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Scienza indiana: periodo classico

Alchimia e tecniche chimiche


di David G. White, Bidare V. Subbarayappa - Storia della Scienza (2001)

Sommario:

1. L'alchimia indiana
- Parametri storici dell'alchimia indiana
- Fonti dell'alchimia indiana sino al Medioevo
- La pratica dell'alchimia tantrica
- L'alchimia dei siddha
2. Tecnologie chimiche
- Artigianato dei metalli: statue e conio
- Fabbricazione del vetro
- Pirotecnica
- Tinte e pigmenti
3. Chimica medica
4. Cosmetici e profumeria
5. Bibliografia

1. L'alchimia indiana
di David G. White

Nell'Asia meridionale l'alchimia è inseparabile dal suo contesto religioso; perciò, è innanzitutto
necessario identificare tale contesto. Al di là dell'alchimia islamica, più che altro importata dalla
Persia, la quasi totalità delle tradizioni alchimistiche documentate nel subcontinente indiano sono
d'origine hindu. Le sole opere non hindu giunte fino a noi contenenti significativi dati alchimistici
sono il Kālacakratantra (Tantra della ruota del tempo) con il suo commentario Vimalaprabhā
(Splendore senza macchia, 1000-1050 d.C. ca.), buddhisti, e un testo jaina, il Rasaratnasamuccaya
(Summa dei gioielli delle essenze) di Māṇikyadeva Sūri (1000-1200 d.C. ca.). Ciò che segue sarà
pertanto dedicato all'alchimia hindu. Quest'ultima comprende, insieme con una tradizione di
pratiche religiose e tecniche, un certo numero di branche e discipline che includono la metallurgia,
la medicina indiana tradizionale nelle sue forme settentrionali e meridionali, la iatrochimica
(rasaśāstra, la 'scienza delle sostanze essenziali'), la terapia di ringiovanimento (rasāyana, la 'via
delle sostanze essenziali'), la terapia di riabilitazione sessuale (vājīkaraṇa), l'alchimia di
trasmutazione (dhātuvāda, la 'dottrina degli elementi'), l'alchimia d'elisir (dehavāda, la 'dottrina del
corpo'), il haṭhayoga ('yoga violento') e il Tantra. Sebbene la iatrochimica, che perdura come una
branca della medicina tradizionale (āyurveda), abbia incorporato nella sua produzione di farmaci a
base minerale e vegetale molte delle antiche formule, delle tecniche e delle nomenclature
alchimistiche, non esistono oggi alchimisti attivi nel subcontinente indiano. Inoltre, in linea
generale, non esistono dati archeologici o epigrafici relativi alla pratica dell'alchimia. Pertanto, ogni
ricostruzione storica della tradizione alchimistica hindu, la quale fiorì tra il 900 e il 1200 d.C., si
baserà necessariamente su dati testuali, ossia su quanto può essere definito il 'canone' alchimistico
hindu.
Per una comprensione dell'alchimia hindu è fondamentale il termine polisemico rasa. Sin dall'epoca
dei Veda (1500-1000 a.C.), rasa ha il significato di 'fluido', 'succo', 'linfa' (è affine al latino resīna).
Con l'emergere della tradizione alchimistica il termine ha assunto un certo numero di significati
tecnici, tra cui 'elemento essenziale' e 'mercurio'. Il primo di questi significati fa generalmente
riferimento a otto reagenti alchimistici primari (mahārasa) e otto secondari (uparasa), mentre il
secondo definisce quel fluido supremo che è l'argento vivo, identificato con Śiva, la suprema
divinità alchimistica, in quanto suo elemento essenziale, e cioè il suo seme. In un testo alchimistico
classico composto tra il 1000 e il 1100 d.C., il Rasārṇava (Oceano dell'elemento essenziale; 1, 36),
si afferma che Śiva ha rivelato che "poiché è il rasa [elemento essenziale, fluido vitale] del mio
corpo, lo si chiama rasa [mercurio]". Il mercurio, purificato e potenziato attraverso le sue
interazioni con lo zolfo e la mica, cioè i mahārasa che sono gli omologhi minerali del sangue
mestruale della consorte di Śiva, la Dea (generalmente chiamata Devī o Pārvatī nelle opere
alchimistiche), effettua la trasformazione sia dei metalli sia del corpo umano nelle loro essenze più
elevate nell'ambito della grande catena dell'essere. Gli elisir alchimistici (rasāyana), combinazioni
di mercurio e altri rasa, sia minerali sia vegetali, sono essenziali per la terapia di ringiovanimento.
Con ciò si giunge a uno dei presupposti fondamentali dell'alchimia hindu (e del Tantra): in un
Universo che è costantemente generato dall'unione sessuale del divino nelle sue ipostasi maschile e
femminile, le sostanze vitali animali, minerali e vegetali sono emanazioni o manifestazioni dei
fluidi originali consistenti nel seme del dio supremo Śiva e nel sangue mestruale della Dea. Poiché
tutte partecipano del medesimo flusso della natura divina, le sostanze vitali sono sempre
intercambiabili, ricombinabili e perfettibili. Pertanto, la terapia dell'elisir, la trasmutazione, il
haṭhayoga e gli elementi mistico-erotici del Tantra sono tutte tradizioni che si compenetrano e
rinforzano reciprocamente, rientrando nella categoria generale di 'alchimia hindu'.

La teoria e la pratica dell'alchimia hindu si basano sul concetto di perfettibilità della materia, quale è
presente sia nella metafisica emanazionista della filosofia del Vedānta sia in certi elementi della
filosofia dualista del Sāṃkhya. Secondo la metafisica del Sāṃkhya, la prakṛti, la 'materia'
dell'Universo, si è disgregrata in 25 categorie (tattva), che possono essere riportate alla loro
originaria condizione unitaria. Pertanto la terra, il più basso dei cinque elementi materiali, può
essere reintegrata nell'etere, l'elemento più elevato della serie, attraverso gli elementi intermedi:
acqua, fuoco e aria. Questi cinque elementi materiali costituiscono una delle quattro gerarchie
pentadiche omologhe; a questa serie si aggiungono le facoltà sensoriali, le facoltà d'azione e gli
elementi sottili. Per esempio, la facoltà sensoriale dell'udito è omologa alla facoltà d'azione della
parola, all'elemento sottile del suono e all'elemento materiale dell'etere. La stessa capacità delle
categorie più alte delle gerarchie del Sāṃkhya ‒ di reintegrare, cioè, in sé stesse i loro prodotti
evolutivi più bassi senza subire modificazioni ‒ vale per la gerarchia degli elementi (dhātu)
dell'alchimia hindu. Secondo un'opera composta tra il 900 e il 1000 d.C., il Rasahṛdayatantra
(Tantra del cuore dell'elemento essenziale) di Govinda, presumibilmente la più antica opera indiana
d'alchimia, "le piante legnose sono assorbite nel piombo, il piombo nello stagno, e allo stesso modo
lo stagno nel rame. Il rame [è assorbito] nell'argento, l'argento nell'oro, e l'oro è assorbito nel
mercurio".

Una dinamica parallela è osservabile nel sistema dei cakra ('ruote') proprio del haṭhayoga hindu,
una tradizione che emerse approssimativamente nello stesso periodo di quella alchimistica.
Attraverso la pratica yogica, l'elemento terra del cakra più basso, il mūlādhāra ('supporto di base'),
al livello dell'ano, è reintegrato o imploso nell'elemento acqua del secondo cakra, e così via sino
all'elemento etere del quinto cakra, la viśuddhi ('purificazione'), al livello della gola.
Tutte queste categorie gerarchiche e combinatorie sono, a ogni modo, elementi della prakṛti
('materialità'), la quale è totalmente diversa dal puruṣa, lo 'spirito trascendente', l''anima', o 'sé',
secondo il sistema del Sāṃkhya; è qui che i principî dell'alchimia hindu e il haṭhayoga
corrispondono più da vicino a questa filosofia perenne dell'India. In entrambi i sistemi, è però il dio
supremo Śiva, e non l'astratto puruṣa, a essere identificato con l'anima o sé trascendente. Nello
śivaismo medievale degli Āgama (i testi rivelati), il fine della pratica non era divenire Śiva, ma
arrivare a essere intimamente vicini a Śiva, o divenire come Śiva. Questo è anche il motto
dell'alchimia hindu e del haṭhayoga, nei cui canoni testuali s'incontra ripetutamente l'espressione
'egli diviene un secondo Śiva'. In maniera analoga, la meta dell'alchimista non è divenire mercurio,
ma divenire come mercurio, in grado cioè di trasmutare i metalli di base in oro e i corpi umani in
corpi superumani.

Questo è il modo in cui era intesa la trasmutazione (vedha, lett. 'penetrazione'), penultima fase della
pratica alchimistica. Il mercurio, purificato e potenziato, penetra e assorbe in sé i metalli di base,
facendo in modo che essi divengano i loro elementi evolutivi superiori, finché non si ottiene l'oro
alchimistico. Alla fine del processo il mercurio che trasmuta è scomparso; vi è soltanto l'oro, il
metallo nobile, immortale, non più trasmutabile in mercurio. La relazione tra trasmutazione e
trasformazione corporea (śarīrayoga), fase culminante e meta finale della pratica alchimistica
hindu, con la quale il corpo stesso dell'alchimista è trasformato in un corpo immortale, che non
invecchia, perfezionato, d'oro o diamante, è spiegata nel Rasārṇava (17, 164-65): "Come nel
metallo, così nel corpo. Il mercurio deve sempre essere usato in tal modo. Quando penetra in un
metallo o nel corpo, [il mercurio] si comporta in modo identico: prima prova [il mercurio] su un
metallo, poi usalo nel corpo".

