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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “FEDERICO II”

Dipartimento di Filosofia «A. Aliotta»


DOTTORATO DI RICERCA in

“Scienze Filosofiche”
- ciclo XIX -

TESI DI DOTTORATO
Il Pathos della Forma.
Sul pensiero di Emil Lask

G. Grosz, Repubblica Automatons

TUTOR CANDIDATO
Ch.mo prof. Eugenio Mazzarella dott. Felice Masi

COORDINATORE
Ch.mo prof. Domenico Jervolino
Il Pathos della Forma

INDICE

INDICE…………………………………………... ..……………………………...I
INTRODUZIONE. Il Pathos della Forma………… .……………………………..V
I. La Dualità dell’Origine. Condizioni preliminari
del confronto con il pensiero di Emil
Lask………………………………… ...…..………………………...1
§. 1. La distanza della decisione……….………. .....…………………………...2
§. 2. Un quadro d’epoca. La formazione e
l’irregolarità................................................ .…………………………….20
§. 3. «Welche Bewandtnis hat es mit diesem
Anderem?»: il luogo della Dottrina delle idee
platonica ……………………………. ...……..…………………….29
3.1. Un abbozzo di storia della
metafisica…................................................ .…………………………….32
3.2. Alterità del Valere: le letture platoniche
di Lotze ed Husserl……….….. ……….…………………….37
3.3. La validità dell’oggetto: il confronto con
la lettura natorpiana di Platone…….... ….………………………….49
3.4. Digressione: l’incompletezza della
valenza………………………………..….. ……….…………………….60
II. Formazione ed Individuazione………...…. ………….………………….51
§. 1. Zurück zu Kant………………………….… ………….………………….51
§. 2. Per una Teoria trascendentale della
formazione concettuale………………..…. …………….……………….76
2.1. Teoria e Genealogia: tra Herbart ed
Husserl…………………………………… ...………………..………….82
2.2. Dalla concettualizzazione pre-scientifica
alla pre-comprensione………... ………..……………………93
2 .3. Il pregiudizio dell’esperienza……….. ………..……………………99
§. 3. Concepire il caso. La funzione sperimentale
del Fichtesbuch…………….. ……………………………110
3.1. Il tempo della materialità: il concetto
trascendentale di caso…………….……… ……………………………113
3.2. Analogia e figurazione. La prima
formulazione del problema trascendentale
nel confronto con Maimon e Fichte……… ……………………………128
3.3. Inhalt und Umfang. La teoria del
concetto………………………………...… …………………....………136
§. 4. La Formazione del Diritto. La
Rechtsphilospohie come dottrina della
costruzione giuridica……………………... ..…………………………..141
4.1. Astrazione e formalizzazione: lo jus… ……………………………146
4.2. Dimensione e differenziazione……… ……………………………151
4.3. Sulla possibilità di una teoria degli
oggetti istituiti socialmente......................... ……………………………162
III. Differenza e Significazione.……….……... ……………………………165
§.1. L’estetica della differenziazione. Una lettura di
Jonas Cohn……………………... ………………………....…166

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Il Pathos della Forma

1.1. La costruzione insatura della


matematica……………………………….. ……………………..…......170
1.2. La materia dell’arte………………….. …………………...….……178
1. 3. Die verklärte Nacht…………………. ………………….………...185
§. 2. Simbolo, sintomo, annuncio………………. ………….………………...194
2.1. Segni simbolici………………………. …………….……………...194
2.2. Il ruolo differenziale della scrittura….. ………….………………...197
2.3. Espressione ed annuncio: una lettura
della Prima Ricerca Logica
husserliana………………………………. ...……………..…………...201
2.4. Dal simbolo al sintomo………….….. ……………………………206
§. 3. Note su una teoria del senso: intorno alla
dottrina stoica del λεκτόν…………………. .…………………………...211
3.1. Indizi di lettura: Bolzano, Husserl,
Lask………………………………………. ……………………….…...211
3.2. Logica alias teoria del senso………… ……………....……………220
IV. Le figure dell’Oggetto. Logica formale e
trascendentale…………………………….. …………….……………...226
§. 1. La forma del senso………………………... …………………….……...227
§. 2. Il regresso all’oggettualità……………….. ……………….…………...234
2.1. La vuotezza dell’oggetto……………. …………………....………234
2.2. L’oggetto «gegenstandstheoretisch»... ……………….…………...242
2.3. Bewandtnis: στάσις, constitutio…….. .………………….………..253
§. 3. La forma dell’essere. Ontologia o
Logologia………………………………… ………………….………...263
3.1. Determinazione e costituzione. La
seconda Formulazione del problema
trascendentale…………………………….. ………….…...……………263
3.2. Oggettualità o Essere dell’ente……… …………….…...…………271
3.3. Determinazione e differenziazione
materiale del significato……………….. …………….……………...277
3.4. Il momento materiale della
differenziazione: individuazione e spazio
intelligibile……………………………… .…………...………………283
3.5. L’eccedenza del significato………….. ……………….…………...285
3.6. La figura della nudità…………...…… …………………....………288
§. 4. Dall’oggetto all’obbietto………………….. ………………….………...296
4.1. Valutazione, giudizio, decisione
giudicante………………………………… ……………………………306
4.2. Dalla relazione rappresentativa al
frammento di significato…………………. ……………………..……..315
4.3. Immanenza, quasi-trascendenza,
immanenza.................................................. …………………….……...323
§. 5. Le figure della verità……………………… ……………………...…….328
5.1. Verità e conformità alla verità……… ……………….…………...328
5.2. Fallibilità: la durata della prassi……... ………………....…………338
BIBLIOGRAFIA…………………………...……… ………………..…………..344
1. Opere…………………………...……… ………………….………...344
2. Studi generali sul pensiero di E. Lask…. ……………….…………...348
3. Studi su Die Logik der Philosophie e Die
Lehre vom Urteil…………………….. ……………………………352

