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De ARTE

(Magritte)

La particolare forma di conoscenza alla quale conduce la pittura di Magritte è


autentica nella misura in cui si rivela rigorosamente inutile per risolvere i fastidiosi
problemi dell’esistenza quotidiana.

La potenza del pensiero si manifesta rivelando, evocando il mistero degli esseri che ci
sembrano familiari.

La natura si è mostrata generosa creando per i deboli e gli impazienti il rifugio della
follia, che li protegge dall’atmosfera soffocante di questo mondo plasmato da secoli di
culto del denaro e degli dei.

Il rapporto tra il titolo e il quadro è poetico, vale a dire che questo rapporto conserva,
degli oggetti, solo le caratteristiche abitualmente ignorate dalla coscienza ma talvolta
presentite in occasione di avvenimenti straordinari che la ragione non è ancora riuscita
a chiarire.
I titoli dei quadri non sono spiegazioni e i quadri non sono illustrazione dei titoli.

Qualunque sia il suo carattere manifesto, ogni cosa mantiene il suo mistero, sia ciò
che appare, sia ciò che è nascosto, la conoscenza e l’ignoranza, la vita e la morte, il
giorno e la notte.

La natura ci offre la condizione di sogno, il che consente al nostro corpo e alla nostra
mente quella libertà di cui esse hanno assoluto bisogno.

La banalità che accomuna tutte le cose è il mistero.

I miei quadri sono stati concepiti per essere dei segni tangibili della libertà di
pensiero.

(Bergonzoni)

Cosa viene teorizzato oggi? Che le gente si riconosca nello spettacolo. Una
bestemmia per me. Il pubblico deve domandarsi: Ma dove stiamo andando?

Cercare il sovrumano come anima: L’essere nella sua complessità. Cos’è il


sovrumano? Un medico dice: faccio il possibile. E questo è umano. Il sovrumano
significa: voglio andare a vedere il mistero, l’impossibile, lo sconosciuto. Queste
sono le materie che possono far crescere l’essere umano.

Se fai arte ti occupi di spirito.


Voglio un caos dove tutto sia possibile e sia dato di credere all’incredibile. E senza
paura, che è il male del nostro tempo. Cosa cerca il ragazzo nella pasticca? Cerca
l’oltre e tu glielo devi dare anche con l’arte, aprendolo all’infinito.

(Kantor)

Il percorso artistico.

Il fatto è che ciascuno ha un’omogeneità diversa, e in grado di apparire soltanto


quando tutti i fatti, e la maggior parte di essi, sono compiuti. A quel punto si possono
precisare intenzioni e direzione. A quel punto ciò che era vivo, ciò che costituiva
un’avventura e una sorpresa perde il fascino e la forza dell’imprevisto per acquistare
l’importanza di causa-effetto.
Le cose peggiorano, evidentemente, se queste pratiche equivoche si sviluppano nel
corso del processo creativo.
Personalmente, la mia evoluzione mi appare come un viaggio fisico nel tempo fisico e
interiore, nel quale la speranza si nutre di incontri del tutto imprevisti , di prove prima
mai pensate, dell’attesa di qualcosa di inatteso, di deviazioni, ritorni, ricerche della
giusta strada. E la speranza è senza dubbio ciò che muove tutto.

L’evoluzione consiste nel costante adattamento dell’artista alla propria epoca,


fino all’esaurimento delle sue forze intellettuali.

L’opera d’arte.

Che è impenetrabile alla penetrazione esterna, che oppone la sua opacità ad ogni
tentativo di interpretazione, rivolta da nessuna parte, verso l’ignoto, non essendo che
il vuoto un buco nella realtà, senza destinazione e senza luogo, che è come la vita:
passeggera, fuggevole, evanescente
Impossibile da fissare e da trattenere, che lascia il luogo sacro ad essa riservato
senza andare in cerca di argomenti a favore della propria utilità,
che è, semplicemente.
Che, per il solo fatto della sua autoesistenza, pone ogni realtà che la circonda in
una situazione irreale.

Il teatro.

Nella sua forma attuale, il teatro è una creazione artificiale di una pretensione
insopportabile. Sono inchiodato davanti a un luogo di inutilità pubblica, abbarbicato
alla realtà vivente come a un pallone gonfiato. Primo del mio arrivo è vuoto e nudo.
Dopo il mio arrivo simula con difficoltà la sua utilità. Ecco perché mi sento sempre a
disagio in una poltrona di teatro.

Illusione e realtà.

Il teatro è realtà, tutto ciò che accade nel dramma è vero e serio.
Ma nella nostra tradizione il teatro, a partire dal momento in cui il dramma si realizza
sulla scena, fa di tutto per non darci altro che l’illusione di questa vera realtà:
Sipario, quinte, decorazioni di tutti i generi: topografiche, geografiche, storiche,
simboliche, esplicative, in ogni caso adatte solamente ad una riproduzione secondaria.
Poi i costumi fabbricano tutta una serie di eroi: tutto questo contribuisce in pieno a far
sì che lo spettatore consideri la pièce di teatro come uno spettacolo che si può
guardare senza conseguenze morali.
Ce ne deriva tutta una serie di emozioni estetiche, di prove vissute, di emozioni e
riflessioni morali ma nella posizione del tutto confortevole di uno spettatore obiettivo,
con il sentimento della propria sicurezza e la possibilità di esprimere il suo
disinteresse nel caso in cui fosse troppo minacciato. Non si contempla una pièce a
teatro! Ci si assume una grande responsabilità entrando a teatro.

Bisogna creare un’atmosfera e delle circostanze tali che la realtà illusoria del dramma
vi trovi posto, in modo che diventi possibile, concreta: Perché il personaggio (ad es.
Ulisse) non si muova nella dimensione dell’illusione ma in quella della nostra realtà.
In mezzo a degli oggetti reali, cioè che abbiano per noi, oggi, una certa utilità definita,
perché egli vive in mezzo alla gente reale, cioè vicino a noi nel pubblico.
Incorporare la realtà fittizia nella realtà della vita. (Cfr. Thierry Salmon)

Lo scopo non è creare sulla scena l’illusione (lontana, senza pericolo) ma una realtà
concreta quanto la sala.
La realtà della sala è legata al processo del divenire del dramma, e viceversa.
Quindi, prima di preparare la scena, dovremo preparare la sala.
Ci sarà la messinscena della sala.
In apparenza degli oggetti utilitaristici possono ugualmente formare un contr, asto con
la realtà illusoria: degli uomini, per esempio dei macchinisti, o persone qualsiasi,
indifferenti, che passano attraverso mete sconosciute, proprio come nel sogno esistono
dei personaggi estranei che non hanno alcun rapporto con gli avvenimenti e passano
sullo sfondo del sogno, con un sorriso muto il cui significato è sconosciuto.
Il personaggio (ad es. Ulisse) non entra in scena, c’è dall’inizio ma proprio in quanto
massa difforme: Non si sa che cosa sia questa cosa.

Astrazione e Naturalismo.

A teatro il naturalismo è artificiale e ridicolo.


Un albero naturalistico sulla scena ci procura uno choc per la sua ingenuità e
stupidità. D’altra parte le forme astratte, applicate alla costruzione di un oggetto non
sono, spesso, che una falsa stilizzazione.
Solo le forme puramente astratte, poiché esistono per se stesse, avranno una loro
esistenza: un’esistenza concreta.
Tanto il naturalismo in scena risulta strano e naif tanto l’astrazione è legata
direttamente alla scena.
L’immagine naturalista e la sua contemplazione costituiscono un ostacolo serio nella
percezione dell’opera d’arte.
Lo si comprende prendendo coscienza che le forme naturalistiche, oggettive (un
castello, una foresta, una poltrona) sono registrate dal meccanismo del cervello,
mentre le forme astratte, non ricordandoci nulla, agiscono direttamente e
perfettamente, perché ci colpiscono nel nostro subconscio:
ciò significa che lo spettatore le sente piuttosto che distinguerle e analizzarle
oggettivamente.
In questo sistema l’oggetto e l’uomo attireranno su di sé tutta l’attenzione. L’occhio e
l’orecchio si concentreranno intensamente, mentre la sfera delle forme astratte
penetrerà nel subconscio.

Il senso dello humor!

Voglio che si colga l’oggetto, che lo si padroneggi e non che lo si mostri e lo si


riproduca.

Non permettersi il raggiungimento di uno stile. Non coltivare uno stile!

L’arte è un’apertura permanente che non si può vivere e condurre senza l’accettazione
lucida e la ricerca deliberata del rischio. Gioco, avventura, rischio sono impossibili
senza una sincerità assoluta. L’impegno in arte significa sapere che i fini e le funzioni
dell’arte sono in divenire.

(Van gogh)

Il mio desiderio è che vengano fuori, se si vuole, anche delle bugie, ma bugie che
siano più vere della verità letterale.

