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L’intelligenza
Teorie e modelli

Storia e metodi

Gli studi di Galton (1822 – 1911) rappresentano il primo tentativo di misurazione delle
capacità intellettive. Egli è un precursore non solo nell’applicazione delle scale di valutazione e
dei questionari, ma anche nell’elaborazione di metodi statistici per l’analisi delle differenze
individuali e per la verifica delle ipotesi.
A lui si devono, ad esempio, sia l’intuizione secondo cui molte delle caratteristiche osservate su
una popolazione di individui hanno una distribuzione di frequenza simile a quella della curva di
Gauss, sia l’elaborazione del ben noto indice di correlazione statistica.
Proprio grazie all’applicazione dei suddetti principi statistici, egli arriva alla conclusione che
anche l’intelligenza rappresenta una dimensione assolutamente ereditaria.
Dai propri studi sull’intelligenza Galton ricava, infine, una scala a sette intervalli che
classifica gli esseri umani secondo le loro capacità (da A, appena superiore alla media, a G,
genio).
Inoltre lo studioso ha previsto anche un ulteriore livello, chiamato “X”, che comprende individui
talmente intelligenti da non poter essere inclusi in nessuna delle sette classi precedentemente
previste.
Egli pose l’accento sulle differenze individuali, perché queste mostrano la variazione che
già esiste e quindi forniscono la possibilità della selezione intelligente del più adatto.

James McKeen Cattell

Cattell(1860 – 1944) mostra un notevole interesse per le ricerca sulle differenze


individuali. Al giovane studioso americano si attribuisce l’origine del Mental Testing.

Alfred Binet

Binet (1857 – 1911) si pone l’obiettivo di studiare i processi complessi, quali ad esempio la
memoria, immaginazione, attenzione, comprensione.
Le autorità scolastiche di Parigi incaricarono infatti Binet di elaborare uno strumento in grado di
individuare studenti con difficoltà, al fine di mettere a punto programmi di insegnamento
differenziali.
Ciò che dunque viene chiesto a Binet è la costruzione di uno strumento capace di predire le
abilità e le eventuali difficoltà scolastiche.
Binet preferiva condurre i suoi studi su pochi soggetti, distinti per classi di età, al fine di
ottenerne una stima delle capacità riconducibili a livelli differenti.
Binet e il suo collaboratore Simon giungono alla prima stesura della famosa Scala metrica per
la valutazione dell’intelligenza dopo un paziente lavoro di selezione e di analisi di una
molteplicità di risposte. Compiti appartenenti ad ambiti diversi venivano somministrati a
studenti di età differente, per poi confrontare i risultati ottenuti con il loro profilo scolastico.
La Scala si compone di 30 brevi compiti, disposti in ordine crescente di difficoltà e organizzati
secondo livelli di complessità differente. Ogni livello infatti, si caratterizza per funzioni e abilità
specifiche.

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L’obiettivo di Binet in questo suo primo tentativo di misurazione è quello di creare uno
strumento in grado di prevedere le abilità intellettive in bambini fra i 3 e i 12 anni.
Le prove che compongono la Scala si differenziano, oltre che per livelli anche per domini. A tale
proposito, il livello inferiore della scala (3 anni) è caratterizzato da compiti di matrice
essenzialmente sensoriale (misura delle differenze anatomico - sensoriali o ai tempi di
reazione – allo scopo di stimare le capacità intellettive, la memoria o l’attenzione).
Le prove sensoriali che indagano i processi mentali complessi sono presenti invece, nei
livelli superiori della Scala. Si tratta di prove che esplorano le capacità percettive e
attentive, coinvolgendo, al contempo, la funzione di giudizio e la riflessione.
Tuttavia, nella concezione di Binet l’intelligenza non è solo legata agli aspetti sensoriali, e per
questo inserisce anche compiti legati ai processi psichici superiori come: definizione verbale di
oggetti conosciuti; definizione di termini astratti etc.
Tra le funzioni intellettuali considerate da Binet, quella relativa al giudizio occupa un ruolo
centrale.
La funzione di giudizio equivale alla capacità di ragionare in maniera logica e coerente,
cioè di derivare, da determinate premesse, conclusioni corrette.
Il giudizio può essere identificato con il buon senso, l’iniziativa, la capacità di adattarsi, il senso
pratico, tutto ciò che insomma risulta utile nella vita quotidiana.

Nel 1908 viene presentata una nuova versione della Scala metrica, composta da 57 prove
e rivolta a soggetti di età compresa tra i 3 e i 12 anni. I compiti sono ordinati sempre per
difficoltà crescente.
La nuova Scala contiene prove nuove che riguardano domini prima trascurati:
a) L’intelligenza pura e semplice: ordinamento dei pesi; definizioni superiori all’uso;
interpretazioni di illustrazioni)
b) Le acquisizioni extra-scolastiche possibili in anticipo: nominare quattro colori, elencare i
giorni della settimana e i mesi dell’anno;
c) Le acquisizioni scolastiche: contare a ritroso da 20 a 0;
d) Le acquisizioni relative al linguaggio e al vocabolario: definizione verbale di oggetti
conosciuti, definizione di termini astratti quali carità, bontà, e giustizia.
Questa Scala viene somministrata a 273 bambini di età compresa tra i 3 e i 13 anni. Ciò
consente a Binet di rilevare l’esistenza di una grande variabilità nelle prestazioni dei bambini
appartenenti alla stessa età: alcuni bambini sono in anticipo, altri in ritardo, altri regolari.

Secondo Binet la misurazione delle prestazioni intellettive deve avvenire nel seguente
modo:
“un soggetto ha lo sviluppo intellettuale dell’età più elevata in corrispondenza della quale ha
superato tutte le prove, con la tolleranza di un insuccesso in una delle prove di questa età […]
Una volta che il livello intellettuale di un soggetto sia stabilito, lo si fa beneficiare di un
avanzamento di un anno tutte le volte che ha eseguito almeno 5 prove superiori al suo livello,
e lo si fa beneficiare di un avanzamento di 2 anni, se egli ha eseguito almeno 10 prove
superiori al suo livello […] impiegando questo procedimento, si arriva a classificare in maniera
soddisfacente quasi tutti i bambini”.

Nel 1911 si arriva alla pubblicazione dell’ultima revisione della Scala. In questa nuova

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versione, ciascun livello contiene lo stesso numero di prove (5); vengono inoltre eliminati o
modificati alcuni compiti. Consente, inoltre, di estendere la misurazione dell’intelligenza anche
agli adulti.
Secondo Binet una prova deve essere risolvibile per buona parte dei bambini di una
determinata età, ma non per tutti; deve essere inoltre risolvibile per un numero esiguo di
bambini più piccoli e, viceversa, facilmente risolvibile per la gran parte di bambini più grandi.

Binet ritiene estremamente arduo ricondurre a unità misurabili le abilità intellettive. Egli infatti
afferma che “la Scala permette non propriamente di parlare di misurazione delle intelligenze –
poiché le qualità intellettuali non si misurano come delle lunghezze, esse non sono
sovrapponibili – ma di una classificazione, una gerarchizzazione tra intelligenze diverse; e per i
bisogni della pratica tale classificazione equivale ad una misura”.

L’introduzione del QI: Lewis Terman e David Wechsler

La Scala metrica per la valutazione dell’intelligenza assume il formato tipico dei testi
psicometrici con il nome di Stanford-Binet a partire dal 1916.
Terman, nel tentativo di adattare la Scala alla popolazione americana, modifica lo strumento
sia per quanto riguarda la sua standardizzazione, che conduce su più di mille soggetti, sia per
quanto attiene al numero delle prove (90).
Il concetto di livello, introdotto da Binet, viene ora sostituito da quello di QI, concetto
formulato originariamente dallo psicologo tedesco Stern nel 1914.
Il QI è comunemente definito come il rapporto tra età mentale ed età cronologica,
moltiplicato per 100. Più specificamente il QI è il rapporto tra il punteggio ottenuto da un
individuo in un dato test di intelligenza e il punteggio che un individuo medio della sua età
ottiene in quello stesso test. Esso consente quindi di specificare quel è l’esatta collocazione di
un individuo rispetto ai soggetti della sua stessa età.
Oggi però il semplice concetto di QI, come rapporto di età, è ampiamente superato e sostituito
dal QI deviazione, calcolato in termini di deviazione standard dalla media, introdotto da
Wechsler (1896-1981).
La scala Wechsler differisce dalla scala Stanford-Binet per la sua struttura di base. Essa si
compone di 11 subtest differenti. I primi sei consentono di ottenere un QI verbale, i rimanenti
cinque consento invece di ottenere un QI di performance o di esecuzione.

