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(Magritte)
La potenza del pensiero si manifesta rivelando, evocando il mistero degli esseri che ci
sembrano familiari.
La natura si è mostrata generosa creando per i deboli e gli impazienti il rifugio della
follia, che li protegge dall’atmosfera soffocante di questo mondo plasmato da secoli di
culto del denaro e degli dei.
Il rapporto tra il titolo e il quadro è poetico, vale a dire che questo rapporto conserva,
degli oggetti, solo le caratteristiche abitualmente ignorate dalla coscienza ma talvolta
presentite in occasione di avvenimenti straordinari che la ragione non è ancora riuscita
a chiarire.
I titoli dei quadri non sono spiegazioni e i quadri non sono illustrazione dei titoli.
Qualunque sia il suo carattere manifesto, ogni cosa mantiene il suo mistero, sia ciò
che appare, sia ciò che è nascosto, la conoscenza e l’ignoranza, la vita e la morte, il
giorno e la notte.
La natura ci offre la condizione di sogno, il che consente al nostro corpo e alla nostra
mente quella libertà di cui esse hanno assoluto bisogno.
I miei quadri sono stati concepiti per essere dei segni tangibili della libertà di
pensiero.
(Bergonzoni)
Cosa viene teorizzato oggi? Che le gente si riconosca nello spettacolo. Una
bestemmia per me. Il pubblico deve domandarsi: Ma dove stiamo andando?
(Kantor)
Il percorso artistico.
L’opera d’arte.
Che è impenetrabile alla penetrazione esterna, che oppone la sua opacità ad ogni
tentativo di interpretazione, rivolta da nessuna parte, verso l’ignoto, non essendo che
il vuoto un buco nella realtà, senza destinazione e senza luogo, che è come la vita:
passeggera, fuggevole, evanescente
Impossibile da fissare e da trattenere, che lascia il luogo sacro ad essa riservato
senza andare in cerca di argomenti a favore della propria utilità,
che è, semplicemente.
Che, per il solo fatto della sua autoesistenza, pone ogni realtà che la circonda in
una situazione irreale.
Il teatro.
Nella sua forma attuale, il teatro è una creazione artificiale di una pretensione
insopportabile. Sono inchiodato davanti a un luogo di inutilità pubblica, abbarbicato
alla realtà vivente come a un pallone gonfiato. Primo del mio arrivo è vuoto e nudo.
Dopo il mio arrivo simula con difficoltà la sua utilità. Ecco perché mi sento sempre a
disagio in una poltrona di teatro.
Illusione e realtà.
Il teatro è realtà, tutto ciò che accade nel dramma è vero e serio.
Ma nella nostra tradizione il teatro, a partire dal momento in cui il dramma si realizza
sulla scena, fa di tutto per non darci altro che l’illusione di questa vera realtà:
Sipario, quinte, decorazioni di tutti i generi: topografiche, geografiche, storiche,
simboliche, esplicative, in ogni caso adatte solamente ad una riproduzione secondaria.
Poi i costumi fabbricano tutta una serie di eroi: tutto questo contribuisce in pieno a far
sì che lo spettatore consideri la pièce di teatro come uno spettacolo che si può
guardare senza conseguenze morali.
Ce ne deriva tutta una serie di emozioni estetiche, di prove vissute, di emozioni e
riflessioni morali ma nella posizione del tutto confortevole di uno spettatore obiettivo,
con il sentimento della propria sicurezza e la possibilità di esprimere il suo
disinteresse nel caso in cui fosse troppo minacciato. Non si contempla una pièce a
teatro! Ci si assume una grande responsabilità entrando a teatro.
Bisogna creare un’atmosfera e delle circostanze tali che la realtà illusoria del dramma
vi trovi posto, in modo che diventi possibile, concreta: Perché il personaggio (ad es.
Ulisse) non si muova nella dimensione dell’illusione ma in quella della nostra realtà.
In mezzo a degli oggetti reali, cioè che abbiano per noi, oggi, una certa utilità definita,
perché egli vive in mezzo alla gente reale, cioè vicino a noi nel pubblico.
Incorporare la realtà fittizia nella realtà della vita. (Cfr. Thierry Salmon)
Lo scopo non è creare sulla scena l’illusione (lontana, senza pericolo) ma una realtà
concreta quanto la sala.
La realtà della sala è legata al processo del divenire del dramma, e viceversa.
Quindi, prima di preparare la scena, dovremo preparare la sala.
Ci sarà la messinscena della sala.
In apparenza degli oggetti utilitaristici possono ugualmente formare un contr, asto con
la realtà illusoria: degli uomini, per esempio dei macchinisti, o persone qualsiasi,
indifferenti, che passano attraverso mete sconosciute, proprio come nel sogno esistono
dei personaggi estranei che non hanno alcun rapporto con gli avvenimenti e passano
sullo sfondo del sogno, con un sorriso muto il cui significato è sconosciuto.
