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LE NOZZE DI ISABELLA

Baldo Baldi
Franco Maria Ricci Editore

Fra il 1714 e il 1746, re Filippo V uccise migliaia di lepri, pernici e altri volatili,
che si aggiunsero alle altre migliaia uccise nei 15 anni anteriori, cioè dalla sua
ascesa al trono di Spagna. Invero, salvo le feste comandate, non vi era giorno che il
sovrano non andasse a caccia. La prima regina, Maria Luisa Gabriella di Savoia,
l’accompagnò poco e malvolentieri, diversamente dalla seconda, Elisabetta
Farnese, che aveva tirato di schioppo fin dall’adolescenza. La caccia fu sempre
l’occupazione prediletta, se non unica, dei reali spagnoli. Agli eredi al trono veniva
regalato un fucile allo scadere del sesto anno d’età, nella stessa occorrenza in cui,
lasciata la gonna, indossavano per la prima volta i pantaloni. Veniva anche
allestito un piccolo serraglio affollato di conigli ove i principini avevano l’agio di
affinare la mira. Oltre che alla caccia Filippo V era dedito agli esercizi venerei, che
praticava con uguale se non maggiore assiduità (visto che la Dottrina non
impediva che si eseguissero anche nelle festività). Quando l’abate Alberoni istruì la
novella sovrana, Elisabetta appunto, su come dominare la volontà del re e
governare in sua vece, fu molto chiaro riguardo all’importanza del talamo come
luogo in cui giorno dopo giorno si sarebbe rinnovato il do ut des. Isabella imparò
la lezione alla perfezione, anzi, aggiunse parecchio di suo…

Nel corso del XVIII secolo, cinsero la corona spagnola sei regine consorti, tre italiane, due
tedesche e una portoghese. Dal 1714 al 1746, il trono fu occupato da Elisabetta Farnese, che
andò sposa a Filippo V all’età di 22 anni. La storia dei regnanti europei è fitta di ritocchi,
emendamenti ed espunzioni, per cui venirne a capo è un compito fra i più ardui. Ciò succede
perché la storia, nel caso della realeza, si fonde con l’epopea e il mito. Della Farnese si sa e
non si sa. Si sa che non era bella, che aveva il volto butterato e il naso grosso, dettagli, però,
smentiti da pittori come il Molinaretto, che ne ricalcarono la grazia. Si sa che, giovinetta,
s’invaghì del proprio maestro di musica, il bell’Astorga, che appunto perciò dovette essere
allontanato dalla corte granducale. Tuttavia, per altre vie, si scopre che il musicista siciliano
non visitò mai la corte parmigiana, e men che meno sedusse la principessina. Si sa che al
palazzo della Granja, nei pressi di Oviedo, la regina raccolse nella propria biblioteca non
meno di 8000 volumi, per lo più libri in francese di filosofia e altre materie elevate; ma
d’altra parte consta che essa ordinava personalmente solo libri di cavalleria, lasciando ad
altri la scelta maggiore. Si sa che amava l’arte e che comprò intere collezioni di scultura
(come quella di Cristina di Svezia); tuttavia non si sa se avesse un gusto estetico particolare.
Anche le circostanze che la portarono a regnare sulla Spagna sono incerte, in sospeso fra
alta diplomazia e raggiri di bassa lega. Si sa che la scelta di Filippo V fu influenzata
dall’abate Alberoni e, ancor più, dalla principessa Orsini (Madame des Ursins), ma le
segrete ragioni del re, se ve ne furono, permangono ignote. In ogni caso, le vicende
matrimoniali del primo monarca borbone (nipote del Re Sole) sono sempre state fonte di
curiosità e di speculazioni, oltre che di rappresentazioni pittoriche e a stampa. Basti pensare
che le nozze di Elisabetta Farnese, celebrate a Parma per procura, meritarono la
pubblicazione, finanziata dalla corte granducale, di un ampio Ragguaglio, arricchito da un
frontespizio e 5 belle tavole disegnate dallo Spolverini. Costui dipinse inoltre un intero
ciclo, oggi conservato alla Reggia di Caserta, di scene relative agli sponsali parmigiani e al
viaggio di Elisabetta alla volta della Spagna. L’episodio più decantato della carriera della
novella regina, si svolse precisamente all’indomani del suo arrivo nel paese iberico, il 23
dicembre 1714. La letteratura popolare, il teatro e il cinema se ne sono appropriati,
trasformandolo in un evento leggendario. Anche in questo caso, dunque, ciò che accadde, il
perché e il per come, si sa e non si sa. Comunque sia, l’ascesa al trono della Farnese non è
separabile dalla vicenda di Maria Luisa Gabriella di Savoia, la prima moglie di Filippo V,
che regnò dal 1701 al 1714 e dette al monarca quattro figli, tre di meno di Elisabetta. A
differenza di quest’ultima, ch’era portata alla buona cucina e ai piaceri di Venere (o per lo
meno vi si dedicava con impegno), Maria Luisa si adeguò con difficoltà sia alla vita di
coppia che all’ambiente della corte spagnola. Stroncata dalla tubercolosi a 26 anni, essa
rappresenta in un certo modo il rovescio di Elisabetta; ed è per questo, per l’appunto, che
per giungere alla Farnese occorre passare dalla Savoia.

