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L’intelligenza
Teorie e modelli
Storia e metodi
Gli studi di Galton (1822 – 1911) rappresentano il primo tentativo di misurazione delle
capacità intellettive. Egli è un precursore non solo nell’applicazione delle scale di valutazione e
dei questionari, ma anche nell’elaborazione di metodi statistici per l’analisi delle differenze
individuali e per la verifica delle ipotesi.
A lui si devono, ad esempio, sia l’intuizione secondo cui molte delle caratteristiche osservate su
una popolazione di individui hanno una distribuzione di frequenza simile a quella della curva di
Gauss, sia l’elaborazione del ben noto indice di correlazione statistica.
Proprio grazie all’applicazione dei suddetti principi statistici, egli arriva alla conclusione che
anche l’intelligenza rappresenta una dimensione assolutamente ereditaria.
Dai propri studi sull’intelligenza Galton ricava, infine, una scala a sette intervalli che
classifica gli esseri umani secondo le loro capacità (da A, appena superiore alla media, a G,
genio).
Inoltre lo studioso ha previsto anche un ulteriore livello, chiamato “X”, che comprende individui
talmente intelligenti da non poter essere inclusi in nessuna delle sette classi precedentemente
previste.
Egli pose l’accento sulle differenze individuali, perché queste mostrano la variazione che
già esiste e quindi forniscono la possibilità della selezione intelligente del più adatto.
Alfred Binet
Binet (1857 – 1911) si pone l’obiettivo di studiare i processi complessi, quali ad esempio la
memoria, immaginazione, attenzione, comprensione.
Le autorità scolastiche di Parigi incaricarono infatti Binet di elaborare uno strumento in grado di
individuare studenti con difficoltà, al fine di mettere a punto programmi di insegnamento
differenziali.
Ciò che dunque viene chiesto a Binet è la costruzione di uno strumento capace di predire le
abilità e le eventuali difficoltà scolastiche.
Binet preferiva condurre i suoi studi su pochi soggetti, distinti per classi di età, al fine di
ottenerne una stima delle capacità riconducibili a livelli differenti.
Binet e il suo collaboratore Simon giungono alla prima stesura della famosa Scala metrica per
la valutazione dell’intelligenza dopo un paziente lavoro di selezione e di analisi di una
molteplicità di risposte. Compiti appartenenti ad ambiti diversi venivano somministrati a
studenti di età differente, per poi confrontare i risultati ottenuti con il loro profilo scolastico.
La Scala si compone di 30 brevi compiti, disposti in ordine crescente di difficoltà e organizzati
secondo livelli di complessità differente. Ogni livello infatti, si caratterizza per funzioni e abilità
specifiche.
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L’obiettivo di Binet in questo suo primo tentativo di misurazione è quello di creare uno
strumento in grado di prevedere le abilità intellettive in bambini fra i 3 e i 12 anni.
Le prove che compongono la Scala si differenziano, oltre che per livelli anche per domini. A tale
proposito, il livello inferiore della scala (3 anni) è caratterizzato da compiti di matrice
essenzialmente sensoriale (misura delle differenze anatomico - sensoriali o ai tempi di
reazione – allo scopo di stimare le capacità intellettive, la memoria o l’attenzione).
Le prove sensoriali che indagano i processi mentali complessi sono presenti invece, nei
livelli superiori della Scala. Si tratta di prove che esplorano le capacità percettive e
attentive, coinvolgendo, al contempo, la funzione di giudizio e la riflessione.
Tuttavia, nella concezione di Binet l’intelligenza non è solo legata agli aspetti sensoriali, e per
questo inserisce anche compiti legati ai processi psichici superiori come: definizione verbale di
oggetti conosciuti; definizione di termini astratti etc.
Tra le funzioni intellettuali considerate da Binet, quella relativa al giudizio occupa un ruolo
centrale.
La funzione di giudizio equivale alla capacità di ragionare in maniera logica e coerente,
cioè di derivare, da determinate premesse, conclusioni corrette.
Il giudizio può essere identificato con il buon senso, l’iniziativa, la capacità di adattarsi, il senso
pratico, tutto ciò che insomma risulta utile nella vita quotidiana.
Nel 1908 viene presentata una nuova versione della Scala metrica, composta da 57 prove
e rivolta a soggetti di età compresa tra i 3 e i 12 anni. I compiti sono ordinati sempre per
difficoltà crescente.
La nuova Scala contiene prove nuove che riguardano domini prima trascurati:
a) L’intelligenza pura e semplice: ordinamento dei pesi; definizioni superiori all’uso;
interpretazioni di illustrazioni)
b) Le acquisizioni extra-scolastiche possibili in anticipo: nominare quattro colori, elencare i
giorni della settimana e i mesi dell’anno;
c) Le acquisizioni scolastiche: contare a ritroso da 20 a 0;
d) Le acquisizioni relative al linguaggio e al vocabolario: definizione verbale di oggetti
conosciuti, definizione di termini astratti quali carità, bontà, e giustizia.
