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Capitolo Primo – Prologo: su che cosa sia estetica e che cosa sia un'opera d'arte si sono espresse

svariate opinioni nel corso della storia del pensiero. Nessuna di queste porta tutt'oggi a ad una
risposta soddisfacente ed univoca. Sono state offerte varie definizioni, per esempio, di ;arte/opera
d'arte forme significanti Bell,;intuizione lirica&; Croce, esistenza sensibile dell'idea
Hegel,;messa in opera della verità; Heidegger. Un pensatore di metà 900, Willliam Kennick, mise in
dubbio l'utilità e la stessa possibilità di giungere ad una definizione dell'arte. Questo attacco
sembrava essere diretto quindi alla stessa estetica, che finisce per apparire come un sapere inutile e
dannoso quando distingue tra cosa è e non è arte. A questo attacco si può rispondere in
diversi modi:
1. L'estetica non serve a separare le cose che sono opera d'arte da quelle che non lo sono (come
invece aveva presupposto K.).
Questo compito è affidato piuttosto alla critica letteraria e artistica, ben diversa dall'estetica, che non
si vuole occupare delle singole e concrete manifestazioni artistiche per inquadrarle, descriverle e
valutarle. Sebbene le due figure del critico d'arte e del teorico dell'estetica possono incontrarsi nella
stessa persona, esse non coincidono, poiché l'estetica non mira a dare un giudizio sulle opere d'arte,
come invece fa il critico. Questo però non vuol dire che la riflessione dell'estetica non abbia alcun
rapporto con il compito della separazione tra arte e non-arte.

2. La definizione dell'arte non ha lo scopo di fare una distinzione fattuale tra ciò che è arte e ciò che
non lo è. Infatti non siamo mai arrivati a decidere se qualcosa è o no arte sulla base di una
definizione generale dell'arte. Questa risposta però mette in ballo problemi teoretici spinosi che non
permettono di dare una soluzione immediata al problema.
E' giustamente in dubbio che l'estetica, come la stessa filosofia, possa dare risposte dirette, ma i
problemi a cui essa tenta di rispondere sono effettivamente problemi. Insomma la situazione
ipotizzata da K. è artificiosa, la domanda se qualcosa è o no arte ce la poniamo continuamente, e
l'estetica deve avere qualcosa da dire in proposito.
1. Filosofia dell'arte? Per gran parte della sua storia vi è un modo molto diffuso di intendere
l'estetica: come filosofia dell'arte.
Questo è sicuramente il modo più intellegibile di intendere la cosa, poiché può essere compreso
anche da ci sa poco o nulla, se diciamo che l'estetica è quella parte di filosofia che riflette sulla
natura, le funzioni e i destini dell'arte. Così diventerebbe una disciplina filosofica specialistica
poiché prende in considerazione quei particolari prodotti che sono le opere d'arte. A metà del 900
veniva ancora vista sotto la rigida definizione classica che le era stata assegnata, non sarebbe potuto
essere nulla di diverso, anzi lo era nel modo più diretto: è filosofia dell'arte in quanto fornisce
definizioni che consentono di identificare quello che è arte e quello che non lo è. Da qui si capisce
la critica portata avanti di Kennick, il quale era un esponente della filosofia analitica
anglosassone, che si assume il compito di dare una chiarificazione linguistica dei problemi
filosofici, cercando di analizzare e quindi eliminare le difficoltà prodotte nei discorsi. In questo
senso si è sviluppata una estetica analitica come filosofia della critica dell'arte: l'estetica mirerebbe
ad analizzare, discutere, fondare le discipline critiche che hanno come oggetto le varie arti,
discernendone anche le specificità delle singole arti. Intendere l'estetica in questo senso, però,
comporta la conseguenza di escludere quello che è stato considerato per secoli il terreno deputato
dell'esperienza estetica, ossia la bellezza della natura. Infatti in particolare nella filosofia analitica si
è trascurato completamente questo versante, dimenticandosi di problematizzare il fatto che
si può fare esperienza estetica non solo di fronte all'arte. Kant è stato l'ultimo a discutere di bellezza
di fronte ad un oggetto della natura, poiché dopo di lui si è iniziato a pensare che l'arte era bella
perché rappresentava o interpretava la bellezza della natura e il bello artistico è divenuto oggetto
dell'estetica grazie a filosofi romantici e idealistici, quali Schelling, Schlegel e Hegel. Si consolida
così nell'800 un processo di sacralizzazione e enfatizzazione del ruolo della ;grande arte: l'arte
diventa una via d'accesso privilegiata alla conoscenza, alla filosofia e alla transvalutazione di tutti i
valori (ancora in Nietzsche e Schopenhauer).
Il Romanticismo fa nascere una sorta di culto, di celebrazione dell'arte che la carica di capacità
superiori (es. potere conoscitivo maggiore rispetto alla stessa filosofia o alla scienza, a cui restano
precluse le regioni superiori del vero) e la allontana sempre di più dalle altre attività, diventa ben
più di un prodotto della cultura umana: è ;uno dei modi supremi nei quali si storicizzala verità
Hegel. Fino alle Avanguardie del 900 questa idea è presente, tanto che esse affidano all'arte un ruolo
propulsivo e la capacità di cambiare la stessa vita sociale. Ma dopo di esse sembra tramontare l'idea
della grande arte e prede sempre più piede l'arte di massa con i suoi caratteri di intrattenimento
diffuso, senza nessun intento rivoluzionario o con grandi rivolgimenti: la non-arte, il Kitsch.
In questo contesto cambia anche l'idea dell'estetica, che esce completamente dalla sfera della
religione dell'arte.
2. Sotto il nome di estetica: è difficile accogliere l'opinione hegeliana secondo la quale la scelta
della denominazione tra estetica;filosofia dell'arte è una mera questione di nomi. Il nome ;estetica; è
artificiale, in quanto frutto di una deliberata e mediata scelta di un singolo studioso: Alexander
Baumgarten lo utilizza per la prima volta nel 1735 nell’opera “Riflessioni sulla
poesia”, in cui avanza l’idea che, così come esiste una scienza dei contenuti intellettuali e razionali
= la logica (logiké episteme), dovrebbe esistere una <i>scienza dei dati sensibili della conoscenza =
l’estetica da aisthesis, sensazione, da cui aisthetiké episteme = disciplina che studia le sensazioni.
Questi termini sono interni ad una complicata situazione filosofica: mentre Cartesio aveva
riconosciuto dignità conoscitiva solo alle idee chiare e distinte, Leibniz sottolineava che le
conoscenze confuse fornite dalle sensazioni sono altrettanto importanti per lo sviluppo del nostro
sapere. Quindi L. sosteneva che non c’è una contrapposizione radicale fra sensibilità e intelletto,
che sono collegati piuttosto da una scala ascendente con una progressiva distinzione delle note
caratteristiche dell’oggetto. Le nostre conoscenze possono così essere:
• oscure = ricordo un oggetto ma non saprei riconoscerlo se mi fosse messo di nuovo davanti agli
occhi.
• chiare = sono in grado di riconoscere un oggetto. Esse a loro volta possono essere chiare e confuse
= conoscenze sensibili, o chiare e distinte = conoscenze intellettuali o razionali; tra di esse vi è un
percorso ascendente (gradualismo conoscitivo).
Baumgarten era stato influenzato dal più autorevole discepolo di Liebniz, Wolff, il quale si basa su
questa articolazione per sostenere che quindi è possibile una scienza della conoscenza sensibile, di
un’estetica, accanto alla scienza che conosce i
contenuti chiari e distinti, la logica. Quando la conoscenza sensibile è perfetta abbiamo la bellezza
perfezione della bellezza sensibile in quanto tale. Oggi con il termine “estetica” si intende per lo più
l’aspetto più o meno bello posseduto da un oggetto e la radice si conserva in termini quali
“anestetico”, come qualcosa che ottunde la sensibilità. Il termine “estetica” però non ha avuto
una storia lineare ed a fatica è entrato a far parte del vocabolario filosofico, soprattutto nelle lingue
diverse dal tedesco. Ad esempio in Inghilterra vi entrò solo grazie all’Aesthetic Movement, in cui si
considerava l’esperienza della bellezza qualcosa di prettamente sensuale, e in Italia il termine venne
legittimato soltanto nel 1902 dall’Estetica di Croce. Nel frattempo in Germania
lo studioso Konrad Fiedler, ritenendo che si trattasse di due ambiti completamente diversi senza
rapporto tra loro, aveva riattualizzato la distinzione tra
• Estetica = disciplina che si occupa delle cose che dilettano e aggradano i sensi e come tal vengono
considerate belle.
• Filosofia-teoria dell’arte = esperienza che va ben oltre la sfera sensibile e non è ristretta alla
rappresentazione di cose che hanno il carattere di bellezza.
Con la conseguenza che presto l’unica ad essere considerata cosa seria fu la scienza dell’arte,
mentre l’estetica finì per essere il campo delle “cose che ci piacciono senza sapere il perché”.
Questo aspetto è presente ancora nella filosofia analitica, tanto che alcuni di essi tendono a pensare
che valga la pena costruire una filosofia dell’arte che rinuncia a considerare necessari per l’opera
d’arte proprio quegli aspetti estetici (=sensibili), visto che a fare l’opera d’arte è prima di tutto
quello che sappiamo e non quello che sentiamo. Le sensazioni piacevoli derivate dalla bellezza
riguardano l’arte di massa, quella di poco gusto e dalla quale non si trae nulla di filosoficamente
utile (La trasfigurazione del banale Danto). Da questa visione analitica si distacca negli ultimi
decenni la filosofia continentale, italiana e tedesca in particolare, che ha riabilitato invece la visione
baumgarteniana dell’estetica come filosofia del senso o sensibilità. Questa riabilitazione parte dal
fatto che l’estetica non può essere considerata come filosofia
dell’arte, essendo l’arte qualcosa di troppo vario e indefinibile, ma piuttosto è una filosofia del
senso come di una condizione sentita ma non appresa intellettualmente del nostro conoscere in
generale (<i>Senso e paradosso</i>, Emilio Garroni 1986). In questo modo non si può dire che
l’estetica sia esattamente la filosofia delle sensazioni, essendo la parola “senso” (organo del sentire
oppure significato e valore di qualcosa?) troppo ambigua, ma si apre la via per intenderla in questo
modo. Da questa teoria si snoda la ripresa del termine estetica in senso strettamente
baumgarteniano, tanto da arrivare a sostenere che l’orientamento del tutto accidentale che l’ha fatta
convergere sull’arte non ha tanto a che vedere con la sensazione. Dunque bisogna tornare a vedere
l’estetica = dottrina della sensazione e della percezione, lontana dalle teorie dell’arte e della poetica.
In Germania viene proposto un orientamento simile poiché si riconsidera l’estetica come ciò che ha
a che fare con il nostro percepire in generale. In questo senso si orientano poi filosofi quali Bohme,
che pensa all’estetica come dottrina generale delle percezioni, le quali sono sempre,
non tanto percezioni di cose, ma di atmosfere = tutto ciò che ci proviene dall’ingresso in una
situazione, nella quale sentiamo non solo un oggetto singolo, ma percepiamo tutto ciò che intorno
ad esso si snoda. In questo senso l’arte non è che una delle possibilità dell’estetica, e nemmeno
quella centrale, poiché legate al concetto di atmosfera sono molto di più le percezioni della
natura nella vita quotidiana.
3. Teoria della sensibilità? In questo modo si apre una spaccatura tra due modi di intendere
l’estetica, ma queste due concezioni sono plausibili? I continentali intendono l’estetica come teoria
della sensibilità, ma ad essi si potrebbe obbiettare che ci sono già scienziati che studiano sensazioni
e percezioni (psicologia, scienze cognitive), quindi l’estetica in che modo potrebbe dare un
contributo? Per studiare tali dati seriamente si dovrebbe ricorrere alle osservazioni sperimentali in
laboratorio. Inoltre, anche se la filosofia potesse sviluppare una buona teoria della sensazione o
della percezione, questo non escluderebbe che l’estetica si possa occupare anche dei fenomeni
artistici o della bellezza naturale. La risposta che non lo si può fare perché l’arte è storicamente
mutevole e ha confini smisurati, non sembra bastare, visto che è proprio delle cose difficili da
afferrare che si occupa la filosofia. Ferraris affianca alla proposta di considerare l’estetica una
precettologia la convinzione che la critica d’arte e della letteratura sono sufficienti a se stesse e non
hanno bisogno della filosofia. Resta comunque il fatto che una teoria della sensazione non
esaurisce quello che c’è da dire sull’arte o sulla bellezza naturale. Le opere d’arte sono sicuramente
apprese attraverso i sensi ed è vero che percepiamo sempre atmosfericamente, ma è controintuitivo
dire che percepire atmosfere significa percepire esteticamente, visto che questo tipo di percezione è
proprio degli animali anche in misura maggiore rispetto agli esseri umani.
Dunque è meglio dire che non tutte le sensazioni sono estetica, perché anche se per sentire e vedere
c’è bisogno dei sensi, c’è
evidentemente dell’altro in un’esperienza estetica. Inoltre la proposta inversa afferma che non tutte
le esperienze estetiche sono
sensibili o percettive: ad esempio quando si legge un libro o ne si ascolta la lettura, è ovvio che
devo vedere per poter leggere e sentire per ascoltare la lettura, ma è difficile sostenere che
l’esperienza estetica sia quella di decifrare lo stampo o udire i suoni della lingua. Ciò che si legge
viene piuttosto sentito e visto con l’immaginazione, ossia con la capacità di rappresentarsi qualcosa
anche quando essa è assente e non la ho davanti agli occhi.
Capitolo secondo – 1. I predicati estetici: non vi sarebbe differenza tra due gruppi di predicati che
attribuiamo agli oggetti in base a due tipi differenti di qualità, se tutti i giudizi che chiamiamo
estetici fossero giudizi dei sensi e viceversa. Appaiono subito invece differenze significative poiché
quelli sensibili hanno direttamente a che fare con aspetti sensibili e sono comunemente
condivisi (colore, misure, peso, ecc..), al contrario invece quelli estetici non seguono la stessa logica
e le stesse condizioni di impiego dei termini che, anche se chiamiamo estetici, hanno a che fare con
la nostra percezione sensibile e con il nostro modo di reagire a certi oggetti e di considerarli
soddisfacenti o insoddisfacenti, in termini ambientali o biologici. Il giudizio propriamente
estetico procede piuttosto per comparazione e può non essere condiviso da tutti, rimane soggettivo.
Dunque c’è differenza tra predicati sensibili e predicati estetici:
• Ci sono proprietà sensibili che non hanno a che fare con l’estetica: ad esempio il peso è una
qualità sensibile poiché può essere avvertito tramite la sensazione ed è diverso da una qualità
estetica, quale può essere la pesantezza dei corpi in un dipinto. Questo è un giudizio estetico perché
non sto parlando di una pesantezza misurabile ma percepibile con altre vie No tutti i giudizi dei
sensi sono giudizi estetici – questo è sufficiente per rigettare l’equivalenza tra teoria generale della
sensibilità ed estetica.
• Ci sono proprietà estetiche che non hanno a che fare con la sensibilità: ad esempio le opere
letterarie non danno mai luogo a giudizi di senso perché le qualità che producono non si possono
vedere con gli occhi o sentire con le orecchie, ma piuttosto con una funzione del cervello quale
l’immaginazione. Inoltre ci sono moltissimi aspetti di pitture e musiche che non si possono definire
sensibili, come le proprietà intenzionali, che possono essere colte solo facendo riferimento
alle intenzioni dell’autore dell’opera (es. l’ironia), e relazionali/storiche, che l’oggetto artistico o
meno possiede per i suoi rapporti con altri oggetti, persone, con il proprio tempo, con il passato, o
con molte altre opere presenti nella nostra memoria (es. originale, innovativo, ripetitivo, romantico,
barocco, gotico, liberty, modernista, ecc..).
2. I predicati estetici e le loro basi fisiche: </b>uno dei motivi che rendono poco chiara la
distinzione tra proprietà estetiche e proprietà sensibili è il pensare che esse non abbiano un rapporto.
