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CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 1
II SEMESTRE
A.A. 2018-2019
I linguaggi
STORIApolitici della Modernità
COSTITUZIONALE
Potere sovrano
Contratto
Eguaglianza
Libertà
(indipendenza della volontà)
Potere
(prodotto della volontà di tutti)
Il linguaggio del giusnaturalismo
STORIA COSTITUZIONALE
Lezione n. 2
II SEMESTRE
A.A. 2018-2019
K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche:
Lezione n. 3
II SEMESTRE
A.A. 2018-2019
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra:
In passato l’anima guardava al corpo con
disprezzo: e questo disprezzo era allora la
cosa più alta: - essa voleva il corpo
macilento, orrido, affamato. Pensava in tal
modo, di poter sfuggire al corpo e alla terra.
Ma quest’anima era anch’essa macilenta,
orrida e affamata: e crudeltà era la voluttà di
quest’anima (pp. 6-7).
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra:
Lezione n. 4
II SEMESTRE
A.A. 2018-2019
G. Le Bon, Psicologia delle folle (1895):
Ciò che più colpisce in una folla psicologica è il fatto che gli individui
che la compongono – indipendentemente dal tipo di vita,
dall’occupazione, dal temperamento o dall’intelligenza - acquistano una
sorta di anima collettiva per il solo fatto di appartenere alla folla. Tale
anima li fa sentire, pensare ed agire in un modo del tutto diverso da
come ciascuno di loro – isolatamente – sentirebbe, penserebbe e
agirebbe.
Certe idee, certi sentimenti non sorgono o non si trasformano in atti se
non negli individui che costituiscono folla. La folla psicologica é un
essere provvisorio, composto di elementi eterogenei per un istante uniti
fra loro, proprio come le cellule di un corpo vivente che con la loro
unione formano un essere umano il quale manifesta caratteri assai
diversi da quelli che ognuna di quelle cellule possiede.
G. Le Bon, Psicologia delle folle:
I nostri atti incoscienti derivano da un substrato incosciente formato specialmente da influenze
ereditarie. Questo substrato racchiude gli innumerevoli residui atavici che costituiscono l'anima
della razza. Dietro le cause palesi dei nostri atti, si trovano cause segrete, ignorate da noi. La
maggior parte delle nostre azioni quotidiane sono effetto dei moventi nascosti che ci sfuggono.
Specialmente per gli elementi incoscienti che compongono l'anima di una razza, tutti gli individui
di questa razza si assomigliano. Per gli elementi coscienti, frutto dell'educazione, ma soprattutto di
un'eredità eccezionale, essi differiscono. Gli uomini più dissimili per intelligenza hanno istinti,
passioni, sentimenti a volte identici. In tutto ciò che é materia di sentimento : religione, politica,
morale, affezioni, antipatie, ecc., gli uomini più eminenti non superano che assai raramente il
livello degli individui comuni. Tra un celebre matematico e il suo calzolaio può esistere un abisso
sotto il rapporto intellettuale, ma dal punto di vista del carattere e delle credenze la differenza é
spesso nulla o lievissima Ora, queste qualità generiche del carattere, guidate dall'incosciente e
possedute press'a poco allo stesso grado dalla maggior parte degli individui normali di una razza,
sono precisamente quelle che, nelle folle, si trovano messe in comune. Nell'anima collettiva, le
attitudini intellettuali degli uomini, e per conseguenza la loro individualità, si cancellano.
Lezione n. 5
II SEMESTRE
A.A. 2018-2019
Sigmund Freud, Introduzione alla psicanalisi:
Il Super-io impone all’Io inerme, che è in sua balia, criteri morali rigorosissimi; è in
generale il rappresentante delle esigenze della moralità e (…) il nostro senso morale di
colpa esprime la tensione fra l’Io e il Super-io.