La relazione tra questi processi e la filosofia śivaita è chiaramente affermata nel Kulārṇavatantra
(Tantra dell'oceano del Kula; 14, 89), che fu composto tra il 1000 e il 1200 d.C.: "Proprio come la
penetrazione da parte del mercurio determina la trasformazione in oro [dei metalli], così il sé,
penetrato mediante l'iniziazione, ottiene la condizione di Śiva".
Sebbene l'alchimia indiana, quanto a visione del mondo e assunti metafisici, sia eminentemente
hindu, non si può negare che il mercurio, sua sostanza basilare, sia ovunque assente nel
subcontinente indiano, eccetto che sotto forma di tracce (in zone di attività geotermica si trovano
cinabro e solfuro di mercurio). Taluni termini indiani per 'mercurio' indicano l'origine straniera del
metallo, il quale probabilmente giunse in India, via terra o via mare, dalla Cina, dal Tibet o dal
mondo mediterraneo. Tali termini includono cīnapiṣṭa ('polvere cinese'), pārada (un riferimento ai
Parti oppure ai Pārada della Transoxiana o del Baluchistan) e mleccha ('barbaro'). L'alchimia dei
sittār dell'India meridionale, che ha un'impronta decisamente taoista, probabilmente riceveva il suo
rifornimento di mercurio attraverso città portuali quali Surat e Madras, a lungo centri di
fabbricazione del cinabro sintetico e del calomelano (cloruro mercurioso) a partire da mercurio
d'importazione e minerali locali. La tradizione dei sittār sostiene che i leggendari alchimisti Nandi e
Bogar si fossero ambedue recati in Cina.

La testimonianza più rilevante di scambi culturali in materia di alchimia è, comunque, un assieme


d'istruzioni per l'estrazione dell'argento vivo dai 'pozzi' nei quali si trova naturalmente. Istruzioni
pressoché identiche si trovano nella recensione siriaca del corpus alchimistico attribuito allo
Pseudo-Zosimo (300-400 d.C.), nel Rasendracūḍāmaṇi (Diadema del signore degli elementi
essenziali) di Somadeva (1150-1250) e nell'enciclopedia cinese Hehan sancai tuhui (Compendio
illustrato delle tre potenze in versione sino-giapponese; 1600-1700 d.C.). In tutte queste fonti, il
mercurio è indotto a fuoriuscire dal suo pozzo allorché una vergine nuda cavalca o cammina nelle
sue vicinanze; quando il metallo fluente la insegue, è catturato dagli alchimisti e da questi 'ucciso'.
Inoltre, la fonte cinese identifica la terra ove questo pozzo si trova con Fu Lin, cioè la Siria,
"lontano a ovest". È evidente come gli immaginosi dettagli di questa estrazione abbiano viaggiato
lungo le medesime vie commerciali ‒ attraverso la Via della seta e le navi cinesi ‒ insieme con la
materia greggia che descrivono.
Colpiscono anche le somiglianze nell'apparato alchimistico e nelle procedure di laboratorio fra
queste tre regioni del mondo; tali analogie sono però spiegabili in base al comportamento chimico
dei reagenti medesimi e alle scoperte ottenute per tentativi sulle tecniche di distillazione,
amalgamazione, solidificazione, ecc., nelle tecnologie affini di metallurgia, conio, alcolizzazione e
profumeria. La prima testimonianza della conoscenza indiana di talune tra queste tecniche si trova
nell'Arthaśāstra (Trattato sull'utile) di Kauṭilya (2, 12, 2; 2, 13, 3). Quest'opera, allorché usa i
termini rasaviddha ('penetrato dal rasa') e rasapāka ('che brucia di, o con il, rasa'), sembra riferirsi
all'amalgamazione dell'oro con il mercurio nell'estrazione, nella metallurgia e nel conio. Il termine
rasa può, peraltro, riferirsi a minerale fuso invece che al mercurio. I due classici della medicina, la
Carakasaṃhitā (Raccolta di Caraka) e la Suśrutasaṃhitā (Raccolta di Suśruta) ‒ le cui redazioni
definitive sono databili rispettivamente 100 d.C. ca. e 200-400 d.C. ‒, contengono in tutto quattro
riferimenti all'uso esterno del mercurio a scopo terapeutico. Nessuno è collegato alla terapia di
ringiovanimento, e non dovrebbe essere assunto come prova di un più antico terminus a quo della
tradizione alchimistica indiana. La iatrochimica, con le sue preparazioni e terapie a base di mercurio
e minerali, divenne parte della tradizione medica solo dopo il superamento dell'età d'oro
dell'alchimia hindu, nel XIII secolo.

Parametri storici dell'alchimia indiana

.La storia dell'alchimia indiana può essere suddivisa in tre fasi: l'alchimia magica, tantrica e dei
siddha. La prima, fiorita tra il 300 e il 900 d.C., è materia di leggende. La trasmutazione e
l'immortalità corporea sono le sue finalità dichiarate, ma i mezzi per conseguirle sono un fatto di
serendipità; non esistono tecniche di laboratorio per la lavorazione del mercurio o la produzione di
oro alchimistico brocciato. La sua parola chiave è rasarasāyana, che designa un elisir miracoloso e
uno degli otto poteri sovrannaturali (siddhi) dell'era gupta e del primo misticismo indiano
medievale. Più spesso questo è un elisir o potere che si conquista, o si sottrae, agli dèi, semidei
(chiamati siddha), o demoni, spesso viaggiando sino ai loro mondi atmosferici o sotterranei. Questo
tipo di alchimia divenne uno dei temi prediletti della letteratura avventurosa e fantastica del
periodo, con re e prìncipi spesso impegnati in ruoli di ricercatori alchimistici. Non vi è dubbio che il
miraggio della fabbricazione dell'oro, dell'immortalità e dell'intensificata potenza sessuale,
rendevano il rasarasāyana e i suoi fornitori assai attraenti agli occhi degli acquirenti aristocratici.

Un pannello di un tempio, che è parte del celebre complesso di Khajuraho, situato nell'India
centrale, sembra offrire uno scorcio di questo mondo: al centro del pannello, due figure macinano e
agitano preparati in due apparati; attorno a loro si svolge un'orgia, che ha luogo in uno scenario
regale o in qualche lontano mondo fantastico. Vyāsa, nel suo commentario allo Yogasūtra
(Aforismi sullo yoga; 3, 51), fornisce una descrizione di questo mondo:
Gli esseri celesti che risiedono nelle regioni elevate, notando la purezza dell'intelletto di quelli che
hanno ottenuto la pura verità, […] cercano d'invitarli tentandoli con godimenti disponibili nelle loro
regioni nel modo seguente: "O grande anima, vieni a sedere qui e divertiti. Qui è piacevole. Ecco
una donna piacevole. Questo elisir previene la morte e il deperimento. Ecco un veicolo che può
portarti fino ai cieli. L'albero che soddisfa tutti i desideri è qui […] ecco i siddha ('perfetti') e i
grandi veggenti. Ninfe belle e docili, occhi e orecchie sovrannaturali, un corpo dalla forza
adamantina, eccoli tutti".

L'alchimia tantrica irrompe sulla scena nel X sec., e i 400 anni successivi costituiscono l'età d'oro
dell'alchimia indiana. Vi sono varie ragioni per definire 'tantrici' questo periodo e le sue collezioni
di classici alchimistici. Non soltanto le finalità dell'alchimia tantrica sono conformi a quelle della
più vasta tradizione tantrica hindu, ma anche i mezzi usati per ottenerle. I Tantra alchimistici sono
pieni di riferimenti a formule tantriche (mantra) e diagrammi (maṇḍala), come anche di riferimenti
a descrizioni di gerarchie divine, tecniche yogiche e meditative, pratiche sessuali e rituali, e a quella
devozione śākta-śaiva che sono i marchi della tradizione tantrica nel suo complesso. Molti dei
maggiori lavori alchimistici del periodo definiscono sé stessi Tantra, e sono presentati come gli
insegnamenti rivelati di Śiva (spesso nella sua forma tantrica di Bhairava) a una o all'altra forma
tantrica della Dea (Pārvatī, Kākacaṇḍeśvarī, ecc.).

Ciò che realmente distingue l'alchimia tantrica dall'alchimia magica è il rigore del suo metodo e la
notevole ampiezza delle conoscenze botaniche, mineralogiche, chimiche, geografiche, religiose e
tecniche che implica. La scienza alchimistica irruppe sulla scena indiana, provenendo
apparentemente dal nulla, con un equipaggiamento specialistico e un inventario teorico di materie
grezze minerali e vegetali, che non furono in alcun modo anticipati dall'alchimia magica. Anche se
le scuole alchimistiche cinese e persiana senza dubbio interagirono con l'alchimia tantrica, il
contenuto dei classici alchimistici indiani è così specificatamente indiano ‒ tanto nella provenienza
indigena di molte delle sue materie prime quanto nei suoi presupposti religiosi e metafisici quasi
esclusivamente hindu ‒ da precludere qualsiasi possibilità che si tratti di un prestito su vasta scala.

