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SOMMARIO

La crisi del 1929


(il crollo di Wall Street)

1. L'evoluzione del liberalismo economico


Il liberalismo economico o liberismo ritiene che la libera iniziativa economica dell'individuo, non
condizionata dallo Stato, sia la condizione per il funzionamento del mercato. La libera concorrenza e
il libero scambio determinano l'aumento della produzione a beneficio della maggioranza della
popolazione. Il solo intervento dello Stato, riconosciuto come lecito, è quello di rimuovere gli ostacoli
che impediscono il corretto funzionamento del mercato.
Nel dibattito economico del XVIII secolo la fisiocrazia ha esposto per prima questo concetto
individuando nella "natura" la fonte di ogni ricchezza e condannando qualsiasi ingerenza da parte
delle autorità, che ostacolasse o indirizzasse lo sviluppo economico del paese. Ai fisiocrati va
riconosciuto il merito di aver superato l'idea mercantilistica che la ricchezza e il suo incremento siano
dovuti allo scambio. In Inghilterra fu Adam Smith a sostenere nell'Indagine sulla natura e le cause
della ricchezza delle nazioni la medesima teoria con la differenza che la ricchezza non è prodotta dal
lavoro dei campi ma dall'attività industriale, che proprio in quel periodo conosceva il suo straordinario
sviluppo.
La politica liberista ebbe il massimo sviluppo in Europa nel periodo 1850-1880, soprattutto ad opera
dell'Inghilterra e continuò ad essere seguita fino alla prima guerra mondiale. In ambito dottrinale, dagli
anni '70 dell'Ottocento, si ebbe il superamento dell'impostazione tradizionale dell'economia con la
scuola marginalista o neoclassica. Essa criticò la concezione ricardiana di valore/lavoro, condivisa da
Marx, secondo la quale il valore della merce era stabilito dalla quantità di lavoro socialmente utile per
produrla; riprese la teoria della "mano invisibile" di Smith e la teoria edonistica di Bentham, ma
sviluppò in tutt'altro modo l'indagine economica.
L'analisi economica doveva partire non dall'offerta ma dalla domanda, dal bisogno del compratore
che sa valutare quanto dei suoi risparmi o del suo reddito va speso per l'acquisto delle merci. Il valore
di una merce quindi è indicato nella sua "utilità marginale", cioè in relazione al suo grado o "margine"
di utilità. In altri termini, il valore e l'utilità di una merce sono in relazione alle altre merci e ai bisogni
degli uomini. Analogamente l'imprenditore è spinto a produrre una certa quantità di merce nella
misura in cui consegue un "sufficiente margine" di guadagno. Questa analisi viene affrontata dai
marginalisti in modo isolato e indipendente da considerazioni di altra natura, sia di ordine sociale, sia
di ordine politico, come invece le precedenti teorie avevano sostenuto.
Tale sistema, ritenuto stabile e armonico, sarà oggetto di critica da parte di Keynes che propose
descrizioni più ampie e dinamiche dei rapporti economici.
(Cfr. la mappa concettuale: Il liberalismo)

2. Introduzione alla crisi


Il crollo di Wall Street, il grande crollo, la crisi del 1929, sono tutte espressioni usate per indicare un
periodo della storia economica del Novecento durante il quale si ridussero considerevolmente e su
scala mondiale produzione, occupazione, redditi, salari, consumi, investimenti, risparmi, ovvero tutte
le grandezze economiche il cui andamento caratterizza di norma lo stato di progresso o di regresso
dell'economia di un paese. Ciò che rese unica questa crisi fu che la contrazione dell’attività
economica fu in quegli anni così rapida e radicale come mai era accaduto. Quando la crisi esplose,
nel 1929, la letteratura economica era assai ricca e si vantava di poter ricostruire le vicende delle
varie crisi succedutesi nel tempo, nonché di poterne fornire spiegazioni logiche. Erano già state
individuate e più o meno studiate le crisi del 1816, 1825, 1836-39, 1847, 1857, 1866, 1873, 1882-84,
1890-93, 1900-1903, 1907, 1911-13, 1920, 1924, 1926-1927. Si sapeva inoltre quali fattori del
processo economico potevano essere ritenuti responsabili delle crisi: l'eccesso di risparmio (Malthus),
l’insufficienza del consumo (Sismondi), il tasso d’interesse tenuto artificiosamente basso (Wicksell), e
ancora: l’eccesso di impianti nelle industrie di beni strumentali rispetto a quelle di beni di consumo;
l’eccesso di credito, etc. Si era consapevoli del peso dell’andamento dei raccolti, delle innovazioni
tecnologiche e del credito il cui utilizzo era sempre in crescita (con l’esito di aumentare
considerevolmente la violenza delle fluttuazioni). Infine l’aspetto monetario, le variazioni nel ritmo
della produzione dell’oro... etc.
Pur nella natura variopinta delle crisi, vi era accordo sul fatto che queste, al di là della loro durata,
risultavano sempre racchiuse tra un punto di svolta inferiore (o crisi) dopo il quale cominciava la
contrazione dell'attività economica, e un punto di svolta superiore (o punto di ripresa).
Il ricco bagaglio letterario non aiutò i grandi economisti statunitensi (Irving Fischer, Charles E.
Mitchell, Joseph S. Davis) a intuire negli indubbi segni di eccitazione che caratterizzarono l’economia
americana del 1928-29 l’approssimarsi della grave crisi (non mancò però chi, come Roger Babson,
annuncio un crollo catastrofico).
La crisi si manifestò in maniera improvvisa ma non inattesa. Ancora alla fine dell’estate del 1929 la
borsa di New York, nella quale poi esplose, attraversava una fase di grande euforia e speculazione.
Ma prima un periodo altalenante, poi giovedì 24 ottobre il primo giorno di panico (in cui 13 ML di
azioni vennero vendute a prezzi nettamente inferiori a quelli di acquisto), e infine martedì 29 ottobre
(più di 16 ML). Nonostante gli interventi, sia organizzati che spontanei, allestiti da gruppi bancari e
finanziari per dare fiducia al mercato, il crollo delle azioni non incontrò argini.