(…) Tale coscienza (…) si pone in diretto contrasto con la vita sessuale, la quale esiste
realmente sin dall’inizio della vita e non sopravviene solo più tardi. Per contro il
bambino piccolo è notoriamente amorale, non ha alcuna inibizione interiore contro i
propri impulsi che anelano al piacere. La funzione che più tardi assume il Super-io viene
dapprima svolta da un potere esterno, dall’autorità dei genitori. I genitori esercitano il
loro influsso e governano il bambino mediante la concessione di prove d‘amore e la
minaccia di castighi; questi ultimi dimostrano al bambino la perdita dell’amore e sono
temuti per se stessi. Questa angoscia reale precorre la futura angoscia morale; finché
essa domina non c’è bisogno di parlare di Super-io e di coscienza morale. Solo in
seguito si sviluppa la situazione secondaria (…) in cui l’impedimento esterno viene
interiorizzato e al posto dell’istanza parentale subentra il Super-io, il quale ora osserva,
guida e minaccia l’Io, esattamente come facevano prima i genitori col bambino…
Sigmund Freud, Introduzione alla psicanalisi:
Fondamento di tale processo è la cosiddetta «identificazione», cioè l’assimilazione di un
Io a un Io estraneo in conseguenza della quale il primo Io si comporta sotto determinati
riguardi come l’altro, lo imita, lo accoglie in certo qual modo in sé. (…) L’insediamento
del Super-io può essere descritto come un caso ben riuscito di identificazione con
l’istanza parentale. (…) Questa neocreazione di un’istanza superiore nell’Io è
strettamente vincolata alla sorte del complesso edipico, talché il Super-io appare come
l’erede di questo legame emotivo così importante pe l’infanzia. (…) Il Super-io langue e
si atrofizza se il superamento del complesso edipico riesce solo in parte. Nel corso dello
sviluppo, il Super-io accoglie anche gli influssi di quelle persone che sono subentrate al
posto dei genitori, ossia educatori, insegnanti e modelli ideali. Normalmente eso si
allontana sempre più dalle individualità originarie dei genitori, diventa per così dire più
impersonale.
(…) Ci resta da menzionare ancora un’importante funzione che attribuiamo a questo
Super-io. Esso è anche l’esponente dell’ideale dell’Io, al quale l’Io si commisura, che
emula, e la cui esigenza di una sempre più ampia perfezione si sforza di adempiere…
Sigmund Freud, Introduzione alla psicanalisi:
Non abbiamo il diritto di chiamare ‘Sistema Inconscio’ il territorio
psichico estraneo all’Io, poiché il carattere di essere inconscio non
è esclusivo ad esso. Allora non useremo più il temine «inconscio»
in senso sistematico, ma daremo a quanto finora abbiamo
designato così un nome migliore, che non si presti più a malintesi.
Adeguandoci all’uso linguistico di Nietzsche (…) lo chiameremo
d’ora in poi «Es». Questo pronome impersonale sembra
particolarmente adatto ad esprimere il caratttere precipuo di questa
provincia psichica, la sua estraneità all’Io. Super-Io, Io ed Es sono
dunque i tre regni, territori, province, in cui scomponiamo
l’apparato psichico della persona e delle cui reciproche relazioni
ci occuperemo…
Sigmund Freud, Introduzione alla psicanalisi:
L’Es è la parte oscura, inaccessibile della nostra personalità; il
poco che ne sappiamo, l’abbiamo appreso dallo studio del lavoro
onirico e della formazione dei sintomi nevrotici; di questo poco, la
maggior parte ha carattere negativo, si lascia descrivere solo per
contrapposizione all’Io. All’Es ci avviciniamo con paragoni: lo
chiamiamo un caos, un crogiuolo di eccitamenti ribollenti. Ce lo
rappresentiamo come aperto all’estremità verso il somatico, di cui
accoglie i bisogni pulsionali, i quali trovano dunque nell’Es la loro
espressione psichica. Attingendo alle pulsioni, l’Es si riempie di
energia, ma non possiede un’organizzazione, non esprime una
volontà unitaria, ma solo lo sforzo di ottenere soddisfacimento per
i bisogni pulsionali nell’osservanza del principio di piacere…
Sigmund Freud, Introduzione alla psicanalisi:
La concezione secondo la quale l’Io è quella parte dell’Es che è stata modificata dalla
vicinanza del mondo esterno non ha quasi bisogno di essere giustificata: è questa la
parte predisposta per la ricezione degli stimoli e per la protezione degli stessi. Il rapporto
con il mono esterno è diventato decisivo per l’Io, il quale si è assunto il compito di
rappresentarlo presso l’Es; fortunatamente per l’Es, il quale, incurante di questa
preponderante forza esterna, e anelando ciecamente al soddisfacimento pulsionale, non
sfuggirebbe all’annientamento. Nell’adempiere tale funzione, l’Io deve osservare il
mondo esterno, depositarne una fedele riproduzione nelle tracce mnestiche delle sue
percezioni, tener lontano, mediante l’esercizio dell’«esame di realtà», ciò che in questa
immagine del mondo esterno è un’aggiunta proveniente da fonti interne di eccitamento.
