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Il diritto dell’Unione e la Convenzione europea per la

salvaguardia dei diritti dell’uomo e le libertà fondamentali: i


rispettivi ambiti di applicazione e le tecniche interpretative.

SOMMARIO: 1. Principi generali. – 2. I rapporti tra ordinamento giudico italiano e CEDU nella
giurisprudenza penale di legittimità. – 3. I rapporti tra ordinamento giudico italiano e diritto dell’Unione
Europea nell’applicazione della giurisprudenza incidente in materia penale: a) in genere. – 4. I rapporti
tra ordinamento giudico italiano e diritto dell’Unione Europea nell’applicazione della giurisprudenza
incidente in materia penale: b) la Carta di Nizza.

1. Principi generali.
I rapporti tra ordinamento giuridico nazionale italiano, da una parte, e diritto
dell’Unione Europea e la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e le libertà fondamentali (d’ora in poi CEDU), dall’altra, risultano
strutturati su basi consolidate, ma sottoposte a continui “aggiustamenti”.
I rapporti tra l’ordinamento italiano ed il sistema del diritto dell’Unione
Europea, alla luce di un orientamento sedimentato nel tempo, così come ricostruito
dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 207 del 2013, poi testualmente
richiamata nella sentenza n. 269 del 2017, in linea generale, sono così delineati:
«conformemente ai principi affermati dalla sentenza della Corte di giustizia 9
marzo 1978, in causa C-106/77 (Simmenthal), e dalla successiva giurisprudenza
di questa Corte, segnatamente con la sentenza n. 170 del 1984 (Granital), qualora
si tratti di disposizione del diritto dell'Unione europea direttamente efficace, spetta
al giudice nazionale comune valutare la compatibilità comunitaria della normativa
interna censurata, utilizzando - se del caso - il rinvio pregiudiziale alla Corte di
giustizia, e nell'ipotesi di contrasto provvedere egli stesso all'applicazione della
norma comunitaria in luogo della norma nazionale; mentre, in caso di contrasto
con una norma comunitaria priva di efficacia diretta - contrasto accertato
eventualmente mediante ricorso alla Corte di giustizia - e nell'impossibilità di
risolvere il contrasto in via interpretativa, il giudice comune deve sollevare la
questione di legittimità costituzionale, spettando poi a questa Corte valutare
l'esistenza di un contrasto insanabile in via interpretativa e, eventualmente,
annullare la legge incompatibile con il diritto comunitario (nello stesso senso
sentenze n. 284 del 2007, n. 28 e n. 227 del 2010 e n. 75 del 2012)».
Tuttavia, questa conformazione dei rapporti tra ordinamento giuridico italiano
e diritto dell’Unione Europea, sembra trovare un limite nella più recente
giurisprudenza della Corte costituzionale quando vengano in rilievo i diritti e
principi fissati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata
a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 (anche
indicata, per brevità, come CDFUE).
Precisamente, la sentenza n. 269 del 2017 ha affermato: «Fermi restando i
principi del primato e dell'effetto diretto del diritto dell'Unione europea come sin
qui consolidatisi nella giurisprudenza europea e costituzionale, occorre prendere
atto che la citata Carta dei diritti costituisce parte del diritto dell'Unione dotata di
caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente
costituzionale. I principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura
i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni
nazionali degli Stati membri). Sicché può darsi il caso che la violazione di un diritto
della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione
italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell'Unione, come è accaduto da
ultimo in riferimento al principio di legalità dei reati e delle pene (Corte di giustizia
dell'Unione europea, grande sezione, sentenza 5 dicembre 2017, nella causa C-
42/17, M.A.S, M.B.).
Pertanto, le violazioni dei diritti della persona postulano la necessità di un
intervento erga omnes di questa Corte, anche in virtù del principio che situa il
sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell'architettura
costituzionale (art. 134 Cost.). La Corte giudicherà alla luce dei parametri interni
ed eventualmente di quelli europei (ex artt. 11 e 117 Cost.), secondo l'ordine di
volta in volta appropriato, anche al fine di assicurare che i diritti garantiti dalla
citata Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali,
pure richiamate dall'art. 6 del Trattato sull'Unione europea e dall'art. 52, comma
4, della CDFUE come fonti rilevanti in tale ambito. In senso analogo, del resto, si
sono orientate altre Corti costituzionali nazionali di antica tradizione (si veda ad
esempio Corte costituzionale austriaca, sentenza 14 marzo 2012, U 466/11-18; U
1836/11-13).
Il tutto, peraltro, in un quadro di costruttiva e leale cooperazione fra i diversi
sistemi di garanzia, nel quale le Corti costituzionali sono chiamate a valorizzare il
dialogo con la Corte di giustizia (da ultimo, ordinanza n. 24 del 2017), affinché sia
assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico (art. 53 della
CDFUE).».
Secondo la Corte costituzionale, peraltro, rimane fermo che, «laddove una
legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla
Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti

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fondamentali dell'Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere
sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso, al rinvio
pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto
dell'Unione, ai sensi dell'art. 267 del TFUE.».
Successivamente, la Corte di cassazione ha sollevato due questioni di
legittimità costituzionali relative agli artt. 187-quinquiesdecies e 187-sexies del
d.lgs. n. 58 del 1998 (cd. Testo Unico della Finanza, o, più sinteticamente, T.U.F.)
auspicando, da parte del Giudice delle Leggi, un chiarimento sulla questione se,
alla stregua del principio di effettività della tutela garantita dal diritto dell’Unione
Europea, il potere del giudice comune di non applicare una norma interna che
abbia superato il vaglio di legittimità costituzionale anche sotto il profilo della
conformità alla Carta di Nizza, quale norma interposta rispetto agli artt. 11 e 117
Cost., sia limitato a profili diversi da quelli esaminati dalla Corte costituzionale o,
invece, si estenda anche al caso in cui – secondo il giudice comune o secondo la
Corte di giustizia dell’Unione Europea adita con rinvio pregiudiziale – la norma
interna contrasti con la Carta di Nizza in relazione agli stessi profili che la Corte
costituzionale abbia già esaminato senza procedere a rinvio pregiudiziale.
Per completezza, va segnalato che le disposizioni previste dalla Carta di Nizza,
a norma dell’art. 53, si applicano anche agli Stati membri, ma «esclusivamente
nell’attuazione del diritto dell’Unione» (paragrafo 1), perché la stessa «non
estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze
dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione, né
modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati» (paragrafo 2).
Inoltre, sembra doversi distinguere tra disposizioni della Carta di Nizza che
contengono diritti e disposizioni della medesima CDFUE che contengono principi:
invero, l’art. 54, comma 6, della Carta prevede che le disposizioni contenenti
principi «possono essere invocate dinanzi a un giudice solo ai fini
dell’interpretazione del controllo di legalità» degli «atti legislativi e esecutivi
adottati da istituzioni, organi e organismi dell’Unione», nonché degli «atti degli
Stati membri allorché essi diano attuazione al diritto dell’Unione, nell’esercizio
delle loro rispettive competenze». In questo senso, ad esempio, sembra orientata
Corte di Giustizia U.E., Grande Sezione, sentenza del 15 gennaio 2014, Association
de médiation sociale, causa C-176/12, secondo la quale l’art. 27 della Carta di
Nizza, relativo al diritto dei lavoratori all’informazione ed ala consultazione
nell’ambito dell’impresa, non può essere invocato direttamente in una controversia
ai fini della disapplicazione di una norma nazionale, ma, per produrre pienamente
i propri effetti, necessita di essere precisato mediante disposizioni del diritto
dell’Unione o del diritto nazionale.

