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Vetera Christianorum Oronzo GIORDANO

22, 1985, 105-119

Leandro di Siviglia:
lettera alla sorella Fiorentina
sulla verginità e fuga dal mondo *

L’opera di Leandro di Siviglia si colloca nel filone dell’ascetismo


monastico spagnolo, che si diffonde e vi prospera ancor prima
che regole vere e proprie lo caratterizzino e lo disciplinino. Sul
monacheSimo spagnolo abbiamo opere fondamentali, ampie e docu-
mentate, ben note agli studiosi1 ; per cui saranno sufficienti brevi
cenni ad alcuni aspetti particolari e a momenti essenziali al fine
di cogliere il valore e il significato dello scritto del vescovo di
Siviglia.
La vita monastica nella penisola iberica ci appare sin dagli
inizi contrassegnata da attriti e incomprensioni, spesso drammatiche,
da parte delle autorità ecclesiastiche locali. In un primo momento
sono i monaci che per natura loro rifuggono dall’impegno di svolgere
un ministero sacerdotale per vivere nella solitudine che hanno scelto.
Ma ben presto si vede che sono le gerarchie ecclesiastiche a guardare
con diffidenza i monaci: i concili di Saragozza (a. 380) e di Toledo
(a. 400) manifestano quasi un’ostilità antimonastica, creando un
clima di insofferenza tra l’orcio clericorum e Yordo monachorum al
punto che più di qualche disposizione sinodale proibisce praticamen-
te ai chierici l’ingresso in monastero. Tanta diffidenza da parte
delle gerarchie ecclesiastiche trovava la sua giustificazione in certe

* Relazione tenuta al Secondo Incontro sul monacheSimo antico, «Questioni


monastiche antiche e altomedievali», svoltosi presso il Santuario Madonna di
Picciano (La Martella ‫ ־‬Matera) il 23 marzo 1985.
1 J. Pérez de Urbel, Los monjes espaholes en la Edad Media, 2 voli.,
Madrid 1945; A. Linage Conde, Los orìgenes del monacato benedictino en la
Peninsula Ibèrica, Leon 1973 (Fuentes y Estudios de Historia Leonesa, voli.
9‫־‬11).
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correnti di pensiero e in certe dottrine che si diffondevano proprio


in questi ambienti ascetici, in queste aree monastiche dove trovavano
il terreno più fertile. Se per i monasteri d’Africa e di Provenza
circolava aria di semipelagianismo, in quelli iberici era penetrato
con una certa facilità lo spirito priscillianista 2.
Com’è noto, verso il 375 Priscilliano, un laico ricco e colto,
aveva fondato proprio nella Spagna occidentale una setta gnostico-
manichea, che si distingueva per un certo fanatismo profetico, se-
condo la maniera montanista; all’autentico spirito ascetico, sia pure
con qualche deviazione eterodossa, i priscillianisti univano un’irre-
quieta riottosità e una manifesta insubordinazione nei riguardi delle
autorità religiose, tanto che lo stesso concilio di Saragozza dovette
scomunicare gli appartenenti alla setta e l’imperatore Massimo con-
dannò alla pena capitale per maleficium Priscilliano e sei suoi com-
pagni; sono noti al riguardo il generoso ma inutile intervento di
s. Martino di Tours e l’indignazione di Sulpicio Severo e di s.
Ambrogio.
L’episodio sanguinoso non segnò certamente la fine del priscil-
lianismo, tuttavia vediamo che già agli inizi del V secolo la pratica
monastica rientra a poco a poco nell’alveo più ortodosso e si presenta
più deferente e disciplinata nei riguardi delle autorità ecclesiastiche,
le quali guardano ora ai monaci con maggiore benevolenza, non
solo incoraggiando l’ingresso dei chierici nei monasteri, ma cercando
nei monaci stessi dei possibili collaboratori nella cura animarum e
aprendo loro anche l’accesso alle gerarchie della Chiesa.
Superato il muro d’incomprensione e d’insofferenza da una parte
e dall’altra, agli inizi del VI secolo proprio dal seno di questo
monacheSimo vediamo uscire tutta una serie di vescovi di grande
prestigio che, per preparazione culturale e per zelo pastorale, avran-
no un ruolo determinante nei grossi problemi che particolarmente
in questo periodo caratterizzano la storia della penisola iberica.
In un ambiente lacerato dalle controversie ariane e dalla politica
religiosa dei re visigotis, non ancora convertiti al cattolicesimo,