I dati sensibili, che chiunque è in grado di vedere, non sono proprietà estetiche ma indubbiamente vi
intrattengono un rapporto inaggirabile, ma che non è facile da definire. Si è già visto che
la tesi che riduce semplicemente le une alle altre è insostenibile, mentre la tesi realista, la quale
considera le proprietà estetiche come dei dati di fatto, indipendenti dal giudizio del soggetto è
rischiosa. Quella molto più diffusa è la tesi di Sibley, per cui le proprietà estetiche dipendono da
quelle sensibili, anche se non è possibile determinare in astratto se certe proprietà sensibili
giustificheranno l’attribuzione di una specifica proprietà estetica. Se variano le caratteristiche
strutturali variano anche quelle estetiche Relazione di dipendenza e covarianza che però non può
essere fissata in condizioni positive di applicazione, solo in condizioni negative. Ciò vale a dire che
se troviamo, ad esempio, grazioso un disegno è perché delle caratteristiche strutturali
delle linee che lo compongono giustificano questo giudizio; è impossibile che cambiandone i
caratteri lineari esso continui ad apparirci tale, almeno non in egual misura. Non è possibile inoltre
che qualcuno giudichi grazioso un disegno solo ascoltandone la descrizione, può al massimo
affermare che un disegno con linee spigolose e frastagliate, ad angoli acuti, non sarà mai grazioso,
non che uno con linee dolci sarà obbligatoriamente tale da essere reputato grazioso. Dunque il
giudizio su proprietà estetiche concerne sempre casi singoli, non è mai elevabile ad un giudizio su
una classe di oggetti = il mio giudizio viene portato sempre e solo su un caso concreto, direttamente
ispezionato e riguarda sempre e solo l’oggetto che ho visto e valutato effettivamente.
D’altronde se fosse possibile indicare a priori quali aspetti sensibili produrranno l’attribuzione di un
determinato predicato estetico, dovrebbe essere plausibile insegnare a qualcuno come rendere
grazioso un disegno o un gruppo scultoreo, mentre spesso neanche chi produce un’opera riuscita è
in grado di spiegare come l’ha prodotta. I filosofi distinguono tra: proprietà primarie, che
sono indipendenti dalla percezione e riformulabili in maniera oggettiva, proprietà secondarie, che
sono relative alla mente che le percepisce e possiedono per questo un grado di oggettività minore.
Le proprietà estetiche in questo contesto sono da definire come proprietà terziarie, in quanto non
sono mente-dipendenti e richiedono una capacità ulteriore per essere scorte rispetto alle
secondarie. Il rapporto tra secondarie e terziarie, riassumibile nei termini di non-riducibilità = non si
possono ridurre ai dati sensibili, di dipendenza e covarianza = le terze dipendono e variano a
seconda delle seconde, è riassumibile dicendo che le proprietà estetiche sopravvengono sulle qualità
sensibili, emergono da esse.
3. Che cosa rende estetici i predicati estetici? Vi sono diversi problemi che derivano da questa
classificazione delle proprietà, poiché non ci dice molto sulle modalità che legano le une alle altre e
non chiarisce la situazione delle proprietà che non si legano immediatamente alla base sensibile. La
prima domanda è: come facciamo a sapere quali attributi, proprietà o categorie sono
estetici e quali no? All’interno di quelli che possono essere termini estetici (vedi pag. 36) possono
comparire determinazioni stilistiche connesse a periodi storici, proprietà relative alla forma, attributi
psicologici, elogiativi o reprobativi, categorie affettive, aggettivi derivati da un unico artista o da un
movimento estetico. Ma allora in che senso sono termini estetici? Per prima cosa è
da notare che essi ricorrono effettivamente nelle nostre descrizioni e valutazioni estetiche, ma
questo non è sufficiente, perché è vero anche che questi termini non li usiamo solo nel contesto
estetico, ma anche quando parliamo di altre cose, quali la natura, un quadro, un abito, un
arredamento, una situazione di vita quotidiana. Questo porta a constatare l’ubiquità dei termini
estetici, avvalorata dal fatto che essi esistono da ben prima che esistesse l’estetica e hanno dunque
un campo di applicazione ben più ampio di quello delle attività artistiche odierne. Dunque chi
identifica l’estetica come una filosofia dell’arte non considera che vi è un’esperienza estetica ben
più ampia di quella artistica, la quale non può fare affidamento ad un’intuizione pre-teoretica
comunemente condivisa. Bisogna anche rovesciare lo scetticismo diffuso nei confronti della
nozione di esteticità – che considera il riferimento ad esperienze estetiche come una pura
superfetazione ideologica, frutto della particolare situazione culturale di certe
epoche e paesi – a partire dal fatto che è chiaro che possiamo impiegare termini estetici in
riferimento a manufatti non artistici, paesaggi ed enti naturali, oltre che a poesie, pitture, film e
lavori teatrali, e parlare comunque di esperienza estetica, perché essa
non è un puro costrutto artificiale, imputabile soltanto ad una teoria che ritrovi un principio unitario
dietro queste valutazioni, riguardo i termini che non si possono ridurre a meri giudizi percettivi.
Una proposta è stata quella di Sibley, di considerare estetici quei termini che richiedono per essere
utilizzati una facoltà speciale, quale il gusto, che va oltre la semplice capacità di registrare
i dati dei sensi e manifesta una capacità di discernimento superiore all’ordinario. Questa teoria si
avvale delle considerazioni che dal ‘400 si erano fatte strada riguardo la distinzione di giudizio,
basato su regole intellettuali, e gusto, che sembra unire la dimensione sensibile ad una ulteriore. Ma
questa tesi per cui i predicati estetico sono quelli che richiedono gusto per essere
applicati cade nella circolarità, poiché implica che i predicati estetici per essere impiegati
richiedono il gusto e il gusto è la capacità di impiegare i termini estetici. Inoltre il fatto di
considerare il gusto come una facoltà eccezionale è in contrasto con la frequenza evidente dei
predicati estetici nei discorsi comuni. Altrettanto inconcludente è la proposta che vuole considerare
una semplice sottoclasse delle qualità estetiche proprietà di gusto, mettendole sullo stesso piano
delle proprietà relative alla forma, quelle emotive, affettive e comportamentali. Il rapporto delle
qualità estetiche con il gusto (= capacità di discernimento) è sostanziale. L’impiego dei predicati
estetici trova un comun denominatore nel fatto che esso ha sempre una curvatura valutativa.
Rispetto ai termini di pura approvazione o disapprovazione, però i termini estetici presentano la
congiunzione di determinazioni valutative e descrittive = descrivono valutando e valutano
descrivendo, per questo non sono mai riferibili a qualsiasi evento o oggetto La capacità di conferire
un aspetto valutativo ad una gamma di termini molto ampia sembra essere allora una delle
caratteristiche del lessico estetico. Le proprietà emotive però non sono termini estetici quado
vengono impiegate in riferimento alla mera descrizione di tali stati; sono qualificazioni estetiche
quando vengono riferite per esempio a paesaggi o romanzi. Dunque l’aspetto valutativo è una
condizione necessaria ma non sufficiente perché un termine sia riconosciuto come estetico. Un
altro carattere fondamentale del lessico estetico è la sua incontrollabilità = impossibilità di stabilire
per lui netti confini, visto che non ci sono termini per cui si possa escludere a priori l’impiego
qualificativo in senso estetico.
Capitolo Terzo – 1. Valutazione e scelta: </b>i predicati estetici hanno evidentemente un qualche
rapporto con le opere d’arte. Infatti quando si discute riguardo questo argomento, il disaccordo non
sorge mai riguardo il valore di qualificazione ad opera d’arte ma sulla fondatezza del predicato ad
essa attribuito, e allora sono le proprietà non-estetiche di base ad intervenire come fondamenti
del giudizio. Questo fondare ha un senso diverso rispetto a quando viene impiegato nella
conoscenza scientifica o anche nell’esperienza quotidiana; più che di ragioni in senso forte, infatti,
si parla di motivi e occasioni che indirizzano il nostro giudizio
poiché non abbiamo la pretesa di giustificare la nostra scelta ma di argomentarla per renderla
plausibile. Non ci saranno mai ragioni ultime, solo nuovi riferimenti, anch’essi suscettibili di essere
discussi e di produrre nuove divergenze o convergenze. Questo perché i termini estetici non
dipendono in senso logico dalla loro base fisica, non possiamo prescrivere le loro condizioni
di impiego, poiché gli oggetti a cui riferiamo i predicati non costituiscono una classe. Le proprietà
estetiche allora spiegano, non fondando o motivando in modo cogente, le scelte. In estetica infatti
non si discute di questo o quello ma su questo piuttosto che quello, questo in misura maggiore di
quello, poiché il giudizio estetico è implicitamente comparativo, in quanto viene proferito
sulla base di un confronto con altre opere Scelta estetica = giudizio preferenziale dove i criteri
entrano in base ai principi che andranno definiti e indicati dai predicati estetici, tra cui non rientra la
definizione dell’arte. La definizione tradizionale dell’arte come mimesis = imitazione della natura
non era pensata per questo scopo e i prodotti artistici portavano impressi su di se delle
chiare “marche di artisticità”, quali potevano essere la forma letteraria o il materiale scultoreo
adoperati. Questa situazione è diversa da quello che accade nell’arte di oggi e ciò è testimoniato dal
fatto che, mentre in passato era facile anche ad uno sguardo superficiale stabilire se qualcosa fosse
arte o no, adesso le opere d’arte richiedono un giro molto più lungo e un impiego concettuale
maggiore per definirne il carattere artistico. A questa situazione si cerca di trovare una via d’uscita
nel criterio di identificazione dell’opera d’arte mediante una sua definizione che fosse anche
operativa, ossia che permettesse di decidere se qualcosa è arte o no. Questo rispondeva allo scopo di
caratterizzare l’arte rispetto alle altre attività umane, esplicitandone la funzione e chiarendone i
motivi di importanza sulla base dei bisogni ai quali rispondeva. Da qui le teorie che identificano
l’arte come espressione o forma di conoscenza. Rispetto ad esse le nuove definizioni appaiono per
un lato più ambiziose per l’altro assai più sobrie e dimesse, poiché esse prescindono da qualsiasi
valutazione dell’arte, mirando ad appurare semplicemente se qualcosa sia arte o no,
indipendentemente dal valore dell’opera.
2. Definire l’arte? </b>Dalla metà degli anni ‘50 fino ai primi del nuovo millennio, l’estetica di
tradizione analitica ha presentato la definizione dell’arte come uno dei suoi compiti fondamentali,
uno dei campi costruttivi di ciò che deve essere l’estetica. Molte opere così si sono di fatto tradotte
in una rassegna delle varie definizioni dell’arte, tanto che questo è sembrato essere il problema
centrale di ogni estetica. Alla base di questo lungo dibattito si trovava lo scetticismo filosofico,
influenzato dall’ultimo Wittgenstein, circa la possibilità di fornire una definizione dell’arte sulla
base di condizioni necessarie e sufficienti. L’arte possiede tra i sui caratteri più specifici quello di
essere un concetto aperto = continuamente incrementato dall’apparire di nuove opere, forme e
tendenze. Presumere di poterne afferrare l’essenza racchiudendola in un numero finito di proprietà
significa tradire quell’aspetto creativo e innovativo che costituisce il suo tratto più proprio. Allora il
compito di definire l’arte viene dichiarato, non solo arduo, ma concettualmente contraddittorio, in
quanto non è un concetto chiuso. Nel tentativo di aggirare l’ostacolo si è obbiettato che non
necessariamente l’aspetto comune delle opere d’arte deve essere una qualche caratteristica
manifesta, può trattarsi di una proprietà relazionale non visibile. Weitz ad esempio aveva
paragonato il concetto di arte alla nozione di gioco, sostenendo che come nei giochi, anche nelle
opere d’arte, sussistono delle somiglianze di famiglia, che non sono accidentali.
Questo ha significato che alla nozione funzionale – che definiscono l’arte sulla base dello scopo che
essa vuole raggiungere e si appoggiano sulla nozione di esperienza estetica, perché individuano
nell’opera d’arte un oggetto che ha per scopo quello di
rendere possibile una tale esperienza – si sono sostituite le definizioni procedurali, ossia basate sui
procedimenti messi in opera per riconoscere la qualità di artisticità ad un oggetto. In questo
processo andava perduto ogni legame con l’esperienza estetica, in quanto si muoveva dalla
convinzione che mentre nel primo tipo è implicito un presupposto valutativo, le seconde sarebbero
state libere da esso e ci permetterebbero di capire se qualcosa è arte indipendentemente dal suo
valore. Ma tali teorie riescono davvero nel loro intento?
• Teoria istituzionale dell’arte, proposta da George Dickie, in cui gioca un ruolo fondamentale la
nozione di “mondo dell’arte”. Il termine era stato introdotto da Danto che lo considerava come un
mondo di idee, di pensieri e di teorie sull’arte e per riconoscere se che qualcosa è un’opera d’arte è
sempre necessario un sapere, una riflessione filosofica sull’arte. Ciò che fa la differenza tra due cose
materialmente e aspettualmente identiche è sempre una certa teoria dell’arte, che eleva una di esse
al mondo dell’arte e le impedisce di collassare con l’oggetto reale che essa è. Dickie si
sforzava, a partire da questo presupposto, di definire l’arte come una pratica sociale, sulla base delle
condizioni sociali in cui le opere sono esperite. Ogni opera d’arte vive in un contesto fatto di
persone (critici, studiosi, giornalisti, amatori, acquirenti) ed istituzioni (musei, gallerie, sala
cinematografica, riviste), che non si limitano a fare da tramite tra opera e pubblico, ma sono loro
stesse a conferire alle opere lo status di opera d’arte. Formula la propria teoria nei termini in cui
un’opera d’arte in senso classificatorio è un artefatto e un insieme delle proprietà che ha fatto sì che
gli venisse conferito lo status di candidato all’apprezzamento da una o più persone che agiscono per
conto di una determinata istituzione sociale = il mondo dell’arte. Ma in questa procedimento
attraverso il quale si arriva a riconoscere qualcosa come opera d’arte Dickie esasperava un tratto
proprio di opere nate in una situazione del tutto particolare, quale il ready made dada.
In seguito proporrà una seconda versione più articolata della sua teoria, da cui sembra del tutto
assente ogni riferimento alla storicità dell’opera d’arte: il mondo dell’arte di Dickie è un mondo
senza storia e senza divenire, dove una volta raggiunto lo status di artisticità non si possa più tornare
indietro perché esso non è legato alle condizioni variabili del tempo. Questa situazione contrasta
con la realtà dei fatti in cui nelle epoche ciò che è riconosciuto come artistico varia
come varia la considerazione delle opere.
• Teoria storica o storico-intenzionale, proposta da Jerrold Levinson, che non si oppone a Dickie,
ma si propone piuttosto di integrare la sua teoria con una considerazione dinamica. Parte dall’idea
che ciò che consideriamo oggi come arte dipende da quello che abbiam considerato arte in
precedenza. L’artisticità dell’opera continua ad essere una qualifica che non dipende da proprietà
intrinseche, funzionali, ma dal fatto che si costituiscano legami proceduralmente corretti con
altri manufatti. Perché qualcosa sia arte deve essere stata concepita come tale da chi l’ha prodotta =
intenzione del produttore. Ciò implica che quanto viene prodotto con l’intenzione che venga fruito
come opera d’arte vede essere legato intenzionalmente all’arte precedente. Se il lavoro dell’artista
non comportasse un legame cosciente con almeno alcune
delle opere d’arte precedenti, non potremmo dire che quel che sta attualmente producendo sia arte.
3. Definizione e valutazione: </b>questi tentativi di definizione dell’arte sembrano escamotage
teorici. La teoria di Dickie ha carattere circolare, dato che so che cos’è un mondo d’arte se so già
che cos’è arte. Inoltre rimane vago sulla questione del conferimento di status artistico e si dimostra
incapace di saper dire qualcosa sui prodotti che nascono al di fuori dei luoghi deputati. Ma il limite
più significativo è la definizione di artistico in base a ciò che viene reputato come “candidato
all’apprezzamento”: all’opera basta il fatto di essere offerta all’apprezzamento, non è neanche
necessario che lo abbia effettivamente conseguito, per essere “d’arte”. Ma possiamo chiederci che
tipo di apprezzamento esso sia, visto che non è qualsiasi tipo di apprezzamento a far sì che noi
consideriamo qualcosa un’opera d’arte, ma piuttosto un apprezzamento estetico –
aspetto che Dickie con questa teoria sperava di mettere da parte. Inoltre l’aspetto decisivo e critico
di questa teoria è rappresentato dal fatto che essa occulta e disloca, ma non cancella, il criterio
valutativo attribuendolo ad altri, quali i membri del mondo dell’arte. Ma sulla base di quali
convinzioni fa questa scelta e perché noi tutti dovremmo accettarla come valida? La pretesa di
raggiungere in questo modo una definizione dell’arte classificatoria è del tutto illusoria, poiché in
senso classificatorio tutto ciò che viene prodotto dall’uomo sarebbe un’opera d’arte e ogni ulteriore
differenziazione, al fine di afferrare quel che veramente consideriamo arte, reintrodurrebbe un
presupposto valutativo. Anche la teoria di Levinson risulta circolare poiché per sapere che
cosa è arte in un determinato tempo storico devo sapere che cosa veniva considerato arte nel
momento precedente. Inoltre qui si riserva un ruolo centrale alle intenzioni con le quali un
determinato oggetto è stato prodotto. Ma questo fa sorgere ulteriori dubbi, in quanto potremmo
chiederci: quale intenzione conta, solo quella dell’artista o anche quelle dei critici e del pubblico?