Il personaggio (ad es. Ulisse) non entra in scena, c’è dall’inizio ma proprio in quanto
massa difforme: Non si sa che cosa sia questa cosa.
Astrazione e Naturalismo.
L’arte è un’apertura permanente che non si può vivere e condurre senza l’accettazione
lucida e la ricerca deliberata del rischio. Gioco, avventura, rischio sono impossibili
senza una sincerità assoluta. L’impegno in arte significa sapere che i fini e le funzioni
dell’arte sono in divenire.
(Van gogh)
Il mio desiderio è che vengano fuori, se si vuole, anche delle bugie, ma bugie che
siano più vere della verità letterale.
(Brook)
Un lavoro serio, impegnato e approfondito deve sempre andare di pari passi con
l’irresponsabilità.
(Orwell)
Nella prosa, la cosa peggiore che uno possa fare con le parole è di arrendersi ad esse.
Quando si pensa ad un oggetto concreto si pensa senza parole, poi se si vuole
descrivere l’oggetto visualizzato, probabilmente si andrà in cerca di parole finchè si
saranno trovate quelle giuste, ossia quelle più calzanti.
Quando invece si pensa a qualcosa di più astratto si è più inclini a usare le parole sin
dall’inizio e, salvo che non ci si sforzi in modo cosciente di evitarlo, il lessico
esistente si precipiterà a sottrarvi il compito, anche a costo di rendere più confuso, o
addirittura stravolgere, il significato originario. Probabilmente la cosa migliore è
rimandare l’uso delle parole finchè si può e chiarirsi il più possibile le idee su ciò che
si vuole esprimere mediante immagini o sensazioni.
(Kandinsky)
Sulla pittura.
Il colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è il pianoforte dalle molte corde.
L’artista è la mano che toccando questo o quel tasto, mette preordinatamene l’anima
umana in vibrazione.
(Shakespeare)
L’uomo che dentro di sé non ha la musica, che l’armonia dei suoni non commuove è
incline al tradimento, al furto, alla perfidia. Buia come la notte è la sua intelligenza,
oscuro come l’erebo è il suo pensiero.
(Flaiano)
Credo che ci siano due modi di non amare l’arte: il primo consiste nel non amarla, il
secondo nell’amarla razionalmente.
Mi piglia solo una certa tristezza pensando che questo è un paese dove niente si fa sul
serio, ma guai ad avere l’aria di voler scherzare. Un paese dove la follia se non è
remunerativa è considerata con disprezzo.
Non trovi più un poeta inedito e disoccupato, un’artista che non tiri al successo, che
non desideri entrare immediatamente nei ranghi, coi suoi bravi scatti e tanta arte nel
cuore. Tutti sono anticonformisti nel modo giusto, approvato, ma guai ad essere
anticonformista senza essere conformista. Se la scenografia costa poco ecco che il
lavoro non può essere interessante. Se il teatro è piccolo, il successo può esserci, ma
piccolo anche lui. Andiamo pazzi per la protesta ma vogliamo che sia sovvenzionata
dallo stato, su basi serie, e che abbia successo. Se avrà successo la porteremo. (1964)
(Levi-strauss)
Nelle pagine de I tristi tropici, sulle serate teatrali di un’antica tribù dell’amazzonia:
Gli spettatori grandi e piccoli sono tutti là attorno, a scoprire che oltre alla loro
elementare verità quotidiana ne esiste un’altra, fantastica e liberatoria.
(Miei appunti)
La maggior parte del teatro che va oggi, il teatro che oggi è in voga ha questa brutta
tendenza di mostrare: mostrare tutto. E nel farlo ci mostra quanto tutto sia brutto e
deprimente e nauseante. Ammettiamo che sia vero.
Il problema è che non aggiunge altro a quanto già sappiamo.
Io invece credo che l’essere, l’uomo, tra questi relitti e questi rifiuti, abbia bisogno
della possibilità di mettersi in cerca di qualcosa di toccante, oggi. Questo dobbiamo
dargli. Qualcosa di grande e di oltre. E dell’oltre non è possibile mostrare l’oggetto. Il
sentiero, la porta d’accesso possiamo mostrare. E risvegliare in lui l’occasione, il
desiderio, la capacità di attraversare quella porta e percorrere quel sentiero.
Cerco sul vocabolario etimologico “intrattenimento”, il termine che ormai si usa per
riferirsi alla quasi totalità dell’arte e dello spettacolo:
Da “intrattenere”, “tenere-intra”, far indugiare, ritardare, tenere a bada, tenere presso
di sé.
Ci vogliono tutti incatenati, penso.