Maria Luisa Gabriella di Savoia


“Alla fine morì la regina con sentimenti di vera eroina”, scrive l’abate Alberoni al conte
Ignazio Rocca in data 19 febbraio 1714. Si concluse in tal modo quello che fino a poche
settimane prima, alla corte madrilena, era sembrato un lento risanamento dall’ultimo
travagliato parto. Il 4 dicembre anteriore, si legge in un’altra lettera al conte Rocca, la
malata “andava lenta nell’appetito del mangiare, però dal dormire che faceva tutte le notti
con il Re, poteva credersi che la convalescenza non andasse male”. La “grandissima sua
fiacchessa” (dovuta alle febbri costanti) non le permetteva di mostrarsi in pubblico, era
inappetente, né i salassi né le purghe sortivano l’effetto sperato… ciò nonostante il 20
gennaio ebbe un “miglioramento notabile” e ancora a fine mese riusciva a ingerire latte di
donna, lo sputo non era cattivo, la tosse intermittente, l’occhio limpido, anzi, “bellissimo”, e
nei giorni buoni era persino allegra. Tutte avvisaglie fuorvianti, in realtà, dacché la
tubercolosi gangliare non concedeva scampo, solo brevi tregue. Da mesi ormai la sovrana
giaceva prostrata nell’alcova reale, avvolta dai miasmi dei bracieri a carbone che avrebbero
dovuto scaldare l’Alcázar. Già il 27 novembre, Madame des Ursins aveva annotato che la
regina era condannata e che la cura di chinina e oppio a nulla serviva. I noduli infiammati
deturpavano il corpo della malata, imbruttito ulteriormente dalla calvizie (imposta dai
medici), mal dissimulata da una parrucca. Di ritorno dalla caccia, il re si recava al suo
capezzale e giaceva con lei la notte intera, incurante delle espettorazioni e dei bubboni (di
tale intimità venne a conoscenza Luigi XIV, che, timoroso d’un contagio ai danni del
nipote, ordinò al suo “premier medicin”, Jean-Claude-Adrien Helvetius, di sezionare il
cadavere della regina).