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Il Pathos della Forma

4. Studi sulla dottrina e la filosofia del


diritto……………………………………... ……………………....……353
4.1. Le filosofie del diritto neokantiane a
confronto ………...………………………. ………………………..…..353
4.2. Studi sulla filosofia giuridica di E.
Lask………………………………………. ………………....…………358
5. Altre opere consultate…………...…….. ……………………………358

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Il Pathos della Forma

Il Pathos della Forma.


Un’Introduzione

Si smagliano allora nella compattezza del tessuto,


i caritatevoli strappi dell’eccezione

C. E. GADDA, La cognizione del dolore

«Ad ogni modo una lettura che non si fa tanto per farla» 1 – scrive Martin Heidegger nel
semestre estivo del 1919, riportando la mente alle ricerche sistematiche di Emil Lask, contenute
nella Logica della Filosofia e nella Dottrina del Giudizio. La fine recente di quella guerra, che
gravava ancora sulle parole del corso friburghese, guidava la memoria verso quel giovane
filosofo, la cui vita era rimasta sospesa nel fango delle trincee dell’aspro fronte orientale,
ove le due patrie che lo contendevano – quella natale galiziana, quella eletta tedesca – lo
avevano trascinato.
Stava allora terminando il devastante quadriennio bellico, in cui si disperse quella ricca
generazione di studiosi, che era stata educata nel momento di più grande rigoglio ed
apertura dell’accademia tedesca, attorno a monumenti scientifici come Marburg,
Heidelberg, Göttingen, e che ne avrebbe nutrito la cultura, in virtù del richiamo ad un
ideale ancora illuministico della scienza.
Fu proprio su questa leva – distrutta dalla guerra, quand’anche riuscì a sfuggire alle granate 2 –
che l’unione volontaria di Lask alle truppe in conflitto e la sua intempestiva caduta incisero
una ferita così profonda, come mostrano le parole di Max Weber, in una greve lettera ai
familiari dell’amico, che possiamo considerare una sorta di documento vissuto della tonalità
spirituale di Lask e della sua condotta nell’indagine filosofica, di quel patimento per la
distanza, cui inevitabilmente consegna la riflessione. La precocità del suo destino – che
restò nei versi del più grande poeta ungherese del Novecento, Mihaly Babits3 – segnò il suo
opus filosofico con la cifra dell’incompiutezza. L’abbondanza di riferimenti che si
intessevano nei sui scritti editi, ed ancora di più la folla di appunti che, come in un giornale
di bordo, riportavano notizie di letture e di ripensamenti, di revisioni e di note polemiche,
così come la sorte del suo breve magistero universitario, che aveva coinvolto tra i suoi
uditori buona parte della leva della filosofia del Novecento – come Heidegger, Lukács,
Jaspers, Plessner, Szilasi – guadagnò al pensiero laskiano l’immagine dell’uomo in cammino.
In quell’atmosfera autunnale, che lentamente avrebbe condotto alla repubblica di Weimar,
altare su cui si dissanguarono i Gelehrten, gli intellettuali, forzando l’impegno della propria
ragione nell’osservazione di una vicenda storica incombente, ed a molti occhi rimasta
incompresa, la formazione intellettuale di Emil Lask rimase come l’enunciazione di una
possibilità, un gesto tracciato in aria e non compiuto.