Non sono mai stato attratto dal potere, in nessuna delle sue forme, né esercitarlo, né
subirlo. Il potere non mi eccita, credo fondamentalmente perché ne ho sempre avuto
paura. La libertà, che è il suo contrario, invece mi ha sempre eccitato molto. Ma
questo è un altro discorso, il concetto di libertà è un universo, e anch'esso nasconde
tante insidie per chi ha a che fare con l'arte.
(Fellini)
Il sogno è anche espressione della nostra malattia, anche se, come la malattia, è
ricerca di salute.
(Neuman)
Il creativo è colui che si colloca fra i canoni consolatori, confortanti, della cultura
cosciente e l’inconscio: il magma originario, il buio, la notte, il fondo del mare. Sono
questa vocazione, questa medianità, a fare il creativo. Egli abita, si pone, vive in
questa fascia per operare una trasformazione, simbolo di vita. E la posta in gioco è la
sua stessa vita o la salute mentale.
(Genet)
Villania del pubblico: durante le acrobazie più rischiose, chiuderà gli occhi. Chiude
gli occhi quando, per meravigliarlo, sfiori la morte.
Purtroppo questa abilità si affievolisce col passare del tempo, fino a scomparire con
l’avvicinarsi dell’adolescenza, forse a causa della laterizzazione, del graduale
prevalere del sistema linguistico e della propensione dell’emisfero sinistro al
riconoscimento, all’attribuzione di nomi e alla catalogazione degli oggetti.
Col tempo, la concentrazione sulle cose sembra sostituirsi a quella visione globale e
olistica che il bambino ha del mondo, una visione per cui tutto è importante, compresi
gli spazi negativi costituiti dal cielo, dalla terra e dall’aria.
Il problema sta nel vedere: uno dei problemi nel vedere nasce dalla capacità del
cervello di cambiare le informazioni visive percepite per adattarle a concetti e a
nozioni preesistenti.
La difficoltà di osservare e disegnare in questo modo consiste nel sottrarsi allo stress
mentale che si produce quando la percezione non concorda con un concetto.
In modo paradossale, più chiaramente l’artista vede il modello, più chiaramente noi
vediamo attraverso il disegno l’artista stesso.
Cogliere il rapporto tra le parti e il tutto: vedere- per così dire- sia l’albero che la
foresta.
(Rimbaud)
(Tzara)
Se tutti hanno ragione e tutte le pillole sono pillole pink, proviamo a non aver ragione.
(Doestoevskij su l’idiota)
Di questo romanzo non sono contento, esso non esprime neppure la decima parte di
ciò che volevo esprimere. Tuttavia non lo rinnego e conservo dell’amore per la mia
idea abortita.
(Hugo)
(Artaud)
Ho fatto conoscenza con tutti gli ex dadaisti che vorrebbero tirarmi nella loro nave
surrealista, ma non se ne fa niente. Io sono troppo più surrealista di loro per fare
questo. Lo sono sempre stato e so bene che cosa sia il surrealismo. Infatti e il sistema
del mondo e del pensiero che ho da sempre.
Teorizzare l’assenza, il manque, la perdita progressiva della facoltà di pensare e di
comunicare.
(Carver)
L’ambizione e un po’ di fortuna sono cose che possono essere di molto aiuto ad uno
scrittore, se ce l’ha. Troppa ambizione e poca fortuna, se non proprio scalogna,
possono rovinarlo. Ma soprattutto bisogna avere talento. Ci sono scrittori che di
talento ne hanno tanto, non conosco scrittori che non ne abbiano. Ma un modo di
vedere le cose originale e preciso e l’abilità di trovare il contesto giusto per
esprimerlo, sono un’altra cosa. E’ una delle cose che contraddistingue uno scrittore,
e non è il talento. Di quello ce n’è anche troppo in giro. Ma uno scrittore che ha una
maniera particolare di guardare le cose e riesce a dare espressione artistica alla sua
maniera di guardare le cose, è uno scrittore che durerà per un pezzo.
I veri sperimentatori devono rendere tutto nuovo, come consigliava Pound, e in questo
processo devono scoprire le cose da soli. Ma, a meno che non siano usciti di senno,
devono anche voler rimanere in contatto con noi, devono portare a noi notizie dal
loro mondo.
Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto
giusto.
Niente trucchi.
Se le parole e i sentimenti sono disonesti, se l’autore bara e scrive di cose che non gli
stanno a cuore, o di cui non è convinto, allora non può aspettarsi che qualcun altro
mostri interesse per il racconto.