Questa Scala viene somministrata a 273 bambini di età compresa tra i 3 e i 13 anni. Ciò
consente a Binet di rilevare l’esistenza di una grande variabilità nelle prestazioni dei bambini
appartenenti alla stessa età: alcuni bambini sono in anticipo, altri in ritardo, altri regolari.
Secondo Binet la misurazione delle prestazioni intellettive deve avvenire nel seguente
modo:
“un soggetto ha lo sviluppo intellettuale dell’età più elevata in corrispondenza della quale ha
superato tutte le prove, con la tolleranza di un insuccesso in una delle prove di questa età […]
Una volta che il livello intellettuale di un soggetto sia stabilito, lo si fa beneficiare di un
avanzamento di un anno tutte le volte che ha eseguito almeno 5 prove superiori al suo livello,
e lo si fa beneficiare di un avanzamento di 2 anni, se egli ha eseguito almeno 10 prove
superiori al suo livello […] impiegando questo procedimento, si arriva a classificare in maniera
soddisfacente quasi tutti i bambini”.
Nel 1911 si arriva alla pubblicazione dell’ultima revisione della Scala. In questa nuova
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versione, ciascun livello contiene lo stesso numero di prove (5); vengono inoltre eliminati o
modificati alcuni compiti. Consente, inoltre, di estendere la misurazione dell’intelligenza anche
agli adulti.
Secondo Binet una prova deve essere risolvibile per buona parte dei bambini di una
determinata età, ma non per tutti; deve essere inoltre risolvibile per un numero esiguo di
bambini più piccoli e, viceversa, facilmente risolvibile per la gran parte di bambini più grandi.
Binet ritiene estremamente arduo ricondurre a unità misurabili le abilità intellettive. Egli infatti
afferma che “la Scala permette non propriamente di parlare di misurazione delle intelligenze –
poiché le qualità intellettuali non si misurano come delle lunghezze, esse non sono
sovrapponibili – ma di una classificazione, una gerarchizzazione tra intelligenze diverse; e per i
bisogni della pratica tale classificazione equivale ad una misura”.
La Scala metrica per la valutazione dell’intelligenza assume il formato tipico dei testi
psicometrici con il nome di Stanford-Binet a partire dal 1916.
Terman, nel tentativo di adattare la Scala alla popolazione americana, modifica lo strumento
sia per quanto riguarda la sua standardizzazione, che conduce su più di mille soggetti, sia per
quanto attiene al numero delle prove (90).
Il concetto di livello, introdotto da Binet, viene ora sostituito da quello di QI, concetto
formulato originariamente dallo psicologo tedesco Stern nel 1914.
Il QI è comunemente definito come il rapporto tra età mentale ed età cronologica,
moltiplicato per 100. Più specificamente il QI è il rapporto tra il punteggio ottenuto da un
individuo in un dato test di intelligenza e il punteggio che un individuo medio della sua età
ottiene in quello stesso test. Esso consente quindi di specificare quel è l’esatta collocazione di
un individuo rispetto ai soggetti della sua stessa età.
Oggi però il semplice concetto di QI, come rapporto di età, è ampiamente superato e sostituito
dal QI deviazione, calcolato in termini di deviazione standard dalla media, introdotto da
Wechsler (1896-1981).
La scala Wechsler differisce dalla scala Stanford-Binet per la sua struttura di base. Essa si
compone di 11 subtest differenti. I primi sei consentono di ottenere un QI verbale, i rimanenti
cinque consento invece di ottenere un QI di performance o di esecuzione.
La Scala Wechsler – Bellevue viene sottoposta a una prima revisione nel 1955.
Successivamente l’autore avvia una radicale revisione dello strumento che si conclude con la
presentazione della nuova Wechsler Adult Intelligence Scale-Revisited (WAIS-R) nel 1981.
Le scale Wechsler vengono attualmente utilizzate anche quale strumento di ausilio alla
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In una prima fase Spearman (1863-1945) ha elaborato una teoria basata su una
concezione unidimensionale dell’intelligenza, a fondamento della quale pone le leggi
neogenetiche, considerate direttamente responsabili della creazione di contenuti mentali
sempre nuovi ed originali.
Solamente nel 1904 lo studioso formula l’ipotesi secondo cui nella mente esiste una
intelligenza generale.
A partire da tale ipotesi, Spearman elabora la teoria bi fattoriale per cui in qualsiasi
prestazione cognitiva intervengono due fattori indipendenti tra loro: il fattore g e il fattore s.
Il primo interviene in tutte le più diverse prestazioni cognitive; il secondo è, invece, specifico di
una particolare prestazione cognitiva. La performance di un soggetto in uno specifico test
d’intelligenza è data, quindi, dal contemporaneo intervento di una capacità generale e di una
attitudine mentale specifica.
Spearman, nel mettere a punto la teoria bi fattoriale, si basa sui risultati di una ricerca
elaborati mediante una procedura statistica da lui stesso messa a punto: l’analisi fattoriale.