Le radici della rivoluzione che l'alchimia tantrica rappresentò possono essere ricercate nel potente
impatto del Tantra su misticismo e speculazione metafisica indiani, da un lato, e negli sviluppi
interni alle scuole mediche, dall'altro. In quest'ultimo contesto, un graduale scemare della pratica
della chirurgia (śalyatantra) ‒ sviluppo che qualcuno attribuisce all'influenza dell'ideale buddhista
della non violenza (ahiṃsā) ‒ sembra essere stato controbilanciato da scoperte e innovazioni nel
campo della farmacia basata sul mercurio e sui minerali.

È necessaria qui una spiegazione della quasi completa assenza di una letteratura alchimistica nel
buddhismo dell'Asia meridionale. Possono essere addotte due ragioni, la prima delle quali è storica:
al tempo in cui l'alchimia tantrica emerse in India, il buddhismo era in declino nel subcontinente; e
infatti si trova solamente un piccolo numero di opere indo-tibetane buddhiste sull'alchimia esteriore.

La seconda ragione è filosofica; in generale, il centro d'interesse del buddhismo è più psicologico di
quello dell'induismo, e pertanto molto di ciò che costituisce l'alchimia buddhista indo-tibetana è
d'ordine interiore, simbolico. Il mercurio, identificato con l'abilità nei mezzi (upāya), maschile, e lo
zolfo, identificato con la saggezza (prajñā), femminile, sono uniti interiormente attraverso la pratica
yogica; la trasformazione corporea è qui identificata con l'instaurazione del pensiero
dell'illuminazione (bodhicitta). Con ciò non s'intende che l'alchimia basata sul mercurio (detta
'fabbricazione dell'oro') non rivestisse alcun ruolo nel buddhismo indo-tibetano: piuttosto, poiché il
praticante dipende da elementi esteriori piuttosto che dalla sua pratica contemplativa, era ritenuta
inferiore.

L'alchimia hindu esteriore, basata sul laboratorio, sarebbe stata interiorizzata, gradualmente, dal
XIII sec. in poi, epoca a partire dalla quale l'alchimia tantrica fu in declino. Nessuna opera originale
su questo argomento fu prodotta dopo il 1300 d.C. ca., e molta della sua alchimia d'elisir fu
applicata a più modesti fini terapeutici nel campo emergente della iatrochimica. Vi fu, a ogni modo,
una fase finale nella storia dell'alchimia indiana che si potrebbe definire fase dell'alchimia dei
siddha, caratterizzata dall'importanza attribuita all'uso combinato di preparati mercuriali e tecniche
yogiche sessuali esteriori e interiori, con lo scopo di ottenere un corpo immortale e una condizione
semidivina pari a quella dei siddha.

I praticanti di questo tipo d'alchimia spesso si riferiscono a sé stessi come a siddha, cioè quegli
esseri perfezionati che essi aspirano a divenire attraverso tale pratica. A questo duplice
atteggiamento (interiore ed esteriore) si allude già nel Rasārṇava (1,18): "Il mercurio e il [controllo
del] respiro sono noti come l'Opera in due parti". Un importante testimone indiano di questa
complementarità è Mādhava, che incluse l'alchimia, da lui definita raseśvaradarśana ('il sistema del
Signore dei rasa'), tra i sedici sistemi filosofici descritti nella sua celebre opera
Sarvadarśanasaṃgraha (Compendio di tutti i darśana), redatta tra il 1356 e il 1377 d.C. È molto
significativo il fatto che, pur servendosi principalmente dei classici alchimistici tantrici (Rasārṇava,
Rasahṛdaya) per esporre i principî basilari della dottrina alchimistica, le conclusioni che Mādhava
ne trae sono specificamente collegate al tipico duplice atteggiamento dell'alchimia dei siddha, e alla
sua imprescindibile enfasi sul rendere il corpo stabile e immortale attraverso lo yoga. Col tempo, le
tecniche di laboratorio, esteriori, come anche l'uso di composti a base di mercurio quali elisir e
agenti di trasmutazione, sarebbero stati pienamente interiorizzati nelle varie tecniche del haṭhayoga.
Un attento esame della terminologia e delle dinamiche di questa tradizione mostrano infatti che è
un'estensione dell'alchimia dei siddha. Con il XVI sec. l'alchimia hindu esteriore, basata sul
mercurio, il cui obiettivo consisteva in un'immortalità indotta chimicamente, scomparve dal
subcontinente indiano.

Fonti dell'alchimia indiana sino al Medioevo

È possibile stabilire, grazie a riferimenti testuali interni, ai colophon dei manoscritti e alle liste di
siddha, che molti degli autori delle maggiori opere alchimistiche furono o medici di corte o membri
di determinati ordini religiosi śākta-śaiva o tantrici. Molti di questi autori avevano alla fine del
nome il suffisso nātha ('protettore', 'signore'), e i loro nomi figurano in alcuni elenchi di siddha
forniti da fonti sia buddhiste indo-tibetane sia hindu. Tali elenchi includono i mahāsiddha buddhisti
e un certo numero di gruppi hindu: i sittār tamil del Deccan orientale, i māheśvarasiddha del
Deccan occidentale, i rasasiddha ('perfetti in virtù del rasa') alchimistici e i nāthasiddha. I
riferimenti geografici interni inducono a ritenere che la regione dei monti Vindhya e il Deccan
occidentale rappresentassero l'area centrale della pratica alchimistica indiana, sebbene i testi
identifichino la regione himalayana e l'Asia interna quali fonti di molti reagenti alchimistici vegetali
e minerali. Śrīśailam, una montagna sacra śivaita che si trova nel Deccan orientale, è il 'paradiso'
dell'alchimia indiana più frequentemente menzionato, ed è qui, sulle mura esterne del tempio di
Mallikārjuna, che si trovano le sole immagini scolpite note degli alchimisti siddha e del loro
apparato. Questi bassorilievi risalgono al 1300-1400 d.C.

Oltre ai fondamentali Rasahṛdayatantra e Rasārṇava, già menzionati, le opere canoniche


dell'alchimia indiana includono il Kākacaṇḍeśvarīmata (1100-1200 d.C.), la Rasopaniṣad
(Upaniṣad dell'elemento essenziale; 1100-1200 d.C.), il Bhūtiprakaraṇa (Libro dei poteri
superumani) di Gorakṣanātha (1150-1250 d.C.), il Rasendracūḍāmaṇi di Somadeva (1150-1250
d.C.), il Rasaprakāśasudhākara (Ricettacolo d'ambrosia della luce dell'elemento essenziale) di
Yaśodhara Bhaṭṭa (1200-1300 d.C.), il Rasaratnākara (Miniera delle gemme dell'elemento
essenziale) di Nityanātha (1200-1300 d.C.), il Mātṛkābhedatantra (Tantra della suddivisione delle
madri) (1250-1300 d.C.), il Rasendramaṅgala (Ornamento auspicioso del signore degli elementi
essenziali) di Nāgārjuna (1250-1350 d.C.), il Rasaratnasamuccaya di Vāgbhaṭa II (1250-1350
d.C.), l'Ānandakanda (Radice della felicità; 1300-1400 d.C.) e la Khecarīvidyā (Scienza della
Khecarī) di Ādinātha (1300-1400 d.C.).

La pratica dell'alchimia tantrica

Nei lavori appena elencati vi è una grande omogeneità nelle descrizioni dei reagenti alchimistici e
delle procedure di laboratorio; inoltre un significativo numero di tali testi prende a prestito o fa
riferimento ad altre fonti canoniche comuni. Alcune opere sono più sistematiche di altre, ma la
quasi totalità presenta il medesimo materiale fondamentale. è possibile pertanto concludere che
l'alchimia hindu, almeno per come è presentata nei testi, fu una tradizione soltanto relativamente
cosmopolita.
Proprio come gli esegeti ricorrono ai 'cinque attributi' (pañcalakṣaṇa) per definire uno dei Purāṇa (i
testi enciclopedici dell'induismo), allo stesso modo possiamo indicare un certo numero di
caratteristiche comuni, riportate nella Tav. II, che accomunano le maggiori opere del canone
alchimistico tantrico.

Una descrizione idealizzata della disposizione di un laboratorio alchimistico, fornita nel


Rasaratnasamuccaya (6, 13-23), fornisce un panorama di materiali e apparati dei quali si serviva
l'alchimista tantrico. Al centro del laboratorio vi è un'immagine fallica mercuriale di Śiva
(rasaliṅga), disposta in una cesellatura d'argento che rappresenta la vulva (yoni) della Dea.

Lungo la parete est del laboratorio sono immagazzinate erbe e altre piante (se ne elencano 64); a
sud-est vi sono gli strumenti di distillazione; a sud i reagenti chimici che 'uccidono i metalli'; a sud-
ovest il mortaio, il pestello e altri strumenti atti a frantumare e polverizzare; a ovest vi sono gli
apparati per la liquefazione; a nord-ovest i mantici e la fornace; a nord gli agenti coloranti; e a nord-
est amalgami mercuriali e minerali. Oltre a questi, i principali reagenti nell'inventario
dell'alchimista includono i mahārasa (pirite di rame, pirite di ferro, bitume, selenio, calamina, zolfo
e orpimento, secondo il Rasārṇava, 2, 59, sebbene si trovi un elenco diverso in 7, 2), gli otto
uparasa (il cui elenco varia ampiamente), i sei metalli (in genere ferro, piombo, stagno, rame,
argento e oro), le cinque gemme, i cinque sali, i cinque veleni maggiori e minori, i cinque oli
animali, urine, escrementi, le classi delle cinque sostanze rosse, gialle e bianche, i cinque agenti
diluenti (la bacca Abrus precatorius, il borace, il miele, il burro chiarificato, la melassa) e così via.

