1.- La riforma della legge fallimentare non disciplina gli accordi
stragiudiziali per la definizione delle crisi d'impresa, se non per la parte in cui prevede, all’art. 67, l'esonero dalla revocatoria degli atti, dei pagamenti e delle garanzie concesse su beni del debitore, purché posti in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento dell'esposizione debitoria dell'impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria (a condizione che la ragionevolezza di questo piano sia attestata da un professionista iscritto nel registro dei revisori contabili ai sensi dell'articolo 2501bis cod. civ.). Non sembra ragionevole assumere che l'esonero da revocatoria si estenda anche alle ipotesi non contemplate (artt. 64 e 65 l. fall.). Non ha senso, infatti, assumere che l'accordo possa proteggere operazioni incompatibili con programmi di risanamento della situazione debitoria, come gli atti a titolo gratuito. Per le medesime ragioni, l'esenzione non si applica all'obbligo di restituzione dei finanziamenti dei soci rimborsati nell'anno antecedente alla dichiarazione di fallimento ovvero dei finanziamenti restituiti a chi esercita attività di direzione e di coordinamento. L'accordo stragiudiziale, in quanto tale, non era, prima, e non è, ora, affatto disciplinato. Nel contesto della disciplina previgente, il cosiddetto concordato stragiudiziale veniva definito come un rimedio di natura contrattuale contro l'insolvenza dell'imprenditore commerciale diretto alla sistemazione del dissesto al di fuori dei procedimenti concorsuali (Provinciali). Non v'era dubbio sulla qualificazione contrattuale di questo accordo, come espressione dell'autonomia privata. Dal punto di vista del contenuto, le pattuizioni più frequente erano (e sono): a) il c.d. pactum de non petendo, vale a dire: il patto il quale i creditori stipulanti si impegnavano a non richiedere l'adempimento per un certo periodo di tempo (con questo patto il creditore non può esigere il credito prima della scadenza rinegoziata, mentre la mera dilazione consente al creditore di cambiare idea in ogni momento); b) la conversione del credito in capitale di rischio (talvolta, per non rischiare di non poter dedurre la perdita su crediti, si dà corso a cessioni di crediti a prezzi simbolici a società partecipate dai creditori, che successivamente convertono i crediti in capitale); c) il trasferimento a terzi dell'attività produttiva. L'accordo stragiudiziale, peraltro, soffriva di alcuni limiti evidenti: a) in primo luogo, a differenza delle procedure concordatarie, non consentiva di vincolare i creditori dissenzienti; b) in secondo luogo, non attribuiva alcuna stabilità ad atti, pagamenti e garanzie posti in essere in sua attuazione (indipendentemente dal fatto che tale attuazione avvenisse in un contesto di auspicato risanamento dell'impresa ovvero di un programma avente ad oggetto l'ordinata liquidazione); c) in terzo luogo, non consentiva ai soggetti disponibili ad erogare nuova finanza di ottenere la prededucibilità dei loro crediti; d) in quarto luogo, esponeva i partecipanti al medesimo a rischi civili e penali, qualora l'accordo non avesse comunque impedito la dichiarazione di fallimento. Peraltro, nonostante la prassi ricorresse a questi accordi pur in presenza degli inconvenienti segnalati, veniva messa in dubbio la stessa compatibilità sistematica di tali accordi con l'ordinamento in presenza di una situazione di insolvenza. Si osservava infatti che, a fronte dell'obbligo dell'imprenditore insolvente di richiedere il proprio fallimento, non residuava spazio per l'accordo stragiudiziale dell'imprenditore in stato di decozione, dovendosi tutt'al più ritenere ammissibile soltanto l'accordo dell'imprenditore non insolvente che ambisse a chiudere la propria attività transigendo le pretese dei propri creditori. Inoltre, si osservava che l'accordo strutturalmente portava alla violazione della parità di trattamento fra i creditori, essendo normalmente il frutto delle pressioni esercitate dai creditori più intransigenti. In questo contesto si spiega molto bene il perché, potendo il fallimento essere dichiarato d'ufficio, l'eventuale desistenza del creditore dal ricorso per la dichiarazione di fallimento non valesse a determinare l'archiviazione del procedimento, dovendo invece essere valutata insieme ai dati raccolti ovvero acquisibili da parte del tribunale. Maggiore elasticità era invece concepita nel caso dell'imprenditore, che si trovasse in una situazione di temporanea difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni, vale a dire: la situazione che legittimava il ricorso all'amministrazione controllata. Per la verità, non esisteva alcuna ragione per distinguere strutturalmente tra insolvenza e temporanea difficoltà ad adempiere; tuttavia si riteneva che l'esclusiva legittimazione dell'imprenditore a richiedere l'ammissione alla procedura rendesse ammissibile una gestione negoziale di tale temporanea difficoltà.
