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Canto 16

Il canto sedicesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nel terzo


girone del settimo cerchio, ove sono puniti i violenti contro Dio, natura e
arte; siamo all'alba del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri
commentatori del 26 marzo 1300.

Incipit
« Canto XVI, ove tratta di quello medesimo girone e di quello
medesimo cerchio e di quello medesimo peccato. »
(Anonimo commentatore dantesco del XIV secolo)

I tre fiorentini - versi 1-63


Il canto inizia con una nota sonora: Dante e Virgilio stanno camminando
sull'argine del Flegetonte per non calpestare il "sabbione" percorso dalla
pioggia di fuoco del terzo girone del VII cerchio (quello dove vengono puniti
i violenti contro Dio e contro natura), e già essi iniziano a sentire il suono
della cascata, simile al ronzio che fanno le api vicino alle arnie.
Allora da una schiera si allontanano tre dannati e vanno verso i due
pellegrini, gridando a Dante: "Fermati tu, che sembri vestito come uno della
nostra dannata città (terra prava)".
Mentre Dante rimane colpito dalle orribili bruciature dei tre, Virgilio lo
prepara all'incontro che sta per avvenire. Come con Farinata degli Uberti,
il poeta latino annuncia che Dante sta per incontrare una di quelle anime
"magne" delle quali ha chiesto notizie a Ciacco, attraverso una
perifrasi: "Aspetta, con questi dannati si deve mostrare cortesia; e se non
fosse per la pioggia infuocata direi che sarebbe meglio per te corrergli
incontro." (parafrasi vv. 14-18).
I tre dannati riprendono il loro "antico verso" (il pianto o l'andatura) quando
vedono che i due si sono fermati e quando sono vicini iniziano a girare in
tondo, uno dietro all'altro perché, come ha già spiegato Brunetto Latini nel
canto precedente, i sodomiti sono puniti con una corsa eterna e se essi si
fermassero per cento anni sarebbero ben più dolorosamente inchiodati al
suolo come i bestemmiatori (forse perché fermarsi mentre si stanno
pagando i propri peccati è considerabile come superbia contro Dio, proprio
come le bestemmie?). Dante fa una similitudine un po' oscura: come i
campioni nudi e unti, studiando una presa che sia per essi vantaggiosa prima
del combattimento, così facevano i tre ruotando il collo nel senso contrario
dei piedi: forse tutto ciò per dire che essi lo fissavamo come quei "campioni"
che nel medioevo si battevano su pagamento per dirimere controversie
legali (più difficile è che Dante avesse una reminiscenza dei gladiatori del
mondo antico).
Uno dei tre inizia a parlare, prima dicendo che nonostante il loro aspetto
miserabile essi furono uomini di fama in vita, per cui se per quella fama
l'animo di Dante di pieghi, lo pregano di dirgli che esso sia "che i vivi piedi
/ così sicuro per lo 'nferno freghi" (vv. 31-32).
Prima però egli offre tre lapidarie presentazioni di sé e dei suoi compagni:
l'uomo, scorticato dalle fiamme e nudo, che lo precede fu una persona più
importante di quello che sembri ora, nipote della
buona Gualdrada (personaggio citato come esempio di virtù in Pd. XV, 112),
e famoso condottiero di nome Guido Guerra, sostenitore del partito guelfo,
sconfitto nella Battaglia di Montaperti, promosse la riscossa guelfa nella
Battaglia di Benevento "fece con senno assai e con la spada" (v. 39); colui
che lo segue invece è Tegghiaio Aldobrandi, che avrebbe dovuto essere
ascoltato su nel mondo (egli aveva infatti sconsigliato ai fiorentini di
combattere a Montaperti); lui invece è Iacopo Rusticucci, che ebbe più
danno dalla bisbetica moglie che da altro (su questo epigrafico verso si
sbizzarrirono i commentatori raccontando come a fronte della consorte che
gli si negava egli si fosse dedicato ai rapporti omosessuali).
I tre fiorentini illustri, se non fosse per l'accenno nel sesto canto, dove
sono indicati, almeno Iacopo e Tegghiaio, tra coloro "ch'a ben far puoser li
'ingegni", sarebbero appena che delle sagome tratteggiate molto
frettolosamente. Essi appartengono tutti alla generazione precedente a
quella di Dante e furono importanti condottieri e uomini politici, per cui si
presume che la loro schiera sia accomunata da questi mestieri, mentre in
quella di Brunetto Latini erano presenti solo chierici e letterati. Dante, per
aver riconosciuto questi grandi uomini, scrive che volentieri sarebbe sceso
ad abbracciarli, ma si guarda bene dal farlo per via della pioggia infuocata.
Inizia quindi a rispondere loro. Parafrasando, la loro misera condizione non
gli suscita disprezzo, ma dolore persistente soprattutto da quando il suo
maestro (Virgilio) lo avvertì del loro incontro; anche lui è fiorentino e
"sempre mai", un ossimoro che più che altro ha valore di rafforzativo di
"sempre", egli ha ascoltato e ripetuto con affetto i loro nomi e la loro
onorata opera (notare che Dante prima mette il verbo ritrarre di ascoltare,
usando il cosiddetto hysteron proteron, figura retorica che inverte l'ordine
sequenziale delle azioni). Il poeta pellegrino lascia il fiele infernale per il
"dolci pomi" del Paradiso, come gli ha promesso la sua guida (Virgilio), però
prima dovrà scendere fino al centro della terra (ovvero fino al punto più
basso dell'Inferno).

