Sei sulla pagina 1di 94

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI

“L’ORIENTALE”

Dipartimento di Studi Letterari, Linguistici e Comparati

Corso di Laurea in Mediazione Linguistica e Culturale

Linguistica applicata e traduzione

Tesi di laurea

in

Lingua e Linguistica Inglese L-Lin 12

Il linguaggio non verbale della menzogna.


Dall’analisi di “Telling Lies” di Paul Ekman alla panoramica sulla

menzogna nel mondo arabo.

RELATORE: CANDIDATA:

Ch.mo Prof. Sahbani Karima

Giuseppe Balirano Matr. ML/1428

ANNO ACCADEMICO 2012-2013

1
SOMMARIO

INTRODUZIONE. .......................................................................................................... 3
CAPITOLO 1 .LA COMUNICAZIONE VERBALE, PARAVERBALE E NON
VERBALE. ....................................................................................................................... 7
1.1 INTRODUZIONE ALLA COMUNICAZIONE NON VERBALE. ........................................... 7
1.2 PAUL EKMAN. LA SCIENZA, I LAVORI E LE INNOVAZIONI........................................ 11
1.2.1 LE RICERCHE. .................................................................................................... 17
1.3 IL COMPORTAMENTO NON VERBALE NELL’OTTICA DI PAUL EKMAN....................... 25
1.4 LE CINQUE CATEGORIE DEL COMPORTAMENTO NON VERBALE. ............................. 30
1.4.1 EMBLEMI. .......................................................................................................... 30
1.4.2 ILLUSTRATORI. ................................................................................................... 31
1.4.3 REGOLATORI. ..................................................................................................... 33
1.4.4 ADATTATORI. ..................................................................................................... 34
1.4.5 AFFECT DISPLAYS. .............................................................................................. 35
CAPITOLO 2.IL COMPORTAMENTO NON VERBALE DELLA MENZOGNA. .. 40
2.1 INTRODUZIONE ALLA MENZOGNA. ....................................................................... 40
2.2 LE PAROLE. ........................................................................................................ 45
2.3 LA VOCE. ........................................................................................................... 47
2.4 IL CORPO. .......................................................................................................... 49
2.5 INDIZI DAL SISTEMA VEGETATIVO. ....................................................................... 52
2.6 IL VISO. .............................................................................................................. 55
CAPITOLO 3. “LIE TO ME”: IL CORPUS. .............................................................. 60
3.1 IL TELEFILM NATO DAL SUCCESSO DI “TELLING LIES”. ........................................ 60
3.2 ANALISI TRADUTTIVA DEI SOTTOTITOLI DELLA SERIE TV “LIE TO ME”. .................. 63
3.1 CONSIDERAZIONI GENERALI SULLA TRADUZIONE DEI SOTTOTITOLI. ...................... 81
CAPITOLO 4.UNA PANORAMICA SULL’INGANNO NEL MONDO ARABO. .... 84
4.1 DIFFERENZE TRA HIGH-CONTEXT CULTURES E LOW-CONTEXT CULTURES. ............ 84
4.2 IL CONCETTO DI TAQIYYA. .................................................................................. 86
CONCLUSIONI............................................................................................................. 90
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................... 92

2
Introduzione.

La scelta delle tematiche esposte ed analizzate nel mio elaborato è stata dettata

principalmente dal mio interesse per il linguaggio non verbale. Mi ha da sempre

affascinato il modo in cui comunichiamo con il corpo, lanciamo messaggi con gli

sguardi, interagiamo usando la mimica facciale e facciamo intuire come siamo fatti e

cosa pensiamo semplicemente attraverso i nostri atteggiamenti.

Il mio relatore mi ha suggerito di concentrare le ricerche sul linguaggio non verbale

della menzogna. Sono stata subito attratta da tale proposta per diversi motivi.

Innanzitutto si tratta di un campo d’indagine molto particolare e di recente sviluppo (si

pensi che sono circa trent’ anni che si indaga sulla menzogna) che affascina tantissimo

per la ricchezza di contenuto che presenta.

La ricerca sulla menzogna analizza, prima di ogni altra cosa, le esternazioni più evidenti

di tale fenomeno; lo fa osservando la mimica facciale, il corpo di chi mente (mani,

piedi, postura), la voce, l’intonazione, i gesti e altri segni indizio d’inganno.

Tali studi prendono avvio dalle teorie di Paul Ekman, pioniere nel campo della ricerca

scientifica in ambito di linguaggio e comportamento non verbale, microespressioni

facciali e rilevamento della menzogna.

Un altro motivo per cui sono stata estremamente colpita è stato la visione del telefilm

“Lie to me”, nato in seguito al successo del libro “Telling lies” di Paul Ekman. Tale

opera compie un’analisi dettagliata dell’inganno nei rapporti interpersonali, nella

politica, nelle occasioni pubbliche, nei tribunali. Il libro si articola in dieci capitoli

dedicati alla conoscenza della menzogna, ai modi in cui essa trapela, alle possibilità di

scoprirla, ai sentimenti circa la menzogna, agli strumenti usati per l’individuazione

3
dell’inganno, ai dubbi sorti nei confronti di tale scienza di rilevazione delle bugie. Il

telefilm spesso mostra una facilità eccessiva nell’individuazione dell’inganno anche se,

nella realtà, non è semplicissimo scoprire quando qualcuno mente. Se consideriamo i

casi dei bugiardi patologici, degli attori nati o dei sociopatici ci rendiamo ben conto di

questa cosa!

Un’ulteriore ragione che mi ha spinto ad indagare su queste teorie è la consapevolezza

che, oggigiorno, le persone sincere sono in netto calo. Probabilmente tendiamo a

mentire sempre più spesso perché è la società in cui viviamo che ci costringe ad agire in

questo modo. Generalmente siamo propensi a indossare una maschera, a vestire i panni

di qualcun altro. In alcuni casi recitiamo una parte pur di essere accettati dalla comunità,

pur di essere riconosciuti membri attivi della collettività. In altri casi non siamo capaci

di mostrare realmente chi siamo perché troppo fragili o inadatti a vivere in un mondo

che bada solo all’apparenza, all’esteriorità, alla posizione sociale ricoperta e non si cura

più dei rapporti umani, delle relazioni che dovrebbero costituire la base di una società

fondata sul rispetto reciproco, sulla meritocrazia, sulla volontà di dimostrare chi siamo

senza il bisogno di ricoprire un “ruolo” fittizio.

“La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date, ma è realtà per

voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do,

ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se

non nella forma che riesco a darmi. E come?Ma costruendomi, appunto.”

[Luigi Pirandello, Uno,nessuno e centomila, ed. Mondadori, 1969,

pp.59/60]

L’estremo relativismo riguardo la costruzione, la comunicazione e l’immagine di sé per

sé e per gli altri, è di Vitangelo Moscarda, protagonista di una delle più celebri opere di

4
Luigi Pirandello, scritta nel 1925 (ma il suo inizio data 1909), “Uno, nessuno e

centomila”, ultimo romanzo del grande scrittore siciliano.

Il protagonista indossa una maschera diversa ogni volta che si relaziona con qualcuno.

Allo stesso tempo è uno, nessuno e centomila: nessuno per se stesso, uno per ogni

persona con cui si relaziona e centomila per le molteplici identità che assume.

Costruisce il suo essere a seconda della situazione in cui si trova quindi la sua vita ruota

intorno all’inganno che crea di volta in volta.

Nel primo capitolo sarà affrontato il tema della comunicazione in linea generale poi sarà

posto l’accento sulla comunicazione non verbale analizzando in maniera quanto più

attenta possibile gli studi e le ricerche che hanno portato alle attuali teorizzazioni di

Ekman in riferimento alla Lie detection (anche detta Deception detection).

Nel secondo capitolo sarà affrontato il fenomeno della menzogna, analizzato attraverso

il canale del linguaggio e il canale corporeo. Saranno esaminati in particolare gli

indicatori di menzogna come ad esempio la voce, le parole usate e gli indici fisiologici

dell’attivazione emozionale (rossore, aumento del battito cardiaco, sudorazione)

utilizzando le teorie di Ekman esposte in “Telling lies. Clues to deceit in the

marketplace, politics and marriage”. Saranno anche esaminati i modi in cui può essere

scoperto l’inganno. Verrà presentato lo strumento più importante usato per la

rilevazione delle bugie, il poligrafo, e sarà fornita una descrizione delle

microespressioni.

Nel terzo capitolo sarà illustrata la serie televisiva Lie to me e sarà presentata un’analisi

traduttiva dei sottotitoli degli episodi. In particolare il testo originale sarà messo a

confronto con due traduzioni: quella dei sottotitolatori ufficiali e quella dei fansubber.

Attraverso l’utilizzo di diverse strategie traduttive si cercherà di mostrare come sono

5
stati risolti alcuni problemi di traduzione che nascono inevitabilmente dal contatto della

lingua inglese con quella italiana, differenti sia a livello linguistico sia culturale e

sociale.

Nel quarto capitolo sarà fornita una descrizione del modo di mentire nel mondo arabo.

Innanzitutto sarà presentata la distinzione tra high-context cultures e low-context

cultures, poi sarà illustrato il concetto di Taqiyya, contemplata in alcuni casi dal Corano

stesso e dagli Hadith1, e l’aspetto della dissimulazione.

1
Questa parola viene utilizzata per indicare la linea di condotta del profeta Maometto, trasmessa di
generazione in generazione, oralmente, mediante una catena di persone degne di fede il cui primo anello
è un testimone appartenente alla cerchia dei compagni o seguaci del profeta. Questi, avendo visto o udito
direttamente, portano a conoscenza degli altri insegnamenti derivati dall’esempio dell’inviato di Dio.

6
Capitolo 1 .La comunicazione verbale, paraverbale e non verbale.

1.1 Introduzione alla comunicazione non verbale.

“Non si può non comunicare.”[Paul Watzlawick]

L’assunto secondo il quale “non si può non comunicare” trova la sua validità nella

nostra quotidianità: anche quando non diciamo niente i nostri sguardi, i nostri

atteggiamenti e i nostri silenzi comunicano qualcosa alle altre persone.

La comunicazione è dunque uno dei pilastri della nostra esistenza: comunichiamo in

qualsiasi momento della nostra vita e per diverse ragioni. Lo facciamo per instaurare o

mantenere delle relazioni interpersonali, per argomentare le nostre opinioni, per avere

delle informazioni, per esprimere delle emozioni o per espletare altre funzioni primarie.

Il termine “comunicazione” deriva dal latino “communicatio” e significa mettere in

comune, accomunare, rendere partecipe, condividere. La comunicazione è quindi intesa

come l’insieme dei fenomeni che comportano il trasferimento di informazioni pertanto

si tratta di un atto di condivisione, di compartecipazione di tutti i parlanti.

Generalmente si distinguono diversi elementi che concorrono a realizzare un singolo

atto comunicativo.

 Emittente: la persona che emette il messaggio;

 Ricevente: la persona che accoglie il messaggio, lo decodifica, lo interpreta e lo

comprende;

 Messaggio: è ciò che si comunica e il modo in cui lo si fa;

 Referente: l'oggetto della comunicazione cui si riferisce il messaggio;

 Codice: parola parlata o scritta, immagine, tono impiegata per formare il

messaggio;

7
 Canale: il mezzo di propagazione fisica del codice (onde sonore o

elettromagnetiche, scrittura, bit elettronici);

 Contesto: l’ambiente significativo all'interno del quale si situa l'atto

comunicativo.

La comunicazione è strutturata come una catena. Il primo anello, elemento chiave di

emissione del messaggio, è l’emittente , il quale attraverso un canale di emissione invia

il corpo della conversazione, il messaggio , che a sua volta contiene un referente o

argomento ed è strutturato secondo un codice . Tramite un canale di ricezione

il ricevente recepisce il messaggio inviato dall’emittente. Attraverso il contesto è infine

possibile interpretare l’atto comunicativo e eliminare eventuali ambiguità del testo.

Una volta delineati gli elementi essenziali dell’atto comunicativo, è necessario fornire

una definizione dei tre livelli di comunicazione: comunicazione verbale, comunicazione

paraverbale e comunicazione non verbale.

La comunicazione verbale utilizza il linguaggio orale o scritto e riguarda sia i

contenuti che le modalità di espressione. Quando si comunica qualcosa oralmente è

bene prestare attenzione al registro linguistico, alle parole usate, allo stile del testo e alla

successione dei turni di conversazione.

In base alla persona con cui si interagisce verbalmente bisogna decidere se usare il “tu”

o il “lei”, se adottare uno stile aulico piuttosto che uno colloquiale, se scegliere

determinati termini anziché altri e bisogna soprattutto cercare di non interrompere

l’altro, rispettando i turni conversazionali.

Per quanto riguarda il rapporto sociale tra i parlanti è evidente che in ambito familiare lo

stile utilizzato risulterà diverso da quello adottato tra persone che hanno poca familiarità

o sono addirittura sconosciute. Lo stesso accade quando uno dei due interlocutori

8
ricopre una carica sociale più alta rispetto all’altro; bisognerà adottare, in questo caso,

uno stile linguistico più elevato.

Il registro linguistico varia anche in base alle circostanze. Quanto più formale sarà la

situazione tanto più alto sarà lo stile scelto per la conversazione.

Per quanto riguarda il mezzo utilizzato è ben noto che la scrittura predilige uno stile più

formale, più corretto mentre nel parlato si usano spesso espressioni più colloquiali e

quindi meno formali. Si faccia riferimento, per esempio, all’uso del pronome “Egli” nei

testi scritti sostituito da “Lui” nella conversazione orale.

La comunicazione paraverbale riguarda il modo in cui qualcosa viene detto. Nello

specifico ci si riferisce al tono, al timbro, al volume della voce e al tempo dell’atto

comunicativo.

Il tono è un indicatore dell’intenzione e del senso che si da alla comunicazione; il

timbro riguarda le caratteristiche individuali della voce: voce gutturale, nasale, soffocata

e dipende dalle parti del corpo che intervengono nella diffusione e amplificazione del

suono; il volume concerne l’intensità sonora, la capacità di calibrare la voce in base alla

distanza con gli altri interlocutori e in base all’argomento trattato; il tempo è inerente

alle pause, alla velocità o alla lentezza che scandiscono l’evento comunicativo e che ne

attenuano o intensificano il significato.

La comunicazione paraverbale, insieme a quella non verbale, costituisce parte integrante

del modo in cui ci relazioniamo agli altri. Senza considerare tutti gli aspetti dell’atto

della comunicazione una percentuale del significato che si intende trasmettere andrebbe

persa.

La comunicazione non verbale è quella parte della comunicazione che comprende tutti

gli aspetti di uno scambio comunicativo che non riguardano il livello

9
puramente semantico del messaggio, ossia il significato letterale delle parole che

compongono il messaggio stesso, ma che riguardano il linguaggio del corpo, ossia la

comunicazione non parlata tra persone. Della comunicazione non verbale fanno parte la

gesticolazione, la postura, il contatto visivo, le espressioni facciali, il tatto e il

comportamento spaziale o prossemica.

Uno studio del 1972 di Albert Mehrabian (Non-verbal Communication) ha mostrato che

ciò che viene percepito in un messaggio vocale può essere suddiviso nel seguente modo:

 Movimenti del corpo (in particolare espressioni facciali) 55%

 Aspetto vocale (tono, timbro, volume, ritmo) 38%

 Aspetto verbale (parole) 7%

Il 93% dell’atto comunicativo è affidato quindi al linguaggio non verbale: quando ci

tocchiamo il mento, ci annodiamo i capelli su un dito, passiamo la lingua tra le labbra,

ci grattiamo o tamburelliamo con le dita inviamo dei segnali a chi ci sta di fronte, nella

maggior parte dei casi inconsapevolmente.

Anche se non viene esplicitamente dichiarato l’intento comunicativo di questi gesti, non

è difficile intuirne il senso: interpretando correttamente i piccoli gesti involontari che i

nostri interlocutori producono siamo capaci di recepire lo stato emotivo del parlante, di

comprendere quali siano le sue opinioni riguardo un determinato argomento

(disappunto, accordo, perplessità) e possiamo addirittura manipolare il nostro discorso

selezionando i temi che suscitano interesse nell’ascoltatore e scartando quelli che lo

annoiano o lo infastidiscono.

10
Il linguaggio non verbale copre un ampio campo di studi e generalmente viene

suddiviso nell’ambito delle scienze della comunicazione in quattro componenti: sistema

paralinguistico, sistema cinesico, prossemica e aptica.1

La mia tesi si concentrerà proprio sul linguaggio non verbale, focalizzando l’attenzione

sugli studi e sulle ricerche in ambito di microespressioni facciali in relazione alla

deception detection (individuazione delle menzogne), campo d’indagine di Paul Ekman

che, grazie ai suoi studi sulle emozioni, si è guadagnato un posto tra i 100 psicologi più

importanti del ventesimo secolo e tra le 100 persone più influenti del mondo.

1.2 Paul Ekman. La scienza, i lavori e le innovazioni.

Paul Ekman (15 febbraio 1934), psicologo statunitense, ha conseguito il dottorato in

clinical psychology dopo aver svolto un anno di tirocinio presso il Langley Porter

Neuropsychiatric Institute a San Francisco. Per oltre quarant’anni, il National Institute

of Mental Health (NIMH) ha sostenuto la sua ricerca attraverso borse di studio,

finanziamenti e premi. Si è ritirato nel 2004 come professore di psicologia presso il

Dipartimento di Psichiatria alla University of California.

Le sue ricerche sulle espressioni facciali e i movimenti corporei hanno avuto inizio nel

1954, come argomento di tesi per il suo Master nel 1955 e della sua prima

pubblicazione nel 1957.

Nei suoi primi lavori il suo approccio era influenzato dalla semiotica e dall’etologia2 e la

sua attenzione era focalizzata sui gesti. A metà anni sessanta Ekman cominciò a

1
Il sistema cinesico comprende tutti gli atti comunicativi espressi dai movimenti del corpo.
L’aspetto prossemico della comunicazione analizza i messaggi inviati con l’occupazione dello spazio.
L’aptica è costituita dai messaggi comunicativi espressi tramite contatto fisico.
2
La semiotica è la disciplina che studia i segni e il modo in cui questi abbiano un senso (significazione).
L’etologia indica la moderna disciplina scientifica che studia il comportamento animale nel suo
ambiente naturale.

11
interessarsi della faccia e delle emozioni, avviando una serie di cross-cultural studies

sulle espressioni e la gesticolazione. In aggiunta ai suoi studi sulle emozioni e le loro

espressioni lo psicologo si occupò anche di menzogna.

“Ekman ha fornito un contributo fondamentale alla comprensione dei

meccanismi di regolazione e controllo dell'espressione delle emozioni.

Oggi siamo in grado di valutare il tipo di influenza che il nostro

comportamento non verbale determina sugli altri e di giudicare la

competenza delle persone ad inviare segnali non verbali o ad

interpretarli...” [Pio E. Ricci Bitti, Università di Bologna]

Le ricerche in ambito di nonverbal behavior sono piuttosto recenti: è da circa trent’anni

che diversi ricercatori, tra cui spicca lo stesso Paul Ekman, si occupano di questo campo

di studi, convinti che i rapporti interpersonali e i loro effetti non dipendano

esclusivamente dagli scambi verbali ma da diversi fattori interdipendenti quali gli

elementi verbali, intenzionali, paralinguistici e cinesici prodotti dai soggetti che

comunicano.

Questo ramo di indagine in passato non ha ricevuto l’attenzione dovuta per diversi

motivi: innanzitutto sono stati messi in rilievo soprattutto gli aspetti verbali dell’evento

comunicativo; secondariamente gli aspetti non verbali della comunicazione non sono

così semplici da rilevare poiché spesso sono esibiti in modo inconscio, inconsapevole e

sono talmente connaturati nell’interazione umana che risulta difficile delinearne in

maniera estremamente precisa la funzione e il significato.

Nonostante questo scarso interesse iniziale per la disciplina, dobbiamo constatare che,

quando ci facciamo un’idea della personalità, delle emozioni o delle opinioni di una

persona, prestiamo attenzione al linguaggio non verbale, alle sue espressioni facciali, al

suo tono di voce o alla sua postura. Da questi elementi siamo capaci di dedurre lo stato

12
d’animo dell’interlocutore, l’intensità delle emozioni provate e la veridicità o mendacità

di queste ultime.