2 Per il Priscillianismo ved. J.M. Fernandez Caton, Manifestaciones ascéticas


en la Iglesia hispano-romana del siglo IV, Leon 1962.
J Sull’argomento cf. M. Torres-López, Las invasiones y los reinos germânicos
de Espana (a. 409-711), in La Historia de Esparn, diretta da R. Menendez
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quest’episcopato di estrazione monastica sarà protagonista di primo


piano: le sedi episcopali di particolare importanza come Gerona,
Saragozza, Barcellona, Mérida, Toledo, Siviglia, sono governate sai-
damente da personaggi di spiccato rilievo; la loro nomina sarà di
volta in volta appoggiata o contrastata, a seconda delle circostanze,
dagli stessi re visigoti.
Una caratteristica di quest’episcopato del VI secolo è il sistema,
diciamo così, familiare nella reggenza delle diocesi, che si presenta
inizialmente con ben quattro fratelli vescovi-monaci: Giustiniano
di Valenza, Elpidio di Osca, Pietro di Lleida e Giusto di Urgel;
sistema che si ripete ancora una volta alla fine del secolo con i
fratelli Leandro, Fulgenzio e Isidoro, tutti e tre vescovi-monaci.
La rinascenza culturale e la riorganizzazione dell’insegnamento nella
Spagna visigotica, dopo la sparizione della scuola antica, sono opera
e merito di questo episcopato monastico 4.
Di questi grossi personaggi purtroppo non sempre siamo ben
informati, specialmente per quanto riguarda la loro professione re-
ligiosa. Del resto, l’appartenenza ad una regola da osservare è un
concetto posteriore al periodo che c’interessa; la denominazione
monastica di basiliano, agostiniano o benedettino, etc. non era an-
cora entrata nella coscienza e nella spiritualità dell’epoca; a tutti
questi monaci interessava di più sentirsi nella tradizione e nello
spirito di un monacheSimo autentico ed ortodosso. Così di Leandro,
protagonista e fondatore del cattolicesimo spagnolo, non sappiamo
né dove, né quando abbracciò lo stato monastico 5, come non lo

Pidal, Madrid 1940; T. Gonzalez Garcia, La Iglesia desde la conversion de


Recaredo hasta la invasion àrabe, in Historia de la Iglesia en Espana, diretta
da R. Garcia Villoslada, t. I, BAC Mayor, Madrid 1979.
4 Sui fermenti culturali e l’insegnamento scolastico Z. Garcia Villada, La
cultura literaria del clero visigodo, in Estudios Eclesiasticos, 3 (1924),
pp. 250-263 e 356-369; Id., Historia Eclesiàstica de Espana, 1/1, Madrid 1932;
I- Pérez de Urbel, Las letras en la Espana visigoda, in Historia Ecles. Pidal,
3 (1940), pp. 381-431; J. Fernandez Alonso, La cura pastoral en la Espana
romano-visigoda, Iglesia Nacional Espaftola, Roma 1955, pp. 71-121; P. Riché,
Education et culture dans l’Occident barbare (VIe-VHIe siècles), Paris 1967;
J. Fontaine, Isidore de Seville et la culture classique dans l’Espagne wisigothique,
voll. 2, Paris 1959.
5 Buoni profili bio-bibliografici offrono i vari Dizionari: H. Ward, Leander
of Seville, in A Dictionary of Christian Biography, 3, London 1882, p.637;
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sappiamo neppure per i fratelli Fulgenzio, vescovo poi di Astygis,


l’odierna Ecija, e meno ancora per il più celebre di tutti Isidoro
che succederà a Leandro nella sede episcopale di Siviglia. Anche
della vita religiosa della sorella Fiorentina ci sono state tramandate
poche notizie sicure; la tradizione agiografica arricchì assai per
tempo le loro vite di parecchi elementi leggendari.
Per Leandro il biografo fondamentale resta sempre il suo giovane
fratello Isidoro, che gli dedica un capitolo nel suo De viris illustribus
in cui è detto, non senza una certa compiacenza e ammirazione,
che Leandro era «un monaco di professione e da monaco fu fatto
vescovo della città di Hispalis nella provincia della Betica», ma
non ci dà più precise indicazioni6. Riporta invece l’elenco delle
opere, le quali purtroppo sono andate tutte perdute ad eccezione
di un libellus sulla pratica della verginità e la fuga dal mondo
dedicato alla sorella Fiorentina.
Quest’opera è rimasta nella letteratura patristica sotto la deno‫־‬
minazione di Regula s. Leandri o Regula virginum, in analogia
forse alla ben nota lettera 211 di s. Agostino diretta ad un monastero
femminile e conosciuta appunto come Regula monalium s. Augustini.
È probabile che l’operetta si sia salvata proprio grazie a questa
denominazione con la quale alla fine dellVIII secolo Benedetto
d’Aniane la includeva in un codex regularum insieme ad altre regole
monastiche; questo codex regularum, come si sa, fu poi edito per
la prima volta nel XVII secolo dall’Holstenius.
La tradizione manoscritta del De institutione virginum di Leandro
conosciuta sino al 1947 era rappresentata da una famiglia di codici
che contenevano una lunga introduzione e 21 capitoli. È stato A.C.
Vega che, con la scoperta di altri 10 capitoli e mezzo conservati
nel codice Escurialense di Madrid, ha dato nel 1948 l’edizione

