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Roger Federer Story

Capitolo 1
“La sua prima partita? Certo che la ricordo. Aveva otto anni. Pescò uno che era il
triplo di lui e perse 6-0 6-0. Ovviamente pianse come una fontana. (Adolf ‘Seppli’
Kacovsky, il suo primo maestro)”.

Con la zazzera e il progetto di nasone, Roger Federer è il bimbo di otto anni


che ride a occhi semichiusi e naviga in una tuta Reebok di due taglie più
grande, in una foto di gruppo degli allievi dell’Old Boys Club di Allschwil.
Un circolo un po’ defilato di Basilea, a sudovest della città, in Sankt Galler
Ring. Un vialone scende verso la banlieue: e trovi Binningen, il paesone in cui
vide la luce il giorno otto di agosto del 1981. Poco più sotto, a est,
Muenchenstein, casa Federer per tanti anni.
Dall’altra parte della strada, rotolando verso sud, Oberwil, zona residenziale
di livello dove il signor Sedici Slam ha comprato ultimamente la sua nuova
casa. Tutta una vita in dieci chilometri quadrati. All’Old Boys, fine anni
Ottanta e primi Novanta, comanda il capo maestro Adolf ‘Seppli’ Kacovsky,
un signore nato in Cecoslovacchia e scappato nella primavera di Praga
all’arrivo dei carri armati russi.
I Federer, papà Robert che lavora alla Chemical Industries Basel (la
multinazionale Ciba) e mamma Lynette Durand, giocano a tennis per diletto.
Si sono conosciuti nel 1970, nella sala mensa dello stabilimento di
Johannesburg - anzi, pure loro in periferia, a Kempton Park. Si sono piaciuti,
frequentati, sposati e nel 1973 sono tornati a casa di lui, Basilea. Nel 1979
nasce Diana, due anni dopo arriva Roger.
Che l’Old Boys lo bazzica dal 1984: ama il calcio ma è stregato dal tennis, a
nove anni inizia le prime lezioni di gruppo: due ore, per tre giorni la
settimana. A dieci, aggiunge un’ora la settimana di lezione privata. A dodici,
un’ora di atletica. In parte pagano i Federer, in parte il circolo che sostiene i
ragazzini più dotati. Lui è uno di quelli.
Capitolo 2
“Due. Prima entrare nei primi dieci e poi diventare il numero uno del mondo.
(Questionario compilato alla scuola tennis da Roger Federer, alla voce “Quali sono i
tuoi obiettivi?”)”.

Kacovsky, che per primo ha visto nel bambino i segni del talento, passa la
pratica Federer a un ragazzo di fiducia, un giramondo dell’Australia del sud.
Si chiama Peter Carter, ha ventinove anni e ci ha provato, a fare il
professionista. Prometteva bene. Gli è riuscito di entrare per poco tempo nei
primi 200 e sta per diventare un tennista vecchio, rovinato da troppi
infortuni. Non sa che farà ma da qualche anno gioca i campionati a squadre
per un circolo svizzero, che adesso gli offre un lavoro: c’è da consumare cesti
e seguire i giovani dell’Old Boys. Impiego a tempo pieno, e pazienza per il
solleone australe.
Accetta, e nel 1990 gli arriva Roger. Il bambino è iperattivo, oggi lo
definiremmo incazzoso, ambizioso. Colpisce come nessuno ma a tratti è
ingestibile. Spacca racchette, piange, fa scenate isteriche. Vuole sempre fare
partita e non accetta di perdere. Anzi: non accetta l’errore.
Robert e Lynette (nella foto), imbarazzati da alcune scenate nei torneini del
weekend, minacciano di non appoggiarlo più e di disertare le sue partite, se
non cambia maniere. O peggio, di levargli la racchetta. Carter prende a cuore
il suo caso, senza sapere che Roger lo ripagherà al centuplo. Nel 1993 è Roger
Federer a vincere i campionati under 12 al chiuso e all’aperto: batte prima
Marco Chiudinelli, che è il suo migliore amico, e poi Dany, il fratello minore
di Patty Schnyder.
L’anno successivo potrebbe andare a studiare e giocare a spese della
federazione svizzera a Ecublens, nel cantone francese. Roger, che in casa
parla svizzero tedesco e a Muenchenstein sta benissimo, non ne vuol sapere
anche perché non conosce la lingua e là non ha amici. Va comunque alle
selezioni: un ex decatleta che lavora per il centro nazionale tennis, il signor
Pierre Paganini, lo guarda per un quarto d’ora. Federer non ripete. Paganini
non rispetta i tempi formali della pratica: promosso. Roger, convinto a
trasferirsi vicino al lago di Ginevra, ripagherà anche lui.
Capitolo 3
“Ha tanto di quel talento contenuto nel suo corpo che è quasi difficile da credere.
Direi che è quasi ingiusto che la stessa persona possa fare tutto come lui, servire,
tirare diritto, rovescio, volée. E muoversi come sfiorasse solo il terreno, che è la
caratteristica dei fenomeni. (Rod Laver, due Grand Slam nel 1962 e 1969)”.