3. Le cause storico-politiche della crisi


Il crollo della borsa, piuttosto che la causa della crisi, fu il segnale della depressione. La crisi esplosa
sul finire dell’ottobre 1929 aveva origini lontane, vi aveva concorso seriamente lo sconvolgimento che
nelle relazioni economiche, monetarie, e finanziarie internazionali aveva prodotto la prima guerra
mondiale.
Alle gravi perdite di vite umane e di ricchezza provocate dalla guerra (circa 10 ML di morti cui vanno
aggiunti 20 ML di morti per la spagnola, 20 ML di feriti, tra cui moltissimi invalidi e pertanto inidonei al
lavoro e circa 400 miliardi di dollari) si erano aggiunti:
1) il collasso politico dell’Impero asburgico, con il sorgere dalle sue ceneri di numerosi altri stati
(Jugoslavia, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia), che non avevano tardato a imboccare la strada di
politiche protezionistiche, e quindi limitatrici degli scambi internazionali;
2) la rivoluzione russa (con la conseguente esclusione dell’economia sovietica dai liberi traffici
mondiali, nonché la nascita di altri Stati, come la Finlandia e le Repubbliche baltiche di Estonia,
Lituania e Lettonia);
3) il collasso economico della Germania, cui il trattato di Versailles aveva imposto il fardello del
riconoscimento dei debiti di guerra e del pagamento delle riparazioni.
L'Inghilterra. Oltre a impoverire vaste regioni dell’Europa orientale e dell'Europa centrale e a
provocare elementi di disgregazione negli equilibri economici e nei rapporti commerciali
internazionali, la guerra aveva anche frantumato l’equilibrio monetario raggiunto negli anni che
precedettero la prima guerra mondiale. Le monete della maggior parte degli Stati occidentali erano
state assai vicine alla loro parità legale, e i valori interni delle singole monete erano stati solidamente
legati all’oro (unità di misura internazionale). Durante la guerra gli Stati avevano ecceduto nelle
emissioni di carta moneta ad eccezione degli Stati Uniti che riuscirono a mantenere inalterata la
convertibilità in oro (Gold Standard) del dollaro. La misura del danno sofferto dalle altre monete
emergeva dal loro cambio con il dollaro. Fino alla guerra la Gran Bretagna era stata il «banchiere del
mondo» e la sua moneta - la sterlina - era stata il pilastro del sistema monetario internazionale (tutti i
prodotti erano prezzati in sterline); era anche il principale centro assicurativo del mondo (i Lloyds di
Londra); e, per l’imponente flotta mercantile di cui disponeva, era centro del mercato dei noli.
La Grande guerra non mutò d’un tratto questa situazione, ma le necessità della guerra avevano fatto
trascurare l’aggiornamento tecnologico dell'apparato produttivo, privandolo di una parte della sua
concorrenzialità. Al tempo stesso, impegnato com’era nella guerra, il Paese aveva anche trascurato
parte dei mercati mondiali, lasciando maggiore spazio sia ad alcuni dei suoi Domini (India) sia a
talune nazioni (Stati Uniti e il Giappone).
La fine della guerra trovò così l'Inghilterra indebolita sia sul piano produttivo che su quello finanziario
e monetario; mentre gli Stati Uniti apparivano cresciuti economicamente e finanziariamente, e
divenuti, da paese debitore, paese creditore dell’Europa. Si accendono cioè le luci sul mercato
finanziario di New York. Il mercato di Londra, dal canto suo, andò lentamente perdendo forza,
soprattutto nelle possibilità di credito, e finì addirittura per indebolire le sue riserve auree.
Già nel 1920 la sterlina era svalutata rispetto al dollaro del 22%. Ma allo scopo di non affievolire il
prestigio della City l’Inghilterra, invece di riconoscere il mutato rapporto della sterlina col dollaro, e
stabilizzare il valore della sterlina alla nuova parità determinatasi, adottò una politica deflazionistica
che le permise di ripristinare nel 1925 il rapporto con il dollaro alla parità prebellica, segnando il
ritorno alla convertibilità aurea, sia pure integrata dall’apporto di monete forti (Gold Exchange
Standard). L’attuazione di questa politica deflazionistica, determinando una caduta dei prezzi interni e
dei tassi di profitto e di interesse rispetto a quelli esteri, indebolì le esportazioni e favorì largamente le
importazioni, contribuendo a precipitare l'economia britannica in una grave crisi, che non mancò di
avere i suoi risvolti sociali, come attestano i gravi conflitti nel mondo del lavoro che culminarono nel
lungo, estenuante sciopero dei minatori del 1926.
Stati Uniti. Del tutto diversa la condizione degli Stati Uniti. Con le sole eccezioni del 1924 e del 1927,
gli USA registrarono un boom ininterrotto fino all’ottobre 1929. A stimolare l’economia americana
furono molti fattori:
- l'espansione dell’industria edilizia e delle industrie da questa indotte;
- una serie di innovazioni, basate sullo sfruttamento di nuovi prodotti (l’automobile, grazie all’adozione
di nuovi sistemi di produzione) e delle industrie collegate (petrolifere, della gomma, dell’acciaio, delle
costruzioni stradali, dei trasporti stradali, ecc.);
- lo sviluppo dell'industria elettrica, la cui produzione raddoppiò tra il 1923 e il 1929;
- l’impulso notevole alla razionalizzazione dei processi produttivi, con l’adozione, nelle industrie dei
prodotti di massa, di un’organizzazione scientifica del lavoro, o «taylorismo», mirante ad eliminare i
tempi morti, e a ridurre al minimo i movimenti inutili (un esempio per tutti fu l'adozione della catena di
montaggio da parte della Ford agli inizi del secolo).
Il reddito nazionale aumentò, fra il 1923 e il 1929, del 23% laddove la popolazione, in seguito alle
leggi restrittive dell'immigrazione del 1921, aumentò solo del 9% e la forza di lavoro solo dell'11%.
Questa maggiore disponibilità di capitali fece degli Stati Uniti il paese più prospero del mondo. E
furono proprio queste abbondanti disponibilità che consentirono agli USA di concedere cospicui
prestiti non solo all’Europa ma anche all’America latina, al Canada e ad alcuni paesi asiatici (si parla
in tutto di quasi 30 miliardi di dollari). La maggior parte dei prestiti fu concessa ai paesi europei dopo
che essi erano riusciti a domare l'inflazione che li avevano afflitti nel dopoguerra. Inflazione che era
stata di tale ampiezza e gravità che si era dovuto provvedere a sostituire le monete esistenti,
creandone delle altre, dopo aver assicurato loro congrue ed effettive garanzie (dalla corona allo
scellino in Austria; dal marco al renten-mark in Germania; dal rublo al rublo-cervonetz in Russia).
Dato che il sistema monetario prebellico era ancorato all’oro si ritenne che bisognasse ritornare
all’oro. E poiché era la moneta inglese il punto di riferimento delle altre monete europee, il fatto che
essa puntasse a ripristinare il rapporto prebellico col dollaro non fu senza conseguenza per gli altri
paesi occidentali. Anche se non si ebbe un vero e proprio ritorno al Gold Standard, ma si arrivò ad
un Gold Exchange Standard, nel senso cioè che si equipararono all’oro le valute pregiate estere, il
risultato non fu meno grave. Le riforme monetarie, mano mano che si succedevano creavano (o
scoprivano) il vuoto nelle economie interessate. Così quando l’Inghilterra nel '25 tornò alla parità
entrò in crisi; allo stesso modo, quando nel ’27 la lira si allineò alla sterlina ebbe inizio la crisi anche in
Italia (cfr. A. Musco). Eppure fu dopo questa generale sistemazione delle monete europee svoltasi tra
il 1925 e il 1927 che gli Stati Uniti intensificarono i loro prestiti ai vari Paesi europei. Nei soli anni
1925-1929, gli Stati Uniti prestarono all’estero circa tre miliardi di dollari. E a poco a poco una gran
parte dell’oro del mondo si andò a concentrare a Fort Knox (che nel 1929 ha già il 38% dell’oro del
mondo).
In Europa la Germania era stata il maggior beneficiario dei prestiti americani, e grazie a questi aveva
potuto riprendersi rapidamente dal collasso del marco nel dopoguerra. Per fronteggiare le sue
esigenze di sviluppo, la Germania aveva utilizzato molti dei prestiti americani a breve termine per
investimenti a medio e a lungo termine, confidando che, dato il ritmo e l'intensità dello sviluppo
dell'economia statunitense, questi prestiti non sarebbero stati rapidamente ritirati. E in quale migliore
mercato investire se non proprio New York? Sempre più capitali a breve termine, l’hot
money («moneta calda»), furono attratti pertanto dal boom della borsa di New York.
Ma l’aumento delle quotazioni alla borsa di New York non era collegato all’aumento dei dividendi
delle azioni, cioè dei profitti delle corrispondenti società, bensì a un puro gioco di speculazioni. Dal
momento che i prezzi crescevano appariva vantaggioso comprare per rivendere, senza preoccuparsi
della bontà dei titoli. Per il possesso di questi titoli l’investitore piccolo come quello grosso ricorreva
alle banche per ottenere i finanziamenti necessari al completamento dell’operazione. Fu così che tra
il 1925 e il 1929 il numero dei valori scambiati raddoppiò (incurante dell’aumento del tasso di sconto
del governo statunitense del 1924).
Nell’autunno del 1929 gli Stati Uniti, che tenevano in piedi e unito il sistema economico
internazionale, cominciarono a richiamare drasticamente i capitali sottraendoli, quindi, alle attività in
cui erano investiti. E la crisi si allargò a macchia d’olio.