E. Amann, st. Leandre de Seville, in Dictionnaire de Théologie Catholique,


IX, p.96 sg. Studi d’insieme su Leandro: F. Goerres, Leander Bischof von
Sevilla und Metropolit der Kirchenprovinz Bätica, in Zeitschrift für Wissenschaft-
liehe Theologie, XXIX (1886), p. 36 sg.; J. Madoz, San Leandro de Sevilla,
in Estudios Eclesiasticos, 56 (1981), pp. 415453‫־‬.
6 Leander genitus patre Severiano Carthaginensis provinciae, professione
monachus et ex monacho Hispalensis ecclesiae provinciae Baeticae constitutus
episcopus: c. 41 (ed. C. Codofier Merino, Salamanca 1964).
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critica più completa che abbiamo oggi, costituita così dall’introdu-


zione e da 31 capitoli7.
Gli storici della letteratura latina medievale e i patrologi in
genere sono concordi nel sottolineare l’elegante espressione formale,
pur nella semplicità dell’eloquio, e il valore dottrinale dell’opera,
fondata su una solida teologia e un’ampia cultura biblica; a ragione
è stata ritenuta sempre un gioiello della letteratura ascetica.
Lo scritto pare redatto nel periodo più travagliato ed inquieto
della vita del vescovo già esiliato dalla sua diocesi dal re ariano
Leovigildo e in procinto di partire in missione diplomatica alla
volta di Costantinopoli, dove s’incontrerà con l’apocrisario romano
Gregorio®. Il problema della datazione dell’opera ci porta a con-
getturare anche la circostanza per la quale fu scritta: in genere si
pensa che Leandro la scrivesse in occasione della professione re-
ligiosa che la sorella stava per fare, come si arguisce anche da
più di un passaggio interno.
L’argomento trattato dal nostro autore trovava ampia ispirazione
e si inseriva in un filone di pensiero di cui già Tertulliano e Cipriano
avevano lasciato opere esemplari. Modelli più vicini, e quasi dei
precedenti analoghi, Leandro trovava nel De laude virginitatis che
Osio di Cordova scrive per la sorella; nei vari scritti di s. Ambrogio,
il cantore latino della verginità, e in particolare nel De virginibus
ad Marcellinam dedicato appunto alla sorella che aveva abbracciato
la vita monastica, e infine negli scritti epistolari di s. Agostino e
di s. Gerolamo, il rude ed appassionato propagandista della pratica
della verginità e della fuga dal mondo.
La domanda che ora ci poniamo è la seguente: siamo di fronte
ad una regola monastica destinata a una comunità femminile come

7 S. Leandri Hispalensis de institutione virginum et contemptu mundi, ed.


A.C. Vega, in Scriptores Ecclesiastici Hispano-Latini Veteris et Medii Aevi,
Typis Augustinianis Monasterii Escurialensis, MCMXLVIII. Cfr. anche J. Ma-
doz, Una nueva transmisión del «Libellus de institutione virginum» de San
Leandro de Sevilla (Ms. de Monte Casino, n. 331), in Anal. Boll. 67 (1949),
pp. 407-424.
8 L’amicizia tra Leandro e il futuro Papa Gregorio Magno, fatta di reciproca
venerazione, ci è largamente documentata; ved. Registrum 1,41; IV,45; V,53;
VII,123; IX,227; Moralia in lob, praef.; Dialogi 111,31; P. Diac. Hist. Lang.
111,21.
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si è sempre ritenuto finora, oppure a un semplice scritto ascetico


di stile epistolare, a un’opera di edificazione come tante altre ana-
loghe che circolavano in quell’epoca?
Confrontando la Regula s. Leandri e la Regula monalium s.
Augustini9 vediamo che entrambe sono dettate da una circostanza
occasionale, da un episodio preciso, diciamo così, di cronaca fami-
liare in un caso, e di cronaca di vita monastica nell’altro; sì che
né il libellus del sivigliano, né Γepistola dell’ipponate volevano essere
una regola vera e propria secondo lo stile e la tradizione dei fon-
datori di monasteri. Agostino è costretto ad intervenire con una
lunga lettera esortatoria nei dissidi interni di un monastero che ci
appare piuttosto irrequieto e rilassato nella pratica religiosa e nel-
l’osservanza della regola. Con l’autorità del vescovo che ha il dovere
di sovraintendere e d’intervenire nelle questioni riguardanti la di-
sciplina dei monasteri che sono sotto la sua giurisdizione ordinaria,
richiama norme di comportamento e ricorda, enumerandoli e pre-
cisandoli meglio, i doveri e gli impegni che si sono assunti coloro
che si dedicano al servizio di Dio vivendo in una comunità religiosa.
Leandro, dopo la morte prematura di entrambi i genitori, è il
maggiore dei quattro orfani superstiti; egli è il senior della famiglia
e, come tale, si trova ad esercitare la patria potestas sui fratelli
minori. In qualità di monaco e di vescovo egli sente anche il dovere
di esercitare una paternità spirituale su tutti curando non solo la
preparazione culturale confacente al loro rango sociale, ma special-
mente l’educazione religiosa. Fiorentina è entrata in monastero dietro
i suoi suggerimenti e consigli910 e sta per pronunciare la solenne
professióne religiosa; con l’affettuosità premurosa di fratello mag-
giore, Leandro ha deciso d’inviarle un dono diverso dai soliti, un
regalo di nozze adatto alla sorella che sta per diventare indissolu-

