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ANITA O’DAY
The VoCool Singer
Sara Gambaccini
Triennio Canto Jazz 2015/2016 Conservatorio Rossini Pesaro
1
CENNI BIOGRAFICI
Anita Belle Colton O'Day ( Chicago , 18 ottobre 1919 – Los Angeles , 23
novembre 2006 ), di origini irlandesi, è stata prima di tutto una ballerina e poi una
cantante: stava sul ritmo con la voce come Gene Kelly con i passi.
Scappò di casa adolescente per esibirsi come ballerina in maratone di danza dove
occasionalmente le chiedevano di cantare.
Una volta tornata a Chicago ottenne l’ingaggio per l’apertura del Jazz Club
OffBeat , dove in seguito conobbe Gene Krupa , che la volle subito nella sua band.
Per l’epoca fu una situazione un po’ controversa, perché le formazioni musicali
interrazziali erano davvero rare, e una cantante bianca che duettava con un
oy Eldrige rappresentava un tabù sociale1.
trombettista nero come R
Alla fine degli anni Quaranta, mentre frequentava il Club Starlite di Los
Angeles, incontrò il batterista John Poole . Il ritmo era essenziale per lei, quindi era
davvero molto esigente: in Poole non trovò solo un grande musicista, ma un degno
partner musicale con cui instaurare una collaborazione durata 32 anni.
Anita O'Day ha sofferto molto nella sua vita, ma molta di questa sofferenza è
stata autoinflitta. Raggiunge il suo apice artistico tra il 1950 e il 1960, con le incisioni
per la Verve e lo spettacolo “Jazz on a Summer Day”. Ma nello stesso periodo fa
anche un uso smodato di eroina, dopo essere già finita in prigione per possesso di
marijuana.
Nel 1966 va in overdose, e si disintossicò definitivamente in una struttura alle
Hawaii.
Muore a 87 anni, il 23 novembre del 2006 in un ospedale di Los Angeles, per
le complicazioni date da una brutta polmonite.
1
in “Let Me off Uptown” del 1942 vennero tagliate tutte le parti in cui i due interagiscono, per rendere il
video adatto alla visione nei cinema del Sud.
2
ANITA: LO STILE E IL RITMO
Nel corso del tempo Anita si lasciò affascinare dal Bebop, stile che la
solleticava forse più dello Swing. L’elasticità improvvisativa del Bebop fu il perfetto
veicolo per il suo stile di canto, e le permise nel tempo di diventare spiccatamente
ritmica, affinando il senso del fraseggio. Iniziò quindi a migliorare le sue capacità di
improvvisazione.
“Her uncanny sense of time is leading her into more complex and daring
improvisation in that area. And she is still going further and further out that limb of
harmonic improvisation, but with such assurance that the delight of a performance in
not whether she will land on her feet, but how she will land on her feet. Her style is
her own, practiced and polished through some 20 years of singing.”2
Anita dichiarò che la rescissione accidentale della sua ugola nel corso di una
tonsillectomia infantile la rese incapace di sostenere il vibrato e le frasi lunghe
(caratteristiche tipiche dello stile delle opera singers )3. Tale operazione eseguita in
modo maldestro la costrinse a sviluppare uno stile più percussivo basato su note
brevi e spinta ritmica: the thing that bugged me was that I couldn’t take more
because I had a very little tone. (....) When most people sing, they use the vibration
of the uvula to produce tone. (....) So I can’t get a sound with the air back there
because there is nothing to vibrate it. That’s the reason I got into singing eighth and
sixteenth rather than quarter note.4
Questo stile, nell’esecuzione dei brani, la portò a concentrarsi sulle sillabe e
sul loro potere ritmico, piuttosto che sul significato delle parole che compongono e
danno un senso al testo.5
Anita arrotonda le vocali, ammorbidendole, e allo stesso tempo ne approfitta
per giocare sulle dissonanze. Mentre le sillabe si arricchiscono di suoni nuovi, di “ d”,
2
All The Sad Young Man: Anita O’Day with Gary McFarland Orchestra Dom Cerulli Credit Quote.
3
Tuttavia, quando era vocalmente più in forma, poteva eseguire note lunghe con forti crescendo e un
vibrato prolungato, per esempio la sua versione live di "Sweet Georgia Brown".
4
High Times Hard Times O’Day/Eels (pag. 53)
5
Anita O’Day: The Voice Stylist Elisa Mini (pag. 34)
3
Un ottimo esempio di come Anita si serve del suo particolarissimo stile è il
brano “ Love Me or Leave Me ”, registrato a Chicago per la Verve Records il 31
Gennaio 1957.
"Love Me or Leave Me" è un brano scritto nel 1928 da Walter Donaldson con
le parole di Gus Kahn . Il brano fu presentato nello spettacolo di Broadway
Whoopee! , che debutto nel Dicembre del 1928.
Il pezzo, nello spettacolo, viene presentato come una una “torch song”6, una
sottocategoria delle ballad, e presenta già nella sua forma originale una precisa e
ben strutturata impronta ritmica: il tema, con l’alternarsi di ottaviquartiottavi sulle
parole love me or leave me , richiama alla mente lo stile charleston .
