chiama
tradizione. Essa non è una realtà inerte che ci si trascina dietro, vuoi come uno spettro che incute
soggezione (= tradizionalismo), vuoi come un morto di cui non si vede l’ora di sbarazzarsi (=
avanguardismo), piuttosto la vivente dinamica di accettazione del dato che viene consegnato (la cultura
di una comunità) per essere sottoposto al vaglio di una verifica, personale e comunitaria. Nella misura in
cui questa dinamica accade nel singolo insegnante come nella comunità docente o nel sistema di una
scuola, si realizza, a questo livello, autorità.

4) La tradizione come vaglio critico del passato.

Una società o comunità che non ripensi continuamente la propria cultura, si condanna al
tradizionalismo o all’avanguardismo: il primo trasforma il principio di autorità in autoritarismo e si
condanna alla sterilità, poiché senza generazione. Il secondo si condanna lo stesso alla sterilità, poiché
fa della continua negazione del passato la sua ragion d’essere, e allora è solo la dialettica del più forte,
come potere momentaneamente in auge. Fino a che, forse, una cultura (nel senso di una comunità col
suo sostrato culturale) antropologicamente e storicamente più forte non riempia il vuoto di senso
creatosi. Invece il realismo suggerisce di partire dalla cultura prodotta e trasmessa da chi ci precede,
corrispondendo alla grandezza dei predecessori con la moralità dell’impegno a verificarla, selezionarla,
riviverla. Solo così il passato diventa tradizione vivente nel presente e può essere comunicato
adeguatamente ai nuovi nati. La funzione autorevole quindi non dovrà far altro che comunicare,
condividendo, il presente del proprio lavoro di ricomprensione critica della tradizione, coinvolgendo
cioè gli alunni in tale processo. Ma questa osservazione storicamente oggi implica la presa di coscienza
seria del momento di crisi globale antropologica che investe il mondo intero e prima di tutto
l'Occidente. Prendere seriamente in considerazione tale crisi vuol dire riconoscerle il tratto positivo di
messa in discussione dell'esistente, di provocazione ad una messa in gioco che superi - per esempio nel
campo dell'educazione - gli ormai innumerevoli maldestri tentativi di conservatorismo stolido o di
irresponsabile avanguardismo. Tale crisi pone a tutti i livelli dell'umano la grande domanda: "che cosa
vale veramente?", che a livello del tema in discussione, potrebbe essere riformulata così: che cosa dunque
del passato è chiamato oggi a diventare tradizione all’interno della cultura paterna o propria dell’istituzione-
scuola?

Storicamente in Europa e in tutto l’Occidente veniamo da una lunghissima guerra che ha contrapposto
l’insorgente stato nazionale contro tutte le realtà di popolo, prima fra tutte la cristianità.
Prevalentemente lo stato moderno si è configurato come quello che prende in mano le leve
dell’educazione, programma e definisce quale e come deve essere l’educazione di un intero popolo. Ha

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cioè usurpato la funzione etica dell’educazione spettante ai singoli e ai corpi sociali. In questa stagione
storica, alla domanda di sopra si e' incaricata di rispondere l'ideologia di volta in volta al potere,
formulando centralisticamente e impositivamente programmi di istruzione, che dietro il dogma della
neutralità per lo più celavano un'educazione concepita come imposizione dell'antropologia confacente
all'ideologia dominante - in tal modo non distinguendosi affatto dai totalitarismi, che hanno fatto ciò
invece esplicitamente.

Contemporaneamente, però, tutte le esperienze umane culturalmente strutturatesi e spinte da una


responsabilità verso il bene comune, nella misura della libertà fruita, hanno continuato a sviluppare
delle proposte di educazione nella forma di una trasmissione culturale, in ciò facendosi eredi della lunga
tradizione liberale (nel senso delle artes liberales) dell'educazione a partire dalla koinè ellenistico-romana.
Si possono qui ricordare - per stare a titolo di esempio a epoche più vicino a noi - le scuole degli
umanisti, le scuole dei gesuiti o dei salesiani. Nella particolare crisi globale in cui stiamo vivendo in
questo terzo millennio dell’era cristiana, la cosa meno scontata è proprio che cosa è chiamato
ragionevolmente a essere contenuto di tradizione per le nuove generazioni all’interno della scuola nei
suoi diversi livelli.

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IV) La tradizione possibile.