Se non si riesce, dico io, a rendere quello che si scrive al meglio delle nostre
possibilità, allora che si scrive a fare? Alla fin fine, la soddisfazione di aver fatto del
nostro meglio e la prova del nostro sforzo sono le uniche cose che ci possiamo
portare appresso nella tomba. Al mio amico avevo una gran voglia di dire: per l’amor
del cielo, mettiti a fare qualcos’altro, devono esserci modi più facili e forse anche più
onesti di guadagnarsi da vivere. Oppure cerca di farlo come meglio puoi, mettici
dentro tutto il tuo talento, ma poi non ti giustificare, non cercare scuse, risparmiaci i
lamenti e le spiegazioni.
Avevo avuto un’intuizione. E allora? Che cosa sono le intuizioni? Non danno alcun
aiuto. Solo, rendono ancora più difficili le cose.
L’accuratezza, la precisione.
Le parole possono essere precise anche al punto da apparire piatte, l’importante è che
siano cariche di significato. Se usate bene, possono toccare tutte le note.
Uno dei principi fondamentali era questo: uno scrittore scopre quello che vuole
dire mediante un continuo processo consistente nel vedere quello che ha già
detto. E questa visione, questo processo di messa a fuoco della visione, si ottiene
mediante la revisione.
Una delle cose che ho imparato è che dovevo piegarmi, altrimenti mi sarei spezzato.
E ho anche imparato che è possibile piegarsi e spezzarsi allo stesso tempo.
(Checov)
(Wallace)
L'ironia postmoderna
L'ironia e il cinismo erano esattamente la reazione che ci voleva
all'ipocrisia americana degli anni Cinquanta e Sessanta. È questo che
rende i primi scrittori postmoderni dei grandissimi artisti. Il grosso
merito dell'ironia è che spacca le cose a metà e va a guardarle
dall'alto in basso, così da rivelarne i difetti, le ipocrisie e i
doppioni. Il sarcasmo e l'ironia sono ottimi modi per strappare le
maschere e mostrare la realtà sgradevole che c'è sotto. Il problema è
che, una volta che le regole dell'arte sono state smantellate, e una
volta che le sgradevoli realtà diagnosticate dall'ironia sono state
rivelate in pieno, "a quel punto" che facciamo? […] A quanto pare,
vogliamo solo continuare a mettere in ridicolo la realtà. L'ironia e
il cinismo postmoderni diventano un fine a se stessi, una misura della
sofisticatezza e della spregiudicatezza letteraria degli scrittori.
Pochi artisti osano parlare dei modi in cui si possa tentare di
aggiustare quello che non va, perché sembreranno sentimentali e
ingenui agli smaliziati ironisti. L'ironia si è trasformata da un
mezzo di liberazione in un mezzo di schiavitù.
(…) Vi è poi un certo tipo di arte (e di letteratura) che richiede al lettore una quantità
di fatica che è ridicolmente sproporzionata rispetto alla soddisfazione che ne trae.
(Non avevo idea che il novanta per cento di quello che traevo dai libri che amavo
fosse il senso di una conversazione attorno alla solitudine.)
Per me buona parte dell'esperienza estetica è erotica. Si prova uno strano senso di
intimità, ad esempio, con gli attori di uno spettacolo teatrale, una sorta di fantasia di
essere loro o di desiderarli come corpi.
Bisogna sedurre lo spettatore, ma senza manipolarlo.
(Bruno Schulz)
La materia.
In una parola, noi vogliamo creare una seconda volta l’uomo, a immagine e
somiglianza di un manichino.
(Kubrick)
(…) In questo senso il film diventa qualsiasi cosa lo spettatore vi veda dentro. Se il
film suscita emozioni e penetra nel subconscio dello spettatore, se stimola, seppure in
modo grezzo, i suoi aneliti e impulsi mitologici e religiosi, allora è riuscito nel suo
scopo.
Sul piano delle emozioni le persone si assomigliano molto di più che sul piano
intellettuale. Il legame comune è la loro reazione emotiva e inconscia. Guardare un
film è come fare un sogno ad occhi aperti. Agisce su parti del cervello che vengono
raggiunte solo dai sogni o dal teatro, e lì si possono esplorare le cose senza alcuna
responsabilità dell’ego conscio e della coscienza.
(Mamet)
Qualcuno che per nascita, formazione o predisposizione è dotato o spinto a fare ordine
nel caos o viceversa. E’ un lavoro che attira chi gode delle sfide, del caos,
dell’incertezza e dell’interazione umana. Chi ama improvvisare, chi preferirebbe
morire piuttosto che tornare fra i comuni mortali.
(Rodari)
La parola.
Un sasso gettato in uno stagno suscita onde concentriche che si allargano sulla
superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la
ninfea e la canna, la barchetta di carta e il galleggiante.
Non diversamente una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e
di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua
caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni, in un movimento che
interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio e che è complicato dal
fatto che la stessa mente non assiste passiva alla rappresentazione, ma vi interviene
continuamente per accettare e respingere, collegare e censurare, costruire e
distruggere.