4. Caratteri della crisi


La conseguenza diretta del crollo della borsa fu la caduta dei prezzi agricoli, delle materie prime e,
poi (ma in misura minore), dei prodotti industriali e la rapida contrazione del commercio in tutto il
mondo, il che non poteva non riflettersi negativamente sul potere d’acquisto degli strati produttivi di
tutti i paesi. Il quadro degli effetti della crisi è desolante, seppur costellato di luci e ombre:
- i salari si ridussero ovunque, anche se la caduta dei prezzi delle derrate alimentari servì a contenere
i danni per il livello dei consumi; tuttavia la riduzione dei salari non contribuì ad accrescere la
produzione attraverso nuovi investimenti, ma si tradusse solo in riduzione di prezzi (cfr. Michal
Kalecki);
- i profitti industriali si contennero, ma non vennero eliminati completamente, grazie al processo di
rapida concentrazione industriale che si era sviluppato dal dopoguerra (cfr. Hermann Levy);
- altro fenomeno di rilievo nei paesi industriali colpiti dalla crisi, come la Gran Bretagna, dove il
movimento sindacale era più solidamente organizzato, fu che i salari subirono minori riduzioni per la
diminuzione del numero dei salariati occupati (fatto che già veniva evidenziandosi nel periodo
precedente).
La crisi fu aggravata anche dalla politica economica seguita dagli Stati Uniti. Con le loro esportazioni
di capitali, avevano contribuito a mantenere in equilibrio la bilancia internazionale dei pagamenti.
Scoppiata la crisi, essi non accrebbero questa esportazione di capitali, anzi iniziarono il ritiro
dall’estero dei capitali a breve termine. Il ritiro di questa «moneta calda», che già era cominciato nel
1928, si intensificò nel 1930 e nel 1931 e toccò gradualmente livelli mai registrati in passato.
Questa tendenza al ritiro dal mercato internazionale, specie europeo, fu rafforzata dalla politica
doganale che gli Stati Uniti perseguirono. La tariffa doganale (la famosa Hawley-Smoot) che essi
adottarono a partire dal giugno 1930, fu duramente protezionistica, e, quel che è più grave, costituì un
pericoloso precedente.
Certo, a spingere molti paesi a scegliere la via dell’isolazionismo, o del nazionalismo economico, fu la
stessa asprezza della crisi. Nei mesi che seguirono l’ottobre 1929, la produzione industriale andò
rapidamente crollando in tutti i Paesi.
Fanno eccezione:
- l'URSS, che si era esclusa dall’economia mondiale (e che peraltro non poté evitare di subire, proprio
a partire dal 1929, a causa della lotta ai contadini ricchi, kulaki, gravi e irreparabili danni in
agricoltura);
- il Giappone, che affrontò la crisi (inclusa la guerra) con misure inflazionistiche;
- i paesi scandinavi, esportatori di particolari materie prime per le quali la domanda non subì riduzioni
sensibili.
Oltre che borsistica, industriale, agricola e commerciale, la crisi fu presto anche bancaria. Il fatto che
le industrie non producessero, e che quel che producevano dovesse essere venduto a prezzi bassi,
con minori profitti, e che gli agricoltori, per la caduta dei prezzi agricoli, fossero costretti o ad
abbandonare la terra, o ad accontentarsi di un guadagno minimo, ebbe notevoli conseguenze sul
sistema bancario. Sia l’industria che l'agricoltura erano seriamente indebitate con le banche. Nel
periodo di boom, che aveva preceduto lo scoppio della crisi, queste banche avevano ecceduto nei
prestiti, confidando non solo in una restituzione regolare, ma anche nel fatto che i risparmiatori non
avrebbero ritirato i loro depositi, ed anzi li avrebbero accresciuti.
La crisi mise in difficoltà molte banche. Compromesso dalla caduta delle vendite e dei prezzi, un
numero crescente di imprese non fu in condizione di pagare i debiti alle scadenze, e intanto le
banche erano premute dai loro depositanti che, spinti a loro volta da crescenti esigenze di liquidità,
volevano la restituzione di tutto o parte delle somme depositate. Schiacciate tra l’incudine del
mancato rientro dei prestiti e il martello dei depositanti che pretendevano la restituzione dei loro
capitali, molte di queste banche furono costrette a chiudere i battenti trascinando nel fallimento altre
banche collegate (e risparmiamo i numeri). Un esempio per tutti: nel dicembre 1930 fallì la Bank of
the United States in New York city, che contava oltre 400.000 depositanti, ne fu danneggiato un terzo
della popolazione di New York.