Tale analisi permette infatti di valutare la massima variabilità all’interno di una larga batteria di
test nei termini di un numero minimo di abilità o fattori primari.
In altre parole, tale analisi consente di ricondurre a un numero ridotto di variabili o fattori i
tratti misurati da un test, per i quali gli individui si differenziano l’uno dall’altro.
Tuttavia negli anni successivi Spearman approda a una revisione della teoria originaria. Il venir
fuori di una pluralità di variabili difficilmente identificabili e tra loro indipendenti lo porta a
riconsiderare l’incidenza dei vari fattori s e ad ampliare la propria teoria, riconoscendo accanto
al fattore g l’esistenza di fattori di gruppo tra loro legati da caratteristiche comuni.
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• Vernon: propone una teoria in cui i vari fattori di gruppo vengono ordinati
gerarchicamente in relazione alla loro maggiore o minore estensione.
Riprendendo l’idea di Spearman secondo cui la maggior parte della varianza nei test
dell’intelligenza è attribuibile a un fattore generale, Vernon pone il fattore g alla
sommità della gerarchia, facendolo seguire, al gradino immediatamente inferiore, da
due fattori di gruppo: il fattore v:ed, riferibile alle abilità di tipo verbale e numerico
influenzate dall’educazione e dall’istruzione, ed il fattore k:m, riferibile alle abilità di
tipo pratico, meccanico spaziale e fisico.
Al di sotto del fattore v:ed vengono collocati i fattori verbali e numerici, al di sotto del
fattore k:m i fattori spaziali, manuali e di informazione meccanica.
• Cattell: la teoria fattoriale dell’intelligenza elaborata negli anni ’40 propone una
distinzione tra intelligenza fluida (gf) e intelligenza cristallizzata (gc). La prima
rappresenta la capacità biologica di base di un individuo, una sorta di pura
potenzialità cognitiva, ereditabile, che raggiunge l’apice del suo sviluppo a 14 anni e che
comincia a declinare verso i 20 anni; la seconda è, invece, direttamente influenzata
dall’educazione e dall’istruzione ricevuta dai soggetti. Il suo sviluppo va avanti fino ai 40
anni.
Secondo Cattell i due tipi di intelligenza non sono indipendenti, ma correlati tra di loro:
l’intelligenza fluida può influenza l’intelligenza cristallizzata, ma non è ipotizzabile il
contrario.
• Guilford: elabora una teoria nella quale il fattore g viene del tutto abbandonato. Egli
ipotizza una struttura dell’intelletto estremamente variegata, caratterizzata da un
numero davvero ampio di abilità mentali. Nel suo modello ipotizza l’esistenza di 120
fattori di base o abilità primarie.
Egli considera la struttura dell’intelletto come il prodotto dell’interazione di tre processi
di base dalla cui combinazione deriverebbero le diverse abilità.
Piaget (1896-1980) propone quale obiettivo primario l’esame della natura dello sviluppo del
comportamento intelligente. Egli guarda allo sviluppo dell’intelligenza come una successione
ordinata di stadi. Ritiene infatti che la costruzione delle strutture cognitive sia subordinata a
uno sviluppo stadiale delle stesse.
Inoltre lo sviluppo cognitivo è anche gerarchicamente organizzato: le strutture che definiscono
ogni stadio sono legate alle strutture dello stadio precedente da vincoli d’incorporazione o
d’integrazione.
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b) Stadio pre-operatorio: (2-7 anni) consentono lo sviluppo della funzione simbolica, che
permette di indicare oggetti ed eventi con simboli e segni.
In questa fase il bambino ha la possibilità di operare non solo grazie ad azioni fisiche,
ma anche attraverso la manipolazione simbolica di azioni rappresentate
mentalmente e non ancora compiute.
c) Stadio operatorio concreto: (7-11 anni) le rappresentazioni mentali delle azioni vengono
sostituite con le operazioni cognitive: si costituiscono cioè le operazioni logiche.
d) Stadio operatorio formale: (11-15 anni) è quello in cui si assiste a una nuova e
definitiva riorganizzazione. È in questo stadio che l’adolescente comincia a trattare
efficacemente non solo la realtà che gli sta di fronte, ma anche il mondo delle
possibilità, ovvero il mondo delle proposizioni, del “come se”.
L’adolescente sviluppa il pensiero ipotetico - deduttivo.
Il focus del lavoro di Piaget fu lo studio degli errori e delle anomalie che si manifestano in
maniera sistematica nei giudizi espressi dai bambini.
Per circa due anni, lo studioso ginevrino analizza il ragionamento dei bambini, presentando
loro varie domande e proponendo compiti implicanti semplici relazioni logico-verbali. Ciò gli
permise di notare tra l’altro le difficoltà incontrate dai soggetti anche nei più semplici compiti
relazionali, i quali richiedono di “concatenare le proprie frasi in maniera che ciascuna contenga
la ragione di quella che la segue e sia essa stessa dimostrata da quella che la precede”.