Al centro della pratica alchimistica tantrica si situano le operazioni alchimistiche (saṃskāra), ossia i
'perfezionamenti' dei reagenti chimici, e in particolare del mercurio come si trova in natura, il quale
deve essere purificato e potenziato prima di essere applicato a corpi umani e a metalli. Le prime otto
operazioni servono a purificare e liberare dai veleni il mercurio per l'uso interno. Esse sono: (1)
svedana ('far sudare' o 'esporre al vapore' o 'fomentare' il mercurio in un bagno d'acqua insieme con
sostanze vegetali e minerali); (2) mardana (lo 'sfregamento', 'triturazione' del mercurio esposto al
vapore in un mortaio, insieme con sostanze vegetali e acide); (3) mūrcchana ('ottundimento' del
mercurio, il quale è triturato in un mortaio insieme con materia vegetale finché non perde le sue
caratteristiche naturali ed è purificato da tossine, impurità e difetti che lo caratterizzano in natura);
(4) utthāpana (la 'risurrezione' del mercurio svenuto, ottenuta esponendolo al vapore insieme con
alcali, sali e materia vegetale, e strofinandolo mentre è esposto al sole, così che recuperi la
brillantezza e altre proprietà fisiche che ha perso attraverso il mūrcchana); (5) pātana (la
'sublimazione' o 'distillazione' del mercurio); (6) bodhana ('risveglio') o rodhana ('ostruzione',
'coagulazione'), attraverso il quale il mercurio, che è stato purificato dal suo contenuto tossico ma
anche dalla sua forza mediante le operazioni precedenti, recupera la sua 'virilità' (vīrya) con
un'irrigazione in un bagno di sale; si afferma che questa operazione dà al mercurio una 'bocca'
(mukha) con la quale assorbe altri elementi; (7) niyamana (la 'regolazione' o 'limitazione' del
mercurio, la quale riduce la sua mobilità, eleva la sua temperatura di evaporazione e lo rende lucido
con l'immersione in un bagno di sostanze alcaline e di erbe e la successiva esposizione al vapore);
(8) dīpana, l''accensione' o 'incendio' del mercurio, il quale accresce ulteriormente la sua potenza e
luminosità attraverso l'esposizione al vapore in un bagno alcalino. Si afferma che questa operazione
accende il desiderio del mercurio di 'consumare' altri metalli.

Prese in gruppo, le prime otto operazioni alchimistiche servono a purificare e liberare dai veleni il
mercurio, così che possa essere usato internamente per il trattamento delle malattie. È qui, a ogni
modo, il grande spartiacque tra l'uso farmaceutico dei preparati a base di mercurio e il loro uso ai
fini dell'alchimia di trasmutazione e di elisir. La realizzazione di tali superiori finalità tantriche
richiede otto operazioni aggiuntive, attraverso le quali il mercurio inizia realmente a comportarsi
come un essere vivente, bramando metalli da consumare, penetrare e perciò trasmutare. La
transustanziazione del corpo stesso dell'alchimista, similmente penetrato dal mercurio, segue allora
automaticamente.

Ci sono altri gruppi di operazioni alchimistiche che, pur non essendo elencati tra i diciotto
saṃskāra, sono essenziali all'arte dell'alchimista. Le più importanti sono bandhana (la 'legatura' o
'fissazione' del mercurio) e māraṇa (l''uccisione' del mercurio). La legatura, come l'ottundimento,
lascia il mercurio stabile e perciò manipolabile, in uno stato in cui non è soggetto a evaporazione,
anche quando è scaldato sul fuoco. Quando non è legato, il mercurio, esposto al calore o alla luce
del sole, rimane volatile. Una volta purificato può quindi essere 'fissato' attraverso uno qualunque
dei 25 o 26 'legami' (bandha) alchimistici. L''uccisione' riduce il mercurio a una polvere fine o
ossido (bhasman), tale che il corpo umano sia in grado di assorbirla quando è assunta nei preparati
medici. Allorché il mercurio è ucciso, perde la sua fluidità, densità, luminosità e brillantezza.

L'alchimia tantrica attribuisce poteri fantastici di trasmutazione al mercurio, che è identificato con
la 'polvere uccisa' (mṛtabhasman) o 'mercurio ucciso' (mṛtasūtaka). Tra i saṃskāra rimanenti, i
quattro successivi ‒ (9) gaganagrāsa; (10) cāraṇa; (11) garbhadruti; e (12) bāhyadruti ‒ non sono
che fasi di un singolo processo continuo, il quale culmina nella 'digestione' o 'assimilazione' di
metalli nel mercurio, ossia (13) jāraṇa. Queste fasi iniziano con la misura (māna) di una quantità
data (un 'seme', consistente di polvere calcinata, o 'essenza', sattva) di mica o di un metallo per il
suo consumo (grāsa) da parte del mercurio. Segue la 'corrosione' (cāraṇa, lett. 'rincorsa') della mica
o del metallo da parte del mercurio, cui fa ancora seguito la sua elaborazione interna (alla massa del
mercurio) o esterna e liquidificazione (garbhadruti e bāhyadruti, rispettivamente 'flusso interno' e
'flusso esterno'); il risultato finale è una completa digestione o assimilazione (jāraṇa) nel mercurio.

Poiché scaturisce da una serie di operazioni, il jāraṇa può essere visto tanto come il punto
culminante delle operazioni alchimistiche, quanto come un'operazione in sé. Da questo punto in poi,
la distinzione tra il mercurio e i metalli che devono essere trasmutati diviene alquanto artificiale.
Una volta che il mercurio ha digerito un certo metallo, quel metallo cessa di esistere nella sua
individualità; è piuttosto il mercurio attivato alchimisticamente che è trasmutato in argento o oro.
(14) rañjana, la 'tintura' o 'colorazione' del mercurio comporta il suo riscaldamento insieme con i
'semi' (bīja) d'oro, argento, rame, zolfo, mica e sale, in modo che il mercurio assuma i colori
naturali dei minerali che ha assorbito o inghiottito. (15) sāraṇa ('far fluire, estendere'), il
'potenziamento' del mercurio in vista della trasmutazione, è effettuato mediante il suo riscaldamento
in un olio in cui sono stati versati semi fusi di metalli, diamanti, ecc. (16) krāmaṇa ('afferramento',
'progressione') consiste nel cospargere il mercurio con una pasta minerale e vegetale e riscaldarlo in
un pozzo di fuoco in modo che sia in grado, in quanto agente trasmutante, di penetrare sia i metalli
sia i tessuti del corpo umano. Prese insieme, le due operazioni finali (17) vedha ('trasmutazione':
lett. 'penetrazione', 'perforamento') e (18) śarīrayoga ('transustanziazione', 'trasformazione
corporea': lett. 'opera del corpo'), costituiscono il culmine del lavoro dell'alchimista. In quanto tali,
esse sono tanto il risultato delle sedici operazioni precedenti quanto operazioni alchimistiche in sé
stesse. Grazie a queste operazioni, il mercurio si fonde realmente con i 'corpi' metallici o di carne e
sangue, sostituendoli in ultima analisi con un corpo mercuriale o alchimistico. Come già notato, la
trasmutazione dei metalli di base in oro fu per l'alchimista (ma forse non per i suoi committenti
regali) soltanto un mezzo per conseguire la meta ultima dell'immortalità corporea, dell'invincibilità,
e dell'accesso allo status semidivino di siddha.

L'intima connessione tra queste operazioni finali è evocata in un passo del Rasārṇava: Una pillola
mercuriale in grado di trasmutare cento volte la sua massa di metalli di base in oro (mercurio per
cento vedha), quando è tenuta in bocca per un mese, produce una durata di vita di 4.320.000 anni. Il
mercurio per centomila vedha tenuto per quattro mesi produce una durata di vita pari a quelli di
Brahmā; il divino mercurio per un milione di vedha, tenuto per sette mesi, pone uno nella medesima
posizione di Īśvara. Il mercurio che trasmuta mediante il suo semplice vapore o fumo, se tenuto in
bocca per otto mesi, rende uno Svayambhū Maheśvara. Si diviene il creatore, distruttore e fruitore
[dell'Universo], artefice di maledizioni e grazie, onnisciente, onnipotente, di bellezza sottile e
immacolata. Tale uomo agisce a suo piacere, crea e distrugge a suo piacere, si muove a suo piacere,
ed egli stesso diviene la forma universale (viśvarūpa) venerata da tutti gli dèi, inclusi Brahmā,
Viṣṇu e Maheśvara. (14, vv. 25-36)