Alla sua morte, Maria Luisa Gabriella di Savoia aveva 26 anni, metà dei quali trascorsi
accanto a Filippo V, dedita a compiacerne l’irrefrenabile sensualità e a procreargli eredi.
Quattro gravidanze che sfiancarono la giovanissima regina, causandone la precoce perdita.
Filippo V l’aveva impalmata spinto da Luigi XIV, che la riteneva più adatta al nipote di
altre candidate: “Plus j’examine le choix que l’on pourrait faire – si espresse il Re Sole –
plus je suis persuadé que celui de cette princesse [Maria Luisa] est le seule qui convienne
dans la situation présente”. Una scelta politicamente azzeccata, anche se l’età della futura
regina (13 anni non compiuti) avrebbe potuto essere maggiore: “Il serait seulement á
souhaiter quelle eut quelque années de plus”. D’altro canto Filippo V, diciottenne, “etait
lui-même un peu enfant encore”.
Le nozze furono celebrate per procura a Torino l’11 settembre 1701. Quattro giorni dopo la
comitiva della novella sposa s’incamminò alla volta della Spagna, dapprima per terra poi
per mare. Imbarcatasi a Nizza, la fanciulla fu salutata da uno stornello in patois che diceva:
“Ïeu non sabi che faire/ De rire ò de plourá/ Plouri perche s'en va;/ Mai pensan che va
faire/ ïeu non sabi che faire/ De rire ò de plourá”. Neanche Maria Luisa sapeva se ridere o
piangere: cingeva la corona di Spagna, stringeva lo stelo della Rosa d’Oro papale, eppure il
mal di mare non smetteva di tormentarla, spegnendo in lei ogni entusiasmo. L’unico
conforto era rappresentato dalle premure di Madame des Ursins (Marie-Anne de la
Tremoille, vedova del principe Flavio Orsini), scelta da Luigi XIV come sua camarera
mayor. Nel corso del viaggio il rapporto fra la giovane sovrana e la matura principessa si
fece più stretto e partecipe. “Madame des Ursins – scrisse Maria Luisa da Antibes alla
madre – devient tous les jours plus agréable et elle n'est pas de ces femmes gênantes comme
je croyais”. Qualche giorno dopo, fu ancora più esplicita: “Je suis tout à fait contente de la
princesse des Ursins, elle a toutes les bonnes qualités que l'on peut souhaiter”.

Madame des Ursins


Flippo V, scrive Madame des Ursins all’indomani del primo incontro dei giovani sovrani,
“a trouvé la Reine mieux que tous les portraits”, una soddisfazione che si riverbererà
nell’atteggiamento “fort amoureux et fidèle” del re nei confronti della consorte fanciulla.
Amore ripagato, anche se Maria Luisa riteneva il marito “un imbécile”, giudizio condiviso
un po’ da tutti, in primis da Saint-Simon che lo considerava “une bête”. Oltre a mancare
d’intelligenza, Filippo V era ossessivo e malinconico, forse bipolare, dato a rifugiarsi in se
stesso. Amava il sesso e la caccia, passioni cui dava sfogo ininterrottamente, lasciando gli
affari di stato nelle mani d’altri (l’amore per la musica e il bel canto si scatenerà in seguito).
La regina, che raramente si univa al marito nelle venagioni, si annoiava. A due anni
dall’arrivo a Madrid, riferisce: “Je passe la journée en joaunt aux cartes dans ma chambre
avec le Roi et la Princesse des Ursins”, omettendo discretamente l’altra attività d’obbligo.
Qualche mese prima aveva scritto al padre che si sentiva sola, disperata, ma che avendo
accanto Madame des Ursins era in grado di sopportare. Il fatto che Madame fosse
considerata da taluni una virago, “une femme dont il n’était pas possible de se défendre
quand elle voulait séduire”, era trascurabile. Cappeggiati dalla regina, i più non sapevano
quale delle virtù della principessa ammirare maggiormente, “si l'étendue de son instruction,
si l'universalité de son intelligence, si la finesse de son bon sens, si l'activité de son esprit
ou sa pénétrante sagesse”. Malgrado l’apprezzamento degli uni e il rispetto degli altri,
malgrado l’ascendente che essa esercitava sui reali, la camarera mayor non era del tutto
soddisfatta del proprio ruolo. In una lettera a Anne-Jules de Noailles di qualche mese
posteriore alle nozze reali, la Principessa si sfogò dicendo: “Se Madame de Maintenon fosse
al corrente di tutti i risvolti del mio incarico si farebbe delle grasse risate. Vi prego di dirle
che ho l’onore esclusivo di raccogliere i vestiti del re di Spagna quando si mette a letto e di
porgli le pantofole quando si alza”. E fin qui pazienza, prosegue, ma che tutte le sere,
quando sua maestà entra nella camera della regina per giacere con lei, tocchi a me
occuparmi della sciabola, del pitale e del lume a olio – olio che ogni volta finisco per
spargere sui miei vestiti – “cela est trop grotesque”. Completò il quadretto con un tocco di
sarcasmo: “Sa majesté s’accommode si bien de moi qu’elle a quelquefois la bonté de
m’appeler deux heures plus tôt que je ne voudrois me lever”. Le pretese della regina non
erano da meno, con l’aggravante che seguitava a rimpiangere senza ragione le ancelle
torinesi: “Je suis sur qu’elles [le precedenti cameriere piemontesi] – ne lui laveroient point
les pieds et qu’elles ne la dechausseroient point aussi promptement que je le fais”.