Per comprendere a pieno i lavori di Ekman si dovrebbero considerare tutte quelle

condizioni della vita quotidiana in cui un “emittente” cerca di tradurre le proprie

intenzioni in messaggi che influenzino il “ricevente”. Dissimulare, mascherare, essere

credibile o convincere l’altro interlocutore sono processi di uno stesso meccanismo:

qualunque sia l’intenzione dell’emittente, occorre produrre un’informazione coerente e

interpretabile in modo univoco dal destinatario. Spesso, sebbene le parole siano coerenti

con l’intenzione dell’emittente, questi potrebbe essere tradito da un tono di voce non

adeguato o da un’espressione facciale discrepante. Il destinatario del messaggio viene

allora messo in guardia e, data l’incongruenza tra i sistemi comunicativi, crede che i

segnali non verbali siano più attendibili delle parole. Attraverso questa mancata

corrispondenza tra linguaggio verbale e non verbale è possibile scoprire segni di

un’eventuale “menzogna”.

Paul Ekman ha fornito un contributo eccezionale per quanto riguarda lo studio sulle

emozioni e la loro espressione ed è noto per aver formulato, nell’ambito della sua teoria

“neuro culturale”, il concetto di “regole di esibizione”o “display rules”. Queste regole

sono controllate da meccanismi che, appresi durante il processo di socializzazione,

interagiscono con programmi innati di espressione delle emozioni. Le display rules

regolano l’esteriorizzazione delle emozioni attraverso processi di intensificazione,

attenuazione, neutralizzazione o mascheramento.3

Lo spunto per l’inizio degli studi viene fornito a Paul Ekman da Silvan Tomkins,

psicologo, teorico della personalità e ideatore della Affect Theory, teoria secondo la

3
Mauro Cozzolino, La comunicazione invisibile. Gli aspetti non verbali della comunicazione, Ed. Carlo
Amore, 2003, pp. 38-39

13
quale esistono solo nove emozioni, determinate biologicamente, che vengono espresse

tramite dei “display” ossia degli eventi biologici: l’emozione di gioia, per esempio, può

essere riconosciuta grazie alla comparsa del sorriso. Queste emozioni possono essere

osservate tramite le immediate reazioni facciali che le persone hanno in seguito ad uno

stimolo, generalmente prima di poter elaborare una reazione autentica allo stimolo.

Prima di Paul Ekman i due principali filoni di studi nell’ambito della ricerca sulle

emozioni seguivano le teorie di Charles Darwin (1809 – 1882) da un lato e Margaret

Mead (1901 - 1978) dall’altro.

Le emozioni hanno da sempre costituito un centro di interesse per diverse discipline

come la filosofia, la retorica, la medicina e l’arte ma solo a partire dall’Ottocento sono

diventate oggetto di studi scientifici.

Dopo aver a lungo riflettuto su questo tema nel 1872 Charles Darwin pubblicò

“L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali” che ebbe immediatamente un

grande successo ma venne poi dimenticato per molto tempo. In questo saggio l’autore

fornisce dei dati che dimostrano che le espressioni dell’uomo, così come quelle degli

altri animali, sono innate, sono un semplice prodotto dell’evoluzione per cui molte

espressioni si ritrovano invariate non solo in uomini di diversa estrazione culturale o

provenienti da differenti civiltà ma anche in altri animali; il fatto che, ad esempio, l’atto

del ridere sia molto simile negli scimpanzé e nell’uomo testimonia una comune origine

tra le due specie.

L’interesse di Darwin per l’espressione delle emozioni era cominciato molto presto

giacché si ritrovano delle annotazioni su questo argomento già nei suoi Taccuini del

1838. Negli anni successivi egli aveva osservato lo sviluppo emozionale del suo primo

figlio, aveva letto le pubblicazioni scientifiche sull’anatomia e la fisiologia

14
dell’espressione delle emozioni, aveva osservato il comportamento animale allo zoo di

Londra, aveva chiesto informazioni a medici e psicologi sull’espressione normale e

patologica delle emozioni e aveva inviato dei questionari a diversi corrispondenti sparsi

nel mondo per capire se ci fossero delle differenze nell’esternazione delle emozioni

nelle diverse culture.

Mettendo insieme i suoi studi e le sue osservazioni, Darwin giunse ad affermare che le

emozioni sono universali, innate e che non dipendono dalla socializzazione

dell’individuo. Espressioni di rabbia, dolore, paura, gioia, disgusto possono essere

riconosciute ovunque, anche nelle popolazioni che non sono ancora entrate in contatto

con la civiltà, perché i tratti che le contraddistinguono (contrazione di determinati

muscoli facciali, inarcamento delle sopracciglia, naso arricciato, etc.) sono

universalmente noti.

Margaret Mead, allieva di R. Benedict e F. Boas, è stata uno dei personaggi più

importanti del ‘900 per quanto riguarda il mondo dell’antropologia. Intraprese viaggi

etnografici nelle Samoa (dal 1925),nelle Isole dell'Ammiragliato (1928-29) e in Nuova

Guinea (1931-33). Le sue ricerche proseguirono poi a Bali (1936-38) dove, in

compagnia del marito, G. Bateson, fu tra i primi antropologi a servirsi della fotografia e

del film come importanti tecniche di indagine etnografica.

Tra le altre cose, Margaret Mead aveva l’obiettivo di comprendere se la classica “crisi

adolescenziale”, lo stress e i periodi di turbolenza delle sue coetanee americane fossero

delle caratteristiche biologiche legate all’età o se fossero causati da fattori culturali e

sociali. La studiosa era dell’idea che bisognasse analizzare le popolazioni non ancora

venute in contatto con la civiltà moderna in modo diretto, immergendosi nella loro

quotidianità. Per questo motivo partì per le Isole Samoa; vi restò per diverso tempo e

15
riuscì a scoprire che le adolescenti samoane vivevano il periodo di transizione all’età

adulta in maniera serena, senza stress emotivi o psicologici o ansia. Questo accadeva

perché erano libere di sperimentare e di costruirsi una propria identità senza pressioni

esterne.

Tornata a New York, pubblicò il risultato dei suoi studi nel libro “Coming of age in

Samoa” che diventò subito il suo libro più celebre e che, ancora oggi, è un bestseller

internazionale.

L’antropologa statunitense era convinta che le differenze di carattere e di

comportamento da una società all’altra non dipendano dalla genetica ma

dall’apprendimento infantile e dai modelli culturali trasmessi di generazione in

generazione, che incanalano il potenziale biologico di ogni singolo individuo. La

manifestazione degli stati emotivi, quindi, non è considerata più un fattore universale

ma varia da cultura a cultura, così come il linguaggio.

Paul Ekman apporta delle innovazioni nello studio delle manifestazioni delle emozioni:

egli sembra unire le due principali correnti di pensiero in questo ambito, quella di

Darwin e quella della Mead. Sebbene egli ammetta che alcuni elementi del linguaggio

non verbale, come ad esempio la gestualità, siano culture specific ovvero cambino a

seconda della cultura presa in esame, sostiene anche che le emozioni sono

biologicamente determinate, universali ed è quindi possibile riconoscere espressioni

identiche in uomini provenienti da diversi contesti sociali e culturali: in un’espressione

di rabbia, ad esempio, noteremo (in ogni angolo del mondo) che le sopracciglia si

presentano abbassate e ravvicinate, le palpebre tese, gli occhi fissano duramente e le

labbra sono serrate.

16
1.2.1 Le ricerche.

Paul Ekman, il più famoso ricercatore in ambito di comportamento non verbale, ha

esaminato pazienti psichiatrici, individui normali, adulti e alcuni bambini, nel suo paese

e in molti altri luoghi, quando intensificano le emozioni, quando le attenuano,

reagiscono in maniera inappropriata, mentono e dicono la verità.

All’inizio dei suoi studi negli ultimi anni cinquanta, egli non nutriva un interesse

particolare per le espressioni facciali; ciò che lo affascinava erano i movimenti delle

mani. Se non fosse stato per due eventi puramente casuali, probabilmente egli non

avrebbe spostato il focus delle sue ricerche sull’espressione facciale. La fortuna volle

che la Advanced Research Projects Agency (ARPA) del Dipartimento di Difesa gli

conferisse una borsa di studio per dei cross-cultural studies sul comportamento non

verbale. Egli non aveva richiesto questo aiuto ma ci fu uno scandalo, un progetto più

ampio dell’ARPA fu cancellato e i fondi per esso stanziati andavano spesi durante

quell’anno fiscale in ricerche oltremare. Incontrò, per puro caso, l’uomo che aveva

l’incarico di spendere quei fondi. Quest’uomo era sposato con una donna Tailandese ed

era rimasto colpito dalle differenze nel loro comportamento non verbale. Incaricò

Ekman di capire quali aspetti fossero universali e quali, invece, fossero culturalmente

variabili.

Inizialmente lo psicologo statunitense era convinto, così come il gruppo di persone a cui

aveva chiesto dei pareri, che le emozioni fossero apprese socialmente e che variassero in

base alla cultura esaminata. Sebbene Darwin avesse affermato l’esatto contrario, cioè

che le emozioni sono universali, Paul Ekman era talmente certo che egli avesse torto

che non si preoccupò neanche di leggere il suo libro.

17
Il secondo colpo di fortuna fu l’incontro con Silvan Tomkins. Egli aveva scritto due

libri sulle emozioni in cui affermava che le espressioni facciali erano innate e universali

per la nostra specie, ma non aveva prove per sostenere le sue affermazioni.

Ekman riteneva che Tomkins, proprio come Darwin, sbagliasse nel ritenere le

espressioni innate e pertanto universali.

Nel suo primo studio mostrò delle fotografie ad un campione di persone di 5 culture

diverse provenienti da Cile, Argentina, Brasile, Giappone e Stati Uniti e gli chiese di

descrivere quali emozioni fossero rappresentate in quelle immagini. Il risultato fu che,

in ogni cultura, la maggioranza era d’accordo nell’individuazione della stessa emozione

e ciò suggerì che, con tutta probabilità, le emozioni fossero realmente universali.

Sembrava che Darwin avesse ragione!

C’era un problema però: come era possibile che avessero trovato persone di molte

culture diverse che concordavano su quale emozione fosse mostrata in un’espressione

quando così tanti studiosi pensavano il contrario?

Il punto di vista che dominava l’antropologia culturale e gran parte della psicologia era

che, qualsiasi cosa socialmente rilevante, come le espressioni emotive, fosse il prodotto

dell’apprendimento, e pertanto diversa in ogni cultura.

Per ovviare a questo tipo di problema Ekman giunse ad una conclusione:

“I reconciled our findings that expressions are universal with

Birdwhistell's observation of how they differ from one culture to another

by coming up with the idea of display rules. These, I proposed, are socially

learned, often culturally different, rules about the management of

expression, about who can show which emotion to whom and when they

can do so.” [Paul Ekman, Emotions Revealed, Times Books, 2003, pp. 21]

18
Alcuni studi successivi mostrarono che i Giapponesi e gli Americani, in risposta alla

visione di filmati di incidenti e interventi chirurgici, esibivano le stesse espressioni

facciali ma, quando si trovavano in presenza di uno scienziato mentre guardavano i

filmati, i Giapponesi più che gli Americani cercavano di mascherare le emozioni

negative con un sorriso. In privato mostravano delle espressioni innate, in pubblico

espressioni controllate.

Nonostante Ekman avesse provveduto a dare una soluzione parziale al problema,

esisteva ancora una falla in grado di confutare i risultati raggiunti. Era possibile che le

persone analizzate avessero imparato ad esibire le emozioni occidentali perché

condizionate dalla visione dei film, dal cinema e dal contatto con persone di altre

culture. Ciò di cui c’era bisogno era l’analisi di culture visivamente isolate in cui le

persone non avevano mai letto giornali, mai visto film e incontrato solo qualche, o

meglio ancora nessuno, straniero.

Decise quindi di andare in Nuova Guinea per raccogliere prove a sostegno dell’idea che

almeno alcune espressioni facciali di emozione fossero universali.

Nel 1967 si recò nelle South East Highlands per effettuare uno studio sulla popolazione

dei Fore che vivevano in piccoli gruppi di villaggi a sette mila piedi di altitudine. Per lo

studio delle espressioni presso questa popolazione, Ekman doveva trovare un metodo

diverso da quello usato per la sua prima ricerca: non poteva chiedere di osservare delle

fotografie e poi di attribuire ad ogni immagine un’etichetta che facesse riferimento

all’espressione mostrata. Lo studioso aveva provato diversi metodi: aveva registrato dei

filmati per catturare i momenti in cui venivano espresse spontaneamente delle

espressioni, aveva provocato delle situazioni per suscitare delle emozioni, aveva chiesto

19
ai partecipanti di raccontare delle storie per capire in quali occasioni potessero

comparire alcune delle emozioni espresse nelle immagini:

"Tell me what is happening now, what happened before to make this

person show this expression, and what is going to happen next." [Paul

Ekman, Emotions Revealed, Times Books, 2003, pp. 24]

Nonostante tutto non si era ancora trovato un modo valido per studiare le espressioni dei

Fore fino a quando Ekman non scoprì la tecnica che era stata adottata dallo psicologo

John Dashiel per lo studio dell’interpretazione delle espressioni facciali da parte dei

bambini. Il metodo consisteva nel leggere una storia e mostrare una serie di immagini.

Ciò che bisognava fare era scegliere l’immagine che corrispondeva alla storia.

L’anno successivo ritornò in Nuova Guinea e continuò le ricerche, stavolta utilizzando

il metodo dello psicologo John Dashiel.

“The sets of pictures were mounted onto transparent pages, with a code

number written on the back of each picture that could be seen from the

backside of the page. We did not know, and made a point of not finding

out, which codes went with each expression. Instead a page would be

turned toward the subject, arranged so that the person writing down the

answers would not be able to see the front of the page. The story would be

read, the subject would point to the picture, and one of us would write

down the code number for the picture the subject had chosen.” [Paul

Ekman, Emotions Revealed, Times Books, 2003, pp.27]

20
Il risultato fu che la maggioranza delle persone che partecipavano all’esperimento

concordava nel riconoscimento di espressioni di gioia, rabbia, disgusto e tristezza. La

paura e la sorpresa non venivano distinte tra di loro ma erano distinte da gioia, rabbia,

disgusto e tristezza.

Fu condotto un ulteriore esperimento non semplice per i soggetti analizzati: uno degli

interpreti pidgin leggeva loro una delle storie e gli chiedeva di mostrare che faccia

avrebbero fatto nei panni del protagonista. Furono filmati nove uomini, nessuno dei

quali aveva partecipato al primo studio. Le pellicole integrali furono mostrate a degli

studenti in America. Gli Americani individuarono correttamente le emozioni ma non

furono in grado di distinguere le espressioni di paura e sorpresa, proprio come gli

abitanti della Nuova Guinea. Ecco alcuni esempi delle interpretazioni delle emozioni dei

Nuovi Guineani:

GIOIA TRISTEZZA

RABBIA DISGUSTO

21
Molti antropologi erano ancora fermamente convinti, nonostante le prove raccolte da

Ekman, che le espressioni fossero differenti in ogni cultura. I risultati raggiunti fino ad

allora dallo psicologo statunitense non bastavano!

Il miglior modo per fugare ogni dubbio sarebbe stato quello di ripetere l’intero studio in

un’altra cultura preletteraria, isolata. Idealmente chiunque altro avrebbe potuto condurre

lo studio ma era preferibile che lo facesse qualcuno che aveva l’intenzione di provare

che Ekman si sbagliava. Se questo ricercatore avesse raggiunto gli stessi risultati di

Ekman il suo caso si sarebbe rinforzato notevolmente. L’antropologo Karl Heider stava

conducendo proprio delle ricerche di questo tipo!

Heider aveva da poco condotto uno studio sui Dani, un altro gruppo isolato nel West

Irian, parte dell’Indonesia. L’antropologo credeva che ci fosse qualcosa di errato nelle

ricerche di Ekman perché i Dani non avevano neanche delle parole per descrivere le

emozioni. Lo psicologo si offrì di dargli il suo materiale di ricerca e gli impartì delle

istruzioni per condurre l’esperimento una volta ritornato presso la popolazione dei Dani.

I suoi risultati replicarono quelli di Ekman, compresa l’incapacità di distinguere tra

paura e sorpresa.

Tuttavia, non tutti gli antropologi sono riusciti a convincersi dell’universalità delle

emozioni. Ci sono anche alcuni psicologi, principalmente quelli che si interessano di

linguaggio, che affermano che le parole usate per descrivere ciascuna emozione non

hanno traduzioni perfette e quindi non è possibile chiedere di associare un’immagine

raffigurante un’emozione ad una data parola. Ma il modo in cui le emozioni sono

rappresentate nel linguaggio è sicuramente un prodotto della cultura e non

dell’evoluzione! Nonostante i problemi di traduzione, non si sono mai verificati casi in

cui si sono attribuite diverse emozioni ad una stessa espressione: in tutti gli studi

22
effettuati la maggioranza delle persone concorda sul riconoscimento delle emozioni

esibite.

Dopo aver svolto alcuni studi atti a determinare che tipo di informazioni si possono

ricavare osservando il comportamento del viso e del corpo, Ekman ha potuto constatare

che conclusioni riguardanti emozioni, attitudini, ruoli interpersonali e intensità delle

patologie possono essere tratte anche da osservatori che non sono stati specificamente

addestrati per tale scopo (Ekman, 1964; Ekman, 1965a; Ekman and Friesen,

1965,1968). Questi talenti naturali, anche detti “Truth wizards”, sono capaci di

individuare l’inganno con un’accuratezza dell’80% minimo laddove in media una

persona è capace di individuare una menzogna con un’accuratezza del 50%.4

In un’altra serie di studi hanno cercato di stabilire il tipo di informazioni affettive che

possono essere ricavate da differenti aree del corpo (Ekman, 1965b; Ekman and Friesen,

1967, a). Hanno riscontrato che il volto conferisce più informazioni riguardo alla natura

delle emozioni che all’intensità dello stato emozionale. Le informazioni che derivano

dall’osservazione del corpo sono differenti a seconda che riguardino gli atti (movimenti

di mani e braccia, gambe e piedi, spalle o la postura nel suo complesso) o le posizioni.

Gli atti forniscono dettagli sia sull’intensità che sulla natura delle emozioni; le posizioni

danno informazioni sull’intensità dell’emozione ma qualche volta anche sullo stato

affettivo generale della persona.

Altre ricerche erano focalizzate sul significato dell’atto definito come una classe di

movimenti distinguibili da un’altra classe di movimenti tramite l’apparenza visiva.

4
Il “Progetto Wizards” era un progetto di ricerca dell’Università della California condotto da Paul Ekman
e Maureen O’Sullivan che studiava l’abilità delle persone di individuare le menzogne. Il progetto
originariamente si chiamava “Progetto Diogene” , dal nome del filosofo greco che, in cerca di un uomo
onesto, guardava il volto delle persone usando una lampada.

23
(Ekman and Friesen, 1966, 1968). Carezzarsi la fronte, coprirsi un occhio e grattarsi le

tempie sono esempi di atti.

“We found that such acts have fairly specific meaning; their frequency of

occurrence varies with the psychological state of the sender; they can be

related in a number of different ways to the associated speech, and they

convey quite specific messages to observers.” [Paul Ekman and Wallace

V. Friesen, Semiotica, 1969, 1,51]

Tra i pazienti psichiatrici l’atto di coprirsi un occhio, ad esempio, si riscontra

maggiormente negli individui depressi, in particolar modo se la loro patologia è

associata a vergogna, ma non è mostrato se negli stessi individui la depressione è più

lieve. Spesso l’atto di coprire un occhio è preceduto o seguito dall’allontanamento

dall’altro interagente e a volte dal pianto. Gli osservatori che vedono solo l’atto di

coprire un occhio attribuiscono a questo gesto vergogna e infelicità generale.

Ovviamente il contesto, le caratteristiche fisiche, l’età, il sesso, il ruolo della persona

che mostra l’atto e tutti gli altri comportamenti verbali e non verbali modificano il

significato di un atto del genere. La focalizzazione sul significato dell’atto ha permesso

ai due studiosi di individuare diversi tipi di comportamenti non verbali: alcuni sono

designati alla trasmissione di informazioni (communicative), altri sono espressivi

(expressive) o adattivi (adaptive).