9 Sull’autenticità di questa lettera ved. A. Manrique, La vida monastica


en San Agustin, Madrid 1959, pp. 439447‫־‬. Circa il problema se detta lettera
sia un adattamento spagnolo per le vergini della regula monachorum di s.
Agostino, ved. N. Merlin, Exemple typique d’un préjugé littéraire. Texte pri-
mordial de la règle de s. Augustin, in Anal. Praemonstrat., 24 (1948), 5-19;
E. Dekkers, Clavis Patrum latinorum, in Sacris erudiri, III (1951), p. 312 sg.
'° «Meo igitur hortamento, meo ministerio, Dei quidem dono, sed meo
obsequio, hanc tenes professionem»: Introd.
LEANDRO DI SIVIGLIA: LETTERA ALLA SORELLA Ill

bilmente la sposa di Cristo, dono che vuol essere di gran valore


spirituale sia per il mittente che per la destinataria.
La caratteristica principale di quest’opera, che la distingue e la
differenzia dai vari scritti monastici, resta perciò lo spicco personale,
il tono intimo e d’intensa partecipazione, l’abbandono confidenziale
proprio di uno scritto familiare a tutto beneficio dei diretti interes-
sati. L’attenzione costante di Leandro è protesa direttamente e quasi
esclusivamente su Fiorentina, perché è sua sorella, è una della
sua famiglia (pro qua me familiaris cura sollicitat, c. 23); e i ricordi
familiari e i richiami alle vicende domestiche ritornano spesso; a
questo titolo si giustifica il suo scritto. Leggendo l’opera vediamo
che il monastero e la comunità che lo abita appaiono in secondo
piano, s’intravedono lontani; come spazi istituzionali sono appena
avvertiti; gli accenni alle consorelle e al calendario della vita co-
munitaria vengono naturali quando deve parlare di virtù la cui
pratica si esplicita nei rapporti con terzi. Il ritiro nel cenobio non
è solitudine umana, la vita monastica non è emarginazione sociale,
ma, come dice Leandro, una solitudine interiore affollata di santi
pensieri tra una schiera di vergini. Le virtù dell’umiltà, della pa-
zienza, della carità, dell’ubbidienza, per esercitarsi hanno bisogno
di una reciprocità di rapporti, di una convivenza con altri, di un
contesto umano allargato. La presenza delle consorelle, scrive Lean-
dro, deve essere occasione e strumento per la pratica di queste
virtù e per il progresso sulla via della perfezione; ecco perché
egli è costretto a parlare di loro: «Mentre il mio discorso è diretto
a te, sorella Fiorentina, riguarda pure l’interesse delle altre» (c.
27); ma, appena conclusa la breve digressione, s’affretta a riprendere
il colloquio intimo e personale con la destinataria: «Ma torniamo
ora a te, sorella Fiorentina» (c. 23).
Il tono e la forma dunque dello scritto sono ben lontani dallo
stile delle regole monastiche; Isidoro, che ne aveva scritta una
anche lui per monasteri maschili, elencando le opere del fratello,
non parla affatto di «regola», conoscendo bene il contenuto e lo
scopo di quella lettera così familiare, fatta più di slanci ascetici e
di raccomandazioni suggerite dall’affetto fraterno, che non di dispo-
sizioni normative. Lo stesso Leandro, quando s’awede che sta seen-
dendo a più minute prescrizioni, s’interrompe e si chiede: «Ma
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questo cosa importa a te, che hai già una regola da seguire?» 11.
Fiorentina ha abbracciato la vita monastica, conosce bene i suoi
doveri, sa quali sono i suoi compiti perché «ha già una regola da
seguire»; il fratello non intende dettargliene un’altra o proporgliene
una sua, ma le scrive soltanto per confermarla nel proposito di
conservare la sua verginità a Cristo, che si è scelto per sposo, e
di non pensare mai più di ritornare al secolo che ha abbandonato.
È questo, a mio avviso, il tema centrale e il motivo ispiratore di
tutto lo scritto.
Quale fosse poi la «regola» abbracciata da Fiorentina non è
possibile precisare perché non abbiamo testimonianze relative a
ben precise regole monastiche praticate anteriormente alla metà del
VI secolo. Perciò, più che domandarci che regola si osservasse in
un monastero o in una regione, potremmo meglio chiederci sotto
quali influssi e quali concezioni monastiche si reggessero i monaci
e i vescovi di una determinata provincia. Data la libertà esistente,
i vescovi e gli abati sceglievano liberamente un ordinamento mo-
nastico da seguire nelle comunità da loro costituite e molto spesso
componevano essi stessi una propria regola da praticare. Eusebio
di Vercelli, Ilario di Poitiers, s. Basilio, s. Agostino, s. Cesario
d’Arles, e, per quanto riguarda la Spagna, Ferreolo, Isidoro di Si-
viglia, Fruttuoso sono tutti vescovi-monaci che hanno redatto una
propria regola o composto degli scritti ascetici ad uso delle proprie
comunità 12. * *
Tra le prime regulae ad uso di monasteri femminili in Occidente
di sicura attribuzione pare che sia da ritenere la cosiddetta Regula
s. Caesarii ad virgines, redatta tra il 512 e il 534, quando venne

11 «Quid ad te, qui habes regulam, quam sequaris?»: c. 23.


