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Mi piace affrontare i temi di questo seminario come ricercatore e come progettista di formazione,
ovvero dal duplice punto di vista di colui che da un lato le innovazioni le indaga e dall’altro le
coglie nel contesto dell’interazione con il mercato e le imprese. Mi si consentirà anche di saltare
molti passi teorici e premesse situazionali per toccare aspetti e temi diversi entro i tempi
dell’intervento.
Intanto vorrei partire da una considerazione sul rapporto tra tecnologia e creatività. Sicuramente le
tecnologie favoriscono la creatività, ma non la determinano. Le idee che contano possono emergere
anche con tecnologie povere e mezzi non straordinari. Per sostenere questa idea faccio riferimento a
qualcosa che ha preceduto la rivoluzione digitale. Noi oggi siamo portati a pensare che molte
caratteristiche cruciali della contemporaneità mediatica derivino dall’introduzione del digitale,
mentre in realtà non è così: già all’epoca delle prime radio libere ritroviamo lo stesso principio
basilare della rivoluzione digitale: l’integrazione delle tecnologie. A dire il vero per quel caso si può
parlare di associazione delle tecnologie, dove le due tecnologie erano soltanto la radio e il telefono,
ma con il valore sociale aggiunto del ribaltamento del principio gerarchico fonte-emittente: il
telefono era utilizzato dall’audience per entrare in diretta – ed era una grande novità - nella
trasmissione radiofonica. Questi due elementarissimi principi, mutualismo tecnologico e ruolo
attivo degli utenti-pubblico, sono gli stessi che governano la grande transizione del mondo digitale:
multimedialità e web activism. Ovviamente oggi siamo ad un superiore livello di opportunità
tecnologiche rispetto a trent’anni fa, ma il principio è lo stesso.
Possiamo dunque affermare che lo scenario del mondo come noi lo conosciamo è tale perché le
tecnologie ne consentono un’edificabilità reticolare e sinaptica che soddisfa particolari istanze
sociali di comunicazione ed informazione.
Si può riconoscere anche la continuità delle dinamiche politiche ed istituzionali per il controllo
ideologico dei media e la gestione economica dei flussi del consumo che ne derivano; riferendoci
ancora all’esempio precedente, basta pensare alle azioni inibitrici nei confronti delle radio libere per
comprendere che tutte le iniziative che verranno fatte per conformare e normativizzare l’espansione
pervasiva della comunicazione globale (e di come essa venga microgestita dall’utenza, in un
determinato tempo ed ai fini di una qualsiasi istanza d’uso e gratificazione), produrranno battaglie
che saranno inevitabilmente perse per la semplice ragione che se era difficile controllare media
locali, nessuno potrà mai veramente governare un media globale ma alimentato essenzialmente da
una massa di fonti tutte probabilisticamente rilevanti per nuove mutazioni degli stili informativi ed
approcci comunicazionali nel campo del lavoro (sempre meno) e del tempo libero (sempre più). Le
legge darwinistiche universali dei processi evolutivi, sia biologici sia culturali, ci dicono che le
competizioni e le battaglie che implicano informazione non sono mai vinte, una volta e per sempre.
Un grande biologo dell’evoluzione del vivente, Leigh Van Valen ha mirabilmente richiamato il
Principio della Regina Rossa, con riferimento al mitico Alice nel mondo delle meraviglie di Lewis
Carroll, per spiegare come nel confronto per il mutamento si possa solo correre moltissimo per
trovarsi sempre allo stesso punto e come, per essere avanti, bisogna correre due volte di più. Il
paradosso vale anche per l’evoluzione digitale, naturalmente, anzi ancora di più. Esempi di
coadattamenti evolutivi sono le modificate strategie della diffusione pubblicitaria con la comparsa
del telecomando o l’evoluzione dei sistemi di protezione (e di loro aggiramento) in conseguenza dei
nuovi supporti musicali (dalle audiocassette ai cd, all’mp3.)