Certe cose non si aggiustano in un anno, neanche nella testa dei fenomeni.
Roger è a Ecublens dal principio del 1995, nel luglio 1996 ha già disputato il
primo torneo Itf dedicato agli juniores: lo gioca in casa e passa due turni.
Batte l’austriaco Lukas Rhomberg, perde contro l’australiano Nathan Healey.
Nella World Youth Cup trova un altro australiano incazzoso anche più di lui,
Lleyton Hewitt, capitanato da un altro aussie, Darren Cahill. Cahill e Carter,
reponsabile tecnico svizzero nell’occasione, sono amici di gioventù. Il primo è
convinto che Roger non sia un miracolato, che il suo rovescino tagliato sia
leggero, che abbia un caratteraccio. Bravo, non eccezionale. Carter no: sente
che Roger è un fenomeno. Federer non sa ancora chi ha ragione ma sa che
vorrebbe già essere perfetto.
Non ci riesce e allora spacca telai, impreca, piange, scalcia sedie e borsoni.
Tanto che viene spedito dallo psicologo sportivo per calmare le mattane.
Finisce la scuola dell’obbligo a sedici anni, saluta Ecublens e torna a lavorare
con Carter, nel Novantasette: vanno a Bienne, in un centro tutto nuovo. A
maggio il primo successo: torneo internazionale giovanile di Prato, sei partite
vinte in due set, dal primo turno contro l’italiano ‘colorato’ Giunior Ghedina
alla finale dominata col croato Kutanjac.
Novantotto: è l’ultimo anno da puro under, quello del botto. Domina i
Victorian Championships, semifinale agli Australian Open (lo supera
Andreas Vinciguerra); batte un ragazzo di Livorno, Filippo Volandri, in finale
al Città di Firenze.
Con una prima di servizio esterna sul rovescio di Irakli Labadze sono suoi i
Championships di Wimbledon 1998 (foto): 6-4 6-4. Pure quelli di doppio, con
Olivier Rochus. In finale agli Us Open lo sgambetta un argentino che serve
piano ma palleggia da senior, David Nalbandian, ma Roger si vendica
all’Orange Bowl di dicembre in semifinale. In finale fa fuori Guillermo Coria.
Finisce l’anno come numero uno del mondo dei minorenni. Il Fed-Ex è
partito.
Capitolo 4
“C’è stato un tempo in cui credevo che il tennis fosse tutta una questione di tattica e
di tecnica(Roger Federer)”.