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I rapporti tra l’ordinamento italiano ed il sistema della CEDU, a partire dalle
note “sentenze gemelle” della Corte costituzionale italiana del 2007 (Corte cost.,
sentenze n. 348 e n. 349 del 2007), sono definiti alla luce del principio del rispetto
dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, previsto dall’art. 117, primo
comma, Cost. quale limite per la potestà legislativa statale e regionale.
Precisamente, la Corte costituzionale ha escluso che il giudice comune abbia
il potere di disapplicare la norma legislativa interna ritenuta in contrasto con una
norma della CEDU, poiché «l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come
una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’art. 117,
primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi». Ciò però
«non significa che le norme della CEDU, quali interpretate dalla Corte di
Strasburgo, acquistano la forza delle norme costituzionali e sono perciò immuni
dal controllo di legittimità costituzionale di questa Corte. Proprio perché si tratta
di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad
un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione.
La particolare natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie sia da
quelle concordatarie, fa sì che lo scrutinio di costituzionalità non possa limitarsi
alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali o dei principi supremi,
ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le ‘norme interposte’ e quelle
costituzionali». L’art. 117, primo comma, Cost., non consente di «attribuire rango
costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, oggetto di una legge
ordinaria di adattamento, com’è il caso delle norme della CEDU», ma determina
«l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza
che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli
obblighi internazionali di cui all’art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale
parametro costituzionale».
Lo sviluppo applicativo di questo principio, in estrema sintesi, ha portato la
Corte costituzionale, da un lato, a precisare che le norme della CEDU debbono
essere individuate alla luce del significato che ad esse è attribuito dalla
interpretazione “consolidata” della Corte europea dei Diritti dell’Uomo (cfr.,
specificamente, Corte cost., sentenza n. 49 del 2015), e, dall’altro, a prefigurare
che il giudice comune, prima di sollevare questione di costituzionalità per la
violazione di queste quali “norme interposte” a norma dell’art. 117 Cost. debba
sperimentare ogni possibile interpretazione “convenzionalmente conforme” della
disciplina derivante dalle disposizioni dell’ordinamento italiano (cfr., tra le tante,
Corte cost., sentenze n. 68 del 2017 e nn. 276 e 36 del 2016).
Per quanto attiene al primo profilo, in particolare, nella sentenza n. 49 del
2015, si è sottolineata l'erroneità del presupposto interpretativo secondo cui il
giudice nazionale sarebbe vincolato all'osservanza di qualsivoglia sentenza della

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Corte di Strasburgo e non, invece, alle sole sentenze costituenti "diritto
consolidato" o delle "sentenze pilota" in senso stretto. Si è osservato che, se è
vero che alla Corte di Strasburgo spetta pronunciare la “parola ultima” in ordine a
tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione
e dei suoi Protocolli, resta fermo che l'applicazione e l'interpretazione del sistema
generale di norme è attribuito in prima battuta ai giudici degli Stati membri. Si è
aggiunto che, quindi, il ruolo di ultima istanza riconosciuto alla Corte di Strasburgo,
poggiando sull'art. 117, primo comma, Cost. deve coordinarsi con l'art. 101,
secondo comma, Cost. nel punto di sintesi tra autonomia interpretativa del giudice
comune e dovere di quest'ultimo di prestare collaborazione, affinché il significato
del diritto fondamentale cessi di essere controverso; di conseguenza, il giudice
comune è tenuto ad uniformarsi alla giurisprudenza europea consolidatasi sulla
norma conferente, in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza e
fermo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro.
Per quanto attiene ai limiti dell’interpretazione “convenzionalmente
conforme”, si è rappresentato che il dovere del giudice comune di procedere in tal
senso è subordinato al prioritario compito di adottare una lettura
costituzionalmente conforme, poiché tale modo di procedere riflette il predominio
assiologico della Costituzione sulla CEDU, sicché, nelle ipotesi in cui non sia
possibile percorrere tale via, è fuor di dubbio che il giudice debba obbedienza
anzitutto alla Carta repubblicana e sia perciò tenuto a sollevare questione di
legittimità costituzionale della legge di adattamento (v. ancora Corte cost.,
sentenza n. 49 del 2015).
Rimane fermo, in ogni caso, che il giudice comune, ove ritenga non praticabile
una interpretazione della norma nazionale conforme alla norma convenzionale,
non può disapplicare la norma interna né farne applicazione - avendola ritenuta in
contrasto con la CEDU, e pertanto con la Costituzione -, ma deve necessariamente
denunciare la rilevata incompatibilità proponendo una questione di legittimità
costituzionale in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., ovvero all'art. 10,
primo comma, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una
norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta (Corte cost., sentenza
n. 236 del 2011).
Va infine precisato che, anche secondo la giurisprudenza della Corte di
giustizia dell’Unione europea, il contrasto tra le norme poste da fonte nazionale e
quelle della CEDU, sebbene queste ultime siano richiamate dall’art. 6, paragrafo
3, del Trattato sull’Unione Europea, non ha determinato un’equiparazione, quanto
all’efficacia, tra queste ultime e le norme di matrice “euro-unitaria”. In particolare,
Corte di giustizia U.E., Grande Sezione, sentenza del 24 aprile 2012, Kamberaj,
causa C-571/10, ha enunciato, in dispositivo, che: «Il rinvio operato dall’articolo