1 M. HEIDEGGER, Zur Bestimmung der Philosophie, in Gesamtausgabe, Abt. II, Bd. 56/57, hrsg. v. B. Heimbuechel,
Frankfurt am Main, Klostermann, 1987; trad. it. di G. Auletta, a cura di G. Cantillo, Per la determinazione della
filosofia, Napoli, Guida, 1993, p. 182.
2 Con queste parole inizia il Bericht di E. M. REMARQUE, Im Western nichts Neues, Berlin, Propyläen, 1929; trad.

it. di S. Jacini, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Milano, Mondadori, 200623, p. 3.
3 M. BABITS, Egy filozófus halálára. [In Memoriam Aemilii LASK professoris philosophiae Heydelbergiensis

Obiit Pro Patria Anno 1914. In Galicia.], in Recitativ, Budapest, 1916.

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Il Pathos della Forma

Ma al peso di una trama biografica – che in una vita raccontava un tempo – finì per
restare impigliata anche la sua lettura. Tra Marburg ed il Baden, in fuga dal neokantismo
verso la fenomenologia, dal criticismo alla metafisica, all’indietro da Copernico a Tolomeo,
dalla teoria della conoscenza all’ermeneutica esistenziale, la marca del suo Denkweg fu da
subito definita per contrasto, in negativo, per ciò che non sembrava più essere o per ciò che
pareva stesse diventando. Il tronco filosofico cui Lask aveva lavorato, veniva pertanto
evocato come un mezzo di contrasto per lasciare balenare, o non, la presenza di alcuni
agenti o di altre suggestioni. Così Heidegger ne apprezzò la capacità di intendere il metodo
fenomenologico pur senza praticarlo; Lukács la lucidità nell’antivedere di quante sfumature
era composto lo spettro dell’irrazionalismo, che nel suo modo di intendere caratterizzava lo
Zeitgeist; Radbruch l’intuizione di intendere la molteplicità di piani nel fenomeno giuridico e
nella sua significazione; Schmitt l’intenzione di comprendere la dimensione materiale del
diritto, pur senza abbandonare del tutto l’ipoteca, che credeva essere propria del
formalismo giuridico neokantiano; Cohn l’anticipazione, nel costante rimando alla dualità
dell’origine, della sua Teoria della Dialettica. E non c’è dubbio che la ricca corrispondenza
filosofica laskiana, accostata al repertorio della sue recensioni, in cui alle osservazioni sui
Grenzen rickertiani o sulla monumentale opera di Bergmann sulla dottrina logica di Bolzano,
si aggiungono quelle, pubblicate sull’«Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», sugli
studi di dottrina dello stato di R. Schmidt, fornirebbe distesamente una mappa affidabile nel
fittissimo incrocio di contatti, scambi, influenze; restituirebbe, insomma, quell’intricato
ginepraio di relazioni e di confronti, quella vicenda quotidiana di socievolezza – come volle
chiamarla Marianne Weber – che caratterizzava la vita accademica della Heidelberg dei
primi due decenni del secolo scorso.
Tuttavia, l’impronta che Lask lasciò sui suoi contemporanei, su quelli che ne avevano
ascoltato le parole o discusso le opinioni o letto le pagine – come l’orma più prossima di
qualsiasi pensiero lo oscura, al pari della scrittura in grande, nell’esempio platonico,
nasconde quella in piccolo – impedì che si desse viva luce alla sua riflessione, che si
assumessero come pensate in proprio le sue argomentazioni.
A questa esigenza è inestricabilmente legata quella vera e propria Renaissance, che,
nell’ultimo quindicennio, si sta diffondendo negli studi laskiani. Un’esigenza, cui
corrispondono, ovviamente, tentativi ermeneutici differenti, tutti accomunati però dalla
ricerca dell’articolazione propria del pensiero di Lask, quell’articolazione che gli permise di
assumere una posizione così centrale nel dibattito filosofico a lui contemporaneo.
Di questa riscoperta laskiana – per darne solo un quadro sinottico e non comprensivo –
fanno parte sia l’intenzione di riconoscere nella filosofia di Lask un’istanza sistematica, un
progetto di Selbstbegründung filosofica, come è ravvisabile nelle ricerche di S. Nachtsheim 1 ,
sia quella, invece, di descriverla nella sua frammentaria ampiezza, individuando una tensione
insistente tra Leben und Erkennen, come negli studi di U. B. Glatz 2 . Ed ancora in tale ripresa
vanno collocate sia la ricomprensione delle prime opere, precedenti i due Hauptwerken
logici, attraverso la doviziosa descrizione della sua genealogia filosofica, tracciata da R.
Hofer 3 , sia la descrizione della sua formazione filosofica, condotta mediante la
ricomposizione dei fili che lo legavano ad una riflessione sull’Idealismo tedesco, offerta
dalla più recente monografia di C. Tuozzolo 4 sulla Logica della Storia. A tale ricollocazione
degli studi sul pensiero di Lask fanno da esempio, e da guida, le opere dei suoi due maggiori
interpreti italiani, quelle di Agostino Carrino 5 e di Stefano Besoli 1 ; entrambe rivolte a temi,
1 S.NACHTSHEIM, Emil Lasks Grundlehre, Tübingen, Mohr, 1992.
2 U. B.GLATZ, Emil Lask: Philosophie im Verhältnis zu Weltanschauung, Leben und Erkenntnis, Würzburg,
Königshausen und Neumann, 2001.
3 R. HOFER, Gegenstand un Methode, Untersuchungen zur frühen Wissenschaftlehre Emil Lasks, Würzburg,

Königshausen & Neumann, 1992.