Primo match nel circuito “pro”: Lucas Arnold Ker, un doppista che il mondo
del tennis conoscerà perché guarito dalla stessa malattia di Lance Armstrong,
è l’esecutore di Roger Federer al primo turno del torneo di Gstaad, edizione
1998. Doppio 6-4.
Federer è brillante ma sulla terra, che pur conosce, sbaglia tanto, col rovescio
contiene. Serve poche prime, cede quattro turni di battuta, un’ora e venti e
finisce in doccia. Un giornale specializzato si occupa di lui ma non scioglie il
dubbio: riuscirà a ripercorrere le orme di Hlasek e Rosset? La testa, quella,
sembra molto diversa da quelle dei campioni.
Aprile 1999, la Svizzera di Davis (nella foto) ospita l’Italia nel primo turno del
World Group. Il nuovo capitano rossocrociato è l’italosvizzero Claudio
Mezzadri, che può mettersi dalla parte della ragione o rischiare. C’è Marc
Rosset, numero uno indiscusso. Poi Lorenzo Manta, per il doppio, e due
secondi singolaristi: Ivo Heuberger e George Bastl. Mezzadri va da Federer,
gli parla, si convince all’azzardo e lo butta nella mischia.
Roger, capelli ossigenati e orecchino, è tranquillo e spocchioso. Tira
fortissimo di dritto. Doma l’esperto Sanguinetti in quattro set e la Svizzera
vince, tre a zero. Il primo a scendere dal Fed-Express è Carter: a Bienne Roger
conosce Peter Lundgren, un ex professionista svedese, da giocatore crinuto e
segaligno, da coach solo crinuto. Peter Primo non vuole più seguire Federer
in giro per il mondo perché ha famiglia, gli indica Peter Secondo come
possibile rincalzo.
A giugno arriva una lettera da Church Road, Wimbledon: un invito a giocare
il tabellone principale per il campione juniores in carica. Federer va e perde in
cinque set contro un solidone, Jiri Novak. A Brest abbatte la Bestia Max
Mirnyi e vince il primo Challenger: torna a casa e fa vedere ai suoi la prima
coppa da professionista.
Capitolo 5
“Qualcuno dice che sia meglio nascere fortunati piuttosto che bravi. Io preferirei,
piuttosto che nascere fortunato, nascere Roger. (Andre Agassi) ”.

Olimpiadi del Nuovo Millenio. Nei vialoni dell’Olympic Park si inizia a


riconoscere quel Federer, che gira per i viali del villaggio ancora un po’
truzzarello e finisce in braccio a una ragazza di tre anni più vecchia. Gioca
pure lei per la Svizzera anche se è nata a Bojnice, in Slovacchia. Miroslava,
detta Mirka. Si scambiano sorrisi e il numero, si piacciono.
Lei, che da bambina era stata segnalata da Martina Navratilova, perde subito,
6-1 6-1 per mano di uno scricciolo moscovita, Dementieva; lui cede la
medaglia di bronzo al rovescio d’artista di Arnaud Di Pasquale. Non hanno
idea che si ritroveranno in patria, che lei smetterà di giocare per un piede
dolorante, che si fidanzeranno, si sposeranno, avranno un figlio e Mirka sarà
la sua manager totale. Men che meno che lui sarà il best ever, il più grande di
sempre, non della Svizzera ma del mondo.
Però, ormai, nessuno tra i tecnici ha dubbi: questo Roger Federer è un
progetto di campione. Quanto grande? Questo non si sa. A febbraio timbra la
prima finale Atp, in quel di Marsiglia, ma l’amico Pippo Rosset gli dice di no
con l’indice, a suon di servizi vincenti. A ottobre ‘Rog’ ci riprova, proprio a
casa sua, Basilea: strappa via una partita da urlo a Hewitt in semifinale ma le
cannonate di Thomas Enqvist gli negano il titolo, 6-1 al quinto set. Finisce
l’anno nei primi trenta, Lundgren si frega le mani.
Capitolo 6
“Ci sono dei ragazzi di qualità in arrivo ma questo è speciale. Roger gioca bene
dappertutto, come me. Come me non si emoziona mai troppo ed è uno splendido
atleta. (Pete Sampras, Wimbledon 2001) ”.