(Brook)

Nel momento in cui tentiamo di definire uno stile siamo perduti.

Il teatro è sempre un arte autodistruttiva ed è sempre scritta sulla sabbia.

Un lavoro serio, impegnato e approfondito deve sempre andare di pari passi con
l’irresponsabilità.

Il teatro ha una caratteristica peculiare: si può sempre ricominciare da capo. La verità


nel teatro è sempre in movimento.

Nella vita di tutti i giorni “se” è finzione, in teatro il “se” è un esperimento.


Nella vita “se” è un’evasione, in teatro “se” è la verità.

(Orwell)

Nella prosa, la cosa peggiore che uno possa fare con le parole è di arrendersi ad esse.
Quando si pensa ad un oggetto concreto si pensa senza parole, poi se si vuole
descrivere l’oggetto visualizzato, probabilmente si andrà in cerca di parole finchè si
saranno trovate quelle giuste, ossia quelle più calzanti.
Quando invece si pensa a qualcosa di più astratto si è più inclini a usare le parole sin
dall’inizio e, salvo che non ci si sforzi in modo cosciente di evitarlo, il lessico
esistente si precipiterà a sottrarvi il compito, anche a costo di rendere più confuso, o
addirittura stravolgere, il significato originario. Probabilmente la cosa migliore è
rimandare l’uso delle parole finchè si può e chiarirsi il più possibile le idee su ciò che
si vuole esprimere mediante immagini o sensazioni.

(Kandinsky)

Sulla pittura.
Il colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è il pianoforte dalle molte corde.
L’artista è la mano che toccando questo o quel tasto, mette preordinatamene l’anima
umana in vibrazione.

(Shakespeare)

L’uomo che dentro di sé non ha la musica, che l’armonia dei suoni non commuove è
incline al tradimento, al furto, alla perfidia. Buia come la notte è la sua intelligenza,
oscuro come l’erebo è il suo pensiero.

(Flaiano)

Credo che ci siano due modi di non amare l’arte: il primo consiste nel non amarla, il
secondo nell’amarla razionalmente.

Avere il dono della sintesi ironica, lirica, spietata.

Mi piglia solo una certa tristezza pensando che questo è un paese dove niente si fa sul
serio, ma guai ad avere l’aria di voler scherzare. Un paese dove la follia se non è
remunerativa è considerata con disprezzo.
Non trovi più un poeta inedito e disoccupato, un’artista che non tiri al successo, che
non desideri entrare immediatamente nei ranghi, coi suoi bravi scatti e tanta arte nel
cuore. Tutti sono anticonformisti nel modo giusto, approvato, ma guai ad essere
anticonformista senza essere conformista. Se la scenografia costa poco ecco che il
lavoro non può essere interessante. Se il teatro è piccolo, il successo può esserci, ma
piccolo anche lui. Andiamo pazzi per la protesta ma vogliamo che sia sovvenzionata
dallo stato, su basi serie, e che abbia successo. Se avrà successo la porteremo. (1964)

(Levi-strauss)

Nelle pagine de I tristi tropici, sulle serate teatrali di un’antica tribù dell’amazzonia:
Gli spettatori grandi e piccoli sono tutti là attorno, a scoprire che oltre alla loro
elementare verità quotidiana ne esiste un’altra, fantastica e liberatoria.

(Miei appunti)
La maggior parte del teatro che va oggi, il teatro che oggi è in voga ha questa brutta
tendenza di mostrare: mostrare tutto. E nel farlo ci mostra quanto tutto sia brutto e
deprimente e nauseante. Ammettiamo che sia vero.
Il problema è che non aggiunge altro a quanto già sappiamo.
Io invece credo che l’essere, l’uomo, tra questi relitti e questi rifiuti, abbia bisogno
della possibilità di mettersi in cerca di qualcosa di toccante, oggi. Questo dobbiamo
dargli. Qualcosa di grande e di oltre. E dell’oltre non è possibile mostrare l’oggetto. Il
sentiero, la porta d’accesso possiamo mostrare. E risvegliare in lui l’occasione, il
desiderio, la capacità di attraversare quella porta e percorrere quel sentiero.

Cerco sul vocabolario etimologico “intrattenimento”, il termine che ormai si usa per
riferirsi alla quasi totalità dell’arte e dello spettacolo:
Da “intrattenere”, “tenere-intra”, far indugiare, ritardare, tenere a bada, tenere presso
di sé.
Ci vogliono tutti incatenati, penso.

Una prospettiva importante sul teatro è anche questa:


Il teatro, come il linguaggio, oltre ad essere un mezzo di comunicazione è anche un
organo di percezione.

Lavorare in teatro mi costringe al confronto continuo con altri esseri umani, in un


rapporto di collaborazione che a volte si traduce in conflitto. Con attori, tecnici,
musicisti, elettricisti, artigiani, macchinisti, amministratori e assistenti di produzione.
E questo mi consente, e a volte impone, di essere messo nella condizione di risolvere
tanti problemi pratici, tecnici e di artigianato.

L’artista è un artigiano che ogni giorno deve reimparare il suo mestiere.

Non sono mai stato attratto dal potere, in nessuna delle sue forme, né esercitarlo, né
subirlo. Il potere non mi eccita, credo fondamentalmente perché ne ho sempre avuto
paura. La libertà, che è il suo contrario, invece mi ha sempre eccitato molto. Ma
questo è un altro discorso, il concetto di libertà è un universo, e anch'esso nasconde
tante insidie per chi ha a che fare con l'arte.

(Fellini)

Diventando grandi perdiamo la nostra maniera naturale di vedere i suoni e le cose


come una grande unità, perché essa viene sostituita da una visione spezzettata e
frammentaria dei fenomeni.

Una corrente che mi invita, mi obbliga, mi costringe a incarnarmi rapidamente in


tante cose, persone, pensieri, atteggiamenti. E proprio in quel momento in cui non ci
sono, perché sono in tanti posti e perso da tanti dettagli, una fluidità continua che si
identifica coi volumi, di persone, di cose, di luci. Un’inafferrabile mercurialità. Credo
che per me questa sia la felicità. Smemorarsi, dimenticarsi. Quella parte che chiami te
stesso e che invece è una sovrastruttura, è la parte che lasci libera per essere abitata da
un’energia che prende in prestito il tuo corpo e il tuo sistema nervoso.

Un lavoro meticolosissimo così come è meticolosa la natura, che sembra


apparentemente casuale e invece è esattissima nei suoi equilibri.

Dirigere un film: la possibilità di camminare in equilibrio in mezzo alle condizioni più


avverse, più contrastanti, e nello stesso tempo la capacità naturale di volgere a proprio
vantaggio queste avversità e questi contrasti, tramutarli in un sentimento, in valori
emozionali, in un punto di vista.

Il sogno è anche espressione della nostra malattia, anche se, come la malattia, è
ricerca di salute.

(Neuman)

Il creativo è colui che si colloca fra i canoni consolatori, confortanti, della cultura
cosciente e l’inconscio: il magma originario, il buio, la notte, il fondo del mare. Sono
questa vocazione, questa medianità, a fare il creativo. Egli abita, si pone, vive in
questa fascia per operare una trasformazione, simbolo di vita. E la posta in gioco è la
sua stessa vita o la salute mentale.

(Genet)

Villania del pubblico: durante le acrobazie più rischiose, chiuderà gli occhi. Chiude
gli occhi quando, per meravigliarlo, sfiori la morte.

(Disegnare con la parte destra del cervello)

Purtroppo questa abilità si affievolisce col passare del tempo, fino a scomparire con
l’avvicinarsi dell’adolescenza, forse a causa della laterizzazione, del graduale
prevalere del sistema linguistico e della propensione dell’emisfero sinistro al
riconoscimento, all’attribuzione di nomi e alla catalogazione degli oggetti.
Col tempo, la concentrazione sulle cose sembra sostituirsi a quella visione globale e
olistica che il bambino ha del mondo, una visione per cui tutto è importante, compresi
gli spazi negativi costituiti dal cielo, dalla terra e dall’aria.

Il problema sta nel vedere: uno dei problemi nel vedere nasce dalla capacità del
cervello di cambiare le informazioni visive percepite per adattarle a concetti e a
nozioni preesistenti.
La difficoltà di osservare e disegnare in questo modo consiste nel sottrarsi allo stress
mentale che si produce quando la percezione non concorda con un concetto.

Stabilire l’unità di base. Tutto nel disegno a vista è confronto.

In modo paradossale, più chiaramente l’artista vede il modello, più chiaramente noi
vediamo attraverso il disegno l’artista stesso.
Cogliere il rapporto tra le parti e il tutto: vedere- per così dire- sia l’albero che la
foresta.

