Sei sulla pagina 1di 9

 CULTURA

Lo spettacolo della Messa. L’efficacia del


rito romano agli occhi di un regista teatrale
Marzo 12, 2016 Valerio Pece

http://www.tempi.it/spettacolo-messa-efficacia-rito-romano-agli-occhi-di-un-
regista-teatrale#.V3dEtbjhCUl

Intervista a Luigi Martinelli, che ha provato a superare le dispute liturgiche seguite


al motu proprio di Benedetto XVI analizzando le due forme del rito romano
(ordinaria e straordinaria) come “performance”

Analizzare la ritualità cattolica comparando sinotticamente la celebrazione della Santa Messa

secondo le due forme del rito romano: straordinaria e ordinaria. Come? Seguendo lo schema di una

“critica teatrale”, prendendo quindi in esame gli aspetti esteriori e percepibili della liturgia.

Esattamente come farebbe un esperto regista teatrale, il quale, dal banco di una chiesa invece che

dal più usuale golfo mistico, assistendo alle due forme del rito, analizzasse criticamente ciò che

vede, che ascolta, che avverte: ciò che gli parla. Un’analisi che, tra l’altro, provenendo da un

professionista a digiuno di dispute liturgiche, si rivelerebbe depotenziata dall’estenuante dibattito

sul tema; felicemente “neutra”.

Questo è il geniale punto di vista del saggio di Luigi Martinelli, giovane studioso bresciano di teatro

e cristianesimo (Le forme del sacro. La performance nel rito romano, Cavinato Editore, Brescia,

2015). Un libro che piacerebbe a Benedetto XVI, e non solo certo perché impreziosito dalla

prefazione di quel monsignor Nicola Bux (autore di saggi di successo nonché professore di liturgia

comparata, teologia orientale e sacramentaria presso la Facoltà teologica di Bari) che il papa

emerito volle fortissimamente con sé come consultore dell’ufficio delle celebrazioni liturgiche

pontificie.

Martinelli, se scrivessimo che lei ha voluto indagare “l’efficacia” del rito in quanto

performance, avremmo centrato il tema del suo saggio?


Direi proprio di sì. Se il saggio si inserisce idealmente nella discussione sulle forme del rito romano

sviluppatasi in seguito alla pubblicazione del motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto

XVI, la specifica indagine del mio studio si muove applicando allo studio delle forme del rito

cattolico gli strumenti di analisi messi a punto nel campo dell’antropologia della performance da

maestri quali Victor Turner e Richard Schechner. Qualsiasi forma di rito, infatti, è anche

“performance”, vale a dire azione concertata di natura relazionale in un contesto comunitario. Per

questo motivo, proprio uno studio degli aspetti performativi di un rito può contribuire ad indagarne

a fondo l’efficacia, in relazione ai presupposti e agli obiettivi dichiarati.

Lei tratta il tema della liturgia da un punto di vista assolutamente inusuale, quello del

teatro e della performance. Come si può trovare il punto di contatto tra un elemento

profano come il teatro e uno sacro come la liturgia?

Mi rendo conto che parlando di liturgia i riferimenti teatrali possono apparire stranianti, tuttavia va

ricordato come, storicamente, il teatro nasce e si sviluppa proprio all’interno della tradizione rituale

religiosa, per cui i meccanismi che stanno alla base dell’azione teatrale e dell’azione rituale religiosa

sono per certi versi simili. Quando nel libro parlo di teatro, poi, non lo intendo in senso né in

professionistico, né borghese e né spettacolare, ma come attività rappresentativa primordiale che

per essere agita richiede un determinato uso del corpo, una disciplina del gesto, del movimento e

dell’azione, un’arte del fare e del dire, proprio ciò che è richiesto in un rito, ed è proprio su questi

elementi che il mondo del rito e del teatro si avvicinano e si comparano.