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6, paragrafo 3, TUE alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, non
impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale
e detta convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima,
disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa». A fondamento
di tale conclusione, i Giudici di Lussemburgo, dopo aver premesso che «Ai sensi
dell’articolo 6, paragrafo 3, TUE, i diritti fondamentali, così come garantiti
dalla CEDU e quali risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati
membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali» (§ 60), e
che, quindi, di essi «la Corte garantisce l’osservanza» (§ 61), osservano:
«Tuttavia, l’articolo 6, paragrafo 3, TUE non disciplina il rapporto tra la CEDU e gli
ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno determina le conseguenze
che un giudice nazionale deve trarre nell’ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da
tale convenzione ed una norma di diritto nazionale.» (§ 62).

2. I rapporti tra ordinamento giudico italiano e CEDU nella


giurisprudenza penale di legittimità.
L’esame della giurisprudenza penale di legittimità in tema di rapporti tra
ordinamento italiano e CEDU consente di rinvenire numerose applicazioni
pienamente coerenti con i principi generali. Diverse, inoltre, sono le pronunce che,
mediante soluzioni interpretative convenzionalmente conformi, hanno cercato di
individuare soluzioni alle criticità dell’ordinamento italiano rilevate dalla Corte
EDU.
Una ricca esemplificazione in materia è rinvenibile già solo dall’analisi della
elaborazione delle Sezioni Unite penali.
In tema di interpretazione “convenzionalmente orientata”, particolarmente
significativa è Sez. U, n. 27620 del 28704/2016, Dasgupta. In particolare, questa
decisione, in sede di enunciazione dei principi di diritto, ha affermato «I principi
contenuti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle libertà fondamentali, come viventi nella giurisprudenza consolidata della
Corte EDU, pur non traducendosi in norme di diretta applicabilità nell'ordinamento
nazionale, costituiscono criteri di interpretazione (“convenzionalmente orientata”)
ai quali il giudice nazionale è tenuto a ispirarsi nell'applicazione delle norme
interne». Quindi, subito dopo questa indicazione, ed in via di immediata
conseguenza applicativa, ha evidenziato: «La previsione contenuta nell'art. 6, par.
3, lett. d), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle libertà fondamentali, relativa al diritto dell'imputato di esaminare o fare

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esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni
a discarico, come definito dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, la
quale costituisce parametro interpretativo delle norme processuali interne, implica
che, nel caso di appello del pubblico ministero avverso una sentenza assolutoria,
fondata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, il giudice di
appello non può riformare la sentenza impugnata nel senso dell'affermazione della
responsabilità penale dell'imputato, senza avere proceduto, anche d'ufficio, a
norma dell'art. 603, comma 3, cod. proc. pen., a rinnovare l'istruzione
dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui
fatti del processo ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado».
Nello stesso senso, estremamente significativa è Sez. U, n. 27918 del
25/11/2010, dep. 2011, D.F., la quale ha risolto la questione concernente i limiti
di utilizzabilità delle dichiarazioni predibattimentali rese in assenza di
contraddittorio e legittimamente acquisite al fascicolo del dibattimento. Invero, gli
artt. 512 e 512-bis cod. proc. pen. dispongono la lettura di tali dichiarazioni
quando di esse è divenuta impossibile la ripetizione per fatti o circostanze
imprevedibili, oppure quando provengano da persona residente all’estero di cui
non sia «assolutamente possibile l’esame dibattimentale», senza prevedere limiti
di utilizzabilità; la giurisprudenza della Corte EDU, invece, si è da tempo orientata
nel senso che dichiarazioni rese in assenza di contraddittorio, in linea di massima,
non possono fondare in modo esclusivo o prevalente l’affermazione della
responsabilità penale. Le Sezioni Unite sulla base di una articolata elaborazione,
attenta ad assicurare una interpretazione del diritto di matrice nazionale tale da
escludere “frizioni” con i principi della CEDU, è giunta alla conclusione secondo cui
«Le dichiarazioni predibattimentali rese in assenza di contraddittorio, ancorché
legittimamente acquisite, non possono - conformemente ai principi affermati dalla
giurisprudenza europea, in applicazione dell'art. 6 della CEDU - fondare in modo
esclusivo o significativo l'affermazione della responsabilità penale» (così la
massima ufficiale Rv. 250199).
Tra gli ulteriori esempi di soluzioni attente all’esigenza di addivenire ad una
interpretazione “convenzionalmente conforme” si possono citare: Sez. U, n. 18288
del 21/01/2010, Beschi; Sez. U, n. 24630 del 26/03/2015, Maritan; Sez. U, n.
40076 del 27/04/2017, Paternò.
Sez. U, Beschi, è giunta ad affermare che il mutamento di giurisprudenza,
intervenuto con decisione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, integrando
un nuovo elemento di diritto, rende ammissibile la riproposizione, in sede di
procedimento di esecuzione, della richiesta di applicazione dell'indulto in
precedenza rigettata, ritenendo tale soluzione imposta dalla necessità di garantire
il rispetto dei diritti fondamentali della persona in linea con i principi della