L'ultima operazione che viene descritta nei versi conclusivi del Rasārṇava (18, vv. 213-227) è
nientemeno che un'apoteosi alchimistica: Che l'alchimista [riscaldi] trentasei pallottoline di
mercurio 'legato a diamante' in un calderone di rame con olio e burro chiarificato che sia della
medesima misura di lui stesso in altezza e metà della sua misura in diametro. Che egli ponga una
cornice di legno a quattro lati attorno alla bocca di questo calderone. Poi, veneri il calderone, i
reggenti delle quattro direzioni e una vergine […]. Quando vede che l'olio ha smesso di fumare, egli
deve allora inchinarsi al suo guru, al Sole, alla Luna, ai pianeti e alle stelle, e poi balzare nel
calderone […] Quando egli è divenuto [si è ridotto a] una palla di carne, [il suo assistente] deve
aggiungere [l'equivalente chimico de] l'elemento aria. Quando la mistura ha assunto un bell'aspetto,
egli deve porre la mica nel cranio [che ancora non è stato consumato]. Poi, azionando i soffietti
finché la mistura non ha assunto l'aspetto di oro fuso, [l'assistente] deve aggiungere una sostanza
alcalina. Non appena ciò è stato fatto, egli [l'alchimista trasformato] sorge con un potente ruggito:
'Ham!' Poiché la sua carne è stata completamente reintegrata, il suo corpo è massiccio, e splende di
una brillantezza divina, come il sole. Dotato di grande forza, ha il potere della visione divina… Egli
sale su un carro aereo fatto d'oro divino […] e una vergine divina […] viene a lui, e porta il
praticante perfetto [con lei] a dimorare nel mondo dei siddha. Quando tutti gli esseri immobili e
mobili dell'Universo sono stati annientati in quel terribile diluvio [della dissoluzione universale], il
siddha è assorbito nello stesso luogo degli dèi.

L'alchimia dei siddha

Uno degli impianti più comuni e largamente usati nei laboratori alchimistici fu l'apparato di
sublimazione a due camere (pātanayantra), un uso particolare del quale consisteva nell'estrazione
del mercurio dal minerale di cinabro, che in natura si trova come solfuro di mercurio (darada). In
una particolare versione di questo apparato, detta 'apparato di sublimazione verso l'alto', il mercurio,
fatto sublimare, abbandona le sue impurità residue nei minerali dai quali è stato estratto, e dopo di
ciò è ricondensato. Tale apparato si compone di due vasi sovrapposti, le cui aperture sono sigillate
insieme con vari strati di stoffa cosparsa di fango stesa attraverso le aperture combacianti. Un fuoco
lento sotto la camera inferiore riscalda una mistura di erbe e di solfuro di mercurio in polvere. Il
mercurio che evapora verso l'alto si condensa sulla superficie interna della base della camera
superiore, rivolta verso il basso, la quale è raffreddata dall'alto mediante una stoffa imbevuta
d'acqua fredda (o grazie a un recipiente sovrapposto contenente acqua fredda). Il mercurio che si
condensa su questa superficie rivolta verso il basso ha una lucidità opaca: allorché è strofinato con
della stoffa assume immediatamente fluidità, brillantezza, e altre proprietà che si ritengono tipiche
dell'argento vivo puro. Sul fondo del vaso inferiore rimane la scoria di questa reazione: zolfo libero
insieme con altra materia minerale e vegetale, ossidato e purificato dal suo contenuto originale di
mercurio.

La struttura e la dinamica di questo apparato sembrano replicare le dinamiche del rovesciamento


yogico, che coinvolgono la Luna, fredda, seminale, la dimora di Śiva che si trova nella volta cranica
del corpo sottile, e il Sole, feroce, sanguinario, il luogo di Śakti, che si trova nel basso addome. Il
composto di mercurio e zolfo nel recipiente inferiore trova il suo omologo nella mistura dei fluidi
sessuali maschili e femminili nel corpo yogico androgino. Quando, per effetto del calore intenso e
della pressione generata attraverso il controllo haṭhayogico del respiro (prāṇayāma) e vari legami
yogici (bandha) e sigilli (mudrā), una colonna di fluido sessuale è generata verso l'alto lungo il
canale sottile che percorre la colonna vertebrale, insieme con energia, respiro e coscienza, questo
fluido è purificato, perfino trasmutato, mentre ciascun cakra è perforato. Quando raggiunge la volta
cranica, il fluido si è completamente mutato in amṛta, il nettare dell'immortalità. Tenuto nella volta
cranica, servirà a rendere il praticante del haṭhayoga immortale ed eternamente giovane, dandogli
poteri soprannaturali (siddhi). Uno di questi poteri è il volo (khecara), un potere condiviso dal
mercurio alchimistico puro attivato.

A dispetto dell'androginia del corpo yogico, talune operazioni alchimistiche richiedono interazioni
sessuali tra l'alchimista maschio e la sua assistente di laboratorio. Il Rasaratnasamuccaya (6, 34)
afferma che "colei che ha le mestruazioni nella metà scura del mese lunare è sommamente
eccellente al fine della fissazione del mercurio nella pratica alchimistica". Qui è la correlazione tra
sangue mestruale e zolfo a essere cruciale (6, 35): "Per 21 giorni, ella deve mangiare zolfo [misto a
burro chiarificato] […] Il suo sangue mestruale diviene [allora] efficace nella fissazione e
calcinazione del mercurio".

Altre fonti danno all'alchimista istruzioni di porre in profondità questo mercurio, avvolto in un
pezzo di stoffa, nella vulva di una donna; o di macerare lo zolfo nel sangue mestruale allo scopo di
accrescerne la potenza. Il simbolismo sessuale è qui esplicito: il mercurio, tra i cui nomi vi è sūta
('ciò che è nato', 'generato') entra nel grembo solforoso di una donna (lo zolfo) per essere attivato.
Secondo il Bhūtiprakaraṇa (3, 29-30), l'alchimista può legare o stabilizzare il mercurio ponendolo
nella sua uretra "insieme con il sangue mestruale di Gaurī". Qui gaurī può essere inteso come il
nome della Dea, nel qual caso è lo zolfo a essere manipolato, o come un aggettivo, 'bella (donna)',
nel qual caso è il sangue umano mestruale che l'alchimista mischia al suo proprio seme,
probabilmente attraverso la tecnica tantrica della suzione uretrale (vajrolīmudrā). Alla fine di tale
processo, che serve a stabilizzare e fortificare il mercurio, questo seme divino nella sua forma
minerale può finalmente essere ingerito dall'alchimista al momento dell'operazione ultima della
trasformazione corporea. Qui il Rasārṇava (18, 47-49; 115-116; 165-172) stabilisce che il rapporto
sessuale è essenziale per l'attivazione del mercurio che l'alchimista ha ingerito. La virilità
dell'alchimista ne è grandemente accresciuta e i suoi fluidi trasmutano i metalli di base in oro.
È proprio questo genere di strutture parallele (del corpo umano e dell'apparato a due camere),
sostanze omologhe (mercurio e seme, zolfo e sangue) e processi che si compenetrano (rapporti
sessuali, pratica haṭhayogica, procedimenti alchimistici) che sono alla base dell'alchimia dei siddha,
i quali combinarono tecniche alchimistiche, haṭhayogiche e mistico-erotiche in un peculiare insieme
di pratiche.

2. Tecnologie chimiche
di Bidare V. Subbarayappa

Le culture dell'India antica, come altre culture coeve, promossero ed elaborarono varie tecniche
chimiche al fine di arricchire la vita materiale: metallurgia, artigianato del metallo, conio,
fermentazione e distillazione selettiva, produzione di sostanze coloranti e pigmenti, cosmetica e
profumeria, pirotecnica, lavorazione di minerali, gemmologia, alchimia e chimica medica,
ceramica, produzione di vetro e simili. Gli artigiani del subcontinente indiano si dedicarono
fruttuosamente, in particolare, ai campi della metallurgia, della cosmetica e della profumeria. Essi
trassero ispirazione e sostegno dai bisogni sociali e dagli obblighi religiosi. Sebbene i loro tentativi
siano stati in genere empirici, nei secoli i procedimenti elaborati furono standardizzati e trasmessi di
generazione in generazione. Daremo qui di seguito notizie su alcune delle relative tecnologie in tal
modo sviluppate dagli Indiani, rimandando peraltro al successivo cap. XVII per quanto concerne
l'importante campo delle tecnologie metallurgiche.
Artigianato dei metalli: statue e conio

Le pratiche chimiche che comportavano l'uso di metalli e la loro lavorazione, al di là delle


applicazioni domestiche, avevano implicazioni religiose relative alla fabbricazione di statue di una
gran quantità di divinità, in conformità con l'iconografia e l'iconometria stabilite dalla religione.
L'adorazione di immagini divine in accordo con i testi religiosi o con la tradizione era, allora come
oggi, parte integrante della vita quotidiana, in special modo a partire dal V-VI sec. a.C. I fabbri
adottarono il processo a cera perduta per forgiare immagini generalmente di bronzo, talvolta d'oro e
d'argento, o di una lega di cinque metalli. Le immagini dei buddhisti e dei jaina erano, specialmente
in India meridionale, anche d'ottone, lega poco apprezzata dalla tradizione hindu. La tecnica di
fabbricazione aveva raggiunto un tale livello che il devoto, mediante l'icona, sperimentava la realtà
della divinità. I fabbri rivestivano perciò un ruolo molto importante nel suscitare fervore religioso;
la loro tecnica è ancora oggi una tradizione vivente.