Devono essere intenzioni implicite o esplicite? Si ritiene inoltre necessario che, perché un
manufatto venga considerato opera d’arte, deve essere considerato o guardato nel modo in cui lo
sono state quelle a lui precedenti, ma questo complica le cose visto che spesso le
opere d’arte sono state considerate in modi molto diversi che spesso hanno poco o nulla a che
vedere con la loro artisticità (es. sfumatura religiosa o sapienziale), e allora da dove far cominciare
storicamente la produzione artistica? Levinson allora aggiunge che ciò che conta è il modo di
guardare “correttamente” un’opera d’arte, espressione che non fa che incrementare la vaghezza
dell’affermazione. Egli sposta il peso della decisione su cosa è arte o non su qualcun altro di
un’epoca precedente, ma ciò implica che comunque questo qualcuno ha preso una decisione, ha
valutato cos’è e cosa no è arte, in base a criteri di cui restiamo ancora una volta del tutto all’oscuro.
Allora questo grande lavoro fatto in ambito analitico rischia di restare vuoto, vin quanto la pretesa
di chiudere nel circolo di una definizione l’enorme variabilità storica dei fatti artistici sembra poco
motivata. Questo fornisce però un insegnamento in negativo: pensare di poter fare a meno della
valutazione, puntando solo ad una definizione classificatoria, è un’illusione. Il riconoscimento di
artisticità implica sempre e inevitabilmente il riconoscimento di un valore estetico.
Capitolo Quarto – 1. Fare esperienza dell’arte: </b>quando ci chiediamo davvero se ciò che
abbiamo davanti sia o meno un’opera d’arte, per prendere una decisione abbiamo bisogno di
immergerci nella cosa che ci sta davanti, di lasciarci invadere da essa, di soggiornare a lungo in sua
presenza e di tornare a considerarla dopo essercene allontanati un po’. Il nostro coinvolgimento, che
ci riporta più volte ad osservare l’opera da cui non riusciamo a staccarci, è sufficiente a formulare
un giudizio artistico su tale oggetto Per sapere se qualcosa è arte o no, bisogna fare esperienza
dell’arte, e un giudizio di artisticità pronunciato senza fare esperienza dell’arte non è nulla di serio.
Quando gettiamo su una serie di opere uno sguardo rapido, distratto e latente, non stiamo
incontrando nessuna opera d’arte, ci stiamo piuttosto accontentando di quello che sappiamo già e ne
approfittiamo per menzionare qualche informazione (stilistica o storica). Diventa un qualcosa di
produttivo, che mi mette in contatto con l’opera, solo se smetto di dedicare un’attenzione imparziale
a tutto ciò che vedo e concentro la mia attenzione su una o poche opere. Inoltre non
necessariamente l’opera deve essere un capolavoro affinché l’incontro con essa mi trasformi;
certamente se giungo in contatto con un capolavoro, mi immergo in esso e vivo un tratto di vita,
ricavandone qualcosa di fondamentale per il mio modo di intendere l’esistenza e di comprendere il
mondo. Ma quando si parla di esperienza estetica i caratteri di questo incontro possono anche
manifestarsi in opere minori, che richiedono un coinvolgimento minore e con le quali possiamo fare
un tratto di strada più breve.
2. Conoscenza ed emozioni: gli aspetti del nostro comportamento che vengono coinvolti
nell’esperienza estetica sono attitudini conoscitive ed emotive. Questi due aspetti sono stati
largamente discussi nella storia dell’estetica, tanto da essere arrivati a dividersi in due campi
diversi:
• Orientamento Cognitivista (l’arte produce conoscenza) Prima tra tutte la teoria dell’imitazione
lega l’attività imitativa alla conoscenza e alla soddisfazione che proviamo nel conoscere e nel
riconoscere. Con Baumgarten l’estetica diventa scienza della conoscenza sensibile, fino ad arrivare
ai Romantici, i quali considerano l’arte come conoscenza superiore e
intuizione intellettuale, organo attraverso cui la filosofia produce il suo sapere, perché capace di
arrivare a territori inattingibili per la conoscenza comune.
• L’arte suscita sentimenti ed emozioni Con il Romanticismo questa idea dell’arte prende il posto
della teoria cognitivista + paradigma espressivo dell’arte, che è uno “spontaneo traboccare di
sentimenti” (Wordsworth), ma già l’Anonimo del Sublime vedeva nello stile elevato “l’eco di una
grande anima”, fonte di pathos trascinante ed ispirato. Tolstoj sosteneva che “l’arte è una attività
umana per cui ogni persona, servendosi di determinati segni esteriori, trasfonde
consapevolmente i sentimenti da lei provati in altre persone, che a loro volta ne restano contagiati e
li provano”. Negli ultimi anni si è assistito ad un ritorno dell’estetica dell’empatia – teoria elaborata
nell’800 che tendeva a vedere nell’attività estetica un lavoro di proiezione degli stati d’animo
interni nelle forme esterne a noi – grazie alla scoperta dei neuroni specchio, cellule celebrali che si
attivano quando compiamo movimenti ma anche quando vediamo qualcun altro
compierne. Qui si è pensato di trovare la radice della nostra comprensione degli stati interiori degli
altri individui e la spiegazione dell’azione di forme e prodotti artistici sui nostri sentimenti.
Molte teorie nel corso della storia hanno, però, anche cercato di tenere assieme i due aspetti:
Aristotele riconduceva la tragedia all’istinto imitativo dell’uomo, e quest’ultimo al suo desiderio di
conoscere; Orazio assegnava alla poesia un compito didattico, ma al contempo prescriveva che il
poeta dovesse anche commuovere per insegnare, mostrando di provare in prima persona le
passioni che voleva suscitare; Croce affianca alla sua posizione nettamente cognitivista un recupero
della dimensione emotiva, attraverso la teorizzazione del carattere lirico-espressivo di sentimenti
proprio dell’arte. Dunque bisogna chiedersi se abbia veramente senso una netta distinzione tra
conoscenza ed emozione, o se non sia più aderente alla realtà notare che le nostre conoscenze sono
sempre emotivamente connotate e che i nostri sentimenti hanno sempre alla base una conoscenza di
stati di fatto.
Dicendo che l’esperienza estetica è emotiva e cognitiva allo stesso tempo, non ne diamo una grande
definizione, poiché ad essa si può obbiettare che tutte le nostre esperienze lo sono, e niente in
questo senso distingue quella estetica dalle altre.
3. Si può fare a meno dell’esperienza estetica? Nei confronti dell’esperienza estetica sono state
mosse due obbiezioni:
- Viene negata, da alcuni teorici marxisti (Terry Eagleton, Pierre Bourdieu o nei Cultural Studies),
ogni specificità all’esperienza estetica, che quindi sarebbe soltanto una proiezione ideologica,
connessa con l’avvento della società borghese moderna. Questa obbiezione alla identificabilità di
un’esperienza estetica crea un sistema di astrazione, quale quello dell’Estetica, che non ha
consistenza autonoma, ma funge solo da strategia di allontanamento dalle basi economico-sociali,
un apparato di occultamento che deve essere smascherato e mostrato come una superfetazione
illusoria. Ad una negazione così radicale si può rispondere in vario modo: prima tra tutte
l’obbiezione più palese è che questa teoria di una costruzione egemonica dell’estetica risulta del
tutto incapace di spiegare l’uso diffuso di termini e proprietà estetiche nella lingua comune. Ma da
un punto di vista più specifico si può osservare come le varie teorizzazioni marxiste facciano fatica
ad affiancarsi alla realtà dei fatti: Eagleton non riesce bene a mettere in comunicazione l’ordine
storico degli avvenimenti e la costruzione ideologica dell’esperienza estetica che ne scaturirebbe e
rimane indeciso sull’attribuirle un aspetto repressivo o piuttosto emancipativo; Bourdieu è costretto
a far coincidere estetica con estetismo, Kant con Wilde; l’approccio alle opere nei saggi dei
Cultural Studies si risolvi in generalità ideologiche, a tal punto che ci si chiede se quello che
otteniamo da un’opera d’arte non potremmo ottenerlo in maniera più chiara e diretta da
un’indagine sociale e antropologica. Inoltre tutte queste teorie non riescono a dar conto di
atteggiamenti estetici apparsi chiaramente nelle culture in cui ancora non era presente alcuna teoria
estetica.
- Cosa ci autorizza a parlare di esperienza estetica in generale, cosa ci autorizza a pensare che essa
sia più ampia di quella che compiamo quando guardiamo o ascoltiamo un’opera d’arte? Spesso
questo passaggio viene compiuto, in una direzione o nell’altra, senza darne giustificazione, con il
rischio più grande che è quello di compiere un’identificazione tra esperienza estetica
ed artistica, che diventerebbero così insiemi coincidenti. Dunque si nega la necessità di postulare
un’esperienza estetica per spiegare l’opera d’arte, accettando che si parli solo di artisticità. Questo
tipo di obbiezioni vennero sviluppate in ambito analitico:
l’estetico viene qui ristretto alla sola sfera dell’arte, in modo da pensare che non ci sia più necessità
di postulare una più comprensiva esperienza estetica e neanche la necessità di quelle determinazioni
classiche elaborate nel corso di due secoli di riflessione filosofica L’esperienza estetica era stata
descritta in termini di “distanziamento psicologico dall’oggetto” = coinvolgimento meno diretto per
cui si sospendono i giudizi immediati di ciò che abbiamo dinnanzi a noi, Kant aveva descritto
l’atteggiamento di chi emette un giudizio estetico come “disinteresse”, poiché il piacere è
indifferente all’esistenza o meno dell’oggetto. Dickie attacca queste teorie per sbarazzarsi di quello
che ritiene un mito dell’esperienza estetica, la quale invece sarebbe semplicemente una forma di
attenzione nei confronti di un’opera d’arte, senza tratti caratteristici che la differenzino da
altre, e dunque essa può essere identificata soltanto se prima si è indipendentemente definito che
cos’è un oggetto estetico. La strada in questo senso conduce dall’opera d’arte all’esperienza estetica
e non viceversa. Danto, il quale rifiuta quelle stesse nozioni tradizionali, osserva che è possibile
assumere un atteggiamento distanziato o disinteressato nei confronti di qualsiasi oggetto o
avvenimento, non solo dell’opera d’arte, e questo lo testimonierebbe il fatto che intere epoche non
hanno affatto ascritto all’arte le caratteristiche che sembrano scaturire da tali nozioni, ma anzi ne
riconoscono scopi pratici che esse allontanano. Dunque basare una teoria estetica sul tipo
particolare di esperienza che compiamo di fronte alle opere d’arte significa chiudersi in
un circolo (arte è ciò che produce un’esp. estetica ed esp. estetica è quella prodotta dall’arte) ,
mentre per apprezzare un’opera d’arte noi dovremmo già sapere che quell’oggetto è tale, cosa che ci
è possibile, sempre secondo Danto, grazie alla teoria e alla storia dell’arte. Ma non è forse vero il
contrario, ossia che rinunciando alla nozione di esperienza estetica l’arte si impoverisce e
finisce per chiudersi sempre più in se stessa? L’art, recidendo i legami con quanto avviene nella
nostra vita, sembra diventare sterile, senza niente di splendido, e così l’unica via percorribile
sembra quella di darne conto in termini istituzionali, di farne un’attività sociale con i suoi luoghi e
attori deputati. L’importanza che riconosciamo all’arte, il ruolo che le assegniamo
nell’educazione, il modo in cui ci consente di entrare in rapporto con il passato, risultano difficili da
spiegare se non ammettiamo che esiste un’esperienza estetica che interagisce in modo essenziale
con il resto della nostra esperienza. Inoltre le stesse teorie che pensano di poter fare a meno
dell’esperienza estetica non vi riescono affatto (es. teoria istituzionale di Dickie).
Capitolo Quinto – 1. Emozione, attenzione e apprezzamento: </b>Il legame tra esperienza estetica e
conoscenza è necessario ma dubbio, in quanto le conoscenze che acquisiamo sembrano spesso del
tutto occasionali rispetto all’esperienza estetica che compiamo, e di certo non ascriviamo maggior
valore ad un’opera d’arte in base alle conoscenze più o meno accurate che essa ci fornisce. Dunque
la nostra valutazione delle opere sembra del tutto prescindere dal loro contenuto di conoscenza e
anche quando pensiamo di apprendere qualcosa da esse, abbiamo sempre bisogno che ci venga
confermato da qualche fonte esterna. Come credere allora che nelle opere d’arte compiamo
un’esperienza conoscitiva? Si è tentato di dire che in esse si conosce qualcosa di
relativo all’opera stessa, ma quel che si vuole sapere è se conosco qualcosa che vada al di là
dell’opera, qualcosa che riguardi il mondo e non l’arte. Anche il legame necessario tra esperienza
estetica ed emozioni può essere messo in dubbio, in quanto moltissime cose ci possono provocare
emozioni anche più forti di quelle che provoca l’opera d’arte. Inoltre il coinvolgimento
emotivo non sempre rende più efficace e profondo il mio coinvolgimento, anzi spesso mi impedisce
di provare attenzione per altri aspetti di essa. Molte polemiche hanno riguardato proprio un uso
“gastronomico”, puramente sentimentale, delle opere, poiché l’aspetto emotivo non la rende più
valida per i sentimenti che riesce a suscitare, anzi spesso il ricorso al commovente o allo
spaventoso sono proprio le risorse artistiche più banali e facili.
Forse allora bisogna staccarsi da una descrizione contenutistica dell’esperienza estetica per
orientarsi verso una sua caratterizzazione fenomenologica = non insistere su ciò che incontriamo in
essa ma soffermarsi piuttosto sul modo in cui essa si manifesta, anche per vitare il rischio di far
slittare immediatamente l’attenzione sui caratteri dell’oggetto estetico, quale l’opera
d’arte Nella relazione estetica il nostro atteggiamento è sempre caratterizzato da una forma di
attenzione verso l’oggetto (= nucleo minimo dell’esp. estetica): deve esserci un oggetto e dobbiamo
rivolgerci ad esso con attenzione. Questo primo passo è così evidente che ha fatto spesso
interpretare la relazione come puramente cognitiva – ci sono atteggiamenti estetici in cui la
prossimità con certi comportamenti cognitivi è massima, come ad esempio l’attenzione quasi
specialistica per gli aspetti di ciò che vediamo – ma l’attenzione si manifesta il più delle volte come
una risposta emotiva suscitata da un coinvolgimento emozionale, più che come distacco
osservativo. Ma l’attenzione è solo una condizione necessaria della condotta estetica, non
sufficiente, infatti ad essa si deve unire l’apprezzamento per l’oggetto, ossia il piacere che da esso è
prodotto. L’atteggiamento estetico dunque deve essere orientato, non verso un fine esterno come
avviene nelle esperienze quotidiane, ma su se stessi = l’esperienza che li prende ad oggetto si deve
curvare in se al solo fine di apprezzare l’esperienza compiuta, in una forma di soddisfacimento.
Dunque l’apprezzamento è la condizione necessaria perché vi sia condotta estetica e quando questo
è stato negato è accaduto perché è stato preso il termine in un accezione troppo ristretta. Se infatti si
considera l’apprezzamento come giudizio, è facile osservare come molte condotte estetiche non
arrivano affatto alla formulazione di un vero e proprio giudizio. La cosa va però
presa in senso esattamente inverso: il giudizio in cui si esplica la critica, ad esempio, è la
formulazione estesa, esplicita e argomentata, di quell’apprezzamento che può anche essere soltanto
oscuramente avvertito, senza consapevolezza. Dopotutto la decisione stessa se qualcosa sia arte o
meno, implica sempre una valutazione, una scelta, come pure i predicati estetici sono tali in
quanto implicano il riconoscimento di un valore, alla radice del quale c’è sempre un apprezzamento.
</p><p><b>2. L’esperienza estetica come raddoppiamento dell’esperienza: </b>Queste prime due
determinazioni dell’esperienza estetica sono suscettibili di entrare in conflitto tra loro: essa appare
vicina alle esperienze di tutti i giorni e a quelle conoscitive, ma al tempo stesso non sembra che in
essa si acquisisca vera conoscenza; appare fortemente connotata in senso emotivo, ma non sembra
che in essa si provino veri e autentici sentimenti, come quelli che proviamo quotidianamente. Ma
invece di andare a vedere a queste contraddizioni la via giusta da prendere è quella di tenere
assieme queste due determinazioni: Attenzione + apprezzamento L’esperienza estetica è una sorta di
raddoppiamento dell’esperienza che solitamente compiamo. In questa duplicazione i caratteri
dell’esperienza vengono allo stesso tempo attenuati, perché l’esperienza estetica si stacca dagli
scopi immediati e sembra darsi gratuitamente senza fini da perseguire, e intensificati, perché
l’orientamento su se stessa fa emergere la natura dell’esperienza che compiamo = <i>l’esteticità
non è fatta di una stoffa diversa dall’esperienza comune, ma è una diversa organizzazione e
finalizzazione di questa</i>. Questo bisogno di produrre un’organizzazione dell’esperienza anche là
dove non ce n’è alcun bisogno è una delle caratteristiche salienti dell’essere umano. Ad esempio la
decorazione, ossia la volontà di organizzare gli oggetti di uso comune o il proprio corpo e il propri
viso attraverso il trucco, è un impulso ordinato dalla possibilità, che in esso si intravede, di
trovare un’organizzazione là dove mi aspetterei di trovare una superficie nuda o la semplice
naturalità. Essa, una volta ornata, assume l’aspetto di qualcosa nella quale posso ritrovarmi, perché
è un’esperienza non lasciata a se stessa. La volontà dell’essere umano di ritrovare se stesso
nell’estraneità della natura è contenuta in questo gesto organizzativo, egli spera così di togliere al
dato naturale la propria organizzazione e imporvi la sua. Nell’attività estetica non si manifesta solo
la duplicazione di forme ma anche di contenuti e questo è evidente per la larga parte dell’esperienza
estetica che si manifesta come lavoro di finzione, del far </p></div></div><div><div><p>credere.