12 L’unica legge monastica da osservare per gli antichi monaci era costituita
dalle leggi ufficiali: il codice Teodosiano, la Lex Romana Wisigothorum e
molte Novellae del codice Giustinianeo contenevano delle norme riguardanti
i monaci. Parallelamente molte lettere decretali di papi e vari canoni dei
concili generali e, per le singole regioni, i numerosi canoni dei concili provinciali
e nazionali si occupavano della pratica monastica per dare ad essa unità di
disciplina: cf. A. Mundò, Il monacheSimo nella Penisola Iberica fino al VII
secolo, in Settimane di studio del Centro it. di studi sull’alto Medioevo: Il
monacheSimo nell’alto Medioevo e la formazione della civiltà occidentale, IV,
Spoleto 1957, p. 100.
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promulgata13. Nel prologo si dice espressamente che la regola è


rivolta «a tutte le venerande sorelle che vivono in monastero» e
si propone d’indicar loro «come debbano vivere nel monastero se-
condo gli statuti degli antichi padri». Tutte le attività e i compiti
della comunità sono previsti e disciplinati in 43 capitoli brevissimi
e concisi, tanto che l’autore sentì il bisogno di aggiungervi una
recapitulatio in 19 capitoli per chiarire e completare quanto nella
regula era stato appena enunciato. Al c. 43 raccomanda alla badessa
di far osservare per intero la regola data senza nulla toglierle.
Come si vede, il vescovo di Arles dichiara di avere scritto espres-
samente una regola («la regola che vi demmo all’inizio della fon-
dazione del monastero») e ad essa si richiama più volte.
Dello stesso Cesario invece abbiamo altri scritti che, per con-
tenuto e stile, sono più vicini al libellus di Leandro; si tratta di
un «discorso alle monache», di una lettera alla sorella Cesarla,
che ha abbracciato la vita monastica, con la raccomandazione, piut-
tosto inattesa, «di tenerla per sé e di non farla leggere ad altre»;
abbiamo anche una seconda lettera più lunga, diretta alla sorella
e alla sua comunità, e infine una «lettera esortatoria ad una vergine
consacrata a Dio» 14. Si tratta di scritti di carattere monastico in
cui troviamo consigli ed esortazioni a comportarsi secondo lo spirito
della regola che il vescovo ha già dato loro.
Anteriormente giravano per le comunità femminili delle compi-
lazioni varie press’a poco come quella che ci è pervenuta sotto il
nome di Girolamo, ma si tratta di raccolta di passi geronimiani
attinti specialmente dalle sue lettere più note. Questa regula mona-
charum si compone di 45 capitoli piuttosto estesi, che mirano a
disciplinare e a regolamentare la vita comunitaria di un monastero
femminile 15. Il compilatore dello pseudo-Girolamo nello scegliere
i brani ha dato ordine e sistematicità alle disposizioni normative,
come si può vedere dai titoli premessi ad ogni capitolo: dell’obbe-
dienza verso i vescovi (c. 6), della giurisdizione del vescovo sulle
monache (cc. 17 e 18), del silenzio e dei giorni e delle ore in cui

15 S. Cesario d’Arles, La vita perfetta. Scritti monastici, introd. trad, e


note di M. Spinelli, Roma 1981.
14 Ved. PL 67,1130 sg.
15 In PL 30,422.
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si deve osservare (c. 12), come si devono recitare le ore di prima,