Piaget così avanza l’ipotesi che il pensiero e il linguaggio infantili siano intrinsecamente
caratterizzati da egocentrismo e sincretismo.
Per egocentrismo si intende l’incapacità del bambino di riconoscere il suo punto di vista come
momentaneo e facente parte di un più grande insieme di punti di vista.
Mentre per sincretismo si intende ad esempio quel processo per il quale il bambino fonde in
maniera incongrua due proposizioni in uno schema comune.
Ben presto lo studioso ginevrino si rende conto che affidarsi al semplice resoconto verbale del
bambino non è sufficiente, perché non coglie importanti aspetti della sua attività cognitiva.
Così a partire dal 1925, anno di nascita della prima figlia, Piaget delinea un nuovo peculiare
metodo di lavoro, noto come osservazione quasi - sperimentale, le cui caratteristiche sono:
1) L’osservazione è guidata da un corpus di ipotesi;
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Longeot (1968) pone il problema di derivare dalle ricerche piagetiane nuovi criteri di indagine
dei processi operatori, per determinare le differenze qualitative nelle prestazioni intellettive
degli individui. Egli ripropone alcuni dei compiti piagetiani sotto forma di “Scale genetiche
dell’intelligenza”.
L’esame operatorio dell’intelligenza acquista così le caratteristiche di obiettività e
standardizzazione proprie degli strumenti psicometrici, pur mantenendo il carattere qualitativo:
oltre al conteggio delle risposte, tiene conto dei percorsi che ogni soggetto segue nel costruire i
propri processi di ragionamento.
Per privilegiare l’esame dei percorsi evolutivi individuali, Longeot riformula il concetto di
decalage introdotto da Piaget. Questi parlava di decalage per spiegare e descrivere alcune
sfasature che si presentano in maniera ricorrente nell’ontogenesi dell’intelligenza. Lo studioso
distingueva tra:
1) Decalage orizzontali: si riferisce all’osservazione secondo cui un soggetto che ha
acquisito una determinata competenza operatoria non è capace di risolvere tutti i
compiti ad essa riferibili.
2) Decalage verticali: riguardano invece nozioni che, una volta costituitesi nel corso di un
certo stadio, si ripresentano in quello successivo. Si consideri la nozione di spazio: essa
si struttura dapprima al livello delle condotte senso-motorie come gruppo pratico, per
riproporsi alcuni anni dopo sul piano simbolico – rappresentativo.
Longeot riconduce i decalage verticali all’osservazione secondo cui non solo i soggetti di
età differente, ma anche quelli della stessa età possono trovarsi in stadi operatori
differenti.
I decalage orizzontali sono invece considerati da Longeot espressione della variabilità
manifestata dai soggetti che appartengono allo stesso stadio. Tale variabilità è legata alla
possibilità dei soggetti di accedere al medesimo stadio attraverso differenti percorsi, prima
di acquisire in maniera stabile e omogenea tutte le strutture caratteristiche dello stesso
stadio.
Con Longeot le prestazioni del soggetto vengono ora valutate in base a un doppio
criterio:
a) Analisi inter-stadio, che identifica il livello operatorio raggiunto;
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b) Analisi intra-stadio, che identifica le specifiche acquisizioni regionali degli individui che
appartengono allo stesso stadio.
Così nel 1969 Longeot mette a punto l’Echelle de la pensee logique (EPL), finalizzata
alla valutazione delle competenze operatorie in ambito scolastico, nella fascia di età
compresa dai 9 ai 16 anni.
La Scala è costituita da 22 prove suddivise in 5 differenti domini che sono:
1) Conservazione delle quantità fisiche: il soggetto deve dire se la quantità e/o il peso di
due palline di plastilina uguali rimangono invariati o meno. Il confronto fra
l’innalzamento del livello dell’acqua prodotto da una pallina di metallo e da una di
plastilina verifica la capacità del soggetto di dissociare il peso dal volume.
3) Operazioni di proporzionalità: la logica della probabilità, che è alla base delle operazioni
di proporzionalità, permette al soggetto di desumere i casi che si realizzeranno
realmente partendo dall’insieme dei casi possibili.
4) Logica delle proposizioni: la logica delle proposizioni è rappresentata da una sola prova
che mette in gioco la capacità dell’adolescente di utilizzare spontaneamente il metodo
sperimentale: le oscillazioni del pendolo.
Il soggetto deve scoprire quale fattore (peso, lunghezza della corda, altezza del lancio,
spinta) modifica la frequenza di oscillazione di un pendolo, eliminando sistematicamente
i fattori ininfluenti.
La strategia tipica del pensiero proposizionale fa quindi variare un solo fattore per volta,
mantenendo gli altri costanti, per constatarne l’effetto.
Longeot con la sua Scala arriva alla conclusione che il superamento di un compito più
difficile implica necessariamente le risoluzione di tutti i compiti più semplici.
Egli infatti postula l’esistenza di una gerarchia fra i compiti di stadi operatori differenti. La
stessa gerarchia non è invece concepibile all’interno dello stesso stadio.