Le cinque capacità percettive del disegno

La percezione dei contorni


La percezione degli spazi (spazi negativi)
La percezione dei rapporti (prospettiva e proporzioni)
La percezione delle luci e delle ombre (ombreggiatura)
La percezione del tutto (Gestald, l’essenza degli oggetti)

(Rimbaud)

Il poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i


sensi. In tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia, egli cerca se stesso: Consuma
in sé tutti i veleni per non serbarne che l’essenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno
di tutta la fede e di tutta la forza sovrumana e in cui diventa fra tutti il grande malato,
il grande criminale, il grande maledetto.

(Tzara)

Io distruggo i cassetti del cervello e quelli dell’organizzazione sociale. La logica è


sempre falsa.

Se tutti hanno ragione e tutte le pillole sono pillole pink, proviamo a non aver ragione.

(Doestoevskij su l’idiota)

Di questo romanzo non sono contento, esso non esprime neppure la decima parte di
ciò che volevo esprimere. Tuttavia non lo rinnego e conservo dell’amore per la mia
idea abortita.

(Hugo)

Fino a che punto il canto appartiene alla voce e la poesia ai poeti?

(Artaud)

Ho fatto conoscenza con tutti gli ex dadaisti che vorrebbero tirarmi nella loro nave
surrealista, ma non se ne fa niente. Io sono troppo più surrealista di loro per fare
questo. Lo sono sempre stato e so bene che cosa sia il surrealismo. Infatti e il sistema
del mondo e del pensiero che ho da sempre.
Teorizzare l’assenza, il manque, la perdita progressiva della facoltà di pensare e di
comunicare.

(Carver)

L’ambizione e un po’ di fortuna sono cose che possono essere di molto aiuto ad uno
scrittore, se ce l’ha. Troppa ambizione e poca fortuna, se non proprio scalogna,
possono rovinarlo. Ma soprattutto bisogna avere talento. Ci sono scrittori che di
talento ne hanno tanto, non conosco scrittori che non ne abbiano. Ma un modo di
vedere le cose originale e preciso e l’abilità di trovare il contesto giusto per
esprimerlo, sono un’altra cosa. E’ una delle cose che contraddistingue uno scrittore,
e non è il talento. Di quello ce n’è anche troppo in giro. Ma uno scrittore che ha una
maniera particolare di guardare le cose e riesce a dare espressione artistica alla sua
maniera di guardare le cose, è uno scrittore che durerà per un pezzo.

I veri sperimentatori devono rendere tutto nuovo, come consigliava Pound, e in questo
processo devono scoprire le cose da soli. Ma, a meno che non siano usciti di senno,
devono anche voler rimanere in contatto con noi, devono portare a noi notizie dal
loro mondo.

Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto
giusto.

Niente trucchi.

Se le parole e i sentimenti sono disonesti, se l’autore bara e scrive di cose che non gli
stanno a cuore, o di cui non è convinto, allora non può aspettarsi che qualcun altro
mostri interesse per il racconto.

Se non si riesce, dico io, a rendere quello che si scrive al meglio delle nostre
possibilità, allora che si scrive a fare? Alla fin fine, la soddisfazione di aver fatto del
nostro meglio e la prova del nostro sforzo sono le uniche cose che ci possiamo
portare appresso nella tomba. Al mio amico avevo una gran voglia di dire: per l’amor
del cielo, mettiti a fare qualcos’altro, devono esserci modi più facili e forse anche più
onesti di guadagnarsi da vivere. Oppure cerca di farlo come meglio puoi, mettici
dentro tutto il tuo talento, ma poi non ti giustificare, non cercare scuse, risparmiaci i
lamenti e le spiegazioni.

Avevo avuto un’intuizione. E allora? Che cosa sono le intuizioni? Non danno alcun
aiuto. Solo, rendono ancora più difficili le cose.

L’accuratezza, la precisione.
Le parole possono essere precise anche al punto da apparire piatte, l’importante è che
siano cariche di significato. Se usate bene, possono toccare tutte le note.
Uno dei principi fondamentali era questo: uno scrittore scopre quello che vuole
dire mediante un continuo processo consistente nel vedere quello che ha già
detto. E questa visione, questo processo di messa a fuoco della visione, si ottiene
mediante la revisione.

Una delle cose che ho imparato è che dovevo piegarmi, altrimenti mi sarei spezzato.
E ho anche imparato che è possibile piegarsi e spezzarsi allo stesso tempo.

Il fallimento e le delusioni sono comuni a tutti noi.


Il sospetto che stiamo imbarcando acqua e che le cose non vanno come avremmo
voluto, prima o poi colpisce tutti.

(Checov)

Il teatro mi ricorda che esistono altre vite oltre alla mia.

(Wallace)

È troppo facile starsene semplicemente lì a torcersi le mani dicendo


che la tv ha rovinato i lettori. Perché la cultura televisiva
americana non è nata dal nulla. Quello che la tv è estremamente brava
a fare – e rendiamocene conto, "non fa altro che questo" – è
riconoscere cosa vogliono grandi masse di persone, e fornirglielo. E
dato che nella cultura americana, o comunque dell'occidente
industrializzato, c'è sempre stato un caratteristico e fortissimo
disgusto per la frustrazione e la sofferenza, la tv eviterà queste
cose come la peste in favore di qualcosa che sia facile e anestetico.
Nei tempi bui, quello che definisce una buona opera d'arte mi sembra che sia la
capacità di individuare e fare la respirazione bocca a bocca a quegli elementi di
umanità e di magia che ancora sopravvivono ed emettono luce nonostante l'oscurità
dei tempi. La buona letteratura può avere una visione del mondo cupa
quanto vogliamo, ma troverà sempre un modo sia per raffigurare il
mondo sia per mettere in luce le possibilità di abitarlo in maniera
viva e umana.

Non parlo di soluzioni nel campo della politica convenzionale o


l'attivismo sociale. Il campo della letteratura non si occupa di
questo. La letteratura si occupa di cosa voglia dire essere un cazzo
di essere umano. Se uno parte, come partiamo quasi tutti, dalla
premessa che negli Stati Uniti di oggi ci siano cose che ci rendono
decisamente difficile essere veri esseri umani, allora forse metà del
compito della letteratura è spiegare da dove nasce questa difficoltà.
Ma l'altra metà è drammatizzare il fatto che nonostante tutto siamo
ancora esseri umani. O possiamo esserlo. Questo non significa che il
compito della letteratura sia edificare o insegnare, fare di noi tanti
piccoli bravi cristiani o repubblicani. Non sto cercando di seguire le
orme di Tolstoj o di John Gardner. Penso solo che la letteratura che
non esplori quello che significa essere umani oggi, non è arte.
Abbiamo tanta narrativa "di qualità" che ripete semplicemente
all'infinito il fatto che stiamo perdendo sempre più la nostra
umanità, che presenta personaggi senz'anima e senza amore, personaggi
la cui descrizione si può esaurire nell'elenco delle marche di
abbigliamento che indossano, e noi leggiamo questi libri e diciamo
"Wow, che ritratto tagliente ed efficace del materialismo
contemporaneo!" Ma che la cultura americana sia materialistica lo
sappiamo già. È una diagnosi che si può fare in due righe. Non è
stimolante. Quello che è stimolante e ha una vera consistenza
artistica è, dando per assodata l'idea che il presente sia
grottescamente materialistico, vedere come mai noi esseri umani
abbiamo ancora la capacità di provare gioia, carità, sentimenti di
autentico legame, per cose che non hanno un prezzo? E queste capacità
si possono far crescere? Se sì, come, e se no, perché?

Rendere strano ciò che è familiare


Ebbene, per il lettore di oggi questa funzione di "presentazione" della
letteratura si è rovesciata, dato che l'intero villaggio globale oggi
viene presentato come familiare, e immediatamente accessibile per via
elettronica: satelliti, microonde, gli intrepidi antropologi dei
documentari della PBS, i coristi zulù di Paul Simon. È quasi come se
avessimo bisogno degli scrittori per ripristinare l'ineluttabile.
Per la nostra generazione, il mondo intero sembra presentarsi come
"familiare", ma dato che questa è ovviamente un'illusione per quel che
riguarda tutti gli aspetti più importanti degli individui, forse il
compito di ogni forma di letteratura "realistica" è l'opposto di
quello che era un tempo: non più rendere familiare ciò che è strano ma
rendere di nuovo strano ciò che è familiare. Mi sembra che sia
importante trovare dei modi per ricordare a noi stessi che gran parte
di questa sensazione di "familiarità" è illusoria e mediata.