In studi successivi Ekman è riuscito a scoprire quante sono le espressioni che il volto

può mostrare (più di dieci mila!) e ha identificato quelle che sembrano essere centrali

per le emozioni. Egli e Wally Friesen hanno anche compilato il primo atlante della

faccia, una descrizione sistematica con parole, fotografie e film per comprendere come

misurare i movimenti facciali in termini anatomici. Nel 1978 il loro strumento per

misurare la faccia, il Facial Action Coding System (FACS), fu reso pubblico e

24
attualmente è usato da centinaia di scienziati in tutto il mondo per misurare i movimenti

facciali .

Le conoscenze di Ekman nell’ambito delle emozioni derivano dallo studio delle

espressioni di pazienti psichiatrici, delle espressioni di pazienti con problemi cardiaci, di

persone normali analizzate durante programmi televisivi o in esperimenti nel suo

laboratorio in cui creava situazioni particolari per suscitare delle emozioni nei soggetti

analizzati. L’uso del Facial Action Coding System ha anche permesso di identificare i

segni facciali che rivelano le menzogne. Quelle che Ekman definisce microespressioni,

movimenti facciali che durano meno di un quinto di secondo, costituiscono un segno

importante di inganno perché rivelano un’emozione che una persona cerca di

nascondere. L’utilizzo di questo strumento e i suoi studi sulla menzogna gli hanno

permesso di collaborare con giudici, poliziotti, avvocati, FBI e CIA in diversi processi e

indagini. Attualmente sta seguendo gli sviluppi di una delle più attive aree di ricerca in

ambito di comportamento non verbale, ossia quella che riguarda i meccanismi cerebrali

che si attivano quando si prova un’emozione.

1.3 Il comportamento non verbale nell’ottica di Paul Ekman.

In “The Repertoire of Nonverbal behavior: Categories, Origins, Usage and Coding”

Paul Ekman e Wally Friesen descrivono gli aspetti salienti del comportamento non

verbale.

“ If we are to understand fully any instance of a person’s non-verbal

behavior – that is, any movement or position of the face and/or the body –

we must discover how that behavior became part of the person’s

repertoire, the circumstances of its use, and the rules which explain how

the behavior contains or conveys information. We will call these three

25
fundamental considerations ORIGIN, USAGE and CODING.” [Paul

Ekman and Wallace V. Friesen, Semiotica, 1969, 1, 49-98]

La necessità di uno schema di questo genere è emersa in seguito a due progetti di

ricerca: lo studio delle differenze cross-culturali nel comportamento non verbale e lo

studio degli aspetti non verbali che trapelano durante l’inganno.

Il comportamento non verbale fornisce valide informazioni quando non ci si può fidare

di ciò che viene detto verbalmente, sia perché il parlante sta cercando di proposito di

ingannarci, sia perché ha bloccato o represso l’informazione che stiamo cercando.

Nell’ambito dello studio dei dettagli non verbali che si ricavano quando è in atto un

inganno, Ekman e Friesen hanno elaborato una teoria per spiegare il motivo per cui il

comportamento non verbale sembra sfuggire ai tentativi di menzogna (Ekman and

Friesen, 1967b, 1969) fornendo sia dei deception clues, ossia segnali che indicano che

l’inganno è in corso, sia la rivelazione di informazioni nascoste (leakage). Si sa che è

possibile mentire anche attraverso il linguaggio non verbale quindi non si può credere a

tutto ciò che si vede. Esistono ovviamente delle enormi differenze tra la faccia, le mani

e i piedi, sia nel tipo che nella frequenza di fughe di notizie e di indizi di inganno. Tutto

ciò ha condotto i due ricercatori a porsi delle domande sulla censura o controllo

dell’informazione e li ha portati a supporre che alcuni tipi di comportamento non

verbale si possano censurare o controllare mentre altri tipi di comportamento non

verbale possano sfuggire al controllo e fornire in questo modo delle fughe di

informazioni.

Ekman e Friesen hanno dovuto specificare quali sono le differenze di base tra le varie

forme di attività non verbali e per fare ciò hanno dovuto considerare l’uso, l’origine e la

codificazione del comportamento non verbale.

26
Il termine “origine” si riferisce al modo in cui il comportamento non verbale è diventato

parte del repertorio della persona. Si possono distinguere almeno tre tipi di origine.

Un primo tipo di origine del comportamento non verbale è la relazione tra eventi-

stimolo e attività non verbali che si crea nel sistema nervoso di tutti i membri della

specie. Il riflesso è l’esempio più ovvio, e secondo alcuni autori anche le espressioni

facciali di emozione sono basate su programmi neurologici innati.

Un secondo tipo di origine è costituito dall’esperienza comune a tutti i membri della

specie; questo differisce dal primo tipo di origine nel senso che non si deve presupporre

che il comportamento non verbale sia innato ma che, piuttosto, sia acquisito come parte

dell’esperienza costante della specie umana che interagisce in svariate situazioni e

ambientazioni.

Il terzo tipo di origine del comportamento non verbale è l’esperienza che varia in base

alla cultura, alla classe sociale, alla famiglia o all’individuo. Alcuni comportamenti non

verbali sono appresi come parte di un compito il cui scopo è la padronanza di una

particolare attività (coltivare, guidare, nuotare). Altri atti non verbali sono appresi come

parte di un’interazione sociale il cui scopo è l’istituzione o il consolidamento di un tipo

di interazione sociale. Alcuni comportamenti vengono imparati esplicitamente con

attenzione consapevole da parte dell’apprendente e dell’insegnante, o solo da parte

dell’apprendente; altri invece si apprendono più implicitamente con minore attenzione

sul processo di acquisizione.

Il termine “uso” fa riferimento alle circostanze che si presentano quando viene prodotto

un atto non verbale. Dell’uso fanno parte:

1. Le condizioni esterne (external condition) riscontrate nel momento in cui l’atto

si verifica ossia tutte quelle circostanze che incidono sul significato dell’atto

27
come, ad esempio, l’ambientazione, il ruolo dei partecipanti, il tono emozionale

dell’interazione;

2. Il rapporto (relationship to verbal behavior) tra l’atto e il comportamento

verbale ad esso associato. Tale aspetto si riferisce sia alla sequenza temporale o

coincidenza dei comportamenti verbali e non verbali sia all’interrelazione tra i

significati trasmessi da ogni canale;

3. La consapevolezza (awareness o internal feedback) da parte della persona

dell’emissione dell’atto nel momento in cui lo fa;

4. L’intenzionalità (intentionality) della persona che compie l’atto di comunicare

un messaggio ad un altro interagente;

5. Il feedback (external feedback) fornito dalla persona che osserva l’atto;

6. Il tipo di informazione (type of information conveyed) trasmesso dall’atto che si

riferisce ad una distinzione basica tra informazione idiosincratica e informazione

condivisa e include le definizioni di comportamenti non verbali informativi,

comunicativi e interattivi.

La codificazione è il principio della corrispondenza tra l’atto stesso e il suo significato.

Il codice che descrive il modo in cui il significato è contenuto in un atto non verbale può

essere estrinseco o intrinseco. Un codice si dice estrinseco se l’atto significa o sta per

qualcos’altro e la codificazione può essere arbitraria o iconica. Un codice intrinseco non

è un vero e proprio codice in quanto l’atto non rappresenta il suo significante ma è il

significante stesso.

Ekman fornisce quindi una descrizione di questi tre principi della codificazione: codici

arbitrari (estrinseci), codici iconici (estrinseci) e codici intrinseci.

28
Gli atti che sono codificati arbitrariamente non hanno alcuna somiglianza con quello

che significano. In questa accezione sono simili alle parole che, per la maggior parte,

non hanno una netta corrispondenza tra suono e significato. Le parole onomatopeiche

rappresentano un’eccezione in quanto presentano una certa somiglianza tra significato e

suono.

“When the opening and closing of the raised hand signifies greeting or

departure, we have an example of an arbitrary coding of nonverbal

behavior, since the movement does not intrinsically show what it

signifies.” [Paul Ekman and Wallace V. Friesen, Semiotica, 1969, 1, 60]

Gli atti codificati iconicamente contengono nella loro esecuzione materiale delle

indicazioni per poter essere decodificati; l’atto non verbale, il segno, sono simili in

qualche modo a ciò che significano, al loro significante.

Gli atti che sono codificati intrinsecamente sono, come gli atti codificati iconicamente,

collegati visivamente con quello che significano ma, diversamente dagli atti codificati

iconicamente, non somigliano al loro significante ma sono il loro significante, almeno

in parte. Se una persona colpisce qualcun altro durante una conversazione non si tratta

di una cosa simile ad un’aggressione; è una forma di aggressione quindi l’atto è il

significante.

Non è sempre semplice operare una distinzione netta tra atti iconicamente codificati e

atti intrinsecamente codificati, specialmente se l’atto esaminato è solo una parte di

un’azione più ampia. Il codice codificato iconicamente è più facile da comprendere e

più semplice da utilizzare come segnale comunicativo; è più forte, forse più astratto e

tralascia molti dettagli presenti nell’atto intrinsecamente codificato al quale potrebbe

somigliare.

29
1.4 Le cinque categorie del comportamento non verbale.

Il comportamento non verbale non è un fenomeno caratterizzato da un solo uso, una

sola origine e una sola forma di codificazione. Il comportamento facciale e corporeo, al

contrario, includono diversi tipi di comportamento, descritti in termini di categorie

distinte in base all’uso, all’origine e alla codificazione.

1.4.1 Emblemi.

Gli emblemi differiscono dalla maggior parte degli altri comportamenti non verbali

principalmente per il loro uso e in particolare per il rapporto che hanno con il linguaggio

verbale, la consapevolezza e l’intenzionalità. Gli emblemi sono quegli atti non verbali

che possono essere tradotti verbalmente in maniera diretta o hanno una definizione

specifica, solitamente composta da una parola o due, o magari da una frase. Questa

definizione verbale o traduzione è ben conosciuta da tutti i membri di un gruppo, di una

classe sociale o di una cultura. Un emblema può ripetere, contraddire o sostituire parte

del comportamento verbale concomitante; ciò che è cruciale nella sua individuazione è

la possibilità di poterlo rimpiazzare con una parola o due senza modificare

l’informazione trasmessa. Generalmente le persone sono consapevoli del loro uso degli

emblemi infatti li utilizzano intenzionalmente, facendo uno sforzo deliberato per

comunicare anche se esistono delle eccezioni. Un emblema è tale anche quando viene a

mancare la consapevolezza della sua realizzazione; in ogni caso lo stato emblematico è

determinato dal significato decodificato e condiviso e dall’uso consapevole e

intenzionale in alcuni gruppi di individui. Possono verificarsi dei lapsus emblematici,

proprio come i lapsus linguistici, dove il mittente non sa cosa ha fatto.

30
Gli emblemi sono prodotti maggiormente quando lo scambio verbale è impedito da

diversi fattori come il rumore, circostanze esterne, distanza, intesa o da handicap della

persona (i sordomuti). In casi del genere lo scambio emblematico trasmette la maggior

parte del messaggio che verrebbe tipicamente comunicata attraverso le parole. Gli

emblemi, ovviamente, si ritrovano anche negli scambi verbali.

Non si sa con certezza perché gli emblemi siano usati in un punto della conversazione

piuttosto che in un altro; è probabile che siano usati maggiormente negli aspetti più

ritualizzati dello scambio comunicativo, come i saluti o i cambi di stato o argomento.

Questo tipo di comportamento non verbale ha origine dall’apprendimento che è in gran

parte culture-specific e può essere mostrato in qualsiasi area del corpo. Alcuni emblemi

sono arbitrariamente codificati, nel senso che l’azione non somiglia a ciò che significa

come nel caso dell’alfabeto dei segni delle persone sorde. Altri emblemi possono essere

iconici, iconico-pittorici, iconico-cinetici o intrinsecamente codificati.

1.4.2 Illustratori.

Gli illustratori sono legati in maniera diretta al linguaggio e servono ad illustrare ciò che

viene detto verbalmente. Ekman e Friesen riprendono la terminologia e la

classificazione di Efron per isolare sei tipi di illustratori: Batons (Bacchette-Bastoni),

movimenti che scandiscono il tempo, accentuano o enfatizzano una parola o frase

particolare, ‘beat the tempo of mental locomotion’5; Ideographs (Ideografici),

movimenti che forniscono un’idea della direzione del pensiero; Deictic movements

(Movimenti deittici) che indicano un oggetto; Spatial movements (Movimenti spaziali)

che illustrano una relazione spaziale; Kinetographs (Cinetografici), movimenti che

5
Ekman and Friesen in “The repertoire of non-verbal behavior: categories, origins, usage and coding”,
Semiotica, 1969, 1, 68

31
delineano un’azione del corpo. Il sesto tipo di illustratore, non descritto da Efron, è

quello dei Pictographs (Pittografici), che tracciano un disegno del loro referente. Tutti

questi tipi di illustratori sono strettamente correlati al linguaggio verbale concomitante;

sono direttamente legati al contenuto, all’intonazione, al volume della conversazione,

etc. Gli illustratori possono ripetere, sostituire, contraddire o aumentare l’informazione

trasmessa verbalmente.

Questo tipo di comportamento non verbale è simile a quello degli emblemi in termini di

consapevolezza e intenzionalità. La persona che usa un illustratore può essere

leggermente meno consapevole di ciò che sta facendo e il suo uso degli illustratori può,

in qualche modo, essere meno intenzionale; gli illustratori hanno probabilmente lo

stesso grado di intenzionalità delle parole pronunciate quando il parlante è eccitato,

quando non pianifica ciò che sta per dire e quindi non è molto prudente nella scelta delle

sue parole.

Gli illustratori sono appresi socialmente, primariamente attraverso l’imitazione, da parte

dei bambini, di coloro con cui desiderano identificarsi o a cui vogliono assomigliare;

essi variano in base al background culturale e sociale degli individui, com’è stato

dimostrato da Efron nel caso degli immigrati italiani ed ebrei.

Tutti gli illustratori sono sia iconicamente sia intrinsecamente codificati. L’illustratore

deittico è un movimento usato per indicare quindi è intrinsecamente codificato. I bastoni

e gli ideografici sono forme di codificazione ritmico-iconica. Non trasmettono il

contenuto dei messaggi. Sono iconicamente codificati, ma in termini del ritmo. Gli

illustratori spaziali sono iconici se rappresentano relazioni spaziali, intrinseci se

cambiano realmente le relazioni spaziali. I pittografici sono iconici perché, per

definizione, un’immagine deve somigliare al suo significante ma non può identificarsi

32
con esso. I cinetografici sono comportamenti cinetici, iconici se rappresentano il

movimento di una forza naturale o un’azione meccanica o se somigliano ad un’azione

umana, intrinseci se riproducono un’azione umana, almeno in parte.

1.4.3 Regolatori.

Un altro tipo di comportamento non verbale è quello dei regolatori, atti che mantengono

e regolano la natura dinamica della conversazione e dell’ascolto tra due o più

interagenti. I regolatori dicono al parlante di continuare, ripetere, elaborare, accelerare il

ritmo della conversazione, suscitare più interesse, essere meno volgare, concedere il

turno di parola, etc. Possono invitare l’ascoltatore a prestare maggiore attenzione, ad

aspettare, a prendere il turno di parola, etc. I regolatori sono legati al flusso della

conversazione, al ritmo dello scambio. Un esempio molto comune di regolatore è il

cenno della testa, l’equivalente dell’espressione verbale “mm-hmm”; rientrano nella

categoria dei regolatori i contatti realizzati attraverso gli occhi, i leggeri movimenti in

avanti, piccoli cambi posturali, il sollevamento delle sopracciglia e altri piccoli atti non

verbali.

Molti regolatori non veicolano il contenuto dei messaggi ma veicolano informazioni

necessarie a mantenere il ritmo della conversazione; essi gestiscono lo scambio tra i

parlanti senza porre enfasi sulla parola. Il fatto che un’altra persona possa essere

influenzata da un comportamento non verbale non implica che la regolamentazione sia

l’unico intento del comportamento.

Chi compie un atto regolatore non ne è pienamente consapevole ma riesce a

ricordarsene e a ripeterlo. Allo stesso modo, l’altro parlante riesce a percepire quando i

regolatori vengono rimossi ma raramente è consapevole della loro presenza. Questi atti

33
non sono intenzionali ma quasi involontari. Essi sono culture-specific e variano,

all’interno di una cultura, in base alle caratteristiche demografiche della persona.

1.4.4 Adattatori.

Gli adattatori costituiscono la categoria del comportamento non verbale più complessa

da descrivere. Ekman e Friesen suppongono che questi atti siano stati appresi

originariamente (durante l’infanzia) come parte di sforzi adattivi per soddisfare esigenze

personali o corporee, o per compiere azioni corporee, gestire le emozioni, sviluppare o

mantenere i contatti interpersonali o per imparare attività strumentali. All’interno di

questa categoria si distinguono gli auto adattatori (self-adaptors), appresi per

padroneggiare o gestire diversi problemi o necessità, gli etero adattatori (alter-directed

adaptors) che hanno origine in movimenti appresi nei primi contatti interpersonali e gli

oggetto adattatori (object-adaptors), movimenti appresi originariamente nell’esecuzione

di alcuni compiti strumentali: guidare una macchina, fumare,etc.

Se originariamente appresi gli adattatori sono associati a determinate condotte, a delle

particolari emozioni percepite, alle aspettative, a determinati tipi di interazioni

interpersonali e a particolari ambientazioni. Se appaiono negli adulti, invece, è perché

qualcosa presente nell’ambiente circostante fa emergere dei comportamenti appresi

durante l’infanzia. I comportamenti adattivi originariamente appresi sono raramente

portati a compimento e, se osservati senza conoscere l’origine dell’attività, possono

sembrare casuali o possono generare comportamenti rumorosi. Possiamo constatare

quindi che gli adattatori emessi dagli adulti sono legati all’abitudine, non intendono

veicolare dei messaggi e di solito sono emessi senza consapevolezza.

34
1.4.5 Affect displays.

L’ultima categoria di comportamento non verbale è costituita dagli Affect displays

(Esibitori di emozioni), punto focale delle ricerche di Paul Ekman.

Ekman e Friesen, proprio come Tomkins (1962, 1963, 1964), ritengono che il luogo

primario di realizzazione degli affect displays sia il viso. Tuttavia alcuni comportamenti

facciali, come i movimenti della bocca conseguenti alle parole, il mordersi delle labbra

e la chiusura degli occhi sono meglio caratterizzati come adattatori. Alcuni movimenti

corporei, come la reazione istantanea allo spavento e forse il tremore, sono esibitori di

emozioni; generalmente però i movimenti del corpo si presentano in risposta alle

emozioni e sono rilevanti per stabilire il modo in cui la persona fa fronte alle emozioni

esibite a livello facciale; essi sono la conseguenza comportamentale dell’emozione,

piuttosto che l’esibizione dell’emozione stessa.

I due ricercatori concordano con Tomkins e Darwin sul fatto che i movimenti dei

muscoli facciali siano distintivi per ciascuno stato affettivo primario e che questi siano

comuni a tutta l’umanità. Nonostante le differenze negli orientamenti teorici, nei

metodi, nella nazionalità dei soggetti esaminati, diversi studi (inclusi quelli di Ekman e

Friesen) hanno dimostrato una certa coerenza che ha condotto gli studiosi a stilare una

lista provvisoria, forse parziale, delle emozioni primarie: gioia, sorpresa, paura,

tristezza, rabbia, disgusto e interesse.

Ekman e Friesen hanno anche constatato che ciascuno di questi stati affettivi può essere

facilmente distinto dagli osservatori degli affect displays facciali all’interno della

propria cultura e che molte di queste emozioni possono essere prontamente distinte

dagli osservatori nelle altre culture, nonostante le difficoltà linguistiche nella traduzione

o l’impossibilità a trovare la parola corretta per descrivere un’emozione possano

35
introdurre errori che possono essere interpretati in maniera sbagliata come differenza

culturale.

Darwin sosteneva che gli affect displays si fossero evoluti dalle attività funzionali

associate ai movimenti muscolari del viso; ciò richiederebbe l’esistenza di meccanismi

ereditari che mettano in relazione la comparsa di un’emozione con tali movimenti.

Tomkins ha proposto una teoria del modo in cui questi meccanismi dovrebbero

funzionare supponendo che almeno alcuni degli stimoli che suscitano le emozioni

abbiano una natura fisiologica.