L’arte così è in grado di creare una seconda realtà che avrà le sue leggi, la sua logica, la sua
coerenza = trasporta in un altro mondo parallelo che esibisce una propria organizzazione
dell’esperienza diversa da quella quotidiana. Qui emerge quel carattere di raddoppiamento dell’esp.
che è l’essenza stessa dell’estetico Attività estetica è un supplemento di esperienza ed ecco
perché i caratteri di quella ordinaria sono e non sono quelli dell’esp. estetica, perché vi appaiono in
una forma diversa e modificata. L’arte elabora un’esperienza parallela raddoppiandola e così, per
l’aspetto cognitivo, l’arte non è conoscenza ma esercizio delle condizioni della conoscenza. Non
dobbiamo aspettarci da essa che ci dia nozioni o contenuti conoscitivi, perché il
suo contributo alla conoscenza non consiste nel far acquisire un sapere determinato, ma nel far
esercitare le capacità conoscitive, facendole lavorare anche in assenza di una conoscenza da
raggiungere, mantenendole aperte e disponibili per una conoscenza possibile. Per quanto riguarda
l’aspetto emotivo, i sentimenti che proviamo nell’arte ci sembrano simili a quelli che proviamo
nella vita reale, ma ci appaiono comunque molto lontani da essi. Questo perché si tratta di
sentimenti rappresentati e non provati = provati solo in quanto rappresentati, e attraverso di essi noi
apprendiamo a calarci in una situazione che non abbiamo sperimentato nella vita reale, o
confrontiamo il nostro comportamento in circostanze analoghe (arte = supplemento dell’anima).
L’unico caso in cui sembra difficile ammettere una diversità tra il piano dei sentimenti provati e
quello dei sentimenti rappresentati è quello del comico e del riso. Il fatto costatabile che si ride allo
stesso modo nel mondo della finzione e in quello della realtà non dimostra, però, che nel primo i
sentimenti siano veri, ma conferma piuttosto il fatto che l’esteticità sia un’organizzazione autonoma
dell’esperienza. Quando troviamo qualcosa comico è perché leggiamo la realtà strutturandola
secondo un ordine artificiale: le cose in sé non sono comiche, lo è il modo in cui le organizziamo. Il
comico dunque è un fenomeno intrinsecamente estetico. In ultima analisi si può dire dunque che
l’attività estetica = esercizio parallelo dell’esperienza, un suo funzionamento a vuoto, ma carico di
conseguenze. La duplicazione che in essa ha luogo permette di mantenere efficienti le
nostre capacità, di creare anticipazioni di esperienza poiché si impara a confrontarsi con varie
possibilità, di concentrare l’attenzione su determinati aspetti di quello che accade intensificandoli,
di entrare in contatto con tante situazioni che non si è potuto effettivamente esperire creando una
riserva di esperienza. Molta parte dell’estetica nella sua attività presenta un aspetto
ludico, ma no è assimilabile al gioco, poiché la componente suppletiva che le accomuna è presente
solo in una parte dell’attività ludica (non tutti i giochi sono arte, anche se sotto un certo aspetto tutta
l’arte è gioco).
3. Estetica come filosofia dell’esperienza: </b>molte volte nella storia dell’estetica questo tema del
raddoppiamento è stato trattato per vie traverse, prima tra tutte la dottrina della mimesis, che vedeva
nelle arti un’imitazione della realtà, non può essere interpretata come semplice riproduzione o
rispecchiamento delle cose che il mondo ci offre, come fossero mere copie del reale.
Ciò non renderebbe il senso profondo della teoria, la quale produce piuttosto dei simulacri, delle
rappresentazioni delle cose esistenti su un piano e con mezzi diversi = duplicazione della nostra
esperienza del mondo. Infatti Aristotele insiste proprio sul fatto la mimesis è imitazione di azioni,
non di oggetti, e che la poesia ha un carattere più filosofico della storia, perché rappresenta, non ciò
che è avvenuto in una determinata circostanza, ma ciò che potrebbe accadere, il verisimile. Il
carattere dell’estetica di libera organizzazione dell’esperienza si intravede nei collegamenti
frequenti tra arte e immaginazione/fantasia. Dell’immaginazione è stato spesso accentuato il
carattere libero, di trasposizione su di un piano ideale e di invenzione rispetto ai
puri dati del senso, e già dall’antichità si concepiva l’artista come colui che crea seguendo una
propria immagine mentale, assai più perfetta di quelle imperfette sensibili. In Vico si trova
addirittura l’idea di una sapienza poetica, ossia un’organizzazione fantastica e non intellettiva della
nostra intera esperienza, che abbraccia tutti i campi della conoscenza. È dunque un’organizzazione
esperienziale di tipo estetico, che Vico collega in antecedenza allo sviluppo di una organizzazione
intellettuale del sapere. Questo poi si può tradurre nell’idea che ci siano due tipi di sapienza
compresenti, come due modi diversi di organizzare l’esperienza Concetto di esperienza, che non
vede più la conoscenza come adeguazione ad un mondo di oggetti dati
rispetto al quale l’attività del soggetto conoscente si annulla, ma mette al centro il rapporto del
soggetto con il mondo = concezione moderna, che permette di far acquistare senso pieno all’idea
che l’esperienza estetica si spieghi in rapporto con essa, come una forma di duplicazione e
anticipazione dell’esperienza che, pur non fornendo conoscenze effettive, partecipa
integralmente al nostro modo di stare nel mondo e di organizzarlo. Kant nella Critica del Giudizio
spiega l’attività estetica come un “libero gioco di facoltà” proprie della nostra conoscenza, ossia
intelletto ed immaginazione. Esse in questo tipo di esperienza non si legano in vista di una
conoscenza determinata ma agiscono liberamente, fornendo una specie di esercizio dell’esperienza
svincolato da scopi determinati e indispensabile affinché il conoscere effettivo possa svilupparsi.
Capitolo Sesto – 1. Arte ed evoluzione della specie: </b>ci si potrebbe domandare a questo punto
perché abbiamo bisogno del supplemento di esperienza rappresentato dall’arte e dall’attività
estetica? Si può guardare a come i comportamenti estetici si sono presentati durante l’evoluzione
della nostra specie, chiedendoci se qualcosa unisca i fenomeni estetici che appaiono così diversi
nella manifestazione di superficie e se sia quindi possibile isolare degli universali estetici. Molti
ritengono che questo tipo di indagine può essere sconfessata sul nascere dalla costatazione che l’arte
è un fenomeno presente soltanto in alcune società e in alcune epoche storiche. L’arte con i suoi
caratteri odierni di fruizione disinteressata, di distacco dagli scopi pratici, di separazione
delle attività umane e di pratica specializzata è un prodotto di epoche di alta civilizzazione. Prima
del Rinascimento non esisteva quel concetto unitario delle arti e molte attività che consideriamo
artistiche venivano prima comprese sotto categorie diverse. In realtà però molti dei caratteri
presentati dall’arte in senso estetico moderno sono presenti in attività, che possono anche non essere
state riconosciute esplicitamente come artistiche dalle culture che le hanno prodotte, a cui può
mancare la critica come pratica stabilita, ma non per questo deve mancare anche un lessico
dell’apprezzamento estetico. Dunque è pericoloso confondere il riconoscimento teorico della
funzione estetica con la sua effettiva presenza, tanto che quando guardiamo al nostro modo di
pensare l’esperienza estetica e quello di altre culture dobbiamo ammettere che ci sono termini di
comparazione sostanziali. Inoltre il fatto che non si possano trovare esempi del moderno
atteggiamento estetico prima della così detta “età dell’arte” è smentito dal fatto che, ad esempio,
Aristotele nella poetica considera già la poesia su una base valutativa estetica, in relazione alla
ricchezza del linguaggio, alle strutture narrative, alla costituzione dei caratteri, oppure l’Anonimo
del Sublime che già guarda ad essa come </p></div></div><div><div><p>espressione di forti
passioni e dell’alto sentire di una grande anima. Se si escludono tutti questi aspetti si finisce di fare
dell’arte un fenomeno inspiegabile o spiegabile solo come un costrutto artificioso, un passatempo
inutile o addirittura insensato. Se l’arte non affondasse le proprie radici in comportamenti i pratiche
le quali, pur non essendo vissute consapevolmente come estetiche, presentano già i caratteri tipici
dell’esteticità, ossia un’attenzione e un coinvolgimento emotivo finalizzati ad un apprezzamento,
con tutto ciò che ne consegue. Sembra allora molto più produttivo rovesciare il punto di vista e
notare come comportamenti che noi qualifichiamo come estetici siano presenti in tutte le culture.
Non esiste popolazione conosciuta che non produca qualche forma di espressione estetica, visto che
reazioni estetiche si manifestano di fronte a fenomeni naturali, sul corpo e sul viso dell’essere
umano come trucco ornamentale. Lo scopo di queste pratiche non sono artistiche, nel senso del
termine comunemente inteso, ma bisogna capire perché queste funzioni si esprimano attraverso le
stesse pratiche che poi si automatizzeranno in pratiche artistiche. Evidentemente la funzione estetica
è già in esse presente e ne costituisce un potente strumento di efficacia. In questo senso diventa
allora possibile chiedersi se non si possa considerare l’esperienza estetica e le prassi in cui essa si
consolida come un vero e proprio universale biologico = comportamento riscontrabile ovunque e
del quale è ragionevole supporre un radicamento profondo della nostra storia evolutiva Se tutte le
culture esibiscono comportamenti spiegabili in termini estetici, i quali poi si sono moltiplicati nel
tempo, è perché allora hanno dimostrato di essere vantaggiosi dal punto di vista della
sopravvivenza.
2. Esiste un’estetica animale? </b>Molti comportamenti umani affondano le loro radici negli
animali che siamo stati, i primati. Si tratterebbe allora di vedere se vi sono comportamenti estetici
presso gli animali non umani e se è possibile istituire una linea di collegamento tra tali
comportamenti e quelli dell’uomo. Uno dei primi a cercare di trovare comportamenti estetici negli
animali nel loro ambiente (non sotto sperimentazione umana come lo scimpanzé Congo) è stato
Darwin. Egli nota come un potente fattore dell’evolutivo sia costituito dalla selezione sessuale: i
caratteri di una specie sono frutto delle scelte compiute da un sesso nei
confronti dell’altro nel corso di innumerevoli generazioni, che spesso hanno l’effetto di variazioni
superflue o addirittura controproducenti per la sopravvivenza della specie. Questo perché le scelte
sessuali sarebbero guidate in molti casi da criteri estetici. Ad esempio i piumaggi degli uccelli
servono per lo più solo come richiamo per la femmina, la quale deve aver sviluppato
una capacità di apprezzamento per i tratti ornamentali del maschio. Fenomeni simili a questo
avrebbero dunque un’origine estetica e Darwin li mette in parallelo con l’impulso dell’uomo ad
adornare il proprio corpo, come nella moda. Gli scienziati hanno una considerazione riduzionista di
questa tesi darwiniana, poiché non ritengono affatto necessario supporre un gusto che
induca ad una preferenza estetica come spiegazione delle scelte sessuali. Gli aspetti considerati
estetici sarebbero in realtà degli indicatori di fitness, ossia di buona forma fisica e di buone capacità
riproduttive, così che la bellezza sarebbe una promessa di buon funzionamento. I filosofi al
contrario hanno sostenuto Darwin nella considerazione per cui i comportamenti estetici animali
anticiperebbero quelli umani. Il fatto che la scelta della femmina non sia rivolta al fitness ma alla
bellezza estetica lo
dimostrerebbe il fatto che spesso per l’evoluzione della specie questa risulta una scelta più
svantaggiosa che non. Chi sostiene la continuità tra scelte estetiche degli animali e quelle dell’uomo
fa appello ai criteri di bellezza applicati al corpo umano e alla scelta sessuale che ne consegue: vi è
convergenza tra l’apprezzamento di alcune caratteristiche fisiche e la scelta del partner.
Questo sarebbe testimoniato anche dal fatto che in alcune lingue salute e bellezza convergono
nell’origine del termine che indica la bellezza, come in greco, dove per indicare una persona buona
dentro e di bell’aspetto si usano i due termini sempre correlati “kalos kai agathos”.
</p><p><b>3. L’origine dell’arte: </b>la possibilità di considerare questo tipo di preferenze
implicate nella scelta sessuale come preferenze estetiche e la continuità tra esse e i comportamenti
artistici dell’essere umano creano delle difficoltà: 1. I comportamenti presunti
estetici degli animali sono ristretti al solo momento del corteggiamento e dell’accoppiamento,
vengono meno negli altri periodi della loro vita: ciò pone il problema di distinguere un piacere
puramente estetico dal piacere sessuale. 2. Gli animali nei quali si
osservano i comportamenti estetici sono esseri molto lontani dall’uomo nella scala evolutiva.
Dunque l’estetico si sposa con limitate capacità logico-conoscitive ed p massimamente sviluppato
negli uccelli mentre lo stesso Darwin riconosce che nei mammiferi questo tipo di comportamenti
non si riscontrano mai e sono anzi sostituiti da una scelta in alla forza e al successo nella
lotta. I tentativi che si sono fatti per ovviare a questi problemi non hanno portato ad argomenti
convincenti Allora è probabile che per trovare il radicamento antropologico dell’attività estetica si
debba guardare in un’altra direzione, non verso le funzioni inferiori biologiche ma verso quelle
superiori cognitive. Non basta che un’attività sia individuata come fonte di piacere per essere
estetica, è necessario mettere in relazione l’attività estetica con le capacità operative dell’Homo
sapiens sapiens e con le sue capacità linguistiche. Si nota allora che la fioritura di manufatti
“estetici” è proprio una delle caratteristiche che individuano la diversa abilità del Sapiens rispetto ai
gruppi umani precedenti. L’esplodere di attività figurativa, quale la pittura rupestre, nel 3 mila a.C.
cira fa pensare ad una volontà decorativa – che certamente si potrà individuare anche in reperti poco
più antichi – in cui è sorto effettivamente un interesse estetico che va al di là della semplice utilità.
La produzione di manufatti durevoli è il campo in cui più si dispiega l’attività estetica degli inizi,
poiché lo svilupparsi della capacità* di servirsi di strumenti per produrre altri strumenti portano
l’uomo degli inizi a sviluppare come fenomeni correlati e interrelati tra loro anche la capacità
linguistica e l’attività estetica. In questo quadro l’idea dell’attività estetica come supplemento di
esperienza acquista un senso più preciso:
capacità metaoperative* + possesso del linguaggio + attività estetiche attitudine di produrre
metarappreentazioni = rappresentazioni di oggetti e stati non attualmente presenti nella percezione.
In questa prospettiva il carattere dell’estetica di supplemento di esperienza significa qualcosa che
non appare legato agli scopi dell’agire, ma piuttosto gratuito e immotivato ma al contempo
assolutamente essenziale perché libera uno spazio di elaborazione che permette di prefigurare
scenari possibili – come quello di un’utilizzazione indiretta dello strumento. Il supplemento diventa
qualcosa di essenziale perché apre una serie di possibilità vantaggiose sul piano evoluivo. Dunque
è sbagliato legare l’attività estetica alla sola percezione sensibile perché ciò che ne costituisce il
tratto essenziale è la creazione di un raddoppiamento del dato sensoriale L’esperienza sensibile si
sdoppia, rinvia ad un altro piano, una specie di doppio fondo. Se l’esperienza nasce e finisce sul
piano percettivo, essa non è estetica, poiché questa si manifesta invece là dove è all’opera una
dimensione immaginativa. L’esercizio di tale attività diventa essenziale per lo sviluppo delle
capacità cognitive, permettendo la liberazione dall’assillo degli scopi immediati e il distanziamento
dalle reazioni puramente istintuali.