5. Primi rimedi e loro conseguenze


Di fronte al disastro la reazione dell’opinione pubblica statunitense fu varia (fatalismo, condanna del
consumismo, affermazione della moralità calvinista contro il lassismo), mentre il mondo economico
reagì sollecitando misure deflazionistiche atte a tutelare la moneta (quali la riduzione dei consumi
privati e tagli severi alla spesa pubblica, anche a quella assistenziale). La reazione del presidente
repubblicano, Herbert Hoover, non fu incisiva.
Da un lato:
- si oppose inizialmente a rigorose misure deflazionistiche;
- stimolando la spesa per opere pubbliche;
- facendo pressione sugli industriali perché non riducessero i salari;
- creò nel 1930 una Grain Stabilization Corporation e una Cotton Stabilization Corporation per
sostenere i prezzi sia dei cereali che del cotone, in rapida caduta.
Dall’altro, però:
- si rifiutò di porre mano a un piano di pubblica assistenza (solo 5 dollari alla settimana per famiglia);
- preferendo fare affidamento sulla carità privata e sull’azione dei governi locali.
Molte famiglie, senza più assistenza finanziaria, impossibilitate a pagare i mutui fondiari, si videro
addirittura espropriate della loro casa, mentre altre si trasferivano in località dove speravano di
trovare lavoro. Emblematico al riguardo è il lungo viaggio che Joad e la sua famiglia compiono nel
romanzo di Steinbeck, Furore, dall'Oklahoma alla California.
Sul piano internazionale, la crisi si manifestò con la contrazione del commercio (importazioni-
esportazioni: da 68.606 milioni di dollari-oro nel 1929 a 24.175 nel 1933) che comportò, come prima
conseguenza, l’adozione di dazi doganali nei confronti dei prodotti esteri, soprattutto dei cereali con la
conseguente caduta delle esportazioni cerealicole per i paesi più poveri (soprattutto dell’Europa
dell’est). Negli Stati Uniti la citata tariffa Haweley-Smoot aumentò i dazi mediamente del 60%, ma
spesso dell'80 e anche del 100%; in Inghilterra - campione per antonomasia del free trade - l’Import
Duties Act, estesa a tutto l’impero nella Conferenza di Ottawa del 21 luglio 1932, comportò dazi
anche superiori al 33%.
In un tale contesto la Società delle Nazioni non seppe fare altro che convocare una riunione
paneuropea nel febbraio del 1930 per una sorta di tregua doganale mai attuata.
Resasi sempre più evidente l’impossibilità di un accordo internazionale in materia commerciale,
cominciarono a manifestarsi tentativi di accordi limitati a due o più Stati. Così si ebbe nel 1930 una
convenzione ad Oslo tra Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca, Olanda e Belgio, per una più
intensa cooperazione regionale. Nel marzo 1931 fu poi avanzata una proposta di unione doganale tra
Austria e Germania (!) cui si oppose la Conferenza di Stresa.
Non solo queste soluzioni non sortirono alcun effetto, ma addirittura travalicarono l’ambito
commerciale come nel caso dell’accordo austro-tedesco: la Francia infatti ritirò immediatamente, in
forma sanzionatoria, quei prestiti a breve che aveva concesso alle banche tedesche contribuendo
così a rendere insostenibile la situazione economica della Reichsbank che reagì nell’unico modo a lei
concesso, rialzando il tasso di sconto e determinando quindi un’ulteriore restrizione del credito e
l’ennesimo colpo all’attività economica.
Per avere un’idea della portata della crisi si veda la tabella seguente in cui, posta uguale a 100 la
produzione industriale dell’ottobre 1929, si riporta la situazione nei vari paesi relative al 1932:
U.R.S.S. 183 Olanda 84 Francia 72 Polonia 63
Giappone 98 Regno Unito 84 Belgio 69 Canada 58
Norvegia 93 Romania 82 Italia 67 Stati Uniti 53
Svezia 89 Ungheria 82 Cecoslovacchia 64 Germania 53
La crisi commerciale non poteva quindi non ripercuotersi in crisi finanziaria prima e monetaria poi. Il
fallimento delle maggiori banche europee (la Credit Anstalt di Vienna, la Dresdner Bank e
la Darmstadter und National Bank) non poteva non ripercuotersi sul mercato di Londra che si vide
richiamare tutti quei prestiti a breve di cui era campione senza però essere in grado di liquidarli in
quanto quegli stessi capitali erano stati investiti a medio e lungo termine. La richiesta di una moratoria
nel settembre del 1931 da parte della Banca d’Inghilterra e del Governo laburista comportò, da un
lato, la sospensione dei pagamenti (con conseguente ulteriore crollo dei creditori) e dall’altro una
considerevole svalutazione della sterlina (30,68% rispetto al dollaro e abbandono del Gold Standard)
e la fine di un’epoca.
Il terremoto finanziario, attraverso il medio dell’impero commerciale inglese, coinvolse tutte le monete
mondiali.