Per incarico dell’Es, l’Io domina gli accessi alla motilità, ma ha inserito tra bisogno e
azione la dilazione dell’attività di pensiero, Durante la quale utilizza i residui mnestici
dell’esperienza. In tal modo ha detronizzato il principio del piacere da cui il decorso dei
processi dell’Es è integralmente dominato e l’ha sostituito con il principio di realtà, che
promette più sicurezza e maggiore successo…
Sigmund Freud, Introduzione alla psicanalisi:
Il povero Io (…) è costretto a servire tre severissimi padroni, deve sforzarsi di
mettere d’accordo le loro esigenze e le loro pretese. Queste sono sempre tra loro
discordanti e appaiono spesso del tutto incompatibili; nessuna meraviglia se l’Io
fallisce così frequentemente nel suo compito. I tre tiranni sono: il mondo esterno, il
Super-io e l’Es. (…) Ci è facile immaginare che certe pratiche mistiche possano
riuscire a rovesciare i normali rapporti fra i singoli territori della psiche, così che,
per esempio, la percezione sia in grado di cogliere eventi profondamente radicati
nell’Io o nell’Es, che le sarebbero stati altrimenti inaccessibili. Che per questa via si
possa giungere in possesso della sapienza suprema, da cui ci si aspetta la salvezza, è
lecito dubitarne. Tuttavia bisogna ammettere che gli sforzi terapeutici della
psicoanalisi seguono una linea in parte analoga. La loro intenzione è in definitiva di
rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente del Super-io, di ampliare il suo campo
percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove
zone dell’Es. Dove era l’Es, deve subentrare l’Io. E’ un’opera di civiltà, come ad
esempio il prosciugamento dello Zuiderzee.
Sigmund Freud, Introduzione alla psicanalisi:
Il povero Io (…) è costretto a servire tre severissimi padroni, deve sforzarsi di
mettere d’accordo le loro esigenze e le loro pretese. Queste sono sempre tra loro
discordanti e appaiono spesso del tutto incompatibili; nessuna meraviglia se l’Io
fallisce così frequentemente nel suo compito. I tre tiranni sono: il mondo esterno, il
Super-io e l’Es. (…) Ci è facile immaginare che certe pratiche mistiche possano
riuscire a rovesciare i normali rapporti fra i singoli territori della psiche, così che,
per esempio, la percezione sia in grado di cogliere eventi profondamente radicati
nell’Io o nell’Es, che le sarebbero stati altrimenti inaccessibili. Che per questa via si
possa giungere in possesso della sapienza suprema, da cui ci si aspetta la salvezza, è
lecito dubitarne. Tuttavia bisogna ammettere che gli sforzi terapeutici della
psicoanalisi seguono una linea in parte analoga. La loro intenzione è in definitiva di
rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente del Super-io, di ampliare il suo campo
percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove
zone dell’Es. Dove era l’Es, deve subentrare l’Io. E’ un’opera di civiltà, come ad
esempio il prosciugamento dello Zuiderzee.