Nel suo libro lei fa riferimento ad un preciso momento della storia del teatro, quello

del Novecento. Come mai?

Il riferimento non è casuale, poiché i teorici teatrali del XX secolo sono proprio coloro che per

ritrovare le specificità dell’azione teatrale, messa in crisi da altri strumenti di rappresentazione

come il cinema o la televisione, hanno attinto a piene mani dal grande mondo del rito e della

ritualità, rifondando il teatro su valori performativi universali: il corpo, la voce, lo spazio, il

movimento, l’attore/performer, la relazione tra pubblico e attori/performer. E questi valori sono

comuni all’esperienza teatrale e all’esperienza rituale e concorrono a costituire l’azione performativa


ovvero un’insieme compiuto di azioni corporee, visibili ed efficaci che, legate tra loro, fluiscono

ordinatamente per esprimere un determinato concetto. È proprio sul terreno dell’attività

performativa che si può giocare efficacemente il confronto tra rito e teatro. In definitiva nel libro

prendo in considerazione la performance corporea come un campo assolutamente neutro, entro il

quale è possibile tessere delle comparazioni in qualche modo “pacifiche”, al di là quindi delle usuali

posizioni tradizionaliste-progressiste. Lo scopo ultimo, d’altronde, è quello di offrire indicazioni per

uscire dalla crisi liturgica contemporanea, valorizzare l’esperienza della preghiera rituale per fare

della liturgia un luogo di incontro vivo tra l’umano e il divino.

Nel suo libro si sofferma diffusamente sull’analisi della liturgia nella forma

straordinaria del rito romano indicandola come esempio da seguire. Pur avendo lei

evidenziato i punti di forza e le criticità di entrambe le forme, nel confronto sinottico

col rito ordinario il “Vetus Ordo Missae” sembra vincere abbastanza nettamente.

Cosa può comunicare all’uomo di oggi un rito così antico?

Mi soffermo sulla liturgia romana antica proprio perché in essa ha un ruolo fondamentale la

performance corporea e sensoriale che comunica efficacemente all’uomo il contenuto essenziale

della fede che viene celebrata. Essa manifesta il senso del sacro sfiorando la sensibilità fisica

dell’uomo con l’ausilio di azioni esteriori efficaci come la sapiente disposizione del silenzio “attivo”

nelle parti centrali del rito; l’importanza accordata ad un certo tipo di canto, quello gregoriano, e

alla musica solistica che accompagna il raccoglimento; la parola viva della lingua sacra che

emancipa la parola dall’urgenza di significare rilanciando il valore della vocalità; l’importanza

riservata alle azioni, ai gesti, alle posture; l’orientamento spaziale e la verticalità. Tutto è costruito

attorno ad elementi performativi in grado di generare realtà ed esperienza. Il rito romano antico è

un agglomerato di elementi rituali «esoterici», ovvero quelli che non si rivolgono primariamente

alla sfera razionale, ma alla percezione sensibile che trascende la ragione umana. Non è una liturgia

di sole parole, concettuale, non è un semplice fare memoria, non è un guardare in modo distante per

soddisfare il gusto estetico, ma un’esperienza concreta di realtà, una liturgia che interpella la

sensorialità umana coinvolgendo il tutt’uno corpo-mente-anima nella celebrazione dei Santi

Misteri.
Come mai, secondo le sue ricerche, la liturgia nella forma ordinaria del rito romano

non riesce ad esprimere appieno il senso del sacro?

