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ALLA CONQUISTA DI NEW YORK W.C.

Repubblica — 15 novembre 1992 pagina 36 sezione: CULTURA

New York, vent' anni dopo. Vent' anni dopo e quindi - com' è d' obbligo - la vendetta. O almeno, la
rivincita. Esattamente vent' anni fa, nel 1972, New York - come tutta l' America, del resto - vide la
più grande, sonora e meritata sconfitta che il Partito Democratico abbia mai subito nella Storia. La
più grande. I democratici se la cavarono in due Stati soltanto: il New England e lo Stato di
Washington. La più sonora. Vincitori e trionfanti i repubblicani di Nixon insinuarono: questi
democratici avrebbero bisogno di un corso di riadattamento all' America, come si fa per gli
handicappati. La più meritata. Perché il candidato democratico, il Senatore George McGovern,
sbagliò tutto quello che poteva sbagliare, spaventando l' elettore medio. Era un uomo nobile; la sua
causa era giusta, ne sono convinto; ma lui si sentiva depositario esclusivo di tutte le ragioni. Un San
Giorgio in lotta con il drago. L' elettore americano ha una salutare paura dei draghi. Ma teme ancora
di più i cavalieri dell' ideale, astratti e perentori: chissà questi dove mi vogliono portare. Perciò lo
bocciò. Un elettorato moderato e centrista Vent' anni dopo, eccomi di nuovo a New York per la
settimana elettorale (sono stato altre volte in America, nel frattempo, ma non conta). Ce la faremo
questa volta? Ce la farà questo Clinton? E intanto, chi è veramente Bill Clinton? Come nasce, come
cresce? Perché è così ardimentoso e cauto al tempo stesso? Così spericolato nelle promesse, così
cauto nelle tattiche di gioco? Poi leggo una notizia che lo riguarda. Vent' anni fa, nel 1972, Bill
Clinton è stato uno dei ragazzi di McGovern. Uno dei protagonisti di quella campagna elettorale
suicida. Era responsabile della campagna elettorale democratica per il Texas. Che non è uno Stato di
poco conto. Mi immagino che da quella campagna elettorale sciagurata, prima ancora che
sfortunata, Clinton abbia riportato un salutare trauma. E dedotto un fermo proposito. Un errore
politico così io non lo farò mai. Se capiterà a me di entrare in corsa per la Presidenza degli Stati
Uniti d' America, non mi divertirò come George McGovern a spaventare l' elettore medio americano
con un sinistrismo stridulo e verbale (ancorché nobilissimo). L' elettore americano è moderato,
centrista, amante del nuovo ma timoroso del troppo nuovo? Ebbene, tocca a me imparare a parlargli
nei suoi termini, nei termini che lui capisce. Tocca a me convincerlo, piuttosto che sgomentarlo.
Così mi spiego - a New York, nella settimana elettorale - le tante cautele politiche di Clinton, che
entrano in contraddizione, almeno apparente - con la sua sonora promessa di cambiamento.
"Changeé". In tutti i discorsi, in tutti gli spot pubblicitari, da tutte le parti. "Changeé". Capito
questo, mi resta da capire tutto il resto; che non è poco. Anzi è tutto. Com' è davvero questa
America? Cosa sente dentro? Le strade sembrano sempre le stesse: affollate. I negozi sembrano
sempre gli stessi: pieni. Dove sono i disoccupati, gli "homeless", i senza tetto? Mi preparo a non
capire niente in America, questa volta (è accaduto altre volte). Vedo intorno che ci sarebbero non
meno di venticinque-trenta libri da comprare (e forse da leggere persino), per sentirsi aggiornati. Ci
rinuncio. Mi rassegno alle visite di dovere. Alle due grandi Mostre. L' avanguardia russa al
Guggenheim Museum. E Matisse al Moma. La prima Mostra è bellissima, ma non accade niente. L'
unico segno di cambiamento, di "change" è nella pretesa - palesemente assurda - dei custodi del
Guggenheim che vorrebbero farvi vedere l' Esposizione in salita. Partendo dal basso, risalendo
coraggiosamente le rampe ripide disegnate da Frank Lloyd Wright, guardando i quadri con il
fiatone. Faccio - e consiglio a tutti di fare - l' opposto. Salgo con l' ascensore al quarto piano e di lì
intraprendo la contemplazione dell' arte d' avanguardia. In discesa. Come sempre si è fatto, al
Guggenheim. L' altra Mostra - Matisse al Moma - è forse meno bella. Ma qui una sorpresa c' è. Si
vede quel che c' è da vedere, facendosi strada fra la folla degli altri visitatori; poi si scende giù per
comprare all' ingresso quel che c' è da comprare. Le cartoline, i manifesti, i cataloghi. Tanti, e tutti
allettanti. Fra tutti i volumi d' arte esposti sui banconi c' è anche un volumetto piccolissimo, che con
l' arte ha poco a che vedere. Cosa c' entri con Matisse, con la pittura moderna, proprio non si
capisce. Ma è lì. E vuol farsi comprare. Ne ha diritto. Per la copertina, che sa di Ottocento. Per il
costo: quattro dollari e cinquanta, in fondo. Per il titolo: Where to go. Dove andare. Ci siamo: dove
va l' America? Ma soprattutto per il sottotitolo, prosaicamente esplicativo: "A Guide to Manhattan' s