La corruzione di Firenze - vv. 64-90


Iacopo chiede dunque, dopo aver invocato la magnanimità di Dante, se nella
loro città regnano ancora le virtù cavalleresche come la "cortesia" (intesa
come rispetto delle norme delle "corti") e il valore, perché un tal Guglielmo
Borsiere, sceso da poco tra di loro (cioè morto da poco), gli ha narrato fatti
preoccupanti.
Dante approfitta quindi per esporre la sua visione circa
la Fiorenza contemporanea. Il nocciolo dei problemi secondo lui sta
nell'"immigrazione" ("la gente nuova") e nella facile ricchezza che alletta le
persone e le riempie di orgoglio di modi senza misura. Dante ha pronunciato
questa breve orazione con gesto e tono profetico "con la faccia levata", e i
tre si guardano l'un l'altro annuendo, sbigottiti e rattristati. Ringraziano
dicendo che la sua risposta è stata gradita e si raccomandano che se egli
tornerà nel mondo dei vivi, quando accadrà che racconti del suo viaggio si
ricordi di citare i loro nomi. Poi se ne scappano con le gambe veloci ("isnelle")
nel tempo di dire un amen ("Un amen non saria possuto dirsi / tosto così
com'è fuoro spariti" vv. 89-90).

La corda di Dante - vv. 91-114


Nel frattempo Dante riparte con Virgilio e il suono della cascata, citato a
inizio del canto, è già molto forte tanto da coprire le loro voci. La successiva
similitudine per dire che la cascata gli ricorda quella "dei Romiti" presso San
Benedetto dell'Alpe è particolarmente prolissa e complessa ed occupa
quattro terzine: "Come quel fiume, che per chi va dal Monviso (dove nasce
il Po) verso levante è il primo corso d'acqua sul versante sinistro
dell'Appennino che ha un proprio cammino (non si getta nel Po) che si
chiama Acquacheta nel tratto superiore, prima di scendere a valle nel basso
letto dove a Forlì non ha più quel nome (si chiama Montone[1]), rimbomba
sopra San Benedetto dell'Alpe perché cade da un dirupo con un solo salto
invece di essere ricevuto da mille piccoli salti; così da una ripa scoscesa
trovammo quell'acqua tinta di rosso risuonare così forte che in poco tempo
avrei avuto l'udito offeso." (parafrasi vv. 94-105).
A questo punto Virgilio gli chiede la corda che cinge i fianchi di Dante. Si
tratta di un passo sicuramente dal valore allegorico, ma il cui significato non
è mai stato pienamente chiarito. I punti fermi del passo dantesco sono che:
Virgilio chiede la corda per chiamare Gerione, simbolo della frode;
Dante dice che aveva cercato di catturare la Lonza maculata (simbolo
della lussuria o di frode nel primo canto) con quella stessa corda.
Altri elementi sono che Dante gliela porge "aggroppata e raccolta", cioè
avvolta a matassa, che Virgilio la lancia verso destra e che lo fa da lontano
dalla sponda.
Le interpretazioni allegoriche della corda si possono ricondurre a due
principali teorie, ciascuna sostenuta da un nutrito numero di studiosi e
commentatori.
La prima, più antica e che si basa su citazioni della Bibbia e riscontri in altri
passi danteschi, vede la corda come un simbolo dell'"intenzione"
fraudolenta, legata alla seduzione amorosa, che richiama Gerione quale
simbolo di frode "in atto".
La seconda, legata ad altre citazioni bibliche oltre che a passi
