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UN’IPOTESI DI VELLETRI

Por DON CURZIO NITOGLIA

Velletri, 15 novembre 2008

«In questioni teologiche difficili e non definite, occorre dare il proprio parere con
umiltà e pace, conformandosi alla istruzione e capacità degli ascoltatori, insistendo
maggiormente sulla pratica della Chiesa, esortando a seguire i buoni costumi; invece di
lasciarsi coinvolgere da controversie che non hanno una conclusione certa e che sono
quindi pericolose sia per chi le spiega [abuso di potere, orgoglio spirituale e
intellettuale] e sia per chi le ascolta [se non ha la capacità e la preparazione per
comprenderle e metterle in pratica correttamente]» (s. Ignazio da Loyola, Obras
Completas, Madrid, BAC, 1982, pp. 289-290).

Introduzione

Dopo aver 1°) sollevato tre obiezioni (6 luglio 2008) che invalidano (certamente a
partire dal 2005, data dell’elezione di Benedetto XVI) la “Tesi di Cassiciacum” stando a
quello che aveva scritto il suo ideatore stesso (p. Guérard des Lauriers); 2°) risposto a
“Sodalitium” n° 62 sull’analogia tra Stato e Chiesa (8 settembre 2008); 3°) eccoci giunti
al punto cruciale: come risolvere il problema della crisi nella Chiesa dal Concilio
Vaticano II sino ad oggi? La risposta non è semplice, poiché ci si trova di fronte ad un
“mistero d’iniquità” che ha “colpito il Pastore e disperso il gregge”. Il fatto è certo, ma
il come e il perché mi sorpassano; posso solo tentare di balbettare qualcosa, un’ipotesi
nel chiaroscuro della fede con il soccorso della logica, della sana teologia e della storia
ecclesiastica, senza pretesa alcuna di aver capito tutto perfettamente e di poter
illuminare e dirigere tutti a colpi di accuse di “sacrilegi, scismi capitali e defezioni
irreversibili”. So soltanto, come diceva Romano Amerio, che la Chiesa troverà la via
d’uscita da ogni sua “crisi” a partire dal “gran fiume di verità e grazia che ha ricevuto -
ininterrottamente sino alla fine del mondo – da Cristo e che essa mantiene nel corso dei
secoli, anche nascostamente – quale fiume carsico – in certe epoche buie”.

Sulla questione del Papa, che erra là dove avrebbe dovuto essere infallibile, o/e
dell’Autorità, che non ha l’intenzione oggettiva di fare il bene della società, potendo
darsi solo un’ipotesi o un’opinione probabile e non una tesi certa, non è lecito prendere
una posizione determinata, cercando di imporla assolutamente. Ora, “Tesi” significa
proprio ‘prendere una posizione determinata, stabile e certa’, mentre “Ipotesi”, vuol dire
‘sotto (hypo)-tesi’, ossia ‘supposizione, congettura per spiegare fatti di cui non si ha
perfetta conoscenza o certezza’ (N. Zingarelli). La mia vuole essere appunto una
“ipotesi” e non una “Tesi”. [1]

Il problema: la “crisi nella Chiesa”

Quello che mi è chiaro è che nella crisi attuale, praticamente, si deve continuare a fare
ciò che la Chiesa ha sempre fatto senza avventurarsi in novità speculative e conclusioni
pratiche le quali potrebbero essere pericolose, né pretendere di avere l’evidenza di come
stanno realmente tutte le cose, quasi non fossero calate le tenebre, (sed “tenebrae factae
sunt”).
San Vincenzo da Lerino nel Commonitorium (cap. III) insegna che in tempi di crisi,
quando l’errore si espande talmente da invadere quasi tutta la Chiesa (la quale resta pur
sempre “Chiesa fondata su Pietro” come Cristo l’ha voluta, e ciò è reputato possibile dal
santo, senza dover parlare necessariamente di “sede vacante”), occorre restare fermi e
rifarsi a ciò che la Chiesa ha sempre insegnato e fatto, evitando ogni cambiamento e
novità (sia da “destra” e sia da “sinistra”). Il santo non incita alla proclamazione della
vacanza di autorità nella “quasi totalità della Chiesa” e neppure all’aggiornamento; ma
semplicemente a “fare quel che si è sempre fatto”, senza pretendere di poter capire tutto.

Punto e basta. Questo è certo. Le interpretazioni di tale crisi possono essere molteplici e
diverse, a condizione di: a) non essere contrarie alla fede o alla retta ragione; b) non
pretendere di essere ‘infallibili’ o ‘assolutamente certe’ e vincolanti sotto pena di
peccato grave, quando non si possiede l’autorità necessaria per poterlo fare.

A partire da Paolo VI sino a Giovanni Paolo II (e purtroppo si continua con Benedetto


XVI, anche se “finché c’è vita c’è speranza soprannaturale”, ma non illusione o
presunzione e tanto meno disperazione come se il “braccio di Dio si fosse accorciato”)
assistiamo al fatto (e “contro i fatti non ci sono argomentazioni che tengano”) di
‘Governanti spirituali’, i quali usano malamente del loro potere. Governano de facto,
hanno il Titolo di Autorità (o sono Governanti de jure), ma l’Esercizio di essa lascia
perplessi (come ad esempio un ingegnere può progettare ponti de facto, in più avere il
titolo o laurea di ingegnere, ma l’esercizio della sua ingegneria lascia insoddisfatti, se
alcuni suoi ponti crollano). Questo esercizio deficiente dell’Autorità si già dato nel
corso della storia della Chiesa, anche se non nello stesso identico modo, ma solo
analogamente e in maniera meno grave. Infatti, oggi ci si trova di fronte a tre Papi
(entrati nella storia, dacché il loro pontificato è “definitivamente” terminato con la loro
morte e sui quali si può dare un giudizio storico “definitivo”; mentre su Benedetto XVI
il giudizio può essere avanzato, ma sempre lasciando aperta le porta ad una
“conversione” la quale è impossibile solo ai dannati. Pertanto asserire che la
conversione di J. Ratzinger non è possibile, significa negare, praticamente,
l’onnipotenza divina) che hanno insegnato (“pastoralmente”, senza aver voluto
impegnare l’infallibilità) cose contrarie alla dottrina tradizionale della Chiesa.

In passato, tanto per fare un esempio, Alessandro VI (prima di essere Papa) comprò
(simoniacamente) l’elezione pontificia[2]. Ora il simoniaco, come insegna s. Tommaso:
“vendendo o comprando cose spirituali, manca di rispetto a Dio e commette un peccato
di irreligiosità” (S. Th. II-II, q. 100, a. 1, in corpore). “L’irreligiosità è una protesta di
incredulità, ecco perché la simonia viene considerata un’eresia” (ad 1um). Il
Savonarola, nella sua polemica con Alessandro VI, sembra aver estremizzato il pensiero
dell’Angelico facendogli dire che il simoniaco, dacché compra cose sacre, non crede al
sacro in quanto sacro, è ateo e non cristiano. Quindi non potrebbe essere il capo del
cristianesimo.

Invece s. Tommaso, con molto equilibrio e senso delle distinzioni, scrive che: «Il Papa
può incorrere nel peccato di simonia, come qualsiasi altro uomo» (ad 7um). Si noti bene
che non è una questione di vita morale privata, ma di pubblica ‘mancanza di fede’ o
incredulità, ossia volontà pubblica e oggettiva (finis operantis) di non curare il ‘bene–
fine’ spirituale della Chiesa, anzi addirittura di eresia (“la simonia viene considerata
un’eresia” ["simonia hæretis dicitur"], S. Th., II-II, q. 100, a. 1, ad 1um). Però,
nonostante ciò, san Tommaso e la Chiesa considerano il simoniaco Papa in potenza e in
atto, non lo dichiarano “occupante abusivo” (oggi si direbbe “squatter”) del Soglio
pontificio. I Domenicani italiani commentano così il passaggio della Somma Teologica:
“Sarebbe storicamente impossibile difendere certi Sommi Pontefici da una tale accusa
[di simonia]” (La Somma Teologica, Firenze, Salani, 1967, vol. XVIII, p. 397, nota 1).
Anzi s. Pio X nella Costituzione apostolica “Vacante Sede Apostolica” del 25 dicembre
1904, al n° 79, dispone che ‘la eventuale pattuizione simoniaca la quale venisse fatta
intorno all’elezione del Papa non comporta la sua nullità’ (cfr. F Roberti-P. Palazzini,
Dizionario di Teologia Morale, Roma, Studium, 4a ed., 1968, 1 vol., p. 361). È
possibile, mi domando e dico, che oltre san Tommaso d’Aquino anche san Pio X abbia
errato? Forse non era Papa neanche il Sarto? Infatti la “Costituzione apostolica” è una
Lettera inviata dal Papa di propria iniziativa, in materia dogmatica o disciplinare; essa,
normalmente, se vincola dommaticamente o ha valore giuridico universale (come in
questo caso), è assistita dall’infallibilità (cfr. F. Roberti-P. Palazzini, Dizionario di
Teologia Morale, Roma, Studium, 4a ed., 1968, 1° vol., p. 146). Anche la prestigiosa
enciclopedia cattolica (Città del Vaticano, 1950, vol. IV, coll. 779-780) conferma il
valore infallibile di una Costituzione pontificia o apostolica disciplinare di carattere
universale, scrivendo che le Costituzioni apostoliche o pontificie: «Sono atti solenni del
Romano Pontefice nei quali vengono trattati gravi problemi riguardanti la dottrina e la
disciplina (…). Esse sono gli atti legislativi più solenni nella forma e più importanti nel
contenuto, che il Sommo Pontefice emana motu prorio e direttamente, con efficacia di
leggi generali (…). Normalmente riguardano definizioni e decisioni circa la fede o la
disciplina generale della Chiesa (…). Si distinguono nettamente dagli altri atti legislativi
pontifici che si riferiscono a provvedimenti di minore importanza e di carattere
particolare (Motu proprio, chirografi, ecc.)».