Pur non distaccandosi dalle teorie di Tomkins, Ekman e Friesen hanno cercato delle

spiegazioni alternative che non prevedono un’associazione ereditaria tra gli stimoli che

suscitano le emozioni e i movimenti muscolari facciali che contraddistinguono ciascuna

emozione primaria. È probabile che gli affect displays facciali si evolvano allo stesso

modo per ciascun individuo durante il corso del suo sviluppo; questi esibitori facciali di

emozioni potrebbero essere basati su delle caratteristiche umane sviluppate ed elaborate

nell’apprendimento di alcune attività rudimentarie o basate su alcuni riflessi.

Gli affect displays per il disgusto, per esempio, potrebbero essere l’evoluzione di alcuni

movimenti della bocca e del naso coinvolti nel rifiuto di gusti o odori sgradevoli.

Gli affect displays per la rabbia potrebbero essere derivati dai movimenti muscolari

nelle aree della bocca e degli occhi necessari a prevenire la rottura dei capillari degli

occhi e dei polmoni quando viene esercitato uno sforzo maggiore in queste aree, o forse

dai movimenti del mordere.

Gli affect displays della tristezza potrebbero trarre origine dallo stato di relax

determinato dalla spossatezza in combinazione con alcune delle caratteristiche associate

alla persistenza del dolore fisico.

36
La paura potrebbe derivare dalla combinazione del riflesso spontaneo allo spavento e

delle contrazioni di dolore.

Ekman e Friesen credono che, mentre i muscoli facciali che si muovono quando viene

suscitata una particolare emozione sono gli stessi nelle varie culture, gli stimoli che

provocano le emozioni, le emozioni correlate, le regole di esibizione e le conseguenze

comportamentali possono variare enormemente da una cultura all’altra.

Gli stimoli evocatori (evoking stimuli), secondo Tomkins, possono essere sia non

appresi dall’uomo sia appresi socialmente in relazione ad eventi, ricordi e emozioni. Per

esempio, quando una persona è arrabbiata il viso mostrerà una determinata

configurazione, ma ciò che provoca il sentimento di rabbia è almeno in parte appreso

socialmente e varia nelle differenti culture.

Le regole di esibizione (display rules) sono apprese socialmente, probabilmente

abbastanza presto nella vita, e suggeriscono differenti procedure per la gestione

dell’esibizione delle emozioni in diverse ambientazioni sociali, ruoli, etc. Si possono

distinguere almeno quattro regole di esibizione. Una prima regola suggerisce di

attenuare gli indizi visivi di una data emozione; per esempio, se si è molto impauriti si

deve cercare di apparire moderatamente o leggermente impauriti. Una seconda regola di

esibizione è quella di intensificare al massimo l’espressione. Una terza regola è quella di

non mostrare alcuna emozione e apparire quindi neutrali. Una quarta regola suggerisce

di mascherare l’emozione provata nel miglior modo possibile dissimulandola attraverso

un’altra emozione. Ekman e Friesen ritengono che ci siano delle norme sociali ben

stabilite per capire quale regola di esibizione sia appropriata per ciascuna emozione

provata da individui di diverso stato sociale, ruolo, sesso, età e fisionomia.

37
Diversi studi hanno suggerito che in ogni istante la faccia trasmette delle combinazioni

di emozioni (affect blends) piuttosto che un singolo stato emozionale. Queste emozioni

multiple potrebbero essere dettate dalle circostanze che le suscitano oppure potrebbero

avere origine da abitudini che associano un’emozione con un’altra. Le emozioni che

vengono combinate possono variare a seconda degli individui, delle classi sociali e delle

famiglie o essere comuni all’interno di una cultura, e possono essere esibite sia

simultaneamente che in rapida successione.

Queste combinazioni di emozioni possono generare confusione se si paragonano gli

affect displays di diverse culture. Se, ad esempio, in una cultura la tristezza provata per

un funerale viene associata alla paura ma in un’altra cultura la tristezza viene associata

alla rabbia, sicuramente si avranno delle differenze nelle esibizioni facciali di emozione.

La conseguenza comportamentale (behavioral consequence) di un affect display può

essere facilmente determinata dalla postura del corpo e dai movimenti, sebbene la faccia

potrebbe mostrare l’emozione associata ad una specifica conseguenza comportamentale.

Tali movimenti spesso non differenziano un’emozione facciale da un’altra; per esempio,

la conseguenza comportamentale della fuga potrebbe verificarsi anche in caso di rabbia,

paura, o persino disgusto in particolari contesti sociali. Il fatto che le persone mostrino

movimenti corporei molto diversi dopo aver esibito la stessa espressione facciale non

significa che l’emozione facciale è insignificante o irrilevante.

Grazie all’ottimo feedback che abbiamo sul comportamento facciale, siamo solitamente

consapevoli di ciò che succede nel momento in cui cambiamo movimenti facciali;

possiamo monitorare, inibire e dissimulare con i nostri volti. Il problema per chi osserva

la realizzazione di queste emozioni facciali, se c’è il sospetto che ci sia un inganno in

38
corso, è quello di capire quali emozioni siano menzognere e quali costituiscano una fuga

di informazioni più involontaria (Ekman and Friesen, 1969).

Gli altri interagenti pongono grande attenzione e inviano un feedback esterno, in forma

di commenti diretti, sul comportamento facciale e sugli affect displays. Sebbene le

persone non si guardino costantemente in faccia, il viso riceve maggiore attenzione

visiva di qualsiasi altra parte del corpo.

Gli affect displays possono essere legati al linguaggio verbale in diversi modi: possono

ripetere, qualificare o contraddire un’emozione affermata verbalmente o essere un

canale di comunicazione separato, indipendente. Un particolare gruppo sociale o cultura

potrebbe scegliere un intero affective display o un elemento di esso e codificarlo in

maniera così esplicita da essere riconosciuto ed usato come emblema; in molte culture il

sorriso rappresenta un emblema del genere.

Molti esibitori di emozioni sono informativi, in particolar modo se durano abbastanza

da poter essere facilmente osservati. Molto spesso essi modificano il comportamento

degli altri interagenti. Molti affect displays non sono comunicativi poiché sono emessi

senza alcuna intenzione di trasmettere un messaggio. Persino il tentativo delle display

rules di modificare gli affective display di solito avviene al di sotto del livello di

consapevolezza, è basato su abitudini profondamente radicate e ha poca intenzione di

trasmettere un messaggio. Ma ci possono essere anche casi in cui il mittente

intenzionalmente emette un movimento muscolare per inviare un messaggio.

La codificazione degli affect displays non è del tutto ovvia. Sia la spiegazione di

Darwin della loro evoluzione, sia il racconto di Ekman e Friesen di come alcuni

esibitori possano naturalmente svilupparsi nel corso della vita di ogni persona,

sembrano suggerire che alcuni displays siano o intrinsecamente codificati o iconici.

39
Capitolo 2.Il comportamento non verbale della menzogna.

2.1 Introduzione alla menzogna.

“Le bugie sono per natura così feconde, che una ne suole partorir cento.”

[Carlo Goldoni, Il Bugiardo-Commedia di tre atti in prosa]

Nella commedia “Il Bugiardo” di Carlo Goldoni Lelio, uno dei protagonisti, cerca

incessantemente di smetterla di dire bugie ma, come afferma, non vi riesce facilmente in

quanto ogni bugia ne genera un’altra in maniera istantanea come se, per coprirne una,

bisognasse costruirne altre per rimediare al danno che la menzogna stessa ha prodotto.

Sembra quasi che l’unico metodo efficace per giustificare una bugia sia un’altra bugia.

Il primo documento importante relativo agli indizi di inganno è stato pubblicato da

Ekman e Friesen nel 1969. Essi hanno descritto due ampie categorie di indizi: leakage

cues e deception cues. I leakage cues rivelano ciò che i bugiardi stanno tentando di

nascondere-tipicamente il modo in cui si sentono realmente. Se invece l’espressione

facciale è talmente breve da non poter essere percepita, allora l’esibizione della

microespressione funzionerà come un deception cue. I deception cues indicano che un

inganno potrebbe essere in corso, senza indicare la natura dell’informazione che si sta

nascondendo.

I due studiosi (1969) hanno anche esaminato varie condizioni in cui sembra che i

bugiardi abbiano maggiori probabilità di riuscire nei loro tentativi di inganno (forse

mostrando meno indizi rivelatori di menzogna o indizi meno ovvi).

I tentativi che i bugiardi fanno per controllare i loro comportamenti, affinché possano

tenere in piedi il loro inganno, possono paradossalmente diventare degli indizi che

tradiscono proprio la menzogna che stavano architettando. Ad esempio, il

comportamento dei bugiardi potrebbe apparire meno spontaneo di quello di chi dice la

40
verità. Può succedere anche che l’incapacità dei bugiardi di controllare tutti gli aspetti

del loro comportamento si traduca in discrepanze verbali e non verbali. Sono proprio

tali discrepanze che mettono in guardia l’ascoltatore e lo spingono ad indagare per poter

comprendere se si è in presenza di un tentativo di inganno oppure no.

Il contributo più importante di Ekman, comunque, è stata la sua concettualizzazione del

ruolo delle emozioni nell’inganno. Se si comprendono le emozioni che i bugiardi

provano, sostiene Ekman, è possibile predire i comportamenti che distinguono i

bugiardi da coloro che dicono la verità. Per esempio, la preoccupazione per l’inganno

messo in atto è suggerita dagli indizi di paura. Questi includono toni di voce più alti,

modo di parlare più veloce e più rumoroso, pause, errori nel parlare e discorso indiretto.

Più grande sarà la preoccupazione di essere scoperti, più evidenti saranno gli indizi di

paura. Per esempio, i bugiardi potrebbero apparire più impauriti man mano che la posta

in gioco sale e la probabilità di successo diminuisce.

Questo è ciò che afferma Paul Ekman riguardo alle bugie nell’Introduzione a “Telling

Lies”, che si potrebbe quasi considerare il manifesto degli studi sulla “deception

detection”:

“Lies can be cruel too, but all lies aren't. Some lies, many fewer than liars

will claim, are altruistic. Some social relationships are enjoyed because of

the myths they preserve. But no liar should presume too easily that a

victim desires to be misled. And no lie catcher should too easily presume

the right to expose every lie. Some lies are harmless, even humane.

Unmasking certain lies may humiliate the victim or a third party.” [Paul

Ekman, Telling Lies-Cues to deceit in the marketplace, politics and

marriage, Norton & Company, 1992, pp.23]

41
Nella definizione di menzogna di Paul Ekman “una persona intende trarre in inganno

un’altra deliberatamente, senza avvertire delle sue intenzioni e senza che il destinatario

dell’inganno gliel’abbia esplicitamente chiesto.”

Esistono fondamentalmente due modi di mentire: dissimulare e falsificare. Nella

dissimulazione, la persona che mente nasconde alcune informazioni senza dire

effettivamente nulla di falso. Nella falsificazione, invece, non solo l’informazione vera

viene celata, ma viene presentata un’informazione falsa come se fosse vera.

Solitamente se si ha la possibilità di decidere il modo in cui mentire, si preferisce la

dissimulazione alla falsificazione perché questa comporta diversi vantaggi. Innanzitutto

nascondere qualcosa è più semplice che dire il falso perché non bisogna inventare nulla

e non c’è il rischio di essere scoperti senza aver preparato una storia che regga. Bisogna

ovviamente anche avere una buona memoria per mentire. La dissimulazione forse è

preferita anche perché il mentitore può sentirsi meno colpevole di aver nascosto la

verità che di aver affermato il falso.

Le bugie per omissione sono anche facili da coprire se in seguito vengono scoperte. Il

bugiardo può tranquillamente trovare diverse scuse: dimenticanza, ignoranza, volontà di

rivelare la cosa più tardi, etc.

Per alcune bugie è indispensabile utilizzare, fin dall’inizio, la strategia della

falsificazione. Se, ad esempio, siamo nella condizione di dover rifiutare un invito noioso

senza offendere l’ospite non basta celare la verità, ma bisogna anche inventare una

scusa plausibile.

La falsificazione interviene anche quando bisogna coprire le prove di ciò che si vuole

nascondere. Questo uso del falso per mascherare la verità che si vuol dissimulare è

particolarmente necessario quando si devono nascondere le emozioni. Nascondere

42
un’emozione passata è piuttosto facile ma celarne una che si prova nel momento in cui

si mente, in particolar modo se è intensa, è molto più difficile. Quanto più intensa è

l’emozione sentita, tanto è più probabile che qualche segno trapeli, nonostante gli sforzi

per mascherare l’emozione.

Per mentire possono essere usate anche altre tecniche: si può mentire sulla causa dei

propri sentimenti, si può dire la verità in maniera sprezzante per far in modo che la

vittima non ci creda, si può esagerare la verità mettendo in ridicolo i sospetti dell’altro

interagente, si può usare una dissimulazione a metà dicendo la verità ma solo

parzialmente, si può usare una risposta evasiva che suggerisce una conclusione

sbagliata.

“…il fatto è che non c'è nessun segno della menzogna in sé, nessun gesto,
espressione del viso o spasmo muscolare che in sé e per sé significhi che
una persona sta mentendo. Ci sono soltanto indizi indiretti da cui può
trasparire qualcosa. Chi cerca di mascherare bugie deve sapere come si
manifestano le emozioni nel linguaggio, nella voce, nella mimica e nei
gesti, deve conoscere le tracce che possono restare malgrado gli sforzi per
dissimulare i sentimenti e che cosa tradisce la falsità di emozioni
simulate.” [Paul Ekman, I volti della menzogna, Giunti Editore S.p.A.,
2009, pp.69]

Scoprire una bugia mentre viene detta non è una cosa semplice perché ci sono troppi

aspetti da prendere in considerazione: il tono della voce, la mimica facciale, le

espressioni, le pause, la respirazione, la postura, etc. Tutte queste fonti possono

trasmettere informazioni simultaneamente o quasi, confondendo l’osservatore che

spesso presta maggiore attenzione alle fonti meno degne di fede (le parole e la mimica

facciale) e ignora quelle più attendibili. Chi mente solitamente non riesce a controllare

tutti gli aspetti del proprio comportamento ma cerca di nascondere o mascherare quello

su cui si aspetta che gli altri debbano concentrare l’attenzione.

43
La massima cura è dedicata, per iniziare, alla scelta delle parole perché costituiscono il

mezzo più ricco attraverso il quale è possibile esprimersi e perché è facile affermare

cose non vere e metterle perfino per iscritto.

Dopo le parole, il viso è quello che riceve maggiore attenzione dagli altri interagenti. Il

volto è di fondamentale importanza perché è segno distintivo e simbolo dell’identità

personale; esso costituisce la sede primaria per la manifestazione delle emozioni,

sebbene le informazioni fornite non siano sempre attendibili.

In confronto all’attenzione rivolta alle parole e al volto, il corpo e la voce non ne

ricevono molta. Di solito il corpo fornisce molte meno informazioni del viso e la voce

molte meno delle parole, ragion per cui il bugiardo cerca di controllare le parole e

l’espressione del viso, consapevole del fatto che maggiore attenzione viene riservata a

questi due aspetti dell’interazione.

Chi sospetta un inganno dovrebbe prestare più attenzione al corpo e alla voce perché

essi possono fornire degli indizi fondamentali: la voce, proprio come il volto, è

collegata a zone del cervello coinvolte nelle emozioni pertanto è difficilissimo

nascondere alcuni cambiamenti che si verificano quando si è emozionati. Il corpo,

invece, lascia trapelare molti indizi perché non siamo abituati a preoccuparci dei

movimenti dei nostri arti e quindi li ignoriamo e focalizziamo la nostra attenzione sulle

parole e sul volto di chi parla. Spesso la menzogna viene scoperta grazie a delle

discrepanze tra le parole e ciò che rivelano la voce, i gesti e l’espressione facciale.

Tuttavia, la maggior parte degli indizi provenienti da questi aspetti dell’interazione

viene ignorata o interpretata male.

44
2.2 Le parole.

Molti bugiardi sono traditi dalle loro parole per pura e semplice disattenzione: spesso

capita che essi non si curino di inventare una storia che funzioni. Può anche capitare,

persino al mentitore più accorto, di essere tradito da un lapsus freudiano. Secondo

Freud, il lapsus esprime «qualcosa che non si desiderava dire; esso diventa un modo di

tradire se stessi».6

Freud sosteneva anche che «la soppressione dell'intenzione di dire qualcosa è la

condizione indispensabile per la comparsa di un lapsus linguae».7 Il lapsus linguae non

sempre è sinonimo di menzogna. Solitamente il contesto aiuta a capire se il lapsus rivela

una bugia o no; spesso si giudica erroneamente sincera una persona solo perché non

incorre in nessun lapsus ma bisogna sapere che molte bugie non ne presentano affatto.

Freud non ha fornito una spiegazione del motivo per il quale alcune menzogne sono

tradite dal lapsus e la maggior parte invece no; è probabile che i lapsus si presentino

quando il bugiardo intende essere smascherato, quando prova un certo senso di colpa.

Un altro modo in cui il bugiardo può essere tradito sono le tirate declamatorie. Si tratta

di un errore vistoso, non limitato a una o due parole, che fornisce numerose

informazioni. Chi parla si lascia trasportare da emozioni incontenibili (spavento, furore,

orrore o disperazione) e si rende conto delle conseguenze di ciò che sta rivelando solo

troppo tardi.

Il bugiardo può essere tradito anche da un altro tipo di indizio, come suggerito da Tom

Brokaw, conduttore televisivo: si tratta delle risposte involute e dei giri di parole evasivi

e complicati. Alcuni studi confermano che quando alcune persone mentono danno

davvero risposte indirette, piene di circonlocuzioni. Altre ricerche affermano, invece,


6
S. Freud, The Psychopathology of Everyday Life (1901), vol. 6 of The Complete Psychological Works,
edited by James Strachey, New York, W. W. Norton, 1976, p. 86.
7
S. Freud, Parapraxes (1916), in The Complete Psychological Works, vol. 15, p.66.

45
che solitamente il bugiardo è troppo furbo per dare risposte indirette o evasive. Bisogna

però essere cauti nel giudicare la sincerità delle persone in base a delle risposte evasive:

alcuni individui parlano abitualmente in questo modo, esprimendosi in maniera involuta

ed evasiva. La possibilità di valutare ingiustamente persone del genere viene chiamata

da Paul Ekman “effetto Brokaw”. 8 Chi tenta di scoprire le menzogne può cadere in

errore se non conosce l’indiziato e ha poca familiarità con alcuni aspetti caratteristici del

suo comportamento.

Sembra che ci siano almeno quattro tipi di indizi linguistici associati all’inganno: il

numero totale di parole, l’uso dei pronomi, le parole inerenti i sensi e i sentimenti, i

termini esclusivi (Burgoon, Buller, Floyd & Grandpre, 1996; Burgoon, Bliar, Qin, &

Nunamaker, 2003; Newman, Pennebaker, Berry, & Richards, 2003; Pennebaker et al.,

2003).

Per quanto riguarda le differenze nel numero di parole tra messaggi menzogneri e

veritieri, sembra che i mittenti forniscano meno dettagli quando mentono che quando

dicono la verità. Ciò accade perché i mittenti hanno poca familiarità con ciò di cui

stanno discutendo o perché stanno cercando di evitare dettagli che potrebbero essere

inconsistenti per la storia che hanno architettato.

Per quanto riguarda l’uso dei pronomi, Newman et al. (2003) hanno osservato che gli

individui tendono ad utilizzare i pronomi di prima persona singolare con minore

frequenza quando mentono che quando dicono la verità. L’uso di pronomi di prima

persona singolare come “I”, “me” o “my” (Io, me, mio) indica che il parlante si assume

la responsabilità di quanto detto, mentre i bugiardi si astengono dall’usare questi

pronomi di prima persona singolare sia per una mancanza di esperienza personale sia

8
L’effetto Brokaw fa riferimento a differenze individuali nel comportamento emotivo.

46
per il desiderio di distaccarsi dall’inganno messo in atto. Per quanto riguarda i pronomi

di seconda e terza persona, alcuni studi hanno dimostrato che è meno probabile che i

bugiardi usino tali pronomi (Newman et al., 2003) mentre altri studi hanno constatato

che in effetti i bugiardi usano più pronomi di seconda e terza persona (Ickes, Reidhead,

& Patterson, 1986). Secondo Ickes et al. (1986), coloro che si preoccupano di costruire

messaggi ingannevoli si focalizzano maggiormente sugli altri interagenti e quindi usano

più pronomi di seconda e terza persona. Anche DePaulo et al. (2003) hanno riscontrato

che è più probabile che i bugiardi usino pronomi di terza persona nelle loro interazioni

ingannevoli.