Una parola qualunque, scelta a caso, può funzionare come parola magica per
disseppellire campi della memoria che giacevano sotto la polvere del tempo.
Paul Valery diceva: Non c’è una parola che si possa comprendere se si va a fondo.
E Wittgenstein: Le parole sono come la pellicola superficiale su un’acqua profonda.
Lo spaesamento.
Max Ernst per spiegare il suo concetto di spaesamento sistematico: Egli si serviva
proprio dell’immagine di un armadio, quello dipinto da De Chirico nel bel mezzo di
un paesaggio classico, tra ulivi e templi greci. Così spaesato, precipitato in un
contesto inedito, l’armadio diventava un oggetto misterioso. Forse era pieno di vestiti
e forse no: ma certamente era pieno di fascino.
Nel binomio fantastico le parole non sono prese nel loro significato quotidiano, ma
liberate dalle catene verbali di cui fanno parte quotidianamente. Esse sono estraniate,
spaesato, gettate l’una contro l’altra in un cielo mai visto prima. Allora si trovano
nelle condizioni migliori per generare una storia.
Il tavolo e la sedia, ad esempio, che per noi sono oggetti consumati e quasi invisibili,
di cui ci serviamo automaticamente, sono a lungo per il bambino materiali di un’
esplorazione ambigua e pluridimensionale, in cui si danno la mano conoscenza e
affabulazione, esperienza e simbolizzazione.
Il bambino e la sua serietà di fondo (anche nel leggere i fumetti), l’impegno morale
che mette in tutte le sue cose.
Dobbiamo a Hegel una distinzione tra Immaginazione e Fantasia: Entrambe sono per
lui determinazioni dell’intelligenza: ma l’intelligenza come immaginazione è
semplicemente riproduttiva; come fantasia è invece creatrice.
E’ creativa una mente sempre al lavoro, sempre a far domande, a scoprir problemi
dove gli altri trovano risposte soddisfacenti, a suo agio nelle situazioni fluide nelle
quali gli altri fiutano soltanto pericoli.
Quello che mi sorprende, e in genere non si valuta abbastanza, è il fatto che quanto
uno scienziato cerca non è detto che sia ciò che alla fine trova. Le faccio un esempio.
Sarebbe stato molto complicato far nascere in un sol colpo la meccanica quantistica,
per la semplice ragione che dal momento che si distacca totalmente dal senso comune
nessuno sarebbe stato in grado di immaginarla.
Quando Planck gli ha dato un nome lo ha fatto perché ogni volta che si è trovato
davanti a un problema che non poteva risolvere con la fisica classica, lo accantonava.
E a forza di accumulare casi anomali o inspiegabili con gli strumenti tradizionali, è
riuscito a creare quell’insieme di “oggetti” che col tempo hanno dato vita alla teoria
dei quanti.
(Anonimo)
(Rezza)
(Yourcenar)
E' nel buio che devi guardare. Con disobbedienza, ottimismo e avventatezza.
(intervista a T. Scarpa)
(Anselm Kiefer)
Io sono sempre lo stesso. La sola differenza è che oggi so che sono capace di
dipingere. Non ho talento, ma la mia mano adesso sa dipingere. Naturalmente ho
sempre dei dubbi su quello che faccio, anche perché quando si crede di saper fare
bene qualcosa, diventa più facile sbagliarsi. Occorre fare attenzione e continuare a
interrogarsi criticamente. E’ il motivo per cui io non sono mai soddisfatto di quello
che ho fatto. E comunque ogni risultato è sempre provvisorio. Nulla è mai definitivo.
Appunti miei:
Anche nel teatro, che spesso arriva sempre con una cinquantina d’anni di ritardo sul
resto delle arti, si esercita oggi la sua morte, si cerca lo sguardo cinico, si tenta di
rielaborare e riabilitare il brutto, il kitsch, la cultura di massa. E, in italia almeno,
viene accolto come una novità. Dai critici sbandierata come una rivoluzione, una
liberazione, ma ben sanno loro stessi che è destinata ad essere sterile, non potrà
portare da nessuna parte. Ma si preferisce seguire questa corrente pur sapendo che
avrà breve durata, piuttosto che fermarsi e interrogarsi sul vero senso che l’arte può
avere oggi, nell’epoca in cui si trova a dover fronteggiare, sullo stesso campo e ad
armi impari, una mole di spettacolo d’intrattenimento che non ha precedenti.
Sulla provvisorietà: pensavo che in fondo questi anni di precarietà occidentale, di
economia e di lavoro, sono un’ occasione per l’uomo, anche per il più semplice degli
uomini, di misurarsi con ciò che in fondo la vita è: provvisoria e precaria.