Febbraio del 2001. La stagione è in risveglio dal letargo, Agassi vince gli
Open dei canguri battendo Clement in finale e Roger pianta il primo paletto:
lo interra con la Wilson Pro Staff Original, quella nera, sul centrale del
Palalido di piazzale Stuparich a Milano, che ospita una delle ultime edizioni
dei Milano Indoors (nella foto). Nella partita per il titolo fa fuori il francese
Julien Boutter.
Negli spogliatoi lo rispettano tutti anche se ha vent’anni da compiere e poca
barba: le racchette le lancia ancora ma non le spacca più, le scenate non se le
può più permettere e ha capito, come fece Borg, che dare di matto non lo
‘carica’ come McEnroe ma gli succhia energie vitali. Lo rispetta anche la Nike,
la Casa dello swoosh che gli ha appiccicato addosso i suoi baffi da quattro
anni sperando di averci visto giusto. Ci ha visto giustissimo. Ottavi di finale a
Wimbledon, campo Centrale, Sampras (nella foto) incrocia la Pro Staff con
quella di Federer.
Non perde, Sweet Pete, da 31 partite, da quella giornata stortissima con Baby
Face Krajicek del ’96. Federer non serve come lui ma passa meglio. Di
rovescio è tre volte più forte. Al volo, taglia e chiude come il Maestro di
Washington DC. Paura? Zero. Pete è il suo idolo ma lui sa di poterlo battere.
Risposta vincente di dritto in lungolinea sul 5-6 15-40 del quinto: Roger
Federer diventa un campione. 7-6(7) 5-7 6-4 6-7(2) 7-5: è morto il Re, viva il
Re. Anche se per il nuovo sovrano ci vuole ancora un po’ di labor limae.
Roger è sgrezzato ma non del tutto. Il 2002, l’anno palindromo, è quello del
cantiere. E del dolore. A Milano torna ma perde in finale, da un Sanguinetti
maturo e ispiratissimo.
A Parigi, dove difende i quarti, lo incarta il talento di Arazi. A Wimbledon
peggio ancora: eliminato all’esordio daMario Ancic. Vince tre titoli, il primo
Masters Series, ad Amburgo. Poi, ancora lacrime: Carter. È il primo agosto
del 2002, Peter è in Sudafrica con la moglie Sylvia, un viaggio-vacanza per
festeggiare la di lei guarigione dal cancro. Si spostano in auto separate. La
Land Rover di Carter finisce fuori strada vicino al Kruger National Park, lo
schianto è fatale.
Roger ha appena perso al primo turno del Masters Series di Toronto contro
Guillermo Cañas, gli squilla il cellulare, è la mamma con una notizia terribile.
Roger è sconvolto. Lo ricorderà a tutti a Vienna, dedicandogli il titolo, e
dicendo che gli “manca da morire”. A metà ottobre bussa ai top ten col
questionario della scuola tennis, dice che ha una promessa da mantenere e lo
fanno entrare. Un anno dopo smette di lottare contro i classificati dal 2 al 10, e
inizia la sua guerra contro la storia. Dove finisce la fiaba e inizia il calcolo
ingegneristico.
Capitolo 7
“Adesso Roger è il migliore di sempre”. (John McEnroe) “È il miglior tennista di
tutti i tempi”. (Tim Henman) “Federer? Mister Perfetto”. (Boris Becker) “Secondo
me, avesse o no vinto a Parigi, sarebbe stato comunque il più grande. Adesso che ce
l’ha fatta ha consolidato la sua posizione come miglior tennista di tutti i tempi. (Pete
Sampras)”.