A) IL SORGERE DI UN SOGGETTO CULTURALE

Se osserviamo che nella storia la rinascita (e il progresso!) è sempre stata generata dal porsi nella società
di un soggetto (individuale o comunitario) portatore di una cultura capace di interrogare il presente,
perché capace di reinterpretare il passato, ovvero perché capace di rendere il passato vivo e fecondo nel
presente come tradizione (ricordiamo a titolo di esempio il grande fenomeno benedettino), e se
constatiamo nella nostra esperienza che il soggetto rinasce in un incontro, possiamo sperare di
rispondere al problema posto - che cosa deve diventare proposta culturale all’interno della scuola - non
immaginando a tavolino una reinvenzione della tradizione, come invece è stato fatto nell’insorgente
mondo moderno tra ‘700 e ‘80018, bensì facendo emergere i fattori dell’esperienza presente.
Coerentemente con quanto abbiamo fin qui sviluppato è chiaro che ogni comunità o corpo sociale – e
quindi ogni singolo in quanto appartenente ad una comunità – è chiamato a quel grande lavoro di
ricomprensione critica di quanto ricevuto e divenuto lievito fecondo dell’esperienza presente, per essere
vagliato e ragionevolmente proposto alle nuove generazioni. Ciò vuol dire innanzitutto che non ci si
può più aspettare da un qualche legislatore la dettatura dei lineamenti della cultura che si vuole vivere e
riproporre. Questo è un lavoro enorme, difficile e che certamente non può essere affrontato dalla sola
buona volontà del singolo, ma spetta comunque alla società nelle sue diverse articolazioni. Per questo
occorre che ciascuno dia credito al riconoscimento che lo ha portato a coinvolgersi in una relazione con
gli altri, a tutti i livelli di una società, ciascuno col suo grado di responsabilità. In secondo luogo, vuol
dire che mai come oggi alla pluralità di soggetti presenti nella società deve essere riconosciuto in pari
grado il diritto e il dovere di impegnarsi in questo lavoro, che darà vita inevitabilmente a proposte
plurali.

Da questo punto di vista ci pare sensato per tale immenso lavoro valorizzare esperienze in atto, là dove
poco o tanto un soggetto culturale come sopra descritto si è posto. Per far ciò la prima urgenza è
individuare tali esperienze nella loro funzione autorevole, perché solo seguendo un maestro l’esperienza
dei singoli matura e diventa condivisione e creazione di un soggetto comunitario capace di portare la
responsabilità della sfida culturale posta. In altre parole là dove si pone l’esperienza originale di un
maestro, riconosciuto da altri, si creano luoghi comunitari di esperienza o “punti vivi” nella società
capaci di fermentare l’intero corpo sociale e rispondere in tal modo alla grande crisi dell’umano e alla

18 In ciò evidentemente decisivo, ma non esclusivo, è stato l’uso da parte del mondo moderno del discorso storico su e in
tutti gli ambiti dell’umana avventura. Cfr. a titolo di esempio, per quanto riguarda il discorso storico su e della letteratura
italiana, A. Quondam, Petrarca: l’italiano dimenticato, Rizzoli 2004. Più in generale: M. Fumaroli, Le api e i ragni. La disputa degli
Antichi e dei Moderni, Adelphi 2005.

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grande emergenza educativa che stiamo vivendo. Credo che mai come oggi, anche nel campo
dell’educazione, sia giunto il tempo, come è stato autorevolmente detto, delle minoranze creative19.

B) DIMENSIONI FONDAMENTALI PER UN LAVORO CULTURALE

1) Essenzialità, ovvero de disciplinarum ratione.

La prima grande esigenza maturata nell’esperienza è quella della riformulazione dello statuto delle
discipline insegnate, soprattutto a livello della scuola secondaria. Ciò implica innanzitutto la serena
presa d’atto che quello che insegniamo e così come lo insegniamo non funziona.