Toilets". Dove si va in America, quando insorge all' improvviso il bisogno di una toilet, di una
bathroom, insomma di un gabinetto? E ci si trova a Manhattan, nel cuore del mondo occidentale? E'
un problema reale. Un problema spinoso. Che l' autrice Vicki Rovere tratta con disincantata
leggerezza. Del resto, non è mica un argomento di cui vergognarsi. "Et meme ne pas oublier les
latrinesé", raccomandava Flaubert ai viaggiatori dell' Ottocento. "Et surtout ne pas oublier les
latrinesé". In effetti, leggendo questo libriccino, pubblicato dalla Ragged Edge Press una prima
volta nel dicembre 1991; una seconda volta (segno di successo) nel giugno 1992, New York si
spalanca davanti agli occhi. E non è più New York. E' la Londra di Dickens. E' la Parigi di Eugène
Sue, di Victor Hugo. Una città popolata di "miserabili"; nel senso di bisognosi, impossibilitati a
soddisfare i bisogni più elementari, in certe circostanze. Ci sono tante storie. C' è la storia di quella
impavida signora, cui viene assegnato qui simbolicamente il Premio per la Resistenza nelle
Avversità ("Persistence in the Face of Adversity"). Viaggiava sul trenino che doveva portarla al
lavoro nel centro della Grande Mela, come ogni giorno, quando sentì il morso di un improvviso
bisogno. Ma il treno non aveva una toilette. Scese alla prima stazione, di gran corsa, ma la toilette di
quella stazione era chiusa (chissà perché). Scese alla stazione successiva. Stessa corsa. Stessa
toilette chiusa (chissà perché). Arrivò finalmente alla stazione di New York. La toilette di quella
stazione era "out of order", non funzionava. Chi lo sa perché. C' è la storia tutta diversa di quell'
altra signora, che presa da disperazione nel bel mezzo di Manhattan, si infilò nella prima
"FuneralHome" aperta. Sono qui per il funerale di Johnson, disse mentendo. Posso usare la toilette?
La fortuna l' aiutò. C' è sempre un Johnson tra i vivi. Ce n' è sempre uno fra i morti, in America.
Benissimo, disse l' austero custode. Prima però firmi il registro. E non dimentichi l' indirizzo. La
signora lo fece: frettolosamente, ansiosamente. Qualche settimana dopo le arrivò a casa un assegno
di cinquecento dollari. Con un biglietto. Mister Johnson aveva disposto, nel suo testamento, che
fossero dati cinquecento dollari a chiunque avesse seguito il suo funerale (c' è così poca gente ai
funerali, in America). Le altre storie non sono altrettanto divertenti. Sono tutte in salita, come al
Guggenheim Museum. Questo libriccino elenca scrupolosamente tutte le librerie, le biblioteche, gli
uffici, i tribunali, i restaurant, le gallerie, i musei, i pubblici uffici, le sale da biliardo dove una
toilette c' è. Ma mica ti fanno entrare così facilmente. Bisogna pagare, da qualche anno. Gli anni di
Reagan e di Bush. A volte due, a volte tre, a volte anche quattro dollari. Le odissee quotidiane del
barbone E chi gliela dà questa somma al barbone, al disoccupato, all' homeless? Perché è lui il
protagonista di queste quotidiane odissee. Altre volte nella toilette ti ci lasciano entrare, ma c' è una
guardia che vuol controllare quella borsa che porti. E l' "homeless" magari si vergogna di aprirlo, il
borsone che si porta sempre appresso. Chissà che cosa non c' è dentro. Infine sulla copertina di
questo aureo libretto è stampata una canzone. Parole e musica di Bobbie Wayne. Anno, 1984.
Tempo: "Allegro con disgusto". Titolo: "You can' t find a bathroom (in the City of New York)".
Dice così, pressappoco. Va tutto male. C' è la disoccupazione, la recessione, l' inflazione. C' è
traffico e delinquenza per le strade. C' è il buco nell' ozono. E non si riesce a trovare una toilette
("you can' t find a bathroom") nella città di New York (in the City of New York). D' altra parte, che
ci volete fare? Le toilettes pubbliche sono servizi pubblici. E tutto quel che è pubblico, si sa, è male.
Fa male. Dai tempi di Reagan e di Bush. Non so che cosa Bill Clinton potrà o vorrà fare in questa
America, per questa America. Venti anni fa, quando era un giovane fervente appassionato
democratico, pensava anche lui certamente che si era alle soglie di un grande passaggio. Così come
l' umanità era passata - fra Sette e Ottocento - da una società fondata sull' idea dei "doveri" ad una
società fondata sull' idea di "diritti", si doveva passare adesso (cioè allora) ad una società fondata
sull' idea (e sul rispetto) dei "bisogni". Questa idea si è rivelata generosa ma astratta. Mal pensata.
Male articolata. Mal praticata. Per questo è stata sconfitta. Ed è oggi universalmente screditata. Chi
ha le cose, le case, le toilettes, se le tiene. Chi no, si arrangia. Ma ci sono dei bisogni minimi,
elementari, umanissimi che nessuna società può permettersi di trascurare. Dovessi mandare un
regalo augurale a Bill Clinton, gli manderei questo libriccino. Ma vedrete, glielo manderanno gli
americani. - BENIAMINO PLACIDO

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