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Convenzione europea dei diritti dell'uomo, il cui art. 7, come interpretato dalle
Corti europee, include nel concetto di legalità sia il diritto di produzione legislativa
che quello di derivazione giurisprudenziale.
Sez. U, Maritan, invece, ha concluso che l’omesso avviso dell’udienza al
difensore di fiducia tempestivamente nominato dall’imputato o dal condannato
integra una nullità assoluta, quando di esso è obbligatoria la presenza, a nulla
rilevando la notifica al difensore di ufficio o la presenza in udienza di quest’ultimo,
in particolare evidenziando che, in tale ipotesi, viene ad essere leso il diritto
dell’imputato «ad avere un difensore di sua scelta», riconosciuto dall’art. 6,
paragrafo 3, lett. c), della CEDU.
Sez. U, Paternò, infine, ha enunciato il seguente principio: «L'inosservanza
delle prescrizioni generiche di «vivere onestamente» e «rispettare le leggi», da
parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di
soggiorno, non integra la norma incriminatrice di cui all'art. 75, comma 2, d.lgs.
n. 159 del 2011. Essa può, tuttavia, rilevare ai fini dell'eventuale aggravamento
della misura di prevenzione personale». A fondamento di tale conclusione, il
Collegio ha posto espressamente la necessità di procedere «ad una rilettura del
diritto interno che sia aderente alla CEDU e subordinata “al prioritario compito di
adottare una lettura costituzionalmente conforme” (Corte cost., sentenze n. 349
e n. 348 del 2007).», e che, in tale prospettiva, «solo una lettura "tassativizzante"
e tipizzante della fattispecie può rendere coerenza costituzionale e convenzionale
alla norma incriminatrice di cui all'art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, il che
inevitabilmente comporta il superamento di una giurisprudenza di legittimità che,
fino ad oggi, non mostra di essersi confrontata adeguatamente con tali
problematiche.». E’ poi di estremo interesse, nella medesima ottica, l’osservazione
finale: «La rilettura ermeneutica, che in questa sede si offre del reato previsto
dall'art. 75, comma 2, d.lgs. cit. e della sua inconfigurabilità in rapporto alle
prescrizioni generiche del vivere onestamente rispettando la legge, consente di
evitare ogni valutazione circa la necessità di sollevare incidente di costituzionalità
della fattispecie penale per l'indeterminatezza della formulazione del precetto sulla
base dell'interpretazione della Corte EDU.».
Una recentissima applicazione dei principi in materia di interpretazione
convenzionalmente conforme è resa da Sez. 6, n. 2385 del 11/10/2017, dep.
2018, Pomilio, la quale ha dichiarato manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, lett. a) e b), 4, comma 1, lett. c),
e 16, comma 1, lett. a), d.lgs. 59 del 2011, in tema di presupposti per
l’applicazione delle misure di prevenzione personale e del giudizio di pericolosità
sociale, per contrasto con gli artt. 117 Cost. e 2 Prot. 4 della Convenzione europea

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dei diritti dell'uomo, in conseguenza della sentenza della Grande Camera della
Corte di Strasburgo, nel caso De Tommaso contro Italia.
La sentenza Pomilio, in particolare, sottolinea l’esistenza di profili di tassatività
nelle disposizioni di legge contestate, sicché deve ritenersi superata la diversa
lettura che la Corte EDU, Grande Camera, sentenza del 23 febbraio 2017, De
Tommaso c. Italia, ha censurato, ritenendola aperta ad un incontrollabile tasso di
discrezionalità. Queste le conclusioni: «la necessità, diffusamente avvertita, di un
canone interpretativo rigoroso e la concreta, riscontrabile utilizzazione dello stesso
nella verifica delle ipotesi di pericolosità c.d. generica, vale a rendere la proposta
questione di illegittimità costituzionale manifestamente infondata, in quanto
originata da un presupposto che non corrisponde all'effettiva applicazione della
disciplina vigente, la quale in tale prospettiva si sottrae alla censura di aspecificità
e imprevedibilità degli esiti, formulata dalla Corte di Strasburgo in relazione ad un
canone di apprezzamento largamente superato.».
In tema di violazione di norme CEDU quali “norme interposte” a norma
dell’art. 117 Cost., invece, emblematica è la vicenda Ercolano, nella quale è venuta
in rilievo una situazione di contrasto della normativa interna sostanziale con la
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e le libertà
fondamentali, per la mancata sostituzione, con la pena di anni trenta di reclusione,
della pena dell’ergastolo, inflitta all’esito di giudizio abbreviato richiesto nella
vigenza dell’art. 30, comma 1, lett. b), l. n. 479 del 1999, il quale disponeva, per
il caso di accesso al rito speciale, detta sostituzione.
Le Sezioni Unite, con ordinanza n. 34472 del 19/04/2012, hanno sollevato
questione di legittimità costituzionale degli articoli 7 e 8 del D.L. 24 novembre
2000, n. 341, convertito dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, in riferimento agli
articoli 3 e 117, comma primo, della Costituzione - quest'ultimo in relazione
all'articolo 7 della Convenzione EDU-, «nella parte in cui le disposizioni interne
operano retroattivamente, e, più specificamente, in relazione alla posizione di
coloro che, pur avendo formulato richiesta di giudizio abbreviato nella vigenza
della sola legge n. 479 del 1999, sono stati giudicati successivamente, quando
cioè, a far data dal pomeriggio del 24 novembre 2000 - pubblicazione della
Gazzetta Ufficiale, ai sensi dell'art. 2 r.d. n. 1252 del 7 giugno 1923 -, era entrato
in vigore il citato D.L., con conseguente applicazione del più sfavorevole
trattamento sanzionatorio previsto dal medesimo decreto», ritenendo
impraticabile un'interpretazione della predetta normativa interna conforme
all'articolo 7 Convenzione EDU, nell'interpretazione datane dalla Corte di
Strasburgo.
La Corte costituzionale, con sentenza n. 210 del 2013, ha dichiarato
costituzionalmente illegittimo - per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost.,