2.- La possibilità di una soluzione negoziale e quindi stragiudiziale
dell'insolvenza sembra invece oggi possibile, salvo i rilievi verranno esaminati infra. Il contesto è infatti mutato: il legislatore della riforma sembra aver ampliato i confini dell'autonomia privata nella prospettiva di una privatizzazione e de-giurisdizionalizzazione dell'insolvenza nei limiti del possibile. Indici di questo mutamento di indirizzo sono rinvenibili ovunque: dalla gestione della procedura affidata al comitato dei creditori, all'eliminazione (quantomeno parziale) del controllo giudiziario sulla proposta di concordato, sino a giungere alla recente sentenza della corte di Cassazione, secondo la quale il tribunale non può segnalare al pubblico ministero una situazione di insolvenza in presenza di una desistenza del creditore, poiché non è più possibile la dichiarazione di fallimento d'ufficio e con la segnalazione il giudice perderebbe la terzietà. In questo contesto si inserisce il nuovo testo dell’art. 67 l. fall., che prevede un accordo stragiudiziale di natura rigorosamente contrattuale; e che merita quindi di essere contrapposto al concordato preventivo ed all'accordo di ristrutturazione, che sono comunque soggetti ad una omologazione (anche se l’accordo di ristrutturazione è anch'esso espressione della volontà del legislatore di favorire la soluzione negoziale della crisi). Quanto al contenuto, dal punto di vista meramente descrittivo non c'è ragione di dubitare che esso possa coincidere interamente con quanto previsto in tema di concordato preventivo dal primo comma dell’art. 160 l. fall.. L'accordo stragiudiziale potrà quindi prevedere la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione del credito in qualsiasi forma, anche mediante cessioni di beni, accollo o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l'attribuzione al creditori od a società da questi partecipate di azioni, quote, obbligazioni o strumenti finanziari, l'attribuzione dell'attività di impresa ad un assuntore, la suddivisione dei creditori in classi, la previsione un trattamento differenziato tra creditori appartenenti a classi diverse. In sostanza, l'accordo può avere contenuto solutorio totale o parziale e/o remissorio totale o parziale e/o novativo e/o dilatorio, ovvero di garanzia (nel senso che un terzo può garantire l'adempimento delle obbligazioni contenute nell'accordo).
3.- C’è consenso generale nell'affermare che l'accordo
stragiudiziale costituisce il primo possibile livello di composizione nell'ambito della crisi d'impresa, senza alcun intervento dell'autorità giudiziaria. Peraltro, dopo questa osservazione iniziale, il dibattito è aperto su ogni possibile profilo. Innanzitutto, non è chiaro quale tipo di crisi dovrebbe poter essere disciplinata dall'accordo stragiudiziale. Vi è infatti chi afferma che l'accordo stragiudiziale dovrebbe consentire la regolazione soltanto della crisi transitoria, essendo votato al risanamento (Ferro). Si tratta qui del portato storico della vecchia teoria, secondo la quale nel contesto dell'amministrazione controllata non poteva darsi corso ad attività di liquidazione dell'azienda, che invece potevano essere dedotte soltanto nel contesto di una proposta di concordato preventivo. Ma non esiste alcun sostegno testuale in questo senso; e non si comprende perché - specialmente in un contesto dove l’autonomia privata è ora particolarmente favorita - l'accordo stragiudiziale non dovrebbe poter disciplinare anche la crisi non transitoria. D'altro canto, l'art. 67 l. fall. si limita a parlare di piano, il quale consenta il risanamento non dell'impresa ma dell’esposizione debitoria, dunque la crisi dell'impresa può ben essere definitiva se il risanamento non ha luogo. Non sembra poi possibile argomentare, come pure alcuni fanno, dall’esistenza di norme che sanzionano l'aggravio del dissesto ovvero il ritardo nella dichiarazione di fallimento e dalla mancata deroga di queste norme dall’art. 67, 3° comma, l. fall., nel senso che il piano di risanamento dovrebbe favorire la soluzione di crisi temporanee di imprese non insolventi. Infatti, la legge fallimentare non conosce una definizione di situazione critica diversa dalla pura e semplice insolvenza. Lo “stato di crisi”, presupposto del concordato preventivo, non ha definizione legislativa. Gli interpreti si limitano a osservare che lo stato di crisi deve essere qualcosa di meno dell'insolvenza, essendo ovviamente giustificato che l'imprenditore possa voler ristrutturare l'indebitamento della propria impresa prima dell'insolvenza. Ad ogni modo, l’art. 67 non limita l'applicabilità dell'accordo stragiudiziale allo stato di crisi. Non pare quindi corretto assumere che l’accordo stragiudiziale sia possibile soltanto in situazioni, di cui neppure si conosce la definizione. La norma, in realtà, si limita a disporre l'esenzione da revocatoria; e la revocatoria è la conseguenza dell'insolvenza. Non ha senso prevedere l'esonero da revocatoria se non pensando ad una futura insolvenza; ed è quindi chiaro che l'accordo stragiudiziale, sia nella prospettiva dell'imprenditore, sia nella prospettiva dei creditori, deve avere per oggetto la rimozione dell'insolvenza. L’accordo stragiudiziale può quindi senz'altro avere ad oggetto la rimozione di una situazione di insolvenza.