In pratica, l’ordine inter-stadio non deve mai essere violato dai soggetti, a differenza di
quanto si verifica a livello intra-stadiale; il costituirsi dello stadio è cioè caratterizzato
dalla massima eterogeneità, ossia da una molteplicità di possibili vie di accesso.
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Le domande che Sternberg si pone sono: “Come il soggetto processa l’informazione? Come un
tutto, o attraverso una molteplicità di processi?”
Egli quindi si propone di analizzare l’intelligenza in termini di componenti, anziché di
fattori, poiché il termine fattore implica una dimensione strutturale dell’intelligenza, quindi,
aspetti quantitativi, ma a Sternberg non interessano solo gli aspetti quantitativi.
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inoltre, mentre le abilità accademiche sono viste come necessarie ma non sufficienti,
Sternberg dà molta importanza all’aspetto della creatività individuale, che per tanto tempo
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L’aspetto più interessante della Successfull Intelligence è per Sternberg il fatto che la S.I.
può essere insegnata:
• per ciò che attiene la capacità di pensare in maniera creativa, agli studenti va
insegnato di:
L’idea secondo cui l’intelligenza non è identificabile con un unico fattore è anche alla base di
una delle concezioni attualmente più accreditate dei processi cognitivi: la teoria delle
intelligenze multiple di Gardner (1983).
Essa ipotizza che l’intelligenza umana si compone di un certo numero di facoltà mentali
relativamente autonome tra loro, ciascuna dipendente da una differente area del
cervello.
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In questa teoria Gardner viene ispirato dalla concezione frenologica del XIX secolo e si può
sostenere un anticipatore dei lavori di Paul Broca sulla localizzazione emisferica di specifiche
capacità mentali.
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Attraverso questi otto criteri, Gardner arriva ad individuare nel 1983 sette distinte
intelligenze, portate a otto nel 1995:
2) Spaziale: abilità di riconoscere gli oggetti nonché di analizzare le loro diverse relazioni
spaziali e di produrre rappresentazioni visive indipendentemente dalla presenza di
stimoli fisici.
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lobi frontali. Lesioni a carico di tali aree determinano infatti gravi alterazioni nella
struttura della personalità di un individuo.
La teoria delle intelligenze multiple suggerisce una importante considerazione, e cioè che ogni
essere umano presenta, seppur in gradazione diversa, tutte le forme di intelligenza
fin qui postulate.
Inoltre nei suoi ultimi lavori, Gardner ha sviluppato un crescente interesse per l’educazione
scolastica, che ha suo parere non consente lo sviluppo delle potenzialità individuali,
concentrando unicamente il proprio interesse sulle abilità logico-linguistiche.
Genetica e comportamento
Intelligenza: eredità o ambiente?
Uno dei temi che maggiormente hanno animato il dibattito tra gli studiosi dell’intelligenza è
quello del ruolo giocato, sulle prestazioni intellettive, rispettivamente dal patrimonio genetico e
dall’ambiente.
I ricercatori si sono schierati su due posizioni sostanzialmente contrapposte: la prima considera
determinante il ruolo dei geni; l’altra guarda all’ambiente e agli stimoli che esso fornisce,
riconoscendo a questi ultimi un ruolo determinante.
Tuttavia, il vero problema è comprendere come geni e ambiente interagiscono.
È stato infatti dimostrato che se un carattere o fenotipo è geneticamente determinato al
100%m esso può essere influenzato e modificato da variabili ambientali.
Eysenck a tale proposito, fa riferimento a quanto osservato nei conigli himalaiani che, se
allevati nel loro contesto naturale, hanno il corpo bianco e i piedi neri, se allevati invece in una
gabbia riscaldata non presentano più alcuna traccia del colore nero, pur essendo
geneticamente identici ai primi.
Si può affermare che ogni carattere è in origine sia ereditario che ambientalistico. Il
genotipo determina le potenzialità di un organismo. L’ambiente determina quali o
quante potenzialità si concreteranno durante lo sviluppo.
Il vero problema consiste nello stabilire in che misura la variabilità fenotipica è conseguenza
del genoma e/o dell’ambiente.
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Fino agli anni ’40 la posizione dominante si ispirava alla teoria dell’ereditarietà.
Morgan ad esempio affermava, con il suo principio di economia, che nessun fenomeno deve
essere spiegato facendo ricorso a meccanismi psichici superiori quando è possibile riferirsi a
meccanismi psichici inferiori.
Inoltre la teoria darwiniana poneva a fondamento dell’evoluzione della specie il meccanismo
dell’ereditarietà, attraverso il fenomeno della selezione naturale.
Nel 1942 Tryon fornisce una delle prime dimostrazioni empiriche della ereditabilità
dell’intelligenza, grazie a uno studio condotto su una popolazione di ratti.