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in relazione all'articolo 7 della CEDU, come riscontrata dalla Corte europea dei
diritti dell'uomo con la sentenza della Grande Camera del 17 settembre 2009,
Scoppola contro Italia - l'art. 7, comma 1, del d.l. 24 novembre 2000, n. 34,
convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4. A fondamento di
tale conclusione, il Giudice delle Leggi ha innanzitutto rilevato che: a) il quadro
normativo interno nel cui ambito si pone la questione è caratterizzato da una
successione di varie leggi, tra le quali, da ultimo, l'art. 7 del decreto-legge n. 341
del 2000, entrato in vigore lo stesso 24 novembre 2000, e convertito dalla legge
n. 4 del 2001, per effetto del quale il giudizio abbreviato, che si conferma
applicabile alla generalità dei delitti puniti con l'ergastolo, consente al condannato
di beneficiare della sostituzione della pena dell'ergastolo senza isolamento diurno
con quella di trenta anni di reclusione e della sostituzione della pena dell'ergastolo
con isolamento diurno con quella dell'ergastolo semplice; b) pur non essendo la
sentenza della Corte EDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro
Italia, configurabile come "sentenza pilota", tuttavia è da ritenere che essa non
consenta all'Italia di limitarsi a sostituire la pena dell'ergastolo applicata in quel
caso, ma la obblighi a porre riparo alla violazione riscontrata a livello normativo e
a rimuoverne gli effetti nei confronti di tutti i condannati che si trovano nelle
medesime condizioni di Scoppola; c) il valore del giudicato, attraverso il quale si
esprimono preminenti ragioni di certezza del diritto e di stabilità nell'assetto dei
rapporti giuridici, del resto, non è estraneo alla Convenzione, ma alla Corte
costituzionale compete di rilevare che, nell'ambito del diritto penale sostanziale, è
proprio l'ordinamento interno a reputare recessivo il valore del giudicato, in
presenza di alcune sopravvenienze relative alla punibilità e al trattamento punitivo
del condannato. Ha poi osservato che: -) l'art. 7, comma 1, del d.l. n. 341 del
2000, con il suo effetto retroattivo, ha determinato la condanna all'ergastolo di
imputati ai quali era applicabile il precedente testo dell'art. 442, comma 2, cod.
proc. pen. e che, in base a questa disposizione, avrebbero dovuto essere
condannati alla pena di trenta anni di reclusione; -) la Corte EDU, con la sentenza
Scoppola del 17 settembre 2009, ha ritenuto, mutando il proprio precedente e
consolidato orientamento, che «l'art. 7, paragrafo 1, della Convenzione non
sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma
anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno
severa»; -) tale principio si traduce «nella norma secondo cui, se la legge penale
in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori
adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice
deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all'imputato», ed è
applicabile anche da parte del giudice dell'esecuzione, in quanto abilitato a incidere
sul titolo esecutivo in modo coerente con la suddetta esigenza.

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A seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale appena indicata, le
Sezioni Unite, con sentenza n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Ercolano, hanno
enunciato i seguenti principi di diritto: -) «La pena dell'ergastolo inflitta all'esito
del giudizio abbreviato, richiesto dall'interessato in base all'art. 30, comma 1, lett.
b), legge n. 479 del 1999, ma conclusosi nel vigore della successiva e più rigorosa
disciplina dettata dall'art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000 e in concreto applicata,
non può essere ulteriormente eseguita, essendo stata quest'ultima norma
ritenuta, successivamente al giudicato, non conforme al principio di legalità
convenzionale di cui all'art. 7, § 1, CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, e
dichiarata incostituzionale per contrasto con l'art. 117, comma primo, Cost.»; -)
«Il giudice dell'esecuzione, investito del relativo incidente ad istanza di parte e
avvalendosi dei suoi poteri di controllo sulla permanente legittimità della pena in
esecuzione, è legittimato a sostituirla, incidendo sul giudicato, con quella di anni
trenta di reclusione, prevista dalla più favorevole norma vigente al momento della
richiesta del rito semplificato».
Altra vicenda estremamente significativa è quella che ha condotto la Corte
costituzionale, con sentenza n. 200 del 2016, a dichiarare l’illegittimità
costituzionale dell’art. 649 cod. proc. pen., nella parte in cui esclude che il fatto
sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato
già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo
procedimento penale, per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in
relazione all'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU. Molto importante, innanzitutto, è
l’elaborazione della nozione di idem factum, che la Corte costituzionale ha escluso
debba individuarsi alla sola stregua della condotta, prescindendo dall'oggetto fisico
su cui cade il gesto, o dall'evento naturalistico che ne è conseguito, o ancora dalla
modificazione della realtà indotta dal comportamento dell'agente, anche alla luce
dell’elaborazione della Corte EDU: a questo proposito, infatti, si è espressamente
evidenziato che anche nell'ambito della CEDU, il difetto di una giurisprudenza
univoca consente di affermare che, esclusa solo l'opzione per l'idem giuridico, non
vi è ragione per cui il "fatto" sia da circoscrivere alla sola condotta dell'agente. Da
sottolineare, poi, è il richiamo al “diritto vivente” quale presupposto della
dichiarazione di illegittimità costituzionale, e precisamente al consolidato indirizzo
giurisprudenziale che ha saldato il profilo sostanziale implicato dal concorso
formale dei reati con quello processuale recato dal divieto di bis in idem,
esonerando il giudice dall'indagare sulla identità empirica del fatto, ai fini
dell'applicazione dell'art. 649 cod. proc. pen., e, quindi, consentendo di procedere
anche in presenza di un idem factum, purché si possa escludere il solo idem
giuridico: è questa operazione che deve reputarsi sbarrata dall'art. 4 del Protocollo
n. 7, perché segna l'abbandono dell'idem factum, quale unico fattore per stabilire

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se sia applicabile o no il divieto di bis in idem. Si precisa, però, che, al contrario,
l'esercizio di una nuova azione penale dopo la formazione del giudicato è da
ritenersi ammissibile quando all'unicità della condotta si aggiungano elementi
ulteriori rispetto all'azione o all'omissione dell'agente, siano essi costituiti
dall'oggetto fisico di quest'ultima, ovvero anche dal nesso causale e dall'evento:
in questo senso, esemplificativamente, si rappresenta, non dovrebbe esservi
dubbio sulla diversità dei fatti, qualora da un'unica condotta scaturisca la morte o
la lesione dell'integrità fisica di una persona non considerata nel precedente
giudizio, e dunque un nuovo evento in senso storico.