La Chiesa ha constatato che de facto Alessandro VI dopo l’elezione ha governato (pur


se poco dignitosamente quanto all’esercizio, pensando molto agli affari temporali della
sua casata e poco al bene spirituale della Chiesa ed anche questo non è un fatto di vita
privata, ma indice oggettivo della volontà di negligenza nel procurare il bene
soprannaturale delle anime, “suprema lex Ecclesiae”). La Chiesa lo ha riconosciuto
come legittimo pastore, anche se ben quattro cardinali e tre re (di Francia, Spagna e
Germania) chiesero di riunire un Concilio (imperfetto) che deponesse Alessandro VI in
quanto (ante electionem) simoniaco e non cristiano, quindi incapace di essere il capo del
cristianesimo e (post electionem) non governante spirituale, ma solo temporale, della
Chiesa. Era lecito porsi il problema teorico sulla legittimità del Borgia, ma la loro
richiesta fu scartata praticamente da tutti gli altri cardinali e vescovi (e poi
teoreticamente da s. Pio X con una legge o Costituzione apostolica universale), poiché
uno scisma e vari antipapi avrebbero causato più danni del Borgia. Così potrebbe essere
(analogamente) quanto al NOM di Paolo VI, esso è nocivo e da abrogare o correggere
sostanzialmente (come hanno spiegato e chiesto i cardinali Ottaviani e Bacci allo stesso
Paolo VI nel 1970), ma la Chiesa (Ottaviani e Bacci compresi e persino mons. Lefebvre
e De Castro Mayer, i due vescovi con giurisdizione che hanno combattuto sino in ultimo
le novità del “Concilio pastorale”) si accontenta di constatare che de facto Paolo VI ha
governato, gli spetta il Titolo di Autorità (o è Papa de jure), anche se l’Esercizio pratico
di essa è stato catastrofico e cerca di porre rimedio “coprendo le vergogne del padre”.

Quando p. Saenz y Arriaga alla fine del Concilio espresse la sua opinione
“sedevacantista” e chiese ai cardinali Ottaviani, Bacci, Parente, Siri, Palazzini – riuniti
in un congresso di “Chiesa Viva” a Brescia - di dichiarare che Paolo VI non era Papa,
essi risposero unanimemente di no, pur disapprovando il comportamento e le idee
montiniane. Pensare che quattro preti e un centinaio di fedeli possano riuscire senza
produrre sconquassi ove si astennero i succitati cardinali e vescovi (e san Pio X), mi
sembra un’illusione. Se – ammesso e non concesso – papa Borgia (/Montini), fosse stato
deposto da un Concilio imperfetto o dai cardinali, chi avrebbe potuto provare, con
certezza assoluta, davanti alla Chiesa e ai fedeli, che Alessandro (/Paolo) VI era stato
realmente deposto, non era più realmente Papa? Quante perplessità, confusioni e scismi,
ne sarebbero nati? Quanti “papi” avrebbero preteso di essere il vero unico Papa? Alcuni
cardinali e vescovi si sarebbero schierati con Tizio, altri con Caio, altri ancora (e
sarebbero stati la maggioranza) sarebbero restati con Alessandro (/Paolo) VI. Sarebbe
ricominciato un altro grande scisma (come l’avignonese), peggiore del simoniaco
pontificato del Borgia (è quel che è successo poi nel 1969-70, con la nomina
‘sedevacantista’ di un anti-papa a Palmar de Troya in Spagna, in maniera meno grave e
più ridicola). L’unica certezza è che la situazione posteriore a papa Borgia (/Montini)
sarebbe stata peggiore del pontificato simoniacamente comprato, ma poi realmente
esercitato, anche se spiritualmente non bene, di Alessandro VI e quindi secondo
l’insegnamento di s. Tommaso, ci si doveva accontentare del (presunto e inizialmente)
“tiranno” o cattivo governante (spirituale) piuttosto che deporlo per star peggio ancora.
Alessandro VI è annoverato dalla Chiesa gerarchica, storicamente, tra i Papi. Egli, pur
avendo (almeno prima dell’elezione) peccato di “irreligiosità” (in quanto realmente e
veramente simoniaco) e non avendo voluto agire nel modo migliore (dopo l’elezione)
per il bene spirituale della Chiesa come società soprannaturale, tuttavia ha governato de
facto, è stato il suo capo visibile de jure (Titolo), anche se maggiormente come principe
temporale che come pontefice spirituale (Esercizio). La Chiesa ha tenuto in
considerazione (almeno sino al 1904) solo la realtà dei fatti e poi con s. Pio X anche la
possibilità teorica dell’elezione pontificia comprata simoniacamente (equiparata
all’eresia, da san Tommaso) ed ha legiferato, in una Costituzione apostolica per la
Chiesa universale e quindi infallibile, che essa sarebbe valida comunque. Così, nel
secolo di ferro (X sec.) o nella Rinascenza, quanti Papi non hanno voluto,
principalmente ed oggettivamente a giudicare dagli atti posti (finis operis), il bene
spirituale della Chiesa ma hanno desiderato, soprattutto, il proprio profitto temporale e
quello della propria fazione o famiglia? Questi Papi, de facto hanno (mal)-governato
spiritualmente la Chiesa (è una certezza storica e un fatto dogmatico), ma praticamente
hanno esercitato o avuto il governo e il potere pontificio (de facto et de jure),
canonicamente riconosciuto con s. Pio X.

Alcuni esempi tratti dalla storia della Chiesa

Il potere civile è intervenuto più volte nell’elezione dei Papi (sino a s. Pio X, con il veto
dell’Austria contro il cardinal Mariano Rampolla), non sempre per il fine-bene della
Chiesa (o salus animarum), ma spesso per imporre i suoi candidati, i quali nonostante
ciò sono considerati - se vi è stata elezione canonica legittima - veri Papi (cfr.
Enciclopedia Cattolica, vol. IX, col. 754, voce “Papa”).

● L’imperatore Costanzo, ha mandato in esilio papa Liberio (+ 24. IX. 366) ed ha


nominato l’antipapa Felice II nel 355, ma quando Liberio tornò dall’esilio a Roma il
popolo e il clero romano cacciarono Felice II (365), che, non essendo stato eletto
canonicamente, non è annoverato dalla Chiesa nel catalogo ufficiale dei Papi.
● L’imperatore Teodorico, nel 526, benché moribondo, designò come Papa Felice iv
(12. VII. 526 - 22. IX. 530). Il clero e popolo romano, nonostante l’elezione a-canonica
e quindi (probabilmente, per quei tempi) invalida di Felice IV, a causa delle sue virtù (è
ascritto tra i Santi) lo riconobbero e l’elezione divenne, solo allora, canonicamente
legittima e Felice veramente Papa.
● Il generale bizantino Belisario, durante la campagna in Italia contro i Goti, entrato a
Roma, depose a nome dell’imperatore Giustiniano, in modo anti-canonico, papa
Silverio (1. VII. 526 - 11. XI. 537). Teodora, moglie di Giustiniano, accusò falsamente
Silverio di alto tradimento (contro Bisanzio) a favore dei Goti. Belisario convocò papa
Silverio e lo degradò delle insegne pontificali, lo depose dal trono e lo esiliò in Licia.
Belisario fece eleggere in maniera non canonicamente legittima Vigilio (29. III. 537)
che è considerato (per otto mesi, dal marzo al novembre del 537) papa illegittimo, sino a
quando divenne vero Papa solo grazie alla rinunzia di Silverio (11. XI. 537) e al
riconoscimento, o elezione canonica legittima, da parte del clero e popolo romano.
● Infine l’imperatore Ottone I radunò un concilio imperfetto nella basilica di s. Pietro e
depose papa Giovanni xii (16. XII. 955 – 14. V. 964), che era stato eletto a soli 18 anni
ma in maniera canonicamente legittima e gli sostituì, anti-canonicamente e senza
l’accettazione del clero romano, Leone III (4. XII. 963), che è considerato perciò dalla
Chiesa antipapa.

La dottrina e la pratica della Chiesa cattolica è chiara a questo riguardo: solo dopo
l’elezione canonica, se l’eletto accetta viene subito investito di tutto il potere pontificio
(cfr. Hugo Aemilius Lattanzi, De Ecclesia Societate atque Mysterio, Roma, Pontificia
Università Lateranense, (1956) 1969, p. 245: «Per il fatto stesso che è legittimamente
eletto ed accetta la sua elezione, in locum Petri succedit». Cfr. anche P. Palazzini [a cura
di], Dictionarium morale et canonicum, Roma, Officium Libri Catholici, 1966, I vol. ,
voce “Conclave” e III vol., voce “Papa seu Romanus Pontifex”).

L’Autorità è l’essenza della società e quindi della Chiesa. Il Papa non è accidentale ma
essenziale per la sussistenza della Chiesa (cfr. san Tommaso d’Aquino, C. Gent., IV, c.
76). Senza un Papa che regni in atto non sussiste il Corpo Mistico. Asserire (come fanno
i “tesisti”) che i cardinali “conciliari” eleggono soltanto e realmente, ma non legiferano,
dacché far leggi è la natura dell’Autorità, onde i cardinali “conciliari”, pur non avendo
autorità formale, possono validamente scegliere un Papa, il quale è eletto validamente
ma non legifera ossia non è l’Autorità in atto o formalmente; significa rinviare ma non
risolvere il problema, dacché l’Autorità è l’essenza della Chiesa. Onde la Chiesa
sarebbe ancora Chiesa ma senza avere l’essenza o natura di Chiesa, il che ripugna
assolutamente essendo contraddittorio; come se il legno fosse - nello stesso tempo e
sotto lo stesso rapporto - legno e non legno. I cardinali eleggono validamente qualcuno
che non è l’Autorità, ma ciò sarebbe anarchia pratica e vissuta. Infatti cosa lo eleggono
a fare? Agiscono forse a vuoto? Senza alcun fine? Ora omne agens agit propter finem e
natura abhorret a vacuo. Tutto ciò sarebbe peggio persino della democrazia moderna,
ove i cittadini sono chiamati a votare qualcuno che poi, una volta eletto, governerà con
autorità e non per esercitare l’anarchia pratica. Immaginatevi se si dicesse ai cittadini (i
quali certamente non sono all’altezza dei cardinali, con tutti i difetti che possono avere i
cardinali conciliari e non) prima dell’elezioni, che i deputati eligendi non avranno alcun
potere di governare e legiferare, loro stessi (non avendo studiato, Deo gratias, la “Tesi”
ed essendo ancora perciò ancorati alla realtà) capirebbero l’assurdità, la
contraddittorietà di tale teoria e l’inutilità del loro poter votare validamente un deputato
inabile a governare (contraddictio in terminis), il che equivarrebbe farli agire a vuoto e
senza un fine, quod repugnat.
Se sino al 2005 si poteva rispondere che i cardinali eleggevano un “papa” solo in
potenza o materialiter, aspettando che passasse all’atto e diventasse Papa formaliter;[3]
dopo l’elezione di Benedetto XVI non è più così, è cessata anche la potenza e si è
precipitati nel nulla. Ora ex nihilo nihil fit. Quindi dal 2005 l’Antitesi di Verrua si è
auto-“annichilita”, è un “nulla” e perciò omnimodo repugnat.