Gli studi sugli indizi verbali associati ai termini relativi ai sensi e ai sentimenti (vedere,

toccare, ascoltare, etc.) hanno suggerito che i bugiardi tendono ad essere più espressivi

di chi dice la verità (Burgoon et al., 2003).

Infine, altre ricerche hanno suggerito che i bugiardi usano meno parole esclusive

rispetto a chi dice la verità (Newman et al., 2003). Le parole esclusive includono

preposizioni e congiunzioni come “ma”, “tranne”, “senza”, “eccetto”. Tali parole

implicano la scelta, da parte del bugiardo, di stabilire cosa di quello che dice rientra in

una categoria e cosa no.

2.3 La voce.

Fanno parte di questo raggruppamento tutti gli aspetti del comportamento verbale,

escluse le parole. Le pause nel discorso, che possono essere troppo lunghe o troppo

frequenti, sono tra gli indizi vocali più comuni che fanno sospettare un inganno.

Possono destare sospetti anche l’esitazione al momento di attaccare a parlare,

soprattutto in risposta a una domanda, pause più brevi durante il discorso, intromissione

47
nell’interazione verbale di “non parole” (ehm, uhm, etc.), le ripetizioni e le parole

ripetute a metà.

Gli errori e le pause possono presentarsi per due motivi simili. Il bugiardo può non aver

preparato in maniera convincente la sua storia oppure, sebbene l’abbia preparata alla

perfezione, viene sopraffatto dall’ansia di essere scoperto e la paura accentua le pause e

gli intoppi.

Anche il suono della voce può essere utile per individuare l’inganno. Sono stati trovati

diversi modi per distinguere la voce in concomitanza di emozioni positive o negative,

ma non si sa ancora con certezza se la voce differisca a seconda dell’emozione

spiacevole che si prova (rabbia, paura, dolore, disgusto, disprezzo). Tra i segni vocali di

emozione più documentati ritroviamo l’acutezza (pitch): circa il 70% delle persone

esaminate mostra toni di voce più acuti in situazioni di turbamento. Con tutta

probabilità questo avviene quando il soggetto prova rabbia o paura. Sembra invece che

con la tristezza e il dispiacere la voce cali di tono, ma non esistono certezze a riguardo.

Non si sa se, in caso di eccitazione, disgusto e disprezzo ci siano delle variazioni. Altri

segni sono l’accelerazione e l’aumento di volume se il soggetto prova collera o paura, il

rallentamento e l’abbassamento di volume in caso di tristezza.

È difficile nascondere le alterazioni della voce prodotte dalle emozioni. Se la bugia

riguarda le emozioni provate nel momento dello scambio verbale, ci sono buone

probabilità che la verità trapeli. Alcune bugie, anche se non mirano in partenza a

mascherare certe emozioni, possono essere tradite dal suono della voce: basta che

l’emozione entri in gioco. Per esempio il timore di essere scoperti può produrre

l’alterazione tipica della paura.

48
La voce acuta non è sempre sinonimo di falsità: succede a volte che una persona

sincera, preoccupata di non essere creduta, manifesti la stessa alterazione del tono di

voce di un bugiardo che teme di essere colto in flagrante. La tendenza a giudicare

qualcuno in base all’acutezza della voce, denominata da Paul Ekman “errore di Otello”,

può confondere l’interpretazione di altri potenziali indizi.

Nello stesso modo in cui il segno vocale di un’emozione non sempre rivela una

menzogna, così anche l’assenza di questi segni non necessariamente è prova di

sincerità; alcune persone non mostrano mai emozioni, almeno nella voce, mentre altre

persone, che si emozionano facilmente, possono non turbarsi affatto per una menzogna

che stanno dicendo.

2.4 Il corpo.

Fig. L’intervista agli studenti

Per dimostrare che i movimenti corporei si alterano in condizioni di stress, Paul Ekman

ideò il seguente esperimento: invitò il suo docente universitario ad interrogare alcuni

studenti del suo corso su un argomento per loro molto delicato: che cosa avrebbero fatto

al termine degli studi? Ad ogni loro possibile risposta, la reazione del professore era di

49
notevole disapprovazione. Il docente attaccava coloro che parlavano di un lavoro di

ricerca accusandoli di non portare aiuto alle persone sofferenti. A quelli che invece

dicevano di volersi dedicare alla psicoterapia, rimproverava il fatto di mirare solo al

guadagno tralasciando la ricerca, fondamentale per trovare nuovi metodi d’intervento in

ambito clinico. Il docente costituiva una reale fonte di stress per gli intervistati.

Alla prima intervista, una studentessa puntò il dito medio contro il professore

mantenendo la posizione per quasi un minuto. Eppure non sembrava fuori di sé dalla

rabbia, né il professore dava l'impressione di averlo notato. Questo lapsus gestuale non

esprimeva un sentimento inconscio: la ragazza sapeva di essere arrabbiata, ma non si

rendeva conto di aver fatto un gesto osceno al suo docente. Il gesto involontario aveva

lasciato trapelare i sentimenti che cercava di dissimulare.

Mostrare il dito è un esempio di gesto emblematico, un vero e proprio segnale

convenzionale che ha un senso molto preciso, noto a tutti nell’ambito di un certo gruppo

culturale. Si sa bene che il dito medio puntato significa “Va’ a farti fottere”! Fanno parte

di questo tipo di gesti emblematici anche l’atto di annuire, scuotere la testa, chiamare

con la mano, fare ciao, la mano all’orecchio (per invitare a parlare più forte), etc.

Solitamente chi fa un gesto del genere ha deciso deliberatamente di formulare un

messaggio, ma ci sono delle eccezioni. Così come esistono i lapsus linguae, esistono

anche i lapsus gestuali. Ci sono due elementi per capire se si tratta realmente di un gesto

involontario, un vero e proprio lapsus che tradisce un’informazione nascosta. Uno è che

viene eseguito solo un frammento del gesto, non l’intera azione. L’altro elemento che

indica che si tratta di un lapsus anziché di un messaggio volontario è che l’azione è

eseguita fuori della normale posizione di presentazione. Normalmente questi gesti sono

eseguiti in faccia all’altro interlocutore e non è possibile che passino inosservati in

50
questa posizione. Quando sfugge involontariamente, il gesto non è mai eseguito nella

posizione regolamentare. Se il gesto non fosse incompleto e fuori posto, il soggetto che

mente se ne accorgerebbe e censurerebbe il movimento in questione. Naturalmente,

queste caratteristiche che contraddistinguono i lapsus gestuali rendono difficile anche

agli altri notarli. In ogni caso non è garantito che il bugiardo incorra in questi lapsus

gestuali, ma quando questi si presentano sono molto attendibili.

Ulteriori indizi di falso possono essere forniti dagli illustratori, un altro tipo di

movimento corporeo che illustra il discorso mentre viene pronunciato. I modi sono

diversi: si può enfatizzare una parola o un’espressione, si può tracciare per aria il

percorso del pensiero, le mani possono disegnare un’immagine o mostrare un’azione,

ripetendo o amplificando ciò che si sta dicendo. É importante distinguere gli illustratori

dai gesti emblematici perché, mentre i lapsus gestuali tendono ad accentuarsi in

concomitanza con le menzogne, i gesti illustrativi di solito diminuiscono. In alcune

culture l’uso degli illustratori è abbondantissimo, in altre ridotto al minimo ma non è il

numero o il tipo di questi gesti che può tradire una bugia. Generalmente l’indizio viene

dall’osservare una diminuzione degli illustratori, quando una persona parlando gesticola

meno del suo solito; questi gesti tendono a scomparire quando si devono soppesare

attentamente tutte le parole prima di pronunciarle, ogniqualvolta ci sono preoccupazione

e cautela nel parlare. Tutto questo, però, può non avere nulla a che fare con le bugie; la

cautela, infatti può anche essere dovuta alla grossa posta in gioco.

Nelle sue ricerche sulla capacità di giudicare la sincerità e la menzogna, Ekman ha

notato che i soggetti consideravano bugiardi coloro che presentavano molti gesti

manipolatori. Fanno parte di questa categoria tutti quei movimenti in cui una parte del

corpo cura, strofina, massaggia, pizzica, graffia o comunque manipola un’altra parte del

51
corpo. Questi gesti possono avere durata brevissima oppure continuare per alcuni

minuti.

Un errore comune consiste nel giudicare falsa una persona che dice il vero solo perché

presenta molti di questi movimenti. Le manipolazioni possono essere un segno di

turbamento e un loro aumento non è segno attendibile di menzogna, anche se la gente lo

crede.

Le ragioni per cui i comportamenti di manipolazione non sono attendibili sono diverse.

Innanzitutto la variabilità individuale nella frequenza e nel tipo di manipolatori abituali

è enorme. È possibile ovviare a questo problema delle differenze individuali (effetto

Brokaw) solo se si ha una conoscenza precedente dell’indiziato e si possono fare

raffronti. Anche l’errore di Otello interviene nell’interpretazione dei gesti manipolatori,

in quanto questi aumentano nelle situazioni di disagio di qualsiasi tipo. Si tratta di un

problema rilevante perché le manipolazioni non sono soltanto segni di disagio: in alcuni

casi possono testimoniare anche tranquillità e rilassamento.

Un altro aspetto che è stato esaminato è quello della postura, ma nessuno ha potuto

dimostrare l’esistenza di indizi posturali capaci di tradire la menzogna. Sembra che non

ci siano differenze sostanziali nella postura dei soggetti che mentono e di quelli che

dicono il vero.

2.5 Indizi dal sistema vegetativo.

Anche il sistema nervoso autonomo produce alcune alterazioni somatiche degne di nota,

in concomitanza con le emozioni. Le alterazioni più frequenti si riscontrano nella

respirazione, nella frequenza della deglutizione, nella sudorazione, nel rossore, nel

pallore e nell’aumento della frequenza cardiaca. Questi cambiamenti sono prodotti

52
involontariamente quando c’è un’eccitazione emotiva, sono difficilissimi da reprimere e

per questo possono costituire indizi molto attendibili per scoprire eventuali menzogne.

Per misurare queste alterazioni vegetative sono stati messi a punto diversi congegni, tra

i quali il “lie detector”, detto anche poligrafo o comunemente “macchina della verità”,

è il più conosciuto. La controversia sulla “macchina della verità” è alimentata da

numerosi casi, sia a favore sia contro, ed è estremamente accesa e aspra. Esattamente

come per gli indizi comportamentali di falso, chi mente può tradirsi in un esame col

poligrafo a causa del timore di essere scoperto, del senso di colpa o dell’eccitazione che

gli da il piacere della beffa. L’uso del poligrafo a fini investigativi è molto diffuso e in

aumento, soprattutto negli Stati Uniti. La maggior parte degli esami viene effettuata da

aziende private, nell’ambito della selezione o promozione del personale e nelle indagini

sulla criminalità interna. Pur essendo illegale in 18 Stati americani chiedere ai

dipendenti di sottoporsi all’esame, sembra che le aziende riescano ad aggirare la legge.

In 31 Stati, invece, questa pratica è del tutto legale.

Dopo le aziende, l’uso più frequente si incontra nell’ambito dell’attività investigativa. Il

poligrafo è usato da FBI, Dipartimento di Giustizia e dalla maggioranza delle polizie

locali solo quando la rosa dei sospettati è stata ristretta attraverso le indagini. Le prove

prodotte dal poligrafo, nella maggior parte degli Stati, non sono ammissibili ai processi,

fatta eccezione per 22 Stati in cui è possibile stipulare un accordo preliminare tra accusa

e difesa.

Il terzo utente che usufruisce di questo strumento è il governo federale che effettua i

suoi esami nell’ambito di indagini di polizia, escludendo gli esami eseguiti dai servizi di

sicurezza NSA (National Security Agency) e CIA (Central Intelligence Agency), che se

ne servono in sede di spionaggio e controspionaggio.

53
Ovviamente l’esattezza del poligrafo, come di qualsiasi altra tecnica per smascherare la

menzogna, dipende da diversi fattori: dal tipo di menzogna, dal suo autore e da chi ha il

compito di smascherarla, dalla particolare tecnica d’interrogatorio, dall’abilità

dell’esaminatore nel formulare il questionario e dal modo di leggere i tracciati.

Gli psicologi si sono chiesti a lungo se ad ogni singola emozione corrispondano

determinati cambiamenti vegetativi, oppure no. La maggioranza pensa che non ci sia

questa corrispondenza e che qualunque emozione provochi accelerazione del battito

cardiaco, aumento della deglutizione e sudorazione. Le alterazioni prodotte dal sistema

nervoso autonomo indicherebbero l’intensità di un’emozione, ma non la sua natura. Gli

studi condotti da Ekman,al contrario, portano a pensare che sia possibile scoprire, in

base al tracciato del poligrafo e in base all’osservazione e all’ascolto, non solo se

l’indiziato è in uno stato di eccitazione emotiva, ma anche di che tipo di emozione si

tratta. Sembra quindi che le alterazioni neurovegetative non siano le stesse in tutte le

emozioni.

Secondo Paul Ekman sono due i problemi che hanno impedito di dimostrare che le varie

emozioni producono quadri distinti di attività neurovegetativa: il primo problema è

quello di ottenere esemplari “puri” di emozioni; il secondo problema è quello di

ottenere le risposte emotive in laboratorio ed è legato all’impatto con le apparecchiature

usate per la ricerca. Ekman e i suoi colleghi sono stati capaci di trovare una soluzione ad

entrambi i problemi: hanno scelto come soggetti da esaminare degli attori professionisti.

Gli attori sono abituati ad essere sotto i riflettori e non si turbano quando qualcuno

osserva con massima attenzione ogni loro mossa. È stato possibile anche, grazie al loro

lungo addestramento con il metodo Stanislavski che sviluppa la capacità di ricordare e

rivivere le emozioni, ottenere dei campioni “puri” di emozioni.

54
2.6 Il viso.

“The face can be a valuable source for the lie catcher, because it can lie
and tell the truth and often does both at the same time. The face often
contains two messages—what the liar wants to show and what the liar
wants to conceal.” [Paul Ekman, Telling Lies. Clues to deceit in the
marketplace, politics and marriage, Norton & Company, 1985, pp.123]

Il viso può essere una fonte preziosa di informazioni per chi cerca di individuare gli

inganni. Alcune espressioni sono al servizio della bugia, fornendo false informazioni,

ma altre la tradiscono perché appaiono finte e perché a volte traspaiono i sentimenti

autentici nonostante gli sforzi per mascherarli. Può persino capitare che il vero e il falso

vengano mostrati contemporaneamente in parti diverse del viso: il volto è un sistema

duplice, che comprende espressioni vere, sentite, scelte intenzionalmente ed altre, false,

che emergono spontaneamente, a volte senza che l’interessato sia consapevole di ciò

che viene mostrato dal suo viso.

La mimica involontaria delle emozioni è frutto dell’evoluzione della specie; molte

espressioni umane sono le stesse osservate in altri primati. Alcune mimiche emotive,

almeno quelle indicanti felicità, paura, rabbia, disgusto, tristezza, sofferenza, sono

universali, uguali per tutta la specie umana a prescindere da fattori sociali, culturali o

biologici. Queste espressioni forniscono numerose informazioni sulle emozioni,

riuscendo a trasmettere anche le sfumature più lievi di sentimenti momentanei. Il volto

può mostrare quale emozione si prova, se due emozioni sono mescolate insieme e

l’intensità dell’emozione provata.

Ma il viso non trasmette soltanto segnali emotivi involontari. Fin da piccoli impariamo

a controllare l’esibizione delle emozioni, dissimulando i sentimenti autentici e fingendo

l’espressione di sentimenti che non proviamo. Crescendo si imparano le regole di

55
manifestazione talmente bene che diventano abitudini profondamente radicate che

vengono applicate in maniera automatica, non intenzionale e inconsapevole.

Oltre a questi controlli automatici della mimica, possiamo decidere deliberatamente di

censurare l’espressione dei nostri veri sentimenti. Può capitare a tutti di lasciarsi

ingannare completamente dall’espressione del viso di qualcuno; può capitare anche di

accorgersi della falsità delle parole dell’interlocutore grazie a un’espressione che gli

compare sul viso.

La maggior parte dei ricercatori non si è occupata delle espressioni del viso durante le

menzogne, analizzando solo i comportamenti più facili da quantificare, come gli

illustratori e le pause del discorso. Quella minima parte di studiosi che si è soffermata

sul viso si è limitata al sorriso, esaminandolo peraltro in maniera piuttosto semplicistica.

I risultati hanno indicato che la frequenza del sorriso è la stessa quando si dice la verità

e quando si mente. Il punto è che non tutti i sorrisi sono uguali: attraverso la tecnica per

l’analisi della mimica, Ekman ne ha distinto oltre cinquanta diversi.

Le espressioni del viso sono migliaia, ognuna diversa dalle altre. Molte non hanno nulla

in comune con le emozioni ma sono segnali di conversazione e servono a sottolineare le

parole o a integrare la sintassi del discorso (punti interrogativi o punti esclamativi

facciali). Esistono anche dei segni mimici convenzionali (strizzata d’occhio,

sopracciglia sollevate a indicare scetticismo), degli equivalenti facciali dei gesti

manipolatori (mordersi le labbra, leccarle, gonfiarsi le gote) e poi ci sono le espressioni

delle emozioni, quelle vere e quelle false. Per ogni emozione esistono decine, o

addirittura centinaia, di espressioni, visibilmente diverse tra loro. Esiste la prova che le

espressioni del viso sono più numerose delle parole indicanti emozioni diverse: la

56
mimica facciale è in grado di mostrare sfumature che il linguaggio non riesce a fissare

in vocaboli.

Le microespressioni, la più impercettibile delle fonti che possono far trasparire

emozioni nascoste, forniscono il quadro completo del sentimento che l’individuo cerca

di dissimulare, ma sono così rapide da passare solitamente inosservate. Una

microespressione si manifesta sul viso in meno di un quarto di secondo. Ekman e i suoi

colleghi hanno scoperto questo fenomeno nella loro prima ricerca sugli indizi di

inganno. Stavano esaminando il filmato del colloquio con Mary, una casalinga

quarantenne. L’ultimo dei suoi tre tentativi di suicidio era stato scoperto solo per caso

prima che una dose eccessiva di sonnifero la uccidesse. Mary soffriva di una forma di

depressione di mezz’età: i figli e il marito sembravano non aver più bisogno di lei, cosa

che la faceva sentire inutile. Soffriva di insonnia e passava molto tempo in un angolo a

piangere. Dopo le prime settimane di trattamento con gli psicofarmaci sembrava reagire

bene tanto da non parlare più di suicidio. In uno dei colloqui Mary affermava di sentirsi

molto meglio e di voler trascorrere un weekend a casa. Il giorno successivo, prima di

ricevere l’autorizzazione, confessò di aver mentito e di desiderare ancora il suicidio. Le

terapie proseguirono e alle dimissioni Mary era realmente migliorata, tranne una

ricaduta l’anno dopo.

Il filmato aveva tratto in inganno diversi allievi e psichiatri. Solo riesaminandolo ci si

accorse che Mary presentava dei lapsus gestuali (movimenti abbreviati e parziali di chi

si stringe nelle spalle) e una diminuzione dei gesti illustrativi. Compariva anche una

microespressione di tristezza, durata meno di un secondo e subito coperta da un sorriso.

Le microespressioni sono stressanti perché, ricche come sono e capaci di rivelare

appieno un’emozione nascosta, non capitano molto frequentemente. Molto più comuni

57
sono le espressioni soffocate: non appena un’espressione emerge sul volto, l’individuo

sembra accorgersi di quello che rischia di manifestare e l’interrompe bruscamente, a

volte coprendola con un’altra espressione. Il sorriso è la copertura più comune. Anche

se non si riesce a percepire il messaggio che si stava trasmettendo, l’atto stesso di

metterlo a tacere può essere notato e costituire un indizio di falso. Le espressioni

soffocate solitamente durano più a lungo, sono interrotte e non si manifestano

pienamente, mentre le microespressioni sono compresse nel tempo ma contengono

abbreviata l’intera manifestazione mimica.