Capitolo Settimo – 1. Si può discutere dei gusti? </b>Uno dei dibattiti estetici più frequenti è quello
che riguarda il problema dell’universalità o soggettività dei nostri giudizi sulle opere dell’arte: sono
giudizi arbitrari, idiosincratici oppure esistono dei giudizi corretti o dei giudizi inaccettabili? Ci
sono delle regole per stabilirlo? Storicamente le variazioni intercorse nei secoli tra
gli stili artistici è palese (es. arte europea e arte orientale, arte nei paesi civilizzati e le culture
primitive) ma basta anche guardare alla medesima società in un medesimo periodo per rendersi
conto che vi sono preferenze differenziali irriducibili. Il continuo ritornare della riflessione estetica
sul problema della diversità dei gusti conferma che la valutazione e l’apprezzamento sono
fenomeni essenziali nella strutturazione di tale attività e che è del tutto impossibile dar conto dei
fenomeni artistici in una chiave asettica e avalutativa. È la natura stessa dell’esperienza estetica a
porre una soluzione a tale dibattito, quindi per prima cosa bisogna andare ad analizzarne le
caratteristiche, estrapolate dal suo discorso filosofico secolare, per cui essa è
• Compiuta/chiusa in se stessa, diretta a se medesima, autotelica: l’esperienza estetica non trova al
suo esterno il proprio premio o sanzione poiché essa, essendo una duplicazione dell’esperienza, non
è diretta ad un fine concreto e l’unica garanzia del suo buon funzionamento può essere fornita dal
fatto che ne siamo soddisfatti, che sentiamo che le cose hanno funzionato L’apprezzamento o la
delusione diventano l’unica unità di misura, in quanto essa costituisce un fine in
se stessa, è organica e orientata in modo autoriflessivo. Kant vedeva all’opera nel giudizio estetico
una finalità senza fine poiché è come se l’opera d’arte fosse costruita in vista di uno scopo ma lo
scopo non c’è.
• Disinteressata: il piacere che dà il bello, ossia il piacere che proviamo per l’esistenza di un
oggetto, è senza alcun interesse (Kant). In questo aspetto influisce sicuramente il carattere
immaginativo dell’esperienza estetica, nel senso che i sentimenti suscitati durante essa non vanno
davvero provati nel vero senso della parola, come fosse un’esperienza quotidiana, ma vanno
immaginati.
• Distanziamento psichico: nell’esperienza estetica la presenza dell’oggetto è come allontanata,
come se esso venisse osservato a distanza, attraverso uno schermo.
Questo tipo di disinteresse non implica che l’opera d’arte non possa avere anche dei fini pratici ben
precisi e non deve essere interpretato come indebolimento delle nostre reazioni, le quali anzi sono
spesso rafforzate, in quanto ci concentriamo esclusivamente su di esse e non sul loro valore
strumentale. Dire che il giudizio estetico è disinteressato, dunque, non vuol dire che nell’esperienza
estetica non conosciamo e non proviamo nulla, ma che l’apprezzamento si rivolge ed è fondato al
modo in cui le nostre esperienze sono state organizzate, decidendo se tale organizzazione è in sé
soddisfacente, non su quello che impariamo o proviamo. Prima di arrivare a tale presa di coscienza
si è svolto un lungo cammino nella storia della filosofia: dall’Antichità al Medioevo e poi al
Rinascimentoha dominato una teoria didattica e praticistica dell’arte, come se essa fosse un
semplice ausilio alla comunicazione di contenuti conoscitivi o di precetti morali, secondo la formula
oraziana“miscere utili dulci”, e parallelamente vi era la convinzione che esistessero criteri oggettivi
e incontrovertibili della bellezza, i quali la identificavano nella presenza di determinati rapporti
proporzionali di armonia. La bellezza consiste nella proporzione e nella giusta connessione
delle parti, secondo il canone di Policleto in riferimento alla figura umana. Questa teoria delle
proporzioni corporee venne trasferita poi anche all’architettura e trasmessa nel Medioevo.
Proporzione e misura vengono infatti evocate da Platone e Aristotele fino ai teorici del
Rinascimento e ancora oggi vi è chi tenta di ridurre l’apprezzamento estetico in termini di numero,
ordine e misura. Questo tipo di spiegazione presenta i caratteri di oggettività, in quanto faceva della
bellezza una qualità dell’oggetto indipendente dal soggetto che la contempla, e intellettualismo, in
quanto rende la bellezza una proprietà afferrabile con l’intelletto o la ragione. Ciò sottrae
all’esperienza estetica ogni tipo di specificità. Non mancano però nell’Antichità voci
discordanti che avvertono l’insufficienza di questo criterio proporzionale, come Plotino, il quale
appunto vi affiancò per porvi rimedio l’idea che la bellezza consistesse nello splendore e nella
luminosità dei colori. Questi due principi si trovano poi congiunti in Tommaso, ma è ancora
presente proprio quel principio oggettivistico deviante. Un vero distacco da esso si avrà con i teorici
rinascimentali della poesia che per primi cominciarono a porre l’accento sul piacere prodotto
dall’arte, di contro al fine morale e pedagogico tradizionale. Parallelamente sorge nel ‘400 una
nozione chiave dell’estetica, ossia quella del gusto, dapprima usata come sinonimo di piacere, ma
poi sempre più specificata nella sua capacità di scelta ed espressione di preferenza affiancata
al giudizio. È una scelta che non si basa su principi intellettuali, non segue regole prefissate, ma
decide di volta in volta e apparentemente senza ragioni dichiarabili, poiché è un giudizio che si situa
all’intersezione tra sensi ed intelletto = il giudizio estetico non è puro affare dei sensi ma al tempo
stesso non è una scelta basata su principi intellettuali; il gusto è senso, ma è
insieme più che senso. Un’altra nozione, attraverso cui si è venuto a creare il distacco dai principi
intellettualistici del giudizio estetico e ha reso possibile il riconoscimento dell’autonomia della sfera
estetica, è quella della grazia: questo termine non è sconosciuto all’antichità ma è soprattutto tra
‘500 e ‘600 che esso viene a porsi in rapporto dialettico con la bellezza, andando ad
indicare precisamente quegli aspetti della bellezza che non sono riducibili a proporzioni e numeri,
ossia che non possono essere tradotti in rapporti intellettuali, quali disinvoltura, scioltezza ed
eleganza. I teorici vedevano questa speciale attrattiva della bellezza come un qualcosa di
indefinibile, non precisabile, un “non so che”. Questa espressione è parsa una mera confessione di
ignoranza, ma in essa si veniva consolidando invece un’intuizione importante, ossia che
l’apprezzamento estetico è altra cosa dal giudizio intellettuale, poiché non sottoponibile a regole
esplicite. L’estetica è piuttosto quel campo di esperienza in cui andiamo alla ricerca di una garanzia
che le regole siano state ben applicate, garanzia che non si può dare sotto forma di una regola
ulteriore, ma finisce per coincidere con la soddisfazione provata di fronte a certe e non altre
organizzazioni dell’esperienza. È una soddisfazione sentita, non pensata, e così nasce anche il
termine fondamentale, il sentimento: l’Antichità conosceva solo passioni, ben diverso dal
sentimento in cui si esprime essenzialmente il rapporto che il soggetto instaura con la propria
situazione di vita, dunque non è il “sentire qualcosa” = passione, ma il “sentirsi in un determinato
modo”. La buona riuscita dell’organizzazione che ha luogo nell’esperienza estetica, non potendo
trovare legittimazioni intellettuali, ricorre a quelle del sentimento, ossia al sentire
che le cose vanno bene in questo modo. Per questo nel ‘700 si dice che l’Estetica è affare di
sentimento
>2. Soggettività, oggettività, intersoggettività del giudizio estetico</b>: Il sentimento è uno stato
del soggetto che accompagna tutte le sue attività. Nell’esperienza estetica, che non viene misurata
su un metro esterno, il rapporto con il soggetto che esperisce è determinante, visto che ciò che conta
è il soddisfacimento che essa produce o manca di produrre. Quel che conta è il modo in cui il
soggetto si trova nell’esperienza e allora l’attenzione è tutta da riferire al soggetto stesso Vi è un
completo ribaltamento delle teorie oggettivistiche: la chiave della bellezza non sta più nella cosa ma
nel rapporto che chi la esperisce ha con essa, o addirittura nel rapporto di tale soggetto con se
stesso, innescato dal rapporto con l’oggetto esterno. In questo modo si apre la strada per l’arbitrio
del gusto: se l’apprezzamento dipende dal soggetto e se non se ne possono fissare le regole, come
arginare l’anarchia dei gusti e dei giudizi, nella quale non esiste possibilità di distinguere tra
apprezzamento fondato e non dato che riposano solo sulla struttura del soggetto? Il ‘700 è il secolo
del dibattito sul gusto e sulla possibilità di fissarne uno perfetto; esso sembra culminare
nella Critica del Giudizio, in cui viene riconosciuta la soggettività del gusto estetico. Kant afferma
che per decidere se una cosa è bella o no noi non riferiamo la rappresentazione all’oggetto mediante
l’intelletto, in vista della conoscenza, ma mediante l’immaginazione, la riferiamo al soggetto e al
suo sentimento di piacere o dispiacere. Il bello piace senza concetto = senza che vi sia la possibilità
di fissarne intellettualmente le regole, e tuttavia il bello piace universalmente. Questo perché egli
differenzia tra piacevole dei sensi, per cui io devo dire che una cosa è piacevole per me in quanto
propria del mio gusto sensoriale, e il piacere del bello, il cui giudizio di gusto non è universale ma
universalizzabile idealmente, cioè porta con se un’aspirazione all’universalità = quando si
pronuncia un giudizio di gusto non ci si rassegna al fatto che esso sia valido solo per se stessi, si
gode nel vedere che è condiviso da altri, visto che il gusto è una sorta di senso comune fondato sulle
stesse facoltà conoscitive che tutti
condividono. Tra ‘800 e ‘900 il dibattito sul gusto sembra uscire di scena perché in questo periodo
si pensa all’estetica come
filosofia dell’arte, in riferimento alla grande produzione artistica del passato i cui valori sembrano
incontrovertibili, e allora si
smette di chiedersi se il giudizio estetico sia soggettivo o oggettivo, universale o singolare, le grandi
opere del passato stanno lì a dimostrarlo. La situazione cambia radicalmente nella seconda metà del
‘900 quando, con le avanguardie e la diffusione dell’arte di massa, si rimette in discussione
l’esistenza dei valori al di là di ogni dubbio, dei modelli indiscutibili. I Cultural Studies
influiscono in questo senso, in quanto mettono in discussione il primato della letteratura e della
tradizione artistica che costituisce il consueto oggetto di studi, e viene dichiarata altrettanto degna di
attenzione la produzione artistica di soggetti marginali rispetto
al sistema dominante del passato. Il concetto di “canone” – complesso delle opere letterarie o
artistiche in cui una tradizione riconosce un particolare valore –, attorno a cui si è svolto gran parte
del dibattito negli ultimi decenni, manifesta l’esigenza di punti di orientamento stabili, di giudizi
condivisi, ma esso affronta il problema del valore dell’oggettività del giudizio estensivamente e non
intensivamente: fa vedere e indica materialmente le opere di riferimento, ma non si interroga su che
cosa fondi l’eventuale oggettività del giudizio e in che cosa consista il valore stesso. Sul piano
teorico si è sviluppata una soluzione relativistica alla domanda sull’universalità del gusto, che
sostiene appunto il carattere del tutto soggettivo delle scelte estetiche e l’impossibilità di stabilire
dei criteri condivisi del gusto (de gustibus disputandum non est), oppure nella sua versione più
forte, fa del giudizio estetico una reazione solipsistica. Questa soluzione lascia insoluti alcuni
problemi: se veramente tutti i giudizi si equivalgono, come si spiega il formarsi di tradizioni
artistiche e il fatto che l’attenzione viene dedicata più ad alcune opere e non ad altre? È vero che
ogni epoca ha i suoi gusti e che le differenze possono essere enormi, ma al tempo stesso non c’è
nulla che sia così capace, come le opere d’arte, di durare e di suscitare interesse a distanza di secoli,
di costruire delle tradizioni. Quando ci concentriamo solo sulla diversità di gusti, finiamo per
oscurare una verità palese, ossia che il gusto non è solo il campo in cui le soggettività si scontrano
ma anche quello dove si incontrano Il gusto e l’esperienza estetica sono fatti eminentemente sociali
e dunque rivestono un ruolo significativo della costruzione dello spazio sociale, in quanto servono a
mettere in comunicazione e a confrontare le soggettività, a togliere le asperità del solipsismo, a far
scoprire inclinazioni e aspirazioni comuni. La riprova che la
condivisibilità è il carattere costitutivo del gusto è la presenza di componenti estetiche fortissime nei
comportamenti rituali o il ruolo giocato dalle opere letterarie ed artistiche, fin dalle culture più
antiche, nell’educazione delle nuove generazioni.
L’esperienza estetica si colloca dunque tra i due poli assoluti della sogg. e dell’ogg., come
intersoggettività, proprio perché in essa non ci sono regole intellettuali, è necessario un continuo
confronto fra i singoli individui che mette in gioco la loro costituzione
sensoriale e molti aspetti che vanno al di là di essa. Burke nota che alla base della comunicabilità
del gusto sta il fatto che i nostri sensi funzionano in tutti gli uomini tendenzialmente allo stesso
modo e nota anche che il gusto estetico mette in comunicazione
molto più che il funzionamento dei sensi, perché infatti l’esp. estetica diventa luogo di confronto
per l’attività immaginativa, conoscitiva ed emotiva. Riguardo al problema della validità dei gusti
bisogna ragionare in termini di crescente complessità culturale, e comprendere che la condivisibilità
dell’esp. estetica è più preziosa di una semplice esp. sensoriale condivisa, perché mette in gioco
qualcosa di più profondo e di più essenziale per la nostra personalità. È per questo che la
comunicabilità di essa si configura come un’aspirazione e un punto di orientamento: non è un
possesso garantito ma è molto più di una meta che va di volta in volta raggiunta, è un senso comune
che siamo chiamati a costruire in comune con gli altri, incontrandoci con loro, rinunciando agli
aspetti irriducibili del nostro modo di sentire e di pensare e aprendoci al modo di sentire e di
pensare degli altri. Niente meglio dell’opera d’arte sembra rendere possibile questo scambio.
3. Dall’apprezzamento al giudizio. La critica artistica</b>: l’apprezzamento estetico ricorda la
meraviglia proprio perché inizialmente sembra soltanto arrestare la nostra attenzione, catturarla di
colpo, richiede che ci si soffermi a guardare o ad ascoltare, senza essere in grado di spiegarne il
motivo. Ma nel caso del piacere estetico essa può non arrestarsi a questo primo
punto, prosegue nella stabilizzazione dell’atteggiamento meravigliato che è l’ammirazione,
avviando così un processo di riflessione sull’apprezzamento che si è provato, al fine di chiarirne la
natura e i motivi. Questo processo in moltissimi casi possiamo non sentire il bisogno di attivarlo e
di percorrerlo, tuttavia è di grande importanza, perché mette capo al vero e proprio giudizio estetico.
Esso ha la forma di un giudizio logico, ma in realtà esprime l’apprezzamento del soggetto per
l’oggetto, indicando che esso ha compiuto un’esp. estetica soddisfacente. Il giudizio non dà ragioni
di tale apprezzamento, si limita a registrarlo e a comunicarlo. Lo forzo per argomentarne i motivi
deve essere ancora maggiore ed è propriamente la critica. Se il giudizio è solo un passaggio cel
percorso che va dal provare un’esp. estetica alla critica vera e propria, ci si può chiedere come
mai abbia ricevuto tanta attenzione nella speculazione filosofica. A risposta si può osservare che
èstata proprio l’analogia di forma con il giudizio logico a far convergere – a torto – tanta attenzione
su quest’altro tipo di giudizio. Un altro motivo va ravvisato nella convinzione che il giudizio sia la
forma fondamentale in cui si esprime la critica letteraria ed artistica, poiché gran
parte dell’estetica si è pensata come una riflessione metodologica sulla critica. In realtà il giudizio è
una semplice formulazione dell’apprezzamento, per cui esso è:
• Fondamentale, in quanto senza l’apprezzamento l’esp. estetica propriamente non si costituisce e
quindi ogni discorso su di un’opera d’arte deve muovere dal riconoscimento del fatto che ha avuto
luogo un’esp. estetica, che per essere compiuta ha bisogno del giudizio. La critica infatti, anche
etimologicamente, è scelta, visto che si basa su una decisione
e su una serie di esclusioni. Non c’è propriamente comprensione di un’opera d’arte senza la sua
valutazione e tutti coloro che propongono di fare a meno del giudizio, puntando ai contenuti sociali
o morale o conoscitivi dell’opera, nascondono
a loro stessi il fatto che decidere di parlare di un’opera anziché un’altra è già una forma di
valutazione e che la loro stessa
comprensione di quei contenuti è da essa influenzata.