6. La disoccupazione
Non si dà crisi (borsistica o finanziaria, bancaria o monetaria, commerciale o industriale) che non
scarichi a massa i suoi effetti. Secondo i dati della Società delle Nazioni, la disoccupazione superò
nel 1932 i 25 milioni di unità cui bisognava aggiungere i milioni di lavoratori agricoli e di contadini che,
se non disoccupati, erano occupati quasi ovunque solo parzialmente. Maggiore fu quindi la
disoccupazione in quelle nazioni dove la possibilità di lavoro-sfogo agricolo erano minori: 15 milioni
negli Stati Uniti e 7 milioni in Germania - nazioni a forte tasso di industrializzazione. La Francia risentì
in maniera nettamente inferiore del fenomeno disoccupazione per vari motivi contingenti (dopo la
guerra fu meta di molti emigranti in cerca di lavoro che alle prime avvisaglie della crisi rimpatriarono;
anche molti francesi abbandonarono le città rifugiandosi nelle fattorie agricole; ma la crisi in generale
si manifestò in ritardo rispetto agli altri paesi – tanto che, come abbiamo visto, si era permessa
ancora prestiti a breve nei confronti delle banche tedesche).
La disoccupazione fu aggravata dalle politiche deflazionistiche adottate per evitare conseguenze sul
bilancio statale: riduzione degli stipendi, aumento della tassazione diretta anche sui salari, e drastica
riduzione della spesa pubblica (si veda, per esempio, l'operato del governo Brüning in Germania). E
dalla crisi sociale che ne seguì alla crisi politica il salto fu breve: è, infatti, al malcontento che essa
suscitò che va attribuito il primo successo ottenuto da Hitler nelle elezioni del luglio 1932. Successo
che si rinnovò e accrebbe nelle nuove elezioni del novembre, anche se, nel frattempo, a partire dagli
inizi del settembre, il cosiddetto «piano di Von Papen» aveva cercato di imprimere numerosi stimoli
alla domanda interna, e, con la riduzione del tasso di sconto al 4% e alcune agevolazioni creditizie,
aveva favorito la ripresa industriale.
Ma ovunque la politica di contenimento della spessa pubblica e di salvaguardia del valore della
moneta (promossa da Hoover) è da considerarsi una delle principali cause della ingente
disoccupazione mondiale. Fu in questo quadro che le elezioni presidenziali negli Stati Uniti del
novembre portarono alla sconfitta di Hoover e alla vittoria di F. D. Roosevelt.