I fabbri svolgevano anche un altro ruolo, in quanto essi producevano leghe per la coniatura e
rappresentavano divinità e insegne regali sulle monete. La coniatura implicava la preparazione di
fogli metallici per lo stampaggio o la punzonatura o la fusione in uno stampo. Secondo un testo del
IV sec. a.C., l'Arthaśāstra (Trattato sull'utile) di Kauṭilya, le monete d'argento dovevano essere
ottenute da una lega d'argento (11 parti), rame (4 parti) e stagno o piombo (una parte) e ferro o
qualsiasi altro metallo (una parte). I fabbri, a quanto sembra, dimostrarono la loro perizia non
soltanto nelle operazioni minerarie e metallurgiche, ma anche nelle tecniche di produzione di leghe.
Il testo menziona il sovrintendente alle miniere, un membro dell'amministrazione statale, il quale
doveva essere un esperto di metallurgia, di standardizzazione e doveva impedire le falsificazioni.
C'era anche un sovrintendente alle bevande alcoliche, incaricato sia del commercio delle bevande
fermentate sia di sorvegliare i metodi di distillazione. All'epoca tali metodi erano già standardizzati
e le testimonianze archeologiche indicano che la distillazione era già in voga dal 300 a.C. ca.
L'Arthaśāstra tratta anche l'esame dei minerali, comprese le pietre preziose e semipreziose, e la
preparazione dei profumi.

Fabbricazione del vetro

In India la tecnica della fabbricazione del vetro non apparve prima dell'inizio del I millennio a.C.,
come testimoniato dai ritrovamenti archeologici in un sito del Deccan meridionale. Fu soltanto dopo
l'inizio dell'era cristiana che l'industria indiana del vetro assunse qualche consistenza; i prodotti
erano però limitati a chicchi di collana, braccialetti, occhi di pasta vitrea e simili. Ai vetrai, a ogni
modo, era nota l'importanza di aggiungere certi ossidi metallici o altri composti per dare agli oggetti
di vetro determinati colori e sfumature. Alla mistura di silicato erano aggiunti nella giusta
proporzione minerali che contenevano ferro, rame, manganese, piombo, cobalto e alluminio; la
mistura era poi riscaldata e soprafusa per ottenere varietà di vetro colorato. L'analisi chimica degli
oggetti di vetro rinvenuti nei siti archeologici mostra che i vetrai indiani erano in grado di produrre
vetro nella composizione richiesta sia per la plasmatura, tornitura e filatura, sia per la produzione di
vetro opaco di diversi colori. Si producevano su vasta scala anche braccialetti, sia monocromi sia
policromi, con attraenti motivi.

Nondimeno, mancano nell'area culturale indiana quei forni per la fabbricazione del vetro che si
trovano in Mesopotamia o in Egitto già nel II millennio. L'industria del vetro è stata sviluppata in
seguito specialmente dai Romani, che già nei primi secoli dell'era cristiana mostravano la loro
perizia nella produzione del vetro soffiato e in fogli. Esistevano rapporti commerciali tra i Romani e
l'India già nei primi due secoli dell'era cristiana; vari oggetti di vetro, ossia fiaschi, ciotole, bottiglie,
trovati specialmente sulle coste indiane, erano d'origine romana. Il millefiori con disegni floreali
trovato in India è d'origine romana. Senza dubbio, a ogni modo, esistevano in India fabbriche di
vetro, come a Kopia (nel Nord; in attività dal III sec. a.C. al III sec. d.C.), ove sono stati rinvenuti
blocchi di vetro di 45×30×23 cm, pesanti più di 50 kg; questo suggerisce la presenza d'una
produzione su vasta scala. Nel periodo medievale furono specialmente i Mughal a incoraggiare
l'industria del vetro, nella quale lavorarono vetrai persiani che produssero piatti, specchi, vasi a
fondo piatto, eccetera.

Ciò detto, è da sottolineare che il vetro non godeva di una considerazione e di un'accettazione
sociale simili a quelle degli oggetti di rame, d'argento e delle ceramiche, il cui uso era invece
approvato dalla tradizione religiosa. Anche per la distillazione erano generalmente usati vasi di
fango cotto, sebbene per determinate operazioni chimiche fossero occasionalmente utilizzate
bottiglie di vetro.

Pirotecnica

L'antica tradizione delle feste e dei riti del fuoco, celebrati sia come parte delle attività agricole sia
per scacciare gli spiriti maligni, diede gradualmente luogo all'uso di fuochi d'artificio a partire dal
XIII sec. d.C. Sembra che la loro fabbricazione sia stata suggerita dalle pratiche cinesi che
comportavano l'utilizzazione di salnitro, di zolfo e di carbone. Lo spettacolo dei fuochi in occasione
di matrimoni e simili celebrazioni era, adesso come allora, una dimostrazione visibile di gioia e
felicità; esiste anche una festa annuale della luce, detta Divali (ottobre-novembre), famosa
soprattutto per gli splendidi fuochi d'artificio che segnano il trionfo del bene sul male,
l'annullamento dell'oscurità e l'annuncio della luce.

Alcuni testi in sanscrito e in altre lingue come il tamil forniscono dettagli sulla composizione e sulla
produzione dei diversi tipi di fuochi d'artificio. Un testo tamil (Bāṇāsattiram di Bogar,
presumibilmente un cinese stabilitosi nel Tamil Nadu) tratta delle componenti necessarie alla
preparazione dei diversi tipi di fuochi d'artificio: salnitro, zolfo, carbone, polvere di ferro, cinabro,
mercurio, sali di rame, canfora, sostanze arseniose, polveri metalliche di rame, piombo, ottone e
zinco. Le polveri metalliche erano usate, come oggi, per produrre uno scintillio di diversi colori. Il
testo fornisce anche quasi un centinaio di formule con permutazioni e combinazioni per i tre tipi
principali di fuochi d'artificio: quelli che fendono l'aria con grande impeto (razzi), quelli che
producono un gioioso scintillio colorato, quelli che splendono di molti colori e terminano con
un'esplosione. Un testo sanscrito del XVI sec. d.C. fornisce un elenco di 25 sostanze atte alla
preparazione di 8 tipi di razzi. Ancora oggi per la produzione di fuochi d'artificio sono seguiti i
metodi tradizionali.

A partire dal XVI sec., durante l'era dei Mughal, si cominciò a fare uso della polvere da sparo in
guerra. Un testo di questo periodo (Śukranīti) dà la seguente composizione per la polvere da sparo:
cinque parti di salnitro, una parte di zolfo, polvere di carbone in varie proporzioni a seconda del
diverso tipo di arma; vi sono descritte anche le fasi di preparazione della polvere.

Tinte e pigmenti

Per la tintura di tessuti di cotone con colori solidi e la composizione di pitture murali che
rappresentavano scene a carattere religioso, gli artigiani indiani elaborarono vari tipi di agenti
coloranti naturali d'origine vegetale, minerale e animale. Per esempio, erano usati la robbia, la
curcumina, l'ocra rossa, l'ocra gialla, il cinabro, la calce, la lacca, il nerofumo, un pigmento giallo
(diverso dall'urina di vacca), lo zafferano, ecc., la cui natura chimica era nota, sia pure
empiricamente. Quella della tintura era un'arte compiuta e rappresenta tuttora una tradizione
vivente, sebbene oggi i colori naturali siano via via sostituiti da colori sintetici.
3. Chimica medica
di Bidare V. Subbarayappa

I due classici āyurvedici, la Carakasaṃhitā (Raccolta di Caraka) e la Suśrutasaṃhitā (Raccolta di


Suśruta), risalenti ai primi secoli dell'era cristiana, trattano di sali, acidi vegetali e alcali (ottenuti
dalla lisciviazione delle ceneri di determinate piante) usati nei vari preparati. Peraltro, la chimica
medica in quanto tale rappresenta uno sviluppo tardo, un frutto delle elaborazioni alchimistiche.
L'alchimia indiana fu ispirata dalla tradizione cinese, che utilizzava il mercurio, lo zolfo e i suoi
composti, il cinabro, e altri elisir che dovevano servire a ottenere la longevità e finanche
l'immortalità materiale. Man mano che l'alchimia venne perdendo la sua veste esoterica emerse una
sorta di chimica medica, che faceva uso di una grande varietà di minerali e di metalli. Oltre a
mercurio, zolfo e cinabro, erano usati mica, piriti arseniose, magnetite, piriti di ferro, piriti di rame,
solfato di rame e allume, al fine di ottenere preparati specifici, dopo una complessa elaborazione
insieme con particolari piante medicinali. La rimozione dei principî nocivi era ottenuta attraverso
comprovati metodi di natura chimica, sia pure empirici. Sorse così un nuovo genere di letteratura
medica detto Rasaśāstra (sanscrito) e Siddha (tamil).

Un testo sanscrito del XIV sec. (il Rasaratnasamuccaya di Vāgbhaṭa) fornisce i particolari circa il
laboratorio (rasaśālā) e vari apparati per triturare, vaporizzare, distillare (verso l'alto, verso il basso
e di lato), suffumicare, scaldare uniformemente sopra un letto di sabbia o sale e, più importante
ancora, per il riscaldamento prolungato sino a diversi giorni in speciali crogioli fatti d'argilla. Si
adottava quest'ultimo metodo per incenerire materie minerali composte o metalliche e ridurle in
polvere fine (bhasman; generalmente ossidi). Sebbene le nozioni chimiche associate a questi
procedimenti non siano state compiutamente elaborate, esse sono applicate ancora oggi. In tutti
questi processi i minerali o le materie metalliche sono trattati insieme con determinati succhi di
piante medicinali prima di essere sottoposti a un riscaldamento prolungato. La forma polverizzata di
vari minerali, di metalli e perfino di gemme, è ritenuta un medicinale efficace se somministrata in
piccole quantità con un appropriato regime dietetico. Queste medicine ottenute attraverso processi
chimici godono di uno status speciale nella medicina Siddha, che è prevalente nel Tamil Nadu, così
come in alcuni trattamenti āyurvedici.