La prima grande evidenza è il fallimento dell’enciclopedismo specialistico, di origine illuministica. Per


chi insegna, infatti, è abbastanza evidente che la scuola si è tumoralmente riempita di insegnamenti, nel
senso di discipline, quando non (orrore!) di ‘educazioni’ (stradale, sessuale, ambientale, civica, alla
socialità, ecc.), col risultato di mettere un ragazzino di 13 anni e mezzo di colpo di fronte a una pletora
di docenti, contenuti, linguaggi disciplinari, metodi, ecc. in un processo di accumulo scriteriato, che non
può che generare quella confusione e smarrimento che i genitori spesso lamentano. Certamente
l’educazione in una scuola deve accompagnare il ragazzo ad incontrare sempre più ambiti della realtà,
ma, in primo luogo la totalità non è mai una sommatoria meccanica, non è una misura, che non si
darebbe mai per compiuta; in secondo luogo, coerentemente con gli assunti esposti sopra ritengo che
occorra rispettare una vera gradualità nell’apprendimento, che è prima di tutto sostanziale, categoriale,
prima che relativa al quanto informativo. La seconda evidenza, dipendente dalla prima, è una caduta
della qualità dei singoli apprendimenti: volendo fare poco di tutto, si finisce per fare male,
superficialmente tutto, con conseguenze gravi sull’atteggiamento (critico?) della persona. La ‘scaricata’
da internet, la sommaria memorizzazione di slogan, o la corretta meccanizzazione di procedure sembra
essere il massimo che una scuola superiore possa offrire. Chi insegna all’università, credo se ne renda
ben conto. È chiaro, quindi, che occorre invertire la rotta, secondo la logica del “nōn multa sed multum”.
Non è vero cioè che tra 13 e 18 anni sia tutto essenziale, poiché la scuola non è l’università, la scuola
non è tutta la vita: compito di una nuova scuola è quello di ridefinire la gerarchia degli apprendimenti-
insegnamenti. Per queste ragioni, mi pare che la proposta più interessante sia quella del core curriculum
articolato in insegnamenti-base comuni e dipartimenti, magari pomeridiani, a libera scelta. Questa
proposta terrebbe adeguatamente conto anche del fattore della libertà e interesse dei discenti [cfr. III,
A,1,a].

Da ciò discende evidentemente l’esigenza di ritrovare un canone di insegnamenti che siano


effettivamente fondativi, e ciò non si riduce ad una scelta tra le configurazioni disciplinari esistenti nella

19 Il concetto è stato espresso a più riprese da Benedetto XVI già da cardinale. Si veda in particolare l’intervento dell’allora
Card. J. Ratzinger presso la Biblioteca del Senato della Repubblica Italiana del 13.05.2004, dal titolo “Europa. I suoi fondamenti
spirituali ieri, oggi e domani”, come anche l’intervista concessa dal pontefice nel volo verso la Repubblica Ceca del 26.09.2009.

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scuola, bensì impone di ripensare lo statuto epistemologico delle ‘discipline’ in essa insegnate20. Un solo
esempio: chi insegna italiano al biennio di una scuola superiore – soprattutto liceale – mediamente sotto
l’etichetta della stessa disciplina propone in realtà apprendimenti assai diversificati21: l’insegnamento
della riflessione linguistica (‘grammatica’), l’insegnamento della scrittura, i fondamenti letterarii e
culturali di una civiltà (leggasi epica: sono Omero e Virgilio, strettamente parlando, autori di ‘italiano’?),
una introduzione alle forme o generi letterari, quali la narrativa, il teatro la poesia (fondamenti della
letteratura?), la lettura di Manzoni (è una prosecuzione moderna dell’epica, è il manifesto della lingua
italiana moderna unificata, è un esempio di romanzo storico, è una visione dell’uomo atta a ‘fare gli
italiani’? … o è semplicemente un ‘dono’ cui sarebbe stupido rinunciare?).

2) Sinteticità o de intellectu rei adaequando.

La rimessa in discussione dello statuto epistemologico delle discipline giuridicamente configurate


nell’insegnamento scolare, in vista di un canone teleologizzato, riporta all’attenzione dopo secolari
pregiudizi il fatto che la ragione che conosce è una – pur nella pluralità di metodi che è in grado di
mettere in atto – come una è la realtà, e che l’incontro tra le due, che avviene nell’esperienza, è un fatto
sintetico. La conoscenza è un’esperienza sintetica, cui poi i diversi procedimenti di analisi, dai più
semplici ai più complessi daranno l’articolazione delle ragioni. Per questo l’atto dell’insegnamento deve
far fare a chi apprende un’esperienza innanzitutto sintetica. Ritorna qui l’importanza dell’ipotesi
sintetica di lavoro che deve reggere tutto l’impianto come le singole ramificazioni. La riflessione sugli
insegnamenti deve portare alla luce le categorie sintetiche, trasversali che mostrino l’unità che intercorre
tra i singoli apprendimenti, per permettere di riformulare così un percorso di apprendimento in cui
nell’esperienza del discente si spalanchi sempre più la profondità segnica della realtà mentre
contemporaneamente ne esperisce la complessità.