L'ironia postmoderna
L'ironia e il cinismo erano esattamente la reazione che ci voleva
all'ipocrisia americana degli anni Cinquanta e Sessanta. È questo che
rende i primi scrittori postmoderni dei grandissimi artisti. Il grosso
merito dell'ironia è che spacca le cose a metà e va a guardarle
dall'alto in basso, così da rivelarne i difetti, le ipocrisie e i
doppioni. Il sarcasmo e l'ironia sono ottimi modi per strappare le
maschere e mostrare la realtà sgradevole che c'è sotto. Il problema è
che, una volta che le regole dell'arte sono state smantellate, e una
volta che le sgradevoli realtà diagnosticate dall'ironia sono state
rivelate in pieno, "a quel punto" che facciamo? […] A quanto pare,
vogliamo solo continuare a mettere in ridicolo la realtà. L'ironia e
il cinismo postmoderni diventano un fine a se stessi, una misura della
sofisticatezza e della spregiudicatezza letteraria degli scrittori.
Pochi artisti osano parlare dei modi in cui si possa tentare di
aggiustare quello che non va, perché sembreranno sentimentali e
ingenui agli smaliziati ironisti. L'ironia si è trasformata da un
mezzo di liberazione in un mezzo di schiavitù.

Il cuore del lettore.


Il talento è solo uno strumento. È come avere una penna che scrive
invece di una che non scrive. Non sto dicendo che riesco costantemente
a rimanere fedele a questi principi quando scrivo, ma mi sembra che la
grossa distinzione fra grande arte e arte mediocre si nasconda nello
scopo da cui è mosso il cuore di quell'arte, nei fini che si è
proposta la coscienza che sta dietro il testo. Ha qualcosa a che fare
con l'amore. Con la disciplina che ti permette di far parlare la parte
di te che ama, invece che quella che vuole soltanto essere amata.
Magari questa è una cosa che non fa molto fico dire, non lo so. Ma mi
sembra una delle cose in cui riescono gli scrittori davvero grandi –
da Carver a Cechov a Flannery O'Connor al Tolstoj della Morte di Ivan
Il'ic al Pynchon dell'Arcobaleno della gravità – sia "dare" qualcosa
al lettore. Quando il lettore si allontana dalla vera opera d'arte
pesa di più di quando ci si è avvicinato. È più ricco. Tutta
l'attenzione e l'impegno e lo sforzo che come scrittore richiedi al
lettore non possono essere a tuo vantaggio, devono essere a suo
vantaggio. Quello che è velenoso e deleterio, nell'ambiente culturale
di oggi, è che rende tutto questo tanto spaventoso da dissuaderci a
farlo. Un'opera davvero grande nasce probabilmente da una volontà di
svelarci, di aprirci a livello spirituale ed emotivo in un modo che
rischia di farci provare davvero qualcosa nel farlo. Significa essere
pronti a morire, in un certo senso, pur di riuscire a toccare il cuore
del lettore.

(…) Vi è poi un certo tipo di arte (e di letteratura) che richiede al lettore una quantità
di fatica che è ridicolmente sproporzionata rispetto alla soddisfazione che ne trae.

L'arte, oggi. La narrazione:


La tua vita assomiglia anche solo approssimativamente ad una narrazione lineare? Il
realismo impone all'esperienza un ordine, un senso e una facilità di interpretazione
che nella vita reale non ci sono mai.
Il costante sforzo per permettere all'arte di continuare a operare quelle magie che ti
dicevo, man mano che il tessuto cognitivo della nostra vita cambia, e man mano che
cambiano i media attraverso cui la nostra vita viene rappresentata. E sono le cose
avanguardistiche o sperimentali che hanno la possibilità di portare avanti questa
impresa.
Ciò che è sempre stato importante è ancora importante. E il nostro compito è capire
come fare questa cosa in un mondo la cui consistenza sensoriale è completamente
diversa.

(Non avevo idea che il novanta per cento di quello che traevo dai libri che amavo
fosse il senso di una conversazione attorno alla solitudine.)

Per me buona parte dell'esperienza estetica è erotica. Si prova uno strano senso di
intimità, ad esempio, con gli attori di uno spettacolo teatrale, una sorta di fantasia di
essere loro o di desiderarli come corpi.
Bisogna sedurre lo spettatore, ma senza manipolarlo.

L'opera come un figlio.


Comporre un opera è come allevare un figlio: bisognerebbe essere orgogliosi del
lavoro che si fa all'interno della famiglia, a prescindere dal successo che avranno nel
mondo.
(…) Per quanto mi riguarda il volto che do a quel terrore è la nascente consapevolezza
che nulla è mai abbastanza. Che c'è una sorta di strana insoddisfazione, di vuoto, al
cuore del proprio essere, che non si può colmare con qualcosa di esterno.

(Bruno Schulz)

La materia.

La materia è dotata di una fecondità senza fine, di un’inesauribile forza vitale e al


tempo stesso di un seducente potere di tentazione che ci spinge a creare.
Nelle profondità della materia si delineano indistinti sorrisi, sorgono contrasti, si
affollano abbozzi di forme. L’intera materia ondeggia di possibilità infinite che la
percorrono con deboli fremiti.
In attesa del soffio vivificatore dello spirito, essa fluttua in continuazione, tentandoci
con le mille curve dolci e molli che essa va farneticando nel suo cieco delirio.

La materia è l’entità più passiva e indifesa del cosmo.


Ognuno può plasmarla, modellarla, a ognuno essa obbedisce.
Tutte le organizzazioni della materia sono instabili e fragili, facili a regredire e a
dissolversi. Non c’è alcun male a ridurre la vita ad altre e nuove forme.
L’assassinio non è peccato, talvolta non è che una violenza necessaria nei confronti di
forme refrattarie e cristallizzate dell’esistenza, che hanno cessato di essere
interessanti.

Troppo a lungo abbiamo vissuto sotto l’incubo dell’irraggiungibile perfezione del


demiurgo. Non vogliamo competere con lui. Non abbiamo l’ambizione di eguagliarlo.
Vogliamo essere creatori in una sfera nostra, inferiore, aspiriamo a una nostra
creazione, aspiriamo alle delizie della creazione, aspiriamo, in una parola, alla
demiurgia.

Il Demiurgo si innamorò di materiali sperimentati, perfezionati e complessi. Noi


daremo la preferenza alla paccottiglia. E questo semplicemente perché ci affascina, ci
incanta il basso costo, la mediocrità, la volgarità del materiale. Capite il senso
profondo di questa passione per le veline variopinte, per la cartapesta, per la vernice,
la stoppa e la segatura? Questo è il nostro amore per la materia come tale. Per la sua
pelosità e porosità. Per la sua unica, mistica, consistenza.
Il Demiurgo la rende invisibile, la fa sparire dietro al gioco della vita. Noi, invece,
amiamo la sua dissonanza, la sua resistenza, la sua maldestra rozzezza. Ci piace
vedere dietro ogni gesto, ogni movimento, il suo sforzo greve, la sua inerzia, la sua
mite goffaggine da orso.

In una parola, noi vogliamo creare una seconda volta l’uomo, a immagine e
somiglianza di un manichino.
(Kubrick)

Comunicare in modo visivo e tramite la musica significa superare le rigide


classificazioni basate sul linguaggio verbale da cui la gente non riesce a staccarsi. Le
parole hanno un significato molto soggettivo e altrettanto limitato e circoscrivono
subito l’effetto detonativo che può avere l’opera d’arte a livello emotivo e subconscio.

(…) In questo senso il film diventa qualsiasi cosa lo spettatore vi veda dentro. Se il
film suscita emozioni e penetra nel subconscio dello spettatore, se stimola, seppure in
modo grezzo, i suoi aneliti e impulsi mitologici e religiosi, allora è riuscito nel suo
scopo.

Sul piano delle emozioni le persone si assomigliano molto di più che sul piano
intellettuale. Il legame comune è la loro reazione emotiva e inconscia. Guardare un
film è come fare un sogno ad occhi aperti. Agisce su parti del cervello che vengono
raggiunte solo dai sogni o dal teatro, e lì si possono esplorare le cose senza alcuna
responsabilità dell’ego conscio e della coscienza.

(Mamet)

Nell’arte le persone che incontrerete in presunte posizioni di autorità –critici,


insegnanti, direttori artistici, manager- saranno sempre, in generale, inferiori a voi da
un punto di vista intellettuale ed etico. Non avranno la vostra immaginazione, è per
questo che sono diventati burocrati invece che artisti; e non avranno la vostra forza
d’animo, poiché hanno scelto di appoggiarsi ad un’istituzione piuttosto che
guadagnarsi da vivere con le proprie forze. Passano la vita ad imparare lezioni molto
diverse da quelle che imparate voi, e molti o quasi tutti vi invidieranno e la loro
invidia si esprimerà con il disprezzo. E’ l’espediente meschino degli infelici, e se lo
vedete per quello che è, non avrete bisogno di condividere l’opinione che hanno di
voi, né di lasciarvi troppo rattristare. E’ l’opinione dei tizi seduti sulla veranda che
parlano della pigrizia degli schiavi.