Dunque, ammesso che si possano aver dubbi sulla legittimità di un Papa, una volta che è
stato canonicamente eletto e che si è costatato aver governato de facto, egli è
riconosciuto Papa legittimo anche de jure quanto al Titolo, anche se l’Esercizio
dell’autorità può essere deficiente. La Chiesa è una società visibile, di origine divina,
ma formata da uomini ‘deficienti’; la visibilità, la certezza del governo e del Pontefice
regnante, sono di fondamentale importanza per la sua sopravvivenza e continuità
apostolica. Essa ha un elemento divino e uno umano (non è cartesiana); fissare
l’attenzione solo su uno di essi porta a conseguenze gravemente erronee. Il Governante
è la testa di un corpo (società), è il principio di unità del corpo stesso (come il cervello
nel corpo umano). Ora come il corpo muore senza cervello, così la società (umana o
ecclesiastica) non può sussistere senza il capo. Anche se l’elettro-encefalo-gramma è
debole o addirittura ‘piatto’, sino a che il ‘fondo’ del cervello “pulsa”, il corpo vive
materialiter, quando il cervello cessa totalmente di funzionare, assieme al battito
cardiaco e alla respirazione, allora e solo allora, il corpo muore realmente e formaliter.
Una Chiesa senza Papa, cardinali e vescovi (“sedevacantismo”), è morta totaliter. Il
caso di interregno tra un Papa morto ed uno ‘eligendo’ (“sedevacante”) è diverso,
dacché i cardinali (collegialmente ‘sotto’ il cardinal decano) governano con autorità la
Chiesa, la quale ha un Papa morto e uno ancora non eletto, ed assicurano l’unità, la
permanenza in vita di essa e la sua visibilità e non si limitano (come vorrebbero i
“tesisti”) ad essere “solo elettori”[4]. Ora oggi, dopo cinquanta anni di privazione di
Papa, cardinali e vescovi (almeno formali), dov’è la Chiesa? Sarebbe un cadavere. Ma
ciò è impossibile. Né vale l’argomento della sola successione materiale, che non
assicura l’apostolicità legittima della Chiesa. Inoltre con Benedetto XVI non c’è più
neanche il “materialiter”. Quindi la “Tesi” non regge. Infatti, l’apostolicità si divide in:

a) “materiale” (o di origine) ed è la successione (quanto al potere d’ordine) ininterrotta


dagli Apostoli,

b) “formale” (o identità di ministero e di regime monarchico, cioè potere d’ordine più


mandato apostolico del successore di Pietro).

Ora, la successione è legittima solo se è anche formale, ossia approvata dal Papa (cfr.
Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1948, vol. I, voce “Apostolicità”). Quella
puramente materiale è valida quanto all’ordine, ma gravemente illecita e quindi non è
vera e reale apostolicità, come quella degli ‘ortodossi’ scismatici.

Anche il card. G. Siri, scriveva che «la successione apostolica è legittima solo se viene
da Pietro e suoi successori» (La Chiesa. Rivelazione trasmessa, Roma, Studium, 1965,
p. 193).Onde, se viene dai soli vescovi, non è legittima.

I limiti del diritto positivo

La legge umana (anche ecclesiastica) non può impedire tutti i vizi, ma solo i più gravi
(ossia soprattutto quelli che minacciano la conservazione, l’ordine e la pace della
società; come pure solo quelli che la maggior parte degli uomini riesce ad evitare).
Perciò la legge umana può permettere, tollerare o non impedire [5] (senza con ciò volere
o approvare) un male minore, per evitare rivolte sociali e mali maggiori. Come la
Provvidenza divina permette dei mali per trarne un bene maggiore, così il governante
saggio e prudente tollera alcuni mali per il solo fine del supremo ordine o pace
sociale[6] (fine di socialità). Ad esempio s. Pio V – che non era né ‘liberale’ né
‘fanatico’ - tollerava a Roma le “case di tolleranza” (secondo la dottrina tomista, De
Regimine Principum, IV, 14: “La donna pubblica sta alla società come la cloaca al
palazzo. Togli la cloaca e il palazzo sarà appestato…”) per evitare un male maggiore:
“adulterii con donne non pubbliche e rovina delle famiglie, omosessualità, scandali sulle
pubbliche vie” (cfr. S. Th. II-II, q. 10, a. 11). Onde può occorrere di doversi
accontentare del meno buono, dell’imperfetto, in mancanza del meglio, per evitare il
peggio, allorché il meglio è nemico del buono. Il prudente legislatore (diversamente dal
fanatico, ‘fariseo/calvinista’ a “destra” o ‘liberal/giacobino’ a “sinistra”) non pretende
mai di condurre tutti gli uomini immediatamente alla virtù, ma solo gradualmente [7]
(natura non facit saltus. Nemo repente fit optimus vel pessimus). Oggi, non si può
pretendere che in un giorno vengano risolti tutti i problemi che agitano la cristianità da
quarant’anni (NOM e Vaticano II). Quindi bisogna assicurare un minimo indispensabile
di ordine, che renda possibile la convivenza umana, evitando il caos anarchico, secondo
il principio del minor danno da tollerare (e non da volere e fare positivamente), per
favorire la pace (che è la “tranquillità dell’ordine”) della maggior parte della società. La
prudenza di chi governa è l’arte del possibile (ad esempio, di ciò che è realmente
possibile oggi riguardo al caos liturgico introdotto dal NOM) e non la tesi
dell’improbabile, se non addirittura dell’impossibile. Per amore di un ideale attualmente
irraggiungibile, ad esempio, la restaurazione, odierna, perfetta e immediata della lex
credendi et orandi, (alla quale, però, non bisogna mai rinunciare in linea di principio ed
occorre tendervi sempre come ideale da conseguire gradatim), si porta la società alla
catastrofe, con rivoluzioni sociali e scismi religiosi (si pensi alla rivolta, in senso stretto,
che scoppierebbe - anche tra i fedeli, per non parlare dei sacerdoti e degli episcopati - se
fosse imposta da un giorno all’altro la sola Messa tridentina). Compito principale del
legislatore è anche quello di stabilire un minimo di unità o “tranquillità dell’ordine”, e
non la rivoluzione perpetua, poiché è grazie all’amicizia che si conservano le società,
“regnum contra se divisum desolabitur”. “Ens et Unum convertuntur”, quindi se manca
un minimo di unità, manca l’essere e la Chiesa non esisterebbe più. Ma ciò è
impossibile. L’unità è una nota essenziale della Chiesa ed è (come spiega padre Bernard
Schultze s. j., del ‘Pontificio Istituto Orientale’di Roma) essenzialmente concentrata
nell’unico Capo visibile della Chiesa, il Pontefice Romano, al quale rimonta il principio
della successione apostolica (o apostolicità formale)[8]. L’unità della gerarchia cattolica
consiste nell’unione col successore di Pietro (cfr. Enciclopedia Cattolica, Città del
Vaticano, 1954, vol. XII, voce “Unità”). Unità significa che la Chiesa è indivisa in sé
(se fosse divisa in se stessa sarebbe morta come quando l’anima lascia il corpo e l’uomo
si divide, decompone e muore) e distinta da ogni altra “chiesuola”. Ora senza Papa
(come senza anima che è principio di vita, essere e unità intrinseca) la Chiesa (e l’uomo,
per analogia) sono morti, ma la Chiesa perdurerà sino alla fine del mondo, non un
istante prima. Dunque la “Tesi” non regge. San Tommaso d’Aquino riassume
mirabilmente: «La fermezza o unità (firmitas) della Chiesa è analoga a quella di una
casa che si dice solida se ha un buon fondamento. Ora il fondamento principale della
Chiesa è Cristo, mentre il fondamento secondario sono gli Apostoli (con Pietro a capo).
Per questo si dice che la Chiesa è apostolica» (Exp. in Symbol., a. 9). Togli il Papa e
crolla la Chiesa, ma rimane (apparentemente) in piedi la “Tesi”... Sarebbe un peccato se
si continuasse a non voler prendere atto della realtà, come l’aveva descritta in anticipo
di quasi venti anni p. Guérad; con l’elezione di Benedetto XVI la “Tesi” ha cessato di
esistere (e su questo non ci piove).

La resistenza alle leggi ingiuste

Una legge umana (anche ecclesiastica) positiva (ad esempio, NOM[9], libertà religiosa),
che si oppone a quella divina e naturale, non è vincolante, non obbliga in coscienza,
anzi è moralmente lecita anche la resistenza (come quella di s. Paolo a s. Pietro, Gal. II,
11-21) a condizione che essa non travalichi i limiti della conservazione del bene
comune, il quale prevale su quello individuale. Onde in alcuni casi particolari, quando si
tratta di evitare scandali, gravi turbamenti, o di cadere nello spirito costante di ribellione
(per principio)[10] e di anarchia, si può capire (senza condividere) l’esitazione
sull’opportunità e le modalità della resistenza. (Forse questo potrebbe spiegare
l’attitudine di alcuni sacerdoti, vescovi e cardinali, che, pur comprendendo la gravità
delle deviazioni dottrinali e liturgiche, hanno preferito non resistere esteriormente, pur
senza accettare interiormente, onde evitare il caos in cui, poi, sono realmente caduti
alcuni tradizionalisti radicali).

Ottaviani e Bacci, dopo aver presentato il “Breve esame critico del NOM” a Paolo VI,
hanno taciuto e atteso; monsignor Lefebvre e De Castro Mayer hanno resistito
pubblicamente, ma non hanno negato il Governo de facto, il Titolo autoritativo de jure,
anche se hanno espresso le loro perplessità sull’Esercizio deficiente di tale Titolo. La
legge ingiusta (tirannide in esercizio) va contro l’ordine di Dio e della retta ragione.
Quindi, in caso di conflitto tra legge umana ingiusta e legge divina, occorre “ubbidire a
Dio, piuttosto che agli uomini”, come risposero gli Apostoli al “Sommo Sacerdote” (e
non al Re temporale). Nessun cristiano ha mai argomentato che l’occupante materiale
della “Prima Sede Sinagogale” dell’Antica Alleanza (Caifa) non doveva essere preso in
considerazione dagli Apostoli, sotto pena di un loro “scisma capitale” da Cristo, poiché,
pur condannando il suo operato e non obbedendogli nei suoi ingiusti ordini lo
riconoscevano come Sommo Sacerdote. Lo stesso argomento lo si potrebbe applicare a
Gesù stesso, che, pur rinfacciando pubblicamente a Caifa il suo mal governo (durante
l’interrogatorio del Venerdì Santo), lo riconosceva come Sommo Sacerdote, e così gli
Evangelisti, ispirati dallo Spirito Santo con inerranza. Ora, secondo l’argomentare dei
“tesisti”, Gesù avrebbe fatto scisma da se stesso e lo Spirito Santo avrebbe errato,
ispirando gli Evangelisti a scrivere nel Vangelo che Caifa era il Sommo Sacerdote
anche mentre condannava ingiustamente a morte Cristo. Ma tutto ciò è impossibile e
quindi falso. Caifa quoad substantiam era l’Autorità de jure, la esercitava de facto, ma
malamente quoad modum.