Nota bene: cultura umanistica e cultura scientifica.

Da questo lavoro si può sperare di tornare a rivedere l’unità nella diversità dei linguaggi culturali, che
storicamente in Occidente e quindi poi in tutto il mondo hanno invece rispecchiato la divisione (o
riduzione) della concezione moderna di ragione, oggi data per scontato, e che trova nella ritenuta ovvia
incomunicabilità tra cultura cosiddetta umanistica e cultura cosiddetta scientifica la sua espressione più
imponente, tradendo la storia culturale dell’uomo fin nel significato delle parole. Qualunque
conoscenza culturale, ovvero riflessione critica e sistematica, infatti è “scientia” tanto quanto è
“umanistica” poiché dell’uomo e per l’uomo. Questa guerra sembrerebbe oggi essere stata vinta da una
concezione che ritiene il linguaggio delle discipline matematico-sperimentali l’unico valido a produrre
conoscenza veritativa, imponendo a tutte le altre discipline di scimmiottarne strumenti, metodi,

20 Ricordiamo che per due millenni circa la formazione superiore base era costituita da tre discipline, tra loro interconnesse
(trivium) e quella avanzata da quattro, anch’esse profondamente interconnesse (quadrivium)!
21 L’amica e collega Isabelle Reiherme mi conferma che una situazione analoga sussiste nell’insegnamento del Francese in

Francia nelle scuole medie.

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terminologia, in una parola lo ‘stile’22, col risultato di aver drasticamente ridotto l’orizzonte del
conoscibile. La dimostrazione, l’esperimento e la logica formale non esauriscono l’energia della ragione.
Qui più che altrove vale l’invito di Benedetto XVI ad “allargare la ragione”23, recuperandone
nell’esperienza la natura completa e quindi affettiva, passando per un lavoro rigoroso e leale in ogni
ambito disciplinare, che mettendo in luce la specificità di ognuna, ne faccia emergere
contemporaneamente il legame profondo, categoriale, con il tutto.

3) La leadership educativa o de magistro cum auctoritate.

L’esigenza della funzione autorevole o magistrale (di cui si è detto sopra al punto A), non sta solo
all’inizio ma in ogni momento di questo lavoro e ancor più nella sua traduzione operativa, in quanto la
complessa avventura dell’educazione attraverso la formazione culturale non può realizzarsi se la
comunità di studio e lavoro di una scuola non è guidata. Questo fatto, che è riconosciuto come ovvio in
qualunque intrapresa umana, è stato colpevolmente negato e osteggiato proprio nei sistemi educativi
occidentali, snaturati dall’ideologia del democraticismo. Così oggi tutto nella scuola, invece di essere
oggetto di giudizio, viene messo ai voti, senza alcuna assunzione di responsabilità da parte di nessuno,
che non sia il mero rispetto di procedure formali. Invece ciascun membro della comunità di studio e
lavoro deve assumersi la responsabilità di giocare il proprio giudizio, essendone ciascuno al suo livello e
di fronte agli organi competenti chiamato a renderne conto. Questa dimensione, senza una corretta
gerarchia di funzioni e soprattutto in assenza di una leadership educativa è impossibile.

4) Argomentatività o de ratione et oratione24.

Se l’educazione è una ‘comunicazione di sé’ implicante la totalità dei soggetti che liberamente vi si
coinvolgono, e il tratto distintivo di tali soggetti è la ragione come ‘logos’ – proprio perché punto di
partenza e di arrivo dell’educazione tramite il processo della conoscenza – tale interazione comunicativa
se vuole rispettare la totalità dei fattori della persona ed essere davvero educazione e non manipolazione
non può che essere argomentativa. Che cosa sia l’argomentazione e quale la sua incidenza nella
formazione culturale è tema ampio e complesso, che non sarebbe ragionevole presumere di ridurre in
poche battute. Tuttavia, per sollevare il problema, seppur timidamente, proviamo a ricordare che: a) la
ragione che conosce, per attestare il rapporto che instaura con la realtà si esprime attraverso il
‘linguaggio’, che è quindi la grande virtualità messa in mano al soggetto per l’avventura della