58
FACS-Facial Action Coding System

Le espressioni universali del volto umano.

59
Capitolo 3. “Lie to me”: il corpus.

3.1 Il telefilm nato dal successo di “Telling lies”.

“Lie to me” è un’avvincente e interessantissima serie televisiva statunitense, nata dalla

penna dello sceneggiatore Samuel Baum e prodotta dal 2009 al 2011.

La serie, distribuita in 3 stagioni e 48 episodi in totale, è stata trasmessa in prima

visione negli Stati Uniti da Fox dal 21 gennaio 2009. In Italia è stata trasmessa in prima

visione satellitare da Fox a partire dal 7 settembre 2009, e successivamente trasmessa in

chiaro dall’11 settembre 2010, prima da Rete 4 e poi da Top Crime.

Dopo la notizia che a dicembre 2010 la Fox non aveva ordinato nuovi episodi per

portare la durata della terza stagione da 13 a 22 episodi, il 10 maggio 2011 il network ha

ufficialmente cancellato la serie. Con tutta probabilità le ragioni che hanno portato alla

cancellazione della serie Tv sono da attribuire al notevole calo della media degli ascolti,

registratosi in progressione col succedersi delle tre stagioni.

Lie to me è un serial drammatico che mescola tratti del thriller psicologico a quelli del

serial poliziesco. Ispirata alla vita e all’attività del noto scienziato Paul Ekman, illustre

professore di psicologia presso il dipartimento di Psichiatria dell’Università della

California, divenuto famoso grazie ai suoi studi sul comportamento non verbale e

specializzato nell’analisi e nel riconoscimento delle espressioni facciali, Lie to me ne

ripercorre il lavoro, le riflessioni e le argute conclusioni.

60
Le appassionanti vicende della serie tv sono incentrate sulla figura del Dottor Cal

Lightman, interpretato dall’attore Tim Roth. Cal è uno psicologo di rinomato successo,

analista di espressioni facciali e linguaggio del corpo, da cui è in grado di capire chi

mente e come. Questa sua dote gli ha permesso di fondare una società scientifica, il

Lightman Group. Fa parte del Lightman Group un team di esperti che, basandosi sullo

studio di sfumature nei movimenti e nella voce delle persone, è in grado di valutare le

autentiche emozioni provate dai soggetti e di assistere agenti federali, agenzie

governative e polizie locali con i loro casi più difficili.

Il dottor Cal Lightman, grazie ai suoi decenni di studi e viaggi per il mondo, tra le razze

più diverse, ha elaborato una teoria sulla relazione esistente tra le emozioni fisiche del

corpo umano e le microespressioni facciali. Lightman, infatti, nella serie ha teorizzato

che tutti gli esseri umani, in presenza di un forte sentimento interno attuano un

movimento involontario e incontrollabile del volto ricollegabile a tali emozioni.

Quarantatré muscoli facciali che si coordinano per produrre 10.000 combinazioni, i

movimenti del resto del corpo, la postura, le caratteristiche della voce: un patrimonio di

elementi che la scienza di Lightman e soci analizza e sfrutta per giungere alla verità. Le

microespressioni non hanno confini biologici o culturali, ed anche se possono essere

falsate dal botox sono estremamente più attendibili di un test al poligrafo, il famoso test

della verità: grazie a questi studi, infatti, è possibile distinguere le diverse emozioni che

fanno incrementare il battito cardiaco, la temperatura corporea e modificano la tonalità

della voce.

Grazie a questa teoria e avvalendosi della psicologia ordinaria Cal Lightman riesce a

percepire tutti gli stati d’animo delle persone, scoprendo i segreti più profondi,

61
dall’adulterio alla falsa testimonianza, dalla complicità in un avvenimento

all’esecuzione di un reato.

Accanto a Cal Lightman troviamo, come collaboratori del suo studio, la dottoressa

Gillian Foster, collega quasi a pari livello di Cal e sua grandissima amica; Eli Loker,

un ricercatore, dal carattere originale, che da tempo ha deciso di non mentire mai a

nessuno e per questo dice sempre ogni cosa che gli passa per la testa. Con il passare del

tempo si aggiungerà a Lightman anche l’agente Ria Torres, una ex agente della polizia

aeroportuale, con un talento naturale molto spiccato nel riconoscimento delle

microespressioni, ma che pecca in conoscenze scientifiche. Lightman non prova

inizialmente una grande simpatia per lei, perché con il suo talento naturale riesce a fare

cose per le quali lui ha dovuto studiare per anni, e perché talvolta cerca di scavalcarlo,

non rispettando la sua autorità. Tuttavia Lightman si fida molto di lei, infatti sono molte

le occasioni in cui le consente di affrontare un caso da sola (supportata da Loker).

Punto di forza della serie è il realismo con il quale tutto viene costruito. Lightman non si

limita solo a spiegare le sue teorie ma mostra tutte le sue prove. Le microespressioni

messe in atto, le quali sono riprodotte esplicitamente, vengono successivamente

esaminate dal Dottore e messe a confronto con alcuni esempi del medesimo sentimento

su personaggi conosciuti (vengono sopratutto tirate in ballo situazioni di pubblico

interesse, con personaggi legati a scandali o momenti di alto impatto emotivo e

mediatico).

Facendo riferimento alla vita e ai lavori di Paul Ekman, Tim Roth riesce a costruire un

personaggio a dir poco geniale nella sua follia determinando, da solo, il futuro successo

della serie televisiva.

62
3.2 Analisi traduttiva dei sottotitoli della serie tv “Lie to me”.

In questo paragrafo saranno analizzate le procedure traduttive dei sottotitoli della serie

televisiva “Lie to me”. Sarà operato un confronto tra i sottotitoli inglesi originali della

serie, qui indicati con TP per comodità, e due traduzioni in italiano, quella ufficiale del

DVD della serie, a cura di Gianfranco Amalfitano e Serena Paccagnella, indicata con

TA1 e quella realizzata dai fansubber che ho reperito sul sito www.subfactory.it, che

indicherò con TA2. La mia traduzione sarà indicata con TA3.

Il termine inglese fansub deriva dall'unione di fan (appassionato) e sub, abbreviazione

di subtitle (sottotitolo). Indica la traduzione amatoriale non autorizzata dei dialoghi in

una lingua diversa da quella originale e la sincronizzazione dei relativi sottotitoli al

video e all'audio di un'opera audiovisiva di solito non commercializzata nella lingua in

cui si traduce. A ciò può seguire il successivo inserimento dei sottotitoli nel video e la

sua diffusione. A realizzarlo sono appassionati interessati a promuovere l'opera tradotta

rendendola disponibile, oggi soprattutto via internet, a persone che non conoscono la

lingua originale in cui è stata creata. Questi traduttori amatoriali sono appunto

detti fansubber.

Esistono anche veri e propri portali dedicati al fansub che forniscono informazioni

sull'esistenza o meno della versione fansub di una determinata opera nella propria

lingua; in Italia ne sono un esempio siti come Subsfactory.it e Italiansubs.net. Il secondo

sito, a livello organizzativo, di velocità e di servizi offerti ai clienti (personalizzazione

del calendario delle serie tv, aggiornamenti, etc.), supera di gran lunga il primo. Per

quanto concerne invece la qualità generale della traduzione, il primo sito fornisce

prodotti leggermente migliori.

63
Queste piattaforme digitali funzionano in un modo ben preciso ed hanno una loro

gerarchia: tutti possono diventare traduttori se superano un test iniziale atto a valutare

sia competenze tecniche che traduttive. Tali test vengono giudicati da membri di rango

più alto e i nuovi traduttori, dopo una fase di tutoraggio, diventano autonomi.

I sottotitoli da tradurre vengono ripartiti tra 4 o 5 traduttori, che devono finire il lavoro

entro una data scadenza, poi vengono sottoposti ad una fase di revisione e

sincronizzazione.

In questa parte del mio elaborato ho analizzato le strategie traduttive utilizzate per

risolvere i problemi che sorgono inevitabilmente dal contatto della lingua inglese con

quella italiana. La mia analisi dei sottotitoli è basata sulle strategie traduttive di Malone,

illustrate in “The Science of Linguistics in the Art of Translation, 1988”. Le strategie in

questione sono le seguenti: equazione, sostituzione, divergenza, convergenza,

amplificazione, riduzione, diffusione, condensazione e riformulazione.

Ho fatto anche riferimento allo studio sulla traduzione dei sottotitoli di Gottlieb. Le

tecniche illustrate in questo studio sono: espansione, parafrasi, trasposizione,

imitazione, trascrizione, slittamento, restrizione, riduzione, cancellazione e rinuncia.

L’ultima fonte a cui ho attinto per questa analisi è “Strategies used by professional

translators” di Mona Baker.

Legenda:

TP: Testo di partenza-Sottotitoli inglesi

TA1: Testo di arrivo n.1-Traduzione ufficiale

TA2: Testo di arrivo n.2-Traduzione fansubber

TA3: Testo di arrivo n.3-Traduzione personale

64
# TP: TA1: TA2: TA3:
sottotitoli traduzione traduzione traduzione
inglesi ufficiale fansubber personale
1 I've instructed Ho ordinato al Ho detto al mio Ho suggerito al
my mio cliente di cliente mio cliente di
client to remain rimanere in di rimanere in rimanere in
silent. silenzio. silenzio. silenzio.

2 That's okay. Non importa. Mi sta bene. Va bene.


I don't Tanto Nemmeno io Neanche io
have much nemmeno io mi fido molto credo molto
faith in words ho molta delle parole. alle parole.
myself. fiducia nelle
parole.
3 Statistically Statisticamente Statisticamente Statisticamente
speaking, the parlando, una parlando, parlando, una
average person persona una persona persona in
tells three lies normale dice normale mente media dice tre
per ten minutes tre bugie ogni tre volte ogni bugie ogni 10
conversation. 10 minuti di 10 minuti di minuti di
conversazione. conversazione. conversazione.

4 And granted, E mi riferisco, E attenzione, si E attenzione, si


that's just intendiamoci, tratta di tratta di
regular people. alle persone persone persone
comuni. normali. normali.
5 We haven't Non abbiamo Non lo Non abbiamo
studied people ancora studiato abbiamo studiato
who are gente che vuole studiato in persone che
planning to far saltare persone che intendono far
firebomb a una chiesa di vogliono saltare in aria
black church. neri. mettere una chiesa
una bomba Afro-
incendiaria in americana.
una Chiesa
Afro-
americana.

In [1] è stata adottata una differente scelta traduttiva tra TA1 e TA2. Il verbo “to

instruct” è stato reso con il verbo “ordinare” in TA1 , utilizzando un termine meno

specifico dalla connotazione semantica più neutra rispetto a quella originale secondo la

65
traduzione tramite una parola più neutra/meno espressiva (Baker). In TA2 è stato reso

con il verbo “dire” secondo la traduzione tramite una parola più generale (Baker).

Sebbene la soluzione proposta nella traduzione ufficiale mi sembri piuttosto adeguata,

ho preferito tradurre il verbo “to instruct” con l’italiano “suggerire” che mi sembra un

buon compromesso tra le due alternative presentate.

In [2] si assiste a due tentativi di riformulazione per ottenere una struttura più adatta alla

lingua italiana. “That’s okay” viene reso rispettivamente con “Non importa” e “Mi sta

bene”. Nella mia traduzione ho preferito tradurre con “Va bene” ricalcando la struttura

impersonale della frase inglese. Tuttavia, la soluzione adottata in TA1 sembra essere la

più appropriata perché denota una varietà di linguaggio più alta, adatta allo spessore

intellettuale del personaggio. Nel secondo esempio si assiste ad un’altra strategia di

riformulazione (Malone, 1988). In TA1 troviamo una struttura simmetrica rispetto a

quella in TP: “to have faith” è stato tradotto con “avere fiducia”; in TA2 invece è stata

adottata una strategia di condensazione (Malone,1988) e il termine iniziale è stato reso

con “fidarsi”. Nella mia traduzione ho usato la strategia della condensazione traducendo

“to have faith” con “credere” anziché “fidarsi”.

In [3] “Tells three lies” viene reso in TA1 con la struttura simmetrica “dice tre bugie”

mentre in TA2 la struttura composta da verbo+oggetto è sostituita con il verbo

“mentire”. L’articolo “the” viene reso in tutte e due le traduzioni con l’articolo

indeterminativo e “average” viene reso con l’aggettivo “normale”. Io ho ricalcato la

struttura della frase iniziale traducendo “the average person tells” con “una persona in

media dice” servendomi della strategia dell’imitazione (Gottlieb).

In [4] viene usata una strategia di riformulazione (Malone, 1988) in TA1 dove la

traduzione di “granted” viene spostata in posizione secondaria mentre in TA2 viene

66
mantenuta la simmetria con il testo di partenza grazie all’uso di “attenzione”. Nella mia

traduzione ho seguito la linea indicata dalla traduzione dei fansubber. “That’s just”

viene reso con “si tratta” per mantenere il verbo nella sua forma impersonale.

In [5] sia la traduzione ufficiale sia quella dei fansubber tendono a mantenere una certa

simmetria rispetto al testo originale. “We haven’t studied people” viene reso con “Non

abbiamo ancora studiato gente” e “Non lo abbiamo studiato in persone”. La mia

proposta è quella di tradurre con “Non abbiamo studiato persone”, quasi in linea con

TA2. Sia in TA1 sia in TA2 il verbo “to plan” è stato tradotto con il verbo “volere”

mentre nella mia traduzione ho usato il verbo “intendere” che allude proprio al fatto di

pianificare l’attacco alla chiesa. Per la traduzione del verbo “firebomb” è stata utilizzata

in TA1 una strategia di traduzione tramite un termine più generale (Baker) adottando il

verbo “far saltare” mentre in TA2 è stato tradotto quasi letteralmente con “mettere una

bomba incendiaria”. Io ho usato il verbo “far saltare” e, servendomi della tecnica

dell’espansione (Gottlieb), ho reso con “far saltare in aria”. Infine, per la traduzione

del termine “black” in TA1 troviamo il termine “neri” che ha una connotazione

spregiativa nei confronti delle persone di colore. In TA2 i fansubber hanno aggiustato il

tiro, traducendo con “afro-americano”, termine politically correct attualmente in uso,

servendosi quindi della traduzione tramite una parola più neutra (Baker). In ragione di

tutto ciò, la mia proposta di traduzione è “Non abbiamo studiato persone che intendono

far saltare in aria una chiesa Afro-americana” dove ho cercato di mantenere la

simmetria rispetto al testo di partenza inglese.

67
# TP: TA1: TA2: TA3:
sottotitoli traduzione traduzione traduzione
inglesi ufficiale fansubber personale
6 He just told me. Me l’ha appena Me l’ha appena Me l’ha appena
detto lui. confessato. detto lui.
7 The ATF found L’ATF ha La polizia ha La polizia ha
a pipe bomb in trovato un trovato una trovato una
a Church tubo-bomba bomba bomba
basement in nello rudimentale rudimentale
Lawton an hour scantinato di nello scantinato nello scantinato
later. una chiesa di di una chiesa di di una chiesa di
Lawton un’ora Lawton un’ora Lawton un’ora
dopo. dopo. dopo.
8 A DOD friend Un mio amico Un mio amico Un mio amico
of mine said alla Difesa dice alla Difesa ha alla Difesa ha
this guy’s a che quello è detto che questo detto che questo
total nutjob. pazzo. tipo è del tutto tipo è
matto. totalmente
pazzo.
9 I’m telling you Credimi. Ti dico che non Ti dico che
we cannot wait Dobbiamo possiamo dobbiamo
another day to assolutamente aspettare un assolutamente
hire someone. assumere altro giorno assumere
qualcuno oggi. per assumere qualcuno oggi.
qualcuno.
10 I found the one. Ho trovato Ho trovato la L’ho trovato.
This is the one. quel qualcuno. persona giusta. Questo è quello
È quello Questa è quella giusto.
giusto. giusta.

In [6] in TA1 è stata usata la strategia traduttiva della trasposizione o transfer (Gottlieb)

che consiste in una traduzione letterale. In TA2 invece il verbo “to tell” è stato reso con

il termine più specifico “confessare”. La mia traduzione segue la linea indicata da TA1.

In [7] sono stati adottati diversi metodi per la traduzione della parola “ATF” che sta per

“Federal Bureau of alcohol, tobacco, firearms and explosives”. Data la specificità del

termine in questione, totalmente estraneo nella cultura di arrivo, in TA1 si è scelto di

mantenere il termine del testo di partenza utilizzando una strategia di

68
straniamento/esotizzazione9 mentre in TA2 si è tentato di omologare il termine alla

cultura d’arrivo per mezzo della traduzione tramite una parola più generale (Baker,

1992). Data la totale estraneità del termine per la cultura italiana, mi trovo in accordo

con la soluzione adottata in TA2. “Pipe-bomb” è stato reso con “tubo-bomba” in TA1

utilizzando la strategia traduttiva del transfer (Gottlieb). In TA2, invece, si è adottata

una strategia di traduzione tramite una parola più generica (superordinate) utilizzando

l’espressione “bomba rudimentale” che, in qualità di iperonimo, include qualsiasi tipo

di bomba, incluso “tubo-bomba”.

In [8] entrambe le traduzioni, quella ufficiale e quella dei fansubber, hanno adottato una

strategia di omologazione traducendo “DOD” che sta per “The Department of Defense”,

con “Difesa”, concetto chiaramente comprensibile nella cultura d’arrivo. Per quanto

riguarda il termine “nutjob” è stata utilizzata una strategia di sostituzione (Malone,

1988), poiché si tratta di un cultural specific item. Tradurre letteralmente “nutjob” in

italiano non avrebbe alcun senso, quindi in TA1 e in TA2 è stato sostituito

rispettivamente con “pazzo”e “matto”. Entrambi i termini, però, in italiano non hanno la

stessa connotazione che hanno in inglese dove il termine fa parte dello slang ed ha un

significato semi-volgare, che in italiano viene perso. Personalmente avrei tradotto con

“è totalmente fuori di testa” dove è vero che si perde la connotazione volgare, ma si

mantiene il registro colloquiale. Avrei optato anche per “è completamente schizzato” per

esagerare i toni dell’espressione e cercare di avvicinarmi al significato del termine di

partenza. Nonostante le diverse opzioni a disposizione, ho tradotto con “Un mio amico

alla Difesa ha detto che questo tipo è totalmente pazzo” mantenendo la simmetria

rispetto a TP.
9
Straniare è un verbo che deriva dal termine formalista russo ostranenie (sostantivo che la tradizione
italiana rende con “straniamento”, che indica un artificio mirato a creare una distanza, soprattutto
psicologica, tra testo e lettore.

69
In [9] viene applicata una strategia di riformulazione (Malone, 1988) in TA1. Vengono

anche aggiunti l’espressione “Credimi” e l’avverbio “assolutamente” per rafforzare

l’idea dell’impossibilità di poter aspettare ancora prima di assumere qualcuno. La

traduzione in TA2, a differenza della traduzione ufficiale, è più letterale e quindi source-

text oriented. Nella mia traduzione ho seguito la guida linea della traduzione ufficiale,

anche se ho eliminato “Credimi” e ho inserito “Ti dico”, traducendo quasi letteralmente

il testo di partenza.

In [10] le due alternative presentate sono dovute all’ambiguità traduttiva che presenta il

termine inglese “one”, in italiano polisemico. Sia in TA1 sia in TA2 è stata applicata una

strategia di diffusione (Malone, 1988) dove il sostantivo del testo di partenza viene

ampliato ma senza l’aggiunta di ulteriori informazioni. Nella mia traduzione ho reso “I

found the one” con “L’ho trovato”, utilizzando un pronome personale con funzione di

complemento oggetto e evitando inutili ripetizioni. Nella seconda parte della

proposizione ho utilizzato una strategia di espansione (Gottlieb) aggiungendo il termine

“giusto”.