Tuttavia tale principio (poter obiettare di fronte ad un ordine ingiusto la volontà di non
obbedire) si concilia con l’obbligo di rispettare abitualmente l’ordine costituito, infatti
la resistenza attuale alla legge ingiusta non comporta, di per sé, la negazione abituale
dell’Esercizio dell’Autorità.

La resistenza può essere fatta: 1°) in modo non violento: a) non eseguendo la legge
(resistenza passiva, che è sempre lecita); b) tramite resistenza attiva legale, con
petizioni, ricorsi ai tribunali… 2°) anche in modo violento (a mano armata, ma solo nei
confronti dell’autorità civile, non di quella religiosa alla quale si può resistere ma non
cruentamente); in questo caso, la tirannia o le leggi ingiuste devono essere costanti e
abituali; non basta una sola legge ingiusta per il sollevamento armato o per l’abituale
disobbedienza ai governanti e la caduta del governo tirannico non deve creare una
situazione peggiore di quella anteriore, onde la moltitudine soffrirebbe mali più grandi.

Il saggio realismo del ben governare

Papa san Zaccaria (+ 752), scrisse nel 751 al maggiordomo di Francia Pipino III il
Breve (capostipite dei carolingi): «È meglio che sia re l’uomo il quale detiene realmente
il potere, piuttosto che colui il quale è privo in pratica di ogni potere reale». Il capo è chi
detiene de facto il potere temporale su una comunità. Ora, l’ultimo re de jure (ma
fannullone de facto) merovingio (Childerico III, + 755), legittimo quanto al Titolo (de
jure), ma non esercitante il proprio potere (de facto) di reggere la comunità, pur non
essendo un tiranno, fu privato anche de jure legittimamente, col consenso di papa san
Zaccaria, del trono. Il potere andò non al più santo o virtuoso, ma a chi deteneva il
potere effettivo, reale o de facto: Pipino il Breve (incoronato da papa Stefano II nel 754)
che diede inizio alla dinastia carolingia, il quale era il più prudente, e da maggiordomo
divenne re legittimo anche de jure in virtù del fatto che governava realmente e
praticamente (sanctus oret, doctus doceat, prudens gubernet)[11]. Occorre sempre tener
conto della realtà dei fatti, anche se essi non corrispondono al nostro ideale. La triste
realtà di oggi, dopo quaranta anni di sovversione dommatica, morale e liturgica, è la
impossibilità reale e pratica di cambiare tutto (per via ordinaria) con un colpo di
bacchetta magica, tranne intervento miracoloso divino, che è l’eccezione la quale non
deve fondare il normale comportamento umano, il quale deve tener conto che Dio
(normalmente e ordinariamente) rispetta il libero concorso delle cause seconde; non si
può fare dell’eccezione una regola di vita, si vivrebbe fuori dalla realtà. Senza, tuttavia,
escludere aprioristicamente il possibile intervento miracoloso di Dio nella vita del
singolo e dei popoli. Se Dio vuole, può fare il miracolo, ma non dobbiamo essere noi a
“scambiare il nostro cervello con la volontà di Dio”, come faceva la donna Prassede dei
“Promessi sposi”, e far fare a Dio la nostra volontà. Se “non bisogna disprezzare le
profezie” (o rivelazioni private approvate dalla Chiesa), neppure è lecito fondare una
Tesi di sede vacante totale su di esse ed attendere la fine del mondo, che sarebbe già
iniziata, come fosse l’unica via di uscita dalla crisi attuale. Ci si rinchiude in una via –
normalmente – senza uscita, ma grazie a Dio esistono i miracoli.

Papa eretico o solo materiale?

La disputa sul “papa eretico”, o su quello solo “materialiter” (= in potenza, ma non in


atto) che non ha la volontà oggettiva di fare il bene della Chiesa, porta solo a delle
opinioni probabili, mai alla certezza assoluta. Tra i teologi cattolici la questione del
“papa eretico” è disputata liberamente, (cfr. A. X. Da Silveira, La Messe de Paul VI.
Qu’en penser?, Chiré, 1978, libro scritto assieme a monsignor Antonio De Castro
Mayer)[12], mentre quella della volontà di fare il bene della Chiesa (p. Guérard des
Lauriers), se “in teoria” e “inizialmente” può essere presa in considerazione, “de facto”
e dopo quaranta anni di mancanza di “forma” nel Papato, ci porta ad una “Chiesa”
morta e mortifera (come lo stesso p. Guérard aveva predetto, parlando di “comparse di
papi” – e non più di “papi in potenza”- se fosse stato eletto come Papa un vescovo
consacrato con il nuovo Pontificale, come è avvenuto con Benedetto XVI) quale la
Sinagoga dopo il deicidio, e a una sorta di millenarismo tendenzialmente gioachimita
(terza era dello Spirito Santo, che spinge i fedeli a vivere in uno stato di animo simile a
quello dell’anno Mille. Infatti, alcuni pensano che forse “oggi” [dal 1958, dal 1965 o nel
2008?] siamo giunti alla fine del mondo, perché non può esserci interruzione nella
catena dei Papi e poiché Cristo ha sempre protetto la Chiesa, come promesso, mentre
permette “oggi” [1958, 1965 o 2008?] al Nemico di occuparla. Ma la fine del mondo è
“un lampo”, ora un lampo non dura mezzo secolo. Quindi la “fine” del mondo non è
“senza fine”. Inoltre i “segni prossimi” della fine del mondo tra cui la conversione
d’Israele a Cristo, non sono ancora sotto i nostri occhi, anzi… Quindi non si può
affermare neppure che “forse” la fine del mondo è vicina). Nel 1985, due sacerdoti
sedevacantisti totali, mi spiegarono la loro “tesi” e all’obiezione: “Ma dov’è la Chiesa,
che deve durare sino alla fine del mondo?” Risposero: “Siamo alla fine del mondo”. Son
passati più di venti anni… e il mondo continua. Inoltre occorre ben distinguere gli
“ultimi tempi” (che son cominciati a partire dall’Incarnazione del Verbo) dalla “fine del
mondo”.

Ridurre la Chiesa cattolica ad un ente puramente materiale e in fine ad una “comparsa”,


per quaranta anni, significa “de facto” ucciderla giuridicamente, storicamente e anche
speculativamente. [13]

Notas:

[1] a) Penso sia lecito anche a me avanzare un’opinione ipotetica su una questione così
spinosa e pungente, senza voler obbligare nessuno a seguirla; ma senza dover essere
forzato a mia volta - da chi non ha alcuna autorità dall’alto - a pensare esattamente come
lui, sotto pena di insulti gratuiti che non sono più disposto a tollerare e ai quali quando
oltrepassano un certo limite di convenienza e sopportabilità, l’unica risposta è la
denuncia penale.
b) Ricordo, inoltre, che ho lasciato formalmente la “Tesi” solo nell’agosto del 2007,
onde per otto mesi, pur stando presso “sì sì no no” (dall’8 gennaio 2007) e non nella
FSSPX (che sono due enti realmente distinti) con la quale collaboravo allora e collaboro
ancor oggi solo “ab extrinseco”, ero ancora propenso ad assentire alla “Tesi” di p.
Guérard (non più a quella di Verrua, dalla quale ho preso pubblicamente le distanze nel
novembre-dicembre 2006) come la più verosimile o probabile soluzione del problema
dell’autorità nella crisi attuale che attraversa la Chiesa, senza farne più “una
specificazione di un atto di fede”, né un cavallo di battaglia. Prima di abbandonarla
definitivamente ho voluto ri-studiarla con calma e ponderazione, soprattutto alla luce
dell’elezione di Benedetto XVI, che non è considerato dalla Tesi di p. Guérard neppure
materialmente “Papa”, senza lasciarmi condizionare dalle polemiche o “pressioni” dei
“tesisti”, dalla fretta o precipitazione. A tutte le persone che mi chiedevano quale fosse
la mia posizione ho risposto, sino all’agosto del 2007, che ero ancora legato alla “Tesi”,
senza mentire. Poi, quando sono giunto alla certezza (rafforzata dalla imbarazzata ed
imbarazzante “volutamente non risposta” assordante dei “tesisti”) che tale Tesi non
stava più in piedi, dacché il “materialiter”, per ammissione previa di p. Guérard, è finito
nel 2005 (con l’elezione di Benedetto XVI), l’ho abbandonata e l’ho detto chiaramente a
chi me lo ha chiesto. Solo alcune dicerie riguardo alla mia posizione dottrinale,
posteriore all’agosto 2007 e il n° 62 di “Sodalitium”, mi hanno indotto a scrivere e
pubblicare questi articoli, i quali inizialmente erano un “unicum” che tenevo per me
stesso come uno zibaldone di appunti scritti, affinché mi aiutassero a vederci più
chiaramente e a studiare meglio la questione, ma che poi ho diviso in tre parti per
pubblicarli e renderli più accessibili ai lettori.
[2]) Anche per Bonifacio viii (+ 1303), due cardinali (Giacomo e Pietro Colonna), che
pur avevano partecipato alla sua intronizzazione nel 1294, contesteranno, due anni e
mezzo dopo, la legittimità della sua elezione canonica (A. Paravicini Bagliani,
Bonifacio VIII, Torino, Einaudi, 2003, p. 72), assieme agli Spirituali (p. 101).
Naturalmente non poteva mancare una Madre-badessa, Margareta del convento di san
Pietro Maggiore (p. 197); un monaco di Bologna, Giuseppe Flamenghi, nel 1299, che lo
riconosceva solo “Papa de facto ma non de jure” poiché eletto simoniacamente (p. 236);
il giurista francese Guglielmo di Nogaret (1308) accusò Bonifacio addirittura di eresia:
‘Non crede alla presenza reale, all’immortalità dell’anima, alla vita eterna, al
sacramento della confessione e neppure in Dio’ e voleva, quindi, appellarsi a un
concilio per deporlo (pp. 324-26).
«Alcuni promemoria conservatici dimostrano come le cose fossero preparate
accuratamente. Fra l’altro si doveva chiedere al [futuro] Papa la dichiarazione
d’invalidità di tutti i provvedimenti presi da Bonifacio VIII contro la Francia (…),
esumazione del cadavere di Bonifacio (…), canonizzazione di Celestino V, condanna di
Bonifacio VIII e cremazione del suo cadavere» (H. Jedin, Storia della Chiesa. Tra
medioevo e rinascimento, XIV-XVI secolo. Milano, Jaca Book, 1987, vol. V/2, p. 10).
Il processo iniziò nel 1310 ad Avignone alla presenza di un Papa (l’accusa più
pericolosa era quella di eresia); esso si chiuse nel 1311, dopo che il Papa regnante
Clemente V aveva «riconosciuto che il re [Filippo il bello] aveva proceduto con buon
zelo contro Bonifacio VIII (!) [com’è possibile ciò? Chi ha ragione? Bonifacio o papa
Clemente che lo ha implicitamente condannato? nda] e aveva assolto ad cautelam il
Nogaret» (Ivi). Nel concilio di Vienne (apertosi verso la fine del 1311) «riaffiorò il
Factum Bonifacianum, ma non fu più trattato direttamente» (Ivi). Ci si accontentò di far
discreditare Bonifacio e di riabilitare Filippo da un Papa avignonese, manovrato dalla
Francia, senza voler andare oltre. «Clemente V annullò (…) le parti più incisive della
bolla Unam sanctam, in cui Bonifacio aveva espresso il principio [non una norma
pratica] del primato assoluto del Pontefice sui sovrani temporali» (Aa. Vv., I Papi e gli
antipapi, Milano, Tea, 1993, p. 90). Siccome tale principio è, almeno, dottrina comune,
ciò pone dei problemi quanto a Clemente V, ma nessun si è sognato di considerarlo
non-“papa”.
«L’atteggiamento di Filippo il Bello (…), è anche l’estremizzazione di quella
concezione sacrale della monarchia francese che era cominciata con i Carolingi e che la
tradizione faceva risalire al miracoloso battesimo di Clodoveo; il Sovrano, consacrato
con l’olio Santo portato misteriosamente in volo da una colomba, era l’unico tra tutti i
monarchi della terra ad essere stato unto con un crisma santificato da Dio stesso [e non
dal Pontefice]: da qui la sua speciale dignità sacrale, superiore a quella di tutti gli altri
che venivano unti con olio di fattura umana. Ne deriva una visione grandiosa della
missione politica della Francia sulla cristianità intera (…). Non casualmente il Papato,
nel suo estremo sforzo di affermazione teocratica, urtò contro la Francia (…). Le
ambizioni di dominio universale in temporalibus del Papato si scontravano
inesorabilmente con le aspirazioni della Francia all’egemonia sulla cristianità»
(Beatrice. Frale, L’ultima battaglia dei Templari, Roma, Viella, 2001, pp. 30-31).
L’autrice spiega che il processo contro Bonifacio, per eresia e “idolatria” (in quanto con
la bolla Unam sanctam il Papa si presumeva infallibile e rivendicava la plenitudo
potestatis anche sui principi temporali) intentato dal re di Francia, era «mirato a
distruggere la credibilità della Chiesa di Roma per renderla più vulnerabile ed
esautorarla (…). Filippo IV [il Bello] intendeva distruggere l’immagine morale della
Chiesa di Roma dimostrando che era devastata dalla corruzione sia nella massa (frati),
sia nella gerarchia (vescovi), perfino al vertice (Papa). Destinata alla deriva, la Chiesa
sarebbe stata salvata dall’emergere del re cristianissimo, unto con l’olio miracoloso di
Clodoveo e generato dalla stirpe di Luigi IX, elevato agli onori degli altari; Filippo il
Bello avrebbe assunto il ruolo di tutore (e salvatore) della res publica christiana»
(Ibidem, p. 274). Onde «nel marzo 1310 si apriva nel convento dei Domenicani di
Avignone il processo contro la memoria di Bonifacio VIII, che d’ora in avanti procederà
in maniera pressoché ininterrotta (…). Il papa [Clemente V] aprì addirittura un’inchiesta
(…) sullo stesso sovrano francese, volta a dimostrare che Filippo non aveva attaccato
Bonifacio mosso da motivazioni indegne, ma per difendere la fede» (Ibidem, pp. 276-
277). Infine «Clemente V aveva dichiarato il 1° gennaio 1305 che i dettami della Unam
sanctam non si applicavano al re di Francia» (Ibidem, pp. 277-278). Tuttavia Clemente
V non volle dichiarare l’illegittimità di Bonifacio «che, se dichiarata, metteva affatto
fuori legge tutto l’operato di papa Caetani e dei suoi successori: ivi comprese le bolle, le
nomine cardinalizie e vescovili, l’intera storia ecclesiastica a partire dall’abdicazione di
Celestino V. Come spiega Jules Michelet, ‘La Chiesa si trovava impigliata in
un’illegalità senza fine’» (Ibidem, p. 278). L’Autrice conclude: «È possibile che Filippo
IV volesse scalzare l’autorità della Chiesa romana in vista della sua sostituzione con una
Chiesa francese» (Ivi). Ora è lecito domandarsi se la teoria della sede vacante, da Paolo
VI a Benedetto XVI compreso, non metta oggi la Chiesa (a maggior ragione che al
tempo di Bonifacio VIII) in uno stato di “fuori legge” e di “illegalità senza fine”, in cui
essa sarebbe scalzata e rimpiazzata da quella “Thucista” o da quella nazionale (gallicana
o padana) di cui si parla oggi in certi ambienti ‘tradizionalisti’ sui generis e
sedevacantisti. Oppure addirittura dalla “Terza Nuovissima Alleanza”, che è l’èra dello
Spirito Santo di Gioacchino da Fiore.
Inoltre da un punto di vista strettamente giuridico «il processo a Bonifacio VIII non
impiegò soltanto i pontificati successivi. È stato detto che i suoi atti non sono ancora
chiusi a tutt’oggi» (H. Jedin, Storia della Chiesa. Civitas medievale, XII-XIV secolo,
Milano, Jaca Book, 1987, vol. V/1, p. 401). De jure, in base ai manuali di Teologia
fondamentale, si potrebbe, forse, proclamare la “sede vacante” dal 1303. Ma cosa ne
sarebbe della Chiesa reale de facto? I sedevacantisti debbono tener conto anche di
questo elemento, se la domanda sulla possibilità che l’Autorità “distrugga” la Chiesa è
de jure lecita, non meno legittima è quella sullo stato della Chiesa in “vacanza
permanente” ed oramai non solo materiale ma totale (con semplici “comparse” di papi).
Mi sembra che la elezione canonica (di Paolo VI sino a Benedetto XVI) riconosciuta
come legittima dalla major et sanjor pars Ecclesiae (compresi i due vescovi residenziali
che si sono opposti – sino alla fine - alle novità del Concilio: monsignor Antonio De
Castro Mayer e Marcel Lefebvre) risolva de facto il problema.
Celestino V (cui Bonifacio è subentrato) che pur è stato canonizzato (si dice) in quanto
eremita, anche se sotto “spinta” del re di Francia (Filippo il Bello) in funzione anti-
Bonifacio VIII, era - in quanto Papa - «digiuno di scienza giuridica e di esperienza
politica, s’impigliava ogni giorno di più nelle reti tesegli da prìncipi ambiziosi e da
astuti legulei» (Aa. Vv, I Papi e gli antipapi, Milano, Tea, 1993, p. 88). Mentre
Bonifacio, nonostante «la fama [immeritata] di corruzione e simonia che si guadagnò»
(p. 89), governò la Chiesa «con estrema energia e coerenza, sorrette da una profonda
conoscenza del diritto canonico e da una lucida volontà d’azione» (p. 88).

[3] Ma anche in questo caso, se il Papa si converte mentre i vescovi e i cardinali no,
cosa succederebbe? Le diocesi resterebbero senza autorità prossima in atto, la curia
romana sarebbe contro il Papa e il Papa senza curia. La Chiesa vivrebbe, de facto, in
uno stato irreale di disordine quasi totale e mancanza di unità. Il Papa sarebbe,
praticamente, una sorta di “Re travicello, al quale nessuno obbedisce”. Ma tutto ciò è
surreale o meglio “cartesiano”.

[4] «L’elezione è perfetta ed irrevocabile dal momento che il designato, interrogato dal
Sacro Collegio, dichiara di accettare (n° 87-88 della Costituzione di s. Pio X del
25dicembre 1904, Vacante Sede Apostolica). Se l’eletto non è prete o vescovo viene
immediatamente ordinato o consacrato dallo stesso cardinale decano (n° 90)». (F.
Roberti-P.Palazzini, Dizionario di Teologia Morale, Roma, Studium, 1968, 4a ed., 1°
vol. p. 360).

[5] ) S. Th., I-II, q. 101, a. 3, ad 2; C. Gent., III, c. 123.

[6] ) S. Th., I-II, q. 96, a. 2; C. Gent., III, c. 129.

[7] ) S. Th., I-II, q. 97, a. 1.

[8] ) «Pietro è la ‘pietra’ che conferisce saldezza, [compattezza e unità] alla Chiesa» (A.
Lang, Compendio di Apologetica, Torino, Marietti, 1960, p. 310). Ora senza unità non
c’è essere (ens et unum convertuntur). Quindi la Chiesa, senza Papa, cesserebbe di
esistere (sine Petro, ulla Ecclesia). Quod repugnat. Infatti è di fede cattolica definita che
la Chiesa dovrà durare sino alla fine del mondo, onde non è possibile che manchino
assieme il Papa ed un collegio cardinalizio capace di supplire il Papa defunto (una sorta
di collegio “vicario” del Vicario di Cristo), governando con autorità e mantenendo così
l’unità e l’esistenza della Chiesa, in attesa di un’elezione di un nuovo Papa. La
differenza tra i periodi di ‘sede vacante’, o interregno tra un Papa e l’altro, e il
“sedevacantismo” ossia mancanza (totale o solo attuale) di un Papa, di un corpo di
vescovi aventi giurisdizione e con un collegio di cardinali capaci solo di partecipare alle
elezioni, ma impossibilitati a governare poiché privi di autorità, è abissale. Infatti, a) nel
primo caso i cardinali mantengono in vita la Chiesa poiché fungono da autorità o
principio di vita della medesima (sono vicari del Vicario morto); mentre b) nel secondo
caso l’autorità è scomparsa (e con essa il principio di unità e di esistenza) nel Papa, nei
vescovi e nei cardinali, onde la società spirituale Chiesa gerarchica romana è senza
principio formale di vita (= autorità), quindi dovrebbe essere morta. Ma ciò è contro la
fede.