4.- Anche quanto al possibile contenuto dell’accordo stragiudiziale
non mancano dubbi strutturali. Ci si chiede, in primo luogo, se l’accordo si possa risolvere in una mera dilazione dei debiti, ovvero debbano essere indicati in dettaglio gli interventi previsti per il risanamento dell'impresa. La domanda, posta in questi termini, trova già la sua risposta nel testo della norma. L'art. 67, infatti, dispone l'esenzione da revocatoria anche in relazione alle costituzioni di garanzie; e non si vede perché l’accordo non possa prevedere il rilascio di garanzie da parte dell'imprenditore su cespiti dell'impresa, come condizione per una pura e semplice dilazione. In secondo luogo, si osserva che l’accordo stragiudiziale non potrebbe prevedere impegni di mero carattere solutorio, che non prevedano una riequilibrio dell'esposizione finanziaria dell'impresa mediante risorse proprie del debitore oppure attraverso nuova finanza (Giannelli). Ciò si afferma perché la ragionevolezza del piano dovrebbe essere attestata secondo quanto disposto dalla legge in tema di fusione con indebitamento: la relazione dell'esperto dovrebbe infatti illustrare le ragioni che giustificano l'operazione e contenere un piano economico- finanziario con l’indicazione della fonte delle risorse finanziarie e la descrizione degli obiettivi che si intendono raggiungere. Da ciò si concluderebbe, a differenza degli accordi di ristrutturazione, i quali possono avere una finalità liquidatoria, che l'accordo stragiudiziale con annesso piano di risanamento dovrebbe essere necessariamente finalizzato al superamento della crisi ed al riequilibrio della situazione finanziaria dell'impresa. Questa impostazione, che tra l'altro ha il difetto di non lasciare libertà di scelta all'imprenditore quanto al fine da realizzare mediante l’uno o l'altro strumento, non pare condivisibile. Innanzitutto, non pare che l'espressione “risanamento”, contenuta nell'art. 67 l. fall., sia riconducibile alle “concrete prospettive di recupero dell'equilibrio economico”, richieste per l'ammissione dell'impresa all'amministrazione straordinaria. L'espressione “risanamento”, infatti, è riferita alla “esposizione debitoria dell'impresa” e non alla impresa tout court ovvero all'azienda. Inoltre, non avrebbe senso porre limiti agli atti che possono essere compiuti nel contesto del piano; e non può dunque escludersi che il medesimo ipotizzi anche un mutamento degli assetti organizzativi o proprietari ovvero una dismissione della stessa azienda. Basta questa osservazione per rendersi conto che il risanamento della situazione debitoria può senz'altro aver luogo mediante una attività di liquidazione. Sotto questo profilo, il richiamo alla ragionevolezza significa semplicemente che il piano necessario per ottenere l'esonero dalla revocatoria non deve soltanto sembrare idoneo, ma anche ragionevole. Vale a dire: può esservi un piano idoneo, ma non ragionevole, mentre il piano di cui si tratta in questa è il piano ad un tempo idoneo e ragionevole. In questa prospettiva può essere idoneo e ragionevole anche il piano che preveda dismissioni ed alienazioni di cespiti per eliminare l'insolvenza. Il richiamo alle norme sulla fusione con indebitamento non va quindi inteso nel senso di necessaria continuazione dell'impresa semplicemente perché nella fusione con indebitamento l'attività d'impresa prosegue. Il richiamo va invece riferito soprattutto alle qualità professionali di chi redige il piano: anche nell'ipotesi di piano attestato il legislatore demanda ad una disciplina procedimentale l'assolvimento di obblighi di serietà e di cautela sottesi alle operazioni realizzate in un momento critico per l'impresa. Le operazioni oggetto del piano vanno quindi sottoposte a un vaglio di ragionevolezza rispetto all'esposizione debitoria corrente, con un ovvio richiamo alle valutazioni prospettiche che debbono essere espresse nel corso della fusione per acquisizione con indebitamento, quanto alle risorse finanziarie necessarie per il soddisfacimento delle obbligazioni della società. In questo contesto, tra l’altro, non può certo assumersi che il richiamo alla norma imponga che l'esperto sia nominato dal tribunale nel caso la società sia una società per azioni. L’attestazione è rivolta a garantire il ceto creditorio della ragionevolezza dell'attività realizzata e non può ritenersi che il legislatore abbia inteso presidiare le funzioni di terzietà dell'esperto in relazione oltretutto ad un solo tipo societario, non avendo predisposto nulla a proposito del potere di nomina. L’accordo stragiudiziale può quindi disciplinare la sistemazione della situazione finanziaria di un'impresa anche nella prospettiva della sua liquidazione. 