</p><p>• Accessorio, visto che la critica si differenzia dall’esp. estetica comune per il fatto che in
quest’ultima il giudizio è
implicito e non vi è bisogno del suo proferimento; la critica al contrario argomenta e motiva.
</p><p>L’esp. estetica si costituisce nella dimensione intersoggettiva e, in modo eminente, nel
momento in cui mi sforzo di produrre le
ragioni del mio apprezzamento, i motivi che mi hanno portato alla scelta. In questo modo stiamo già
esponendoci in una attitudine
critica, dunque la critica vera e propria altro non è che l’esercizio sistematico e controllato del
confronto e dell’argomentazione. Il controllo dell’apprezzamento estetico non è una dimostrazione
logica-fattuale, perché l’esp. estetica non si organizza in vista di un fine conoscitivo o pratico,
quindi non la si può valutare su questa stregua, non posso indicarne una o più regole
dell’applicazione Non si possono dare dimostrazioni in estetica, ma solo delle argomentazioni di
varia natura: quelle che indicano la correlazione tra la valutazione e gli aspetti non-estetici
dell’opera, quali le caratteristiche fisiche che supportino tale valutazione, sono quelle che il critico
“fa vedere”, facendo convergere l’attenzione su qualche particolare che un occhio distratto non
aveva notato, rafforzando e orientando la sua attenzione o portandolo a modificare l’opinione
iniziale; quelle che procedono attraverso confronti e analogie con altre opere. In nessuno di questi
casi la critica costringe ad allinearsi sulle sue posizioni, poiché essa non usa le armi della necessità
logica, ma quelle della persuasione. Il suo terreno non è quello della scienza ma quello della retorica
= teoria dell’argomentazione persuasiva probabile se non certa. Il critico non impone nulla, insegna
ad orientarsi, e non pretende il consenso, cerca di guadagnarselo. Discutere i diversi giudizi è
importante perché aiuta a confrontare le opinioni, a cercare dei punti di contatto, a rimuovere le
asperità delle idiosincrasie. Nel giudizio estetico non si può decidere nulla mediante dimostrazioni,
ma ciò non significa che del gusto non si possa contendere, poiché nella contesa può esservi la
speranza dell’accordo, e si può quindi contare su principi del giudizio che non abbiano una validità
puramente individuale e non siano solo soggettivi. La critica dunque non ha solo il compito di
esprimere un verdetto di artisticità su una probabile opera, questo può essere al massimo il suo
punto di partenza o di arrivo, poiché essa non è un tribunale, essa è soprattutto un aiuto alla
comprensione dell’opera, la creazione di uno spazio comune di scambio e confronto di esperienze.
La critica allora nasce nel 700, non solo perché in questo secolo hanno cominciato a prendere forma
le istituzioni che la rendono possibile, ma perché essa, nella sua accezione moderna, ha liberato il
giudizio sulle opere dal miraggio di una regola precostituita, lo ha affrancato da meriti
estranei, quali la funzione pedagogica o illustrativa, e ha aperto la strada per un libero confronto di
opinioni, esercitando una grandissima forza di liberazione anche per altri campi del sapere e
dell’agire. Il Romanticismo ha reso poi consapevole la critica
delle sue enormi responsabilità nei confronti dell’arte, insegnandole che il suo compito consiste in
un attraversamento dell’opera, che si trasforma in un suo accrescimento e in un certo senso
compimento.
Capitolo Ottavo – 1. L’equivoco della bellezza: </b>il concetto di bellezza è uno dei temi estetici
più trattati, anche se esso non è affatto centrale per l’estetica, anzi ha un valore extra-estetico. Di
solito si è pensato il contrario a causa di una confusione
concettuale. “Bello” è infatti una parola ambigua perché può essere usato in due modi:
• In senso valutativo: lo utilizzo per descrivere un oggetto che suscita la mia approvazione, in
quanto opera d’arte riuscita Dico essenzialmente che quell’oggetto è per me un’opera d’arte e non
un’altra cosa, perché per me questa è una nozione valutativa e onorifica – le opere d’arte brutte
infatti non sono arte. Quando diciamo che una cosa è bella in questo senso,
stiamo dunque dicendo che c’è qualcosa che produce un’esperienza estetica, ma questa accezione
utilizza l’epiteto “bello” non riconoscendogli alcun valore descrittivo: sto soltanto dicendo che
un’opera d’arte è riuscita e non affermo nulla sul suo aspetto, i suoi caratteri, il genere d’arte che è.
In questo senso è universalizzabile a tutte le opere d’arte, non
indica un termine esclusivo, che sia appropriato a certe ma non ad altre opere.
</p><p>• In senso descrittivo: lo utilizzo, non soltanto per lodare l’opera in questione, ma per
sottolineare che essa ha delle caratteristiche di piacevolezza, amabilità, gradevolezza che mancano a
quelle opere per cui mi rifiuto di usarlo La medesima situazione si riscontra per il termine “brutto”:
può trattarsi di una semplice espressione reprobativa, ad indicare il disvalore estetico e quindi
artistico, oppure può portare l’attenzione su alcuni caratteri intrinseci dell’opera, quali quelli
sgradevoli, urtanti, dissonati. Calogero, un filosofo italiano, per capire meglio la differenza tra i due
usi di bello e brutto ricorre alla “prova di Pigmalione”: prendendo il soggetto rappresentato in un
dipinto e immaginandolo realmente davanti ai propri occhi, si possono avere due reazioni, per cui o
si è contenti oppure no. Quando la prova ha successo, noi continuiamo ad apprezzare la
cosa divenuta reale, ciò significa che la nostra approvazione non aveva un’origine estetica ma si
fondava su qualcos’altro. Quando la prova fallisce perché proviamo orrore di fronte alla cosa reale,
mentre prima rappresentata ci procurava piacere, dimostra il fatto che l’organizzazione
dell’esperienza che ha luogo nell’estetico può prescindere totalmente dalla gradevolezza e
dall’amabilità, ossia dalla bellezza in senso descrittivo. Tutto ciò significa che la bellezza descrittiva
è un valore extra-estetico = ha soltanto un rapporto di tangenza con l’attività estetica vera e propria,
un valore che non può trapassare dalla realtà extra-estetica dove vive alla realtà estetica senza subire
una profondissima mutazione che lo trasforma in una cosa completamente
diversa, cioè la riuscita di un’organizzazione estetica dell’esperienza. L’equivoco sul concetto di
bellezza, dunque, sta tutto qui, ossia nel fatto che la sua ambiguità non viene percepita, e ciò si deve
anche alla predominanza che per lunghissimo tempo ha
avuto il paradigma classico nell’arte occidentale. La scultura greca infatti è divenuta il modello per
l’arte figurativa, consacrando
un trionfo dei corpi “belli” e rifiutando la rappresentazione della bruttezza. Ma fatto che la bellezza
descrittiva è una qualità extra-
estetica e che non si può dunque collegare direttamente al concetto di arte è provato dalla
costatazione per cui rappresentare corpi belli o situazioni graziose dovrebbe portare sempre al
successo artistico, se così fosse, mentre è storicamente palese che ciò non avviene, anzi spesso è la
rappresentazione della bruttezza che portare l’opera alla riuscita artistica. Inoltre se la bellezza nel
senso della riuscita estetica si basa sull’efficienza di una specifica organizzazione dell’esperienza,
che deve essere di volta in volta verificata e che può essere raggiunta nei modi più diversi, la
bellezza in senso extra-estetico dovrà fondarsi su quelle regole e
quei principi di legalità intellettuali, che troppe volte sono stati scambiati con i principi
dell’esteticità. Dunque la bellezza extra-estetica è definita da quei criteri di proporzione, ordine,
misura che traferiti all’arte si dimostrano insussistenti, ma che hanno il loro campo di azione
deputato, ad esempio, nella bellezza del corpo umano per la quale invece esistono regole da seguire.
2. L’estetica come teoria della bellezza e il suo superamento moderno: </b>l’arte ha sempre fatto
posto alla rappresentazione del brutto, del disarmonico e del deforme. Persino l’arte classica, con il
suo ideale del bello, in realtà ha al suo interno moltissimi motivi antitetici a quello della bellezza. Se
da una part, infatti, l’arte figurativi rispetta i canoni di armonia e bellezza, al contrario
le opere d’arte letterarie fanno spesso tutto il contrario: nei poemi omerici, nella tragedia e nella
commedia ciò è palese in quanto rispettivamente esse presentano personaggi goffi e deformi, dolore
violenza e sofferenza privi di senso, il deforme e lo stravolto.
Dunque la differenza nietzschiana tra apollineo e dionisiaco la si può fare all’interno dell’intera arte
greca come contrasto palese tra arte visiva da una parte e arte poetica e musicale dall’altra. La
raffigurazione del non-bello occupa nell’arte uno sterminato
campo di rappresentazione, ma per arrivare alla sua legittimazione teoretica l’estetica ha dovuto
compiere un lungo cammino. È un processo avviato solo con l’estetica moderna quando si è
compiuta la riflessione sull’esperienza estetica riconosciuta nella sua
autonomia e legittimità. Prima che ciò avvenisse una parte cospicua del campo di riflessione era
dedicato alla bellezza, anche se la teoria antica – nonostante la fissazione per lo stereotipo dell’arte
bella – non vedeva una relazione vincolante e neppure un rapporto privilegiato tra bellezza e arte,
perché il bello per la società greca è un valore che si associa molto di più al bene che
all’arte, riguarda i comportamenti e le azioni più che i prodotti artistici, ed inoltre è una idea che
vive al di là di ogni sua incarnazione terrena. Per questo la riflessione successiva sulle arti è
occupata in gran parte dal transito della teoria della bellezza in quella delle arti e alla loro saldatura.
Il processo si avvia con la teoria del bello ideale, che vede nelle arti uno sforzo di
rappresentare una realtà più bella e più perfetta di quella osservabile in natura, perché emendata e
resa essente da un modello contemplato con gli occhi della mente. Plotino in questo percorso
compie un passo essenziale, quando nelle Enneadi afferma che le arti non imitano le cose visibili,
ma si elevano alle forme ideali, dalle quali la stessa natura deriva. Il classicismo rinascimentale
opera in via definitiva su questa strada coniando il termine “Belle Arti”. Da qui deriva la definizione
tradizionale di estetica come teoria della bellezza, per cui dalla fine dell’800 le parole bello e
bellezza non compaiono neanche più, perché impliciti nel concetto stesso di riuscita estetica.
L’indebolimento della categoria del bello e il riconoscimento del carattere semplicemente
descrittivo che essa può avere avvengono quando si affermano diverse categorie estetiche, ossia
altri modi di caratterizzare la riuscita dell’esperienza estetica. Per questo la teoria ha impiegato così
tanto a legittimare la presenza del brutto, anche se esso si
impone già dall’antichità. Nella filosofia greca esso è avvertito come disvalore, negazione o
privazione della bellezza, in quanto assenza di forma, dunque assume un valore di giudizio
negativo. Sarà invece la riflessione sulla tragedia e sulla commedia a
preparare il riconoscimento, che avverrà nel ‘700, della funzione positiva del brutto in arte,
attraverso la comprensione del suo valore descrittivo (“quelle cose medesime le quali in natura non
possiamo guardare senza disgusto, se invece le contempliamo
nelle loro riproduzioni artistiche ci recano diletto” Aristotele). In questo senso Schlegel stabiliva che
il bello può al massimo essere il principio dell’arte classica, mentre le opere moderne traggono
grande parte della loro forza dalla rappresentazione del brutto – tanto che Karl Rosenkranz arriverà
a dedicare nel 1853 un intera opera alla fenomenologia del brutto, <i>Estetica del
Brutto</i>. Un altro concetto che nasce al fianco del bello è quello del sublime. La nozione era già
conosciuta in antichità dove viveva in ambito retorico, come indicazione di uno stile alto ed
espressivo di forti passioni, contrapposto all’umile. Dalla fine del ‘600 inizia ad essere riferito
all’esperienza estetica in generale, nella quale designa quel piacere apparentemente paradossale che
si origina dalla contemplazione della grandezza o dalla forza e dalla potenza della natura (Confronto
Kant e Burke pp. 135). Dunque persino nella nostra esp. della natura non si può restringere
l’apprezzamento alla sola categoria del bello. Da qui si nota che tutte
le teorie che considerano essenziale per il costruirsi di una esp. estetica una forma di
soddisfacimento e gradimento, si espongono ll’obbiezione che molte opere d’arte non sembrano
mirare affatto a compiacere il fruitore, ma piuttosto ad inquietarlo (sublime)
o a disturbarlo (brutto), provocandogli uno shock. Proprio per questo è meglio evitare di parlare di
piacere estetico, ma piuttosto di apprezzamento. L’arte si configura come un supplemento di
esperienza, un’organizzazione diversa delle nostre esperienze, in cui quel che conta è che
l’organizzazione abbia successo dimostrandosi efficace, e può farlo suscitando sentimenti gradevoli
ma anche provocando reazioni che, vissute realmente, procurerebbero fastidio o orrore. Ogni opera
d’arte consente un apprezzamento che ne indica la riuscita, e, fin dalla più antica teoria della
tragedia, si nota come lo spettatore attraverso essa può </p></div></div><div><div><p>compiere
una catarsi delle passioni negative, che così vengono rese più sopportabili, perché alla fine
l’equilibrio si ricompone e lo spettatore ha provato nel corso della sua esp. estetica delle reazioni
simili ma non appartenenti a quelle della vita reale, perché con un esito totalmente opposto. È stata
l’avanguardia novecentesca a togliere il terreno sotto i piedi ad ogni teoria della
bellezza, perché ha fatto del rifiuto del bello, dello schiaffo al gusto pubblico, dell’anti-grazioso i
suoi obbiettivi principali, finendo per ripiegare le forme belle a ripieghi buoni per l’arte
commerciale e la cattiva arte.
3. L’errore della neuroestetica: </b>negli ultimi decenni la trattazione della bellezza si è ripresentata
tra le teorie più svariate. Anche se essa è solo una delle possibili organizzazioni dell’esperienza
estetica è anche la più usata, in quanto può sfruttare elementi extra-estetici, e quindi garantire
apparentemente una maggiore possibilità di successo, ma ogni tentativo di restituirle un primato
è destinato al fallimento. Il gran parlare del bello può essere sintomo di un’involuzione moralistica
dell’estetica, oppure può nascondere l’avversione profonda all’arte contemporanea, che spesso si
traduce in un vagheggiamento passatistico delle epoche in
cui l’arte era bella e consolava, mentre oggi è brutta e irritante. Si esprime quindi, attraverso il
discorso sulla bellezza, la giusta esigenza che sia riconosciuto il carattere valutativo del
riconoscimento estetico e che il valore estetico recuperi la sua posizione
fondante all’interno dell’esperienza dell’arte; l’errore è però che si scambia un valore, come tale
contingente e variabile, con il valore in generale, il valore per antonomasia, ossia il bello, perché si
è incapaci di vedere la struttura del valore anziché il suo caso
eminente. In particolare negli ultimi anni un nuovo campi di studi sta rinforzando questo equivoco:
la neuroestetica = approccio ai problemi dell’estetica che comprende i tentativi di far luce sul
fenomeno estetico a partire dall’osservazione della nostra attività
celebrale. Gli studi a riguardo mostrano come nell’esp. estetica molte aree celebrali interagiscano
tra loro, non solo quelle puramente percettive, ma anche aree del sistema delle emozioni. Inoltre
sembra attivare meccanismi di ricompensa, legati al rilascio di sostanze neuromodulatici. Tutto ciò
sembra confermare che l’esp. estetica non è di natura diversa da quella comune, ma
ha piuttosto una diversa finalizzazione e organizzazione della stessa, al punto che in essa vengono
coinvolte le attività percettive ed emotive indirizzate all’ottenimento di una soddisfazione che
prescinde da un concreto risultato. Ma gli aspetti preoccupanti di
questi studi sono quelli che intendono come compito fondamentale della neuroestetica quello di
fondare al livello neurologico alcuni principi tradizionali della bellezza Un neuroscienziato indiano
ha fissato 10 universali estetici, che però non possono essere tali in quanto altri suoi colleghi ne
riconoscono di meno o di più e perché essi entrano anche in contrasto tra loro: alcuni ricordano i
tradizionali principi della bellezza in termini di proporzione, ordine e simmetria; altri vanno in una
direzione molto diversa, tanto che l’arte non mirerebbe ad una resa realistica, ma piuttosto a
sottolineare, accentuare, estremizzare ciò che è proprio del soggetto rappresentato (dottrina del
caratteristico nella tradizione); altri ancora invece vogliono l’abbassamento dei tratti caratteristici
attraverso il loro isolamento o attenuazione. In generale sembra che la neuroestetica consideri
proprio compito quello di fissare
delle norme circostanziate di bellezza e di riuscita artistica, ma così facendo per un verso incontra
principi tradizionalissimi, che già si sono dimostrati incapaci di fondare una normatività estetica
veramente universale, per l’altro non riesce a dar conto della propria variabilità storica delle norme
del gusto. Esistite certamente una normatività generale dell’estetica, ma da ciò non segue
che le norme concrete e continuamente variabili siano riconducibili o ricavabili dalla struttura
neurologica. Perché se così fosse, verrebbe naturale domandarsi come mai, se i procedimenti
artistici messi in atto dalla pittura del ‘900 si spiegano nel radicamento neurologico, perché si sono
prodotti così tardi nella storia dell’arte? Se i nostri antenati vedevano come noi, perché questi
sviluppi artistici avrebbero atteso così a lungo per manifestarsi? E se qualsiasi immagine in
movimento attiva le aree neuronali corrispondenti del cervello, perché mai le arti si
guadagnerebbero un merito particolare nel farlo?