[9] ) L’opposizione tra NOM e Messa romana è evidente: basta assistere all’una e
all’altra e la differenza salta agli occhi. Infatti, la reazione (Ottaviani-Bacci, come quella
di numerosi sacerdoti e fedeli-laici) addirittura precedette la promulgazione del NOM.
Invece quanto al problema dell’autorità, p. Guérard (che era un’aquila della teologia)
arrivò alla sua soluzione soltanto nel 1978 e vi cominciò a lavorare nel 1975 pur avendo
cominciato a riflettervi nel 1969-1970 (promulgazione NOM). Se il problema fosse
stato evidente e chiaro per tutti (e non per i soli teologi, come si evince dalla realtà), p.
Guérard avrebbe scritto la sua Tesi subito dopo la chiusura del Concilio (1965) o
almeno subito dopo il NOM (1969). Invece non è stato così. Anche p. Noel Barbara
solo nel 1975 è arrivato alla conclusione della “sede totalmente vacante”. Ora se due
grandi teologi, uno speculativo e l’altro positivo (Guérard e Barbara), hanno impiegato
tanto tempo, e in grave disparità di opinioni (materialiter/totaliter), per risolvere il
problema dell’autorità, non vedo “con quale autorità” si possa imporla ‘sub gravi’ ai
fedeli (che dicono di averla compresa), quando essa – per essere capita realmente (“tra il
dire e il fare c’è di mezzo il mare”), richiede nozioni di alta filosofia e teologia – che
non tutti possono avere, neppure i sacerdoti. Spesso il termine “Tesi” è usato quale
“parola magica” o arma di ricatto (analogamente alla Shoah): «Come la mettiamo con la
“Tesi/(Shoah)”?»; «Non vorrai mica mettere in dubbio la “Tesi/(Shoah)”?». Il povero
“laico”, storico, fedele, seminarista o prete intimidito, si lascia atterrire e siccome non
osa confessare, dacché sarebbe condannato ipso facto e “lapidato” da chi si reputa
“maestro in Israele”; tace e “acconsente” in pubblico mentre in privato non può non
dissentire o almeno dubitare. L’uomo veramente “libero”, della ‘santa libertà dei figli di
Dio’, segue il motto di Dante: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa” (Inferno, III,
51); dopo aver posto domande e non aver ottenuto risposte dice tra sé, come il cieco
nato guarito da Gesù di sabato: “proprio questo è il problema, che, mentre io che sono
un povero disgraziato constato e so di essere stato guarito, voi maestri della legge vi
ostinate a negare il fatto”.

[10]) Aristotele, Politica, II, 8, 1269 a, 20-24.; 1268 b, 27.

[11]) Il celebre medievista professor Paolo Brezzi scrive: «Clodoveo (…) si convertì al
Cristianesimo dopo una battaglia contro gli Alemanni. (…) Il gesto fu determinato
certamente, oltre che da motivi personali e dall’azione della moglie, la piissima
Clotilde, da opportunità politiche, e permise al re di avere con sé tutta la popolazione
romana della Gallia (…). Clodoveo, morto nel 511, era uomo rozzo, primitivo, violento;
uccise di sua mano quanti gli davano ombra; ebbe avidità di dominio; anche nel suo
sentimento religioso fu impulsivo» (Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1949,
vol. 3, coll. 1876-1877).
La stessa tesi è sostenuta da K. Bihlmeyer-H. Tuechle, (Storia della Chiesa, Brescia,
Morcelliana, 1 vol., pp. 280-282): «I motivi della sua decisione furono certamente, oltre
che religiosi, anche politici. (…) La conversione del re e del popolo dei Franchi, in
principio non era molto più che un mutamento religioso esteriore e non comportava
affatto la realizzazione di un ideale di virtù cristiane. (…) Continuavano a regnare
largamente costumi rozzi, era molto diffusa la superstizione e rimanevano in piedi
usanze pagane (…). La chiesa franca dipendeva tutta dal re, era spiccatamente chiesa di
Stato e nazionale, sulla quale l’influenza del papato si riduceva a ben poca cosa».
A. Fliche e V. Martin (Storia della Chiesa, Cinisello Balsamo, San Paolo, vol. IV, 1972,
pp. 490-492) seguono la stessa traccia, non parlano dell’ampolla portata dal cielo, come
tutti gli altri storici che ho consultati e inoltre ammettono che «sarebbe poco esatto
rappresentarsi Clodoveo come un docile strumento nelle mani dell’episcopato. (…) Egli
si rese conto che la principale (…) barriera che separava ancora le due razze , franca e
gallo-romana, era la differenza di religione, e che il costituirsi protettore della Chiesa
cattolica gli avrebbe attirato non solo la folla (…), ma anche la simpatia fattiva di
innumerevoli anime. (…) I Franchi rimanevano pagani nella grande maggioranza; ma
(…) l’opera di evangelizzazione, che si prolungherà per tutto il VII secolo, lo [il
paganesimo] eliminerà poco a poco».
Hubert Jedin, (Storia della Chiesa, Milano, Jaca Book, 1978, 3 vol., p126) scrive che
«scarsa luce fanno le fonti coeve sulla genesi del regno merovingio e sulla conversione
di Clodoveo», non parla assolutamente di ampolla celeste e colomba inviata da Dio, ma
rinvia all’opera fondamentale di W. V. Den Stein, Chlodwigs Ubergang zum
Christentum, MIOG Erg, vol. 12, 1923-1933, pp. 417-501, nella quale non si trova
nessuna traccia di tale avvenimento miracoloso.
La storia della Francia continuò, grosso modo, seguendo le linee di una chiesa molto
nazionale e poco universale o romana, ma non ancora all’estremo (anche con san Luigi
IX si dovette assistere alla ‘prammatica sanzione’ il cui articolo VI restringeva
‘moderatamente’ e non sino alle ultime conseguenze il potere del Papa sul re francese:
«“il re riceve il suo potere solo da Dio e dalla sua propria spada”. Questa massima,
come osservano giustamente gli storici ed i giuristi, fu il primo movimento di ribellione
contro la teocrazia papale nel senso che il re non deriva dal Papa, e contro la feudalità
nel senso che non deriva dall’imperatore (…) La prammatica sanzione è considerata il
fondamento di quello che i francesi chiamano la libertà della chiesa gallicana» (S.
Sibilla, Gregorio IX, Milano, Meschina, 1961, pp. 267-268), sino al 1300 epoca in cui
l’atteggiamento di Filippo il Bello, rappresenta l’estremizzazione di quella concezione
sacrale del presunto diritto divino diretto della monarchia francese, che la leggenda
faceva risalire al miracoloso battesimo di Clodoveo; il sovrano, consacrato con l’olio
Santo portato misteriosamente in volo da una colomba, era l’unico tra tutti i monarchi
della terra ad essere stato unto con un crisma santificato direttamente da Dio stesso [e
non dal Pontefice]: da qui la sua speciale dignità sacrale e diretta o prossima, superiore a
quella di tutti gli altri re che venivano unti con olio di fattura umana (monarchia di
diritto divino indiretto o remoto). Ne deriva una visione grandiosa (la grandeur…) della
missione politica della Francia sulla cristianità intera. Dopo la parentesi di S. Giovanna
D’Arco, che ha richiamato la Francia alla piena sottomissione a Roma, purtroppo le
cose sono andate di male in peggio, con la costituzione gallicana del clero ideata nel
1682 dal Bossuet e poi con la rivoluzione del 1789, che ha spalancato le porte alla
separazione totale e alla contrapposizione tra Stato e Chiesa, riesplosa poi nel 1906
sotto s. Pio X.
Ora buon senso, scienza storica e fede insegnano che, ammesso e non concesso, poiché
non provato, che Clodoveo sia stato unto (498-99) con un olio non consacrato da un
vescovo ma portato da una colomba (il che non è storicamente accertato), tuttavia è
certo che il potere monarchico è passato dai Merovingi (discendenti di Clodoveo) ai
Carolingi (751) con Pipino il Breve padre di Carlo Magno, non grazie ad un intervento
(non provato, ma immaginato) miracoloso e diretto di Dio, ma alla decisione
(storicamente certa) del Papa di prendere atto del passaggio pratico di potere dai
Merovingi ai Carolingi. Però, una volta divenuti “fannulloni”, questi stessi furono
rimpiazzati a loro volta (987) con Ugo Capeto (neppure lui scelto direttamente da Dio)
dai Capetingi, che si estinsero nel 1328 e ai quali subentrarono i Valois (come ramo
collaterale) rimpiazzati poi dai Borbone (1589), i quali vantavano un legame di
parentela coi Capetingi, che, se (ammesso e non concesso) furono consacrati con l’olio
celeste, furono pur sempre unti da un vescovo o dal Papa e accettati dal Sommo
Pontefice come re e imperatori come ‘conditio sine qua non’ per esercitare il potere.
Onde la teoria gallicana che il re francese non dipende dal Papa neppure indirettamente
‘in temporalibus, ratione peccati’, ma solo direttamente da Dio (per via dell’ampolla
portata nel 498-499 via aerea… dal piccione viaggiatore…) cozza contro il buon senso,
la scienza storica e la dottrina cattolica, che, quanto ai rapporti tra Stato e Chiesa, come
minimo è prossima alla fede. Più che di storia, sarebbe meglio parlare di “storie” o di
mitologia fantascientifica gallicana. Infatti, sia i Carolingi che i Capetingi sono stati
scelti da uomini, e accettati dal Papa e non direttamente da Dio come succedeva ai re
dell’Antico Testamento. Se poi i gallicani insistono sulla loro dottrina ereticale della
monarchia francese di diritto direttamente-prossimamente (e non remotamente-
indirettamente) divino, ebbene essi ritornano all’Antico Testamento (in cui i re erano
scelti direttamente da Dio stesso) ed avverano un’intuizione del card. Angelo Roncalli,
Nunzio apostolico a Parigi sotto il Pontificato di Pio XII, secondo cui “i francesi
sarebbero in un certo qual modo gli ‘ebrei’ del Nuovo Testamento”, dato il loro spirito
esageratamente sciovinista. Tale tendenza ‘a-romana’ e virtualmente gallicana, rimasta
sempre latente in Francia, è esplosa in alcuni momenti particolari quali il “Ralliement”
di Leone XIII e “L’Action Française” di Charles Maurras sotto Pio XI, essa purtroppo
continua ancor oggi ad esercitare un influsso nefasto in ambiente cattolico-
tradizionalista, che non distingue tra origine del potere remotamente da Dio, ma
prossimamente dal Papa.
Come si vede De La Marquerie (La missione divina della Francia) non ha ‘inventato’ o
scoperto nulla di nuovo, o meglio ha inventato tutto di sana pianta, proprio come
Filippo il Bello e i gallicani.