4 C. TUOZZOLO Emil Lask e la logica della storia, Milano, Franco Angeli, 2002.
5 A. CARRINO, L’irrazionale nel concetto. Comunità e diritto in E. Lask, Napoli, Esi, 1983; ID., Giudizio e verità in

Lask e Rickert, in M. Signore (a cura di), Rickert tra storicismo ed ontologia, Milano, Franco Angeli, 1989, pp. 303-

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Il Pathos della Forma

prima facie, classici e ricorrenti nella letteratura laskiana, rispettivamente la filosofia giuridica e
la dottrina del giudizio, ma allo stesso modo capaci di renderne conto, consentendone
l’inclusione in un quadro teoretico unitario, e non disciplinare. Ed in questa ripresa
ricorrono anche le ricerche, principalmente quelle di B. Smith e K. Schumann 2 – e sulla
loro scia di altri ancora – dirette a comprendere l’incrocio problematico che si accampa alle
spalle della fenomenologia, in quella sorta di età assiale, quando il destino della logica dopo
Bolzano, e dopo Brentano, parve dividersi tra Husserl e Twardowski, tra il sorgere della
logica fenomenologica e la nascita della Scuola Polacca, tra la definizione dello strato
noematico ed il raffinamento dell’ideografia.
Al medesimo rivolgimento verso il pensiero di Lask, alla medesima Erörterung über Lask,
alla medesima comprensione del suo luogo, Ort, proprio – quello divenuto e quello fatto
proprio – pretende di partecipare il nostro studio. La sua tesi fondamentale è riconoscere la
filosofia laskiana come una Formphilosophie, come una filosofia della forma. In altri termini,
l’interpretazione, cui abbiamo dato opera, si incentra sull’ipotesi che l’intera tenuta del
progetto filosofico laskiano come transzendentale Gelungsphilosophie, come filosofia
trascendentale della valenza sia possibile solo nella sua riconduzione a Formphilosophie,
ovvero nella comprensione della Geltung quale Forma, e della Hin-Geltung, della valenza per,
quale forma di. È infatti in questo passaggio, che sembra consistere il fondo dell’insistenza
laskiana sulla differenza tra genere e forma, tra generalizzazione e formalizzazione;
passaggio che – è bene sottolinearlo – attraversa interamente la sua opera, sia quando
distingue, nel Fichtesbuch, tra una logica analitica ed una emanatistica, in virtù di un diverso
rapporto mereologico sussistente tra forma e materia, da un lato, e genere e specie, da un
altro, sia quando, a più riprese, indica la Verquickung lotzeana tra validità e generalità, sia,
ancora, quando legge la dottrina delle idee di Platone, proprio alla luce della disparità tra la
connotazione delle idee come generi e quella delle idee come forme, derivandone la
distanza tra un’interpretazione metafisica ed una logica. Traendone, altresì, una seppur vaga
concezione di storia della metafisica, proprio come determinazione sovra-essente della generalità.
Né occorre ribadire quale sia il rilievo della differenziazione tra forma e genere all’interno
delle ricerche fenomenologiche, perché possa essere tracciato il piano eidetico
trascendentale, perché anche solo sia concepibile l’intuizione eidetica – come intuizione
irreale, intuizione dell’irreale realitas della realtà, della forma irreale della realtà – come
testimonia tanto la tematizzazione, che ne fa Husserl, dal paragrafo VI delle Ricerche Logiche
all’Appendice III al paragrafo 13 delle Idee, quanto il richiamo heideggeriano nella
definizione della nozione di Formale Anzeige, in preparazione di una struttura categoriale per
l’analitica esistenziale, quindi sin dal corso del semestre invernale 1920-1921 sull’introduzione
alla fenomenologia della vita religiosa. Altrettanto scontato pare ricordare che di questo crogiuolo
facciano parte la vita e le forme di Simmel e L’Anima e le Forme del giovane Lukacs, la
riflessione di Cassirer sul concetto di funzione o sulla forma simbolica e la teoria della
forma logica nel Tractatus di Wittgenstein.
Questo riferimento al Formproblem ci consentirà di situare Lask in quel tragitto, disegnato
da Hans Krings nella sua Transzendentale Logik 3 , su cui si intersecano il ripensamento della
logica trascendentale e quello della formalità, che congiunge Fichte ed Husserl, la Bildlichkeit
del pensiero e la figuralità dell’eidos, Wissenschaftlehre e genealogia della logica.
Tuttavia la vicenda del Formproblem non è affatto un affare solo filosofico. Anzi, proprio
l’epoca che Lask abita è investita da un interesse alla ridefinizione della forma in tutti gli