Qualcuno che per nascita, formazione o predisposizione è dotato o spinto a fare ordine
nel caos o viceversa. E’ un lavoro che attira chi gode delle sfide, del caos,
dell’incertezza e dell’interazione umana. Chi ama improvvisare, chi preferirebbe
morire piuttosto che tornare fra i comuni mortali.

(Rodari)

La parola.

Un sasso gettato in uno stagno suscita onde concentriche che si allargano sulla
superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la
ninfea e la canna, la barchetta di carta e il galleggiante.
Non diversamente una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e
di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua
caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni, in un movimento che
interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio e che è complicato dal
fatto che la stessa mente non assiste passiva alla rappresentazione, ma vi interviene
continuamente per accettare e respingere, collegare e censurare, costruire e
distruggere.

Una parola qualunque, scelta a caso, può funzionare come parola magica per
disseppellire campi della memoria che giacevano sotto la polvere del tempo.

Paul Valery diceva: Non c’è una parola che si possa comprendere se si va a fondo.
E Wittgenstein: Le parole sono come la pellicola superficiale su un’acqua profonda.

E le storie, per l’appunto, si cercano nuotando sott’acqua.

Lo spaesamento.

Max Ernst per spiegare il suo concetto di spaesamento sistematico: Egli si serviva
proprio dell’immagine di un armadio, quello dipinto da De Chirico nel bel mezzo di
un paesaggio classico, tra ulivi e templi greci. Così spaesato, precipitato in un
contesto inedito, l’armadio diventava un oggetto misterioso. Forse era pieno di vestiti
e forse no: ma certamente era pieno di fascino.

Sklovskij descrive l’effetto di straniamento che Tolstoj ottiene parlando di un


semplice divano nei termini in cui ne parlerebbe una persona che non avesse mai visto
prima un divano, né avesse sospettato dei suoi possibili usi.

Nel binomio fantastico le parole non sono prese nel loro significato quotidiano, ma
liberate dalle catene verbali di cui fanno parte quotidianamente. Esse sono estraniate,
spaesato, gettate l’una contro l’altra in un cielo mai visto prima. Allora si trovano
nelle condizioni migliori per generare una storia.

Sklovskij: Scopo dell’arte è di trasmettere l’impressione dell’oggetto come visione e


non come riconoscimento.

Sbagliando si impara, è vecchio proverbio. Il nuovo potrebbe dire che sbagliando si


inventa.

Un allenamento dell’immaginazione a deragliare dai binari troppo consueti del


significato, a tener d’occhio i lampi, anche minimi, che da ogni parola, anche la più
banale, possono scoppiare in tutte le direzioni.

La capacità di veder sorgere nel movimento incontrollato dell’immaginazione una


direzione, uno slancio costruttivo. Anche nelle migliori prove dei surrealisti
l’automatismo è continuamente rinnegato da un’irresistibile tendenza
dell’immaginazione alla sintassi.

Comparire e Scomparire. Gli oggetti.

Un oggetto (un burattino) c’è, adesso non c’è più.


Sono convinto che il bambino cominci abbastanza presto a intuire questo rapporto tra
essere e non essere. Talvolta lo potete sorprendere mentre abbassa le palpebre per far
sparire le cose, le riapre per vederle ricomparire, ripetendo pazientemente l’esercizio.
Il filosofo che si interroga sull’Essere e sul Nulla non fa in sostanza che riprendere, ad
alto livello, quel gioco infantile.

Il tavolo e la sedia, ad esempio, che per noi sono oggetti consumati e quasi invisibili,
di cui ci serviamo automaticamente, sono a lungo per il bambino materiali di un’
esplorazione ambigua e pluridimensionale, in cui si danno la mano conoscenza e
affabulazione, esperienza e simbolizzazione.

Immaginazione, fantasia, creatività.

Un intervento attivo, anzi attivissimo, dell’immaginazione è richiesto per riempire i


vuoti tra una vignetta e l’altra.

Il bambino e la sua serietà di fondo (anche nel leggere i fumetti), l’impegno morale
che mette in tutte le sue cose.

Novalis dice: Giocare è sperimentare con il caso.

Dobbiamo a Hegel una distinzione tra Immaginazione e Fantasia: Entrambe sono per
lui determinazioni dell’intelligenza: ma l’intelligenza come immaginazione è
semplicemente riproduttiva; come fantasia è invece creatrice.

E’ creativa una mente sempre al lavoro, sempre a far domande, a scoprir problemi
dove gli altri trovano risposte soddisfacenti, a suo agio nelle situazioni fluide nelle
quali gli altri fiutano soltanto pericoli.

Diceva Schiller: L’uomo è pienamente uomo soltanto quando gioca.

E Carmelo Bene: Lo scherzo è adulto. Il gioco è bambino.

Dewey: La funzione propria dell’immaginazione è la visione di realtà e possibilità che


non possono mostrarsi nelle normali condizioni della percezione sensibile. La sua
mira è di penetrare chiaramente nel remoto, nell’assente, nell’oscuro. Non solo la
storia, la letteratura, le scienze, la geografia, ma anche la geometria e l’aritmetica
contengono una quantità di argomenti su cui deve operare l’immaginazione se devono
essere compresi.

(Da un’intervista a allo scienziato Giorgio Parisi)

Quello che mi sorprende, e in genere non si valuta abbastanza, è il fatto che quanto
uno scienziato cerca non è detto che sia ciò che alla fine trova. Le faccio un esempio.
Sarebbe stato molto complicato far nascere in un sol colpo la meccanica quantistica,
per la semplice ragione che dal momento che si distacca totalmente dal senso comune
nessuno sarebbe stato in grado di immaginarla.
Quando Planck gli ha dato un nome lo ha fatto perché ogni volta che si è trovato
davanti a un problema che non poteva risolvere con la fisica classica, lo accantonava.
E a forza di accumulare casi anomali o inspiegabili con gli strumenti tradizionali, è
riuscito a creare quell’insieme di “oggetti” che col tempo hanno dato vita alla teoria
dei quanti.

-Lei crede in Dio?


- Dio per me non è nemmeno un’ipotesi.

(Anonimo)

Sarai un uomo quando tratterai il successo e l’insuccesso come due impostori.

Svelare il mistero significa svilirlo.

Il poeta ama chi lo ascolta. Non è narcisismo, ma disperazione. Lo ama, è inevitabile,


ma sa anche che chi lo ascolta ricorderà solo le parole, non il poeta.

(Rezza)

Il teatro non è la narrazione. Il teatro è un’esigenza di ribellione dello spirito che si


ribella anche a se stesso.
L’impegno civile, le tragedie. Bisogna in quei casi tacere. Chi non tace è un
mercenario.

(Yourcenar)

E' nel buio che devi guardare. Con disobbedienza, ottimismo e avventatezza.

(intervista a T. Scarpa)

GIORNALISTA: Pasolini diceva: Mi sembra una cosa completamente priva di senso,


continuo a essere scrittore per inerzia, per forza d’abitudine, ho iniziato a scrivere
poesie a sette anni e mezzo e non mi sono chiesto perché lo facessi, ho continuato a
scrivere per tutta l’infanzia, l’adolescenza ed eccomi qui a scrivere ancora, l’unico
senso possibile è un senso esistenzialistico, l’abitudine a esprimersi…”. Che senso ha
per te?
La letteratura, i romanzi, le poesie: cosa sono queste cose? Chiamiamole con un
termine ancora più generico, opere. Cos’è un’opera? E’ una sfida che ti dai. Guarda la
vita, come passa nelle incomprensioni quotidiane, nelle distrazioni, nell’accidia, che
non è solo pigrizia, è anche una continua inconcludenza, dovuta dall’essere captati da
mille richiami, stimoli. Secondo me la scrittura è quell’impegno che ti prendi verso la
vita di dare forma all’opera, che è anche un po’ andare contro il tuo tempo, perché è
un non tempo. Quando sei dentro all’opera, sei dentro a un tuo progetto. L’epoca ti
chiama, ti vuole, ti sequestra, ti fa stare sul pezzo. Qual è la notizia del giorno,
l’incombenza, il mio dovere, la commissione che devo svolgere? Tutto questo è
l’oggi, il quotidiano con la sua necessità, e poi c’è il tuo progetto, che io per l’attività
che mi sono scelto chiamo opera. Tutto il resto è quello che vogliono gli altri da me:
attualità, giornalismo esistenziale. E’ agenda. Ma c’è anche un’agenda più profonda,
che non ha lunedì, martedì, che non ha data, ma è un filone costante, sotterraneo. E’
un tempo senza nome, che è il tempo dell’opera, e quel tempo lo decido io. Non è il
tempo dell’obbedienza. Quando devo scrivere un articolo obbedisco: devo trovare
qualcosa di attuale, ho la scadenza del giornale…, mentre nell’opera obbedisco
all’opera stessa, ai suoi tempi, alla sua forma. Questo è completamente
incommensurabile, diverso, rispetto alla presenza del tempo che ci è data vivere, e
nella quale siamo un po’ costretti a vivere. Per questi motivi mai come quando sei
nell’opera ti senti presente, senti una sincerità, un’autenticità, un’intensità. Mentre
altrove sei chiamato a rispondere a stimoli, a richieste, e allora compi dei gesti
passivi, nell’opera tutto è tua responsabilità. Certo, aumenta anche il senso di colpa,
l’angoscia, perché nessuno ti garantisce che quello che stai facendo ha un valore. Per
me lo scrivere è questo, un modo di essere dentro all’opera, senza obbedire al ricatto
dell’attualità, del tempo presente, della cronicità delle giornate; un modo per esserci in
maniera più vera, nel tempo e dentro il tempo. Una volontà attiva. Questo ho saputo
fare.