22Anche su questo grande tema delle due culture (umanistica e scientifica) e del loro stile o linguaggio devo molto all’amico
S. Bertani, di cui si potrà a breve vedere il saggio in corso di pubblicazione su “Intersezioni”: Ragionar per finta. Le «due culture»
e l’evoluzionismo umanistico di S.J. Gould (anteprima per gentile concessione dell’autore).
23 Cfr. Benedetto XVI, Fede, ragione e università. Ricordi e Riflessioni, Aula Magna dell’Università di Regensburg, 12.09.2006:

“Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e
dell’uso di essa” (“Nicht Rücknahme, nicht negative Kritik ist gemeint, sondern um Ausweitung unseres Vernunftbegriffs
und –gebrauchs geht es”).
24 Per tutto questo paragrafo si veda con ben maggiore competenza, profondità e chiarezza: E. Rigotti, Conoscenza e significato.

Per una didattica responsabile, Mondadori Università 2009, pp. 110-155. Il titoletto che ho dato è ovviamente debitore di Cic.
Off. I, 50.

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conoscenza, ovvero una rete categoriale atta alla conoscenza (id quō cognoscitur); b) che il primo atto
linguistico della ragione come presa di posizione di fronte alla realtà è la enunciazione di un ‘discorso’
nella forma del giudizio, che quindi presenta i valori possibili di verità / falsità; c) che tali enunciati
possono essere attestazione dell’evidenza o sviluppo inferenziale di altri enunciati, ovvero costituire i
passi di un discorso sviluppato che è il ‘ragionamento’; d) che il ragionamento si può porre nella
forma della dimostrazione o in quella della argomentazione; e) che infine, mentre alla dimostrazione è
sottesa la razionalità, l’argomentazione, pur non potendo fare a meno di essa apre all’orizzonte più
grande della ragionevolezza.

Da questi brevi richiami discende il compito proprio della cultura paterna di fornire per gradi crescenti
la strumentazione ‘categoriale’ appropriata per un riconoscimento della realtà incontrata nell’esperienza
quanto più aderente possibile a quella medesima realtà, come anche la necessità che la comunicazione
educativa sia a tutti i livelli e da parte di tutti i soggetti coinvolti, argomentativa, ovvero che ciascuno
interagisca in essa impegnandosi a condividere la propria esperienza con un ‘discorso’ che dia tutte e
solo le ragioni pertinenti dell’esperienza comunicata. L’argomentatività come dimensione globale della
comunicazione educativa è l’unica che tenga ragionevolmente conto di tutti i fattori in gioco, dall’ethos
dell’argomentante, cioè la sua autorevolezza, fondata sull’integralità della sua persona, al pathos del
decisore, cioè all’integralità razionale-affettiva della sua persona, fino al logos del discorso, ovvero la sua
razionalità e ragionevolezza. Un grande lavoro è quindi quello di individuare ed esplicitare le
implicazioni di questa dimensione su tutti gli aspetti di una istituzione educativa nella forma della
trasmissione culturale, dalla didattica all’interazione tra i diversi soggetti, fino all’organizzazione.

C) ALCUNI SPUNTI OPERATIVI

In conclusione, provo a immaginare alcune proposte operative che potrebbero individuare una strada di
concreta realizzabilità dei principi sopra esposti.

a) Ciascuna scuola deve essere concepita come ente effettivamente autonomo, sul piano giuridico ed
economico, con una nuova forma di governance, che si assuma tutta la responsabilità del progetto:
dall’edificio (funzionale fin nel modo con cui sono pensati gli spazi), all’ipotesi culturale, alla
conseguente assunzione del personale, organizzandosi per garantire la flessibilità di percorsi e soluzioni
per ciascun discente, richiesta da quanto fin qui esposto.

b) La professionalità docente deve essere riconcepita in termini più ampi, sia sul piano della job
description che della remunerazione. Da questo punto di vista non è più dilazionabile la riforma dello
stato giuridico degli insegnanti - è forse uno dei pochi casi in cui varrebbe la pena di introdurre l’ordine
professionale -, che lo riporti al modello della libera professione, secondo criteri meritocratici, con una
effettiva possibilità di carriera e con una vera differenziazione dei tempi-lavoro (effettivo full-time/part-
time) e degli stipendi. In tal modo si potranno distinguere le figure professionali fondanti la struttura
scolastica e interagenti con maggiore responsabilità coi discenti, rispetto a professionalità ausiliarie.