4. Cosmetici e profumeria
di Bidare V. Subbarayappa

La storia dei cosmetici e della profumeria nella cultura indiana, come in altre, è antica come il
genere umano. L'uomo preistorico era affascinato dagli aromi naturali di fiori e piante da cui si
vedeva circondato, e li utilizzava per migliorare la propria esistenza. Ciò doveva avvenire non
molto tempo prima che nell'ambito dei primi insediamenti umani si facessero tentativi di
selezionarne i migliori e usarne gli estratti essenziali. Vi sono testimonianze archeologiche che
stanno a indicare come le popolazioni della civiltà della valle dell'Indo (2750 ca.-1900 a.C.)
utilizzassero cosmetici e profumazioni nella loro vita quotidiana. Tra questi, i colliri (contenenti
composti di antimonio) da applicare alle ciglia e alla zona sottostante le sopracciglia, erano diffusi
tra le donne. Questo minerale, presente in Natura, era posto in un mortaio e ridotto in polvere fine,
trasformato in pasta compatta e conservato in piccoli vassoi di steatite, avorio, osso o legno.
Contenitori di questo tipo, con l'apertura a beccuccio, sono stati rinvenuti a Mohenjo-Daro e
Chanhu-Daro, negli insediamenti urbani di questa civiltà. In epoca vedica (ca. 1500-700 a.C.), l'uso
di cosmetici e la profumeria assunsero una dimensione nuova, al punto da ricevere anche una
codificazione religiosa nei campi della pratica sacrificale e della celebrazione dei riti nuziali.
Gli dèi e le dee vedici erano rappresentati come entità appassionate di profumi. Le donne del
periodo vedico amavano uno stile di vita elevato ed erano interessate all'impiego di unguenti
profumati, di ghirlande floreali fragranti e di colliri. L'arte di realizzare profumi aveva ottenuto
dignità professionale, dal momento che, nella letteratura vedica, vi sono riferimenti a donne
produttrici di profumi, nonché a svariate specie di piante aromatiche. Un importante testo vedico
raccomanda, dopo il bagno quotidiano, di spalmare gli occhi e i piedi di pasta profumata, poiché si
credeva che utilizzando tali abbellimenti fosse possibile tenere a bada persino la morte. Anche chi
eseguiva un rito sacrificale era tenuto ad applicare sul corpo unguenti dagli aromi soavi, così pure
dovevano fare le coppie di sposi.

Nella tradizione atharvavedica, si riteneva che incensi e profumi avessero il potere magico di tenere
lontani gli spiriti maligni. Nel periodo postvedico, con l'affermarsi dell'urbanizzazione, vi furono
nuove tendenze e stimoli all'uso di svariati cosmetici e profumazioni, specialmente da parte delle
case regnanti e dell'aristocrazia. Fiori stillanti fragranze seducenti, legno di sandalo, Aquilaria
agallocha (aguru), Valeriana Wallichii (ṭagara), Agelia roxburghii (priyaṅgu) e diverse altre
materie prime naturali (non ancora identificate dal punto di vista botanico), comprese resine
aromatiche e pezzi di legno fragrante, erano i componenti fondamentali dei profumi.
Chi trattava la vendita dei profumi godeva di un'adeguata reputazione per la sua esperienza
professionale; tale commercio era significativamente considerato la migliore attività commerciale,
incluso il commercio di oro.

La tradizione dei cosmetici e dell'arte profumiera si radicò in special modo negli strati sociali
sufficientemente benestanti. Essa godette di una posizione privilegiata anche presso le case
regnanti, come pure nei luoghi dedicati al culto. Un testo sanscrito, noto come Kālikāpurāṇa (VI
sec. d.C. ca.), ha fornito dettagli riguardo ai tipi di profumi da usare nel culto di vari dèi e dee:
polvere aromatica (cūrṇikāgandha), impasti (ghṛṣṭa), essenze vegetali o legni fragranti come il
legno di sandalo (dāhākarṣita) e un profumo di origine animale come il muschio. I dettagli della
preparazione dei profumi richiesti, compresi gli incensi e le paste profumate, come si presentano in
questo testo, indicano l'importanza attribuita ai profumi per rendere propizi un dio o una dea
particolare, tradizione che si mantiene in uso anche ai tempi nostri. Tra questi prodotti, l'offerta
d'incenso era, e continua a essere, un'usanza di grande diffusione popolare. L'offerta d'incensi fa
anche parte dell'osservanza di devoti che, conformandosi a prescrizioni canoniche riguardanti il tipo
d'incenso e il calendario liturgico, li bruciano durante il canto di passi tratti dai testi religiosi. La
pratica di bruciare incensi e la fede religiosa risultavano inseparabili. Vi era una fede curiosa nel
potere attribuito a determinati incensi; per esempio, se questi erano accesi e offerti a una dea, ciò
avrebbe potuto esaudire la speranza di un devoto nelle nozze con una buona fanciulla o nella
disfatta di un suo nemico. Tuttavia, tali credenze rimanevano confinate e circoscritte perlopiù a
gente di bassa estrazione sociale.

Un altro testo, il Viṣṇudharmottarapurāṇa (Purāṇa ulteriore del Viṣṇudharma, V-VI sec. d.C. ca.),
ha fornito ragguagli in merito ai procedimenti che erano seguiti nella preparazione dei profumi.
Secondo questo testo, i fiori e le sostanze aromatiche devono essere prima purificati con l'aiuto di
succhi o estratti di foglie di varie piante, quali, per esempio, Aegle marmelos (bilva), Eugenia
jambolana (jambu) e il cedro (bījapūraka). Il materiale che ne risulta deve essere esposto alle
fumigazioni di specifiche sostanze e arricchito con impasti floreali. I dettagli tecnici presenti in
questo testo religioso segnalano un ruolo dell'arte profumiera in sintonia con lo stile di vita della
popolazione in quel periodo, l'epoca classica dell'India (IV-VIII sec. d.C.).
Tale epoca, durante la quale si poté assistere a sviluppi notevoli nei campi dell'astronomia, della
matematica e della metallurgia, è caratterizzata anche dalla vitalità di numerose arti e mestieri,
sessantaquattro nell'elencazione tradizionale, che comprendevano l'arte profumiera. Un'opera
enciclopedica di quel periodo, la Bṛhatsaṃhitā (Grande Raccolta) di Varāhamihira (il quale era
anche astronomo e, al contempo, astrologo) presenta un capitolo riassuntivo relativo alla profumeria
(gandhayukti), dove si trovano menzionati quaranta ingredienti aromatici. Un testo più tardo,
risalente al XII o XIII sec. d.C., il Gandhasāra (Essenza delle fragranze) di Gaṅgādhara, ne include
diversi altri. Sarebbe interessante conoscere la gamma degli ingredienti di partenza che erano
utilizzati dai profumieri indiani. Sebbene non siano stati tutti riconosciuti in maniera scientifica,
quelli identificati (con i nomi in sanscrito tra parentesi) sono elencati nella Tav. III.
In aggiunta, sostanze aromatiche come cardamomo, chiodo di garofano, muschio, pepe, betel ed
altre fragranze estratte sia da fiori sia da gusci erano ugualmente utilizzate per la preparazione di
miscele di profumi.

La tecnica di lavorazione di un'ampia varietà di fragranze comprendeva sei procedimenti, descritti


nel Gandhasāra: (1) infusione di polveri fragranti nel liquido appropriato che serviva da veicolo
(bhāvana); (2) diluizione o incremento del timbro aromatico del profumo (bodha); (3) fumigazione,
per un certo periodo di tempo, con incensi e vapori (dhūpana); (4) estrazione di aromi da fiori
selezionati a fini curativi (vāsana); (5) ulteriore intensificazione del liquido aromatico (vedha); (6)
cozione del materiale, che avveniva riscaldandolo dal basso, in un vaso chiuso, per un lasso di
tempo considerevole. Vi era anche un metodo secondo il quale la sostanza aromatica era posta
all'interno di un tubo di bambù sigillato con fango su entrambe le estremità ed esposto all'azione del
calore (generalmente per mezzo di vapore) per almeno una settimana; in seguito, il materiale
contenuto all'interno doveva essere tolto e miscelato fino a ottenere la fragranza prescelta. Un altro
metodo consisteva nell'avvolgere la sostanza aromatica in un pezzo di stoffa legato e tenuto sospeso
in un vaso di argilla sigillato e riscaldato a vapore insieme alle fragranze prescelte. Da un lato l'uso
di questi procedimenti e di altri di natura simile, dall'altro la cura meticolosa prestata al controllo
della temperatura e al tempo richiesto per il riscaldamento, stanno a indicare la capacità del
profumiere di produrre un vasto campionario di profumi che incontravano i gusti delle persone.