Dopo aver distinto gli animali in intelligenti e ottusi sulla base della loro abilità nell’uscire da un
labirinto, ha accoppiato le femmine ottuse con i maschi ottusi, facendo lo stesso per femmine e
maschi intelligenti. Gli incroci gli hanno consentito di osservare, già a partire dalla settima
generazione, una netta differenza nelle prestazioni dei due gruppi di ratti. Egli conclude
dunque che la capacità di soluzione di quello specifico problema è ereditabile. A ulteriore
conferma, ha adottato la procedura di “scambio di covata”: una madre ottusa allevava un ratto
intelligente e viceversa.
In linea con quanto ipotizzato dall’autore, i risultati hanno mostrato che i ratti del gruppo
ottuso continuavano a commettere un maggio numero di errori, rispetto a quanti ne
commetteva il gruppo dei ratti intelligenti, indipendentemente dal contesto in cui erano stati
allevati.
La nascita della psicometria e l’elaborazione dei primi test di intelligenza rafforzano
ulteriormente le convinzioni degli ereditaristi.
L’uso delle procedure statistiche consente inoltre agli studiosi di prevedere in che misura un
determinato carattere sia trasmissibile geneticamente.
Secondo Vernon (1950) i fattori ereditari determinano il 64% della varianza, le differenze
interfamiliari il 16%, le differenze intrafamiliari il 3%, la correlazione tra eredità e ambiente il
17%.
Mentre Jensen (1972) ascrive ai fattori ereditari l’85% della varianza, mentre ai fattori
ambientali appena il 10%. L’autore ritiene inoltre, che il 5% sia dovuto ad errori di misurazione
dei test.
Una serie di studi tra cui quello sui gemelli monozigoti, allevati in ambienti differenti ha
mostrato l’esistenza di una significativa correlazione tra i QI di questi ultimi, confermando in
tal modo le ipotesi alla base della teoria dell’ereditarietà dell’intelligenza.
Ad esempio, Burt (1966) studia 53 coppie di gemelli cresciuti in ambienti diversi, constatando
l’esistenza di altissime correlazioni tra i loro QI.
Bouchard e colleghi (1990) hanno condotto uno dei più ampi studi sui gemelli monozigoti
separati alla nascita, il cosiddetto Minnesota Twin Study, che ha portato a stimare un grado di
correlazione tra i QI pari a 0,70.
I gemelli partecipanti a questo studio erano stati, infatti, separati nelle prime settimane di
vista e non avevano mai avuto contatti fino al momento in cui la ricerca li aveva riuniti.
Sempre allo scopo di stimare il ruolo delle variabili genetiche nella determinazione del QI, altri
studi hanno confrontato i QI di gemelli monozigoti ed eterozigoti, cresciuti nello stesso
ambiente.
L’ipotesi alla base di tali ricerche è che i QI dei gemelli monozigoti correlano maggiormente.
Altri studi riguardano le correlazioni tra i QI di genitori e figli biologici e i QI di genitori e figli
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adottati, con l’intento di verificare l’ipotesi che il sussistere di un legame biologico determini un
coefficiente di correlazione più elevato, come già dimostrato da alcune vecchie ricerche.
In particolare, alcuni studi evidenziano che i QI dei bambini adottati correlano in maniera
significativa solo con quello dei loro genitori naturali.
Altri studi (visione ambientalista) sono stati condotti, in particolare su un gruppo di 100
bambini adottati, da Skodak e Skeels. Essi registrano un QI medio di 117, mentre il QI delle
madri naturali è di 87. I bambini adottati presentano inoltre, un QI medio superiore alla
norma, anche quando i loro genitori biologici ottengono QI molto bassi.
Inoltre, a ulteriore riprova del ruolo giocato dall’ambiente, una recente ricerca condotta da
Flyn, ha riscontrato nell’ultima generazione un aumento significativo nei punteggi del QI nel
mondo, attribuibile, secondo lo studioso alle diverse e più favorevoli condizioni ambientali.
Nel complesso questi dati confermerebbero il peso giocato dall’ambiente nello sviluppo
dell’intelligenza, ponendo in secondo piano i fattori ereditari.
Ci sembra dunque possibile affermare che tutti gli studi finora citati non solo hanno fallito nel
loro tentativo di dimostrare in maniera rigorosamente sperimentale l’influenza dei fattori
genetici nello sviluppo dell’intelligenza, ma, in alcuni casi, sono stati addirittura reinterpretati
come prova della preminenza dei fattori ambientali.
Benché James Watson, studioso a cui si deve la scoperta della struttura del DNA, ritenga la
“stupidità” una condizione genetica, eliminabile mediante tecniche di ingegneria genetica, la
ricerca di singoli geni dell’intelligenza è ancora ben lontana dall’aver prodotto risultati condivisi
e suffragati da dati sperimentali certi.
Allo stato attuale, per quanto riguarda le capacità intellettive, la ricerca ha evidenziato
l’esistenza di mutazioni in singoli geni, responsabili di deficit cognitivi, ma non in grado di
spiegare le differenze individuali nell’intelligenza.
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Al momento diverse sono le teorie formulate dagli studiosi per cercare di spiegare la variabilità
dell’intelligenza umana. Ipotesi recentissime attribuirebbero tale variabilità a proprietà
biologiche dell’intero cervello e non al funzionamento di sue aree specifiche.