Capitolo Nono – 1. Opere e cose: </b>alcuni teorizzano l’analogia tra opera e cosa, per cui le opere
d’arte sono delle cose in senso stretto, degli oggetti fisici, composti di un determinato materiale e
che occupano uno spazio = esiste come esistono tutte le altre cose (Hegel) perché esse si trovano di
fronte a noi nella loro semplice-presenza (Heidegger). Ma in questa definizione si avverte
qualcosa di stridente che porta a metterla in questione, in quanto il paradigma opere=cose sembra
funzionare per certi oggetti ma non per altri, e spesso neanche per le opere che sono veicolate da un
supporto materiale evidente, perché anche in questo caso esse hanno delle proprietà che non
possono dipendere dalla loro cosalità. Le proprietà rappresentative e quelle espressive non possono
dipendere dal fatto che l’opera sia una cosa, ma piuttosto dalle intenzioni dell’artista che l’ha
prodotta, il quale intendeva suscitare in noi quelle reazioni o comunicare determinati contenuti
rappresentativi. La presenza di opere che sembrano non avere nulla a
che fare con lo status della cosa, dato che non sembrano distribuibili attraverso la distruzione del
loro supporto materiali, ha portato alcuni ad abbracciare una veduta antitetica rispetto all’oggetto
fisico, ossia l’idea che l’opera consista nell’immagine interna, presente nella mente dell’artista e in
quella del fruitore dell’opera. L’opera sarebbe allora compiuta nella mente dell’artista, e la sua
traduzione in suoni, colori, forme, è solo un’estrinsecazione materiale che serve a scopi
comunicativi. L’opera d’arte è presente quando l’artista ha raggiunto l’espressione adeguata alla
propria intuizione e il oggetto materiale che ne deriva è
un mero fatto pratico, in tutti i suoi atti e processi attraverso cui l’artista lo produce, e che noi a torto
consideriamo essere l’opera vera e propria (Croce con la sua estetica idealista). La tesi del carattere
puramente immaginativo dell’opera si traduce anche nella
visione del pittore, che non realizza la sua immagine mentale, ma ne costituisce un analogo
materiale, per cui il dipinto è una cosa materiale visitata da un irreale che è precisamente l’oggetto
dipinto (Sartre con la sua estetica fenomenologica). Si tratta di un’idea antica, presente già in
Plotino, il quale ritiene che la materia rilutta ad essere investita dalla forma e l’oggetto può
acquistare la sua bellezza solo grazie alla forma che era nella mente dell’artista perché esso
partecipa dell’arte. Però neanche questa teoria dell’arte è persuasiva, visto che essa sembra più
plausibile per la musica e la letteratura, ma molto meno per la pittura e la scultura, in cui l’artista
deve spesso fare una lunga serie di schizzi, abbozzi e tentativi prima di sapere che l’immagine
che aveva in mente è esattamente identica a quella che ha prodotto. Dunque questa teoria sembra
fare dell’arte un’esperienza solipsistica, poiché non si capisce come il fruitore possa mai essere
certo di aver riprodotto l’immagine che era stata dell’artista. Un’altra obbiezione consiste nel fatto
che essa sembra trascurare totalmente la portata del mezzo attraverso cui l’arte si esprime,
allora che l’immagine sia formulata in pittura o scultura, suoni o parole sembra non avere più
nessuna rilevanza e l’opera d’arte non è più l’opera di un’arte. La maggior parte delle estetiche si
colloca nel mezzo tra i due estremi L’opera d’arte ha sì un sostrato >materiale, ma su di esso
impianta tutta una serie di aspetti che non possono ridursi al solo lato per cui l’opera è una cosa:
l’opera d’arte simboleggia, significa, esprime, non in quanto oggetto fisico ma in quanto in esso si
depositano le intenzioni dell’autore = l’opera e la cosa non coincidono perché l’opera è più della
cosa. La sottolineatura della cosalità dell’opera è solo un punto di avvio, che finisce per assegnarle
un compito molto più alto del semplice sussistere come cosa materiale. L’aspetto sensibile
dell’opera deve diventare il veicolo per un significato spirituale, e l’arte diventa l’esserci sensibile
dell’idea (Hegel); la distinzione tra modo di essere della cosa e il modo di essere dell’opera resta la
sua base strutturale, in quanto le opere d’arte sono entità
incorporate in qualcosa di fisico ma hanno una natura culturale, sociale, intenzionale che non può
essere esclusa. Al di là degli elementi sensibili c’è un mondo di intenzioni, pensieri, sentimenti.
</p><p><b>2. Ontologie dell’arte</b>: oggi con il termine ontologia si intende lo studio dei modi
di esistenza dei vari oggetti che incontriamo nel mondo, dunque ogg. materiali ma anche ideali e
sociali. In questa prospettiva fare ontologia dell’arte significa riflettere sui modi
di esistenza delle opere e chiedersi in quale di queste tre rubriche esse rientrino. Se guardiamo a
come le opere d’arte si presentano nella nostra esperienza, notiamo subito che accanto ad opere
d’arte singole, di cui si può avere una sola autentica riproduzione (pittura e scultura), ce ne sono
altre multiple, di cui si possono avere infinite riproduzioni perché l’autenticità risiede
nei contenuti (musica e letteratura). Nelson Goodman nel 1968 cerca di padroneggiare questa
differenza distinguendo arti:
• Autografiche = opere singole, nelle quali le falsificazioni attraverso copie sono possibili. L’aspetto
veramente decisivo è quello che assume la storia di produzione dell’opera per cui non può essere
sostituita da nessun’altra, perché per essere
definita autografica un’opera deve essere tale che le circostanze, i materiali, i metodi con cui è stata
composta siano rilevanti per la sua identità.
• Allografiche = opere multiple, nelle quali una copia non è un falso ma un nuovo esemplare, in cui
è sempre possibile separare gli aspetti essenziali da quelli irrilevanti, perché la sua identità non
dipende affatto dagli aspetti e dalla storia di produzione, ma solo dalle eguaglianze di compitazione
= tutte le lettere/note contenute nello stesso ordine dell’originale.
Su questa impronta essenziale si sono poi sviluppate tutta una serie di teorie differenziali tra arte e
opere, che distinguono ad esempio tra opere individui e opere tipi, traendone tutta una serie di
conseguenze ontologiche al riguardo e complicandone le
teorie, a cui si sono intrecciate posizioni moniste o pluraliste.
3. Estetica senza ontologia</b>: si nota come i tentativi di superare il dualismo ontologico, che
affligge irrimediabilmente il mondo dell’arte – da un lato le opere singole, gli originali irripetibili, e
il rispetto quasi feticistico per le più minute caratteristiche materiali, dall’altro l’infinita
moltiplicabilità, l’intercambiabilità di ogni esemplare, l’indifferenza sovrana per ogni aspetto di
realizzazione fisica dell’opera –, porti quasi sempre a soluzioni poco persuasive. Si può trattare
anche di analisi profonde e acute, ma comunque troppo remote dal nostro commercio effettivo con
le opere. Inoltre se si cerca di sottrarsi ai rischi dell’appiattimento di tutte le opere su di un unico
registro ontologico, sembra che l’unica alternativa possibile sia una sorta di
proliferazione incontrollata di ontologie e micro-ontologie, in forza delle quali si finisce per pensare
che ogni opera possieda il suo modo di esistenza irriducibile a qualsiasi altro; non solo l’ontologia
di un tipo d’opera è diversa da quella di un altro tipo, ma all’interno della stessa arte essa non è la
stessa. Ma la difficoltà radicale che accompagna il discorso ontologico dell’arte sin dal principio è
che per riconoscere qualcosa come opera d’arte è indispensabile un giudizio di valore, ossia una
semplice costatazione che l’ogg. che abbiamo davanti ha prodotto un’esp. estetica. Questa
esperienza, non avendogaranzia esterna di riuscita, ha bisogno che il proprio buon funzionamento
sia stato avvertito o sentito, così che il riconoscimento di valore = avvertimento da parte del
soggetto dell’avvenuta esperienza estetica. Ma l’intero edificio dell’ontologia dell’arte
contemporanea si regge sul presupposto dell’avalidità, prescinde totalmente dal riconoscimento del
valore dell’opera d’arte e dal porsi il problema se ciò di
cui si cerca lo statuto ontologico è o no un’opera d’arte In questo senso l’ontologia dell’arte e
lostudio dell’esp. estetica che compiamo dell’opera d’arte si presentano come due approcci
totalmente separati, indipendenti e incomunicanti, poiché l’ontologia dell’arte non ha nulla da dire
sulla natura dell’esp. estetica, ma non è vero che l’esp. estetica non ha nulla da dire sull’opera
d’arte. L’ontologia non mette in rilievo nessun aspetto specifico delle opere, le incontra all’interno
di categorie ontologiche che si
rivolgono ad ogg., i quali possono essere del tutto diversi dall’arte. Tutte le distinzioni, messe in
piedi in questo campo, si possono
riferire a cose che con l’arte non hanno nulla a che fare. La differenza tra mere cose e opere
l’ontologia non riesce mai a darcela,
in quanto le manca l’accesso al gradino che decreta il passaggio dall’iscrizione al documento o
all’opera. Le manca l’essenziale poiché ciò che rende “opera” un’espressione non è niente di
ontologico, ma piuttosto qualcosa di storico, di psicologico, di
sociale. Ogni definizione che presume di fare a meno della valutazione finisce al massimo per
definire gli artefatti in generale e non le opere. La riprova sul versante ontologico consiste nel fatto
che si configura come ontologia degli artefatti, le cui determinazioni si rivolgono a caratteri che
sono propri di tutti i prodotti dell’attività umana. Allora bisogna adottare una ontologia
che prenda come criterio di orientamento la vicinanza alle pratiche e ai trattamenti consolidate delle
opere d’arte, non andare alla ricerca di risultati intellettualmente stimolanti ma lontani dal senso
comune, ma cercare di andare d’accordo con la tradizione,
riconoscendo il primato dell’esperienza sull’opera. L’opera è tale perché rende possibile
un’esperienza, e se non c’è l’una non c’è neanche l’altra. Dal punto di vista operativo ciò significa
soprattutto che le indagini ontologiche sono utili quando ci aiutano a
comprendere cose che sono rilevanti per la nostra esperienza dell’arte, come ad esempio il restauro,
che mostra l’incontro inevitabile di ontologia ed esp. estetica: si assiste ad una dialettica, in forza
della quale, se è vero che si restaura sempre solo la
materia dell’opera d’arte, è vero anche che il banco di prova del restauro non è mai l’ogg. materiale
ma l’esperienza che per suo
tramite si costituisce. L’importante infatti è che l’ontologia resti legata ad esperienze vive del nostro
rapporto con l’arte, altrimenti rischia continuamente di trasformarsi in un trastullo teorico fine a se
stesso.
Capitolo Decimo – 1. Esperienze, non opere</b>: negli ultimi decenni si sono sviluppate forme
artistiche, le Environmental Art, che mirano ad entrare in contatto con la natura, vivendola nel modo
più diretto, senza schermi o intermediari. Le loro opere d’arte
sono costituite da materiali provenienti da essa stessa ma, più importante della forma che queste
opere assumono, è il tempo trascorso nella natura. Gli artisti di questo tipo rifiutano ogni
mediazioni tecniche, poiché essi vogliono comunicare la propria
esperienza e l’importanza degli spazi naturali, prima di creare l’opera Si viene a stabilire così il
primato dell’esperienza sull’opera: non si vuole dare una rappresentazione della natura ma si vuole
far pensare allo spettatore al rapporto in cui viviamo con essa. Nell’arte contemporanea si assiste
dunque ad un indebolimento del paradigma cosale dell’arte, a favore di un paradigma
esperienziale, che trasforma radicalmente: 1. Lo spazio della moderna galleria d’arte, asettico e
immacolato, avvertito come sacrale, e lo dissacra 2. Il ruolo dell’artista, mettendo in discussione
l’opposizione tradizionale radicata tra purezza del creare artistico e la materialità del lavoro
comune, egli si pone alla stregua di un manovale 3. L’oggetto artistico viene esibito in carne ed
ossa, come può essere un animale, oppure come reperto di una storia personale, traccia di un
periodo di vita, un evento. Nelle arti visive tradizionali, legate alla produzione di oggetti materiali,
si assiste ad un marcato spostamento verso l’azione = la performance dell’arte contemporanea.
Molti artisti sono dei performer che mettono in scena degli avvenimenti (body art). Alcune arti
hanno dato da sempre ai loro prodotti lo statuto dell’evento piuttosto che quello della cosa, come il
teatro, la letteratura, la musica, i cui contenuti vivono soltanto se eseguiti e attualizzati da un
soggetto che ne fa esperienza. Ciò a cui si assiste nella modernità quindi è un convergere di tutte le
arti verso un paradigma eventuale anziché oggettuale, tramite il coinvolgimento
dell’esperienza dello spettatore: non c’è arte se non c’è esperienza dell’arte. Questi sviluppi, che
sembrano appartenere alle arti più recenti, in realtà sono caratteri presenti sin dalle arti più antiche.
L’arte infatti non è solo forma, ma anche evento, e in questa
duplicità si può leggere l’arte greca nell’opposizione tra apollineo = forma/equilibrio/limite e
dionisiaco = forza/illimitato/
inquieto, il cui incontro tra le due polarità è vissuto nella tragedia degli inizi. La tensione tra l’opera
come forma e l’energia che la
crea ed è capace di metterla in movimento, consente di leggere dietro l’apparenza della staticità e
dell’oggettualità il ritmo
pulsante dell’esperienza. Ogni arte possiede una dimensione di processualità, nella quale si
evidenzia il suo carattere di esperienza viva. Allora il prodotto finito può essere considerato, non
solo come un risultato, ma anche come una ricerca, frutto di una serie di tentativi, di bozze, di
progetti che procedono dallo spunto all’opera, la quale dunque appare intrinsecamente mobile = un
divenire che non è mai interamente riassorbito nel punto di arrivo. Bisogna porre al centro
dell’estetica il carattere dinamico dell’esperienza artistica, sviluppando questo lato processuale
dell’opera e mettendo nuovamente al centro della considerazione,
non la cosa, ma la sua esperienza; si tratta allora, non dell’esp. del fruitore o del lettore, ma di quella
dell’artista stesso.
>2. La classificazione tradizionale delle arti: </b>si può mettere in discussione la tradizionale
suddivisione delle arti poiché gli sviluppi fatti a partire dal ‘900 sono sufficienti per renderla poco
affidabile. Si identificano le Arti maggiori: poesia, pittura,
scultura, musica, architettura, cinema. Ma questa suddivisione tradizionale è facilmente suscettibile
di critiche, in quanto la si può mettere in movimento in molteplici direzioni:
</p><p>Da un punto di vista storico Prima del ‘700 le arti si organizzavano secondo dinamiche
diverse. Nell’antichità manca la
percezione unitaria delle arti e manca anche un termine esclusivo per l’arte in senso estetico
moderno. Il termine techne = disposizione produttiva retta da regole, che accomuna la produzione
artigianale e quella da noi considerata artistica. Le arti che comportano il lavoro fisico sono
nettamente distinte da quelle che si esplicano su un piano puramente intellettuale. Il poeta è
diverso da un artista figurativo, che è un lavoratore manuale. L’artista resta dunque per l’antichità
un artigiano e la classificazione delle arti rimane orientata su tre nuclei principali, costituiti dalla
poesia (poetica e retorica), la musica (+danza), le arti figurative
(pittura, scultura e architettura). Ad ognuno di essi è affidata una Musa che ne ispira la produzione
delle opere – ma le Muse erano affidate anche ad attività che noi non consideriamo affatto
artistiche. Nel medioevo si ritrova grosso modo la stessa divisione tra
arti meccaniche e arti liberali. Per avere tratti che tematizzano l’aspetto estetico di queste arti si
deve arrivare al Rinascimento, dove si assiste al progressivo distacco dell’artista figurativo
dall’artigiano, perché i pittori, scultori e architetti rivendicano l’aspetto intellettuale del loro lavoro.
Emblematico è il fatto che alla fine del ‘600 l’educazione dell’artista, non avverrà più nelle
botteghe artigiane, ma nell’istituzione specifica e nobilitata che è l’Accademia.