(Anselm Kiefer)

L’arte è sempre in pericolo. E’ minacciata dall’esterno come dall’interno.


All’esterno, l’arte fa paura e i potenti hanno sempre cercato di controllarla.
L’arte è indipendente, non è riconducibile alle leggi della politica e della morale,
quindi spiazza e sorprende il potere. Il vero artista non fa mai quello che ci si aspetta
da lui, sfugge alle regole e alle attese, mostra che si può pensare l’impensabile,
diventando così un esempio pericoloso.
All’interno. Un’opera artistica nasce sempre da una successione di scelte.
Ad ogni momento, quindi, si rischia la scelta sbagliata.
L’arte è come un percorso sulla cresta di una montagna, si può cadere ad ogni istante,
da una parte o dall’altra. Oltretutto l’arte è sempre attratta dall’autodistruzione, come
hanno mostrato in passato i futuristi.
Per rinnovarsi oggi si mette alla ricerca di stimoli e idee al di fuori dei propri confini,
confrontandosi con il kitsch, la cultura di massa, il brutto, materiali che prova a
rielaborare e trasformare. Spesso però finisce per restarne prigioniera.
Già Andy Wharol realizzava la morte dell’arte. I suoi quadri erano brutti ma il
cinismo del suo lavoro era una novità. Oggi però quello stesso cinismo non è più
riproponibile.
L’arte diventa così un passatempo divertente, al cui interno si può fare di tutto. I
risultati però non lasciano traccia. Si consumano immediatamente e si dimenticano.
Quest’arte non intriga più, è solo consumo.

Il mercato spinge in questa direzione, e tutto il sistema dell’arte è prigioniero della


quantità, come mostrano i musei alla ricerca di record di pubblico.
L’arte rischia di essere soffocata dal denaro e dai record. Non a caso circolano molte
opere che non hanno nulla a che vedere con l’arte.
Oggi la vera arte è sepolta sotto una valanga di opere inutili e commerciali.
E per un’artista non è facile resistere al mercato, perché il mercato è seduzione.
Le opere che si vendono meglio sono quelle più facili e consensuali. Ma il troppo
consenso è sempre negativo. Preferisco restare nell’undergorund. Preferisco le critiche
anche aspre che però mi fanno sentire vivo.

Il cinismo di Damien Hirst trasforma l’arte in puro mercato, conducendola in una


zona pericolosa. L’arte però non muore mai, resiste, risorge dalle rovine, anche se
nella nostra società unidimensionale in cui tutti pensano allo stesso modo, non ci si
aspetta più nulla di originale. Per questo mi sento un alieno proveniente da un altro
pianeta.

Io sono sempre lo stesso. La sola differenza è che oggi so che sono capace di
dipingere. Non ho talento, ma la mia mano adesso sa dipingere. Naturalmente ho
sempre dei dubbi su quello che faccio, anche perché quando si crede di saper fare
bene qualcosa, diventa più facile sbagliarsi. Occorre fare attenzione e continuare a
interrogarsi criticamente. E’ il motivo per cui io non sono mai soddisfatto di quello
che ho fatto. E comunque ogni risultato è sempre provvisorio. Nulla è mai definitivo.

Appunti miei:

Anche nel teatro, che spesso arriva sempre con una cinquantina d’anni di ritardo sul
resto delle arti, si esercita oggi la sua morte, si cerca lo sguardo cinico, si tenta di
rielaborare e riabilitare il brutto, il kitsch, la cultura di massa. E, in italia almeno,
viene accolto come una novità. Dai critici sbandierata come una rivoluzione, una
liberazione, ma ben sanno loro stessi che è destinata ad essere sterile, non potrà
portare da nessuna parte. Ma si preferisce seguire questa corrente pur sapendo che
avrà breve durata, piuttosto che fermarsi e interrogarsi sul vero senso che l’arte può
avere oggi, nell’epoca in cui si trova a dover fronteggiare, sullo stesso campo e ad
armi impari, una mole di spettacolo d’intrattenimento che non ha precedenti.
Sulla provvisorietà: pensavo che in fondo questi anni di precarietà occidentale, di
economia e di lavoro, sono un’ occasione per l’uomo, anche per il più semplice degli
uomini, di misurarsi con ciò che in fondo la vita è: provvisoria e precaria.

(Edward Docx sulla fine del POSTMODERNISMO)

Tenuto conto che il postmodernismo se la prende con qualsiasi cosa, ha iniziato ad


affermarsi una sensazione di confusione, finchè negli ultimi anni è diventata onni
presente. Una mancanza di fiducia nei dogmi e nell'estetica della letteratura ha
permeato la cultura e pochi si sono sentiti sicuri o esperti a sufficienza da riuscire a
distinguere la spazzatura da ciò che non lo è. Pertanto, in assenza di criteri estetici
attendibili, è diventato sempre più conveniente stimare il valore delle opere in
rapporto ai guadagni che esse assicuravano. (Un paradosso parallelo in politica e in
filosofia: se DEPRIVILEGIAMO tutte le posizioni, non possiamo affermare
nessuna posizione, pertanto non possiamo prendere parte della società).
Certo, internet è quanto di più postmoderno esista in questo pianeta. Il suo effetto più
immediato in occidente pare essere stato la nascita di una generazione che è
maggiormente interessata ai social network che alla rivoluzione sociale. Tuttavia, se
sappiamo guardare oltre, scopriamo un secondo effetto negativo indesiderato: una
smania a conseguire una sorta di veridicità offline:
Desideriamo essere riscattati dalla volgarità dei nostri consumi, dalla simulazione
del nostro continuo atteggiarci. Se il problema per i postmodernisti è stato che i
modernisti avevano detto loro che cosa fare, allora il problema dell'attuale
generazione è esattamente il contrario: nessuno ci sta dicendo cosa fare.
Questo crescente desiderio di una maggiore veridicità ci circonda da tutte le parti. La
possiamo constatare nella specificità dei movimeti food local.... (etc.).

(Morganti)
Il professionismo è faccenda di spettacolo e non di teatro. Il teatro è fatto di alea e
mistero (ha bisogno di bravi e grandi artigiani, semmai, non di professionisti). Perché
è fatto di spazi che vanno lasciati aperti, quegli spazi che un certo tipo di regia ha
occluso e occlude in tutti i modi, perché è molto più comodo stare coi piedi per terra
su un bel lastrone di cemento, che in bilico sugli abissi.

(Milosz)

Al fondo della poesia c'è una sorta di impudicizia che fa emergere quel che non
sapevamo di avere dentro. E allora restiamo ad occhi spalancati, come se una tigre,
con un balzo, ci si fosse parata davanti e se ne restassi lì, alla luce, agitando la coda.

Il flusso.

(Non ricordo l'autore)

Vi sono quattro diverse figure che entrano in gioco nel processo della creazione:
Il Matto. L'architetto. Il carpentiere. Il giudice.
Spesso si va in crisi quando il giudice ostacola il matto.
Ma anche il rapporto tra architetto e carpentiere è un rapporto complicato, soprattutto
quando l'ultimo, deviato dal giudice, si lascia prendere la mano e si mette a correggere
il lavoro del primo.

(C. Bene)

Il nostro delirare in voce è un differire la morte. Noi si muore non appena abbiamo
smesso di parlare.

E' strarisaputo che il discorso non appartiene all'essere parlante.


Quando crediamo di essere noi a dire, siamo detti.
Si può solo dire nulla, destinazione e destino di ogni discorso, ma solo questo nulla è
proprio quel che si dice, la verità del discorso come esperienza stessa del suo errore.
Altro non resta che lasciarsi comprendere dal discorso senza la nostra volontà di
intenzione.

LA MEMORIA ARCAICA DI UN DIRE SENZA VOLONTA'.

E' L'ARMONIA SONORA Ciò CHE CONTA E MAI IL CONTENUTO DEL


RACCONTO.

La verità non esiste, non esiste per il semplice fatto che ci è dato soltanto -nel delirio
del linguaggio- nominare le cose e non conoscerle.