Secondo l’ipotesi della regolazione neurale di Haier, la quantità dei collegamenti
sinaptici determinerebbe gran parte delle differenze individuali nell’intelligenza.
Secondo questa ipotesi, più sono gli stimoli ambientali, più aumenta il numero di connessioni
sinaptiche.
Secondo Miller, è invece il grado di mielinizzazione degli assoni, lungo cui si effettua la
trasmissione dell’informazione neurale, a determinare lo sviluppo delle capacità intellettive.
Il maggior isolamento degli assoni, dovuto alla guaina mielinica, produce una minore
interferenza fra le informazioni trasmesse per via neurale, determinano minori perdite a livello
energetico e minori errori di trasmissione.
Inoltre, la mielinizzazione degli assoni, che si realizza nella prima infanzia, tende a ridursi in
età avanzata.
L’affermarsi dell’Intelligenza Artificiale (IA) è stata senza alcun dubbio favorita dai contributi
provenienti da settori disciplinari anche distanti dall’indagine psicologica.
• Già gli atomisti (Leucippo, Democrito, Epicuro) affermavano che i vari processi mentali
derivano dall’attività caotica degli atomi in continuo movimento all’interno del cranio.
Tale concetto viene ripreso da Hobbes nel Leviatano: “il movimento è il principio
universale di spiegazione di ogni accadere”; “dal movimento si genera tutto”.
• Per Aristotele ogni realtà è costituita dalla sintesi, sinolo, di materia e forma. Questo
sinolo è la vera sostanza, poiché né la materia in quanto tale, cioè priva di ogni
determinazione, né la forma fuori dalla realizzazione della materia possono sussistere.
Tra “forma” e “materia” esiste un rapporto necessario.
• Pascal evidenzia come la scienza presenti dei limiti strutturali, in grado di invalidarne i
risultati.
Il primo limite della scienza è per Pascal l’esperienza e successivamente l’indagine dei
problemi esistenziali.
• Kant precisa che sensibilità ed intelletto sono entrambi indispensabili alla conoscenza: “i
pensieri senza contenuto, senza intuizioni sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono
cieche”.
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tematizzazione della logica o di logicizzazione della matematica che tanta parte avrà
nella nascita dei presupposti dell’IA.
• Hobbes, ad esempio, ritiene che i fenomeno vadano sempre ricondotto alle loro cause
matematiche, che non sono estranee al nostro pensiero, ma costruibili
matematicamente anche indipendentemente dall’esistenza degli oggetti.
L’attività cognitiva viene cosi rappresentata come una complessa forma di calcolo
computazionale, dipendente dalla realtà fisica.
È dunque evidente l’influenza che Hobbes eserciterà sulla nascita dell’IA, le cui
premesse concettuali risiedono nella concezione dei processi mentali come prestazioni
di calcolo aventi natura strettamente formale.
La matematica computazionale e la logica sono le principali aree sulle quali si fonda l’IA.
Così, il fenomeno da studiare viene sostituito da un modello matematico, la cui soluzione ne
descrive in modo più o meno adeguato l’evoluzione, mentre l’analisi del modello permette di
ricavare le informazioni cercate senza dover effettivamente riprodurre il fenomeno nella realtà.
La scienza del calcolo consente in tal modo di schematizzare la risoluzione di un qualsiasi
problema della realtà fisica, poiché mediante l’introduzione di un modello matematico e la
scelta di un algoritmo diventa possibile analizzare e comprendere realtà complesse.
Tuttavia Godel con il suo teorema di incompletezza dimostrerà che nessuna teoria che sia
consistente può anche essere completa, nel senso di poter dimostrare tutte le verità
matematiche esprimibili nel suo linguaggio e una delle verità che essa non può dimostrare è
precisamente la propria consistenza.
Si sancisce in tal modo l’impossibilità di trovare algoritmi in grado di stabilire la verità
assoluta di ogni enunciato.
L’intelligenza Artificiale
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Come abbiamo prima detto, Turin appare la figura cardine nello sviluppo dell’IA poiché per
primo ipotizza che l’attività della mente può essere paragonata al funzionamento di un
calcolatore.
Tuttavia la morte precoce impedisce al giovane Turing di assistere alla formalizzazione teorica
della disciplina che egli stesse aveva contribuito a far nascere.
Saranno Newell, fisico, e Simon, economista, a proseguire i suoi studi e grazie
all’introduzione della nozione di euristica daranno nuovi e stimolanti impulsi alle ricerche
sull’IA.
Gli studiosi mettono a punto un programma, General Problem Solver (GPS), che graazie a una
serie molto complessa di regole e di procedure è in grado di risolvere un elebato numero di
problemi logico-matematici.
Il GPS può essere considerato il ptimo programma ispirato a una simulazione reale dei processi
mentali coinvolti nella risoluzione di un problema.
