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RELAZIONE FINALE DEL PERCORSO DI CUS

Il percorso di CUS realizzato con la mia cliente C. ha avuto inizio ufficialmente


nel mese di aprile 2015 dopo esserci sperimentate in uno dei CUS iniziali di
conoscenza. Da allora io sono stata sempre la sua Counselor (lei mi ha chiesto di
esserlo), mentre è cambiato nel corso del tempo il terzo partecipante, per cause
diverse. L’assetto definitivo del gruppo è avvenuto nel mese di ottobre dello
stesso anno.

FASE DI PRE CONTATTO (1°/ 2° INCONTRO – aprile e maggio 2015)

Nel rapporto con C. già dai primi incontri ho percepito un’ ottima compatibilità e
la differenza di età ha facilitato un suo atteggiamento di affidamento nei miei
confronti che inizialmente ho molto apprezzato e mi ha rassicurato sul mio
compito. Mi sono sentita subito a mio agio e intenerita da C., attratta dalla
possibilità di parlare in maniera confidenziale con una ragazza poco più grande
di mia figlia, in un evidente (a posteriori) tranfert e controtransfert madre/figlia.
Questo mi ha portato più volte nella fase di chiusura dei primi incontri a
soluzionare e ad essere rassicurante, valorizzando in maniera sbilanciata le sue
risorse e positività. La supervisione mi ha permesso di cogliere con chiarezza
questi passaggi e a porre maggiore attenzione al mio sentire in relazione a ciò
che veniva portato dalla cliente.

Nella dinamica del nostro processo di counseling, questo stato d’animo di


partenza ha consentito da subito lo stabilirsi di un clima collaborativo e di
fiducia reciproca, che ha portato allo sviluppo di una buona alleanza di lavoro,
che nel tempo si è rafforzata su una base più equilibrata, liberandosi di
reciproche ed eccessive aspettative legate al percorso di CUS.

Da parte mia ho sempre cercato di avere un atteggiamento di grande attenzione


a lei, di autenticità e di presenza accogliente sia nel tono della voce che nel non
verbale (annuivo, sorridevo, la guardavo negli occhi e cercavo di avere una
postura aperta , anche se a volte mi sono colta troppo protesa in avanti verso di
lei). Questo accanto al suo transfert materno positivo ha permesso una forte
alleanza di lavoro in un clima di genuinità e di piacevolezza.

Nei primi incontri C. si presentava sorridente e ben disposta anche se il non


verbale rivelava una certa preoccupazione: era spesso a braccia conserte e con

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le gambe incrociate, ben poggiata allo schienale della sedia - quasi a voler
arretrare - e con lo sguardo spesso posizionato nello spazio circostante. La sua
mimica facciale esprime facilmente ciò che sta provando.

In questa fase sono emerse in maniera spontanea e a volte su mia delicata


richiesta una prima serie di informazioni significative, approfondite nel tempo
e riportate sulla scheda anamnestica, che mi hanno permesso di comprendere il
contesto relazionale e sociale di C..

C. ha interiorizzato una buona rappresentazione di sè e del mondo: è sempre


molto curata, è gentile ed educata verso gli altri, ha una buona stima di sé
sostenuta da un forte sistema valoriale. E’ una persona pacata e riflessiva con
una buona capacità di esame della realtà. La sua narrazione è sempre stata
molto equilibrata, più cognitiva che emotiva, comunque con un buon dialogo
con se stessa.

Nel primo incontro C. ha portato il suo disagio nei confronti dell’eccessivo


impegno lavorativo (che ha subito provocato in me una forte risonanza). Dalla
sua descrizione si capiva che è una persona che ama il suo lavoro, che le piace
farlo bene, e per questo viene apprezzata, ma anche che ha alte aspettative su di
sé con alcuni tratti perfezionistici, che le amplificano una certa ansia da
prestazione. Tende ad essere autosufficiente e non chiede facilmente aiuto. Ha
comunque un rapporto molto forte con la mamma alla quale sembra raccontare
molto della sua vita.

Nel secondo C. ha portato le sue difficoltà nelle relazioni amicali, in particolare


con le sue due coinquiline, sottolineando che loro sono molto amiche e questo la
fa sentire esclusa (dicendo questo si accarezza le braccia conserte). La cosa più
dolorosa per lei era il sentirsi “non ascoltata” perché “non si lamenta” mentre lei
ascolta tutti con grande attenzione anche quando sono solo sfoghi senza senso.