Scala verbale Scala di performance


Informazione Ordinamento di figure
Comprensione Completamento di figure
Aritmetica Composizioni con cubetti
Ripetizione di numeri Assemblaggio di pezzi
Somiglianze Simbolizzazione
Vocabolario

La Scala Wechsler – Bellevue viene sottoposta a una prima revisione nel 1955.
Successivamente l’autore avvia una radicale revisione dello strumento che si conclude con la
presentazione della nuova Wechsler Adult Intelligence Scale-Revisited (WAIS-R) nel 1981.
Le scale Wechsler vengono attualmente utilizzate anche quale strumento di ausilio alla

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individuazione di quadri psicopatologici.


Partendo dall’osservazione che le lesioni cerebrali, il deterioramento psichico e le turbe emotive
possono modificare alcune funzioni intellettuali in misura maggiore di altre, Wechsler e altri
psicologi concludono che un’analisi del rendimento del soggetto a subtest differenti debba
rilevare la presenza di specifici disturbi psichiatrici.

L’approccio psicometrico e Charles Spearman

In una prima fase Spearman (1863-1945) ha elaborato una teoria basata su una
concezione unidimensionale dell’intelligenza, a fondamento della quale pone le leggi
neogenetiche, considerate direttamente responsabili della creazione di contenuti mentali
sempre nuovi ed originali.
Solamente nel 1904 lo studioso formula l’ipotesi secondo cui nella mente esiste una
intelligenza generale.
A partire da tale ipotesi, Spearman elabora la teoria bi fattoriale per cui in qualsiasi
prestazione cognitiva intervengono due fattori indipendenti tra loro: il fattore g e il fattore s.
Il primo interviene in tutte le più diverse prestazioni cognitive; il secondo è, invece, specifico di
una particolare prestazione cognitiva. La performance di un soggetto in uno specifico test
d’intelligenza è data, quindi, dal contemporaneo intervento di una capacità generale e di una
attitudine mentale specifica.
Spearman, nel mettere a punto la teoria bi fattoriale, si basa sui risultati di una ricerca
elaborati mediante una procedura statistica da lui stesso messa a punto: l’analisi fattoriale.
Tale analisi permette infatti di valutare la massima variabilità all’interno di una larga batteria di
test nei termini di un numero minimo di abilità o fattori primari.
In altre parole, tale analisi consente di ricondurre a un numero ridotto di variabili o fattori i
tratti misurati da un test, per i quali gli individui si differenziano l’uno dall’altro.

Tuttavia negli anni successivi Spearman approda a una revisione della teoria originaria. Il venir
fuori di una pluralità di variabili difficilmente identificabili e tra loro indipendenti lo porta a
riconsiderare l’incidenza dei vari fattori s e ad ampliare la propria teoria, riconoscendo accanto
al fattore g l’esistenza di fattori di gruppo tra loro legati da caratteristiche comuni.

Le teorie fattoriali dell’intelligenza


• Thurstone: Negli anni ’30 insoddisfatto del fattore g di Spearman, a suo giudizio
eccessivamente riduttivo, propone una teoria multifattoriale dell’intelligenza, secondo
cui la prestazione a un test dipende da un certo numero di abilità primarie che,
combinandosi fra loro, generano le più disparate attività di pensiero.
Thurstone individua 7 abilità primarie, tra loro indipendenti, e quindi non riconducibili
a una dimensione unitaria:

1. Visualizzazione di figure geometriche in diverse posizioni nello spazio (S);


2. Rapidità nel calcolo numerico (N)
3. Rapidità nella percezione dei dettagli (P)
4. Capacità di cogliere idee e significati (V)
5. Fluidità verbale (W)
6. La memoria di parole, lettere, numeri (M)

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7. Abilità intuitiva (I)

• Vernon: propone una teoria in cui i vari fattori di gruppo vengono ordinati
gerarchicamente in relazione alla loro maggiore o minore estensione.
Riprendendo l’idea di Spearman secondo cui la maggior parte della varianza nei test
dell’intelligenza è attribuibile a un fattore generale, Vernon pone il fattore g alla
sommità della gerarchia, facendolo seguire, al gradino immediatamente inferiore, da
due fattori di gruppo: il fattore v:ed, riferibile alle abilità di tipo verbale e numerico
influenzate dall’educazione e dall’istruzione, ed il fattore k:m, riferibile alle abilità di
tipo pratico, meccanico spaziale e fisico.
Al di sotto del fattore v:ed vengono collocati i fattori verbali e numerici, al di sotto del
fattore k:m i fattori spaziali, manuali e di informazione meccanica.

• Cattell: la teoria fattoriale dell’intelligenza elaborata negli anni ’40 propone una
distinzione tra intelligenza fluida (gf) e intelligenza cristallizzata (gc). La prima
rappresenta la capacità biologica di base di un individuo, una sorta di pura
potenzialità cognitiva, ereditabile, che raggiunge l’apice del suo sviluppo a 14 anni e che
comincia a declinare verso i 20 anni; la seconda è, invece, direttamente influenzata
dall’educazione e dall’istruzione ricevuta dai soggetti. Il suo sviluppo va avanti fino ai 40
anni.
Secondo Cattell i due tipi di intelligenza non sono indipendenti, ma correlati tra di loro:
l’intelligenza fluida può influenza l’intelligenza cristallizzata, ma non è ipotizzabile il
contrario.

• Guilford: elabora una teoria nella quale il fattore g viene del tutto abbandonato. Egli
ipotizza una struttura dell’intelletto estremamente variegata, caratterizzata da un
numero davvero ampio di abilità mentali. Nel suo modello ipotizza l’esistenza di 120
fattori di base o abilità primarie.
Egli considera la struttura dell’intelletto come il prodotto dell’interazione di tre processi
di base dalla cui combinazione deriverebbero le diverse abilità.

L’approccio genetico - qualitativo: Jean Piaget

Piaget (1896-1980) propone quale obiettivo primario l’esame della natura dello sviluppo del
comportamento intelligente. Egli guarda allo sviluppo dell’intelligenza come una successione
ordinata di stadi. Ritiene infatti che la costruzione delle strutture cognitive sia subordinata a
uno sviluppo stadiale delle stesse.
Inoltre lo sviluppo cognitivo è anche gerarchicamente organizzato: le strutture che definiscono
ogni stadio sono legate alle strutture dello stadio precedente da vincoli d’incorporazione o
d’integrazione.

Per meglio comprendere la concezione di Piaget dell’intelligenza, è necessario chiarire i rapporti


che, a suo avviso, intercorrono tra componenti biologiche e componenti psicologiche.
Secondo Piaget infatti i meccanismi fondamentali che garantiscono lo sviluppo dei
processi cognitivi e, in definitiva, la costruzione dell’intelligenza, sono di natura
essenzialmente biologica. Ciò non vuol dire, però, che la costruzione dell’intelligenza o delle

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particolari strutture cognitive è geneticamente o biologicamente predeterminata.


Per Piaget ad essere ereditato è un modus operandi, una ben specifica modalità di
funzionamento comune a tutti gli individui che consente, attraverso il costante interagire
dell’individuo con l’ambiente, la costruzione delle strutture cognitive e, quindi, lo sviluppo
dell’intelligenza.
Oltre a specifiche strutture bio-fisiologiche, ciò che ereditiamo è anche un particolare modo di
porci in relazione con il mondo esterno e con noi stessi in quanto costruttori di conoscenza.
Gli elementi che caratterizzano questo modus operandi sono chiamati da Piaget invarianti
funzionali, per sottolineare come essi siano sempre gli stessi non soltanto nel corso
dell’ontogenesi, indipendentemente dunque dal livello cognitivo raggiunto dall’individuo, ma
anche tra individuo e individuo.
Le invarianti funzionali sono due:
1) l’adattamento: Si parla di adattamento ogniqualvolta uno scambio organismo-ambiente
produce una modificazione dell’organismo tale da consentire ulteriori scambi, favorevoli alla
sua conservazione.
inoltre per esserci adattamento deve esserci un sostanziale equilibrio tra assimilazione e
accomodamento: ogni assimilazione presuppone un accomodamento, ed ogni
accomodamento richiede un’assimilazione. I due processi sono dunque inscindibili e
rappresentano invarianti funzionali che assicurano continuità e stabilità alla vita intellettiva.