Sigmund Freud, Totem e tabù (1913):
…La teoria di Darwin non accorda un posto alle origini del totemismo. Un
padre violento, geloso, che tiene per sé tutte le femmine e scaccia i suoi figli
man mano che crescono: ecco tutto ciò che essa suppone. Questo stato
primitivo della società non è mai stato oggetto di analisi. L’organizzazione più
primitiva di cui siamo a conoscenza, e che ancora attualmente esiste in certe
tribù, consiste in una comunità di uomini che godono di uguali diritti e sono
sottomessi alle limitazioni del sistema totemico, ivi compresa l’eredità in linea
materna. Questa organizzazione potrebbe essere derivata da quella supposta
dall’ipotesi darwiniana? Ed in che modo vi si sarebbe giunti? Basandoci sulla
festa del banchetto totemico possiamo rispondere così a questo interrogativo:
un giorno, i fratelli scacciati si sono riuniti, hanno ucciso e mangiato il padre,
ponendo fine all’orda paterna. Una volta riunitisi, si sono fatti audaci e sono
stati in grado di realizzare ciò che ciascuno di loro, isolatamente, sarebbe stato
incapace di fare…
Sigmund Freud, Totem e tabù (1913):
Lezione n. 6
II SEMESTRE
A.A. 2017-2018
George Sorel, Riflessioni sulla violenza:
«Gli uomini che partecipano ai grandi movimenti sociali si figurano le
loro future azioni sotto forma di immagini di battaglie per assicurare il
trionfo della loro causa. Io proponevo di chiamar ‘miti’ tali costruzioni,
la cui comprensione è di così alta importanza per lo storico: in questo
senso, lo sciopero generale dei sindacalisti e la rivoluzione catastrofica
di Marx sono miti. Come esempi notevoli di miti ho dato quelli costruiti
dal cristianesimo primitivo, dalla Riforma, dalla Rivoluzione, dai
mazziniani; ciò che volevo mostrare è che non bisogna cercare di
analizzare un tale sistema di immagini allo stesso modo che si scompone
una cosa nei suoi elementi; e che, invece, bisogna prenderli nel loro
insieme, come energie storiche; e guardarsi, soprattutto, dal confrontare
i fatti compiuti con le rappresentazioni fantastiche formatesi prima
dell’azione».
George Sorel, Riflessioni sulla violenza:
Un mito non troverebbe possibilità di essere
rifiutato, poiché esso è, nell’insieme,
identico alle convinzioni di un gruppo, ed è
l’espressione di queste convinzioni in
linguaggio di movimento, e quindi, per
conseguenza, non è scomponibile in parti, le
quali si possano applicare su di un piano di
descrizioni storiche.
George Sorel, Riflessioni sulla viiolenza:
il socialismo è diventato una preparazione delle masse impiegate dalla
grande industria, le quali vogliono sopprimere lo Stato e la società; da
ora in avanti il modo in cui gli uomini si adopereranno per godere la
felicità futura non sarà più oggetto di ricerca; tutto si riduce
all’apprendistato rivoluzionario del proletariato. Disgraziatamente Marx
non aveva sotto gli occhi i fatti che ci sono divenuti familiari; noi
sappiamo meglio di lui ciò che sono gli scioperi, perché abbiamo potuto
osservare conflitti economici considerevoli per estensione e durata; il
mito dello sciopero generale è divenuto popolare ed ha fatto solida presa
nei cervelli; in fatto di violenza noi abbiamo delle idee che Marx non
avrebbe potuto formarsi facilmente; noi dunque possiamo completare la
sua dottrina, invece di commentare i suoi testi come per tanto tempo
hanno fatto dei malfortunati discepoli.