La riforma liturgica ha riformato un rito soffermandosi quasi esclusivamente sul legòmenon, ovvero

sulle parole, i testi, le traduzioni, le semplificazioni linguistiche e comunicative, al fine di educare ed

istruire le coscienze dei fedeli attraverso la comprensione intellettiva. Si è operato secondo

l’atteggiamento moderno di svalutazione del rituale, spostando l’attenzione dal suo potere emotivo

al suo significato, nell’illusione che comprendere un rito sia equivalente a viverlo. Questa deriva

razionalistica e logocentrica della liturgia, ha ridimensionato l’importanza del corpo e della

corporeità, del valore dei sensi e della sensibilità nell’atto comunicativo ed espressivo. Infatti la

forma ordinaria è contraddistinta dall’uso della lingua parlata che ha accresciuto la verbosità; dal

ridimensionamento del silenzio; dalla riduzione della performance fisica, della formalità e della

ripetitività dei gesti; dall’affioramento della comunità come soggetto della celebrazione favorito dal

copioso utilizzo del canto comunitario; da una diversa disposizione dello spazio al fine di favorire la

conversazione umana orizzontale. Così da una liturgia del corpo, come quella antica, si è passati ad

una liturgia della testa. Pertanto, nella forma ordinaria, vi è una predominanza dei testi proclamati

o recitati a scapito della performance corporea, del potere dell’azione, del gesto, del movimento, del

suono, in altre parole si è accantonata la ri-presentazione performativa. L’insieme di tutti questi

fattori ha determinato la predominanza del contenuto sulla forma, dunque la liturgia ne risulta

indebolita, con una conseguente perdita del senso del sacro.

Se è vero che «ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro

e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura,

giudicato dannoso» (così Benedetto XVI nella lettera di presentazione del motu

proprio “Summorum pontificum”) non le sembra che oggi, realisticamente, la

convivenza delle due forme del rito romano possa concorrere a dividere

maggiormente una comunità ecclesiale già per tanti aspetti composita e discordante?

Secondo me questo rischio non esiste. Io, come tantissime altre persone, frequento senza problemi

sia l’una che l’altra forma. Anzi, una maggiore diffusione del biformalismo rituale può certamente

rappresentare una ricchezza spirituale. In particolare, la convivenza della forma straordinaria


accanto a quella ordinaria può essere molto positiva per quest’ultima: è auspicabile procedere sulla

strada del confronto e dell’osmotico arricchimento dell’antico sul nuovo, recuperando tutti quegli

elementi rituali tradizionali che consentiranno anche alla liturgia postconciliare di porsi

maggiormente come tangibile esperienza di fede e di sensibile incontro con Dio.

Che direbbe Papa Francesco in proposito?

Molto probabilmente sarebbe d’accordo. La convivenza parallela delle due forme del rito romano,

d’altronde, dovrebbe essere la normalità in una Chiesa aperta, inclusiva, “in uscita”, in cui c’è spazio

per tutti.

Descripción
“Le forme del sacro. La performance del rito romano” è lo sviluppo ulteriore della tesi di laurea
che l’autore ha discusso nel 2011 presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia. Il testo
è una ricerca antropologica che vuole analizzare la ritualità cattolica, comparando la
celebrazione della messa secondo le due forme del rito romano: straordinaria (detta di S. Pio V,
precedente al concilio Vaticano II) e ordinaria (detta di Paolo VI, scaturita dalla riforma liturgica
del concilio Vaticano II). L’indagine si muove secondo i presupposti dell’antropologia della
performance, quindi, seguendo lo schema di una “critica teatrale”, prende in esame gli aspetti
esteriori e percepibili della liturgia. Si intende così far emergere la realtà oggettiva delle due
forme del rito romano, al di là delle ideologie (tradizionaliste - progressiste). Il testo è fedele al
pensiero di Joseph Ratzinger il quale non risparmiando i giudizi sulla liturgia rinnovata in
seguito al Concilio Vaticano II, al contempo ragiona secondo un'ermeneutica della continuità con
il passato proponendo una "riforma della riforma" per arginare la crisi liturgica contemporanea.