[12] I Dottori della Chiesa e i teologi più rinomati affermano che il Papa non può cadere
in eresia, (tranne uno o due poco conosciuti). Poi si pongono la questione “fittizia”
(analoga al “Se Dio esista” di s. Tommaso nella Somma Teologica) se possa essere
eretico e rispondono che non lo può, ma, ammesso e non concesso che lo sia per
absurdum, α) alcuni dicono che è deposto ipso facto, β) altri che deve esserlo o dai
cardinali o dal concilio imperfetto (i vescovi aventi giurisdizione), i quali dopo averlo
ammonito, se costatano la sua ostinazione nell’eresia, lo dichiarano un eretico al quale
Cristo ha tolto il potere pontificio e solo allora i cardinali potranno eleggere un nuovo
Papa. Ma questa è un’ipotesi per nulla certa e nemmeno probabile, si pone il caso come
“pura possibilità per absurdum” e si dànno risposte non unanimi. Quindi la tesi di coloro
che dichiarano la sede totalmente vacante, a partire da Giovanni XXIII, non solo non è
certa, ma neppure probabile.

[13]) All’obiezione seria secondo cui, se i “papi conciliari” (avendo errato abitualmente)
fossero veri Papi, per aderire alla verità non ci si potrebbe più fondare con sicurezza su
Pietro e successori come regola prossima della fede, si può rispondere:
●I - Innanzitutto è un mistero, paragonabile alla conciliazione dell’onnipotenza divina
(cui nulla può resistere) con la libertà umana (la quale può dire sì oppure no).
●II - Inoltre si può balbettare nel chiaroscuro della fede e della teologia che:
a) La questione della resistenza (privata o pubblica) o del silenzio ossequioso (senza
l’assenso) rispetto all’eventuale ed eccezionale errore della somma autorità ecclesiastica
è stato trattato da molti autori, ma non vi è sentenza unanimemente certa (vedi s.
Tommaso, J. M. Hervé, J. Salaverri, F. Suarez, C. Pesch, F. De Vitoria, R. Bellarmino,
C. A Lapide, F. X. Wernz-P. Vidal, C. Mazzella, B.H. Merkelbach, V. Cathrein, A.
Tanquerey, S. Cartechini, A. X. Da Silveira). Come si vede non vi è consenso
moralmente unanime, quindi non si può pretendere l’assenso fermo alla propria “tesi”,
ma la si può presentare solo come opinione probabile. “In certis unitas, in dubiis
libertas, in omnibus caritas”.
b) Anche la possibilità (remota ed eccezionale) di errori in documenti del magistero è
stata dibattuta dai teologi, (Hervé, Pesch, Salaverri, Merkelbach, Cartechini, T. Pègues,
Da Silveira, J. B. Franzelin, L. Billot, C. Journet) senza che si sia arrivati ad una
sentenza unanime. Onde non si può far passare la “tesi” di una scuola teologica per
“specificazione di un atto di fede”.
c) Come pure il problema dell’autorità dottrinale dei documenti del Concilio Vaticano
II. Una delle condizioni dell’infallibilità (sia del magistero straordinario che ordinario) è
che il Papa manifesti la sua volontà di proporre alla Chiesa un verità contenuta nella
Rivelazione (scritta o orale) come da credersi obbligatoriamente. Ora la Dichiarazione
del 6 marzo 1964 della Commissione Dottrinale, ripresa da Paolo VI in un discorso del
12 gennaio 1966, ha detto che «in esso [Concilio Vaticano II] la Chiesa […] non ha
voluto pronunciarsi con sentenze dogmatiche straordinarie». Ciò non significa
necessariamente che lo abbia voluto con sentenze ordinarie, come dicono alcuni, mentre
altri lo negano: “Non cerchiamo di dare un assenso al Vaticano II che esso stesso non ci
ha chiesto” (A. X. Da Silveira, Qual è l’autorità dottrinale dei documenti pontifici e
conciliari?, in «Cristianità », Piacenza, gennaio-febbraio 1975, p. 7).
Il professor Bernard Bartmann (Manuale di Teologia Dogmatica, Alba, Edizioni
Paoline, 1949, vol. II, p. 417) scrive che il Papa per godere dell’infallibilità «deve avere
la volontà di dare una decisione dogmatica e non un semplice avvertimento o solo
un’istruzione generale».
Padre G. B. Mondin, La Chiesa. Trattato di ecclesiologia, Bologna, ESD, 1993, a p. 304
scrive che «il Romano Pontefice, quando parla dalla Cattedra di Pietro (ex cathedra)
ossia quando adempie all’ufficio di pastore e di maestro di tutti i cristiani […] e
definisce che una dottrina, riguardo alla fede o ai costumi, deve essere tenuta da tutta la
Chiesa (…) vincolando la fede dei credenti» solo allora è infallibile. La definizione o il
magistero dommatico vincolante può essere sia ‘straordinario’ che ‘ordinario’, ma deve
rispettare queste condizioni per godere dell’assistenza infallibile da parte dello Spirito
Santo.
Resta il fatto che da Giovanni XXIII l’insegnamento pontificio è abitualmente inficiato
da ambiguità ed errori. Ora, se si ammette che i “papi conciliari” sono veri Papi, si
rischia di togliere al Papato la solidità di essere il criterio prossimo della verità rivelata,
senza bisogno di sottoporre l’insegnamento pontificio al vaglio della interpretazione
personale. Questa è una valida ragione per ammettere in teoria la possibilità della ‘sede
vacante’, senza, però, volerla imporre ai fedeli che non possono arrivare a certe
conseguenze con facilità, né trarne conclusioni giuridiche che portano a uno stato di
spirito di esaltazione religiosa molto pericolosa per i fedeli e vantaggiosa
(formaliter/materialiter) per i “capi carismatici” (simili a “nubi prive di acqua e
trasportate dal vento”). Certamente è lecita la domanda speculativa: Come può un vero
vicario di Cristo promulgare il NOM, il Concilio Vaticano II, baciare il Corano… ? La
risposta è ardua e bisogna lasciare ai fedeli ampia possibilità di opinione (come rispetto
al dogma della predestinazione) e aspettare il giudizio dommatico o l’indicazione
definitiva e prudenziale della Chiesa gerarchica (elezione canonica = sanatio in radice;
l’aver governato de facto e quanto al Titolo di Autorità anche di diritto, anche se
l’Esercizio di tale Governo lascia delle perplessità e delle ombre).
Altri fedeli si domandano altrettanto lecitamente: Ma come si fa a dire che Paolo VI
(/Benedetto XVI) non è Papa, quando tutti – fedeli, storici, cardinali, vescovi,
ambasciatori e capi di Stato - (tranne “quattro preti e cento fedeli”) lo riconoscono come
tale?
►Personalmente mi sembra che la strada percorribile sia quella del magistero
“pastorale”, che non vuole essere assistito infallibilmente e quindi può contenere degli
errori, senza distruggere con questo la solidità della “Roccia” su cui Cristo ha fondato la
Chiesa: Pietro e successori. Secondo il cardinal G. Siri, La Chiesa. La Rivelazione
trasmessa, Roma, Studium, 1965, «il Papa è infallibile quando propone una verità da
ritenersi con assenso assoluto» (p. 97). E se è vero che il Papa può essere infallibile
anche nel magistero ordinario (e non solo in quello straordinario) occorre specificare a
quali condizioni ben precise lo è; cosa che i “tesisti” generalmente non fanno.
La “crisi” conciliare e postconciliare è un periodo di eclissi di fede e di autorità non
esercitata o male esercitata, la quale passerà, come tutte le crisi che la Chiesa ha
conosciuto, nel modo che Dio riterrà più opportuno. Si può paragonare la Chiesa del
Concilio Vaticano II a un uomo in “coma profondo”, il cui cervello non emette onde
riscontrabili (superficialmente) con l’elettro-encefalo-gramma, ma il cui cuore batte e
non cessa di respirare. Ebbene, questo uomo non è morto, anche se la sua vita è assai
ridotta, sin quasi a livello vegetativo. Così l’Esercizio del Potere della Gerarchia a
partire dal Concilio “economico” Vaticano II è quasi ‘vegetativo’, ma non è morto, così
come la divinità di Cristo era nascosta durante la sua Passione, ma non scomparsa.
■ In alcuni casi, molto rari, anche dopo il Concilio Vaticano II il Papa ha voluto, e lo ha
detto, impegnare l’infallibilità, tramite magistero non solo “pastorale” ma dommatico e
vincolante, come ad esempio nel caso della inammissibilità del sacerdozio femminile, in
cui Giovanni Paolo II ha specificato che la bocciatura di esso era sentenza infallibile et
ex sese irreformabile. Cfr. Lettera Apostolica Ordinatio sacerdotalis (22. V. 1994):
«Pertanto, al fine di togliere ogni dubbio su una questione di grande importanza, che
attiene con la divina costituzione della Chiesa, in virtù del Nostro ministero di
confermare i fratelli (Lc, XXIII, 32), dichiariamo che la Chiesa non ha in alcun modo la
facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa stessa sentenza
deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa». Inoltre la s.
Congregazione per la dottrina della fede ha dato un Responsum (firmato in forma
specifica da Giovanni Paolo II) al dubbio Utrum doctrina (28. X. 1995) in cui specifica
che «La dottrina (…) della Lettera Apostolica Ordinatio sacerdotalis come da tenersi
definitivamente, appartiene al Deposito della fede. Questa dottrina esige un assenso
definitivo, poiché fondata sulla Parola di Dio scritta e costantemente conservata e
applicata nella Tradizione della Chiesa sin dall’inizio, è stata infallibilmente proposta
dal magistero ordinario e universale. Pertanto il Romano Pontefice, nell’esercizio del
suo ministero di confermare i fratelli (Lc, XXII, 32), ha proposto la medesima dottrina
con una dichiarazione formale, affermando esplicitamente ciò che si deve tener sempre,
ovunque e da tutti, in quanto appartenente al Deposito della fede» (DS, 304-3041). La
teoria del “non-magistero” dei Papi del concilio è contraddetta dai fatti (dichiarazioni di
Giovanni XXIII e di Paolo VI sul valore del Vaticano II come ‘magistero solamente
pastorale’) e presta il fianco alla tesi sedevacantista, dacché se vi è “non-magistero” da
cinquanta anni, non vi è neppure autorità (la quale ha il triplice munus di magistero,