Roma, Foro Italico, maggio 2003. In sala stampa si discute: è mai questo il
campione di Roma più scarso di sempre? Tutti pronti a scrivere di Roger
Federer, il tennista ‘totale’ che domina anche la terra, e al quinto set la spunta
Felix Mantilla, che ringrazia tutti e dà appuntamento agli amici per
festeggiare in pizzeria (“Il trionfo della mediocrità”, chiosa Gianni Clerici).
Roger scuote il testone per l’occasione persa – non sa che non sarà l’unica - e
scende in lotta contro tutti i grandi, senza averne contezza, ai primi di luglio,
dieci anni dopo il primo Sampras. Capita nel Tempio di Wimbledon, quello
che non può non essere il suo primo Slam. Hewitt, campione uscente, si fa
sotterrare di badilate da un gigante balbuziente, Ivo Karlovic. Mark
Philippoussis le prova tutte ma i suoi Scud sono come quelli di Saddam:
grossi, lenti, impotenti contro i Patriot di Federer, che guizzano dappertutto e
annichiliscono il bagnino aussie.
A fine anno, dopo aver condiviso pasti, stanze d’albergo e sfide alla
Playstation con Lundgren (nella foto con il trofeo di Wimbledon), Roger
solleva l’amico e consigliere dall’incarico: gli servono nuovi stimoli, nuove
voci, nuove cose. Resterà un po’ da solo e se la caverà benissimo. Il 2 febbraio
2004 assurge alla carica di numero uno del mondo, scettro che cederà dopo
237 settimane consecutive. Razzia 11 tornei e tre quarti di Slam, il primo titolo
in Australia, di fronte a un Safin stralunato, il primo a Flushing Meadows,
contro uno Hewitt frastornato. Due macchie: la sconfitta contro Little Baby
Face Berdych ai Giochi di Atene e quella di Parigi, al terzo turno, maturati
con gli ultimi rantoli di Guga Kuerten. Da allora, semplicemente smette di
perdere nei quattro grandi eventi prima delle semifinali.
Diventano venti di fila, con quella di Parigi 2009. Duemilacinque: c’è il nuovo
coach. Il team Federer, di cui Paganini è membro regolare, puntano l’indice
sul garbo e l’autorità di Tony Roche, una leggenda che Roger sceglie di
assoldare prima a gettone, poi con una certa regolarità prima degli
appuntamenti chiave della stagione. Entrambi tengono a una certa
autonomia, si stimano, lavorano.
A Ivan Lendl ‘Roccia’ aveva provato a far vincere Wimbledon, con Roger
tenta di rendere il tennis del numero uno intoccabile anche sulla terra. È
anche una scelta di stile: tutto si poteva dire del Roger ragazzo, ma non che
fosse classy. Mirka lo ha educato al rispetto e al buongusto, dal campo alla
vita privata. Quando si lasciano, nel maggio del 2007 dopo la sconfitta agli
Internazionali d’Italia contro quel ragazzo battuto a Firenze da junior,
Volandri, la missione non è compiuta. Federer non ha eguali ma a Parigi lo
ferma, prima della finale, quel mancinone di Manacor, Rafa Nadal.
A Roma 2006, dopo cinque set di spettacolo e due match point, vince ancora
Nadal. Una sconfitta che peserà moltissimo. A Parigi, pochi giorni dopo,
rivince Nadal. Come nel 2007, e nel 2008. Nascono due carriere parallele:
Roger contro tutti, passati e presenti, e Roger contro Rafa, l’unico in possesso
della pozione antiRoger. Gli Slam salgono, diventano dieci in Australia ’07,
con Rod Laver che premia un Federer inarrivabile e piangente. Saranno
tredici a fine 2008, e dietro un codazzo di record spaventoso: nel 2006 è in
finale in tutti e quattro gli Slam e perde 5 partite (quattro contro Nadal, una
con Murray) su 92. Nel 2007 pure, impresa mai riuscita a nessuno.
Intanto Nadal corre, corre, corre. Raddoppia, triplica, quadruplica il Roland
Garros. Solletica Roger in finale a Wimbledon 2006, lo mette alle strette nel
2007. Nel luglio 2008, a notte fonda, lo abbatte: 9-7 al quinto, in quella che
alcuni hanno nominato la miglior finale di sempre. Un terremoto su Basilea e
circondario: Federer aveva assoldato Jose Higueras a tempo determinato, per
annettere Parigi, l’ultimo regno non ancora sottomesso, ma era il suo mondo
che stava crollando. Vince l’oro alle Olimpiadi di Pechino, ma solo in doppio
(con Wawrinka).
A Parigi Bercy è costretto al forfait per il mal di schiena, ciò che non capitava
da 763 partite, una vita. “Ho creato un mostro”, aveva detto dopo aver
mancato, a gennaio, la finale australiana, messo sotto da Novak Djokovic. Ma
di perdere sulla sua erba, e contro Rafa, non se l’aspettava. Chiude l’anno con
la quinta zampata consecutiva a New York, che i pessimisti paragonano a
quella di Sampras 2002 da dead man walking, morto che cammina.
Capitolo 8
“Non so se questo sia stato il più grande successo di sempre, per me. Di sicuro è
quello che mi ha dato la maggior soddisfazione nel togliermi di dosso un peso. Perché
da oggi alla fine della mia carriera potrò giocare senza avere il pensiero di non aver
mai vinto a Parigi. Sapevo che il giorno in cui Rafa non sarebbe stato in finale io ci
sarei stato e avrei vinto. L’ho sempre saputo e ci ho sempre creduto. Questo è
esattamente quello che è successo. (Roger Federer)”.