--------------------------------------------------------------------------

Le spectacle de la Messe ou l’efficacité de la


liturgie vue par un metteur en scène

C'est depuis la critique théâtrale que Luigi Martelli met en regard les formes du
rite romai afin d’en comprendre l’efficacité.
Le cardinal Hans Urs von Balthasar avait élaboré un appareil conceptuel à partir du théâtre afin
d’expliciter la mission du Christ et celle du chrétien. Observateur professionnel, un metteur en scène
s’intéresse aujourd’hui à la dimension performative de la liturgie en ayant recours au théâtre moderne.
Pour se faire, il met en regard les formes ordinaires et extraordinaires du rite romain[1].
L’intérêt du recours à la liturgie traditionnelle est la place qui y est faite au corps dans l’expression de
la sacralité.
En soulignant l’aspect performatif de la liturgie et l’importance du corps comme médiation de la pré-
sence, l’auteur nous invite à dépasser les oppositions habituelles et à découvrir un nouveau rapport
entre la liturgie et la soif de l’homme d’aujourd’hui telle qu’elle s’exprime à travers le théâtre contem-
porain. Une invitation à entrer dans un nouveau regard avant de vivre le Triduum.

Analyser le rite catholique en faisant une comparaison synoptique de la célébration de la Sainte Messe
selon les deux formes du rite romain : extraordinaire et ordinaire. Comment ? Selon les critères d’une
« critique théâtrale », en prenant par conséquent en examen les aspects extérieurs et perceptibles de la
liturgie. Exactement comme le ferait un metteur en scène d’une pièce de théâtre, lequel, depuis les bancs
d’une église ou plutôt depuis la fosse d’orchestre, assistant aux deux formes du rite, analyserait avec des
yeux critiques ce qu’il voit, ce qu’il entend, ce qu’il perçoit : ce qui lui parle. Une analyse qui, entre
autre, venant d’un professionnel heureusement « neutre », extérieure aux controverses liturgiques, se
trouverait dépossédé de l’exténuant débat sur le thème.

C’est le génial point de vue de l’essai de Luigi Martelli, jeune spécialiste en théâtre et en christianisme à
Brescia (Le forme del sacro. La performance nel rito romano, Cavinato Editor, Brescia, 2015). Un livre
qui plairait à Benoit XVI, et non pas seulement parce que Nicolas Bux (auteur d’essais à succès et pro-
fesseur de liturgie comparée, théologie orientale et sacramentaire, près la Faculté de théologie de Bari)
en a écrit la préface, lui que le Pape émérite voulut avec tant d’insistance près de lui comme consulteur
pour les liturgies pontificales.

Martelli, si nous écrivions que vous avez voulu enquêter sur « l’efficacité » du rite comme perfor-
mance, nous aurions touché le cœur de votre ouvrage ?
Je dirais que oui. Mon essai s’insère idéalement dans la discussion sur les formes du rite romain qui ont
eu lieu après la publication du Motu Proprio Summorum Pontificium de Benoit XVI. Mais la spécificité
de mon enquête se situe dans l’application des instruments d’analyse mis au point dans le champ de
l’anthropologie de la performance de maîtres comme Victor Turner et Richard Schechner, à l’étude des
deux formes du rite catholique. N’importe quelle forme de rite, de fait, est aussi une « performance »,
c’est-à-dire une action concertée de nature relationnelle dans un contexte communautaire. C’est pour
cela que l’étude des aspects performants d’un rite peut contribuer à enquêter à fond sur son efficacité,
selon les présupposés et les objectifs susvisés.
Vous parlez du thème de la liturgie d’un point de vue absolument inhabituel, celui du théâtre et de
la performance. Comment peut-on trouver le point de contact entre un élément profane comme le
théâtre et sacré comme la liturgie ?
Je me rends bien compte que pour parler de la liturgie les références théâtrales peuvent apparaitre
étranges. Toutefois, il faut rappeler comment, historiquement, le théâtre nait et se développe à l’intérieur
de tradition rituelle religieuse ; ainsi, les mécanismes qui sont à la base de l’action théâtrale et de l’action
rituelle religieuse sont à certains égards similaires. Quand dans le livre je parle de théâtre, ensuite, je ne
le comprends pas dans son sens ni professionnel, ni bourgeois, ni spectaculaire, mais comme l’activité
représentative primordiale, qui pour être jouée, demande un usage déterminé du corps, une discipline du
geste, du mouvement et de l’action, un art de faire et de dire, exactement ce qui est requis dans un rite, et
c’est justement sur ces éléments que le monde du rite et du théâtre se rejoignent et se comparent.