terza, sesta e nona (c. 39), etc.
Un raffronto sia pure sommario fra i tre autori caratterizza
con immediata evidenza la natura, il genere letterario e la destina-
zione delle relative opere. Osserviamo prima di tutto che «con
Cesario d’Arles il monacheSimo femminile si inserisce nel concetto
della chiesa locale in unione col vescovo e col popolo di Dio» 16.
Anche per lo pseudo-Girolamo il vescovo è come il custode collocato
sulle mura di Gerusalemme per vigilare contro i suoi nemici (c.
18); a lui può ricorrere la badessa quando non riesce a correggere
una vergine (c. 17). Nello scritto di Leandro il vescovo o una sua
eventuale presenza giurisdizionale non appaiono affatto.
Per dare autorità e validità normativa, ma specialmente per
qualificare lo spirito informativo, le regulae fanno spesso riferimento
alla tradizione monastica, agli statuta antiquorum patrum o ai loro
exempla. Per Cesario d’Arles gli antichi Padri sono gli scrittori
cristiani, mentre per lo pseudo-Girolamo sono gli eremiti, prototipi
e campioni di una santa vita monastica. In Leandro non troviamo
richiami a queste auctoritates e a questi precedenti esemplari; solo
una volta, all’inizio, egli invita la sorella a «elevare la mente verso
quel coro di vergini che l’hanno preceduta e ora la guardano dall’alto
mentre anche lei s’impegna a percorrere lo stesso cammino che
conduce allo sposo celeste» 17.
Ma esaminiamo brevemente alcuni punti particolari. Per quanto
riguarda la lectio divina e il lavoro, che sono i cardini del mona-
chesimo, le regulae in genere hanno delle norme ben precise e
dettagliate che scandiscono il ritmo della vita quotidiana della co-
munità; i modi e i tempi per assolvere all’una e all’altro sono
regolati secondo un calendario e un orario che tiene conto dei
periodi liturgici, dei cicli stagionali e dello stesso arco della giornata.
Durante il lavoro e i pasti comunitari è stabilita la lettura ad alta
voce per tutte da parte di una affinché anche l’anima continui a

16 A. Quacquarelli, L’influenza spirituale del monacheSimo femminile nell’età


patristica, in Vet. Christ., 20 (1983), p. 16.
17 «Age ergo cogitare... quo te desiderio corns ille expectat virgineus; quam
ipsis gradibus properantem caelorum ardua videt, quibus cohors ipsa virginalis
pervenit ad Christum»: Introd.
LEANDRO DI SIVIGLIA: LETTERA ALLA SORELLA 115

nutrirsi mentre si nutre il corpo o si attende a lavori manuali. La


lettura individuale non solo è raccomandata, ma è tassativamente
prescritta perché è il miglior nutrimento spirituale dell’anima; questa
lectio divina si traduce e si identifica con la meditazione sull’Antico
e il Nuovo Testamento; inoltre la Sacra Scrittura deve servire di
edificazione: le vicende dei personaggi biblici devono ispirare la
condotta delle religiose.
Leandro tratta l’argomento in due capitoli abbastanza originali
e in una visuale nuova e direi personale per uno scritto che ci è
stato trasmesso come regula·, in entrambi egli non detta delle norme
e tanto meno stabilisce dei tempi e dei modi per assolvere a un
preciso dovere previsto dalla pratica monastica. Nel primo capitolo
(c. 15) il vescovo non pone l’accento sulla lettura e sul lavoro in
alternanza, ma focalizza il suo interesse sulla preghiera e sulla
lettura che non devono avere soluzione di continuità nella giornata
di una vergine: «sia la lettura assidua e la preghiera ininterrotta»
Egli vuole che la sorella divida le ore e le occupazioni della giornata
in modo che, scrive, «dopo la lettura, ti dedichi alla preghiera e,
dopo che avrai pregato, ritorni alla lettura» 1819, perché l’una è pro-
pedeutica all’altra ed entrambe si alimentano reciprocamente: «La
lettura t’insegni ciò che devi chiedere nella preghiera; e dopo che
avrai pregato, torna alla lettura per sapere che cosa devi chiedere» 20.
Siccome si ha pur da attendere a qualche occupazione materiale,
come per esempio il nutrirsi, allora «un’altra legga per te, in modo
che mentre le mani e gli occhi sono intenti ad altro, la grazia
della parola divina nutra le tue orecchie» 21. Come si vede, il lavoro
e le necessità quotidiane non vengono presi in considerazione, ma
emergono come una realtà purtroppo ineliminabile.
Nell’altro capitolo (c. 16), più esteso, Leandro non parla più
della lectio divina come momento complementare della preghiera;

18 «Lectio tibi sit adsidua iugisque oratio»: c. 15.


19 «Dividantur tibi tempora et officia ut, postquam legeris, ores et, postquam
oraveris, legas»: Ibidem.
20 «Lectio te doceat quid orando petas; postquam vero oraveris, rursus
legendo inquire quid postules»: Ibidem.
21 «Quod si aliquid manibus operandum est, vel certe sustentaculis ciborum
corpus reficiendum, alia tibi legat, ut dum manus vel oculi ciborum intenti
sunt operi, pascat aures gratia sermonis divini»: Ibidem.
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riaffiora qui il maestro, il praepositus che andava educando anche