7. Il 1933: il New Deal, la ripresa e... Hitler


Il 1933 segnò una svolta importante nella crisi. Sintomi di ripresa si verificarono un po’ dovunque. La
produzione industriale registrò valori più alti di quelli dell’anno precedente, e l’occupazione accennò in
generale ad aumentare. Tuttavia, il 1933 fu caratterizzato soprattutto da altri fatti importanti.
Il primo è il definitivo fallimento di ogni tentativo di collaborazione internazionale. La Conferenza
economica e monetaria mondiale, apertasi a Londra nel giugno 1933 dopo una lunga preparazione,
sanzionò l'effettiva frantumazione del mercato mondiale. Scontratasi sul problema se bisognasse
stabilizzare le varie monete e attuare nuovamente il «ritorno all’oro», come base del sistema
monetario e delle transazioni internazionali, la Conferenza si chiuse con la deliberata svalutazione del
dollaro (10%) fermamente perseguita da Roosevelt, da pochi mesi al potere, e l’ostinata difesa
dell'oro da parte della Francia. Dalla Conferenza uscirono tre blocchi principali con differenti politiche
economiche:
1) dell’area del dollaro (Roosevelt voleva usare la svalutazione per operare una diminuzione dei debiti
interni e per accrescere il potere d’acquisto dei ceti agricoli, in modo che essi potessero intensificare
gli acquisti di prodotti industriali, e quindi contribuire attivamente alla ripresa);
2) dell'area della sterlina (la Gran Bretagna affermava esplicitamente che la politica monetarla non
doveva essere rivolta al mantenimento della stabilità dei cambi esteri, ma solo ad assicurare credito
abbondante e a buon mercato);
3) del blocco aureo: Francia, Belgio, Italia, Svizzera, Paesi Bassi e Polonia (questi Paesi miravano a
garantire la stabilità e solidità della moneta, perseguita attraverso l'equilibrio nel bilancio statale e
nella bilancia dei pagamenti, anche a costo di attuare politiche deflazionistiche);
La «caduta» del dollaro costituisce, senza dubbio, il secondo dei fatti più importanti del 1933. Salito al
potere, agli inizi dell’anno, Roosevelt si trovò a fronteggiare un grave peggioramento delle condizioni
del sistema bancario statunitense. I fallimenti si moltiplicavano. Furono più del doppio di quelli
dell’anno precedente. Di fronte all’ampiezza del fenomeno, Roosevelt si adoperò per l’approvazione
dell'Emergency Banking Act e poi del Banking Act (20 marzo 1933), cambiando radicalmente la
politica economica del suo predecessore. Grazie alla notevole svalutazione del dollaro cui fu
autorizzato dal Congresso, stimolò la spesa pubblica, intraprendendo un vasto programma di opere
pubbliche, e ponendo mano a quello che fu chiamato il New Deal, un complesso di misure volte, in
particolar modo:
1) a sostenere gli agricoltori attraverso il controllo della produzione attuato anche attraverso la
riduzione della superficie coltivata, e la concessione di sussidi,
2) a contenere e ad eliminare la speculazione,
3) a ridurre lo strapotere dei grandi gruppi finanziari.
Altro fatto del 1933, non meno importante, soprattutto per le conseguenze che avrebbe prodotto, fu
l'ascesa di Hitler al potere in Germania. La crisi economica gli era stata, come si è accennato,
decisamente favorevole. Le quattro elezioni che si svolsero tra il settembre 1930 e il marzo 1933
videro il numero dei suoi deputati crescere da 107 a 288, ossia dal 18% a circa il 54% dell’intero
numero di seggi del Reichstag.
Si è detto anche che il 1933 segnò l’inizio della ripresa. Il fenomeno non fu contemporaneo in tutti i
paesi. Per l’Italia, ad esempio, bisognò attendere il 1934; per il Belgio, il 1935; ecc. Negli anni
seguenti, la produzione continuò a crescere, e con essa l’occupazione e gli investimenti. Questa fase
di ripresa culminò nel 1937, facendo ritenere che si fosse di nuovo di fronte a un boom. Tuttavia, già
sul finire di quell'anno, si poterono rilevare qua e là segni indubbi di recessione. E se questa
recessione non si estese e non si aggravò, trasformandosi in una nuova drammatica crisi, questo
avvenne perché il mondo aveva imboccato chiaramente la strada del riarmo e della guerra.
Nell’estate del 1938, dopo l'annessione dell’Austria alla Germania, l’incontro di Monaco confermò
l’ineluttabilità di quella svolta. L'anno successivo, sul finire dell’estate, scoppiava la seconda guerra
mondiale.
L’intervento statale e la fine del liberismo. L’interventismo statale assunse in primo luogo la
caratteristica di un aumento della spesa pubblica. La riduzione della spesa pubblica era stata uno dei
punti fermi delle politiche deflazionistiche adottate nella prima fase della crisi. Ora, nell’ultima fase, in
molti paesi si ritornò a privilegiare la spesa pubblica ma, ancora una volta, con notevoli differenza tra