• l’assimilazione è il processo che consente l’assunzione, negli schemi mentali del


soggetto, di nuovi elementi con i quali quest’ultimo è entrato in contatto grazie
all’esperienza.
• Per accomodamento si intende, invece, il processo che porta all’aggiustamento
delle strutture cognitive all’oggetto con il quale sono entrate in contatto, per poterlo
assimilare.

2) l’organizzazione: qualsiasi attività cognitiva può essere concretamente realizzata soltanto


all’interno di un sistema o forma organizzata. È solo adattandosi alle cose che il pensiero
organizza se stesso ed è organizzando se stesso che struttura le cose.

Le due invarianti funzionali, l’organizzazione e l’adattamento, ci rimandano a un concetto


centrale nella teoria piagetiana: il concetto di schema.
Piaget utilizza il termine schema per riferirsi a quelle strutture cognitive caratterizzate da
sequenze d’azione fra loro strettamente legate e interconnesse.
Quindi, dal momento che si tratta di strutture cognitive, gli schemi sono soggetti ad
evoluzione e a trasformazione. Si parte quindi da quelli più semplici ed ereditati per arrivare,
grazie alle loro molteplici modificazioni, alla costituzione degli schemi operatori.
Questa evoluzione è chiaramente visibile nei quattro grandi stadi nello sviluppo cognitivo
identificati da Piaget: a) stadio senso-motorio; b) stadio pre-motorio; c) stadio operatorio
concreto; d) stadio operatorio formale.

a) Stadio senso-motorio: (0-2 anni) è caratterizzato da una crescente capacità del


bambino di abbandonare i vincoli comportamentali dettati dai riflessi neonatali.
In questa fase il bambino ristruttura il proprio bagaglio ereditario. Egli comincia a
modificare le proprie attività riflesse in virtù di processi accomodatori, arrivando a una

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sempre più efficace coordinazione degli schemi.


In linea generale, una volta giunto a compimento, lo stadio senso-motorio consente al
bambino di operare, in primo luogo, una differenziazione tra i processi di assimilazione
e accomodamento, grazie alla quale può distinguere tra mondo interno e mondo
esterno, tra sé e gli oggetti.
In secondo luogo il bambino acquisisce una intenzionalità completa che gli
consente di stabilire efficaci rapporti mezzo-scopo.
Infine, il bambino comincia a sviluppare la fondamentale capacità di rappresentarsi
mentalmente un’azione.

b) Stadio pre-operatorio: (2-7 anni) consentono lo sviluppo della funzione simbolica, che
permette di indicare oggetti ed eventi con simboli e segni.
In questa fase il bambino ha la possibilità di operare non solo grazie ad azioni fisiche,
ma anche attraverso la manipolazione simbolica di azioni rappresentate
mentalmente e non ancora compiute.

c) Stadio operatorio concreto: (7-11 anni) le rappresentazioni mentali delle azioni vengono
sostituite con le operazioni cognitive: si costituiscono cioè le operazioni logiche.

d) Stadio operatorio formale: (11-15 anni) è quello in cui si assiste a una nuova e
definitiva riorganizzazione. È in questo stadio che l’adolescente comincia a trattare
efficacemente non solo la realtà che gli sta di fronte, ma anche il mondo delle
possibilità, ovvero il mondo delle proposizioni, del “come se”.
L’adolescente sviluppa il pensiero ipotetico - deduttivo.

Strumenti di analisi della teoria piagetiana

Il focus del lavoro di Piaget fu lo studio degli errori e delle anomalie che si manifestano in
maniera sistematica nei giudizi espressi dai bambini.
Per circa due anni, lo studioso ginevrino analizza il ragionamento dei bambini, presentando
loro varie domande e proponendo compiti implicanti semplici relazioni logico-verbali. Ciò gli
permise di notare tra l’altro le difficoltà incontrate dai soggetti anche nei più semplici compiti
relazionali, i quali richiedono di “concatenare le proprie frasi in maniera che ciascuna contenga
la ragione di quella che la segue e sia essa stessa dimostrata da quella che la precede”.
Piaget così avanza l’ipotesi che il pensiero e il linguaggio infantili siano intrinsecamente
caratterizzati da egocentrismo e sincretismo.
Per egocentrismo si intende l’incapacità del bambino di riconoscere il suo punto di vista come
momentaneo e facente parte di un più grande insieme di punti di vista.
Mentre per sincretismo si intende ad esempio quel processo per il quale il bambino fonde in
maniera incongrua due proposizioni in uno schema comune.

Ben presto lo studioso ginevrino si rende conto che affidarsi al semplice resoconto verbale del
bambino non è sufficiente, perché non coglie importanti aspetti della sua attività cognitiva.
Così a partire dal 1925, anno di nascita della prima figlia, Piaget delinea un nuovo peculiare
metodo di lavoro, noto come osservazione quasi - sperimentale, le cui caratteristiche sono:
1) L’osservazione è guidata da un corpus di ipotesi;

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2) Lo sperimentatore controlla e manipola alcune delle variabili in gioco, al fine di


identificare le relazioni di causa-effetto che permettono di verificare le ipotesi
enunciate;
3) L’osservazione è essenzialmente interpretativa, in quanto l’osservatore si sforza di
attribuire un significato al comportamento infantile e ne commenta i nessi e gli scopi.
4) I compiti operatori nulla hanno a che fare con le prove d’intelligenza normalmente
incluse nelle scale psicometriche, ma somigliano piuttosto a veri e propri esperimenti,
nei quali è il soggetto che assume il ruolo di sperimentatore, mentre l’esaminatore
prende, a sua volta, il ruolo di osservatore attivo.

L’approccio genetico - differenziale: Francois Longeot

Longeot (1968) pone il problema di derivare dalle ricerche piagetiane nuovi criteri di indagine
dei processi operatori, per determinare le differenze qualitative nelle prestazioni intellettive
degli individui. Egli ripropone alcuni dei compiti piagetiani sotto forma di “Scale genetiche
dell’intelligenza”.
L’esame operatorio dell’intelligenza acquista così le caratteristiche di obiettività e
standardizzazione proprie degli strumenti psicometrici, pur mantenendo il carattere qualitativo:
oltre al conteggio delle risposte, tiene conto dei percorsi che ogni soggetto segue nel costruire i
propri processi di ragionamento.
Per privilegiare l’esame dei percorsi evolutivi individuali, Longeot riformula il concetto di
decalage introdotto da Piaget. Questi parlava di decalage per spiegare e descrivere alcune
sfasature che si presentano in maniera ricorrente nell’ontogenesi dell’intelligenza. Lo studioso
distingueva tra:
1) Decalage orizzontali: si riferisce all’osservazione secondo cui un soggetto che ha
acquisito una determinata competenza operatoria non è capace di risolvere tutti i
compiti ad essa riferibili.
2) Decalage verticali: riguardano invece nozioni che, una volta costituitesi nel corso di un
certo stadio, si ripresentano in quello successivo. Si consideri la nozione di spazio: essa
si struttura dapprima al livello delle condotte senso-motorie come gruppo pratico, per
riproporsi alcuni anni dopo sul piano simbolico – rappresentativo.

Longeot riconduce i decalage verticali all’osservazione secondo cui non solo i soggetti di
età differente, ma anche quelli della stessa età possono trovarsi in stadi operatori
differenti.
I decalage orizzontali sono invece considerati da Longeot espressione della variabilità
manifestata dai soggetti che appartengono allo stesso stadio. Tale variabilità è legata alla
possibilità dei soggetti di accedere al medesimo stadio attraverso differenti percorsi, prima
di acquisire in maniera stabile e omogenea tutte le strutture caratteristiche dello stesso
stadio.

Con Longeot le prestazioni del soggetto vengono ora valutate in base a un doppio
criterio:
a) Analisi inter-stadio, che identifica il livello operatorio raggiunto;

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b) Analisi intra-stadio, che identifica le specifiche acquisizioni regionali degli individui che
appartengono allo stesso stadio.

Così nel 1969 Longeot mette a punto l’Echelle de la pensee logique (EPL), finalizzata
alla valutazione delle competenze operatorie in ambito scolastico, nella fascia di età
compresa dai 9 ai 16 anni.
La Scala è costituita da 22 prove suddivise in 5 differenti domini che sono:

1) Conservazione delle quantità fisiche: il soggetto deve dire se la quantità e/o il peso di
due palline di plastilina uguali rimangono invariati o meno. Il confronto fra
l’innalzamento del livello dell’acqua prodotto da una pallina di metallo e da una di
plastilina verifica la capacità del soggetto di dissociare il peso dal volume.