5.- Il piano di risanamento non deve necessariamente essere concordato con i creditori nel contesto di un accordo stragiudiziale, ben potendo trattarsi di atto del solo imprenditore. Può immaginarsi a questo riguardo il caso in cui il risanamento sia attuato attraverso operazioni di aumento di capitale o comunque attingendo a risorse di terzi, senza dunque un accordo con i creditori, ma pare difficile assumere che il creditore in qualche modo non debba prestare adesione al piano di risanamento anche in assenza di un vero e proprio accordo. L'esonero da revocatoria presuppone infatti che il piano venga prodotto come argomento difensivo da parte del creditore, per l’eliminazione vuoi dell’elemento soggettivo, vuoi dell’elemento oggettivo dell’azione; dunque il creditore deve assumerne la conoscenza, la ragionevolezza, e l'affidamento fatto sul medesimo ai fini dell'ottenimento dell'esonero. Pare peraltro ragionevole assumere che il piano debba avere data certa, in modo che la sua anteriorità rispetto agli atti posti in sua esecuzione sia evidente. Ci si può poi chiedere se, ai fini dell'esonero da revocatoria, sia necessario che gli atti esonerati siano tutti posteriori al piano. Nella pratica, in realtà, può ben accadere che l'imprenditore dia corso ad una dismissione di cespiti al fine di procurarsi una liquidità, in virtù della quale può immaginare un accordo di ristrutturazione ed un piano di risanamento, oppure che l'opportunità della cessione si crei prima che il piano sia stato confezionato. Sembrerebbe ragionevole concludere nel senso che, se le risorse procurate con la dismissione vengono impiegate nel contesto dell'accordo stragiudiziale accompagnato dal piano, anche gli atti con cui la provvista necessaria per l'esecuzione del piano è stata procurata dovrebbero essere esonerati dalla revocatoria, prescindendo dal contesto meramente temporale.
6.- Il verbo “apparire” prevede che la valutazione dell'esperto si
risolva in giudizio prognostico, prospettico. L'espressione “ragionevolezza” invece sottende la necessità che la realizzazione degli obiettivi fissati dal piano paia verosimile, non bastando una probabilità ovvero una possibilità. Ovviamente, in tanto di ragionevolezza potrà parlarsi, in quanto le ragioni del piano siano note e percepibili: in nessun caso potrà rivelarsi sufficiente una sorta di visto di ragionevolezza. La ragionevolezza, peraltro, dovrà essere accertata dall'autorità giudiziaria nel contesto di un'azione revocatoria comunque promossa dal curatore. Non è infatti pensabile che l'attestazione di ragionevolezza precluda la promozione delle azioni; ed anzi un'autonoma valutazione della ragionevolezza da parte dell'autorità giudiziaria assicura una più incisiva tutela dei creditori estranei all'accordo stragiudiziale. Il piano, infatti, non deve necessariamente regolare la sistemazione nei confronti di un numero minimo di creditori ovvero l'eliminazione di una certa percentuale dell'indebitamento dell'impresa. L'esenzione da revocatoria riguarda gli atti ed i pagamenti compiuti in esecuzione del piano, sull’evidente presupposto che i medesimi abbiano alterato la parità di trattamento e siano stati eseguiti soltanto a favore di alcuni creditori. Quindi l'accordo stragiudiziale crea effettivamente una categoria di creditori preferiti, la cui selezione è opera dell'imprenditore: l'accordo stragiudiziale con annesso piano di risanamento può dunque costituire un veicolo ideale per, e nel contempo un pericolo reale di, trattamenti privilegiati. La ragionevolezza dunque potrà essere apprezzata anche in relazione alla suddivisione dei creditori in classi ed al trattamento riservato a ciascuna classe. Per esemplificare, sarebbe irragionevole un piano che prevedesse un soddisfacimento del ceto bancario chirografario superiore al ceto dei fornitori chirografari. La ragione per la differenza di trattamento sarebbe infatti molto difficile da individuare.