Rifiutare qualsivoglia specifico d'arte. Quando ci si dice: io non sono pittore. E'
allora che bisogna dipingere.

L'arte è la vita come irrepetibilità dell'evento, vivente una volta sola. E perciò l'opera
è il materiale morto, il cadavere evacuato dall'evento.
(Appunti miei)

In teatro, durante le prove, anche se si è nella peggiore delle situazioni e si ha la netta


sensazione di stare imbarcando acqua da tutte le parti, bisogna comunque trovare
qualcosa su cui ridere, ogni tanto.
Il sense of humor e il buonumore sono, in questi casi, le uniche scialuppe per l’anima.

Certamente la musica ha qualcosa di straordinario e d’indefinibile:


Ciò che andrebbe fatto proprio della musica e che in quest’opera è evidente (Napoli
milionaria, di Rota) è la capacità straordinaria di passare da un sentimento all’altro,
dalle vette più alte e inebrianti e vertiginose, ai paurosi baratri, ai precipizi a
rompicollo fino agli abissi più scuri.
E’ la capacità di contenere, in un disegno, la vastità dell’anima umana, senza definirla
razionalmente, della paura e della gioia, dell’eccitazione e dello sfinimento, dei
sentimenti così contradditori che ci abitano e che abitiamo.
Riuscire a cogliere questo, a trasferirlo, a trasfigurarlo, è la cosa che mi preme di più.
Per questo dovrei studiare le opere e la drammaturgia musicale, la composizione.
Da questo potrei imparare tanto.
La possibilità spaziale di andare in luoghi indefiniti. Di andare altrove. Questo è
molto importante, registicamente è fondamentale nell’opera.
Avere degli spazi limitati che raccontano il reale e poi potere andare nell’altrove, nel
vuoto.

Se in questo momento mi chiedessero di scrivere due righe su di me scriverei:


Marco Ferro comincia a impegnarsi nel teatro sin da giovane. In questo ambito ha
fatto un po’ di tutto. Al momento ha trentun’anni. Di lui ad oggi possiamo dire che è
autore di dubbia fama, regista discusso (ma comunque discusso poco), attore poco
dotato, disegnatore istintivo con sensibili lacune tecniche, burattinaio apprezzato dai
non addetti ai lavori.

Dovrei scrivere due righe a proposito del rapporto con il me che lavora e crea.
Di quanto questo rapporto sia legato – e debitore, in un certo senso- al mio sentirmi
altro rispetto all'opera, una volta che questa è compiuta. E durante la creazione di
un'opera a guidarmi è il profondo rispetto che nutro nei suoi confronti e nei confronti
dell'arte. Al fondo, forse, vi è un senso di inferiorità, di inadeguatezza.
Poi dovrei parlare del mio difficile rapporto con la tecnica, che ho sempre sostituito
con la pratica, al cercare di scrivere delle regole, ma sempre sulla sabbia
effettivamente, perché si ricomincia sempre da capo, un po' come l'artigiano di kafka
che ogni mattino deve ricostruirsi la sega, il martello, la sedia su cui lavorare.

E cosa rispondo a chi mi domanda cos'è il teatro, oggi? E qual'è il teatro che
preferisco?
Forse direi più o meno così:
In fondo il teatro è un grande CORPUS in cui convivono tante manifestazioni. Da
spettatori per alcune ci vuole un certo addestramento, altre sono più immediate e
accessibili, ma in fondo la vera distinzione per me resta quella tra buon teatro e
cattivo teatro. Come per la musica e per l'arte tutta. Ed è una questione assolutamente
soggettiva. Questo se parliamo di Teatro. Se parliamo di arte teatrale allora il discorso
cambia e io non sono la persona giusta con cui discuterne. L'arte teatrale fa
riferimento a certe specificità artistiche (l'arte dell'attore, la regia, la drammaturgia), e
ad una serie di convenzioni e codici che ho frequentato poco e da cui – forse per
titubanza, forse per una certa lontananza congenita- mi sono sempre tenuto alla larga.

La figura come la fiaba

La fiaba ha cominciato a vivere come tale quando l'antico rito è caduto, lasciando di
sé solo il racconto. Le fiabe sarebbero nate per CADUTA: dal mondo sacro al mondo
laico. Poi vi è stata una SECONDA CADUTA: dal mondo laico al mondo
dell'infanzia, anche gli oggetti rituali e culturali sono approdati al mondo infantile,
ridotti a poco più che giocattoli (vedi il teatro di figura). Forse perchè solo i bambini
sono ancora in grado di attribuirgli il significato profondo e le storie di cui quegli
oggetti sono portatori.
Per il teatro è avvenuto su per giù lo stesso, dal momento che la società lo ha ridotto a
puro intrattenimento, svuotandolo del suo significato originale.

(G. Scabia)

Maestri veri, sempre, sono i bambini. I bambini non ancora adultizzati, non ancora
rincretiniti dal vendergli roba. Il bambino ha l’assoluto in sé, l’assoluto è il gioco, cioè
il teatro. Il gioco è dio, dio è gioco. Dio non è quello normativo che detta le tavole
della legge, è il grande gioco dell’universo. Il bambino è il suo sacerdote, fino a che
non viene rovinato dalla scuola, dal mestiere. Però, siccome i bambini nascono
sempre, il gioco si rimette sempre in gioco. È il fanciullino? No! Il bambino è un
essere feroce, tremendo, ma è l’assoluto gioco, l’assoluto in sé diverso, è maestro
perché non lo dice mai “io sono maestro”. Lui, è l’unico maestro che io riconosca.

“Coloro insieme ai quali canti modificano il tuo canto”.

L'epoca delle app, della rete: la fantasmizzazione dei corpi.

Il teatro, quando c'è il dionisiaco, quello vero...il resto è accademia, o commercio di


cadaveri (“commercio di cadaveri” è di campana).

Gianni Celati nel saggio sulla Fantastica Visione: Fare Riserva di Splendore.

La resistenza, non mollare mai anche nei momenti più disastrosi.

La società dello spettacolo: questa presenzialità continua, autocannibalica che è l'oggi,


dove esisti solo se appari.

(mie)

Io credo che uno dei problemi principali sia questo, a proposito del teatro: che il teatro
oggi c'è chi lo considera una lingua viva e chi lo considera una lingua morta. E il
problema è che chi lo considera una lingua morta è la stragrande maggioranza della
gente che il teatro lo fa. Le direzioni che allora si aprono sono due: la prima è una
spasmodica ricerca nel tentativo di reinventarlo e si finisce inevitabilmente per
allontanrsi dal teatro, lo si deforma e lo si snatura. La seconda direzione è quella di
assecondarlo nella sua forma morta, museale, che per forza di cose parla una lingua
che oggi non si rivolge a nessuno.
Io mi sento tra quelle persone che considera il teatro una lingua viva. Vivissima.
E per quanto mi è possibile cerco di farlo andando in fondo alla sua essenza, o
almeno, a quella che per me è la sua essenza.

(Flaiano, sul teatro)

Il gioco è questo: cercare al buio qualcosa che non c'è, e trovarla.

(a proposito di arte popolare, di teatro popolare)

Dicono Civica e Scarpellini: sempre più spesso si darà spettacolo (piuttosto che
generare teatro) facendo sbirluccicare tutti gli specchietti per le allodole a
disposizione: un testo classico, una regia che usa archetipi di teatralità
contemporanea, grandi scenografie, un mattatore attempato o un giovane divo,
attorniato da un cast di comprimari più o meno capaci.
Si tratta della versione aggiornata del Gran Teatro ottocentesco, che permette ai
produttori e ai distributori di essere giustamente soddisfatti mostrando il numero di
biglietti staccati grazie al pubblico accorso. Non si tratta di teatro popolare, o almeno,
non si tratta di teatro popolare per come lo intendo.

De Berardinis diceva: Teatro popolare significa elevare e non abbassare la forza e


l'emozione poetica. Popolare è il teatro greco. Popolari sono Shakespeare e Mozart. Il
pubblico deve ritrovare la bellezza, averne nostalgia quando ne esce, e così
rivendicarla nella vita, nella società. Il resto è pura -e anche facile oserei dire-
operazione di marketing.

