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ariannascuola.eu/ilfilodiarianna/it/filosofia/la-filosofia-ad-atene/aristotele/165-sulla-nozione-aristotelica-di-
logos.html
1) Uomo è “zoon logon echon” (generalmente tradotto con “animale razionale”, animal
rationalis, traduzione che risale ai romani e poi divenuta canonica; essa risulta tuttavia
problematica come traduzione).
2) Uomo è “zoon politikon”: “animale politico”
Nel cercare di pensare insieme queste due nozioni è possibile arrivare a comprendere
alla radice il rapporto tra parola ed etica (e quindi politica), rapporto che è
implicitamente al centro della riflessione di Aristotele sul logos.
Cerchiamo innanzitutto di chiarire il senso delle parole contenute nelle due definizioni.
Partiamo dalla prima: zoon logon echon, letteralmente: il vivente (zoon) che ha (echon) la
parola (logon).
1) La parola zoon non indica per i Greci l’animalità nel senso del mero funzionamento
biologico di un corpo e neppure nel senso di ciò che è meramente istintuale (nel senso
appunto dei cosiddetti istinti animali). Questa parola, presa appunto letteralmente, non
significa altro che vivente, e interpreta qui il vivere nel senso di una particolare
apertura al mondo, quella che appunto caratterizza il venire alla presenza di tutto ciò
che è vivo. In tal senso, per i Greci, anche gli dei erano zoon, non certo perché fossero
intesi alla stregua di animali, neppure nel senso, di per sé piuttosto vago, del mero
essere animati, quanto piuttosto perché a essi era proprio, al massimo grado, il vivere,
il venire alla presenza in modo vivo, al punto tale che, nella loro luce, giungeva al
massimo grado di presenza e di vita tutto ciò che è. Il termine zoon sta quindi a
indicare innanzitutto una modalità d’essere, una certa modalità di venire alla presenza,
quella appunto propria del vivente: una presenza “viva e vegeta”. La stessa radice su
cui è costruito il verbo sta a indicare il puro sorgere o venire alla luce, il dischiudersi e
l’aprirsi (ad esempio al cielo, si pensi al dischiudersi di un fiore al primo sorgere
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dell’alba).
2) Il participio echon sta a indicare la modalità secondo cui l’uomo, in quanto vivente, è
in rapporto con il logos, con la parola. In greco echo non significa soltanto «ho» nel
senso di «possiedo», ma anche, tra l’altro: «ho cura», «trattengo per me», «reggo»,
«abito», «mi trovo» (analogamente all’habeo latino). Da questo verbo deriva anche il
termine exis che significa sì possesso, ma nel senso dell’habitus latino (anch’esso
derivante da habeo), quindi nel senso della facoltà, dell’attitudine, del temperamento,
meglio ancora: della postura.
3) Come appare poi evidente dal contesto del brano da cui è tratta tale definizione
(Politica 1252b27-1253a39), in cui viene fatto direttamente riferimento al fenomeno
della voce umana, tenuto ben distinto dal verso dell’animale, logos sta qui a indicare la
parola, nel senso qui del concreto parlare, e non la ragione.
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Aristotele pensa l’essenza (o essere) della parola (ovvero: ciò che fa sì che la parola sia
una vera parola) a partire dalla apophansis, dalla sua capacità di mostrare, di portare
alla luce i fenomeni, ossia ciò che si mostra (dal greco phainesthai: mostrarsi). Per lui il
logos è nel suo stesso essere logos apophanticos (normalmente tradotto con “enunciato
apofantico o dichiarativo”, nel senso di quell’enunciato che dichiara o espone il
fenomeno così come è). Proviamo a comprendere meglio cosa stia a indicare qui
l’aggettivo “apofantico” partendo dalla considerazione della parola greca.
Questo aggettivo deriva dalla preposizione apo- e dal verbo phainesthai, che significa:
faccio vedere, metto in luce, mostro, faccio apparire. La forma mediale sta a indicare il
fatto che l’azione, in questo caso il mostrare, assume una particolare rilevanza per
colui che la compie e per tutti coloro a cui l’azione (il mia “parola mostrante”) è rivolta.