L’abate Alberoni
Il 5 febbraio 1714, due settimane prima della dipartita di Maria Luisa, l’abate Alberoni
annotò: “L’imminente perdita della Regina potrà secondo le apparenze causare mutazioni”.
Poi, come per effetto di una foriera associazione, completò il periodo con un augurio
inatteso: “Dio conceda salute alla serenissima signora Principessa Isabella [Farnese],
sperando potere con le prime sentirne buone nuove”. Fra le “mutazioni” causate dal
decesso, vi fu, per l’abate, un incremento impensato del guardaroba: “La morte della Regina
– confidò al conte Rocca –m’ha obbligato alla spesa indispensabile di due vestiti di lutto
con suoi bottoni e bottoniere di panno, fodra di lana, velo ecc., secondo lo stile spagnolo”. I
dettami dello “scoruccio” prevedevano altresì una zimarra, per cui, sebbene controvoglia,
Alberoni se ne dotò: “Ho dovuto vestire per necessità una cappa nera, non potendosi inviare
niuna ambasciata che non sia vestita a scoruccio”. Con i propri ambasciatori il Granduca di
Parma (ai cui servizi era impiegato l’Alberoni) non era di manica larga, talché,
nell’evenienza di rimostranze contabili, l’abate si giustificò con Rocca dicendo: “Meno di
questo non può farsi, e mi sono contentato fare meno d’ogni altro per non sapere quali
potessero essere le intenzioni della nostra corte”.

Se avesse dovuto recarsi a Zaragoza, dove nei mesi successivi alla morte della Regina si
conclusero le esequie solenni (suddivise in tre diversi funerali), l’abate sarebbe incorso in
ulteriori non lievi spese, scontentando viepiù l’avaro granduca. Il lutto rigoroso per la morte
di un regnante si protraeva per sei mesi, nel corso dei quali era d’obbligo portare a termine
le relative onoranze funebri. Al catafalco eretto a Zaragoza venne apposto il seguente
epitaffio: “Fue roca en el mar tempestuoso/ que ni el zefiro la inmutava/ ni el aquilon la
conmovia”. Altro che roccia nel mare! Dopo la terrificante navigazione riferita sopra, Maria
Luisa non avrebbe abbordato un’altra nave per tutto l’oro del mondo.Probabilmente la
defunta non si sarebbe rispecchiata nemmeno nell’iscrizione principale:

Esposa/ del rey de las Espanas Felipe V/ el Animoso/ cuya unión/ convirtió la antigua
esterilidad/ en fecundidad feliz/ Madre/ de quatro principes/ dio uno al cielo/ uno a Espana/
y dos a la seguridad/ del nombre augusto

Maria Luisa era stata ben più d’un ventre fecondo. Basti pensare che, quattordicenne, aveva
esercitato la reggenza della Spagna (1702 e 1704), dando prova d’un cipiglio estraneo al
marito… ma la memoria è corta. Il 19 febbraio 1714, a cinque giorni dalla scomparsa della
sovrana, l’ambasciatore Morozzo scrisse alla corte torinese che “l’afflizione degli spagnoli è
così interiore che non si riflette nei loro visi, e ancor meno nei loro occhi”. Rimanevano
impassibili. Subito dopo il diplomatico riferì: “Il re [Filippo V], che nei giorni precedenti
aveva consumato pasti pessimi, mercoledì sera (lo stesso giorno della morte della regina)
cenò abbondantemente, la qual cosa contribuì a farlo dormire beatamente per nove ore di
seguito”. Questo sebbene fosse mercoledì di quaresima.