(Morganti)
Il professionismo è faccenda di spettacolo e non di teatro. Il teatro è fatto di alea e
mistero (ha bisogno di bravi e grandi artigiani, semmai, non di professionisti). Perché
è fatto di spazi che vanno lasciati aperti, quegli spazi che un certo tipo di regia ha
occluso e occlude in tutti i modi, perché è molto più comodo stare coi piedi per terra
su un bel lastrone di cemento, che in bilico sugli abissi.
(Milosz)
Al fondo della poesia c'è una sorta di impudicizia che fa emergere quel che non
sapevamo di avere dentro. E allora restiamo ad occhi spalancati, come se una tigre,
con un balzo, ci si fosse parata davanti e se ne restassi lì, alla luce, agitando la coda.
Il flusso.
Vi sono quattro diverse figure che entrano in gioco nel processo della creazione:
Il Matto. L'architetto. Il carpentiere. Il giudice.
Spesso si va in crisi quando il giudice ostacola il matto.
Ma anche il rapporto tra architetto e carpentiere è un rapporto complicato, soprattutto
quando l'ultimo, deviato dal giudice, si lascia prendere la mano e si mette a correggere
il lavoro del primo.
(C. Bene)
Il nostro delirare in voce è un differire la morte. Noi si muore non appena abbiamo
smesso di parlare.
La verità non esiste, non esiste per il semplice fatto che ci è dato soltanto -nel delirio
del linguaggio- nominare le cose e non conoscerle.
Rifiutare qualsivoglia specifico d'arte. Quando ci si dice: io non sono pittore. E'
allora che bisogna dipingere.
L'arte è la vita come irrepetibilità dell'evento, vivente una volta sola. E perciò l'opera
è il materiale morto, il cadavere evacuato dall'evento.
(Appunti miei)
Dovrei scrivere due righe a proposito del rapporto con il me che lavora e crea.
Di quanto questo rapporto sia legato – e debitore, in un certo senso- al mio sentirmi
altro rispetto all'opera, una volta che questa è compiuta. E durante la creazione di
un'opera a guidarmi è il profondo rispetto che nutro nei suoi confronti e nei confronti
dell'arte. Al fondo, forse, vi è un senso di inferiorità, di inadeguatezza.
Poi dovrei parlare del mio difficile rapporto con la tecnica, che ho sempre sostituito
con la pratica, al cercare di scrivere delle regole, ma sempre sulla sabbia
effettivamente, perché si ricomincia sempre da capo, un po' come l'artigiano di kafka
che ogni mattino deve ricostruirsi la sega, il martello, la sedia su cui lavorare.
E cosa rispondo a chi mi domanda cos'è il teatro, oggi? E qual'è il teatro che
preferisco?
Forse direi più o meno così:
In fondo il teatro è un grande CORPUS in cui convivono tante manifestazioni. Da
spettatori per alcune ci vuole un certo addestramento, altre sono più immediate e
accessibili, ma in fondo la vera distinzione per me resta quella tra buon teatro e
cattivo teatro. Come per la musica e per l'arte tutta. Ed è una questione assolutamente
soggettiva. Questo se parliamo di Teatro. Se parliamo di arte teatrale allora il discorso
cambia e io non sono la persona giusta con cui discuterne. L'arte teatrale fa
riferimento a certe specificità artistiche (l'arte dell'attore, la regia, la drammaturgia), e
ad una serie di convenzioni e codici che ho frequentato poco e da cui – forse per
titubanza, forse per una certa lontananza congenita- mi sono sempre tenuto alla larga.
La fiaba ha cominciato a vivere come tale quando l'antico rito è caduto, lasciando di
sé solo il racconto. Le fiabe sarebbero nate per CADUTA: dal mondo sacro al mondo
laico. Poi vi è stata una SECONDA CADUTA: dal mondo laico al mondo
dell'infanzia, anche gli oggetti rituali e culturali sono approdati al mondo infantile,
ridotti a poco più che giocattoli (vedi il teatro di figura). Forse perchè solo i bambini
sono ancora in grado di attribuirgli il significato profondo e le storie di cui quegli
oggetti sono portatori.
Per il teatro è avvenuto su per giù lo stesso, dal momento che la società lo ha ridotto a
puro intrattenimento, svuotandolo del suo significato originale.
(G. Scabia)
Maestri veri, sempre, sono i bambini. I bambini non ancora adultizzati, non ancora
rincretiniti dal vendergli roba. Il bambino ha l’assoluto in sé, l’assoluto è il gioco, cioè
il teatro. Il gioco è dio, dio è gioco. Dio non è quello normativo che detta le tavole
della legge, è il grande gioco dell’universo. Il bambino è il suo sacerdote, fino a che
non viene rovinato dalla scuola, dal mestiere. Però, siccome i bambini nascono
sempre, il gioco si rimette sempre in gioco. È il fanciullino? No! Il bambino è un
essere feroce, tremendo, ma è l’assoluto gioco, l’assoluto in sé diverso, è maestro
perché non lo dice mai “io sono maestro”. Lui, è l’unico maestro che io riconosca.