sacerdozio e imperio; non esiste un’autorità che abbia il munus del “non-magistero”,
non sarebbe autorità per definizione) la quale pur ha parlato e insegnato (ora e
soprattutto pastoralmente, ora e raramente dommaticamente).
►È un fatto che vi sono teologi altamente qualificati, che non fanno parte della
resistenza strettamente tradizionalista, i quali in riviste specialistiche e molto lette
continuano a insegnare la verità e pongono il problema della discordanza tra la dottrina
tradizionale della Chiesa e gli ultimi insegnamenti “pastorali”. Ad esempio mons.
Brunero Gherardini in “Divinitas” (fondata dall’ex rettore della Lateranense
[preconciliare], mons. Antonio Piolanti), Città del Vaticano, n° 2/2008, di cui egli è
oggi il Direttore, ha scritto un bellissimo articolo (“La vexata quaestio del deicidio”, pp.
215-223), in cui sostiene e prova che per i cattolici, i quali credono nella divinità di
Cristo, la sua uccisione fu (per l’Unione Ipostatica, delle due nature, divina e umana, in
una sola Persona divina del Verbo) un vero “deicidio”. Inoltre nella rivista “Fides
Catholica”, Frigento, n° 1/2008 ha scritto un magnifico articolo (“Sugli Ebrei: così,
serenamente”, pp. 245-278). In esso mons. Gherardini distingue il giudaismo
veterotestamentario da quello talmudico, parla di responsabilità collettiva del popolo
ebraico, e non dei soli Capi, nella morte di Gesù; critica Nostra Aetate per aver omesso
la parola “deicidio”, la quale è l’unica che possa definire esattamente l’uccisione di
Gesù; asserisce che il giudaismo di oggi, continuando nel rifiuto di Cristo e non avendo
rotto con quello il quale condannò a morte Gesù, forma una stessa entità con esso;
riafferma che il giudaismo talmudico discende da Abramo solo secondo la carne e non
per la fede; critica pacatamente, ma fermamente la teoria dell’Antica Alleanza mai
revocata, poiché la Nuova ha rimpiazzato la Vecchia che era caduca ed ora è
definitivamente sorpassata; afferma inoltre, che Israele, avendo rifiutato Cristo, è stato
abbandonato da Dio e da tale abbandono è seguita la “maledizione” oggettiva di esso,
mentre “il piccolo resto d’Israele”, che ha creduto al Messia è entrato coi pagani nella
Nuova ed Eterna Alleanza, infine che i doni di Dio sono irrevocabili da parte di Dio se
gli uomini cooperano con Lui, ma, se lo abbandonano, sono da Lui abbandonati e
quindi, conclude qualificando l’insegnamento “pastorale”, dal Concilio Vaticano II al
post-Concilio, come “teologicamente assurdo, ma politicamente corretto”. Mons.
Gheradini ha scritto anche vari articoli sulla “collegialità”, mettendone a nudo la
contraddizione intrinseca.
Come si vede, non tutto è finito. Vi sono degli ordini religiosi, che son fermissimi nella
dottrina tomistica (ristampano le opere di p. C. Fabro), si fondano sulla spiritualità
ignaziana (i “Trenta giorni” obbligatori ogni cinque anni), predicano missioni popolari
sullo stile di s. Alfonso de’ Liguori (Apparecchio alla morte) alla luce degli Esercizi di
s. Ignazio. Altri sviscerano la questione della Massoneria in maniera approfondita,
scientifica e nello spirito di Leone XIII e p. Kolbe. Molti ritornano alla Messa
tridentina. Ordini monastici ed eremitici fanno un bene enorme, anche grazie al “Motu
proprio” del 7 luglio 2007 (visto dal basso), al quale aggiungono l’ortodossia (deficiente
nell’alto) dottrinale senza la quale sarebbe vanificato; si veda l’ottimo libro Meditazioni
sugli Atti degli Apostoli di don Divo Barsotti, ristampato dalla San Paolo di Cinisello
Balsamo nel 2008 e il sempre attuale “Getsemani” del card. Giuseppe Siri, diffuso da
uno di questi Istituti religiosi, che hanno subito e sofferto la tempesta “conciliare”.
Inoltre vi sono Istituti specializzati in liturgia e canto gregoriano, che fanno conoscere ai
fedeli la bellezza della Messa “ante-70”.
Al di fuori dalla “Tesi” e dell’Istituto MBC (come pure di ogni altro istituto religioso
che non sia la Chiesa romana, alla quale soltanto è stata promessa da Dio l’assistenza e
l’indefettibilità sino alla fine del mondo) c’è verità, bontà e salvezza anche se in gradi
diversi. È un fatto e “contro i fatti, non valgono gli argomenti”. La Chiesa non è finita,
essa si rigenera da sé, poiché divinamente assistita. Non ha bisogno dei «mas-“sacri”»
thucisti per sopravvivere.
Conclusione
Si può dubitare inizialmente e in teoria se i Papi “conciliari” siano legittimi, ma in
pratica l’elezione canonica e l’accettazione de facto li confermano come Papi che
governano la Chiesa anche de jure quanto al Titolo di Autorità, benché l’Esercizio di
essa lasci più che perplessi, anzi terrorizzati.
Onde si può riconoscere Benedetto XVI, senza seguirlo negli eventuali atti direttamente
contrari alla vera Religione, ove l’esercizio pratico della sua Autorità de facto et de jure
lascia almeno dubbiosi e disorientati. Certamente resta il mistero come possa un Papa
porre degli atti contrari alla Religione. Purtroppo è il mistero tremendo che ci tocca di
vivere e sopportare oggi. Non pretendo di averlo chiarito (cfr. ipotesi del “magistero
pastorale e non divinamente assistito”, quindi suscettibile di errori, senza ledere – perciò
– l’infallibilità e l’indefettibilità della Chiesa e del Papa), ma non penso neppure che
l’unica soluzione risieda esclusivamente nella “Tesi di Cassicìacum” (extra quam non
‘esset’ salus). Benedetto XVI governa de facto, ha il Titolo di Papa de jure, tuttavia
l’Esercizio di tale titolo è deficiente. Oltre questo non riesco ad andare, né voglio
imporre a chicchessia la mia opinione, tuttavia consiglio ai poveri fedeli di certi “capi
carismatici” di lasciarli perdere, poiché, come dice il proverbio romano: “Chi è troppo
amico del prete e del medico / vive ammalato e muore eretico”. Quando dei sacerdoti
favoriscono la tendenza dei semplici fedeli a discutere di questioni di alta teologia senza
la dovuta preparazione, e li spingono a delle conclusioni irreali, li rovinano
spiritualmente; oggettivamente non perseguono il “Fine-Bene” della Chiesa e del loro
ministero sacerdotale, che è la “salus animarum”, per ottenere la quale occorrono la fede
e carità soprannaturali e non l’alta scienza teologica (“Tesi di Cassiciacum” / “Antitesi
di Verrua”), la quale non è richiesta al fedele e che neppure tutti i sacerdoti possiedono
necessariamente, ma solo i “teologi di professione” e approvati dalla Chiesa.
S. Ignazio di Loyola (Obras Completas, Madrid, BAC, 1982, pp. 289-290) scriveva nel
1546 in una “Lettera ai padri della Compagnia di Gesù” che «in questioni teologiche
difficili e non definite, occorre dare il proprio parere con umiltà e pace, conformandosi
alla istruzione e capacità degli ascoltatori, insistendo maggiormente sulla pratica della
Chiesa, esortando a seguire i buoni costumi; invece di lasciarsi coinvolgere da
controversie che non hanno una conclusione certa e che sono quindi pericolose sia per
chi le spiega e sia per chi le ascolta».
È per questo che dopo aver espresso la mia ipotesi (11), mi applico a cercare di salvarmi
l’anima con l’aiuto di Dio, restando legato al certo e lasciando da parte l’incerto;
volendo “fare il bene ed evitare il male, poiché questo è tutto l’uomo”, senza prestare
orecchio alle dicerie che non hanno fondamento, ma sempre pronto a rispondere a chi
porta argomenti validi e non insulti gratuiti. “Se sono nell’errore che Dio me ne liberi,
se sono nel giusto che Dio mi ci mantenga” dico parafrasando s. Giovanna d’Arco.
11) Quoad substantiam Benedetto XVI è Papa de jure (o ha il Titolo di Autorità papale)
e Governa de facto; ma quoad modum l’Esercizio di tale autorità è pastoralmente
deficiente. Come sia possibile (propter quid) non lo so spiegare perfettamente, mi basta
sapere (quia) che per la Legge universale della Chiesa (s. Pio X, 25 dicembre 1904,
Costituzione apostolica Vacante Sede Apostolica n° 79), ‘un Papa che ha comprato
simoniacamente l’elezione pontificia è comunque Papa’. Ora san Tommaso d’Aquino –
il Dottore Comune della Chiesa – scrive che “la simonia viene considerata un’eresia”,
["simonia hæretis dicitur"], (S. Th., II-II, q. 100, a. 1, ad 1um) e san Pio X ha
canonizzato tale tesi dell’Angelico in una “Costituzione apostolica”, che è una delle
Lettere inviate dal Papa di propria iniziativa, in materia dogmatica o disciplinare; esse,
normalmente, se sono vincolanti dommaticamente o universali giuridicamente, sono
assistite dall’infallibilità (cfr. F. Roberti-P. Palazzini, op. cit., 1° vol., p. 146). Anche la
prestigiosa enciclopedia cattolica (Città del Vaticano, 1950, vol. IV, coll. 779-780)
conferma il valore infallibile di una Costituzione pontificia o apostolica disciplinare di
carattere universale, scrivendo che le Costituzioni apostoliche o pontificie «Sono atti
solenni del Romano Pontefice nei quali vengono trattati gravi problemi riguardanti la
dottrina e la disciplina (…). Esse sono gli atti legislativi più solenni nella forma e più
importanti nel contenuto, che il Sommo Pontefice emana motu prorio e direttamente,
con efficacia di leggi generali (…). Normalmente riguardano definizioni e decisioni
circa la fede o la disciplina generale della Chiesa (…). Si distinguono nettamente dagli
altri atti legislativi pontifici che si riferiscono a provvedimenti di minore importanza e
di carattere particolare (Motu proprio, chirografi, ecc.)». Punto e basta. Se qualcuno
volesse contestare anche l’autorità teologica del Dottore Comune della Chiesa san
Tommaso d’Aquino, e l’autorità pontificia di una “Costituzione apostolica” universale
di san Pio X si accomodi pure, io non ho più tempo da perdere.

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