Il far vedere deve cioè qui essere inteso nel senso del fare emergere il fenomeno qui
nel mezzo per tutti i presenti, in modo tale da determinare, nel suo stesso venire alla
presenza, la prossimità in cui essi vengono posti in gioco, ciò che costituisce il loro
autentico e genuino inter-esse. La preposizione apo- indica invece un movimento «via
da», che indica la provenienza. Essa sta a indicare il fatto che il logos apophantikosdeve
aver cura di mostrare o di portare alla luce il fenomeno a partire proprio da
quest’ultimo, e non ad esempio a partire da una qualche idea preconcetta. Ciò
significa, molto semplicemente: il compito della parola è quello di lasciare apparire, nel
proprio dire, la cosa per come essa è. Pensiamo a quello che è il senso concreto di una
proposizione. Quando ad esempio dico, alzando gli occhi: «il cielo è azzurro», questa
non è in modo astratto, come viene spesso riportato nei libri di grammatica, la mera
attribuzione di una qualità tra le tante compiuta nei riguardi di un oggetto scelto a
caso tra i tanti disponibili, ma è la scoperta di un tratto particolarmente saliente
secondo cui quel determinato fenomeno che mi sta sotto gli occhi (il cielo) si manifesta
per quello che è (azzurro!). Bisognerebbe poter avvertire nell’esplicarsi del logos
apophantikos, ogni volta, una sorta di stupore di fronte al fatto che la cosa è proprio
così piuttosto che altrimenti, lo stupore di fronte al suo stesso entrare in presenza. La
funzione del parlare è una funzione innanzitutto svelante (che svela), e solo per questo
motivo essa può poi assumere la sua funzione comunicativa (in cui appunto si mette in
comune con gli altri ciò che è stato portato alla luce).
In tal senso la parola deve dunque avere innanzitutto cura della verità, qui intesa non
come semplice adeguazione, ma come il manifestarsi stesso del fenomeno. Ma in cosa
consiste più propriamente questa cura? Per comprenderlo si può far riferimento a
quanto dice Aristotele a proposito di un determinato tipo di logos, quello proprio della
episteme (del sapere scientifico), l’horismos, la «definizione». Il motivo di tale scelta è
che la pratica del sapere scientifico è ciò che di fatto deve poter essere svolta insieme
in classe. La riflessione sul significato dell’horismospuò dunque costituire, per l’intera
classe, l’occasione per riflettere sul modo di procedere che dovrebbe insieme essere
promosso e di cui ogni partecipante alle lezioni dovrebbe imparare ad aver cura.
Questo termine viene dal verbo horizoche significa: «limito», «determino», «definisco»,
«circoscrivo» e quindi: «separo», «disgiungo», «distinguo». Aristotele, negli Analitici
posteriori (B 3, 90 b 16), determina l’horismosnel senso di ciò che permette di divenire
familiari con la ousia (la “sostanza”), ossia con l’essere dell’ente, nella misura in cui lo
circoscrive e lo fa apparire come tale (si pensi al modo in cui si è precedentemente
cercato di circoscrivere l’essenza dell’uomo; genere e specie sono quegli strumenti
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concettuali che aiutano appunto a circoscrivere l’essere di un ente e distinguerlo dagli
altri; nel nostro esempio il vivente rappresenta il genere, mentre l’essere dotato di
parola è la specie, che appunto specifica in cosa consista l’essere dell’uomo,
portandolo alla luce come tale, ossia come essere parlante). In tal senso l’horismos,
ovvero la definizione in senso autentico, è quindi, come già aveva detto Platone, logos
tes ousias: parola che ha il compito di esibire l’essere o l’essenza stessa della cosa, nel
senso del suo proprio manifestarsi. Per comprendere come operi l’horismos è dunque
necessario chiarire il significato della parola ousia.
Note:
[1] Questa, che a prima vista può apparire una rigida definizione, non contiene di
fatto nessuno contenuto particolare, non dice che cosa un uomo deve essere o
diventare per essere propriamente tale, ma indica esclusivamente una modalità
d’essere. In tal senso essa chiarisce unicamente un compito e può perciò essere
formulata di volta in volta in modo differente a seconda dei fenomeni o delle situazioni
che si hanno concretamente in vista. Ogni definizione dovrebbe poter sempre essere
intesa come la semplice indicazione di un compito conoscitivo, così come apparirà più
avanti a partire dall’interpretazione di ciò che Aristotele intende per horismos
(“definizione").
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[3] Questo senso genuino della astrazione è all’opera anche nel nostro linguaggio
comune. Quando ad esempio diciamo, in un caldo giorno d’estate, “il cielo è azzurro”,
noi non facciamo che eleggere o selezionare un tratto particolare di quel cielo, una sua
determinata qualità: il suo essere azzurro (la sua “azzurrità”). Anche in questo caso noi
operiamo una specie di astrazione, ma ciò che da essa otteniamo non è una semplice
“qualità astratta”; dicendo “il cielo è azzurro” noi facciamo piuttosto emergere un tratto
essenziale che in quel momento ci riguarda e ci tocca in modo particolare, come può
toccarci e riguardarci l’azzurro del cielo in un bel giorno d’estate.
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