319; ID., Law and social theory in Emil Lask, in A. AARNIO ET ALII (a cura di), Rechtsnorm und Rechtswirklichkeit.
Festschrift für Werner Krawietz zum 60. Geburtstag, Berlin, Dunkler & Humblot, Berlin.
1 S. BESOLI, La verità sottratta alla conoscenza: l’esito tragico-mistico della dottrina del giudizio di Lask, in ID. Esistenza,

verità e giudizio. Pertcorsi di critica e fenomenologia della conoscenza, Macerata, Quodlibet, 2002, pp. 239- 338.
2 K. SCHUHMANN, B. SMITH, Neo-kantianism and Phenomenology. The Case of Emil Lask and Johannes Daubert, in

«Kantstudien», 82, 1992, pp. 303-318; ID., Two Idealisms: Lask and Husserl, in «Kantstudien», 83, 1993, pp. 448-
466.
3 H. KRINGS, Traszendentale Logik, München, Kösel, 1964, pp. 26-37.

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Il Pathos della Forma

ambiti della cultura. La Gestalpsychologie ed il calcolo matematico delle funzioni, la


morfogenesi della scienza biologica ed il disegno industriale della Bauhaus, il Blaue Reiter di
Kandinski e Marc e la ricerca sulla forma tonale di Schönberg, la Neue Gegenständlichkeit e la
linguistica, le dottrine sulla forma dello stato e le nuove forme poetiche del futurismo –
italiano e russo, Martinetti e Majakovski –, la scissione viennese e le forme del cinema muto:
in ciascuno di questi casi la questione della forma, e della sua figurazione, occupa il centro
nevralgico dell’interesse. Il Novecento sembra esser venuto alla luce nell’orizzonte del
Formproblem.
Alla questione della forma Lask si rivolgerà argomentando sul concetto trascendentale di
Zufälligkeit, di accidentalità, o provando a comprendere l’oggettualità storica e giuridica,
cercando di rendere intelligibile il ruolo proprio che svolgono le concettualizzazioni
prescientifiche o denotando le dimensioni del fenomeno giuridico, tra cultura, norma e
valore; ed ancora: è a tale questione che Lask pensa rintracciando la peculiarità
differenziante della scrittura o indicando il deposito figurale del simbolo, nella
determinazione, quindi, della forma dell’oggettualità e nella distinzione della figura
dell’obbiettività, della forma propria della logica trascendentale e di quella della logica
formale.
Ciascuna volta, ciascuna modalità formale viene esperita, ma non può mai coincidere con
l’esperienza. Viene anzi pensata come esiliata, bandita nell’esperienza – utilizzando una
formula consueta nell’antico diritto germanico –, ma sempre essenzialmente differente da
essa. Fratturata dall’esperienza, ma ad essa perduta, se non nell’esibizione della differenza.
Temperamento profondamente politico – come il Platone della VII lettera, di ritorno dal
suo viaggio a Siracusa – Lask esprime nella maniera forse più lucida la sua concezione del
problema della forma, in una breve annotazione della Rechtsphilosphie. «Caratteristica
rilevante di tutte le costruzioni utopistiche» – osserva – «è stata che esse da un lato,
risultano troppo povere e procedono troppo astrattamente – qualora si pensi che vogliono
rappresentare la realtà sufficiente, incurante di una base empirica –, dall’altro, però
scendono troppo nel concreto proprio perché, nella fantasia costruttiva, sono solite
perfezionarsi in una rappresentazione indipendente; per cui, considerate dal punto di vista
dell’assolutamente pieno di valore e non da quello della realtà effettiva, si mostrano troppo
contenutistiche, dipingendo, come è noto, il loro ideale fin nei più piccoli dettagli,
caricandolo di cose inessenziali ed assolutizzando il caduco, l’empirico. Questa è la struttura
della maggior parte delle utopie: troppo astratte per una realtà, troppo concrete per
un’idea» 1 .
Ciò che qui assume il nome di struttura utopica è la fissazione materiale della generalità, è
la trasformazione della generalità in un deposito contenutistico, la sua Verdinglichung, la sua
reificazione, il passaggio ingiustificato dall’idea all’ideologia. La determinazione dell’utopia
come contenuto generale finisce per essere troppo angusta per essere annoverata nella
formalità, e troppo povera per ricadere nella materialità. È come se si fissasse una forma ad
una sua figurazione particolare, sottraendone poi, per astrazione, tutti i caratteri che aveva
assunto nel differenziarsi materialmente – nello spazio e nel tempo – come una figura della
forma. Nella vaghezza della generalità – nel pallore dell’universalità – si disperde, insieme,
l’esperienza della forma e l’estraneità della forma dall’esperienza. Ma non si cancella. Sotto
la sua crosta torna a suscitarsi il pathos della forma, la puntualità della sua esperienza e della
sua distanza. Se la forma non è assolutamente esperienza, l’esperienza della forma la rende
figura in continue ed irripetibili differenze. Se la forma non è esperienza, l’esperienza della
forma è la sua analogia, la sua trasformazione, il suo sommovimento, in una ininterrotta
catena di figure.
Se la forma è tutt’altro dall’esperienza, ma non può che essere esperita, l’esperienza della
forma è rivoluzione. «Conviene dunque sempre cercare analogie, nella speranza che siano