7.- Ci si può chiedere, quale responsabilità possa assumere
l'esperto che redige il piano. È evidente la responsabilità che questi può assumere nei confronti dell'imprenditore che gli ha affidato l'incarico, mentre è più difficile ricostruire la disciplina della responsabilità verso i creditori e verso i terzi. Alcuni affermano che si tratterebbe di responsabilità da prospetto, a fronte dell'affidamento che i terzi fanno sulle informazioni attestate dall'esperto. Peraltro, se il terzo confida nella esenzione dalla revocatoria, non può non sapere che l'esenzione dipenderà da una valutazione ex post del piano, dunque difficilmente sarà configurabile una responsabilità dell'esperto. Infatti, se il piano è vistosamente assurdo, male fa il terzo a prestarvi affidamento, se il piano è invece plausibile, non per ciò solo il terzo potrà fare affidamento sull'esonero, dipendendo quest'ultimo dalla decisione del giudice sulla ragionevolezza. D'altro canto, una responsabilità dell'esperto nei confronti del creditore è difficile da immaginare anche in presenza di dati falsi del piano. Se il piano contiene dati falsi ma si presenta come ragionevole, si pone il problema della consapevolezza o meno del terzo di tale falsità: se il terzo non è consapevole, difficilmente lo si potrà assoggettare a revocatoria, avendo egli fatto ragionevole affidamento su un piano fondato su dati falsi, al medesimo ignoti. La responsabilità dell'esperto pare dunque confinata al caso in cui il terzo faccia affidamento su un piano la cui irragionevolezza è successivamente accertata sulla scorta di argomenti, che il terzo avrebbe potuto o dovuto conoscere.
8.- L'accordo previsto dall'art. 67 l. fall. nella versione novellata
risolve soltanto il problema dell'esonero dalla revocatoria fallimentare tout court in presenza di un piano ragionevole finalizzato al risanamento dell'esposizione debitoria dell'impresa ed al riequilibrio della relativa situazione finanziaria, accertato dal giudice come tale. Gli atti, i pagamenti e le garanzie costituite in esecuzione dell'accordo restano revocabili in assenza di un piano ragionevole, ovvero in assenza di un piano tout court; e resta così ferma la responsabilità di chi ha contribuito al perfezionamento ed all'esecuzione dell'accordo stragiudiziale, se l'insolvenza non viene rimossa. L'unica cosa della quale ci si può davvero rammaricare (cosa questa che ha sancito anche l'insuccesso degli accordi di ristrutturazione ex art. 182 l. fall.) è che nulla è disposto per consentire la prededucibilità della nuova finanza, che è poi il presupposto indispensabile per qualunque operazione di risanamento. Questo risultato è ottenibile soltanto all'interno del concordato preventivo con prosecuzione dell'attività di impresa; e solo a condizione che la gestione dell'impresa abbia costituito modalità essenziale del concordato, perché era parte della proposta ovvero era oggetto dell'ammissione da parte del tribunale o dell'approvazione da parte dei creditori oppure oggetto dell'omologazione finale. In questo contesto, la nuova finanza necessaria a sostenere l'esercizio provvisorio può essere trattata come credito in prededuzione ai sensi dell'art. 111, secondo comma, l. fall., in quanto credito sorto in funzione della procedura. Il concordato preventivo nella versione novellata si pone dunque come unico vero strumento, capace di assolvere in un'unica soluzione a tutte le esigenze di flessibilità collegate al risanamento, con l'aggiunta del controllo giurisdizionale. Il concordato preventivo, infatti, consente tutto ciò che può ragionevolmente occorrere per la ristrutturazione dell'esposizione debitoria: qualora abbia contenuto meramente dilatorio è un perfetto sostituto dell'amministrazione controllata (che per questo motivo è stata espunta); se è prevista la prosecuzione dell'attività di impresa consente la prededucibilità della nuova finanza; è accompagnato dal divieto delle azioni esecutive individuali.