il giovane Isidoro secondo la didattica delle scuole monastiche ed
episcopali della Spagna visigotica del VI secolo. Il monaco e vescovo
Leandro era il senior della famiglia, come abbiamo visto, e anche
il magister della domus ecclesiae; a lui incombeva il dovere di
preparare i chierici suoi futuri collaboratori nel ministero sacerdo-
tale; contemporaneamente curava la formazione culturale e religiosa
dei suoi fratelli minori secondo la tradizione di un «precettorato
familiare all’antica» 22. E il brano è tutto una concisa lezione di
esegesi biblica che il praepositus impartisce alla sorella; come tale,
questa digressione didattica interrompe per un momento la cadenza
e il tono del sermo sempre acceso di una commossa e partecipe
interiorità.
Ma a caratterizzare maggiormente lo scritto del nostro vescovo
è l’assenza di alcuni momenti e di certe pratiche fondamentali della
vita monastica che nella normativa delle regole trovano invece ampi
spazi ed hanno interi capitoli che li disciplinano: ci riferiamo al-
l’osservanza del silenzio, all’ufficio del coro, al refettorio, alla di-
sciplina penitenziale, all’obbedienza, all’assistenza ai poveri, alle ve-
dove e ai fanciulli (il cosiddetto servizio della porta), di cui non
si parla affatto. A proposito dell’obbedienza Leandro preferisce sof-
fermarsi più sulle responsabilità di chi deve esercitare il potere,
che si esprime non con Vauctoritas, ma con la discretio, cioè con
l’equilibrio, col buon senso, con l’equità, perché chi è sottomesso
deve sentire più rispetto che timore verso il superiore che dà gli
ordini. Egli vuole che Fiorentina guardi alla badessa come a una
madre e a una maestra e la invita ad amarla e a lasciarsi guidare
da lei: «Ti sia gradito starle sempre vicina; godi di starle in grembo
ora che sei cresciuta, così come ti piaceva quand’eri bambina» 23. * 25

22 Cf. J. Fontaine, Fins ■et moyens de l’enseignement ecclésiastique dans


l’Espagne wisigothique, in Settimane di studio del Centro it. di studi sull’alto
Medioevo: La scuola nell’Occidente latino dell’alto Medioevo, XIX, Spoleto
1972, p. 172 sg.
25 «Noli ab eo avolare nido, quod invenit turtur, ubi reponat pullos suos
(Sal 84,4). Simplicitatis filia es, quae Turture matre nata es...Turturem pro
matrem respice, Turturem pro magistram adtende... Sit tibi suave eius lateri
adhaerere, sit tibi dulce eius gremium iam profectae, quod erat infanti gratis-
simum» (c. 31).
LEANDRO DI SIVIGLIA: LETTERA ALLA SORELLA 117

Questo richiamo a immagini di focolare domestico in cui, grazie


a un gioco di parole suggeritogli dalla stessa citazione biblica, la
figura della superiora di oggi viene a identificarsi e a fondersi col
ricordo della madre deceduta; questo insistito ed accorato ritorno
agli affetti familiari è spontaneo e congeniale specialmente in uno
scritto di carattere intimo e confidenziale come la corrispondenza
epistolare tra fratelli, che sentono anche la loro condizione di orfani.
A questo tono e quest’atmosfera familiare e personale forse è dovuto
anche il reiterato richiamo alla Madre di Dio «vertice e prototipo
della verginità, madre deH’incorruzione, madre e regina delle ver-
gini» 24, che difficilmente troviamo nelle regulae monacharum. Anche
Cesario d’Arles ricorda la beata Maria, non nella sua regola, ma
nelle lettere private e personali alla sorella, così come aveva fatto
anche Girolamo in più di qualche lettera alle sue figlie spirituali.
Dando uno sguardo complessivo ail’opera vediamo che l’intro-
duzione, troppo lunga per una regola monastica, si apre con una
serie di ampie citazioni bibliche, dai libri sapienziali sino a quelli
neo-testamentari, per mostrare alla sorella tutta la vanità e l’incon-
sistenza dei beni che offre questo mondo dalla scena troppo tran-
sitoria. L’affettuosità fraterna però prende subito il sopravvento e
resterà la connotazione dominante di tutto lo scritto. A questa in-
traduzione seguono i 31 capitoli che sembrano quasi una parentesi
che ben presto si chiuderà all’inizio dell’ultimo capitolo, il più lungo
di tutti e col quale Leandro riprende con maggiore intensità e
con più calore il discorso avviato nell’introduzione. Ma anche questa
articolazione in capitoli, che sembra più una successione di capo-
versi, non allenta la tensione spirituale e la carica affettiva; perché
non si tratta di una serie di articoli normativi, né essi vogliono
fissare con la brevità tipica della legislazione monastica impegni e
doveri da osservare nei tempi e nei modi tassativamente e minu-
ziosamente prescritti, come si può vedere nelle regole vere e proprie
in cui la preghiera individuale o nel coro, gli atti disciplinari, le
celebrazioni liturgiche, il lavoro, i pasti, il vestiario e lo stesso
comportamento dei singoli sono ora per ora, periodo per periodo
ben stabiliti. Pur nella varietà degli argomenti e dei diversi temi24