In questo incontro ho riformulato spesso e utilizzato alcuni eco, ma sono rimasta


un po’ intrappolata nel suo cognitivo e l’ho riportata poco al qui ed ora e alle
sensazioni fisiche, cosa che ho fatto solo nella conclusione di seduta.

FASE DI CONTATTO (3°/ 5° INCONTRO – giugno, settembre e ottobre 2015)

Nel terzo incontro C. ha portato di nuovo la sua insoddisfazione relazionale


dicendo: “i miei amici sono quelli di mia sorella” sottintendendo “io non sono
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capace di farmi amici da sola”. In conclusione di seduta le ho riportato i due temi
emersi nei nostri incontri ed abbiamo concordato una prima ipotesi di
contratto, il cui obiettivo era di lavorare sulle sue relazioni amicali.

Negli incontri successivi tuttavia quando la situazione emozionale emergente


portava a tematiche diverse da quella stabilita, ho lasciato che queste fossero
oggetto di esplorazione facendone un contratto di seduta.

Nel corso degli incontri infatti il tema del lavoro è stato portato più volte da C.,
spesso in riferimento all’eccessiva assunzione di responsabilità: è brava e le
affidano sempre più nuovi incarichi che teme di non farcela a portare avanti.
Nell’esplorazione ha preso coscienza dei suoi punti di forza (competenza,
tenacia e determinazione) e del fatto che a volte ha solo bisogno di dire che è
spaventata o preoccupata, già dirlo la tranquillizza.

E questo è risultato essere il vero tema del contratto di lavoro: il sentirsi non
ascoltata e il sentire di doversi far carico delle difficoltà altrui (anche
nell’eccessivo carico di lavoro) a discapito dei propri bisogni (sento una grande
risonanza). La mia inesperienza di counselor non mi ha permesso di focalizzare
chiaramente e sul momento questo tema e quindi non è mai stato esplicitato
come contratto generale, anche se questo mi appare oggi il filo conduttore su cui
abbiamo lavorato, come emerso chiaramente in uno degli ultimi incontri.

FASE DI CONTATTO PIENO (6°/ 11° INCONTRO – novembre 2015 e


gennaio/aprile 2016)

Nei mesi successivi l’alleanza di lavoro si è molto consolidata. Sono emerse


tematiche più intime e al tempo stesso c’è stata una differenziazione e un
cambiamento di prospettiva e aspettative nei miei confronti. Il racconto dei temi
portati da C. mi sembra molto esplicativo riguardo i passaggi emozionali di
cambiamento.

Nell’incontro di gennaio raccontando un episodio lavorativo C. ha parlato del


fatto che spesso sente “il fiato corto”. E’ una cosa di cui soffre fin da piccola e che
sembra non sia legata a patologie respiratorie particolari. Durante l’incontro ha
potuto esplorare il disagio che questo le provoca e sperimentare il contatto con
l’emozione sottostante di ansia. La invito a provare ad osservare nel mese
seguente in quali occasioni sente “il fiato corto” e a registrarlo su un diario,

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cercando di cogliere anche piccole variazioni fisiche o associazioni mentali o
stati d’animo, qualunque cosa lei associ al “fiato corto”.

Nel mese seguente il tema portato era sulla difficoltà a telefonare, in particolare
sull’idea che potesse disturbare e infastidire l’interlocutore. Da qui è passata a
raccontare del rapporto con il suo fidanzato e del fatto che anche con lui non ha
piacere a parlare al telefono e poi ancora che non sopporta quando lui
giocherella con il cellulare mentre lei gli sta parlando. Racconta che in effetti è
una cosa che non sopporta perché suo padre per motivi di lavoro passa
tantissimo tempo al telefono ed è come se non ci fosse.

A marzo C. porta una riflessione sul suo percorso di cliente, in particolare che
aveva capito le eccessive aspettative nei confronti del percorso di CUS. C’era una
nota di delusione di fondo, ma anche la consapevolezza che comunque la
possibilità di avere uno spazio tutto per sé per parlare liberamente senza
sentirsi giudicata le era di molto aiuto.

Ad aprile torna, con una certa carica emotiva, il tema di non sentirsi ascoltata.
Aveva raccontato alla mamma un episodio accaduto al lavoro che l’aveva fatta
molto arrabbiare. E sua madre al telefono aveva cercato di rassicurarla
minimizzando l’accaduto. Questo aveva accresciuto la sua rabbia anche nei
confronti della mamma con la quale aveva discusso animatamente. Tanto che poi
si è sentita in dovere di chiederle scusa.