George Sorel, Riflessioni sulla violenza:
Oggi la fiducia dei socialisti è più grande che mai da quando
il mito dello sciopero generale domina tutto il movimento
realmente operaio. Un insuccesso non può provare niente
contro il socialismo dopo che esso è divenuto un lavoro di
preparazione; se viene sconfitto, ciò vuol dire che la
preparazione è stata insufficiente; bisogna rimettersi
all’opera con più coraggio, più insistenza, più fiducia che
mai; la pratica del lavoro ha insegnato agli operai che è
mediante un paziente apprendistato che si può divenire un
vero compagno; ed è anche la sola maniera per divenire un
vero rivoluzionario…
George Sorel, Riflessioni sulla violenza:
Sappiamo che lo sciopero generale è proprio ciò che ho detto: il mito nel
quale si racchiude tutto intero il socialismo, cioè a dire una organizzazione
di immagini capaci di evocare istintivamente tutti i sentimenti che
corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra intrapresa dal
socialismo contro la società moderna. Gli scioperi hanno fatto nascere nel
proletariato i sentimenti più nobili, più profondi e più stimolanti all’azione
che esso possiede; lo sciopero generale li raggruppa tutti in un quadro
d’insieme e, attraverso il loro reciproco accostamento, porta ciascuno di
essi alla sua massima intensità; facendo appello a dei ricordi molto intensi
di conflitti singoli, colora di una vita intensa tutti i dettagli della
composizione presentata alla coscienza. Otteniamo così questa intuizione
del socialismo che il linguaggio non poteva dare in modo perfettamente
chiaro – e l’otteniamo in una totalità percepita istantaneamente.
George Sorel, Riflessioni sulla violenza:
Sappiamo che lo sciopero generale è proprio ciò che ho detto: il mito nel
quale si racchiude tutto intero il socialismo, cioè a dire una organizzazione
di immagini capaci di evocare istintivamente tutti i sentimenti che
corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra intrapresa dal
socialismo contro la società moderna. Gli scioperi hanno fatto nascere nel
proletariato i sentimenti più nobili, più profondi e più stimolanti all’azione
che esso possiede; lo sciopero generale li raggruppa tutti in un quadro
d’insieme e, attraverso il loro reciproco accostamento, porta ciascuno di
essi alla sua massima intensità; facendo appello a dei ricordi molto intensi
di conflitti singoli, colora di una vita intensa tutti i dettagli della
composizione presentata alla coscienza. Otteniamo così questa intuizione
del socialismo che il linguaggio non poteva dare in modo perfettamente
chiaro – e l’otteniamo in una totalità percepita istantaneamente.
George Sorel, Riflessioni sulla violenza:
Lo studio dello sciopero generale ci porta a comprendere meglio una
distinzione che si deve avere sempre presente quando si riflette sulle
questioni sociali contemporanee. Talvolta si impiegano i termini forza e
violenza parlando degli atti dell’autorità, talvolta parlando degli atti di
rivolta. E? chiaro che i due casi danno luogo a conseguenze molto
differenti. Io sono dell’avviso che ci sarebbero grandi vantaggi ad adottare
una terminologia che non dia luogo ad alcuna ambiguità e che bisognerebbe
riservare il termine violenza per la seconda accezione; noi diremmo dunque
che la forza ha per obiettivo di imporre l’organizzazione di un certo ordine
sociale nel quale una minoranza governa, mentre la violenza tende alla
distruzione di quest’ordine. La borghesia ha utilizzato la forza fin
dall’inizio dei tempi moderni, mentre il proletariato reagisce oggi contro di
essa e contro lo Stato attraverso la violenza.
W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):
Bisognerà forse (…) prendere in considerazione la
sorprendente possibilità che l'interesse del diritto a
monopolizzare la violenza rispetto alla persona singola
non si spieghi con l'intenzione di salvaguardare i fini
giuridici, ma piuttosto con quella di salvaguardare il
diritto stesso. E che la violenza, quando non è in
possesso del diritto di volta in volta esistente, rappresenti
per esso una minaccia, non a causa dei fini che essa
persegue, ma della sua semplice esistenza al di fuori del
diritto.
W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):
Per quanto possa sembrare a prima vista paradossale, si può definire, in certe condizioni,
come violenza anche un contegno assunto nell'esercizio di un diritto. E precisamente questo
contegno, ove sia attivo, potrà dirsi violenza, quando esercita un diritto che gli compete per
rovesciare l’ordinamento giuridico in virtù del quale esso gli è conferito; ove sia passivo,
potrà essere definito allo stesso modo, se rappresenta un ricatto nel senso delle considerazioni
precedenti. Testimonia quindi solo di una contraddizione oggettiva nelle situazione giuridica.