(Scarpa a proposito della biennale 2017)

La domanda che mi sentirei di fare alla curatrice è questa: ma ciò che conta non è
proprio quello che succede dopo la “seconda età del pensiero” – come la chiama
Balzac? Ciò che si lascia alle spalle la sua fase preparatoria, perché è diventato
tutt’altro rispetto a essa? Lo domanderei non soltanto a Christine Macel, ma, se mai
fosse possibile, a tutti i suoi colleghi curatori e curatrici, a tutti gli artisti e artiste che
sempre più spesso annettono nell’opera quella fase condizionale, potenziale,
progettuale, situazionale, partecipativa, pluralistica, archivistica, documentale, che
diffrange ciò che si fa e lo delega alle circostanze, al caso, ai collaboratori, al pullulare
delle varie declinazioni, alla raccolta di fenomeni e reperti che il passato ha
involontariamente accumulato, alla trasformazione autonoma dei materiali,
all’indipendenza robotica delle tecniche…

Mi sembra che tutto questo sia il segno di una generale sfiducia nell’affermazione,
sfiducia nella dicitura (più ancora che sfiducia nell’opera). Sfiducia nell’atto stesso di
affermare, di dire. Non si crede più a nulla, si diffida della sincerità di chiunque dica
qualcosa; qualunque cosa. Si suppone che tutto ciò che viene detto sia solo un mezzo
per ottenere un effetto: per avere successo, per vendere, per farsi eleggere, per fare
carriera, per imporre una politica, un prodotto, una moda, una classe. In questo
paesaggio di diffidenza radicale, una delle contromosse per riacquistare credibilità
può essere quella di mostrare le condizioni che portano a un’affermazione; condizioni
che ne attestano la bontà, che garantiscono la sua verità e il suo valore: fino al punto
che queste condizioni di dicibilità sostituiscono la dicitura, l’affermazione stessa.

(Balzac)
Un pensiero ha tre età.
Se lo esprimi durante il calore prolifico del suo concepimento, lo realizzerai
velocemente, con un getto che potrà essere più o meno felice, ma in ogni caso sarà
pregno di uno slancio pindarico. Come Daguerre, che si chiude per venti giorni a fare
il suo mirabile dipinto dell’isola di Sant’Elena, con un’ispirazione veramente
dantesca.

Ma se non cogli al volo la felicità originaria della procreazione mentale, e se lasci


inattuato il meraviglioso galoppo dell’intelligenza incitata col frustino (quando le
angosce del parto svaniscono di fronte ai piaceri della sovraeccitazione cerebrale),
allora cadrai presto nel caos delle difficoltà: tutto cade, tutto cede; ti stufi; l’intuizione
perde consistenza; le tue idee ti spossano. Il frustino da sovrano che tenevi in pugno
per far arrivare al traguardo la tua intuizione è finito nelle mani di queste creature
fantasma; e così, sono le tue idee che ti spronano ai fianchi, ti sfiniscono, ti fanno
sanguinare a forza di schioccanti staffilate sulle orecchie; ti ritrovi a recalcitrare
contro di loro. Ed ecco il poeta, il pittore, il musicista: eccolo che va a spasso,
gironzola per i viali, al mercatino contratta dei bastoni da passeggio, compra vecchie
cassapanche, si lascia infatuare da mille passioncelle fugaci, mettendo da parte la sua
idea, come si abbandona un’amante troppo innamorata o troppo gelosa.

Arriva l’età finale del pensiero. Si è impiantato, ha messo radici nella tua anima, è
maturato in essa; e poi, una sera, o un mattino, mentre il poeta si toglie la sua
sciarpetta, mentre il pittore è ancora lì che sbadiglia, mentre il compositore sta per
spegnere la lampada soffiandoci sopra, e gli ritorna in mente un gorgheggio
dolcissimo, e rivede nel ricordo un piedino di donna o una di quelle cose indefinibili
da cui si viene permeati quando ci si assopisce o ci si sveglia, ecco che percepiscono
la loro idea in tutta la grazia del suo fiorire, del suo ramificarsi e infogliarsi, l’idea
maliziosa, lussureggiante, lussuosa, bella come una donna magnificamente bella, bella
come un cavallo senza difetti!
E allora il pittore tira un calcio alla sua coperta (se mai ce l’ha, una coperta), e si
mette a gridare: “Basta! Farò il mio quadro!”
Il poeta, che aveva soltanto un’idea, si ritrova a capo di un’opera intera.
“Sia maledetta quest’epoca!”, dice scagliando uno dei suoi stivali da una parte
all’altra della camera.
È questa la teoria dell’andatura delle nostre idee.

(Borges)
il poeta sa bene di avere ricevuto in dono il mondo con tutte le sue meraviglie, eppure
non è ancora riuscito a ricavarne una poesia: “Y todavía no has escrito el poema”.
(Civica)
Per chi faccio teatro?
Per una persona che non ho mai incontrato e di cui provo nostalgia.

(Elia Kazan)
"Ho sempre più difficoltà a trovare degli attori. Perché la maggior parte di loro vive
una vita 'da caffè'. C'è la scuola, il caffè, gli stages, i provini e parlano e si interessano
solo di questo... La vita non riesce a segnare i loro volti. Non vivono la vita difficile e
disperata che gli uomini vivono tutti i giorni. Per la maggior parte sono immaturi,
viziati e ben pasciuti. I loro visi non sono stati stravolti o illuminati... in breve non
recano su di sé i segni della vita vissuta. E' rarissimo trovare un attore che abbia questi
segni e ancora più raro trovarne uno che sappia "recitarli".
Prendiamo Brando, il miglio attore con cui abbia lavorato. Quando abbiamo fatto
FRONTE DEL PORTO era un attore molto migliore di quello che è oggi. Non è che
abbia perso tutto il suo talento, solo che allora era un giovane uomo infelice, ansioso,
che dubitava di se stesso ed era solitario, orgoglioso e ipersensibile. Non era facile
avere a che fare con lui, ma era un essere umano meraviglioso che non potevi non
amare, perché sentivi che nulla lo separava e lo proteggeva dalla vita, che era
immerso nella vita.
Poi il successo lo ha portato ad isolarsi, a non voler più far esperienze di vita. Così più
un attore ha successo, più assomiglia a un frutto di cera. E i frutti di cera non si
possono né offrire né mangiare".

(Elia Kazan)
"Se un artista fa qualcosa che, insieme, parla PER te e A te - se riesce ad esprimere
quello che tu senti ma non riesci ad esprimere - allora dovresti essergli grato".

"Da giovane ho recitato con James Cagney e lui, da attore, mi ha dato il miglior
consiglio per un attore: 'Don't show it, just do it' (non mostrarlo, fallo soltanto/non
devi mostrare, devi soltanto agire)".

(Elia Kazan)
"I francesi hanno una parola meravigliosa per designare 'il regista': lo chiamano
'réalisateur'. Ecco, io realizzo l'autore".
Anch'io che sono anche autore.

INTERVISTATORE: "Come si diventa regista?".


PETER BROOK: "Ci si autodefinisce tale e poi si spera che gli altri ci credano".
(Civica)
Il semplice andare a teatro è oggi un atto politico.
Per una Società che ci vuole soli e isolati, delle persone che scelgono - per un paio
d'ore - di "disconnettersi" dal pensiero unico dominante per riunirsi in una sala
teatrale, rappresentano un gruppo di obiettori di coscienza.
Andare a teatro è fare obiezione di coscienza.
Oggi come sempre la Cultura (leggere libri, andare alle mostre, nei musei, ai concerti,
al cinema) è una forma di rivoluzione nonviolenta.

(Ingmar Bergman)
"Nel 1943 il mio primo insegnante di teatro mi disse che un regista deve saper fare
due cose: stare zitto e ascoltare gli attori. A tutt'oggi è il miglior insegnamento che ho
ricevuto".

(Joseph L. Mankiewicz)
"Ci sono registi che per tutta la vita si inseriscono tra gli spettatori e lo schermo
dicendo: 'Guardami! Sono un regista! Guarda che bella ripresa che ho fatto!'.
Evidentemente hanno avuto un'interruzione nello sviluppo della loro personalità, sono
rimasti bloccati alla fase in cui il bambino pensa di essere la cosa più importante che
c'è e quindi dice a tutti: "Guardate quello che faccio!".
Credo che ci sia uno scopo migliore nella vita che quello di farsi dire che si è bravi.
Infondo questi registi anno bisogno di essere adorati, quindi hanno l'animo dei servi:
come i cani che, per farsi dire bravo dal padrone, piroettano vorticosamente su se
stessi".

INTERVISTATORE: "Che consiglio darebbe ad un giovane regista?".


ERNST LUBITSCH: "Lo stesso che mi diede mia madre il mio primo giorno di
scuola: 'Se non hai niente da dire, sta zitto'".

(Camillo Sbarbaro)
"Le illusioni sono il lievito della vita e gli errori il suo sale".

(Civica)
A senso, non razionalmente, mi par di intuire che a teatro la provocazione è una forma
di straniamento, che impedisce l'identificazione e l'empatia. Non poggiando
sull'empatia, lo straniamento e la provocazione persuadono i già persuasi e respingono
i non persuasi, che rimangono tali.
Un teatro che vuole "trasformare in meglio" gli spettatori deve in partenza amarli,
dunque essere empatico e mirare alla condivisione.
Il tutto detto malissimo e confusamente.

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