FASE DI CHIUSURA (11° / 12° INCONTRO – maggio e giugno 2016)

Nella seduta di maggio ci siamo avviate alla conclusione del nostro percorso di
counseling. Ho ripercorso i temi trattati e i passaggi salienti per cercare di dare
senso e favorire l’integrazione dell’esperienza del percorso fatto insieme
(talmente presa dal compito, sono andata direttamente al contatto pieno,
iniziando senza chiedere neanche come stai!), e facendolo mi è sembrato più
chiaro tutto il processo.

Nel mese di giugno c’è stata la chiusura vera e propria. Entrambe eravamo
commosse nel ripensare all’intensità e a quanto avevamo scambiato. Durante
questo incontro C. ha ribadito il concetto che la possibilità di parlare e l’essere
ascoltati lo ha percepito profondamente curativo. Ho immaginato che con
questa affermazione C. si riprendesse la guida di se stessa, sia negli aspetti di

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autodeterminazione e responsabilità, che forse anche nella fatica del sentirsi
sola ad affrontarli!

CONSIDERAZIONI SUL PROCESSO DI COUNSELING

Nonostante la fatica provata nello scrivere questa relazione sono molto contenta
di averla fatta. Rileggere e riordinare gli appunti, trascriverli e ricomporli mi ha
restituito un senso di continuità, congruenza e compiutezza (chiusura della
Gestalt?) a tutto il percorso. Nello scrivere inoltre, mi sono accorta che la mia
capacità di osservazione è più attenta di quanto io creda, ho notato molte più
cose di quante pensavo di sapere e ricordato tanti particolari che non sapevo di
avere. In netto contrasto con la costante autosvalutazione della mia memoria.

Ancora. Ricomporre il percorso fatto mi ha permesso di avere una visione


completa e reale di tutto il processo gestaltico, con una consapevolezza data
dall’averlo sperimentato nel concreto.

Per entrare di più nella mia esperienza di conduzione di un percorso di


counseling via via che cresceva l’esperienza e la capacità di gestire la relazione,
ho cercato di curare e raffinare la gestione delle diverse fasi del ciclo del
contatto, soprattutto il precontatto e la chiusura. Ho infatti notato, che la parte
della chiusura di seduta ha spesso rappresentato per me un momento di
difficoltà. La pressione del tempo scarso (ho una lunga storia familiare di
atteggiamenti frettolosi e di tempo insufficiente per qualunque cosa) accanto ad
una mia difficoltà di separazione, hanno fatto si che le mie chiusure siano state
spesso risolte in maniera un po’ frettolosa e con la tendenza a soluzionare e a
rassicurare.

Questo è stato ancora più chiaro quando mi è stato fatto notare dal supervisore
ed ho potuto cogliere il mio controtransfert di madre che fa fatica a stare con le
difficoltà della figlia e dopo questa consapevolizzazione ho corretto la mia
modalità di chiusura sia nei tempi che nella possibilità di rimandare
semplicemente ciò che era emerso. Almeno quando ho potuto!

Ho notato inoltre che nelle fasi centrali di contatto e contato pieno sono stata
spesso molto presa dai contenuti, con risonanze e coinvolgimento emotivo che
non sono ancora in grado di gestire e che a volte hanno inficiato la lucidità di
conduzione.

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I supervisori che si sono succeduti nel percorso di CUS, soprattutto F. che è stata
in maniera continuativa la più presente, mi hanno spesso rimandato come
elementi molto positivi la mia capacità naturale di attenzione, di empatia e di
presenza.

Al tempo stresso hanno evidenziato alcune tendenze di comportamento durante


il processo di counseling, molto preziose e su alcune delle quali dovrò
esercitarmi ancora molto. In particolare la tendenza a:

 riformulare usando parole non dette dal cliente, con il rischio di


interpretare
 un insufficiente utilizzo e rimando del paraverbale
Da parte mia sento di aver imparato molto, soprattutto a stare con ciò che C.
portava senza cercare di portarla dove pensavo fosse “giusto”, a stare con le mie
difficoltà di relazione soprattutto quando i temi toccati avevano forti risonanze e
mi “toglievano le parole”, anche l’umiltà di sapere che sono in un percorso
formativo e quindi che posso accogliere i miei errori di counselor e al tempo
stesso aprirmi all’apprendimento e alla riflessione sul mio agire nel percorso.

Roma, 24 settembre 2016

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