paese e paese.
Negli Stati Uniti ad esempio, più che di un aumento della spesa per investimenti, si trattò di un
aumento della spesa corrente. A differenza del periodo pre-crisi, nell'ultima fase della crisi si registrò
cioè una modificazione nella struttura della spesa pubblica. La spesa per investimenti fu, in termini di
reddito nazionale, assai inferiore a quella che era stata negli anni 1923-1929. Ancora più importante:
la spesa corrente per consumi precedette la spesa per investimenti. Sarebbe stato, in sostanza,
l’accento posto sul consumo a generare, attraverso l’aumento della domanda, la ripresa industriale.
In Germania si verificò, al contrario, il caso opposto. Furono le spese per investimenti che prevalsero.
Il Governo nazista privilegiò lavori pubblici ed armamenti e furono questi investimenti pubblici a
sollecitare quelli privati, sui quali, per altro, lo Stato non mancò di esercitare rigorosi controlli.
Tuttavia, il Governo di Hitler non tralasciò di concedere all'industria privata sussidi statali ed esenzioni
tributarie per talune forme d’investimenti.
Altra forma assunta dall’interventismo statale fu la politica del danaro a buon mercato. Questo fu il
caso soprattutto della Gran Bretagna e dell’Italia: nell’intento di ridurre l’onere degli interessi gravanti
sul bilancio statale si perseguirono politiche di conversione del debito pubblico (consistenti nel porre i
possessori di titoli del debito pubblico nella condizione o di accettare una diminuzione del tasso di
interesse o di rassegnarsi alla restituzione del capitale prestato allo Stato).
Forma efficace di interventismo fu anche l’assistenza a favore di industrie particolarmente depresse,
sia con finanziamenti agevolati sia con interventi rivolti a migliorarne l'organizzazione interna.
Dovunque furono incoraggiate le industrie di esportazione, ma in taluni paesi (si veda il caso
dell’Italia) l’intervento dello Stato raggiunse forme anche più dirette. In Italia, dopo la costituzione, nel
1931, dell'I.M.I. vi fu, nel gennaio 1933, quella dell'I.R.I. Con l'I.M.I. e soprattutto con l'I.R.I. si mirò, ad
un tempo, da un lato allo smobilizzo finanziario e dall’altro alla riorganizzazione gestionale e
produttiva del sistema industriale.
Inoltre si realizzarono in molti paesi politiche di controllo valutario, concretatesi in accordi commerciali
bilaterali e in forme di clearings (forme di regolamento dei rapporti di scambio tra paesi fondate sulla
compensazione delle reciproche posizioni creditorie e debitorie).
Queste politiche d’intervento non furono contemporanee in tutti i Paesi, e non dettero risultati positivi
ovunque nello stesso periodo. Ritardi ed errori tecnici e politici si verificarono un po’ dappertutto. I
paesi del blocco aureo, ad esempio, adottarono politiche inflazionistiche con ritardo rispetto alla Gran
Bretagna e agli Stati Uniti. Il Belgio vi aderì solo dopo una serie di rovesci bancari, conseguenti alla
difficile situazione industriale. La Francia vi giunse solo nel 1936, quando, sull’onda del malcontento
popolare per la crescente disoccupazione, salì al potere Léon Blum alla guida del così detto Fronte
popolare. Ma i risultati che l’esperimento sortì, per le eccessive misure demagogiche adottate, furono
assai inferiori all’attesa. La Francia non aveva le possibilità di recupero degli Stati Uniti, perché le sue
risorse economiche erano minori. E questa realtà pesò sul destino del Fronte popolare,
condannandolo al fallimento, e identificandolo con la finanza allegra e infeconda. L’Italia fece ricorso
alle misure inflazionistiche solo nel corso del 1935-36, dopo i salassi valutari subiti durante la guerra
d’Etiopia.
Ancora: in alcuni paesi, la ripresa industriale fu ottenuta a costo di gravi sacrifici per le popolazioni,
con danno del progresso tecnologico industriale, grazie all’adozione di sistemi autarchici. Il che
accrebbe l’isolamento di tali paesi e il frazionamento del mondo economico, fenomeno che non fu
senza responsabilità nel processo che portò al secondo conflitto mondiale.
Complesse e varie furono, comunque, le strategie seguite dai vari paesi per superare la depressione,
e, riducendo o eliminando la disoccupazione, assicurare speranze e benessere agli uomini. Le
politiche adottate non furono, però, esenti da critiche e da riflessi negativi. Se il risultato fu la ripresa e
la notevole contrazione della disoccupazione, deve anche dirsi che esse non rappresentarono la
formula ansiosamente ricercata per assicurare occupazione e benessere permanente. Nel pieno della
ripresa, si guardò ancora una volta alla guerra come allo strumento migliore e più efficace per il
progresso civile dei popoli. E la guerra, purtroppo, venne!