Alberoni si era detto fiducioso che la morte della sovrana avrebbe apportato qualche
“mutazione”. Tuttavia, dovette cambiar presto parere. “Già con altre mie – scrisse a Rocca il
28 aprile – vi ho detto non avere la morte della Regina cangiato una iota il sistema passato”.
Della sua scomparsa non s’era parlato se non per un paio di giorni, “ed il terzo giorno tutti
quelli che havevano maggiore motivo ed obbligo di gratitudine furono i primi a
consolarsene, e in una parola non se ne discorre più come se non havesse mai vissuto”.
Conclude amaramente l’abate: “Fra pochi giorni si faranno dalla città i i pubblici funerali e
con questi finirà la memoria”. Non che Alberoni costituisse un’eccezione: il cordoglio per la
scomparsa di Maria Luisa era durato qualche giorno, poi la vita della corte, ivi compreso
l’abate, aveva ripreso il suo corso. Il 29 febbraio, a due settimane dal decesso, aveva scritto
a Rocca: “Qui più che mai continuano le pasquinate vedendo sempre più stabilita la
confidenza della signora Principessa [des Ursins] col Re”. Poi, con maliziosa ironia,
proseguì: “Mi domandò ieri la Dama [des Ursins] le nuove della città, ed io mi contentai di
risponderle con una istorietta del fu cardinale Mazzarini che dicea: Lasciamoli dire, purché
ci lascino fare”.

Elisabetta Farnese
Cristoforo Poggiali riporta nelle Memorie Storiche di Piacenza talune particolarità che
aveva intese da un ragguardevole personaggio, che a sua volta le aveva ascoltate dalla bocca
dello stesso Alberoni:

“Nel di 14 di Febbraio dell'Anno 1714 rimase vedovo il Cattolico Re Filippo V per la morte
di Maria Luigia Gabriella di Savoia, da lui sposata nel Settembre dell'Anno 1701. Mentre
colla solita pompa solennissima portavasi il cadavere della defunta Regina al sepolcro,
stavano osservando tal funzione da una finestra del Real Palagio Madama Orsini e il Conte
Alberoni suo confidente; e fra lor lor discorrevano della natural costituzione del Re, assai
difficilmente compossibile col celibato; e della necessità, che perciò aveasi di trovargli una
nuova Sposa ben presto. Nominò Madama quasi tutte le Principesse d'Europa, le quali per
nascita, età, e doti personali aspirar potevano a un tal onore: ma l' Alberoni, che dargliene
sperava una a suo modo, e che già formata nel cuor suo aveane la scelta, destramente a
ciascuna d'esse andava facendo or una, or un'altra eccezione: su questo particolarmente
insistendo, che doveva Madama e per interesse proprio, e pel comun bene, cercar una Sposa
al Re d'indole quieta, docile, aliena dal mischiarsi negli affari di Stato, e incapace
d'adombrarsi dell'autorità, di che essa Madama godeva. Richiesto quindi, ove mai una
Principessa di tal carattere potrebbesi ritrovare, finse d'andar col pensiero scorrendo alcun
poco fra le Corti d'Europa; poi, quasi che allora solamente gli sovvenisse alla memoria
Elisabetta Farnese, figliuola del già Principe Odoardo, questa pur freddamente, e come a
mezza bocca le nominò; aggiugnendo per altro, ch'ella era una buona Lombarda, impastata
di butirro, e formaggio Piacentino, allevata alla casalinga nella picciola Corte del Duca
Francesco suo zio, e patrigno, ed avvezza a non sentirsi d'altro parlare, che di merletti,
ricami, e telaj”.