1 E. LASK, Rechtsphilosophie, in Gesammelte Schriften, hrsg. von E. Herrigel, Tübingen, Mohr, 1923, Bd. I, p. 285;
trad. it. di A. Carrino, Filosofia giuridica, Napoli, Esi, 1981, p. 22.

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Il Pathos della Forma

rivoluzionarie. Ma è come cercare l’ago nel pagliaio. Le analogie non mancano mai.
Dovremmo forse interessarci alla paglia? No; la verifica si trova nell’ago. Quel che manca
non sono le analogie; sono le rivoluzioni. Noi siamo per una filosofia dell’ago e non della
paglia. Ed essa sta o cade secondo le sorti alterne della rivoluzione» 1 . Questo è il talento
della forma.

ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI

GS E. LASK, Gesammelte Schriften, 3 Bd., hrsg. von E. Herrigel, Tübingen,


Mohr, 1923.
SW E. LASK, Sämtliche Werke, 2 Bd., Jena, Schlegmann Reprints-verlag, 2002.
FSW J. G. FICHTE, Sämmtliche Werke, hrsg. von I. H. Fichte, 8 Bd., Berlin,
Veit, 1845-46; poi, Walter de Gruyter, 1965-sgg.
MGW S. MAIMON, Gesammelte Werke, 7 Bd., hrsg. von V. Verra, Hildesheim,
Georg Olms Verlag, 1965-1976.
HSW J. F. HERBART, Sämtliche Werke, hrsg. von K. Kehrbach, O. Flügel, 19
Bde., Langensalza, 1887-1912 ; poi, Aalen, Sciencia Verlag, 1964.
Hua E. HUSSERL, Husserliana, Gesammelte Werke, hrsg. von R. Bernet et
alii, Den Haag-Dordrecht / Boston/Lancaster, M. Nijhoff, 1950-sgg.
GA M. HEIDEGGER, Gesamtausgabe, hrsg. von F.-H. von Hermann et alii,
Frankfurt a. M., Klostermann, 1975-sgg.

Avvertenza
Tutte le opere in lingua straniera, la cui versione italiana non è esplicitamente indicata, si
intendono tradotte dall’autore.

1 E. MELANDRI, La Linea e il Circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Macerata, Quodlibet, 2004, p. 810.

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Il Pathos della Forma

I. La Dualità dell’Origine.
Condizioni preliminari del confronto
con il pensiero di Emil Lask.

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Il Pathos della Forma

§ 1. La distanza della decisione.

Allora andiamo, tu ed io,


Quando la sera si stende contro il cielo
Come un paziente eterizzato disteso su una tavola

T. S. ELIOT, THE LOVE SONG OF J. ALFRED PRUFROCK

«Bisogna intendere la filosofia come scienza capace di decisioni ultime e le scienze