3. I rapporti tra ordinamento giudico italiano e diritto dell’Unione


Europea nell’applicazione della giurisprudenza incidente in materia
penale: a) in genere.
Ricca ed articolata è anche la giurisprudenza incidente in materia penale
relativamente ai rapporti tra ordinamento italiano e diritto dell’Unione Europea.
Per quanto attiene alla interpretazione euro-unitariamente conforme, plurimi
esempi sono rinvenibili nella giurisprudenza delle Sezioni Unite penali.
Recentemente, ad esempio, Sez. U, n. 1959 del 29/01/2016, C., è pervenuta
ad affermare, nell’enunciazione del principio di diritto, che la disposizione dell’art.
408, comma 3-bis cod. proc. pen., statuente l’obbligo di dare avviso alla persona
offesa della richiesta di archiviazione con riferimento ai delitti commessi con
violenza alla persona, è riferibile anche ai reati di atti persecutori e di
maltrattamenti, «perché l’espressione “violenza alla persona” deve essere intesa
alla luce del concetto di violenza di genere, quale risulta dalle pertinenti
disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto comunitari». In
motivazione, a tal fine, le Sezioni Unite hanno fatto richiamo, specificamente, alla
Direttiva 2012/29/UE, in particolare agli artt. 22 e 23 e alle premesse n. 17 e n.
18, nonché alla Direttiva 2011/36/UE, alla Direttiva 2011/99/UE, istitutiva
dell’Ordine di Protezione Europeo, in particolare ai considerando n. 9 e n. 11. La
decisione, inoltre, ha evidenziato sotto il profilo metodologico: «L'obbligo di
interpretazione conforme è ancora più pregnante riguardo alle norme elaborate
nell'Unione Europea, atteso che il principio del primato del diritto comunitario
impone al giudice nazionale l'obbligo di applicazione integrale per dare al singolo
la tutela che quel diritto gli attribuisce, disapplicando di conseguenza la norma
interna confliggente, sia anteriore che successiva a quella comunitaria. Ove
sorgano questioni di conflitto con una norma interna, il giudice deve disapplicare
la norma interna, mentre se vi sono dubbi sull'interpretazione della norma

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comunitaria che non può risolvere interpretando tale norma, mai disapplicandola,
può sollevare la questione pregiudiziale sull'interpretazione della stessa davanti
alla Corte di Giustizia a norma dell'art. 267 TFUE; rinvio pregiudiziale interpretativo
che è obbligatorio per i giudici nazionali di ultima istanza».
Molto importante, inoltre, è l’affermazione di Sez. U, n. 4614 del 30/01/2007,
Ramoci, in tema di mandato di arresto europeo, secondo cui, con riguardo alla
previsione dell'art. 18, lett. e) della L. 22 aprile 2005, n. 69, che stabilisce il rifiuto
della consegna «se la legislazione dello Stato membro di emissione non prevede i
limiti massimi della carcerazione preventiva», l'autorità giudiziaria italiana deve
verificare se nella legislazione dello Stato membro di emissione sia espressamente
fissato un termine di durata della misura cautelare fino alla sentenza di condanna
di primo grado, o, in mancanza, se un limite temporale implicito sia in ogni caso
desumibile da altri meccanismi processuali che instaurino, obbligatoriamente e con
cadenze predeterminate, un controllo giurisdizionale funzionale alla legittima
prosecuzione della custodia o, in alternativa, alla estinzione della stessa. Tale
soluzione, infatti, risulta espressamente indicata come il frutto di una
«interpretazione adeguatrice» del testo di legge italiano, compiuta in linea «non
solo con l'idea ispiratrice della decisione-quadro sul MAE ma anche, come si è
visto, con la nozione di custodia preventiva recepita dalla Convenzione europea
sui diritti dell'uomo». Viene anzi sottolineato che la considerazione concernente
l’esigenza di una soluzione utile a favorire la cooperazione internazionale «esprime
una necessità logica prima ancora che sistematica» ed «impone di privilegiare una
interpretazione della norma rispondente alle finalità della decisione-quadro, e che,
come si è detto, non è esclusa dalla sua lettera».
Tuttavia, ben definiti sono anche i limiti ad una interpretazione euro-
unitariamente conforme.
Già Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, ha rilevato che l'obbligo del
giudice di interpretare il diritto nazionale conformemente al contenuto delle
decisioni quadro adottate nell'ambito del titolo VI del Trattato sull'Unione europea
non può legittimare l'integrazione della norma penale interna quando una simile
operazione si traduca in una interpretazione in malam partem, e in applicazione di
tale principio, ha escluso che la disciplina in tema di confisca contenuta nella
decisione-quadro del Consiglio dell'Unione Europea 2005/212/GAI del 24 febbraio
2005 potesse essere utilizzata per estendere la confisca per equivalente di cui
all'art. 322 ter primo comma cod. pen. anche al profitto del reato).
Successivamente, Sez. U, n. 22225 del 19/01/2012, Micheli, nell’affermare
che l’acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di
origine e provenienza diversa da quella indicata risponde dell'illecito
amministrativo previsto dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in l. 14 maggio 2005,

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n. 80, nella versione modificata dalla l. 23 luglio 2009, n. 99, e non di ricettazione
(art. 648 cod. pen.) o di acquisto di cose di sospetta provenienza (art. 712 cod.
pen.), ha ritenuto inammissibile la richiesta di trasmissione degli atti alla Corte
europea di giustizia, in via incidentale e interpretativa, al fine di sentir dichiarare
che alla legislazione nazionale è imposto l'uso delle sanzioni penali con esclusione
di quelle di natura amministrativa, osservando che detto rinvio, essendo finalizzato
ad una disapplicazione della norma interna per contrasto con il diritto comunitario
(nella specie, la direttiva Enforcement n. 2004/48/CE), si tradurrebbe in una
interpretazione in malam partem con conseguente punibilità di fatti non previsti
come reato dallo Stato italiano al tempo della condotta. A tal fine, la sentenza ha
evidenziato come, nella stessa giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione
Europea, pur sottolineandosi l’esigenza di procedere ad una interpretazione euro-
unitariamente conforme, si afferma che «tale obbligo di interpretazione
conforme non può giungere sino al punto che una direttiva, di per se
stessa e indipendentemente da una legge nazionale di trasposizione, crei
obblighi per i singoli ovvero determini o aggravi la responsabilità penale
di coloro che trasgrediscono le sue disposizioni»; ha inoltre aggiunto che
questo limite «deriva dai principi generali del diritto, quello della legalità della
pena e quello connesso di applicazione retroattiva della pena più mite, che fanno
parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e, quindi, fanno
parte integrante dei principi generali del diritto comunitario, che il giudice
nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare
l'ordinamento comunitario (Corte di giustizia, Grande Sezione, 3 maggio 2005,
Berlusconi e altri, cause riunite C-387/02, C-391/02, C-403/02; 16 giugno 2005,
Pupino, causa C-105/03).».
Peraltro, sempre Sez. U, n. 22225 del 19/01/2012, Micheli, ha ricordato la
necessità di disapplicare le norme nazionali in contrasto con le norme euro-
unitarie, così come accertato eventualmente per effetto di un rinvio pregiudiziale
alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, quando comportano «un effetto
penalmente favorevole nei confronti dei destinatari della norma».
La soluzione della disapplicazione, o non applicazione, della norma interna
incompatibile con la norma euro-unitaria, è fenomeno anch’esso ampiamente
registrato nella giurisprudenza.
Emblematiche sono le vicende della disapplicazione della disciplina penale di
cui all’art. 171-ter, lett. d), e 171-bis, primo comma, l. n. 633 del 1941, nonché
della disciplina penale di cui all’art. 14, comma 5-ter, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.
In particolare, un amplissimo orientamento giurisprudenziale (cfr., tra le altre,
Sez. 3, n. 1073 del 19/11/2009, dep. 2010, Ramonda) ha ritenuto di dover
procedere alla disapplicazione della disciplina incriminatrice di cui all’art. 171-ter,