Il 18 luglio 1714, cuando mancavano ancora tre settimane alla scadenza del lutto rigoroso, venne
siglato a Roma, con il consenso del papa, il nuovo contratto matrimoniale. Era il secondo
beneplacito che Clemente XI concedeva a Filippo V, accompagnato anche in questa occasione da
una Rosa d’Oro. Le nozze furono celebrate il 16 settembre, allo scadere del settimo mese dalla
morte di Maria Luisa:

“Il giorno appresso [16 settembre 1714], nel Duomo d'essa Città di Parma suntuosamente
addobbato, dal Duca Franceſco di lei Zio, munito di special Procura del Re Cattolico, fu sposata la
Principeſſa Elisabetta in nome di Sua Maestà, coll'assistenza del sopraddetto Cardinal Legato, il
quale, terminata la solenne Messa dello Spirito Santo da lui medesimo cantata, e compiute le
sponsalizie Cerimonie, consegnò alla Maestà sua la Rosa d'oro benedetta da sua santità, e mandatale
in dono, come si suole a tali grandi Personaggi, dichiarandole nel tempo stesso le azioni, qualità, e
virtudi della medesima, ed insinuandole il pregio, in cui meritava di essere tenuta”.

La mano di Dio non si è accorciata, sebbene non sembri essa giunge sempre ovunque, sempre
benevolente. Così si espresse Alberoni in una lettera al granduca di Parma di poco posteriore alle
nozze. Nella fattispecie, la manus Domini sarebbe intervenuta senz’altro a neutralizzare la pretesa di
Madame des Ursins di dominare la nuova regina come già aveva fatto con l’anteriore. A Isabella
sarebbero bastate poche ore per far suo il cuore del re, dopo di che avrebbe ottenuto quel potere che
Madame non intendeva cedere. “Il futuro è della regina”, assicurò l’abate: data l’indole del sovrano,
averla vinta, per Elisabetta, sarebbe stato facile, e ciò le avrebbe consentito di diventare la più
prominente fra le regine sedutesi sul trono di Spagna. Ammaliare il re, era una necessità, non una
scelta: il re voleva essere governato e la regina doveva governarlo, senza permettere ad altri di farlo.
Se così non fosse stato, Elisabetta sarebbe divenuta la più infelice delle regine spagnole, cosa che si
sarebbe ripercossa sul granduca. Madame des Ursins poteva ritenerla brutta e provinciale, poteva
ventilare in pubblico che il re non l’avrebbe mai sposata se non fosse stato per la necessità di avere
una femmina nel letto, poteva dire ciò che voleva… ma se Elisabetta si fosse attenuta ai consigli
dell’abate Alberoni non avrebbe avuto nulla de temere.
Detto fatto, il primo atto di governo della nuova regina risale al giorno del suo arrivo in Spagna, il
23 dicembre 1714, e consistette nella cacciata dal reame, con effetto immediato, della più che
settantenne Madame des Ursins. Il secondo atto ebbe luogo il giorno successivo. Eccone il
resoconto fornito da Saint-Simon:

“La reine arriva d’apres-midi de la veille de Noël, à l’heure marquée, a Guadalajara, comme s’il
ne fût rien passé. Le roi de même la reçu à l’escalier, lui donna la main, et tout de suite la mena à
la chapelle, où le mariage fu aussitôt célébré de nouveau…, de là dans sa chambre, où sur-le-
champ se mirent au lit, avant six heures du soir pour se lever pour la messe de minuit”.

Il ricordo di Maria Luisa, che nel cuore del re aveva comiciato a impallidire il giorno stesso della
sua scomparsa, si dissolse fra le sei e mezzanotte del 24 dicembre 1714. In quelle sei ore, la novella
regina trasformò il talamo nuziale in uno spazio di scambio, fornendo al sovrano un anticipo di quel
do ut des che avrebbe regolato la loro vita durante i trentadue anni a venire. Quando giunse alla
messa al braccio di Filippo, Elisabetta aveva già conseguito la corona di Spagna, non a titolo di
consorte bensì in qualità di regnante.

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