empiriche come prive di tale decisione: questo forse è il modo migliore per distinguerle e
metterle l’una dinanzi alle altre» 1 . Con tali righe, dall’andamento ruvido di un aforisma,
Emil Lask avvia a conclusione le sue riflessioni sul sistema delle scienze, così come erano state
presentate all’uditorio delle sue lezioni già nel semestre estivo del 1911.
Facendo leva sulla chiarificazione della differenza tra l’atteggiamento filosofico e quello
scientifico positivo, argomento proprio della sua epoca ed in particolare della scuola
filosofica, presso cui maturò e compì la sua formazione – il circolo neokantiano che si
raccoglieva ad Heidelberg nei primi decenni del secolo Ventesimo 2 – Lask illustra un
itinerario metodologico e ne scorge le lacune, da cui restituire radicalità alla questione. Sotto
quel titolo comune egli raccoglie osservazioni, appunti, obiezioni, postille ai testi che
compulsava cercando strategie ed indicazioni, così da radunare al suo convitto le
argomentazioni dei maestri, Windelband e Rickert, e le considerazioni degli interlocutori
scelti, a maggiore o minore distanza, il magistero della filosofia classica ed il confronto con
la Lebensphilosophie, attraverso la lettura di Bergson e Simmel 3 , il ripensamento della dottrina
cartesiana delle scienze e di quell’intellettualismo positivista, che vedeva rappresentato nelle
opere di Comte, Spencer o Lorenz. Tuttavia in questo palinsesto, ove ad ogni abrasione
della lettura si lascia scorgere un ulteriore ceppo di studio e di pensiero, tanto da costituire,
proprio per la sua eccentricità rispetto all’ordito principale, un luogo da cui osservare
l’intero percorso della filosofia di Lask, l’intento non pare affatto quello di definire
un’articolazione logica per le differenti modalità di formazione concettuale in cui si realizza
l’impianto della conoscenza. L’attenzione non viene rapita dalle tipologie distinte in cui
trova posa il sapere, dalle morfologie che le disposizioni categoriali, i procedimenti, le
specificità epistemologiche definiscono, né dal tentativo di fornire a queste uno schema
meta-teoretico affidabile.
L’accostamento tra filosofia e scienze empiriche assume piuttosto le sembianze della domanda
sull’incompiutezza, sulla mancanza, sul difetto costitutivo del rivolgimento empirico alla
conoscenza, di quella dedizione che accomuna lo scienziato della cultura – lo storico,

1 E. LASK, Zum System der Wissenschaften, in Gesammelte Schriften, hrsg. von E. Herrigel, Tübingen, Mohr, 1923, [d’ora in poi
GS], III, p. 292.
2 Cfr. H. – L. OLLIG, Der Neukantianismus, Stuttgart, Metzler, 1979; FLACH, W., HOLZHEY (a cura e con introduzione di)

Erkenntnistheorie und Logik im Neukantianismus, Gerstenberg, Hildesheim, 1980; G. GIGLIOTTI, Il neocriticismo tedesco, Torino,
Loescher, 1983; M. FERRARI, Introduzione al neocriticismo, Roma-Bari, Laterza, 1997; S. G. CROWELL, Neo-kantianism, in S.
CRITCHLEY, W. R. SCHROEDER (a cura di), A companion to continental Philosophy, Mass./Oxford, Malden, 1998; H. DUSSORT,
L’école de Marbourg, Paris, Puf, 1963.
3 Riguardo all’intuizionismo bergsoniano, cfr. in part. E. LASK, Zum System der Wissenschaften, in GS, cit., III, pp. 289-291;

quanto invece al confronto con il pensiero di Simmel, soprattutto in riferimento al suo Goethe – pubblicato a Leipzig,
presso l’editore Klinkhardt, nel 1913 – cfr. E. LASK, Zum System der Philosophie, in GS, cit., III, pp. 199-200. A proposito
della rete di relazioni e confronti di cui Simmel e Lask facevano inevitabilmente parte, nella configurazione di un ampio
panorama della riflessione sulla forma nei primi decenni del Ventesimo secolo, scrive Habermas in Simmel als
Zeitdiagnostiker: «Abstraktion und Einfühlung di Worringer offriva a Simmel le categorie per l’estetica natura dei paesaggi
marini od alpini; egli non vi riconosceva però la perspicace anticipazione della pittura espressionista. Simmel si trovava
ancora al di qua dell’abisso che si apriva tra Rodin e Barlach, tra Segantini e Kandinsky, tra Lask e Lukács, tra Cassirer ed
Heidegger». J. HABERMAS, Simmel als Zeitdiagnostiker, poscritto a G. SIMMEL, Philosophische Kultur: Über das Abenteuer, die
Geschlechter, und die Krise der Moderne, in ID., Gesammelte Essais, Berlin, Duncker & Homblot, 1983, p. 246.