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c) Il core curriculum e la struttura ad ‘albero’. Non ad ogni anno (oserei dire ad ogni semestre!) è
necessario insegnare le stesse ‘discipline’ o ‘contenuti’ nella stessa proporzione, e non per le stesse
persone. Penserei pertanto ad un nucleo essenziale (core curriculum) che sia però ‘variabile’ di anno in
anno o in certi casi di semestre in semestre. Non si propone ad un infante un cenone di capodanno: si
comincia con il latte e pian piano si educa il gusto25. Così nello studio. Il primo semestre di una prima
superiore ci sarà un nucleo essenziale di 3/4 discipline, che potranno parzialmente o totalmente
diversificarsi nel percorso successivo, anche in relazione alla personalizzazione dei percorsi. A questa
base, si accompagnano via via in maniera sempre più diversificata e crescente le diverse discipline
aggiuntive a libera scelta da parte degli studenti: le scelte potranno essere pensate per lo più in ambiti di
alternative o percorsi ‘guidati’/’suggeriti’ ma non escludo una parte di libertà totale, soprattutto per gli
anni più alti. Questa struttura ad albero, che parte dal semplice e si ‘ramifica’ nel corso degli anni, deve
anche tenere conto che: a) l’esperienza didattica dimostra che il primo anno delle superiori è un anno di
passaggio, di grande trasformazione dei ragazzi e quindi è anche l’anno in cui si decide se il percorso
scelto è effettivamente quello giusto. Pertanto il primo anno deve essere considerato a parte, sia come
percorso che come criteri di valutazione; b) occorre ripensare il tratto in uscita: qui la situazione è più
complessa. Da una parte l’esperienza della classe V, come classe in cui i ragazzi possono fare per la
prima volta l’esperienza di una criticità personale, guidata ma non più dipendente dal docente, è
un’esperienza affascinante; dall’altra si interseca con l’orientamento in uscita (per lo più universitario),
che tuttavia è ordinariamente una divagazione astratta sul futuro, con la presunzione di ‘anticiparlo con
degli assaggi’ per poter scegliere e decidere, cosa che assomiglia molto alle convivenze-prova
extramatrimoniali. Questo rimando al futuro svuota normalmente il presente con il suo contenuto
esperienziale. Dall’altra non mi pare del tutto priva di senso, l’ipotesi di ridurre a 4 anni il percorso
superiore: se un insegnamento solido ha formato una personalità, essa potrà trovare la sua formazione
specifica all’Università, senza perdere troppo tempo. Ma questo è un punto per me ancora poco chiaro.

d) Tutto ciò potrebbe avere come conseguenza sul piano dell’organizzazione didattica che ogni gruppo
di discenti condivida il tempo-base della settimana (per esempio dalle 8,15 alle 12,30, dal lunedì al
venerdì), con al massimo 4/5 figure educative, di cui una gerarchicamente superiore, con funzione di
guida complessiva e di effettiva assunzione di responsabilità del percorso dei ragazzi e che sia in questo
sottoposta al direttore didattico-educativo o preside (leadership educativa), che a sua volta è responsabile
di tutta la comunità docenti-studenti-famiglie. In orari pomeridiani si svolgerebbero gli insegnamento
ausiliarii o specifici, organizzati magari in dipartimenti, e frequentati secondo la graduale libera scelta
dei discenti.

e) Le lingue e le arti. Dal punto di vista dell’offerta di contenuti, una maggiore attenzione e una accurata
riflessione meritano gli insegnamenti linguistici e le arti. Per i primi, da una parte, occorre tenere conto
della situazione di ‘meticciato’ culturale in cui ci troviamo come una straordinaria occasione per dare

25 Riutilizzo qui parafrasandolo un famoso versetto di S. Paolo. Cfr. Eb. 5,13.

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alle nuove generazioni gli strumenti per un più proficuo incontro tra popoli, dall’altra occorre superare
la divisione epistemologica e metodologica tra lingue antiche e lingue moderne, come una delle forme
più subdole della rottura col passato. Per le arti (in primis la musica) si tratta di ridare occhi e orecchie a
un mondo che, nella predominanza assoluta della cultura accademica26, ha relegato alcune delle
supreme forme della conoscenza e dell’espressione umana a tollerate stravaganze o a campi funzionali
solo all’esasperata ricerca del divismo, invece che essere un bene per tutti.