di Sant'Agostino e di Aristotele, indica la corda quale simbolo di "Castità",
intesa come cingolo che frena ai reni gli istinti legati alla sessualità (cingolo
che, dopo aver visitato i lussuriosi sodomiti, non occorre più). Se ciò
spiegherebbe appieno la menzione al tentativo di Dante di domare la lussuria
(la "lonza"), si adatta peggio alla figura di richiamo della Frode. Forse si può
intendere in senso più ampio come un animo puro possa essere travisato per
ingenuità che attira la malizia fraudolenta. Essa però in un certo senso
addomestica e vince la frode, quindi, secondo anche un passo di Isaia,
potrebbe figurare la Giustizia e la Fedeltà.
Non è invece appoggiata da alcun riscontro l'idea, sostenuta da alcuni
commentatori un po' superficialmente, che Dante fosse un
terziario francescano o un templare, essendo la presenza della corda
l'unico indizio in tale senso.

Ascesa di Gerione - vv. 115-136


Dante immagina già che qualcosa di nuovo stia per apparire e riflette che
gli uomini devono essere cauti quando si trovano in presenza di (parafrasi:)
coloro che, non soltanto (“pur”) vedono gli atti esteriori (“l’ovra”), ma anche
penetrano col senno nei pensieri degli altri (è questa una perifrasi per
riferirsi a Virgilio), cioè è bene tacere finché non si sa cosa stia accadendo.
Ma Virgilio gli legge come al solito nel pensiero e (nonostante il rumore della
cascata, che non è più citato) gli dice che presto qualcosa arriverà.
A questo punto egli apostrofa il lettore per richiamarne l’attenzione e
prepararlo ad uno spettacolo straordinario ed irreale, dicendo che
(parafrasi:) si deve sempre evitare, fin che si può, di riferire un fatto, per
quanto vero, quando esso si presenti con un’apparenza così strana e
meravigliosa da farlo ritenere falso; perché è facile in tal caso, senza esser
colpevoli di mendacio, meritarsi la taccia di bugiardi. Ma dice: "qui tacer nol
posso" e giura sulle rime della sua "comedìa" (v. 128, ecco la prima volta in
cui Dante dà un nome alla sua opera e uno dei rari passi in cui la nomina)
rivolgendosi direttamente a ciascun lettore, che possano esse non essere
vuote di alcuna grazia, che egli vide proprio una figura "maravigliosa" (cioè
tale da incutere stupore e sgomento anche in un animo saldo e non facile a
turbarsi, “sicuro”) salire nuotando per l'"aere" denso e scuro (è questa una
metafora), come il marinaio che scende per disincagliare l'ancora che si
aggrappa ad uno scoglio o ad altro oggetto sul fondo marino, che nella parte
superiore del corpo si stende, e “da piè si rattrappa”, cioè ritrae a sé le
gambe, per salire a galla (cioè a stile rana).
Questa prodigiosa figura è Gerione, custode dell'ottavo cerchio
dell'Inferno dove vengono puniti i fraudolenti ed è esso stesso simbolo di
frode (nell’Eneide, custode dell’Averno). La sua figura, spalmata su ben
quattro canti, sarà descrittà nel dettaglio nel prossimo canto, mentre il
prodigioso volo di Dante e Virgilio in groppa a Gerione sarà trattato nel
Canto diciottesimo; nel ventesimo si accennerà brevemente alla sua
scomparsa nel primi versi.

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