Gianni Celati nel saggio sulla Fantastica Visione: Fare Riserva di Splendore.
(mie)
Io credo che uno dei problemi principali sia questo, a proposito del teatro: che il teatro
oggi c'è chi lo considera una lingua viva e chi lo considera una lingua morta. E il
problema è che chi lo considera una lingua morta è la stragrande maggioranza della
gente che il teatro lo fa. Le direzioni che allora si aprono sono due: la prima è una
spasmodica ricerca nel tentativo di reinventarlo e si finisce inevitabilmente per
allontanrsi dal teatro, lo si deforma e lo si snatura. La seconda direzione è quella di
assecondarlo nella sua forma morta, museale, che per forza di cose parla una lingua
che oggi non si rivolge a nessuno.
Io mi sento tra quelle persone che considera il teatro una lingua viva. Vivissima.
E per quanto mi è possibile cerco di farlo andando in fondo alla sua essenza, o
almeno, a quella che per me è la sua essenza.
Dicono Civica e Scarpellini: sempre più spesso si darà spettacolo (piuttosto che
generare teatro) facendo sbirluccicare tutti gli specchietti per le allodole a
disposizione: un testo classico, una regia che usa archetipi di teatralità
contemporanea, grandi scenografie, un mattatore attempato o un giovane divo,
attorniato da un cast di comprimari più o meno capaci.
Si tratta della versione aggiornata del Gran Teatro ottocentesco, che permette ai
produttori e ai distributori di essere giustamente soddisfatti mostrando il numero di
biglietti staccati grazie al pubblico accorso. Non si tratta di teatro popolare, o almeno,
non si tratta di teatro popolare per come lo intendo.
La domanda che mi sentirei di fare alla curatrice è questa: ma ciò che conta non è
proprio quello che succede dopo la “seconda età del pensiero” – come la chiama
Balzac? Ciò che si lascia alle spalle la sua fase preparatoria, perché è diventato
tutt’altro rispetto a essa? Lo domanderei non soltanto a Christine Macel, ma, se mai
fosse possibile, a tutti i suoi colleghi curatori e curatrici, a tutti gli artisti e artiste che
sempre più spesso annettono nell’opera quella fase condizionale, potenziale,
progettuale, situazionale, partecipativa, pluralistica, archivistica, documentale, che
diffrange ciò che si fa e lo delega alle circostanze, al caso, ai collaboratori, al pullulare
delle varie declinazioni, alla raccolta di fenomeni e reperti che il passato ha
involontariamente accumulato, alla trasformazione autonoma dei materiali,
all’indipendenza robotica delle tecniche…
Mi sembra che tutto questo sia il segno di una generale sfiducia nell’affermazione,
sfiducia nella dicitura (più ancora che sfiducia nell’opera). Sfiducia nell’atto stesso di
affermare, di dire. Non si crede più a nulla, si diffida della sincerità di chiunque dica
qualcosa; qualunque cosa. Si suppone che tutto ciò che viene detto sia solo un mezzo
per ottenere un effetto: per avere successo, per vendere, per farsi eleggere, per fare
carriera, per imporre una politica, un prodotto, una moda, una classe. In questo
paesaggio di diffidenza radicale, una delle contromosse per riacquistare credibilità
può essere quella di mostrare le condizioni che portano a un’affermazione; condizioni
che ne attestano la bontà, che garantiscono la sua verità e il suo valore: fino al punto
che queste condizioni di dicibilità sostituiscono la dicitura, l’affermazione stessa.
(Balzac)
Un pensiero ha tre età.
Se lo esprimi durante il calore prolifico del suo concepimento, lo realizzerai
velocemente, con un getto che potrà essere più o meno felice, ma in ogni caso sarà
pregno di uno slancio pindarico. Come Daguerre, che si chiude per venti giorni a fare
il suo mirabile dipinto dell’isola di Sant’Elena, con un’ispirazione veramente
dantesca.
Arriva l’età finale del pensiero. Si è impiantato, ha messo radici nella tua anima, è
maturato in essa; e poi, una sera, o un mattino, mentre il poeta si toglie la sua
sciarpetta, mentre il pittore è ancora lì che sbadiglia, mentre il compositore sta per
spegnere la lampada soffiandoci sopra, e gli ritorna in mente un gorgheggio
dolcissimo, e rivede nel ricordo un piedino di donna o una di quelle cose indefinibili
da cui si viene permeati quando ci si assopisce o ci si sveglia, ecco che percepiscono
la loro idea in tutta la grazia del suo fiorire, del suo ramificarsi e infogliarsi, l’idea
maliziosa, lussureggiante, lussuosa, bella come una donna magnificamente bella, bella
come un cavallo senza difetti!