24 «Gaudet et Maria Mater Domini, apex et specimen virginitatis, incorrup-


tionis mater, quae vos exemplo suo genuit et manet integra»: Introd.
118 O. GIORDANO

trattati, il discorso procede tra frequenti e diremmo ininterrotti vo-


cativi, che scandiscono le frasi quasi col ritmo del sermo commaticus:
mi soror, !carissima soror, dilecta soror, soror amantissima, diarissima
germana, che imprimono un tono intenso e confidenziale e danno
una forma di espressione familiare a tutto lo scritto; il vocativo
personale' soror Fiorentina è intercalato ima decina di volte. Lungi
dall’impersonalità e dalla categoricità di un codice di norme, come
si può vedere per es. nella regula s. Caesarii ad virgines, sin dalle
prime parole del primo capitolo (Praecor te, soror Fiorentina), l’au-
tore non perde mai di vista la sua destinataria, come non dimentica
la natura e l’intento del suo scritto e prosegue intensificando e
personalizzando sempre più le sue esortazioni e le sue raccoman-
dazioni. Quando passa a parlare del digiuno e delle astinenze è
preso da una certa esitazione e trepidazione di fronte alla fragilità
fisica della sorella: «Come posso parlare di cibi a te, sorella mia,
che per la debolezza del corpo non ne prendi nemmeno quanto
sarebbe ragionevole?» 25. E la preoccupazione per le delicate con-
dizioni di salute di Fiorentina ritorna più volte al suo pensiero.
Questo tono e questa familiarità si vanno a mano a mano elevando
ed accentuando verso la fine dell’ultimo capitolo nei commossi ri-
cordi delle vicende familiari e nei richiami agli altri fratelli orfani
e, in quei giorni, come scrive Leandro, anch’essi lontani e dispersi
sotto rincalzare degli eventi: Fulgenzio inviato dallo stesso Leandro
a Cartagena per curare gli interessi patrimoniali e forse in mezzo
a pericoli di vita; Isidoro probabilmente si trovava a Siviglia in
quel tempo assediata dal re Leovigildo in lotta armata col figlio
ribelle Ermenegildo; lontana è pure Fiorentina, anche se nella tran-
quillità del monastero. Riaffiora commosso il ricordo dei genitori
morenti, specialmente della madre, attorno ai quali sembra che
Leandro voglia stringere tutti i fratelli in un’ultima riunione di
famiglia rappresentata ormai dai quattro orfani sopravvissuti, con-
giunti in un unico destino. Alla fine Leandro chiede indulgenza e
preghiere per tutti; ma prima di deporre la penna, sembra che
voglia apporre la firma, com’è d’uso nella corrispondenza epistolare:
«A te che vivi santamente sarà data la corona e spero che sarà

25 «Quid ad te de cibis, soror, loquar, quae fragilitate corporis nec tantum


accipis, quantum ratione doceris?» (c. 13).
LEANDRO DI SIVIGLIA: LETTERA ALLA SORELLA 119

accordato il perdono a chi ti ha esortata, il tuo fratello Leandro» 26.


Per la tenerezza degli affetti, mista a sentimenti di umiltà e di
contrizione, questo scritto non è solo una lettera, ma un testamento
spirituale che il vescovo lascia alla , sorella prima d’intraprendere
il suo difficile e lungo viaggio in Oriente.
Ancora un’osservazione: quando l’opera di Leandro è stata u-
tilizzata come regola o è stata inserita in raccolte di scritti che
dovevano servire da regola ad uso di monasteri femminili, il com-
pilatore ha dovuto procedere ad un lavoro, diciamo così, di sper-
sonalizzazione, s’è visto costretto cioè a eliminare quelle espressioni
stilistiche e di contenuto proprie del genere epistolare che l’opera
presentava. Nel codice Casinensis 331, infatti, vediamo che sono
stati omessi la lunga introduzione e l’ultimo capitolo in cui abbon-
dano più che altrove i riferimenti personali e i ricordi familiari27.
Anche nei 16 capitoli trascritti nel codice sono stati eliminati o
semplificati i numerosi vocativi rivolti alla sorella Fiorentina lascian-
do inalterata più o meno quella parte che si presentava con caratteri
più normativi e disciplinari. In definitiva, il compilatore, conscio
di. avere tra le mani una epistola hortatoria diretta ad una persona
di continuo ricordata per nome nei numerosi incisi, li ha espunti
o abbreviati conservando consigli e raccomandazioni, che diventa-
vano così una serie di norme e di prescrizioni particolarmente adatte
a formare una regula. Ricordiamo per inciso che il compilatore
casinense segue lo stesso procedimento, con maggiori e più liberi
rimaneggiamenti, anche con la lettera 211 di s. Agostino trascritta
nello stesso codice.
Concludendo, diciamo che sarebbe più opportuno e certamente
più congeniale allo spirito e al temperamento del vescovo di Siviglia
nonché allo stile stesso del suo lavoro, restituire all’unica opera,
che fortunatamente ci è rimasta di tutta la sua produzione letteraria,
il titolo naturale e più logico ch’essa avrebbe avuto in un carteggio
di famiglia o in una raccolta epistolare e cioè: «lettera di Leandro
alla sorella Fiorentina».

26 «... bene agenti tibi debetur corona; et exhortanti Leandro praestabitur


veniam»: c. 31.
27 Cf. J. Madoz, Una nueva transmisión del «Libellus de institutione vir-
ginum», etc., o.c., p. 417 sg.
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