2) Operazioni combinatorie: vengono esaminate presentando al soggetto un numero


crescente di gettoni (da tre a cinque) da disporre in tutte le possibili combinazioni
(permutazioni).
La mancanza di sistematicità con la quale vengono ordinati i gettoni è caratteristica
dello stadio operatorio - concreto; al contrario, con l’emergere dello stadio operatorio -
formale il soggetto esegue e controlla le suddette combinazioni in maniera ordinata e
sistematica.

3) Operazioni di proporzionalità: la logica della probabilità, che è alla base delle operazioni
di proporzionalità, permette al soggetto di desumere i casi che si realizzeranno
realmente partendo dall’insieme dei casi possibili.

4) Logica delle proposizioni: la logica delle proposizioni è rappresentata da una sola prova
che mette in gioco la capacità dell’adolescente di utilizzare spontaneamente il metodo
sperimentale: le oscillazioni del pendolo.
Il soggetto deve scoprire quale fattore (peso, lunghezza della corda, altezza del lancio,
spinta) modifica la frequenza di oscillazione di un pendolo, eliminando sistematicamente
i fattori ininfluenti.
La strategia tipica del pensiero proposizionale fa quindi variare un solo fattore per volta,
mantenendo gli altri costanti, per constatarne l’effetto.

5) Rappresentazione dello spazio: il soggetto deve coordinare due distinti sistemi di


riferimento spaziali, rappresentandosi il tracciato risultante da una matita che scorre su
un rullo mobile.

Longeot con la sua Scala arriva alla conclusione che il superamento di un compito più
difficile implica necessariamente le risoluzione di tutti i compiti più semplici.
Egli infatti postula l’esistenza di una gerarchia fra i compiti di stadi operatori differenti. La
stessa gerarchia non è invece concepibile all’interno dello stesso stadio.
In pratica, l’ordine inter-stadio non deve mai essere violato dai soggetti, a differenza di
quanto si verifica a livello intra-stadiale; il costituirsi dello stadio è cioè caratterizzato
dalla massima eterogeneità, ossia da una molteplicità di possibili vie di accesso.

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La teoria tripolare dell’intelligenza: Robert J. Sternberg

Sternberg è a tutt’oggi considerato uno degli autori che ha aggiornamento contribuito a


definire e comprendere l’intelligenza.
A Sternberg si deve la teoria tripolare dell’intelligenza, al cui interno l’autore ha
pioneristicamente combinato:

• L’approccio psicometrico - quantitativo: riferito allo studio e alla misurazione delle


differenze individuali nella abilità intellettive.
• L’approccio informazionale: riferito allo studio del modo in cui il soggetto elabora
l’informazione.

Le domande che Sternberg si pone sono: “Come il soggetto processa l’informazione? Come un
tutto, o attraverso una molteplicità di processi?”
Egli quindi si propone di analizzare l’intelligenza in termini di componenti, anziché di
fattori, poiché il termine fattore implica una dimensione strutturale dell’intelligenza, quindi,
aspetti quantitativi, ma a Sternberg non interessano solo gli aspetti quantitativi.

La sua viene chiamata teoria tripolare perché si compone di 3 subteorie:


1. Subteoria componenziale: il compito di tale sub teoria è quello di individuare e
specificare le strutture e i meccanismi che sottendono il comportamento intelligente. In
essa viene proposta, quale unità di analisi delle condotte intellettive, la componente,
definita come “un processo elementare di informazione che opera su rappresentazioni
interne di oggetti o simboli”.

Secondo Sternberg ciascuna componente si distingue per tre proprietà misurabili:


la durata, vale a dire il tempo che viene impiegato per la sua esecuzione;
la difficoltà, cioè la probabilità di commettere un errore nella sua esecuzione;
la probabilità di esecuzione, vale a dire la probabilità di eseguire la componente in una
specifica situazione.

Inoltre Sternberg distingue tre tipi di componenti:

• Le meta componenti: controllano l’attivazione di altre componenti di livello più


basso.
Definiscono il tipo di problema, decidono se risolverlo e come risolverlo, vale a dire
selezionano le componenti necessarie alla risoluzione e decidono sui tempi e
sulle modalità delle loro esecuzioni.
Seguono tutto il processo di soluzione e decidono quando questo può interrompersi
perché il problema è stato risolto.
Le meta componenti sono le più importanti per una esatta esecuzione di un
problema qualunque.

• Le componenti d’esecuzione: vengono utilizzate in ogni stadio del processo di


soluzione:

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- nella fase di codifica degli elementi che caratterizzano il problema


- nella fase di confronto tra le differenti parti del problema
- nella fase di produzione della soluzione e dunque di formazione della risposta
appropriata.
In questa classe di componenti, la fase più importante è quella della codifica: con
una errata codifica tutte le successive fasi di esecuzione vengono a mancare.

• Le componenti di acquisizione della conoscenza: la caratteristica che meglio


riassume queste componenti è la selettività: esse distinguono le informazioni
salienti da quelle marginali.
Le informazioni rilevanti così acquisite devono essere immagazzinate in una forma
dotata di significato per il loro recupero e utilizzo successivo.

2. Subteoria contestuale: secondo Sternberg il comportamento intelligente viene in larga


parte definito dal contesto socio-culturale in cui ha luogo.
La sub teoria contestuale si propone, dunque, di studiare la relazione che intercorre tra una
specifica abilità e l’ambiente o contesto nel quale si sviluppa.
L’intelligenza infatti va definita a seconda dell’ambiente e della cultura nella quale
si evolve.
ciascuna cultura tende ad attribuire più peso ad una componente piuttosto che ad un’altra,
pur riconoscendo l’importanza di tutte le componenti nella definizione dell’intelligenza.
Per questa ragione in uno specifico contesto culturale, alcuni comportamenti vengono
definiti intelligenti, mentre altri, considerati intelligenti in altre culture, vengono del tutto
sottovalutati.

3. Subteoria esperienziale: l’intelligenza è studiata come capacità di affrontare situazioni


sconosciute, ricorrendo a risposte nuove e di convertire queste ultime in processi
automatici.
L’intelligenza è descritta secondo due distinti processi cognitivi:
1) il primo responsabile della capacità di fronteggiare tutte le situazioni nuove, ricorrendo
a conoscenze ed esperienze pregresse;
2) il secondo, è invece responsabile della capacità di rendere automatica la prestazione.

Sternberg e la teoria tripolare della Successfull Intelligence

Sternberg si chiede “Cos’è esattamente che porta al successo?”, poiché in seguito ad


alcune ricerche si è infatti visto che il QI individuale non correlava con il successo in modo
significativo.
Secondo Sternberg infatti sono 3 le abilità che ci consentono di avere successo nella vita:

1) le abilità accademiche o di analisi


2) le abilità creative
3) le abilità pratiche

inoltre, mentre le abilità accademiche sono viste come necessarie ma non sufficienti,
Sternberg dà molta importanza all’aspetto della creatività individuale, che per tanto tempo

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si era portata dietro un’accezione negativa.

L’aspetto più interessante della Successfull Intelligence è per Sternberg il fatto che la S.I.
può essere insegnata:

• è necessario che ciascun insegnante inserisca propri programmi per l’apprendimento


non solo di conoscenze accademiche ma anche di abilità creative e pratiche.

• per ciò che attiene la capacità di pensare in maniera creativa, agli studenti va
insegnato di:

a) ridefinire i problemi anziché apprenderli per come vengono presentati;


b) superare gli ostacoli dovuti alle critiche di chi contesta la modalità creativa di
risoluzione dei problemi;
c) accettare i rischi che dal punto di vista intellettuale comporta l’essere creativo
d) convincere gli altri del valore delle proprie idee creative.

• riguardo alle abilità pratiche, gli studenti devono apprendere a:

a) combattere la tendenza a procrastinare il completamento di un compito


b) organizzarsi in maniera tale da completare un lavoro.

Ci si chiede allora se è possibile migliorare la capacità predittiva dei testi di intelligenza.


Secondo Sternberg ciò è possibile se i test tradizionali vengono integrati con prove più
innovative, in grado di misurare non solo le consuete abilità di analisi o di memoria, ma anche
le abilità creative e di pensiero pratico.