Il Gandhasāra contiene anche dettagli su un notevole numero di cosmetici e profumi, quali, per
esempio, acque aromatizzate, prodotti rinfrescanti per la bocca, unguenti, bevande, incensi, polveri
e stoppini per lampade, profumazioni per il bagno e altro. Tali dettagli, comunque, non informano
sui dosaggi e le proporzioni degli ingredienti presi in considerazione; nel testo vi sono, inoltre, sette
tavole che includono varie sostanze le quali, in combinazioni di quattro, cinque o sette, possono dar
luogo a un gran numero di profumi di tipo differente. Tuttavia, questo sembrerebbe più un esercizio
teorico di combinazioni che la testimonianza di una pratica effettiva. Precedentemente, nel VI sec.
d.C., Varāhamihira aveva distinto sedici sostanze aromatiche ‒ disposte in uno schema di 4×4
elementi ‒ e dimostrato come fosse possibile ottenere 1820 tipi di profumo dalle loro combinazioni
in senso orizzontale, verticale e diagonale. Il fatto che il Gandhasāra, sei o sette secoli dopo,
potesse alludere alla possibilità di ottenere un numero di combinazioni anche maggiore, indica
quanto fosse forte la domanda di una grande varietà di profumi basati sulle diverse proporzioni di
alcune sostanze aromatiche ben definite.

Anche le case regnanti incoraggiarono la professione di profumiere. Nell'India meridionale vi fu un


re, Someśvara (XII sec. d.C.), che era un intenditore di raffinatezze mondane, e specialmente di
profumi. Nel suo compendio chiamato Mānasollāsa (Il diletto dell'animo), egli si è occupato
dettagliatamente dei tre tipi di profumi adatti ai piaceri regali, sotto forma sia di polveri, baccelli e
stoppini, sia di unguenti profumati adatti ad una vita sontuosa. I metodi di preparazione dei profumi
a partire dai vari ingredienti primari erano in gran parte standardizzati, anche se in modo empirico.
Gli ingredienti primari erano classificati nel modo seguente: (1) foglie (patravarga); (2) fiori; (3)
frutti; (4) cortecce; (5) pezzetti di legno; (6) radici; (7) essudati; (8) materiali organici. Ci si basava
sulle caratteristiche della pianta o delle sue parti, che dovevano essere ricche di principî aromatici, e
anche sulle possibilità d'uso per formare miscele. In aggiunta, ciascun profumiere o ciascuna
comunità di profumieri aveva le proprie ricette segrete custodite gelosamente; i procedimenti che
sono dati, a titolo di esempio, nella Tav. IV, così come sono descritti nei testi, possono fornire
un'idea abbastanza chiara dei relativi metodi di lavorazione. I profumieri erano iniziati non soltanto
all'arte di produrre profumi differenti per mezzo di leggere variazioni di qualche ingrediente, ma
anche alla creazione di profumi artificiali. Per esempio: Due parti di Valeriana wallichii, sandalo,
xylaloe e costo, insieme con una quantità pari di Pinus longifolia, danno luogo a un prodotto che
imita la fragranza del fiore Michelia campaca. In maniera analoga, dalle radici ben lavate di
Moringa oleifera si ottiene una polvere alla quale si aggiunge una determinata quantità di un frutto
fresco, Cababa officinalis; se ne fa un impasto ben mescolato e scaldato in un catino pulito, fino a
quando non diventa secco. Il prodotto finale imita l'aroma di canfora. […] Anche talco, olio
balsamico e tinture per capelli, bastoncini nettadenti e polveri erano di uso comune, e i metodi per
preparare questi prodotti erano attentamente standardizzati. La tradizione dei cosmetici e dell'arte
profumiera si affermò perché andava incontro alle esigenze voluttuarie di tutti i settori della
popolazione.

Nel corso del tempo, ci si convinse che un corpo ben curato grazie all'uso di sostanze fragranti e
fiori e l'applicazione di prodotti profumati sul viso, avrebbe potuto influenzare positivamente la
mente nelle attività della vita quotidiana. Il testo classico della medicina indiana, la Carakasaṃhitā
(Raccolta di Caraka, II sec. d.C.) si spinse anche oltre, poiché vi si afferma che "l'uso di fragranze e
ghirlande floreali è afrodisiaco; garantisce odori gradevoli, longevità, fascino, sana e robusta
costituzione, maniere gentili e tiene lontana l'infelicità". Un altro trattato medico in sanscrito del V
sec. d.C. intitolato Navanītaka (Quintessenza), scoperto nel 1890 nel Turkestan cinese, contiene
ricette di unguenti per il viso, balsami odorosi e tinture per capelli, oltre a colliri e pomate
oftalmiche. Nella Suśrutasaṃhitā (Raccolta di Suśruta, IV sec. d.C.), il secondo importante trattato
classico della medicina āyurvedica, viene sottolineata l'importanza dell'applicazione di cosmetici e
profumi nella pratica quotidiana per le persone interessate a mantenersi sane. Nel suo trattato
medico, l'Aṣṭāṅgahṛdaya (Cuore delle otto membra), Vāgbhaṭa ha descritto alcuni prodotti da
toeletta, esaminati in relazione alle loro proprietà curative. Erano in uso anche prodotti aromatici
per la bocca adatti tanto al consumo da parte di persone sane, quanto alla cura di patologie orali;
analogamente, misture fragranti da applicare all'esterno delle orecchie potevano trovare anche un
uso terapeutico.

Così, nell'area culturale indiana, la produzione di cosmetici e profumi fu stimolata dalla domanda di
cui fu oggetto da parte della popolazione, delle famiglie regnanti, della classe sacerdotale e anche
della pratica medica.

La preparazione dei profumi richiedeva davvero una speciale attenzione; da ciò ebbe origine un
decreto reale in cui si stabiliva che soltanto coloro che erano esperti nella selezione delle materie
prime corrette e nelle tecniche di estrazione e distillazione potevano cimentarsi nell'arte e nella
pratica della profumeria. In base a un decreto successivo, era loro impedito d'intraprendere altre
professioni o lavori, in quanto ciò poteva interferire con la qualità e la purezza dei prodotti
aromatici realizzati.

L'arte profumiera, come pure la medicina, non conosce barriere religiose o geografiche. Durante il
periodo mughal, essa registrò un decisivo perfezionamento e un'ampia diffusione, poiché i
monarchi musulmani utilizzavano a profusione svariati tipi di profumi. Lo ῾Ain-i Akbarī (Specchio
di Akbar, 1590 d.C.) di Abū'l-Fażl ῾Allāmī, che faceva parte della corte del sovrano mughal Akbar,
riporta i regolamenti dell'Ufficio dei profumi di Akbar e fornisce inoltre alcuni dettagli in merito a
numerosi preparati fragranti che erano usati dalla famiglia reale, specialmente dal re in persona.
È documentato che "[…] Sua Maestà è enormemente attratto dai profumi e la sua sala delle udienze
è continuamente profumata con fiori e con preparati di ambra grigia, legni, aloe, ecc., che sono
bruciati in incensieri d'oro e d'argento. Sua Maestà si profuma regolarmente il corpo e la chioma
della testa con unguenti odorosi". Questa cronaca fa anche riferimento alla fragrante e fresca acqua
di rose nonché a diversi profumi naturali provenienti dalla Siria, dalla Cina, da Giava e anche da
Cipro. Occorre notare che la pianta di rosa iniziò a essere coltivata in India intorno al XII sec. d.C.,
quasi certamente importata dalla Persia.

Le vibranti fragranze dell'acqua di rose e dello ῾aṭṭar di rosa esercitarono presto un fascino
irresistibile su tutti gli strati della popolazione. Il termine ῾aṭṭar è una forma derivata dal termine
arabo ῾aṭr, che indica, in senso generico, un profumo, mentre un ῾aṭṭarī è un professionista nell'arte
di produrre profumi; la parola persiana gulāb, invece, indica l'acqua di rose. Si riteneva che lo ῾aṭṭar
di rose fosse stato scoperto dalla principessa Nūr Ǧahān in occasione delle sue nozze con il principe
mughal Ǧahāngīr. Si racconta che per celebrare l'evento fosse stato riempito con acqua di rose un
canale nel giardino del palazzo e che la principessa, scorgendo della spuma che galleggiava sulla
superficie, l'abbia fatta raccogliere scoprendone così la straordinaria fragranza, che fu chiamata
῾aṭr-i ǧahāngīrī.

È significativo constatare come, nella letteratura sanscrita, non vi sia alcuna evidenza che possa
dimostrare la conoscenza della rosa in India fino al XVI o XVII sec., nonostante i contatti
commerciali mantenuti dall'India, per oltre due millenni, con paesi nei quali la coltivazione delle
rose era piuttosto diffusa come, per esempio, la Persia, Babilonia, l'Egitto, la Grecia e Roma. In
ogni caso, dopo il suo arrivo in India durante il periodo medievale, la rosa si affermò come fiore par
excellence, secondo, per importanza, soltanto al loto, ben conosciuto e diffuso sin dall'antichità. Ben
presto, la rosa divenne uno dei fiori preferiti da offrire specialmente a divinità femminili, tradizione,
questa, che si mantiene anche ai giorni nostri. Nei secc. XVIII-XIX, si diffusero distillerie per la
lavorazione delle rose in varie parti dell'India settentrionale e lo ῾aṭṭar di rosa si aggiunse alla
produzione tradizionale della profumeria indiana.

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