</p><p>Da un punto di vista teorico Lo sforzo di riscatto delle arti figurative si manifesta
attraverso il confronto con le altre arti, prima tra tutte la poesia, al fine di mostrare la natura
intellettualmente nobile di pratiche, prima considerate essenzialmente artigianali. Il
paragone delle arti è ben rappresentato da Leonardo nel suo <i>Trattato della pittura,</i> in cui
argomenta il carattere scientifico della pittura, sottolineando la sua natura di esercizio
intellettuale/cosa mentale, e rivendicandone la maggior capacità descrittiva ed
espressiva rispetto alla poesia. In questo modo viene sancita la dignità delle arti figurative e pittura,
scultura e architettura vengono riconosciute come arti sorelle, visto che tutte e tre sono fondate sul
disegno, nozione poi estesa anche alla poesia e alla
musica nel ‘600. Questo infatti è l’epoca in cui si mettono in rilievo le somiglianze tra arti per la
loro capacità di produrre attraverso immagini la rappresentazione di idee. Questa tendenza è
esplicita nell’opera di Charles Batteux (1747), il quale codifica
il sistema delle arti moderne, ribadendo la comune origine delle arti dall’imitazione e i legami
strettissimi tra pittura e poesia. Lessing nella sua opera (1767) al contrario mira a stabilire i limiti
rispettivi delle arti, le diversità tra i mezzi espressivi della poesia e quelli delle arti figurative. Le
leggi delle arti figurative sono diversi da quelli delle arti verbali: la poesia si serve di segni
arbitrari successivi nel tempo e i suoi oggetti sono le azioni, la pittura di segni naturali compresi
nello spazio e i suoi oggetti sono i corpi. La poesia è poco efficace quando vuole descrivere, poiché
si trasforma spesso in un’enumerazione che non fa immaginare
nulla di determinato, al contrario la pittura non può rappresentare lo svolgimento se non in maniera
indiretta, poiché quando cerca di rappresentare un episodio storico o mitologico deve per forza
essere scelto uno dei momenti (=momento pregnante), prima o
dopo, in cui si svolge l’azione. Questo porta alla distinzione tra arti spaziali e arti temporali.
Accanto a questo criterio di distinzione ne verranno molti altri.
</p></div></div><div><div><p><b>3. Unità e diversità delle arti: </b>l’eterogeneità dei sistemi
di classificazione sottolinea anche i loro limiti I sistemi tradizionali
incontrano le opere per quello che esse non sono, ossia dei meri oggetti o delle cose. Ma a renderle
arte non è il loro essere cosa, bensì la loro capacità di entrare in un’esp. estetica, per cui è naturale
che i sistemi non sappiano mai esattamente dove fermarsi
nella loro raccolta di oggetti ai quali trovare un posto, perché essi non sanno scorgere questa attività
pregnante dell’opera d’arte. L’unico criterio valido, poiché non comporta un discrimine di valore,
sembra essere quello che classifica le attività produttive in
genere, cioè le arti estetiche, assieme a quelle pratiche. I criteri dei sensi ai quali le singole arti si
dirigerebbero è fallace, poiché in esso si presenta il problema per cui allora dovrebbero esistere arti
del tatto, dell’udito e del palato, e si farebbe fatica a classificare
quelle che invece non hanno un diretto corrispettivo sensoriale. Se questa difficoltà viene aggirata
dicendo che abbiamo a che fare con l’attività immaginativa piuttosto che sensoriale, diventa
difficile negare che la medesima attività immaginativa è presente anche nelle altre arti. Neanche il
criterio tecnico funziona, perché distinguendo le arti sulla base delle singole tecniche
impegnate, non si riesce a capire dove fermarsi. Se a distinguere le arti sono le differenze di tecnica
esecutiva, dovremmo ammettere che le arti sono molte di più di quelle tradizionali, che ci sono arti
nelle arti distinte dal processo, il materiale, lo strumento, ecc. Persino il criterio che distingue tra
arti spaziali e temporali fa acqua da tutte le parti. Infatti tutte le arti sono temporali se si guarda al
processo della loro produzione, ed in oltre dal lato funzionale sappiamo che un dipinto non viene
appreso istantaneamente, viene letto facendo scorrere lo sguardo. Dunque non è affatto vero che una
rappresentazione figurativa non possa
raccontare un avvenimento, così come è opinabile che le arti verbali non riescano bene a presentare
qualcosa. L’errore discendente da Lessing che va sotto il nome di “teoria dello specifico di ciascuna
arte = idea che ogni arte abbia un raggio espressivo limitato e suo proprio, che essa ottenga risultati
tanto migliori quanto più si attiene a quelli che sarebbero i suoi limiti espressivi. Questa teoria non
regge alla prova dei fatti, perché moltissimi capolavori nascono proprio dall’interrelazione e dalla
collaborazione dei diversi mezzi espressivi. L’ossessione per la purezza dei mezzi artistici si svela,
non come una legge estetica, ma come una scelta pragmatica legittimata solo su questo piano. Le
epoche che prediligono le rigorose delimitazioni tra le arti sono quelle in cui domina un
orientamento classicista, mentre le epoche anticlassiche si fanno vanto proprio della commistione e
della ibridazione dei linguaggi. L’esperienza recente delle arti mette in crisi, dall’800 in poi, i
tentativi di sistema della classificazione delle arti e della chiara separazione tra di essere, in quanto
una serie di nuove utilizzazioni tecnologiche a fini estetici continua a svilupparsi, e con essa si fa
chiaro che il ventaglio di strumenti tecnici che possono essere utilizzati a fini espressivi è
amplissimo. Inoltre molti dei mezzi espressivi della nuova tecnologia, primo fra tutti i media, sono
misti, poiché coinvolgono dentro di se aspetti verbali, musicali, visivi, ecc. che mettono in crisi
qualsiasi sistema tradizionale precostituito e i confini tra le varie attività estetiche sfumano, si
intrecciano, si moltiplicano in vari piani. Si è arrivati al punto in cui oggi è più facile dire che una
cosa sia arte, piuttosto che non lo sia. Questo riporta l’attenzione su un aspetto fondamentale, ossia
che l’attività artistica ha il primato sull’oggetto in cui si condensa e conferma che anche
relativamente al problema dell’unità e distinzione delle arti, l’esp. estetica deve fare aggio
sull’opera.
>Capitolo Undicesimo – Etica ed estetica non son tutt’uno: </b>uno degli errori più frequenti
commessi riguardo l’esperienza
estetica è pensare che essa abbia come suoi valori costitutivi quello conoscitivo o quello morale, o
entrambi insieme. Pensare che quello di trasmettere conoscenze di natura storica, geografica,
psicologica o scientifica sia un compito necessario dell’opera d’arte
non coincide con il vero, perché infatti ci sono molte opere dalle quali non si riesce a cavare alcun
conoscenza identificabile, ma non per questo viene messo in dubbio il loro statuto artistico. Ma il
fatto che l’esp. estetica non abbia tra i suoi scopi essenziali quello di produrre conoscenze
determinate, non significa che non sia possibile recuperare un rapporto tra estetica e conoscenza.
Tale rapporto si costituisce come un esercizio delle condizioni della conoscenza: nell’esp. estetica
viene messo in funzione il nostro apparato cognitivo senza finalizzarlo a risultati concreti, ma per
farlo funzionare e mantenerlo in attività, così da prepararlo a produrre conoscenze effettive, il che
libera una capacità di distanziamento dagli scopi immediati che si traduce in una
formidabile plasticità e produttività cognitiva. Analogo è il caso del rapporto tra esp. estetica e
attività morale, tra arte e etica: dalle opere d’arte si possono ricavare anche insegnamenti morali, ma
supporre che questi aspetti morali su determinati aspetti della nostra condotta appartengono
necessariamente agli effetti delle opere d’arte, significa scontrarsi con due macroscopiche
osservazioni contrarie, ossia per prima cosa che interi ambiti dell’esp. estetica non sembrano in
nessun modo suscettibili di valutazioni di questo tipo; ed inoltre, una volta imboccata questa strada,
tutta la gerarchia dei valori estetici ne verrebbe ribaltata – cosa che invece non succede –, e una
modesta opera intrisa di buoni sentimenti e lodevoli propositi dovrebbe contare più di tanti
capolavori che non si propongono nessun fine morale esplicito. Tuttavia ciò non significa che non
sia possibile costituire un legame tra i due tipi di giudizio e i due campi di esperienza, stando però
ben attenti a non materializzarlo e irrigidirlo, ma piuttosto a mantenerlo sul piano che più gli è
congeniale e nel quale recupera piena plausibilità, ossia quello dell’analogia, in cui
si notano le corrispondenze tra il modo in cui giudichiamo da un punto di vista estetico e quello
morale. Questo modo di impostare la questione ha un precedente nella tesi kantiana, secondo la
quale il bello può essere considerato simbolo del bene morale. Nel suo sistema ogni concetto, per
acquistare consistenza, deve essere sottoposto ad un’intuizione (conc. empirico +
intuizione di classe = esempio, conc. puro + categoria dell’intelletto = schema), così i concetti della
ragione, le idee, che non hanno intuizioni ad esse adeguate, possono produrre solo un analogo, un
simbolo, che funzioni al modo di esempi e schemi. Dunque la bellezza = simbolo del bene morale =
ci sono delle rispondenze tra il modo di funzionare dell’esp. estetica e di quella morale, tra il modo
in cui emettiamo giudizi estetici e quello in cui emettiamo quelli morali. Una rispondenza che si
può cogliere, anche in assenza di un quadro teorico determinato come quello kantiano, è il fatto che
tanto il giudizio estetico quanto quello morale vertono sempre su un ogg. o una fattispecie singola
individuata e non generalizzabile. Il giudizio di gusto è sempre
singolare in senso logico, cioè che il soggetto del giudizio è sempre un ogg. singolo, e per questo
non si può mai decidere della bellezza o bruttezza di un ogg. o di un’opera d’arte solo per sentito
dire, si devono vedere di persona come stanno le cose. Allo stesso modo il giudizio morale autentico
deve sempre riferirsi alle concrete condizioni in cui l’azione è stata compiuta e non
sopporta le generalizzazioni. >2. Autonomia de eteronomia dell’arte: </b>sia l’esp. estetica che
quella morale sono produttrici di un valore intrinseco, non riconducibili ad altre forme di positività
(autonomia); entrambe sono possibili solo a condizione di una normatività universale, che impone
l’affermazione di un valore, ma senza che sia possibile stabilire a priori le forme determinanti in cui
tale normatività verrà a trovare le proprie manifestazioni (eteronomia). Gli ideali e le regole
dell’arte, come i dettami esterni della morale, sono sempre soggetti a variazioni storiche, grandi o
piccolo che siano, ma senza che esse ne intacchino la riconducibilità alle medesime
esigenze di accordo con la legge formale universale che le regge. Queste convergenze e analogie tra
etica ed estetica possono, però, essere apprezzate veramente solo dopo che si è affermata la
sostanziale indipendenza tra i due campi; questa separazione
coincide in linea di massima con il cammino dell’estetica moderna. Nell’Antichità al contrario il
bello e il bene appaiono strettamente connessi e in parallelo il giudizio che viene portato sull’arte
verte in primis sui suoi effetti morali e politici – non a caso infatti la condanna platonica colpisce
l’arte per le sue manchevolezze ontologiche e soprattutto per l’equivocità degli
insegnamenti morali che se ne ricavano. Nell’Ars Poetica oraziana la poesia deve servire ad
ammonire e ad educare il lettore; questa visione didattica e moralistica della funzione dell’arte
dominerà tutto il Medioevo, fino all’inizio del Rinascimento. Qui però iniziano a farsi strada i
tentativi di affermare l’indipendenza dell’arte dalla morale, poiché si vuole far valere il fatto che
l’arte può mirare anche solo al piacere = principio dell’autonomia dell’arte che viene a stabilirsi + i
nuovi o rinnovati concetti con cui si pensa al fenomeno artistico, quali il genio e l’ispirazione,
attraverso cui l’attività artistica viene riconosciuta come non dipendente direttamente dalla volontà
dell’artista, e dunque difficilmente assoggettabile ai principi della morale che presuppongono
un’azione volontaria. Inoltre il nuovo concetto di gusto segnala una capacità di discernimento che
non si basa su regole intellettuali o morali e non è neppure riducibile ad una semplice apprensione
sensibile. Il ‘700 contribuisce alla sistematizzazione di questi concetti, e al riconoscimento di
autonomia della sfera estetica. In questo contesto autonomia significa che il giudizio estetico non
può, in ultima analisi, essere ridotto ad un giudizio di altro ordine, deve poggiare su di un principio
proprio, fermo restando che le manifestazioni artistiche non risultano mai altrettanto pure, sono
sempre suscettibili di considerazioni provenienti da diversi campi. Nell’80 sarà caratteristica
l’oscillazione tra i due poli estremizzati di una totale insignificanza pratica dell’arte e, al contrario,
di un suo pieno coinvolgimento nelle battaglie ideologiche e politiche. Questo estremismo, che si
concretizza in diverse teorie, è agli antipodi del progetto romantico, che invece puntava ad un
superamento dell’autonomia, facendo dell’arte un’attività superiore capace di rifondere al suo
interno morale e conoscenza. Il ‘900 con la nascita delle Avanguardie, presenta una situazione
complessa: questo nuovo movimento artistico per un verso sembrerebbe segnare il trionfo di un
movimento di espansione dell’arte verso la società e verso la vita (l’arte vuole contare praticamente,
farsi principio attivo della storia, diventare soggetto del mutamento politico), ma dall’altra parte,
nonostante questa rivendicazione di ruolo trainante dell’arte nella società, esso è una riaffermazione
potente del principio di indipendenza dell’arte e della sua capacità di creare un mondo per se stesso.
Questo mette in moto diversi movimenti, tra i quali quelli più radicali, che vogliono completamente
chiudere in se stessa l’arte.
3. Ethical Criticism: negli ultimi decenni la separazione tra estetica e etica è stata rimessa in
discussione da molte prospettive. Si invoca un’arte che faccia proprio un impegno morale sulla
realtà, considerando invece una riprovevole evasione quell’arte consacrata alla ricerca di valori
primariamente estetici. L’engagement morale viene assunto in moltissimi casi come segno distintivo
della “Grande Arte”, in opposizione all’arte di massa, capace solo di assicurare un divertimento,
colpevole della chiusura verso i problemi del mondo. Ciò ha fatto si che la separazione tra valore
estetico e contenuto morale venisse considerata sempre di più un dogma inaridito della vecchia
estetica, bisognoso di essere soppiantato da una visione che sottolineasse invece i legami strettissimi
tra i due. In questo contesto le opere d’arte vengono considerate sempre di più come fonte di
alimento e orientamento per il dibattito morale, da filosofi morali, scienziati politici e studiosi del
comportamento. Le opere d’arte diventano documenti di psicologia morale, poiché forniscono
descrizioni attendibili e penetranti degli stati che accompagnano le nostre scelte e le nostre
decisioni. Con ciò, però, ancora non si attua alcuna confusione tra estetica ed etica, in quanto si sta
ancora solamente prendendo l’opera letteraria o cinematografica come fonte di conoscenza morale
(analogamente alla concezione antica dei poemi omerici). Diverso è l’atteggiamento ancora simile
di chi considera centrale nell’opera d’arte l’attenzione portata ai sentimenti e alle emozioni, poiché
essi si limitano ad osservare che diversi tipi di arti raccontano vissuti emotivi, soprattutto la
letteratura. Tuttavia in molte circostanze questa considerazione trapassa nell’affermazione secondo
la quale il compito o la natura dell’esp. estetica sarebbe quello di descrivere, far provare
determinate emozioni, sorvolando il fatto che questo non è assolutamente il suo fine essenziale, e
anzi può essere assicurato anche attraverso mezzi ben diversi dall’arte. Il passo decisivo si compie
durante gli anni ’80 negli orientamenti chiamati “Ethical Criticism”, che rivendicano la necessità di
un giudizio morale affinché si possa produrre un valore estetico. Essi si spingono fino
all’affermazione per cui sarebbe inaccettabile che l’opera letteraria non sia ispirata da buoni
sentimenti, o peggio, esibisca sentimenti cattivi si illudono che la letteratura possa riacquistare quel
ruolo eminente che ricopriva trasformandosi in mezzo di educazione ed edificazione morale. Ma
questo contrasta con la riprova dei fatti, in cui è palese che un’arte conciliante, fatta di buoni
propositi e belle parole, è un’arte che viene dalla superficie, rifiutandosi di farsi interprete delle
pulsioni profonde, dei motivi veramente essenziali del nostro agire. Spesso infatti sono proprio i
tratti più dissonanti, urtanti, sconvolgenti di un’opera, in cui questi motivi si concretizzano, ad
attirare l’attenzione, spingendo all’apprezzamento dell’opera.

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