Nota bene sulle lingue classiche (Latino e Greco).

Le lingue classiche, culla per due millenni della civiltà occidentale, hanno risentito in modo particolare
dell’odio per il passato dell’epoca moderna. In particolare il Latino potrebbe costituire invece l’apertura
più ‘europea’ e ‘internazionale’ tra le discipline, se tornasse ad essere l’insegnamento di una lingua,
‘paterna’ per l’Occidente, e ‘universale’ quanto a tempi e spazi geografici, che chiamiamo ‘occidentali’.
Non a caso l’insegnamento grammaticalista che ha ucciso la lingua, ‘chiusa’ sì, ma pur sempre ‘viva’ per
via istituzionale o magisteriale (paterna, appunto), è nato in epoca razionalista27 ed è poi stato assunto
dall’élite in aperta opposizione alla tradizione d’insegnamento ‘viva’ della Chiesa latina. Da lì alla Formale
Bildung idealistica e allo storicismo positivistico, che hanno trasformato due lingue e due letterature in
grammatiche algebriche logico-deduttive e anatomie filologistiche, il passo è stato breve28. La soluzione
c’è, come c’era nelle scuole frequentate dal Pascoli all’inizio del ‘900, ed è la tradizione didattica del
Latino come lingua, particolarmente ravvivata dai grandi umanisti (Erasmo, Comenius, Ludovico Vives,
ecc.) e durata ancora fino alla metà dell’800. Dopo la sua condanna a morte filologicamente corretta,
numerosi i tentativi di invertire la rotta del positivismo nichilista: da W.H.D. Rouse, cofondatore della
Loeb, nell’Inghilterra del primo ‘900, al danese H.H.Ørberg, autore a metà degli anni ’50 di un
fortunato manuale, ancor oggi adoperato in diverse nazioni europee. Un discorso metodologicamente
simile ma culturalmente non identico meriterebbe il Greco, per cui tuttavia mi limito solo a menzionare
la proposta scientificamente accurata e pedagogicamente efficace dell’Istituto Polis di Gerusalemme
(Polis-Jerusalem Institute of Languages and Humanities).

26 Mi riferisco qui al saggio di J. W. O’Malley, Quattro culture dell’Occidente, Vita e Pensiero 2007.
27 Se ne può fissare l’anno di nascita con la Grammaire générale et raisonnée de Port Royal (1660).
28 Secondo il Pascoli, membro della commissione istituita da F. Martini, Ministro della P. I., la causa principale dello scarso

risultato nell’insegnamento del Latino (a. D. 1893!!!) sta nel fatto che si soffoca “la sentenza dello scrittore sotto la
grammatica, la metrica, la linguistica. […] la grammatica si stende come un' ombra sui fiori immortali del pensiero antico e
li aduggia. […] Il giovane esce, come può, dal Liceo e getta i libri: Virgilio, Orazio, Livio, Tacito! Dei quali ogni linea, si può
dire, nascondeva un laccio grammaticale e costò uno sforzo e provocò uno sbadiglio” (G. PASCOLI, Relazione al ministro della P.
l Ferdinando Martini sullo "scarso profìtto del latino negli Istituti classici': in Prose, I, Milano 1956, 592)

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Indico qui soltanto alcuni testi verso cui il presente scritto ha un debito globale e diffuso, tra i
numerosissimi che per l’uno o l’altro dettaglio si dovrebbero citare, ricordando che la loro importanza
va di pari passo con l’assiduo dialogo con maestri, amici e colleghi come anche con l’esperienza di
studio – sia in contesti istituzionali che personale – come anche infine con la pratica dell’insegnamento
svolta in poco più di un decennio.

L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli 1997.

L. Giussani, Il rischio educativo, SEI 1995.

E. Rigotti – S. Cigada, La comunicazione verbale, Apogeo 2004.

E. Rigotti, Conoscenza e significato. Per una didattica responsabile, Mondadori Università 2009.

C. Wolfsgruber, Conoscenza e compimento di sé, Intervento al corso residenziale di Accademia, 14.07.2011.

J. W. O’Malley, Quattro culture dell’Occidente, Vita & Pensiero 2007.

H. I.Marrou, Storia dell’educazione nell’Antichità, Studium 1984.

R. Quadrelli, La tradizione tradíta, Leonardo 1995.

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