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lett. d), e 171-bis, primo comma, l. n. 633 del 1941, con riferimento,
rispettivamente, ai supporti audio e video ed ai programmi per elaboratore privi
di contrassegno SIAE, in conseguenza della mancata comunicazione alla
Commissione dell’Unione Europea della regola tecnica dell’obbligo di apposizione
del contrassegno SIAE in adempimento di quanto stabilito dalla direttiva
83/189/CE, come interpretata dalla Corte di Giustizia, sentenza 8 novembre 2007,
Schwibbert.
Altrettanto condivisa (cfr., tra le tante, Sez. 1, n. 18586 del 29/04/2011,
Sterian), poi, è stata la soluzione della non applicazione della disposizione
concernente il reato di ingiustificata inosservanza dell’ordine di allontanamento di
cui all’art. 14, comma 5-ter, d.lgs. n. 286 del 1998 a seguito della sentenza della
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 28 aprile 2011, causa C-61/11/PPU, El
Dridi, secondo la quale «la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16
dicembre 2008, 2008/115/CE, recante norme e procedure comuni applicabili negli
Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, in
particolare i suoi artt. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che essa osta
ad una normativa di uno Stato membro, come quella in discussione nel
procedimento principale, che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al
cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che
questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il
territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo.».
Piuttosto, nuovi equilibri in tema di disapplicazione della norma interna
incompatibile con la norma euro-unitaria sembrano poter emergere in
conseguenza della notissima vicenda Taricco. In particolare, l’ultimo approdo,
raggiunto dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, 5 dicembre
2007, causa C-42/12, investita da domanda pregiudiziale della Corte
costituzionale italiana, è nel senso che: «L’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE
dev’essere interpretato nel senso che esso impone al giudice nazionale di
disapplicare, nell’ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di
imposta sul valore aggiunto, disposizioni interne sulla prescrizione, rientranti nel
diritto sostanziale nazionale, che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive e
dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli
interessi finanziari dell’Unione europea o che prevedano, per i casi di frode grave
che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi
che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, a meno che una
disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e
delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o
dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità

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più severo di quello vigente al momento della commissione del reato.» (così il
dispositivo della sentenza della Corte di Giustizia).

4. I rapporti tra ordinamento giudico italiano e diritto dell’Unione


Europea nell’applicazione della giurisprudenza incidente in materia
penale: b) la Carta di Nizza.
Sempre più frequenti sono i richiami della giurisprudenza italiana alla Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000
e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 (CDFUE). Di essi può essere utile una
autonoma analisi anche per la presa di posizione della Corte costituzionale con
sentenza n. 269 del 2017 in tema di disapplicazione delle norme di matrice
nazionale per incompatibilità con le previsioni di detta Carta.
Più volte la Carta di Nizza è stata invocata ai fini del sindacato di manifesta
sproporzione della cornice edittale di un reato.
Con riferimento al reato di cui all’art. 567, secondo comma, cod. pen.,
concernente l’alterazione dello stato civile di un neonato mediante false
certificazioni, false attestazioni o altre falsità nella formazione dell’atto di nascita,
la Corte costituzionale, con sentenza n. 236 del 2016, ha dichiarato l’illegittimità
delle disposizione appena indicata nella parte in cui prevede la pena edittale della
reclusione da un minimo di cinque anni ad un massimo di quindici anni, anziché la
pena edittale della reclusione da un minimo di tre a un massimo di dieci, anche
evocando l’art. 49, paragrafo 3, della CDFUE, in forza del quale «le pene inflitte
non possono essere sproporzionate rispetto al reato».
Con riferimento alla disciplina del trattamento sanzionatorio previsto dall’art.
73 d.P.R. n. 309 del 1990, invece, la Corte costituzionale, con sentenza n. 23 del
2016 ha escluso di poter addivenire ad una dichiarazione di illegittimità osservando
che «Nessun elemento può ricavarsi, in proposito, dall'invocato art. 49, paragrafo
3, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che si limita a codificare
il principio di proporzionalità della pena, il quale - al pari del principio di
ragionevolezza, che nella giurisprudenza costituzionale è spesso richiamato
unitamente ad esso - non permette a questa Corte di determinare autonomamente
la misura della pena, ma semmai di emendare le scelte del legislatore in
riferimento a grandezze già rinvenibili nell'ordinamento».
Alcune decisioni hanno espressamente affrontato il problema della definizione
della materia sottoposta all’applicazione della Carta di Nizza. In particolare, Sez.
3, n. 43453 del 17/09/2014 ha affrontato il tema della disapplicazione dell’art.
314, comma 4, cod. proc. pen., che esclude il diritto alla riparazione pecuniaria