8. L'interpretazione keynesiana
Che cosa aveva ridotto così drasticamente la produzione di beni e di servizi? Le risorse naturali degli
USA erano ancora abbondanti. Il paese possedeva un eguale numero di fabbriche, di attrezzature e
di macchine. Il popolo possedeva le stesse capacità lavorative e voleva dispiegarle nel lavoro. E
tuttavia milioni di lavoratori, con le loro famiglie, mendicavano, prendevano a prestito, rubavano,
facevano la fila per ottenere magre porzioni della carità pubblica, mentre migliaia di fabbriche
rimanevano inattive o lavoravano ben al di sotto della propria capacità.
La spiegazione sta nelle istituzioni del sistema capitalistico dell’economia di mercato. Le fabbriche
avrebbero potuto essere aperte e gli uomini mantenuti al lavoro, ma non lo furono perché questo non
avrebbe prodotto profitto. E, in un’economia capitalistica, le decisioni di produzione sono basate
principalmente sul criterio del profitto e non sulle necessità della gente.
Il sistema economico capitalista parve essere sull’orlo di un completo collasso. Erano indispensabili
provvedimenti drastici, ma prima di poter salvare il sistema era necessario comprendere meglio la
malattia di questa depressione economica.
E questo compito fu assolto da uno fra i più brillanti economisti del secolo: John Maynard Keynes
(1883-1946). Nel suo libro La teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta, Keynes cercò di
far capire che cosa era successo al capitalismo, al fine di permetterne la conservazione.
La depressione nasce dal fatto che una riduzione nel volume degli investimenti che possono
accadere ciclicamente o accidentalmente in un’economia, quale ne sia il motivo, si riflette in una
riduzione della produzione dei beni strumentali nei quali detti investimenti si concretizzano. Da qui
una riduzione nell’occupazione e nei consumi dei gruppi di percettori di reddito interessati in tale
produzione. In conseguenza, peggiorano le prospettive di guadagno di altri gruppi di imprenditori e
con esse diminuisce ulteriormente l’incentivo ad investire.
Cadono così ulteriormente i consumi, attraverso una serie di reazione a catena per effetto delle quali
la situazione, in fatto di occupazione, produzione, prezzi e profitti, tende a peggiorare per così dire da
se stessa. In particolare, gli imprenditori non hanno convenienza ad utilizzare in nuovi investimenti il
risparmio monetario accumulato dai percettori di reddito.
Il nodo della crisi risiede proprio in questa discordanza tra le decisioni dei percettori di reddito, che
ritengono conveniente non consumare, ma che non investono direttamente il danaro risparmiato, e le
decisioni degli imprenditori, che non ritengono conveniente utilizzare tale denaro per aumentare i loro
investimenti e, quindi, la domanda di beni strumentali.
Si pensa quindi che lo Stato debba cercare di arrestare il processo, per così dire, di perdita di
velocità, da cui è investito il sistema economico per effetto del circolo vizioso: riduzione di
investimenti - riduzione di consumi - di nuovo riduzione degli investimenti e via di seguito.
Ciò può ottenersi essenzialmente attraverso una qualificata spesa pubblica addizionale, che, se
effettuata tempestivamente e in misura adeguata, può invertire la tendenza e ricondurre il sistema
verso posizioni di pieno impiego, pur mantenendo una situazione di prezzi stabili. Dopo di che
l’intervento statale ha termine, salvo prodursi con altre modalità nella situazione opposta in cui un
processo di espansione dia luogo a una domanda di fattori produttivi che ecceda quella che può
essere soddisfatta ai prezzi correnti.
In conclusione il Keynes sostiene che l’intervento dello Stato deve essere limitato nel tempo e basato
su un programma di spesa pubblica mirante ad utilizzare i fattori inoperosi (politica anti-
deflazionistica) oppure deve essere finalizzato a contenere la domanda nei limiti dei fattori disponibili
(politica anti-inflazionistica).
(Cfr. mappa concettuale: La crisi del 1929 )

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