E allora il pittore tira un calcio alla sua coperta (se mai ce l’ha, una coperta), e si
mette a gridare: “Basta! Farò il mio quadro!”
Il poeta, che aveva soltanto un’idea, si ritrova a capo di un’opera intera.
“Sia maledetta quest’epoca!”, dice scagliando uno dei suoi stivali da una parte
all’altra della camera.
È questa la teoria dell’andatura delle nostre idee.
(Borges)
il poeta sa bene di avere ricevuto in dono il mondo con tutte le sue meraviglie, eppure
non è ancora riuscito a ricavarne una poesia: “Y todavía no has escrito el poema”.
(Civica)
Per chi faccio teatro?
Per una persona che non ho mai incontrato e di cui provo nostalgia.
(Elia Kazan)
"Ho sempre più difficoltà a trovare degli attori. Perché la maggior parte di loro vive
una vita 'da caffè'. C'è la scuola, il caffè, gli stages, i provini e parlano e si interessano
solo di questo... La vita non riesce a segnare i loro volti. Non vivono la vita difficile e
disperata che gli uomini vivono tutti i giorni. Per la maggior parte sono immaturi,
viziati e ben pasciuti. I loro visi non sono stati stravolti o illuminati... in breve non
recano su di sé i segni della vita vissuta. E' rarissimo trovare un attore che abbia questi
segni e ancora più raro trovarne uno che sappia "recitarli".
Prendiamo Brando, il miglio attore con cui abbia lavorato. Quando abbiamo fatto
FRONTE DEL PORTO era un attore molto migliore di quello che è oggi. Non è che
abbia perso tutto il suo talento, solo che allora era un giovane uomo infelice, ansioso,
che dubitava di se stesso ed era solitario, orgoglioso e ipersensibile. Non era facile
avere a che fare con lui, ma era un essere umano meraviglioso che non potevi non
amare, perché sentivi che nulla lo separava e lo proteggeva dalla vita, che era
immerso nella vita.
Poi il successo lo ha portato ad isolarsi, a non voler più far esperienze di vita. Così più
un attore ha successo, più assomiglia a un frutto di cera. E i frutti di cera non si
possono né offrire né mangiare".
(Elia Kazan)
"Se un artista fa qualcosa che, insieme, parla PER te e A te - se riesce ad esprimere
quello che tu senti ma non riesci ad esprimere - allora dovresti essergli grato".
"Da giovane ho recitato con James Cagney e lui, da attore, mi ha dato il miglior
consiglio per un attore: 'Don't show it, just do it' (non mostrarlo, fallo soltanto/non
devi mostrare, devi soltanto agire)".
(Elia Kazan)
"I francesi hanno una parola meravigliosa per designare 'il regista': lo chiamano
'réalisateur'. Ecco, io realizzo l'autore".
Anch'io che sono anche autore.
(Ingmar Bergman)
"Nel 1943 il mio primo insegnante di teatro mi disse che un regista deve saper fare
due cose: stare zitto e ascoltare gli attori. A tutt'oggi è il miglior insegnamento che ho
ricevuto".
(Joseph L. Mankiewicz)
"Ci sono registi che per tutta la vita si inseriscono tra gli spettatori e lo schermo
dicendo: 'Guardami! Sono un regista! Guarda che bella ripresa che ho fatto!'.
Evidentemente hanno avuto un'interruzione nello sviluppo della loro personalità, sono
rimasti bloccati alla fase in cui il bambino pensa di essere la cosa più importante che
c'è e quindi dice a tutti: "Guardate quello che faccio!".
Credo che ci sia uno scopo migliore nella vita che quello di farsi dire che si è bravi.
Infondo questi registi anno bisogno di essere adorati, quindi hanno l'animo dei servi:
come i cani che, per farsi dire bravo dal padrone, piroettano vorticosamente su se
stessi".
(Camillo Sbarbaro)
"Le illusioni sono il lievito della vita e gli errori il suo sale".
(Civica)
A senso, non razionalmente, mi par di intuire che a teatro la provocazione è una forma
di straniamento, che impedisce l'identificazione e l'empatia. Non poggiando
sull'empatia, lo straniamento e la provocazione persuadono i già persuasi e respingono
i non persuasi, che rimangono tali.
Un teatro che vuole "trasformare in meglio" gli spettatori deve in partenza amarli,
dunque essere empatico e mirare alla condivisione.
Il tutto detto malissimo e confusamente.