Dans votre livre, vous faites référence à un moment précis de l’histoire du théâtre, celui du XX°
siècle. Pourquoi ?
Cette référence n’est pas due au hasard parce que les théoriciens sur le théâtre au XX° siècle sont juste-
ment ceux qui retrouvent la spécificité de l’action théâtrale, mise en difficulté à cause des nouveautés
que sont le cinéma et la télévision, et ont atteint pleinement le monde immense du rite et de la ritualité,
refondant le théâtre sur les valeurs performatives universelles : le corps, la voix, l’espace, le mouvement,
l’acteur/performer, la relation entre le public et les acteurs/performer. Et ces valeurs sont communes à
l’expérience théâtrale et à l’expérience rituelle et elles concourent à constituer l’action performative,
c’est-à-dire un ensemble composé d’action corporelles, visibles et efficaces qui, liées entre elles, con-
fluent avec ordre pour exprimer un concept déterminé. C’est justement sur le terrain de l’activité per-
formative que peut se jouer efficacement la confrontation entre rite et théâtre. En définitive, dans le livre,
je prends en considération la performance corporelle comme un champs absolument neutre, entre lequel
il est possible de tisser des comparaisons d’une certaine manière « pacifiques », au delà des oppositions
habituelles traditionnelles-progressistes. La finalité, par ailleurs, est celle d’offrir des indications pour
sortir de la crise liturgique contemporaine, de valoriser l’expérience de la prière rituelle pour faire de la
liturgie un lieu de rencontre vivante entre l’humain et le divin.

Dans votre libre, vous vous arrêtez longuement sur l’analyse de la liturgie dans la forme extraor-
dinaire du rite romain et vous l’indiquez comme exemple à suivre. Vous avez mis en évidence les
points forts et les limites des deux formes liturgiques et après la confrontation synoptique du rite
ordinaire, le « vetus Ordo Missae » (le rite ancien, celui de la forme extraordinaire, la Messe de
Saint Pie V NDT) semble gagner assez nettement. Que peut communiquer à l’homme
d’aujourd’hui, un rite aussi ancien ?
Je m’arrête sur la liturgie romaine ancienne justement parce que en elle, la performance corporelle et
sensorielle qui transmet efficacement à l’homme le contenu essentiel de la foi qui y est célébrée, a un
rôle fondamental. Elle manifeste le sens du sacré qui caresse la sensibilité physique de l’homme avec
l’aide d’actions extérieures efficaces comme la sage disposition du silence « actif » dans les parties cen-
trales du rite ; l’importance accordé à un certain répertoire de chants, le grégorien, et à la musique soliste
qui accompagne le recueillement ; la parole vivante de la langue sacrée qui émancipe la parole de
l’urgence de signifier redonnant toute sa valeur à la vocalité ; l’importance réservée aux actions, aux
gestes, aux postures ; l’orientation spatiale et la verticalité. Tout est construit autour d’éléments perfor-
matifs capables de générer réalité et expérience. Le rite romain ancien est un agglomérat d’éléments
rituels « ésotériques », c’est-à-dire de ceux qui ne s’adressent pas en premier à la sphère rationnelle,
mais à la perception sensible qui transcende la raison humaine. Ce n’est pas une liturgie de la parole
seulement conceptuelle, ce n’est pas un simple acte de faire mémoire, ce n’est pas un regard distant pour
satisfaire notre goût esthétique, mais une expérience concrète de la réalité. C’est une liturgie qui inter-
pelle la sensorialité humaine impliquant la totalité de l’homme corps-intelligence-âme dans la célébra-
tion des saints mystères.