70
# TP: TA1: TA2: TA3:
sottotitoli traduzione traduzione traduzione
inglesi ufficiale fansubber personale
11 I got piss- Mi sono Mi sono Mi sono
drunk last night sbronzato col ubriacato di sbronzato di
with my mio brutto ieri sera brutto col mio
roommate. coinquilino ieri col mio coinquilino ieri
sera. coinquilino. sera.
12 I was just lying E stamattina Stamattina stavo E stamattina ero
in bed this ero a letto che a letto, a letto che
morning pensavo a pensando a pensavo a
thinking about quanto quanto è quanto
how nasty hot schifosamente eccitante Nancy dannatamente
Nancy Grace is, sexy sia Nancy Grace e tentavo sexy sia Nancy
and just trying Grace di decidere se Grace cercando
to decide if I cercando di venire o no, di decidere se
was gonna decidere se perché qui non venire a
come in at all’ venire a c’è nessuno su lavorare, visto
cause it’s not lavorare, visto cui fantasticare. che qui non c’è
like there’s che qui non c’è nessuno su cui
anyone here to nessuno su cui fantasticare.
fantasize about. fantasticare.
13 No offense No, non mi Senza offesa. No, non mi
taken. sono offesa. sono offesa.

14 I don’t go for Io non Non cerco Non sono


married considero le donne sposate. attratto dalle
women. donne sposate. donne sposate.
15 Congressman Il membro del Zeb Weil, un Il membro del
Zeb Weil, Congresso membro del Congresso Zeb
whose career I Zeb Weil, la Congresso, per Weil, la cui
spent 20 years cui carriera la cui carriera carriera
building, is costruisco da ho lavorato 20 costruisco da
about to be 20 anni, sarà anni, sta per 20 anni, sarà
accused of accusato di essere accusato accusato di aver
paying for sex. aver pagato di aver avuto avuto
una squillo. prestazioni prestazioni
sessuali a sessuali a
pagamento. pagamento.

In [11] ritroviamo di nuovo un termine estremamente colloquiale che è stato reso con un

termine che appartiene grossomodo allo stesso registro in TA1 e con un termine di

registro più alto in TA2. Concordo con la soluzione adottata in TA1 anche se al termine

71
“sbronzato” ho aggiunto “di brutto” per intensificarne il significato e rendere quindi a

pieno il senso del termine del TP.

In [12] è presente nuovamente un caso di traduzione di un cultural specific item e il

registro linguistico è piuttosto informale, più vicino allo slang che alla varietà standard.

In TA1 il termine “hot” tramite una strategia di cultural substitution (Baker) viene reso

con “sexy”, termine sempre d’origine inglese ma enormemente diffuso e quindi più

adatto ad essere recepito dal pubblico italiano, destinatario della traduzione. In TA2 la

questione è stata affrontata con una strategia di omissione (Gottlieb) dell’avverbio.

Nella mia versione ho seguito la traduzione ufficiale ma ho tradotto l’aggettivo “nasty”

con “dannatamente” poiché sembra dare maggiore naturalezza all’espressione. “Trying

to” è stato reso rispettivamente in TA1 e in TA2 con i verbi “cercare” e “tentare”.

Entrambe le traduzioni risultano efficaci anche se “tentare” si avvicina maggiormente al

verbo del testo di partenza. L’espressione “if I was gonna come in at all” ha bisogno di

essere riadattata per avere una struttura più adatta alla lingua italiana. In TA2 la

soluzione adottata sembra essere leggermente più economica di quella in TA1 ma, a

prescindere da questo, i due tentativi fatti sono altrettanto buoni e la scorrevolezza del

testo è garantita.

In [13] siamo di fronte ad un caso di traduzione di un’espressione idiomatica inglese,

tipica del testo di partenza ma non presente in italiano. La formula in questione è “No

offense. None taken” che in TA1 viene resa perfettamente con “No, non mi sono offesa”

mentre in TA2, evidentemente a causa di un’incomprensione, viene tradotta con “Senza

offesa”, generando confusione nello spettatore.

In [14] in TA1 e in TA2 per la traduzione di “I don’t go for” vengono proposte

alternative piuttosto diverse tra loro. In TA1 l’espressione viene resa con “Non

72
considero” mentre in TA2 viene tradotta con “Non cerco”. Entrambe le soluzioni mi

sembrano poco efficienti perché il verbo “to go for” implica il fatto di provare attrazione

per qualcuno. Per questa ragione la mia proposta di traduzione è “Non sono attratto”

che rispecchia il significato del testo di partenza.

In [15] vengono utilizzate due strategie traduttive. In TA1 la struttura del TP viene

riprodotta grazie all’adozione della strategia traduttiva dell’imitazione (Gottlieb). In TA2

invece è presente una strategia di riformulazione (Malone) con la costruzione di una

proposizione incidentale che sposta il primo elemento della frase inglese,

“Congressman”, in una posizione secondaria. Sempre in [15] troviamo tentativi di resa

differenti. In TA1 il verbo “build” è tradotto letteralmente con “costruire”mentre in TA2

si è adottata la strategia della traduzione tramite parafrasi di Baker poiché è stato scelto

il verbo “lavorare” per tradurre il termine iniziale. La locuzione verbale “paying for

sex” è stata resa in TA1 con “aver pagato una squillo” mentre in TA2 ci si è serviti della

strategia traduttiva dell’espansione (Gottlieb) rendendo la locuzione verbale iniziale con

“aver avuto prestazioni sessuali a pagamento”. Nella mia versione, per quanto riguarda

la prima parte della proposizione, mi sono basata sulla traduzione ufficiale mentre per la

traduzione della locuzione verbale “paying for sex” ho seguito la traduzione dei

fansubber.

73
# TP: TA1: TA2: TA3:
sottotitoli traduzione traduzione traduzione
inglesi ufficiale fansubber personale
16 A friend at The Me l’ha Un amico al Me l’ha
Post gave me spifferato un Post mi ha dato spifferato un
the tip. membro del la dritta. amico al Post.
Post.
17 But I need to Ma ho bisogno Ma devo sapere Ma ho bisogno
know the truth di sapere la la verità prima di sapere la
before the verità prima che la storia verità prima che
story breaks. che esploda il venga fuori. esploda il caso.
caso.
18 You think it Potrebbe essere Ritiene possa Ritiene possa
could be a diffamazione? essere un essere un
smear job? tentativo di tentativo di
diffamazione? diffamazione?
19 I do. But Si. Ma a Si. Ma a quanto Si. Ma a quanto
allegedly, quanto pare, si dice, pare, Weil
Congressman Weil l’onorevole frequenta una
Weil frequents frequenta una Weil frequenta specie di
some sort of specie di un servizio di servizio di
high priced agenzia di escort di lusso escort di lusso
escort service squillo d’alto in un club in un locale
at an bordo in un underground a clandestino di
underground locale Georgetown. Georgetown.
club in clandestino di
Georgetown. Georgetown.
20 Now, if that’s Se così fosse, Ora, se questo Se così fosse,
true, it’s gonna sarà un vero e dovesse essere sarà un vero e
be a PR proprio vero, sarà un proprio incubo
nightmare, incubo a vero e proprio a livello di
because he’s the livello di scandalo, relazioni
new chairman relazioni perché è il pubbliche,
of the House pubbliche, nuovo perché è il
Ethics perché è il presidente del nuovo
Committee. nuovo Comitato Etico presidente del
presidente del della Camera. Comitato etico
Comitato etico della Camera.
della Camera.

In [16] entrambe le traduzioni sono efficienti ma nella mia traduzione ho preferito

seguire la linea suggerita in TA1. “A friend” viene reso in TA1 con “un membro” che,

francamente, mi sembra un po’ troppo lontano dal significato del termine iniziale e in

contrasto con il verbo “spifferare” che appartiene ad un registro più colloquiale rispetto

74
a “membro”. Nella traduzione ufficiale la struttura sintattica viene cambiata, il soggetto

viene posposto e “gave me the tip” diventa “me l’ha spifferato” che viene messo in

posizione di rilievo all’interno della proposizione, mentre in TA2 “tip” viene reso con

“dritta”.

In [17] riscontriamo uno dei problemi più ricorrenti nella traduzione del verbo “to need”

che in italiano può essere reso principalmente in tre modi: con la locuzione verbale

“aver bisogno di”, con il verbo “dovere” e con il verbo “necessitare”. Personalmente mi

trovo in accordo con la scelta fatta in TA1 e quindi con l’utilizzo della locuzione verbale

“aver bisogno di” invece del verbo “dovere” poiché entrambi i membri sono posti sullo

stello livello all’interno del contesto comunicativo e quindi l’impiego di una locuzione

verbale che non si configuri come un ordine o un’imposizione sembra la scelta più

appropriata. In entrambe le traduzioni non è stato usato il verbo “necessitare” che

appartiene ad un registro linguistico leggermente più alto. Per quanto riguarda la resa di

“The story breaks”, che è un’espressione idiomatica inglese, in TA1 è stata adottata una

strategia di traduzione tramite l’uso di un idioma di forma e significato simile mentre in

TA2 ci si è serviti di una strategia di traduzione tramite l’uso di un idioma di significato

simile ma forma differente (Baker, 1992).

In [18] “smear job” ha un alto valore idiomatico e in TA1 è stato reso con

“diffamazione” mentre in TA2 con l’ausilio di una strategia di espansione (Gottlieb) è

stato tradotto con “un tentativo di diffamazione”. In TA1 ritroviamo anche una strategia

di omissione (Baker) del verbo “think”.

In [19] è stata applicata in TA1 una strategia di omissione per quanto riguarda il termine

“Congressman” che non è stato tradotto. Sempre nella traduzione ufficiale “service” è

stato reso con un termine leggermente più specifico, ossia “agenzia” e “high priced

75
escort ”, che ha una struttura differente rispetto all’italiano, è stato tradotto con “squillo

d’alto bordo”. In TA2 con “un club underground” si è adottata una strategia di

trasposizione o transfer (Gottlieb) che genera uno straniamento non necessario nello

spettatore. Personalmente, mi sono attenuta alla traduzione ufficiale anche se ho

sostituito “agenzia di squillo d’alto bordo” con “servizio di escort di lusso”, espressione

molto usata in Italia, soprattutto in seguito alla scoperta di bande criminali che

gestivano tali “servizi”.

In [20] una traduzione letterale dell’espressione “PR nightmare” non avrebbe offerto

una soluzione efficiente. Le alternative proposte in TA1 e in TA2 sono entrambe valide:

in TA1 si è fatto ricorso ad una strategia di traduzione tramite parafrasi con l’uso di una

parola simile (Baker, 1992) dove “PR nightmare” è stato reso con la locuzione “incubo

a livello di relazioni pubbliche” mentre in TA2 si è adottata una strategia di omissione

(Baker) per cui “PR” non è stato tradotto e una strategia di parafrasi (Gottlieb) tramite

la quale “PR nightmare” è stato tradotto con “scandalo”.

76
# TP: TA1: TA2: TA3:
sottotitoli traduzione traduzione traduzione
inglesi ufficiale fansubber personale
21 That’s Favoloso. Ma Tutto ciò è Favoloso. Ma
delightful. But noi non interessantissimo, noi non
we don’t go passiamo al ma non ci passiamo al
through setaccio i occupiamo dei setaccio i panni
people’s dirty panni sporchi panni sporchi sporchi di
laundry. di nessuno. della gente. nessuno.
22 -Now, that -Beh, -Beh, davvero -Beh,
was lovely. incantevole. interessante. interessante.
-What? -Cosa? -Che cosa? -Cosa?
23 -A gestural -Ritirata -Il ritirarsi -Ritirata
retreat. gestuale. gestuale. gestuale.
-What’s that? -Cos’è? -Cos’è? -Cos’è?
24 His step Ha fatto un Il passo indietro. Ha fatto un
backwards. passo Significa che non passo indietro.
Means he indietro. crede ad una Significa che
doesn’t believe Significa che parola di ciò che non crede a una
a word he just non crede a ha appena detto. parola di ciò
said. He’s una parola di Sta mentendo. che ha detto.
lying. ciò che ha Sta mentendo.
detto. Sta
mentendo.
25 You need Ti serve aiuto Hai bisogno di Hai bisogno di
somebody to col caso dei qualcuno che ti qualcuno che ti
back you on militari. aiuti col caso dei aiuti col caso
the military militari. dei militari.
case.

In [21] notiamo ancora una volta la fortissima valenza idiomatica dei dimostrativi

inglesi che implica la necessità di rielaborare la proposizione e tradurla in maniera non

letterale. “That’s delightful” viene reso in TA1 con l’aggettivo “favoloso” tramite una

strategia di sostituzione (Malone) e una strategia di omissione (Baker) del dimostrativo

mentre in TA2 viene adottata una strategia di espansione (Gottlieb) e la proposizione

principale viene resa con “Tutto ciò è interessantissimo”. In TA1 “go through”, che è un

phrasal verb, viene reso con un’ espressione idiomatica italiana, ossia “passare al

setaccio”, mentre in TA2 viene usato il verbo più generico “occuparsi”.

77
In [22] ritroviamo nuovamente la problematica della resa del dimostrativo e la sua

valenza idiomatica nella lingua italiana. In TA1 l’aggettivo inglese “lovely” viene reso

con “incantevole” ma, personalmente, mi trovo in accordo con la resa linguistica in TA2

dove il termine iniziale viene sostituito con “interessante”, soluzione maggiormente in

uso nella lingua italiana.

In [23] ritroviamo due tentativi di resa letterale, ottenuta in TA1 con una strategia di

imitazione, e in TA2 con una strategia di parafrasi (Gottlieb, 1992).

In [24] in TA1 viene utilizzata una strategia traduttiva di diffusione (Malone, 1988)

mentre in TA2 tramite trasposizione o transfer (Gottlieb) l’espressione del testo di

partenza viene tradotta letteralmente.

In [25] il verbo “to need” è stato reso rispettivamente in TA1 e TA2 con il verbo

“servire” e con la locuzione verbale “aver bisogno”. L’espressione “to back someone on

something” corrisponde a “sostenere, appoggiare, supportare, assistere qualcuno su

qualcosa” piuttosto che “offrire aiuto”. In TA1 quindi, sebbene venga mantenuta la

sfumatura di significato, viene adottata una strategia di convergenza (Malone, 1988)

dove tutte le alternative possibili per la traduzione del verbo “to back” confluiscono in

un unico verbo, ossia “aiutare”. In TA2 ritroviamo una costruzione simmetrica rispetto

al testo di partenza.

78
# TP: TA1: TA2: TA3:
sottotitoli traduzione traduzione traduzione
inglesi ufficiale fansubber personale
26 College L’Associazione L’Athletic L’Associazione
Athletic di Atletica Association universitaria di
Association vuole sapere se universitaria Atletica vuole
wants us to l’hanno vuole che che scopriamo
find out if he corrotto per scopriamo se se l’hanno
took a bribe to giocare alla ha preso una corrotto per
play for GWCU. bustarella per giocare alla
GWCU. giocare per la Carver
Carver University.
University.
27 Sergeant Scott’s Il comando del Il comando del Il comando del
leadership is sergente Scott è sergente Scott è sergente Scott è
crucial to the cruciale per le cruciale per le cruciale per le
tribal missioni missioni di missioni segrete
intelligence segrete tra i spionaggio sui tra i tribali che
missions we’re tribali che locali che stiamo
running on the stiamo stiamo svolgendo sul
Pakistani svolgendo sul effettuando ai confine
border. confine confini del pachistano.
pachistano. Pakistan.
28 I would not Non ti facevo Non ti avrei Non ti facevo
have pegged una fanatica detta una una fanatica
you for a hoops del basket. fanatica del del basket.
geek. basket.
29 See, that’s the Quello è il Vedi, è questo Vedi, è questo
trouble with guaio dei talenti il problema di il problema dei
naturals. They naturali. Non chi ha talento talenti
don’t see what’s vedono ciò che naturale. Non naturali. Non
missing. manca. vedono quello vedono ciò che
che manca. manca.
30 They’re all Seguono solo Sono tutto Sono tutto
instinct and no l’istinto, niente istinto e niente istinto e niente
science. scienza. scienza. scienza.

In [26] riscontriamo in entrambe le traduzioni delle ambiguità. La resa della traduzione

ufficiale è migliore di quella dei fansubber anche se si sceglie di non tradurre “college”

attuando una strategia di omissione (Baker). In TA2 viene usata una strategia di

trasposizione o transfer (Gottlieb) che produce uno straniamento del testo. La parte

verbale “wants us to find” viene resa in TA1 con una strategia di riduzione (Gottlieb)

79
decidendo di omettere parte dell’informazione mentre in TA2 viene messa in pratica una

strategia di imitazione (Gottlieb) del testo di partenza rendendo con una soluzione

source-text oriented. “Took a bribe” in TA1, tramite una strategia traduttiva di

condensazione (Malone,1988), viene reso con il verbo “corrompere” mentre in TA2

viene tradotto letteralmente. In TA2 per quanto riguarda la sigla “GWCU” viene adottata

una strategia di traduzione tramite parafrasi con l’uso di una parola simile (Baker) per

evitare uno straniamento del termine e far sì che il significato venga percepito anche dal

pubblico italiano. Anche io, nella mia proposta, ho preferito rendere esplicito il

significato della sigla, in accordo con la traduzione dei fansubber.

In [27] troviamo innanzitutto una sostituzione (Malone, 1988) del genitivo sassone

inglese con la preposizione articolata “del”. In secondo luogo sia in TA1 sia in TA2

“leadership” viene reso con “comando”, equivalente italiano del termine inglese anche

se mantenere il termine del testo di partenza costituirebbe un’alternativa altrettanto

valida, data la diffusione di tale vocabolo anche nel contesto comunicativo italiano.

In [28] troviamo un cultural specific item, ossia il verbo “to peg” che fa parte del

registro colloquiale e ha il significato di “classificare”. Entrambe le alternative

presentate sono valide sebbene mirino ad una traduzione target oriented, per garantire la

naturalità dell’espressione nella lingua d’arrivo. “Hoops geek” è un’espressione che

mette insieme due termini appartenenti al registro colloquiale. In entrambe le traduzioni

viene resa con “fanatica del basket”.

In [29] ritroviamo il problema della traduzione dei dimostrativi inglesi. In TA1 “that”

viene reso con “quello” mentre in TA2 con “questo”. Per quanto riguarda la resa del

termine del TP “naturals” ho seguito la stessa linea indicata dalla traduzione ufficiale e

tramite una strategia di espansione (Gottlieb) ho tradotto con “talenti naturali”. Per la

80
struttura della proposizione ho cercato di mantenere una certa simmetria rispetto al testo

di partenza, in linea con la traduzione dei fansubber.

In [30] in TA1 per la traduzione dell’espressione del TP viene adottata una strategia di

diffusione (Malone, 1988) mentre in TA2 viene utilizzata una strategia di trasposizione o

transfer (Gottlieb) e l’espressione iniziale viene tradotta letteralmente. Nella mia

traduzione ho seguito l’alternativa presentata dai fansubber, in quanto ritengo superfluo

l’ampliamento della struttura sintattica originale.

3.1 Considerazioni generali sulla traduzione dei sottotitoli.

Dal confronto tra il testo di partenza e le due traduzioni ho notato la presenza ripetuta di

determinati fenomeni. Nella traduzione dei fansubber si fa frequentemente ricorso a

termini di registro un grado più basso rispetto all’originale per garantire una certa

naturalezza e fluidità del linguaggio, mentre nella traduzione ufficiale vengono utilizzati

termini di registro più alto e dunque leggermente più formali.

La traduzione ufficiale in generale risulta essere più precisa ed appropriata rispetto alla

traduzione dei fansubber principalmente a causa di due fattori. Innanzitutto la prima è il

frutto del lavoro di professionisti esperti del settore linguistico, mentre la seconda è

realizzata, per la maggior parte, da traduttori amatoriali che molto spesso sono estranei a

qualsiasi preparazione specialistica e non conoscono assolutamente le strategie

traduttive applicabili ai testi. In secondo luogo bisogna anche tener conto della scarsa

disponibilità di tempo a disposizione dei fansubber che hanno l’obbligo di consegnare i

loro lavori entro una certa deadline.

C’è tutto un popolo di amanti delle serie televisive che, avvalendosi di diversi strumenti,

segue in diretta le proprie serie preferite mentre vengono trasmesse nel paese d’origine.

81
Spesso questi non hanno una conoscenza della lingua del paese in cui viene trasmessa la

serie televisiva tale da poter visualizzare il filmato in lingua originale. È per tale motivo

che si avvalgono dell’ausilio dei sottotitoli delle comunità fansubber.