Le intelligenze multiple: Howard Gardner

L’approccio psicometrico trova compiuta espressione nelle teorie fattoriali. Emblematica al


riguardo la teoria del fattore g di Spearman, che ipotizza l’esistenza di una intelligenza
generale, che interviene in qualsiasi tipo di attività cognitiva e che, secondo molti psicologi, si
rispecchia in un quoziente di intelligenza individuale.
Molti studiosi hanno criticato questa concezione, opponendole quella di un intelligenza
composita, costituita da una molteplicità di fattori.
Ad esempio Thurstone ha rappresentato l’intelligenza come un insieme di fattori indipendenti,
specifici per ogni abilità; Guilford ha considerato l’intelligenza come scomponibile in una
molteplicità di fattori, 120 all’inizio e successivamente 150; Sternberg ha proposto la teoria
triadica dell’intelligenza.

L’idea secondo cui l’intelligenza non è identificabile con un unico fattore è anche alla base di
una delle concezioni attualmente più accreditate dei processi cognitivi: la teoria delle
intelligenze multiple di Gardner (1983).
Essa ipotizza che l’intelligenza umana si compone di un certo numero di facoltà mentali
relativamente autonome tra loro, ciascuna dipendente da una differente area del
cervello.

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In questa teoria Gardner viene ispirato dalla concezione frenologica del XIX secolo e si può
sostenere un anticipatore dei lavori di Paul Broca sulla localizzazione emisferica di specifiche
capacità mentali.

Le idee fondamentali di Gardner sono:

1) le diverse parti del cervello possono essere coinvolte nell’esecuzione di un unico


compito complesso, ma non è detto che tutte siano coinvolte in egual misura nel
compito in questione;
2) in uno stesso individuo è possibile riscontrare prestazioni eccezionali pur in presenza di
consistenti deficit.
Gardner trae spunto da queste considerazioni per formulare l’ipotesi che gli esseri umani
possiedono un certo numero di facoltà relativamente indipendenti tra loro (le
intelligenze), piuttosto che una sola intelligenza o QI.

I criteri obiettivi (segni di un’intelligenza) individuati da Gardner, per stabilire se una


particolare competenza ha il diritto di sedere nell’olimpo delle intelligenze, sono in tutto otto:

1) potenziale isolamento di una facoltà mentale in conseguenza di un danno cerebrale: se


a causa di un danno cerebrale si verifica la distruzione o al contrario la conservazione di
una data capacità mentale, allora è possibile assumere la relativa autonomia in questa
capacità rispetto alle altre.
2) Esistenza di idiots savants, prodigi, geni ed altri individui eccezionali: un’importante
indicazione in merito all’indipendenza di una capacità mentale dalle altre è fornita da
quegli esseri umani considerati veri e propri esperimenti naturali che sono gli idiots
savants. Questi soggetti, pur presentando un quadro intellettivo mediocre o, in taluni
casi, assolutamente compromesso, possiedono di norma un’abilità specifica molto
sviluppata;
3) Presenza di un’operazione centrale identificabile: attraverso la teoria dell’elaborazione
dell’informazione, è possibile individuare alcuni meccanismi di computo specifici di un
particolare tipo di informazione o input sensoriali, che di fatto possono rappresentare il
substrato informazionale di una intelligenza;
4) Possibile identificazione di un percorso di sviluppo in una prestazione esperta
individuabile, di natura specificata: un’intelligenza deve avere uno sviluppo
ontogenetico ben descrivibile, che permette di tracciare un percorso evolutivo
caratterizzato inizialmente da prestazioni comuni e quotidiane e in fase matura da
prestazioni più esperte e insolite;
5) Possibile identificazione di una storia evolutiva: una data capacità può essere
considerata una intelligenza quanto più è possibile rintracciarne gli antecedenti
evolutivi;
6) Esistenza di dati di sostegno della psicologia sperimentale: la ricerca sperimentale
consente l’individuazione dei meccanismi di elaborazione specifici di una particolare
intelligenza;
7) Esistenza di dati di sostegno della psicometria: se due abilità sono poco correlate tra di
loro, si può ipotizzare che ciascuna di esse sia una intelligenza;
8) Possibile codifica di un sistema simbolico

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Attraverso questi otto criteri, Gardner arriva ad individuare nel 1983 sette distinte
intelligenze, portate a otto nel 1995:

1) Linguistica: abilità di cogliere il significato delle parole nonché interesse per il


linguaggio; possedere un’intelligenza linguistica significa saper padroneggiare,
quanto più compiutamente possibile, le regole semantiche, sintattiche,
pragmatiche del linguaggio.
L’abilità linguistica risulta essere localizzata in aree cerebrali estremamente specifiche e
diverse, cosicché un deficit può riguardare soltanto uno di questi aspetti e non l’intera
capacità intellettiva.
Egli ritiene che l’intelligenza linguistica rappresenti una facoltà separata e indipendente.

2) Spaziale: abilità di riconoscere gli oggetti nonché di analizzare le loro diverse relazioni
spaziali e di produrre rappresentazioni visive indipendentemente dalla presenza di
stimoli fisici.

3) Logico - matematica: abilità di comprendere i rapporti e le proprietà di base dei


numeri.
Nel cervello sono due le aree dedicate alla matematica: una coglie le qualità in senso
visivo - spaziale ed è quella che ci fa percepire che nell’angolo visivo di destra ci sono
più elementi che in quello di sinistra.
Questa intelligenza, localizzata nei lori parietali sinistro e destro, svolge un ruolo
determinante nella rappresentazione della realtà.
Nel lobo frontale sinistro invece vi è un’area che percepisce numeri e simboli in modo
linguisti stico.

4) Musicale: rappresenta per Gardner l’abilità nella composizione e nell’ascolto dei


modelli musicali. È la sensibilità per la melodia, per il ritmo, per la musicalità
nel suo complesso.
L’intelligenza musicale coinvolge molte aree del cervello, ciascuna deputata
all’elaborazione di una differente informazione musicale quale, ad esempio, la
percezione di dettagli come melodia e intonazione, la percezione del ritmo ecc.

5) Corporeo-cinestetica: abilità di usare il corpo a fini espressivi e manipolare gli


oggetti.

6) Interpersonale e intrapersonale: capacità di comprendere le proprie e le altrui


emozioni, e di regolare sulla base di queste la propria condotta.
L’intelligenza intrapersonale riguarda la capacità di guardare dentro di sé, di controllare
le proprie emozioni, in particolare quelle negative, di non lasciarsi travolgere
dall’angoscia, dalla rabbia, dalla paura ecc.
L’intelligenza interpersonale è relativa alla capacità di rilevare e fare distinzioni fra altri
individui e in particolare, fra i loro stati d’animo, temperamenti, motivazioni ed
intenzioni.
Numerosi dati sperimentali sembrano localizzare il nucleo delle intelligenze personali nei

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lobi frontali. Lesioni a carico di tali aree determinano infatti gravi alterazioni nella
struttura della personalità di un individuo.

7) Naturalistica: abilità di distinguere e classificare aspetti diversi della realtà fisica


circostante: esseri viventi, piante, animali ecc.

La teoria delle intelligenze multiple suggerisce una importante considerazione, e cioè che ogni
essere umano presenta, seppur in gradazione diversa, tutte le forme di intelligenza
fin qui postulate.

Secondo Gardner diventa necessario abbandonare i tradizionali test standardizzati a risposta


breve, in favore di strumenti di valutazione in grado di misurare le prestazioni degli individui in
condizioni ecologicamente valide.
Mediante le indagini neuropatologiche e le più moderne tecniche di neuroimaging che
consentono di ottenere immagini cerebrali, come la tomografia a emissione di positroni (PET) e
la risonanza magnetica funzionale (fMRI), è possibile oggi mappare i sistemi neurali implicati
nell’attività cognitiva.

Inoltre nei suoi ultimi lavori, Gardner ha sviluppato un crescente interesse per l’educazione
scolastica, che ha suo parere non consente lo sviluppo delle potenzialità individuali,
concentrando unicamente il proprio interesse sulle abilità logico-linguistiche.

Genetica e comportamento
Intelligenza: eredità o ambiente?

Uno dei temi che maggiormente hanno animato il dibattito tra gli studiosi dell’intelligenza è
quello del ruolo giocato, sulle prestazioni intellettive, rispettivamente dal patrimonio genetico e
dall’ambiente.
I ricercatori si sono schierati su due posizioni sostanzialmente contrapposte: la prima considera
determinante il ruolo dei geni; l’altra guarda all’ambiente e agli stimoli che esso fornisce,
riconoscendo a questi ultimi un ruolo determinante.
Tuttavia, il vero problema è comprendere come geni e ambiente interagiscono.
È stato infatti dimostrato che se un carattere o fenotipo è geneticamente determinato al
100%m esso può essere influenzato e modificato da variabili ambientali.
Eysenck a tale proposito, fa riferimento a quanto osservato nei conigli himalaiani che, se
allevati nel loro contesto naturale, hanno il corpo bianco e i piedi neri, se allevati invece in una
gabbia riscaldata non presentano più alcuna traccia del colore nero, pur essendo
geneticamente identici ai primi.