e non già di una contraddizione logica nel diritto che esso si opponga, in certe condizioni, con
la violenza alla violenza degli scioperanti. Poiché nello sciopero lo Stato teme, più di ogni
altra cosa, quella funzione della violenza che questa indagine si propone appunto di
determinare come unico fondamento sicuro della sua critica. Poiché se la violenza, come
sembra a prima vista, fosse semplicemente il mezzo di assicurarsi direttamente di quella cosa
qualunque a cui si mira. essa potrebbe assolvere al suo scopo solo come violenza di rapina. E
sarebbe affatto inetta a fondare o modificare rapporti in modo relativamente stabile. Ma lo
sciopero mostra che essa può farlo, che essa è in grado di fondare e modificare rapporti
giuridici, per quanto il sentimento di giustizia possa restarne offeso…
W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):
Ogni violenza (Gewalt) è, come mezzo,
potere che pone o che conserva il diritto. Se
non pretende a nessuno di questi due
attributi rinuncia da sé a ogni validità. Ma
ne consegue che ogni violenza come mezzo
partecipa, anche nel caso piú favorevole,
alla problematicità del diritto in generale.
W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):
Poiché il diritto positivo, dove è consapevole delle sue radici, pretenderà
senz’altro di riconoscere e di promuovere l'interesse dell'umanità nella
persona di ogni singolo. Esso vede questo interesse nell'esposizione e nella
conservazione di un ordine stabilito dal destino. E anche se quest'ordine
(che il diritto afferma a ragione di custodire) non può sfuggire alla critica
resta tuttavia impotente, nei suoi confronti, ogni contestazione che si affacci
solo in nome di una «libertà» informe, senza essere in grado di definire
quell'ordine superiore di libertà. E tanto più impotente se non impugna
l'ordinamento giuridico stesso in tutte le sue parti, ma singole leggi o
consuetudini giuridiche, che poi, del resto, il diritto prende sotto la custodia
del suo potere che consiste in ciò che c’è un solo destino e che proprio ciò
che esiste e soprattutto ciò che minaccia, appartiene irrevocabilmente al suo
ordinamento. Poiché il potere che conserva il diritto è quello che
minaccia…
W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):
La funzione della violenza nella creazione giuridica è (…) duplice
nel senso che la creazione giuridica, mentre persegue ciò che
viene instaurato come diritto, come scopo, con la violenza come
mezzo, pure – nell’atto di insediare come diritto lo scopo
perseguito – non depone affatto la violenza, ma ne fa solo ora in
senso stretto, e cioè immediatamente, violenza creatrice di diritto,
in quanto insedia come diritto, col nome di potere (Macht), non
già uno scopo immune e indipendente dalla violenza, ma
intimamente e necessariamente legato ad essa. Creazione di diritto
è creazione di potere, e in tanto un atto di immediata
manifestazione di violenza. Giustizia è il principio di ogni finalità
divina, potere il principio di ogni diritto mitico.
W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):
Lungi dall’aprirci una sfera più pura, la manifestazione mitica della
violenza immediata si rivela profondamente identica ad ogni potere
giuridico, e trasforma il sospetto della sua problematicità nella certezza
della perniciosità della sua funzione storica, che si tratta quindi di
distruggere. E questo compito pone, in ultima istanza, ancora una volta
il problema di una violenza pura immediata, che possa arrestare il corso
della mitica. Come in tutti i campi al mito Dio, così, alla violenza
mitica, si oppone quella divina, che ne costituisce l’antitesi in ogni
punto. Se la violenza mitica pone il diritto, la divina lo annienta, se
quella pone limiti e confini, questa distrugge senza limiti, se la violenza
mitica incolpa e castiga, quella divina purga ed espia, se quella incombe,
questa è fulminea, se quella è sanguinosa, questa è letale senza sangue…
W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):
Il sangue è il simbolo della nuda vita. La dissoluzione
della violenza giuridica risale quindi (…) alla
colpevolezza della nuda vita naturale, che affida il
vivente, innocente e infelice, al castigo, che ‘espia’ la sua
colpa – e purga anche il colpevole, non però da una
colpa, ma dal diritto. Poiché con la nuda vita cessa l
dominio del diritto sul vivente. La violenza mitica è
violenza sanguinosa sulla nuda vita in nome della
violenza: la pura violenza divina sopra ogni vita in nome
del vivente.