A Muenchenstein trovate un parco e un’ex fabbrica convertita in una galleria


d’arte, la Schaulager. Se chiedete qualche traccia del passaggio di Roger
troverete il nulla. Non una statua, una placca, un cartello, un’aiuola, una
panchina dedicata a Federer. Neanche al suo circolo. In Svizzera sono fatti
così. “Forse dovremmo fare qualcosa in più per onorarlo, è vero.
Però non siamo mica gli Stati Uniti, che fanno i monumenti ai loro campioni”.
Parole misurate di Nick Von Vary, il presidente del Club Old Boys. Che non
cambiano al mutare degli eventi, anche i più improbabili, Rafa abbattuto da
Soderling, Federer che si fa consegnare da Andre the Kid la Coppa dei
Moschettieri. Neanche adesso che Roger ha agguantato Mister 14 Slam, Pete
Sampras (nella foto con lui).
Pari ma meglio di Sampras. Gli altri cinque eroi del career Slam furono Don
Budge (Grand Slam nel 1938), Fred Perry, Rod Laver (due Grand Slam, 1962 e
1969), Roy Emerson (che 10 dei suoi 12 Slam li vinse mentre i migliori
facevano i professionisti da baraccone, tra il ‘63 e il ‘67) e Andre Agassi,
giusto dieci anni fa, miracolato dal dio Racchetta e portato a vincere una
finale da coccolone con Andrei Medvedev. Nell’elenco non c’è Pistol Pete, che
al Roland Garros - Federer lo ricorda bene e volentieri - aveva messo insieme
una sola semifinale, ceduta di schianto a Principino Kafelnikov nel 1996.
I Federer sono contenti così: vogliono bene a Diana, che fa l’infermiera, tanto
quanto a Roger, il figliolo che non assomiglia più a quel ragazzetto
indisciplinato e scostante che amava dormire ed era sempre in ritardo, e che
oggi è un personaggio venerato dalle folle, braccato dai giornalisti, valutato a
peso d’oro. Che sia capitato a loro il più grande campione di tennis di tutte le
epoche non ha sconvolto i valori, se non quelli bancari. Perché a casa vige
ancora il detto: “È un cosa buona essere importanti ma è più importante
essere buoni”. Se poi si è i migliori, meglio ancora.

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