Si può affermare che ogni carattere è in origine sia ereditario che ambientalistico. Il
genotipo determina le potenzialità di un organismo. L’ambiente determina quali o
quante potenzialità si concreteranno durante lo sviluppo.
Il vero problema consiste nello stabilire in che misura la variabilità fenotipica è conseguenza
del genoma e/o dell’ambiente.

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Fino agli anni ’40 la posizione dominante si ispirava alla teoria dell’ereditarietà.
Morgan ad esempio affermava, con il suo principio di economia, che nessun fenomeno deve
essere spiegato facendo ricorso a meccanismi psichici superiori quando è possibile riferirsi a
meccanismi psichici inferiori.
Inoltre la teoria darwiniana poneva a fondamento dell’evoluzione della specie il meccanismo
dell’ereditarietà, attraverso il fenomeno della selezione naturale.
Nel 1942 Tryon fornisce una delle prime dimostrazioni empiriche della ereditabilità
dell’intelligenza, grazie a uno studio condotto su una popolazione di ratti.
Dopo aver distinto gli animali in intelligenti e ottusi sulla base della loro abilità nell’uscire da un
labirinto, ha accoppiato le femmine ottuse con i maschi ottusi, facendo lo stesso per femmine e
maschi intelligenti. Gli incroci gli hanno consentito di osservare, già a partire dalla settima
generazione, una netta differenza nelle prestazioni dei due gruppi di ratti. Egli conclude
dunque che la capacità di soluzione di quello specifico problema è ereditabile. A ulteriore
conferma, ha adottato la procedura di “scambio di covata”: una madre ottusa allevava un ratto
intelligente e viceversa.
In linea con quanto ipotizzato dall’autore, i risultati hanno mostrato che i ratti del gruppo
ottuso continuavano a commettere un maggio numero di errori, rispetto a quanti ne
commetteva il gruppo dei ratti intelligenti, indipendentemente dal contesto in cui erano stati
allevati.
La nascita della psicometria e l’elaborazione dei primi test di intelligenza rafforzano
ulteriormente le convinzioni degli ereditaristi.

L’uso delle procedure statistiche consente inoltre agli studiosi di prevedere in che misura un
determinato carattere sia trasmissibile geneticamente.
Secondo Vernon (1950) i fattori ereditari determinano il 64% della varianza, le differenze
interfamiliari il 16%, le differenze intrafamiliari il 3%, la correlazione tra eredità e ambiente il
17%.
Mentre Jensen (1972) ascrive ai fattori ereditari l’85% della varianza, mentre ai fattori
ambientali appena il 10%. L’autore ritiene inoltre, che il 5% sia dovuto ad errori di misurazione
dei test.

Una serie di studi tra cui quello sui gemelli monozigoti, allevati in ambienti differenti ha
mostrato l’esistenza di una significativa correlazione tra i QI di questi ultimi, confermando in
tal modo le ipotesi alla base della teoria dell’ereditarietà dell’intelligenza.
Ad esempio, Burt (1966) studia 53 coppie di gemelli cresciuti in ambienti diversi, constatando
l’esistenza di altissime correlazioni tra i loro QI.
Bouchard e colleghi (1990) hanno condotto uno dei più ampi studi sui gemelli monozigoti
separati alla nascita, il cosiddetto Minnesota Twin Study, che ha portato a stimare un grado di
correlazione tra i QI pari a 0,70.
I gemelli partecipanti a questo studio erano stati, infatti, separati nelle prime settimane di
vista e non avevano mai avuto contatti fino al momento in cui la ricerca li aveva riuniti.
Sempre allo scopo di stimare il ruolo delle variabili genetiche nella determinazione del QI, altri
studi hanno confrontato i QI di gemelli monozigoti ed eterozigoti, cresciuti nello stesso
ambiente.
L’ipotesi alla base di tali ricerche è che i QI dei gemelli monozigoti correlano maggiormente.
Altri studi riguardano le correlazioni tra i QI di genitori e figli biologici e i QI di genitori e figli

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adottati, con l’intento di verificare l’ipotesi che il sussistere di un legame biologico determini un
coefficiente di correlazione più elevato, come già dimostrato da alcune vecchie ricerche.
In particolare, alcuni studi evidenziano che i QI dei bambini adottati correlano in maniera
significativa solo con quello dei loro genitori naturali.

Le ricerche intraprese da Plomin a partire dal 1975 e a tutt’oggi in corso, sottolineano


l’importanza dei fattori genetici nello sviluppo delle abilità verbali e spaziali.
Nel corso dello sviluppo, le abilità intellettive dei bambini adottati tendono ad essere più simili
a quelle dei loro genitori naturali. Tale avvicinamento non si verificherà mai, invece, nella
coppia dei bambini adottati.
Questo dimostra che non c’è un andamento stabile poiché in una fase dello sviluppo le variabili
genetiche pesano meno rispetto che in altre fasi.

Altri studi (visione ambientalista) sono stati condotti, in particolare su un gruppo di 100
bambini adottati, da Skodak e Skeels. Essi registrano un QI medio di 117, mentre il QI delle
madri naturali è di 87. I bambini adottati presentano inoltre, un QI medio superiore alla
norma, anche quando i loro genitori biologici ottengono QI molto bassi.
Inoltre, a ulteriore riprova del ruolo giocato dall’ambiente, una recente ricerca condotta da
Flyn, ha riscontrato nell’ultima generazione un aumento significativo nei punteggi del QI nel
mondo, attribuibile, secondo lo studioso alle diverse e più favorevoli condizioni ambientali.
Nel complesso questi dati confermerebbero il peso giocato dall’ambiente nello sviluppo
dell’intelligenza, ponendo in secondo piano i fattori ereditari.

Ci sembra dunque possibile affermare che tutti gli studi finora citati non solo hanno fallito nel
loro tentativo di dimostrare in maniera rigorosamente sperimentale l’influenza dei fattori
genetici nello sviluppo dell’intelligenza, ma, in alcuni casi, sono stati addirittura reinterpretati
come prova della preminenza dei fattori ambientali.

Secondo Dickens, una predisposizione genetica spinge a selezionare e a sfruttare


l’ambiente più favorevole allo sviluppo delle potenzialità biologiche, determinando un
effetto moltiplicatore tra talento e ambiente. Un bambino che presenta, ad esempio, una
predisposizione al canto, tenderà non solo ad esercitare quanto più possibile tale attitudine, ma
anche a ricercare attivamente nel proprio ambiente condizioni e situazioni in grado di
sviluppare la potenzialità di base: parteciperà più di altri bambini a manifestazioni canore,
frequenterà gruppi di canto ecc.

Alla ricerca del gene dell’intelligenza

Benché James Watson, studioso a cui si deve la scoperta della struttura del DNA, ritenga la
“stupidità” una condizione genetica, eliminabile mediante tecniche di ingegneria genetica, la
ricerca di singoli geni dell’intelligenza è ancora ben lontana dall’aver prodotto risultati condivisi
e suffragati da dati sperimentali certi.
Allo stato attuale, per quanto riguarda le capacità intellettive, la ricerca ha evidenziato
l’esistenza di mutazioni in singoli geni, responsabili di deficit cognitivi, ma non in grado di
spiegare le differenze individuali nell’intelligenza.

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Al momento diverse sono le teorie formulate dagli studiosi per cercare di spiegare la variabilità
dell’intelligenza umana. Ipotesi recentissime attribuirebbero tale variabilità a proprietà
biologiche dell’intero cervello e non al funzionamento di sue aree specifiche.
Secondo l’ipotesi della regolazione neurale di Haier, la quantità dei collegamenti
sinaptici determinerebbe gran parte delle differenze individuali nell’intelligenza.
Secondo questa ipotesi, più sono gli stimoli ambientali, più aumenta il numero di connessioni
sinaptiche.
Secondo Miller, è invece il grado di mielinizzazione degli assoni, lungo cui si effettua la
trasmissione dell’informazione neurale, a determinare lo sviluppo delle capacità intellettive.
Il maggior isolamento degli assoni, dovuto alla guaina mielinica, produce una minore
interferenza fra le informazioni trasmesse per via neurale, determinano minori perdite a livello
energetico e minori errori di trasmissione.
Inoltre, la mielinizzazione degli assoni, che si realizza nella prima infanzia, tende a ridursi in
età avanzata.