STORIA DEL PENSIERO POLITICO
CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 7
II SEMESTRE
A.A. 2018-2019
Lenin, Che fare? (1903)
Piccolo gruppo compatto, noi camminiamo per una
strada dirupata e difficile, tenendoci per mano. Siamo da
ogni parte circondati da nemici e dobbiamo quasi sempre
marciare sotto il loro fuoco. Ci siamo uniti, in virtù di
una decisione liberamente presa, proprio per combattere
i nostri nemici e non sdrucciolare nel vicino pantano, i
cui abitatori, fina dal primo momento, ci hanno
biasimato per aver costruito un gruppo a parte e preferito
la via della lotta alla via della conciliazione.
Lenin, Che fare? (1903)
La coscienza politica di classe può essere portata all‘operaio solo
dall‘esterno, cioè dall‘esterno della lotta economica, dall‘esterno della
sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il solo campo dal quale è possibile
attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di
tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo
dei rapporti reciproci di tutte le classi. Perciò alla domanda: che cosa fare
per dare agli operai cognizioni politiche? Non ci si può limitare a dare
una sola risposta, a dare quella risposta che nella maggior parte dei casi
accontenta i militanti, soprattutto quando essi pencolano verso
l‘economismo, e cioè: "andare tra gli operai". Per dare agli operai
cognizioni politiche, i socialdemocratici devono andare fra tutte le classi
della popolazione, devono inviare in tutte le direzioni i distaccamenti del
loro esercito.
Lenin, Che fare? (1903)
L’ideale del socialdemocratico non deve essere il segretario di una
trade-union, ma il tribuno popolare, il quale sa reagire contro ogni
manifestazione di arbitrio e di oppressione, ovunque essa si
manifesti e qualunque sia la classe o la categoria sociale che ne
soffre, sa generalizzare tutti questi fatti e trame il quadro completo
della violenza poliziesca e dello sfruttamento capitalistico; sa,
infine, approfittare di ogni minima occasione per esporre dinanzi a
tutti le proprie convinzioni socialiste e le proprie rivendicazioni
democratiche, per spiegare a tutti l'importanza storica mondiale
della lotta emancipatrice del proletariato.
Lenin, Che fare? (1903)
Tutti coloro che parlano di "sopravvalutazione della
ideologia", di esagerazione della funzione dell'elemento
cosciente, ecc., immaginano che il movimento puramente
operaio sia di per sé in grado di elaborare - ed elabori in
realtà - una ideologia indipendente; che ciò che più conta
sia che gli operai "strappino dalle mani dei dirigenti le
loro sorti". Ma questo è un profondo errore.
Lenin, Che fare? (1903)
Dal momento che non si può parlare di una ideologia indipendente, elaborata dalle stesse
masse operaie nel corso stesso del loro movimento, la questione si può porre solamente
così: o ideologia borghese o ideologia socialista. Non c'è via di mezzo (poiché l'umanità
non ha creato una "terza" ideologia, e, d'altronde, in una società dilaniata dagli
antagonismi di classe, non potrebbe mai esistere una ideologia al di fuori o al di sopra
delle classi). Ecco perché ogni menomazione dell'ideologia socialista, ogni
allontanamento da essa implica necessariamente un rafforzamento dell'ideologia
borghese. Si parla della spontaneità; ma lo sviluppo spontaneo del movimento operaio fa
sì che esso si subordini all'ideologia borghese, che esso proceda precisamente secondo il
programma del "Credo", perché il movimento operaio spontaneo è il tradunionismo, (…)
e il tradunionismo è l'asservimento ideologico degli operai alla borghesia. Perciò il nostro
compito, il compito della socialdemocrazia, consiste nel combattere la spontaneità,
nell'allontanare il movimento operaio dalla tendenza spontanea del tradunionismo a
rifugiarsi sotto l'ala della borghesia; il nostro compito consiste nell'attirare il movimento
operaio sotto l'ala della socialdemocrazia rivoluzionaria.
Excursus sul concetto di ideologia in Marx