L’idea di fondo da cui gli autori partono si basa sull’ipotesi che, nel proceso di risoluzione di un
problema, gli individui esplorino nella loro mente vari stati di conoscenza che, partendo da uno
stato iniziale, attraverso stati intermedi, portano allo stato finale. Il passaggio nei vari
sottostati è regolare dalle strategie euristiche, volte a ridurre il numero degli stati intermedi.
Mediante l’analisi mezzi-fine, la situazione di partenza viene confrontata con l’obiettivo; dopo
aver rilevato una eventuale differenza fra la situazione presente e quella desiderata vengono
attivate le operazioni necessarie per ridurre la differenza.
Le euristiche si contrappongono agli algoritmi poiché, a differenza di questi ultimi, che
richiedono tempi di soluzione talvolta estremamente lunghi, rappresentano scorciatoie
cognitive, espedienti che consentono di giungere rapidamente alla soluzione, pur non
garantendone il risultato.
Ciò che ancora manca alla macchina è la capacità di comprendere il mondo, di sviluppare in
modo autonomo e creativo nuove conoscenze. Obiettivo, questo, che Lenat, studente del
Massachusetts Institute Technology, ritiene raggiunto nel 1984, con la messa a punto di “Cyc”:
un programma che funziona da deposito delle conoscenze relative alla vita quotidiana.
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L’obiettivo era quello di dotare Cyc di una sorta di memoria semantica sul mondo, a partire da
elementi banali ma concreti, grazie ai quali anche una macchina può diventare una creatura
intelligente.
In realtà secondo lo stesso ideatore Cyc non è ancora pronto ad affrontare il mondo, sebbene il
database delle sue conoscenze continui ad evolversi sempre più.
Il campo in cui l’IA ha conseguito i risultati più interessanti è quello dei sistemi esperti, che
possono essere definiti come programmi che risolvono problemi di una complessità tale da
richiedere, se affrontati da esseri umani, competenze specifiche.
Un sistema esperto è dotato di un database contenente conoscenze specifiche relative ad
ambiti specialistici, e di un insieme di regole e di criteri inferenziali grazie ai quali produce
risposte sui dati che l’utente immette nella macchina.
È necessaria dunque la presenza, nella fase di programmazione, del cosiddetto “ingegnere
della conoscenza”.
I sistemi esperti possono produrre prestazioni solo attraverso regole inferenziali del tipo
“se….allora”.
Tuttavia anche l’uso dei sistemi esperti non è esente da critiche poiché, come alcuni studiosi
sottolineano, il sistema è in grado di affrontare soltanto situazioni prevedibili per le quali sono
state in precedenza stabilite precise procedure inferenziali.
Secondo Minsky infatti l’intelligenza è innanzitutto versatilità, ed i sistemi esperti non
sono affatto versatili.
La robotica
Una delle applicazioni più importanti dell’IA è senza alcun dubbio la robotica, ovvero quella
parte della cibernetica che si occupa dello studio, della costruzione e dell’impiego dei robot,
cioè di operatori meccanici automatici, controllati da un cervello elettronico.
Il 1948 vede la costruzione delle prime creature meccaniche, in realtà ancora molto distanti
dagli attuali robot. Si tratta di tartarughe elettroniche, a cui hanno fatto seguito scoiattoli, topi
e altri animali in grado di eseguire prestazioni estremamente semplici.
• Aibo: un cane artificiale prodotto dalla Sony. È in grado di vedere il mondo che lo
circonda, riconoscere la voce del padrone, esaminare e giocare con gli oggetti e persino
provare emozioni, in risposta agli stimoli del padrone.
• P3: robot umanoide creato dalla Honda. È alto 160 cm, pesa 130 kg. Cammina con una
velocità di due chilometri all’ora e ha un’autonomia di 25 minuti. È in grado di
camminare in modo del tutto simile all’uomo, di scendere le scale, di spingere carrelli,
di giocare a calcio. È anche in grado di riconoscere pericoli ed ostacoli e modificare la
propria andatura di conseguenza.
• Kismet: è il primo robot sociale, in grado di comunicare le proprie emozioni mediante
espressioni facciali che riproducono esattamente quelle umane: si mostra triste quando
è solo e felice quando qualcuno gli si avvicina. È anche in grado di apparire annoiato di
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Critiche all’IA
L’IA, già a partire dalla sua prima apparizione ufficiale al convegno di Dartmouth, solleva
numerose critiche alimentate principalmente dalla convinzione che le macchine “non
penseranno mai”. Tali critiche continuano ancor oggi ad animare il dibattito tra gli studiosi,
secondo il fisico e matematico Penrose (1997), i sistemi computazionali non potranno mai
simulare i processi mentali umani: l’autore sottolinea con forza la natura non algoritmica della
coscienza umana.
Per giungere a una spiegazione scientifica della coscienza, è necessario postulare l’esistenza di
una nuova fisica (fisica dei quanti), grazie alla quale abbandonare il presupposto dell’IA,
secondo cui “il pensiero è computazione”.
Le reti neurali
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