Dalle radici del pensiero agli algoritmi

L’affermarsi dell’Intelligenza Artificiale (IA) è stata senza alcun dubbio favorita dai contributi
provenienti da settori disciplinari anche distanti dall’indagine psicologica.
• Già gli atomisti (Leucippo, Democrito, Epicuro) affermavano che i vari processi mentali
derivano dall’attività caotica degli atomi in continuo movimento all’interno del cranio.
Tale concetto viene ripreso da Hobbes nel Leviatano: “il movimento è il principio
universale di spiegazione di ogni accadere”; “dal movimento si genera tutto”.

• Per Aristotele ogni realtà è costituita dalla sintesi, sinolo, di materia e forma. Questo
sinolo è la vera sostanza, poiché né la materia in quanto tale, cioè priva di ogni
determinazione, né la forma fuori dalla realizzazione della materia possono sussistere.
Tra “forma” e “materia” esiste un rapporto necessario.

• Cartesio considerando la mente un ente a sé stante, totalmente separato dal corpo,


propone un dualismo res ecxtensa e res cogitans.

• Pascal evidenzia come la scienza presenti dei limiti strutturali, in grado di invalidarne i
risultati.
Il primo limite della scienza è per Pascal l’esperienza e successivamente l’indagine dei
problemi esistenziali.

• Kant precisa che sensibilità ed intelletto sono entrambi indispensabili alla conoscenza: “i
pensieri senza contenuto, senza intuizioni sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono
cieche”.

• Il dualismo cartesiano trova in Leibiniz un’assoluta risoluzione, mediante la riduzione


della materia a puro fenomeno dello spirito e dunque a pensiero.
Il maggiore contributo di Leibiniz al calcolo consiste nell’aver messo a punto un sistema
di simboli in grado di effettuare le ricerche infinitesimali.
Oggi, può essere considerato, a pieno titolo, un precursore di quel processo di ma

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tematizzazione della logica o di logicizzazione della matematica che tanta parte avrà
nella nascita dei presupposti dell’IA.

• Hobbes, ad esempio, ritiene che i fenomeno vadano sempre ricondotto alle loro cause
matematiche, che non sono estranee al nostro pensiero, ma costruibili
matematicamente anche indipendentemente dall’esistenza degli oggetti.
L’attività cognitiva viene cosi rappresentata come una complessa forma di calcolo
computazionale, dipendente dalla realtà fisica.
È dunque evidente l’influenza che Hobbes eserciterà sulla nascita dell’IA, le cui
premesse concettuali risiedono nella concezione dei processi mentali come prestazioni
di calcolo aventi natura strettamente formale.

Tali concezioni filosofiche hanno fornito i principali presupposti teorico-epistemologici che


stanno alla base delle teorie dell’IA.

La matematica computazionale e la logica

La matematica computazionale e la logica sono le principali aree sulle quali si fonda l’IA.
Così, il fenomeno da studiare viene sostituito da un modello matematico, la cui soluzione ne
descrive in modo più o meno adeguato l’evoluzione, mentre l’analisi del modello permette di
ricavare le informazioni cercate senza dover effettivamente riprodurre il fenomeno nella realtà.
La scienza del calcolo consente in tal modo di schematizzare la risoluzione di un qualsiasi
problema della realtà fisica, poiché mediante l’introduzione di un modello matematico e la
scelta di un algoritmo diventa possibile analizzare e comprendere realtà complesse.

Il tentativo di studiare i processi di pensiero mediante calcoli matematici viene


successivamente portato avanti da Frege( 1879). Secondo l’autore, la matematica deve
fondarsi su basi assolutamente obiettive e certe, grazie alle quali si potrà dimostrare non solo
che l’analisi è perfettamente riconducibile all’aritmetica, ma che l’aritmetica stessa non è altro
che una parte della logica.
Frege parte dall’obiettivo fondamentale di fondare una logica, la logica del primo ordine,
mediante la quale ricavare teoremi con cui rappresentare gran parte della
conoscenza.

Tuttavia Godel con il suo teorema di incompletezza dimostrerà che nessuna teoria che sia
consistente può anche essere completa, nel senso di poter dimostrare tutte le verità
matematiche esprimibili nel suo linguaggio e una delle verità che essa non può dimostrare è
precisamente la propria consistenza.
Si sancisce in tal modo l’impossibilità di trovare algoritmi in grado di stabilire la verità
assoluta di ogni enunciato.

Turing, che per primo suggerisce la possibilità di un calcolatore programmabile, sottolinea


l’esistenza di funzioni non calcolabili da nessuna macchina, ritenendo impossibile
modellizzare ogni aspetto del ragionamento logico.

L’intelligenza Artificiale

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A questa nuova disciplina si attribuisce l’obiettivo di simulare le abilità intellettive umane


mediante la realizzazione di sistemi artificiali dotati di intelligenza.
La mente umana viene così paragonata a un programma software, cioè a un insieme di regole
aritmetiche, applicabili a una qualsiasi base hardware.
La nascita dell’IA si deve, senza alcun dubbio, agli sviluppi che la teoria computazionale prima
e l’informatica dopo avevano raggiunto in quegli anni.
Inoltre, gli studi condotti dalle neuroscienze evidenziano sempre più i meccanismi fisici alla
base dei processi mentali.

Lo scopo scientifico della ricerca dell’IA è di arrivare a comprendere l’intelligenza come


processo algoritmico, ovvero come manipolazione di simboli formali, mentre il suo scopo
tecnologico è di costruire macchine che superino o estendano utilmente le capacità mentali
degli esseri umani.
I presupposti di base dell’IA si fondano su una concezione simbolica dell’attività psichica,
secondo cui il pensiero non è altro che una manipolazione di simboli.

Come abbiamo prima detto, Turin appare la figura cardine nello sviluppo dell’IA poiché per
primo ipotizza che l’attività della mente può essere paragonata al funzionamento di un
calcolatore.
Tuttavia la morte precoce impedisce al giovane Turing di assistere alla formalizzazione teorica
della disciplina che egli stesse aveva contribuito a far nascere.
Saranno Newell, fisico, e Simon, economista, a proseguire i suoi studi e grazie
all’introduzione della nozione di euristica daranno nuovi e stimolanti impulsi alle ricerche
sull’IA.
Gli studiosi mettono a punto un programma, General Problem Solver (GPS), che graazie a una
serie molto complessa di regole e di procedure è in grado di risolvere un elebato numero di
problemi logico-matematici.
Il GPS può essere considerato il ptimo programma ispirato a una simulazione reale dei processi
mentali coinvolti nella risoluzione di un problema.
L’idea di fondo da cui gli autori partono si basa sull’ipotesi che, nel proceso di risoluzione di un
problema, gli individui esplorino nella loro mente vari stati di conoscenza che, partendo da uno
stato iniziale, attraverso stati intermedi, portano allo stato finale. Il passaggio nei vari
sottostati è regolare dalle strategie euristiche, volte a ridurre il numero degli stati intermedi.
Mediante l’analisi mezzi-fine, la situazione di partenza viene confrontata con l’obiettivo; dopo
aver rilevato una eventuale differenza fra la situazione presente e quella desiderata vengono
attivate le operazioni necessarie per ridurre la differenza.
Le euristiche si contrappongono agli algoritmi poiché, a differenza di questi ultimi, che
richiedono tempi di soluzione talvolta estremamente lunghi, rappresentano scorciatoie
cognitive, espedienti che consentono di giungere rapidamente alla soluzione, pur non
garantendone il risultato.

Ciò che ancora manca alla macchina è la capacità di comprendere il mondo, di sviluppare in
modo autonomo e creativo nuove conoscenze. Obiettivo, questo, che Lenat, studente del
Massachusetts Institute Technology, ritiene raggiunto nel 1984, con la messa a punto di “Cyc”:
un programma che funziona da deposito delle conoscenze relative alla vita quotidiana.

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L’obiettivo era quello di dotare Cyc di una sorta di memoria semantica sul mondo, a partire da
elementi banali ma concreti, grazie ai quali anche una macchina può diventare una creatura
intelligente.
In realtà secondo lo stesso ideatore Cyc non è ancora pronto ad affrontare il mondo, sebbene il
database delle sue conoscenze continui ad evolversi sempre più.