6
Sono brani tipici della tradizione americana, e raccontano di amori infelici, perduti, o non corrisposti. In
passato venivano spesso associati/interpretati da donne. Il termine deriva dal modo di dire "reggere il
moccolo a qualcuno" (in inglese appunto to carry a torch for someone ), o da "alimentare la fiamma di un
amore non corrisposto". (Wikipedia)
4
Nella versione di Anita troviamo un tema completamente modificato sin
dall’inizio, stravolgimento favorito dalla notevole velocità con cui il pezzo viene
eseguito (circa 208 bpm). In tutta l’esposizione del primo tema (tranne il bridge)
viene ribattuta quasi unicamente una sola nota, in un insieme di sincopi e di accenti
completamente spostati.
Nel bridge del brano originale possiamo notare una sorta di progressione di
terze minori (do/mib la/do sib/reb sol/sib) esplicitata da una figurazione ritmica
precisa e ricorrente che permette di scandire bene tutte le sillabe.
Mentre invece nella versione di Anita, nelle prime misure del bridge verranno
5
Tutto il nuovo tema quindi verrà allungato e le A di questo nuovo chorus avranno 4
misure in più rispetto all’esposizione precedente.
6
Prosegue quindi così, in un continuo rincorrersi tra voce e strumenti, dove Anita fa
“esperimenti” quasi pirotecnici con la sua grande abilità stilistica.
Ogni brano della vasta discografia della O’Day è proposto con questo stile di
ricostruzione ritmica. Tra i più famosi ricordiamo Sweet Georgia Brown e Tea for
Two del già citato spettacolo “Jazz on a Summer Day”7.
Lo stile di Anita era e rimarrà unico ed inimitabile, raggiunto grazie alla
volontà di non rispecchiare lo stereotipo della cantante decorativa delle big band8,
ma cercando di raggiungere vocalmente l’elasticità melodica ed armonica di uno
strumento musicale.
Quando tornò dalla sua riabilitazione era più in forma che mai, ma Elvis e i
Beatles stavano cambiando il mondo della musica, e di conseguenza quello
dell’audience riservata al jazz9. Nonostante ciò Anita non smise mai di cantare jazz,
riproponendo i suoi cavalli di battaglia sempre esattamente allo stesso modo. Era
un’intrattenitrice oltre che una musicista, teneva molto alla resa di ogni spettacolo e
non lasciava mai nulla al caso.
Ritmo e improvvisazione sono stati per lei certezza e rifugio, e le hanno
permesso di scolpire un monumento al jazz, che rimarrà eterno:
(...) I still feel most confortable when I’m up there improvising, whether in the
living room of a friend or the Venetian Room of the Fairmont. What goes around
comes around. Life continues to be a series of gigs, which is just the way I want it to
be.
It’s a whole different world when the music stops.10
7
“Jazz on a Summer’s Day” è il titolo del film/documentario diretto da Bert Stern, girato nel 1958
durante il Newport Jazz Festival di Rhode Island, distribuito poi nel 1960.
8
Letteralmente “canaries”: erano le cantanti che accompagnavano le big band durante la Swing Era
(19301940). Veniva loro richiesto di essere seducenti e ammiccanti, per attirare clientela.
9
High Times Hard Times O’Day/Eels introduzione di Harry Reasoner pag 12
10
High Times Hard Times O’Day/Eels pag 300
7
CONCLUSIONE
Durante una piccola ricerca personale sul brano “Four Brothers” di Jimmy Giuffre mi capitò davanti
questo video, un live a Tokyo del 1963, con Anita O’Day alla voce. La prima cosa ad incantarmi furono
i suoi movimenti: come un direttore d’orchestra scandiva non solo il beat, ma anche gli interventi di tutti
i musicisti.
Inevitabile la rivelazione immediatamente successiva: prima ancora che con il corpo, “raccontava” il
ritmo con la voce, con un modo straordinario e per me del tutto nuovo.
Da quel momento ho cominciato a cercare, di ogni standard conosciuto o meno, la sua versione. Ad
ogni nuovo ascolto c’è sempre nuovo stupore: la sua voce a tratti così roca e il suo modo di stare sul
tempo mi hanno totalmente conquistata.
In ogni esecuzione è come se le parole, nel brano, perdessero di significato, per essere usate da Anita
come un batterista usa le bacchette: ritmo.
Il ritmo è qualcosa di bellissimo e istintivo, ma parlare di ritmo è difficile senza le competenze giuste,
senza una più che solida base di solfeggio e una buona conoscenza delle figure ritmiche. Mi capita
spesso di riuscire a cantare con “l’orecchio” cose che non sono ancora in grado di leggere con
“l’occhio”.
FONTI:
Anita O’Day: The Voice Stylist Elisa Mini
High Times Hard Times O’Day/Eels (Limelight Edition)
http://www.npr.org/programs/jazzprofiles/archive/o'day_a.html ( Jazz Profiles from NPR)
http://articles.philly.com/19891026/entertainment/26120559_1_hightimeshardtimesjazzsi
ngeranitaodaygenekrupa ( A Mellow Time for Jazz Singer Anita O’Day F
rancis Davis )
Ringrazio tantissimo Elisa Mini, Letizia Rossi e Fabio Giraldi per l’aiuto durante
l’elaborazione di questa breve tesina.