Comment se fait-il, selon vos recherches, que la liturgie dans sa forme ordinaire du rite romain, ne
réussisse pas à exprimer pleinement le sens du sacré ?
La réforme liturgique a réformé un rite en s’arrêtant presque exclusivement sur le legomenon, c’est-à-
dire sur les paroles, les textes, les traductions, les simplifications linguistiques et communicatives, dans
le but d’éduquer et instruire les consciences des fidèles à travers la compréhension intellective. Elle s’est
faite selon l’attitude moderne d’évaluation du rituel, déplaçant l’attention de son pouvoir émotif à sa
signification, dans l’illusion que comprendre un rite soit équivalent à le vivre. Cette dérive rationaliste
et logocentriste dans la liturgie a redimensionné l’importance du corps et de la corporéité, la valeur des
sens et de la sensibilité dans l’acte communicatif et expressif. De fait la forme ordinaire se distingue par
l’utilisation des langues vivantes (parlées) qui a fait croitre la verbosité ; par le fait de redimensionner le
silence ; par la réduction de la performance physique, de la formalité, et de la répétition des gestes ; par
l’émergence de la communauté comme sujet de la célébration favorisé par l’utilisation ample du chant
communautaire ; par une disposition différente de l’espace pour favoriser une conversation humaine
horizontale. Ainsi, d’une liturgie du corps, comme la liturgie ancienne, nous sommes passés à une litur-
gie de la tête. De plus, dans la forme ordinaire, il y a une prédominance des textes proclamés ou récités
au détriment de la performance corporelle, du pouvoir de l’action, du geste, du mouvement, du son ; en
d’autres termes, nous avons écarté la représentation performative. L’ensemble de tous ces facteurs a
déterminé la prédominance du contenu sur la forme, ainsi la liturgie se trouve fragilisée, avec comme
conséquence directe, la perte du sens su sacré.
S’il est vrai que « ce qui était sacré pour les générations antérieures, pour nous aussi reste sacré et
grand, et ne peut pas être tout à coup totalement défendu, et bien sûr, jugé comme pernicieux »
(comme l’écrivait Benoit XVI dans sa lettre de présentation du Motu Proprio Summorum pontifi-
cium), ne vous semble-t-il pas que aujourd’hui, avec réalisme, la cohabitation des deux formes du
rite romain puisse concourir à diviser plus encore une communauté ecclésiale déjà pour bien des
aspects composite et discordante ?
Selon moi ce risque n’existe pas. Moi, comme vraiment beaucoup de monde, je fréquente sans problème
les deux rites. De plus, une plus grande diffusion du biritualisme peut certainement représenter une ri-
chesse spirituelle. En particulier, la cohabitation de la forme extraordinaire à côté de la forme ordinaire
peut être très positive pour cette dernière : il est souhaitable que se fasse par la voie de la comparaison et
de l’osmose, l’enrichissement du nouveau rite par l’ancien en récupérant tous ces éléments rituels tradi-
tionnels qui donneront aussi à la liturgie post-conciliaire de mieux se présenter comme une expérience
tangible de la foi et de la rencontre sensible avec Dieu.

Que dirait le Pape François sur ce thème ?


Très probablement il serait d’accord. La cohabitation parallèle des deux formes du rite romain devrait
être la normalité d’une église ouverte, inclusive, « en sortie », dans laquelle il y a un espace pour tous.

Valerio Pece, Lo spettacolo della Messa. L'efficacia del rito romano agli occhi di un regista teatrale,
entretien avec Luigi Martinelli, Tempi (Italie), 12 mars 2015 (sources)
Traduit de l’italien par Thibault de Pontbriand

Potrebbero piacerti anche