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per l’ingiusta detenzione in caso di fungibilità derivante dal computo della custodia
cautelare illegittimamente sofferta ai fini della misura di una pena, per effetto
dell’art. 6 della CDFUE, secondo il quale «Ogni individuo ha diritto alla libertà e
alla sicurezza». Il Collegio, nell’occasione, ha ritenuto inapplicabile la Carta di
Nizza osservando che non vi è nessun collegamento tra la disciplina in tema di
misure di ristoro in caso di ingiusta detenzione e il diritto dell’Unione Europea.
Sez. 6, n. 54467 del 15/11/2016, Resneli, invece, pronunciando in tema di
estradizione, ha espressamente accolto una nozione “estensiva” del concetto di
«attuazione del diritto dell’Unione», ritenendo che la stessa, in linea con al più
recente giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, abbia ad
oggetto «ogni normativa nazionale volta anche semplicemente a incidere su ambiti
regolati dalle suddette fonti UE». Di conseguenza, ha affermato che il principio del
ne bis in idem, sancito dall'art. 50 della Carta di Nizza, si configura come garanzia
generale da invocare nello spazio giuridico europeo, anche nei confronti di uno
Stato non appartenente alla UE, ogni qual volta si sia formato un giudicato penale
su un medesimo fatto nei confronti della stessa persona ed a prescindere dalla sua
cittadinanza europea. Peraltro, la Corte ha anche precisato che nel caso in esame
si versava nell’ambito del concetto di «attuazione del diritto dell’Unione» perché
«l'estradizione è stata richiesta per il reato di traffico di stupefacenti, materia che,
come è noto, è espressamente prevista dall'art. 83, par. 1, del Trattato sul
funzionamento dell'Unione europea».
Spesso, poi, la giurisprudenza si è confrontata con la Carta di Nizza ed è
pervenuta ad interpretazioni euro-unitariamente conformi, ora valorizzando le
convergenze tra disciplina italiana e disciplina euro-unitaria, ora “adattando” il
significato della disciplina interna a quella sovranazionale.
Sez. 6, n. 17170 del 01/03/2016, Colucci, ha disatteso la richiesta di rinvio
pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea avendo riguardo alla
disciplina della rimessione del processo, e precisamente alla parte dell’art. 45 cod.
proc. pen. concernente l’individuazione della “grave situazione locale”, in
riferimento al principio di effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 47
CDFUE. Per giungere a tale conclusione, la Corte di cassazione, all’esito di una
articolata disamina della giurisprudenza nazionale, euro-unitaria e della CEDU, ha
osservato che «il principio affermato dalla nostra Costituzione [in ordine alla
precostituzione per legge del giudice naturale] presenta connotati identici rispetto
a quelli presi in considerazione sia nella dimensione convenzionale che in quella
euro-unitaria, implicando il requisito della costituzione per legge che
l'individuazione dell'organo giudicante non sia lasciata al potere esecutivo, né alla
stessa attività di auto-organizzazione del potere giudiziario, ma sia
oggettivamente predeterminata dalla legge.».

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Sez. 1, n. 49242 del 18/05/2017, Lucky, ha affermato che «la disposizione di
cui all'art. 20 del d.lgs. n. 251 del 2007 in tema di protezione dall'espulsione, nella
parte in cui consente di procedere al respingimento per motivi di ordine e sicurezza
interna non è applicabile alle ipotesi in cui il soggetto istante corra, ove ricondotto
nel paese di origine, serio rischio di essere sottoposto alla pena di morte, alla
tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti», sulla base di una
interpretazione dichiaratamente «correttiva» della disposizione. Precisamente,
tale «interpretazione correttiva» dell’art. 20 d.lgs. n. 251 del 2007, il cui enunciato
testuale sembra dare prevalenza incondizionata ai motivi di sicurezza interna dello
Stato, è «basata sul significato della locuzione, introdotta con la novellazione del
2014 [d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 18], della clausola di riserva che testualmente
recita “in conformità degli obblighi internazionali ratificati dall'Italia”», e del
principio posto dall’art. 19, comma 2, della Carta di Nizza, in forza del quale
«nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste
un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene
o trattamenti inumani o degradanti.». Può essere interessante rilevare come la
sentenza della Sez. 1, si preoccupi pure di precisare espressamente che l’art. 19,
comma 2, della Carta di Nizza «fa parte integrante del diritto dell'Unione, anche ai
sensi del successivo art. 51 della medesima Carta (ove si prevede l'applicabilità
delle disposizioni contenute nel trattato esclusivamente nell'attuazione del diritto
dell'Unione), essendo intervenute sul tema in via di progressiva regolamentazione
le direttive […] 2004/83/CE […], […], 2011/95/UE […] e 2013/32/UE […]».
Va infine segnalata la recente diffusione di pronunce dei giudici di merito che
hanno proceduto alla sottoposizione di questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia
ai fini dell’interpretazione della disciplina euro-unitaria, allo scopo dichiarato di
superare il diritto vivente dell’ordinamento italiano, proprio invocando la Carta di
Nizza.
Può richiamarsi, innanzitutto, l’ordinanza del Tribunale di Bari, 10 ottobre
2017, la quale ha sottoposto alla Corte di Giustizia la seguente questione
pregiudiziale: «Se gli artt. 16, 18 e 20 b della Direttiva 29/2012/UE debbano
essere interpretati nel senso che essi ostano a che la persona offesa debba essere
sottoposta nuovamente all’audizione dinanzi al mutato giudicante quando una
delle parti processuali ai sensi degli artt. 511, comma 2, c.p.p. e 525, comma 2,
c.p.p. (come costantemente interpretati dalla giurisprudenza di legittimità) neghi
il consenso alla lettura dei verbali delle dichiarazioni già in precedenza rese dalla
stessa persona offesa nel rispetto del contraddittorio ad un giudice diverso nello
stesso processo». Questa pronuncia, infatti, in motivazione, richiama
espressamente il combinato disposto di cui agli artt. 2 TUE e 1 e 52 della CDFUE,
desumendo dallo stesso che il rispetto della dignità umana osterebbe a che la

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persona offesa dal reato sia chiamata, in assenza di una specifica esigenza, a
rendere nuovamente dichiarazioni dinanzi al nuovo giudicante per il solo fatto che
una delle parti processuali si sia opposta alla lettura del precedente verbale.
Altra pronuncia significativa è l’ordinanza del Tribunale di Lecce, 20 ottobre
2017, la quale ha sottoposto alla Corte di Giustizia la seguente questione
pregiudiziale: «Se l’articolo 2, § 1, l’articolo 3, § 1 lettera c), l’art. 6, §§ 1, 2 e 3,
della direttiva 2012/13/UE, nonché l’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea, debbano essere interpretati nel senso che ostino a
disposizioni processuali penali di uno Stato membro in base alle quali le garanzie
difensive conseguenti alla modifica dell’imputazione vengano assicurate in termini,
qualitativamente e quantitativamente, diversi a seconda che la modifica riguardi
gli aspetti fattuali dell’accusa, ovvero la qualificazione giuridica della stessa, in
particolare consentendo soltanto nel primo caso all’imputato di chiedere il rito
alternativo premiale dell’applicazione della pena (cd. patteggiamento)».

Antonio Corbo

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