Il campo in cui l’IA ha conseguito i risultati più interessanti è quello dei sistemi esperti, che
possono essere definiti come programmi che risolvono problemi di una complessità tale da
richiedere, se affrontati da esseri umani, competenze specifiche.
Un sistema esperto è dotato di un database contenente conoscenze specifiche relative ad
ambiti specialistici, e di un insieme di regole e di criteri inferenziali grazie ai quali produce
risposte sui dati che l’utente immette nella macchina.
È necessaria dunque la presenza, nella fase di programmazione, del cosiddetto “ingegnere
della conoscenza”.
I sistemi esperti possono produrre prestazioni solo attraverso regole inferenziali del tipo
“se….allora”.
Tuttavia anche l’uso dei sistemi esperti non è esente da critiche poiché, come alcuni studiosi
sottolineano, il sistema è in grado di affrontare soltanto situazioni prevedibili per le quali sono
state in precedenza stabilite precise procedure inferenziali.
Secondo Minsky infatti l’intelligenza è innanzitutto versatilità, ed i sistemi esperti non
sono affatto versatili.

La robotica

Una delle applicazioni più importanti dell’IA è senza alcun dubbio la robotica, ovvero quella
parte della cibernetica che si occupa dello studio, della costruzione e dell’impiego dei robot,
cioè di operatori meccanici automatici, controllati da un cervello elettronico.
Il 1948 vede la costruzione delle prime creature meccaniche, in realtà ancora molto distanti
dagli attuali robot. Si tratta di tartarughe elettroniche, a cui hanno fatto seguito scoiattoli, topi
e altri animali in grado di eseguire prestazioni estremamente semplici.

Alcuni degli ultimi robot progettati sono:

• Aibo: un cane artificiale prodotto dalla Sony. È in grado di vedere il mondo che lo
circonda, riconoscere la voce del padrone, esaminare e giocare con gli oggetti e persino
provare emozioni, in risposta agli stimoli del padrone.
• P3: robot umanoide creato dalla Honda. È alto 160 cm, pesa 130 kg. Cammina con una
velocità di due chilometri all’ora e ha un’autonomia di 25 minuti. È in grado di
camminare in modo del tutto simile all’uomo, di scendere le scale, di spingere carrelli,
di giocare a calcio. È anche in grado di riconoscere pericoli ed ostacoli e modificare la
propria andatura di conseguenza.
• Kismet: è il primo robot sociale, in grado di comunicare le proprie emozioni mediante
espressioni facciali che riproducono esattamente quelle umane: si mostra triste quando
è solo e felice quando qualcuno gli si avvicina. È anche in grado di apparire annoiato di

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fronte a stimoli monotoni e addirittura disgustato o curioso a seconda delle circostanze


ambientali.
• B21r: è stato prodotto presso il laboratorio di Robotica del dipartimento di Ingegneria
informatica e del CERE-CNR di Palermo. Si tratta di un robot mobile dall’accattivante
colore rosso; è alto 106 cm, con un peso di 122,5 kg, ha le capacità visive (2
telecamere) e percettive (sensori laser, a ultrasuoni, ad infrarossi) che forniscono al
sistema di navigazione le informazioni necessarie ad orientarsi, a evitare gli ostacoli, a
individuare in ogni istante la propria posizione.
B21r è pronto per essere utilizzato nel mondo reale, come accompagnatore museale: è,
infatti, in grado di interagire con l’utente, di produrre ipertesti. In base ad alcune
informazioni preliminari sa se si tratta di un semplice turista - e in questo caso lo porta
a vedere tutte le esposizioni – o di un visitatore esigente – e allora sceglie dei percorsi
preferenziali, modulando anche la propria andatura in base alla corporatura del
soggetto.

Quando il computer ha in senso dell’humour

L’umorismo è una componente essenziale della comunicazione, può nascere involontariamente


da un doppio senso, da una parola pronunciata male o storpiata volontariamente, cioè
giocando sull’ambiguità, o da una contraddizione insita in una situazione.
Ci si è chiesti quale tipo di intelligenza è richiesta alle macchine per la realizzazione di costrutti
linguistici umoristici e che ruolo può svolgere l’umorismo computazionale nel rendere i sistemi
artificiali sempre più intelligenti?
Stock a questo proposito ha messo a punto un prototipo, un generatore di acronimi. Il
prototipo si basa su un tesauro, strumento con cui trovare relazioni tra gruppi di parole, e di
un dizionario esteso della lingua inglese.
L’ambizione è quella di costruire sistemi in grado di rilevare e generare incongruità,
contrapposizioni semantiche anche per intere frasi.
L’umorismo può diventare una chance per rendere più flessibile il canale di comunicazione
uomo-computer, in particolare nei settori dell’intrattenimento interattivo, dei videogiochi
educativi o della pubblicità.

Critiche all’IA

L’IA, già a partire dalla sua prima apparizione ufficiale al convegno di Dartmouth, solleva
numerose critiche alimentate principalmente dalla convinzione che le macchine “non
penseranno mai”. Tali critiche continuano ancor oggi ad animare il dibattito tra gli studiosi,
secondo il fisico e matematico Penrose (1997), i sistemi computazionali non potranno mai
simulare i processi mentali umani: l’autore sottolinea con forza la natura non algoritmica della
coscienza umana.
Per giungere a una spiegazione scientifica della coscienza, è necessario postulare l’esistenza di
una nuova fisica (fisica dei quanti), grazie alla quale abbandonare il presupposto dell’IA,
secondo cui “il pensiero è computazione”.

Le reti neurali

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Se i sistemi di elaborazione seriale, su cui si basano i programmi simbolici dell’IA, riescono


indubbiamente a risolvere compiti di difficile esecuzione per la mente umana, essi mostrano
tutta la loro fragilità di fronte a compiti semplici e financo banali di cui la nostra vita
quotidiana è costellata.
L’approccio simbolico utilizzato dall’IA evidenzia, infatti, seri limiti nella messa a punto di
programmi computazionali dotati di quelle caratteristiche che contraddistinguono il pensiero
umano e cioè di flessibilità, di rapidità di esecuzione.
A partire da tali limiti, e sulla scia dei contributi offerti dalle neuroscienze, si sviluppa, intorno
alla seconda metà degli anni ’50, un nuovo modello definito “reti connessionistiche” o “reti
neurali”.
Tale paradigma si pone l’obiettivo, alquanto ambizioso, di riprodurre computazionalmente il
funzionamento dei circuiti neurali naturali, mediante reti di neuroni artificiali.

A McCulloch e Pitts (1943) si deve la prima versione rudimentale di rete.


La “regola di Hebb” ha influenzato lo sviluppo dei primi modelli di rete neurali. Secondo tale
regola se due neuroni collegati fra di loro sono attivi simultaneamente, il valore
sinaptico della loro connessione viene aumentando.
Solo dieci anni dopo Rosenblatt (1962) mette a punto il primo modello dettagliato di rete
neurale: il “percettrone”.
Risulta evidente la grande novità introdotta dal paradigma connessionista nella prospettiva
psicologica: non è più necessario programmare in modo esplicito, mediante sistemi simbolici,
macchine sempre più complesse e veloci, poiché siamo oggi in grado di far sviluppare ad una
macchina la capacità di apprendere, di fare inferenze, di generare nuove conoscenze, a partire
dai processi neurofisiologici seguiti dal cervello umano.
L’intelligenza Artificiale distribuita
Minsky afferma: “la mente umana non è un’entità unica, un blocco monolitico. Possiede
un’architettura interna, è formata da parti distinte che a volte collaborano, a volte entrano in
competizione e generano conflitti. Io chiamo questa parti “agenti”. Sono una sorta di micro
computer specializzati, ognuno dei quali esegue un compito molto semplice. La molteplicità è
la chiave dell’intelligenza”.
La tecnologia degli agenti, nata negli anni ’70 e studiata a partire dai primi anni ’90,
riguarda una classe di programmi con delle caratteristiche particolari.
Un agente è un ente software con personalità e iniziativa, in grado di ricevere
percezioni dell’ambiente in cui si trova e di modificarlo dinamicamente mediante i
suoi effettori, pilotando il proprio comportamento in base all’esperienza acquisita.
L’agente intelligente si caratterizza in quando ha uno o più obiettivi da perseguire. È
autonomo, ma può comunicare con altri agenti per la risoluzione di problemi complessi, più o
come avviene in una colonia di formiche, manifestando un’intelligenza di tipo distributivo.

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