Si potrebbero fare molti esempi sul nuovo e la creatività (che è poi un prodotto della varianza
opportunistica propria dei processi evoluzionistici), su come il vecchio possa cavalcare il nuovo e
su come il nuovo possa dare vantaggi al vecchio, per così dire. Consideriamo le nuove frontiere
della comunicazione d’impresa messa di fronte all’incontrollabilità della produzioni emergenti dal
basso rese possibili dalle nuove tecnologie. Sarà nota a tutti la joint venture tra alcuni sconclusionati
inventori di soluzioni chimiche in rete e potenze come Google, Coca-cola e Mentos, Youtube.
Gli esperimenti on the road che hanno visto miscelare il contenuto di una Coca-cola e pasticche di
Mentos, ad evidenziarne il mutualismo memetico, sono diventati un business molto interessante da
tutti i punti di vista laddove proprio Coca-Cola e Mentos hanno deciso di sostenere le nuove forme
della comunicazione, fatte di ciò che la gente elabora e condivide esponenzialmente sul web, quello
che si definisce user generated content.
Il vero, efficace product placement si realizza ovunque e comunque grazie alla creatività dei
naviganti in rete ed al passa parola, economico e coinvolgente, perché agito e promosso dal
bersaglio stesso.
Ma anche nel settore televisivo questo ribaltamento delle relazioni produttive-riproduttive trova
qualche nitido riferimento. Un esempio molto efficace sono le soluzioni brand to the people, che
affermano “l’espropriazione pacifica del marchio” attivata da una rete Mediaset con uno slogan
plebiscitario e popolare (Italia 1), rielaborato da innumerevoli pubblici.
Sono esempi - questi - differenti ma che evidenziano le connotazioni efficaci della comunicazione
emergente: il principio dell’ego involvement e le leggi della diffusione virale di tipo memetico.
Meglio ancora se a tali principi si accompagna la teoria del piccolo mondo con cui Stanley Milgram
ha dimostrato già negli anni sessanta che chiunque è in grado di raggiungere chiunque attraverso
una catena di soli sei contatti interpersonali. Con maggiore facilità, poi, se si viaggia in rete, in una
condizione di cablaggio diffuso.
La formula vincente di questa fase dell’evoluzione digitale è dunque quella che consente di ricavare
il massimo vantaggio in modalità simbiotica: opportunisticamente, rispetto alla capacità degli
utenti, dei consumatori, di creare innovazione; viralmente, rispetto alla possibilità di trasmettere il
meme (con efficace espressione introdotta da Richard Dawkins ad indicare una qualsiasi unità di
informazione che si replica attraverso l’imitazione) ovvero anche il brand, verso nuovi potenziali
riproduttori-consumatori. Questo, che piaccia o no, è ciò che emerge dall’uso di punta delle
tecnologie (le nostre protesi esperenziali) e la cosa interessante è che questa tendenza non è
scaturita dal mondo della comunicazione istituzionale ma da quella probabilistica dell’utente più o
meno esperto. Le nuove tecnologie incarnano infatti bisogni basilari dell’individuo sociale, quali il
bisogno di condividere (file sharing), di sostegno sociale, di appartenenza ed identità come ben si
evidenzia nella proliferazione di communities e newsgroups. Bisogno tanto più forte quanto più i
legami comunitari tradizionali si sono indeboliti o persi.
E tutto ciò attraverso flussi e processi diffusivi di natura essenzialmente virale (buzz), che possiamo
considerare la modalità più efficace di comunicazione interpersonale: il passaparola.
Questa dinamica è accresciuta da una componente essenziale del mercato delle utenze e dei
consumi che deriva dalla propensione dei consumatori a sottrarsi (almeno in parte) alle regole ed
alle limitazioni che i diversi grandi attori produttivi, organizzativi e legislativi tentano e tenteranno
di imporre alla rete e ai protocolli della condivisione ed alle affordances rappresentate dai softwares
emergenti, primariamente nell’ambito della compressione e riproduzione dei formati audio-video.