Nelle traduzioni che ho esaminato ho riscontrato anche l’utilizzo frequente di strategie

di omologazione al testo di partenza che producono uno straniamento del testo, in

particolare per quanto riguarda la resa linguistica di determinati acronimi: nello

specifico mi riferisco alla resa di ATF che viene trasferito nella lingua d’arrivo

producendo nello spettatore un senso di estraneità, dovuto all’impossibilità di afferrare

il senso della sigla inglese, completamente sconosciuta alla cultura italiana.

La traduzione ufficiale, tranne poche eccezioni, mantiene quasi sempre una certa

simmetria rispetto al testo di partenza, mentre nella traduzione fansubber si riscontrano

numerose asimmetrie.

È molto frequente il tentativo di riformulazione della proposizione iniziale, soprattutto

nella traduzione fansubber, al fine di ottenere una struttura sintattica più adeguata

all’italiano. Per il raggiungimento di tale obiettivo a volte capita che il soggetto della

frase sia posposto o, tramite strategie di espansione (Gottlieb) e diffusione (Malone),

venga modificata la struttura sintattica.

Un’altra strategia molto usata è quella della traduzione tramite una parola più generale

(Baker), affiancata dalla strategia di traduzione tramite una parola più neutra o meno

espressiva (Baker).

La difficoltà relativa alla traduzione dei dimostrativi inglesi viene risolta spesso con il

ricorso a strutture sintattiche semplificate dove, tramite una strategia di omissione

(Baker), il dimostrativo non viene tradotto nella lingua d’arrivo.

82
È ben chiaro che la traduzione ufficiale è qualitativamente superiore rispetto a quella

amatoriale ma ciò che desta interesse è la rapida diffusione del fenomeno del

fansubbing. Le piattaforme che offrono tali servizi hanno un bacino di utenti molto

ampio che tende ad aumentare sempre più. In effetti i sottotitoli messi a disposizione dai

fansubber costituiscono una valida risorsa a cui poter attingere in assenza di traduzioni

ufficiali o in attesa della messa in onda delle serie televisive nel proprio paese.

83
Capitolo 4.Una panoramica sull’inganno nel mondo arabo.

4.1 Differenze tra high-context cultures e low-context cultures.

Per poter fare un raffronto tra il modo di mentire nel mondo inglese e nel mondo arabo

occorre innanzitutto fare riferimento alla distinzione tra high-context cultures e low-

context cultures, teorizzata da Hall nel 1976. Hall vede il significato e il contesto come

“inextricably bound up with each other" (1982, p. 18). La differenza tra high-context

cultures e low-context cultures dipende da quanto significato si trova nel contesto

piuttosto che nel codice.

Le low-context cultures, come la cultura Americana, tendono a mettere più significato

nel codice linguistico e pochissimo significato nel contesto. Per questo motivo, la

comunicazione tende ad essere specifica, esplicita e analitica (Ting-Toomey, 1985).

Nelle high-context cultures, il significato è inserito più nel contesto che nel codice.

Come Hall afferma: “most of the information is either in the physical context or

internalized in the person, while very little is in the coded, explicit, transmitted part of

the message" (1982, p.18). Così l’ascoltatore deve capire gli indizi dal contesto

comunicativo per poter afferrare il significato completo del messaggio.

Le persone che appartengono a culture a alto contesto si aspettano di più dagli altri

rispetto alle persone che sono cresciute in culture a basso contesto. Mentre parla di

qualcosa a cui sta pensando, un individuo di una cultura a alto contesto si aspetta che il

suo interlocutore sappia perfettamente cosa lo disturba senza il bisogno di fornire

spiegazioni o dettagli.

Detto in altri termini, nelle culture a alto contesto gran parte del “peso del significato”

ricade sull’ascoltatore. Nelle culture a basso contesto, il peso sembra invece ricadere sul

parlante.

84
L’interesse per l’individuazione delle menzogne, in culture a alto contesto e a basso

contesto, scaturisce principalmente dalla necessità di scoprire la verità in contesti sociali

e culturali piuttosto variegati, in cui sono presenti individui provenienti da diverse parti

del mondo e con un background culturale spesso totalmente diverso da quello dell’altro

interagente. Le differenze culturali potrebbero influenzare l’interazione tra chi cerca di

scoprire la verità e il sospettato quindi è importante capire se e come viene influenzata

la rilevazione delle menzogne.

Come ben sappiamo, molti indizi di menzogna vengono forniti dal comportamento non

verbale. La mimica, in particolare, è notevolmente importante per l’individuazione

dell’inganno per gli indizi che può fornire. Si potrebbe sostenere che la mimica

differisca significativamente non solo per i bugiardi e per chi dice la verità, ma anche

per gli appartenenti a culture a alto contesto e a basso contesto. Le high-context cultures

fanno più affidamento al contesto rispetto alle low-context cultures; ricorrono agli

aspetti fisici della comunicazione, come il tempo e la situazione in cui la comunicazione

ha luogo, per non menzionare la relazione tra i due interagenti (Würtz, 2005). Inoltre,

Würtz (2005) sostiene che la comunicazione nelle culture a alto contesto è caratterizzata

da un uso estensivo di strategie non verbali, come gesti, linguaggio del corpo, silenzio e

comportamento simbolico per trasmettere significati e messaggi.

Considerando questi risultati, si potrebbe affermare che gli individui delle culture a alto

contesto hanno un sistema mimico molto diverso rispetto agli individui delle culture a

basso contesto.

Nel caso della menzogna, dato che gli individui delle culture a alto contesto sono

culturalmente predisposti a fare affidamento sul comportamento non-verbale,

probabilmente tenteranno di ingannare o persuadere gli altri interagenti attraverso il

85
comportamento non verbale. Più un bugiardo ricorrerà all’uso della mimica, più sarà

considerato credibile. Probabilmente questo si spiega col fatto che la mimica

generalmente porta ad apprezzare maggiormente l’altro interagente. La supposizione

che la mimica implichi una maggiore credibilità è presumibilmente più applicabile agli

individui delle high-context cultures a causa della loro cultura dipendente dal contesto e

dalle relazioni e della loro preferenza per la comunicazione non verbale. Gli individui

delle culture a alto contesto mettono più enfasi sul comportamento non verbale per

trasmettere i propri messaggi, ma per essere ritenuti più credibili devono fare più

affidamento sulla mimica. Perciò, si potrebbe affermare che gli “high-context

individuals” mostrano una mimica maggiore durante un’interazione in cui devono

mentire di quanto non farebbero gli individui delle culture a basso contesto.

4.2 Il concetto di Taqiyya.

Nell’ambito del discorso sulla menzogna nel mondo arabo si colloca il concetto di

Taqiyya.

“Lying and cheating in the Arab world is not really a moral matter but a
method of safeguarding honor and status, avoiding shame, and at all times
exploiting possibilities, for those with the wits for it, deftly and
expeditiously to convert shame into honor on their own account and vice
versa for their opponents. If honor so demands, lies and cheating may
become absolute imperatives.” [David Pryce-Jones, “The Closed Circle”
An interpretation of the Arabs, p4]

La parola “Taqiyya” è traducibile in italiano come paura, stare in guardia,

circospezione, timore di Dio, ambiguità o dissimulazione. Questo termine indica, nella

tradizione islamica, specialmente quella sciita, la possibilità di nascondere o addirittura

rinnegare esteriormente la fede, di dissimulare l'adesione ad un gruppo religioso e di

non praticare i riti obbligatori previsti dalla religione islamica per sfuggire a una

86
persecuzione o a un pericolo grave e imminente contro se stessi a causa della propria

fede islamica.

Paragonabile alla taqiyya è il sostantivo kitmān (traducibile come “discrezione, o riserva

mentale”), che consiste nel dire solo una parte della verità riconoscendosi il diritto a una

riserva mentale per celare le proprie reali convinzioni.

La taqiyya si configura, quindi, come una falsificazione poiché vengono fatte delle

affermazioni che non corrispondono alla realtà, mentre il kitmān è una sorta di

dissimulazione perché viene omessa solo parte dell’informazione.

Ovviamente è assai improprio parlare di taqiyya o di kitmān quando manchi l'elemento

fondamentale del rischio grave e imminente per la propria incolumità e la propria fede,

anche se molto spesso di tali concetti si parla quando si vuole indicare la furbesca opera

di proselitismo svolta da alcuni musulmani in ambito non islamico, dissimulando alcuni

aspetti dell'Islam che non risultano condivisibili da parte della maggioranza dei non

musulmani.

Taqiyya e kitmān, come ogni altro precetto islamico, hanno precisi ambiti di

applicazione. Secondo gli sciiti, la taqiyya e il kitmān possono essere usati

legittimamente solo da musulmani ingiustamente perseguitati mentre per alcuni sunniti

essi sono comunque atti inammissibili, giudicati ipocriti e indizi di mancanza di fede e

di fiducia in Dio.

In ogni caso, se colpevoli di un qualche misfatto, il tentativo di occultamento del

crimine non è ammissibile, né sotto un profilo legale, né (ovviamente) sotto uno

puramente morale. In tal caso quindi per l'Islam tutto non c'è alcuno spazio ammissibile

per la dissimulazione.

87
La Taqiyya ha due connotazioni che trovano fondamento e raccomandazione nel

Corano.

Come molte pratiche islamiche, la taqiyya si è formata nel contesto della cultura del

tribalismo Arabo, delle guerre d’espansione, dei saccheggi Beduini e dei conflitti tra le

tribù. La Taqiyya è stata usata dai Musulmani sin dal settimo secolo per confondere,

turbare e dividere “il nemico”.

La Taqiyya ha due implicazioni che trovano applicazione in due casi distinti: simbiotica

e precauzionale.

La Taqiyya simbiotica è posta in essere quando si è certi di perdere la vita, la proprietà,

o la dignità e l’onore e ci si trova forzati a compiacere il nemico o l’avversario e

prevenire il danno e il male. Le regole si applicano anche nel caso in cui la perdita di

vita o beni materiali sia inflitta nell’ambito di relazioni interpersonali. Inoltre è

applicabile al fine di proteggere coloro le cui vite sono in pericolo: se qualcuno

comprende ed avverte che esprimendo una falsa testimonianza e praticando la Taquiyya

la vita di un musulmano possa essere salvata, è necessario e persino obbligatorio farlo.

Se dicendo la verità, una vita viene messa in pericolo, chi deliberatamente la dice

commette un crimine maggiore che farsi complice di un assassino. Quando entrambe le

opzioni sono sfavorevoli, diverrà normale agire al fine di scegliere la soluzione

migliore.

La Taqiyya precauzionale è data per misure precauzionali in cui si deve essere cauti

nell’esprimere apertamente le proprie reali credenze e convinzioni, col fine di evitare di

allarmare e porre in condizione di pericolo. Un comportamento simile è, di norma, una

prassi razionale che la maggior parte degli individui adopera nelle più disparate

88
occasioni. La circospezione, intesa come principio basilare, e l’analisi del contesto

sociale sono un esercizio razionale assai auspicabile.

89
Conclusioni.

Lo scopo principale del mio elaborato era quello di esaminare il linguaggio non verbale

della menzogna. Il mio punto di partenza è stato il telefilm “Lie to me” che, come ho

specificicato in un altro punto del testo, è nato in seguito al grande successo riscosso dal

libro “Telling lies”di Paul Ekman.

Probabilmente l’effetto dirompente che ha avuto il libro in questione è dovuto alla

volontà di acquisire l’abilità di rilevare le menzogne. Alcuni sostengono, forse un po’

forzatamente, che non esiste essere umano sulla faccia della terra che non menta. Tale

asserzione è sicuramente un tantino esagerata ma sappiamo, grazie ai risultati di alcune

ricerche, che effettivamente possiamo arrivare a mentire anche diverse volte al giorno.

Ecco che nasce la necessità di “tutelarsi” quasi dall’inganno che viene architettato

continuamente.

Oltre all’analisi della serie televisiva ho provveduto a fornire innanzitutto una

descrizione dei diversi tipi di comunicazione. Principalmente parliamo di

comunicazione verbale, paraverbale e non verbale. Quella che più desta interesse in me

è la comunicazione non verbale che, tra gesti, tono, volume, ritmo della conversazione,

turni conversazionali, parole, etc. comprende il 93% dell’interazione comunicativa.

Della comunicazione non verbale, ovviamente, fa parte anche il linguaggio della

menzogna. Nel secondo capitolo ho analizzato tutti gli aspetti dell’interazione che

forniscono indizi utili al rilevamento dell’inganno. Ho parlato di parole, corpo, voce,

indizi del sistema vegetativo e viso. La parola è il canale che il bugiardo riesce a

controllare meglio: sa che grande attenzione viene rivolta a questo aspetto e quindi

cerca di studiare bene la versione da proporre. Agli altri aspetti dell’interazione viene

prestata meno attenzione ed è questo il motivo per cui riusciamo a cogliere maggiori

90
dettagli utili per la ricostruzione dell’inganno che si stava cercando di mettere in piedi.

Il canale più importante, nell’ottica di Ekman, per la scienza della “lie detection” è il

viso. Si tratta del luogo in cui vengono esibite le microespressioni, pose facciali che

durano circa un quinto di secondo e che, se colte in tempo, permettono di indicare

l’emozione che il soggetto cercava di celare. Si tratta di un fenomeno universale: le

emozioni facciali di gioia, dolore, tristezza, rabbia, disgusto, paura e sorpresa vengono

esibite in tutto il mondo allo stesso modo anche se le “display rules” che le controllano

possono variare in base al contesto culturale, sociale ed economico. Le emozioni quindi

sono di natura biologica mentre le regole di esibizione sono apprese socialmente.

Ciò che mi ha colpito è stata la scoperta dei “naturals”. Si tratta di uno dei risultati del

“Progetto Wizards”: i “talenti naturali” sono capaci di cogliere le microespressioni

grazie a doti innate di riconoscimento e senza il bisogno di ricevere un addestramento

specifico per imparare a riconoscerle. Ho sempre avuto la percezione che questa cosa

fosse possibile ma, leggendo i lavori di Paul Ekman, ne ho avuto la conferma definitiva.

Nel mio elaborato ho anche proposto un’analisi traduttiva di alcuni dei sottotitoli del

telefilm, basandomi sulle strategie proposte da Malone, Gottlieb e Baker.

Il capitolo finale, invece, contiene una delucidazione sul modo di mentire nel mondo

arabo. É stato opportuno fare una distinzione tra le high-context cultures, come quella

araba, e le low-context cultures, come quella americana. Ho presentato anche il concetto

di Taqiyya, una menzogna sancita dal Corano e dalla Sunna che permette di smentire la

propria appartenenza alla fede islamica per salvaguardare la propria incolumità.

91
Bibliografia
Baker M., In Other Words. A Coursebook on Translation, London, Routledge, 1992

Bartlett M. S., Ekman P., Golomb B. A., Hager J. C., Larsen J., Sejnowski T. J., Viola
P., Classifying Facial Action, Cambridge (Massachusetts), London, MIT Press, 1996,
823-829

Berry D. S., Newman M. L., Pennebaker J.W., Richards J. M., Lying Words. Predicting
Deception From Linguistic Styles, Personality and social psychology bulletin, 29, 665-
675, Austin (TX), 2003

Bull R., Edward K., Roberts K. P., Vrij A., Detecting deceit via analysis of verbal and
nonverbal behavior, Journal of Nonverbal Behavior, 24, 239-263, Chichester, England,
John Wiley & Sons, 2000

Burgoon J. K.,Qin T., The Dynamic Nature of Deceptive Verbal Communication,


Journal of Language and Social Psychology, 25, 76-96, Arizona, 2006

Charlton K., Cooper H., DePaulo B. M., Lindsay J. J., Malone B. E., Muhlenbruck L.,
Cues to Deception (Psychological Bulletin, 129, 74-118), Summerland (CA), 2003

Cozzolino M., La comunicazione invisibile. Gli aspetti non verbali della


comunicazione, Ed. Carlo Amore, 2003

Curry L. E., Goorha S., Hancock J. T., Woodworth M. T., Lies in Conversation. An
Examination of Deception Using Automated Linguistic Analysis, 26th Annual
Conference of the Cognitive Science Society, 534-540, Mahwah, NJ: LEA, 2004

Darwin C., L’espressione dei sentimenti nell’uomo e negli animali, Torino, Unione
tipografico-editrice, 1878

De Paulo B. M., Epstein J.A., Kashy D. A., Kirkendol S. E., Wyer M. M., Lying in
Everyday Life (Journal of Personality and Social Psychology, 70, 979-995),
Summerland (CA), 1996

Diadori P., Doppiaggio, sottotitoli e fenomeni di code-switching e code-mixing. La


traduzione dei testi mistilingui, Italica, 80, 531-541, Siena, 2003

Ekman P., Darwin and Facial Expression. A Century of Research and Review, Major
Books, 2006

Ekman P., Ellsworth P., Friesen W. V., Emotion in the Human Face. Guidelines for
Research and an Integration of Findings, Pergamon Press, New York, 1972

Ekman P., Emotions Revealed. Recognizing Faces and Feelings to Improve


Communication and Emotional Life, Times Books, New York, 2003

Ekman P., Friesen W. V., Unmasking the face. A guide to recognizing emotions from
facial expressions, Malor Books, Cambridge, 2003

92
Ekman P., Friesen W. V., Detecting deception from the body or face (Journal of
Personality and Social Psychology, 29, 288-298), 1974

Ekman P., Friesen W. V., Facial Action Coding System. A Technique for the
Measurement of Facial Movement, Consulting Psychologists Press, Palo Alto, 1978

Ekman P., Friesen W. V., Nonverbal Leakage and Clues to Deception, Psychiatry.
Journal for the study of interpersonal processes, 32, 88-105, San Francisco (California),
1969

Ekman P., Friesen W. V., Scherer K., Body Movement and Voice Pitch in Deceptive
Interaction, Semiotica, 1976

Ekman P., Friesen W. V., The Repertoire of Nonverbal Behavior. Categories, Origins,
Usage and Coding, Semiotica, 1, 49-98, San Francisco (California), 1969

Ekman P., I volti della menzogna. Gli indizi dell’inganno nei rapporti interpersonali,
negli affari, nella politica, nei tribunali, Giunti Editore S.p.A., Prato, 2009

Ekman P., Telling Lies. Clues to deceit in the marketplace, politics, and marriage,
Norton & Company, New York, London, 1992

Ekman P., What the face Reveals. Basic and Applied Studies of Spontaneous Expression
Using the Facial Action Coding System (FACS), Series in Affective Science, Oxford
University Press, New York, 2004

Freud S., Parapraxes, The Complete Psychological Works, 15, (1916)

Freud S., The Psychopathology of Everyday Life (1901), The Complete Psychological
Works, 6, W. W. Norton, New York, 1976

Goldoni C., Il Bugiardo. Commedia di tre atti in prosa, 1750

Gottlieb H., Subtitling. A New University Discipline, Teaching Translation and


Interpreting. Training, Talent and Experience, John Benjamins Publishing Company,
Amsterdam & Philadelphia, 1992

Hancock J. T., Ritchie T., Thom-Santelli J., Deception and Design. The Impact of
Communication Technology on Lying Behavior, CHI, 2004

Lamedica N., Gesto e Comunicazione. Verbale, non verbale, gestuale, Liguori Editore,
Napoli, 1987

MacKenzie W., Understanding Taqiyya. Islamic Principle of Lying for the Sake of
Allah, 2007

Malone J.L., The Science of Linguistics in the Art of Translation, Albany: SUNY Press,
1988

93
Mead M., Coming of age in Samoa. A psychological study of primitive youth for
Western civilization, New York: Morrow, 1963

Mehrabian A., Nonverbal Communication (1972), A division of Translation Publishers,


Rutgers, New Jersey, 2009

Pirandello L., Uno,nessuno e centomila, ed. Mondadori, 1969

Rotman L. H., How Culture Influences the Telling and Detection of Lies. Differences
between Low- and High-context Individuals, University of Twente, Enschede, 2012

Tomkins S., Affect Imagery Consciousness. Volume I, The Positive Affects, London:
Tavistock, 1962

Tomkins S., Affect Imagery Consciousness. Volume II, The Negative Affects, London:
Tavistock, 1963

Zaharna R.S., Ed.D., Bridging Cultural Differences. American Public Relations


Practices & Arab Communication Patterns, Public Relations Review, 21, 241-255,
Washington, (1995)

DIZIONARI:

Oxford Advanced Learner’s Dictionary, New 8th Edition

Lo Zingarelli 2010, Vocabolario della lingua italiana, 2010

94

Potrebbero piacerti anche