11
Il Pathos della Forma

l’antropologo, il sociologo – e lo scienziato positivo naturale – il fisico, il biologo, il


chimico. Su quell’opacità che si stende sul concetto di realtà effettuale, di effettualità, sulla
sua traslitterazione in natura od in vita, in meccanismo fisico od in libertà, in legge od in caso, in
discreto o continuo, in omogeneità od eterogeneità.
«Se chiamiamo tutte le scienze empiriche scienze di dati di fatto, siamo in grado certo di
intendere la loro inattitudine ad esplorare il proprio fondo [Nichtergründen] e la loro comune
mancanza di decisione [Nichtentscheiden], ma rischiamo di ignorarne completamente le
differenze. Non si possono, infatti, abbracciare le scienze empiriche con un concetto
unitario di fatto o di effettualità. Il concetto di effettualità proprio delle scienze della natura
non si ritrova nelle scienze empiriche della cultura» 1 . Assunta tale impostazione metodica,
in che modo l’ambiguità circa la concezione del proprio sostrato materiale, nella positività
della scienza singola, dell’Einzelwissenschaft, si lega all’assenza del riferimento ad una
decisione? E di che rango è tale richiamo alla decisione, ad una assoluta presa di posizione?
«Le scienze empiriche si distinguono in modo tale che un gruppo (le scienze della cultura)
consiste in una conservazione dell’unità originaria, senza penetrare nel suo fondo, l’altro (le
scienze della natura) è allo stesso modo privo dell’attitudine ad indagare in profondità, in
ragione però della lacerazione del sensibile, della scissione delle relazioni, della soppressione
del loro carattere di sostrato» 2 . Se intendiamo per presa di posizione la condizione propria
del soggetto conoscente nella decisione del giudizio, nella risoluzione per uno dei suoi capi
dell’alternativa, dell’opposizione che si presenta in ciascuna interrogazione, la dimensione
cioè di una dualità già disposta e costituita nei suoi elementi e nelle sue connessioni, ci
collochiamo su un terreno di contenuti ormai preparati, in un ambito scientificamente
costituito. Possiamo farne menzione all’interno dei domini specifici delle competenze
teoretiche, notando tracciati predicativi differenti e peculiari, quando già il fondo della
determinazione del materiale è stato rivoltato e restituito all’intendimento. Accogliere tale
nozione di Stellungnahme, assumerla nella posizione arcontica in cui l’abbiamo trovata
nell’Opus Postumum laskiano, equivarrebbe ad una estensione del principio di
differenziazione formale delle scienze, di quella differenziazione che risale alle forme, alla
disposizione concettuale della ricerca, alla modalità di considerazione, di trattazione,
dell’atteggiamento proprio della soggettività teoretica. A ciò piuttosto Lask dedica il tono
polemico che introduce, come l’occasione della scrittura, alle sue postille. «Secondo una
nuova metodologia, raccolta in particolare nelle ricerche di Windelband e Rickert, bisogna
far risalire il principio di suddivisione delle scienze alla differenza formale, alla differenza
nel medio logico della forma. Ma questo argomento è tutt’altro che convincente: laddove si
trovi un materiale, che ha assunto una forma, non vi possono essere differenze formali,
bisogna, invece, ricorrere ad un’articolazione per differenze materiali. Bisogna cercare di
comprendere se nel rimandare diversi fenomeni logici alla medesima materia [Stoff] non si
ricavi ogni volta dalla materia un materiale [Material] differente» 3 .

1 E. LASK, Zum System der Wissenschaften, in GS, cit., III, p. 292.


2 Ivi, p. 240.
3 Ivi, p. 239. A questo proposito Lask sembra essere prossimo all’idea diltheyana di una differenziazione delle scienze in

virtù della tendenza secondo cui – in ciascuna di esse – viene formato l’oggetto. Cfr. W. DILTHEY, Einleitung in die
Geisteswissenschaften, I, Leipzig, Teubner, 1883; poi in GS, I, hrsg. von B. Groethuysen, Stuttgart-Göttingen, 19909; trad. it.
di G. B. Demarta, Introduzione alle scienze dello spirito, I, Milano, Bompiani, 2007, in part. pp. 3-5, 13-15, 25-39, 45, 51-53;
ID., Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, in «Abhandlungen der königlich Preussischen Akademie der
Wissenschaften», 1910; poi in GS, VII, hrsg. von B. Groethuysen, Stuttgart-Göttingen, Vandenhoeck und Ruprecht,
19928; trad. it. di P. Rossi, La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, in ID., Scritti filosofici (1905-1911), Torino,
Utet, 2004, in part. pp. 164 s., 212-221. Si rende tuttavia necessaria, in merito al confronto tra Dilthey e Lask riguardo al
paradigma materiale di differenziazione delle scienze ed al comune intendimento del ruolo dell’astrazione-comparazione nelle
scienze storiche, una chiarificazione. Se in Dilthey, infatti, dalla compiuta differenziazione tra le scienze – che vede
includere nella sfera delle Geisteswissenschaften le filosofie storicamente date, come susseguentisi modelli di visione del
mondo – si eleva la necessità di una filosofia della filosofia come analisi delle connessioni di senso e dello sviluppo epocale
delle filosofie, di una metafilosofia, insomma, in quanto storia sistematica delle filosofie, in Lask, invece, sorge il progetto di
una logica della filosofia, quale precedenza del logos costitutivo della filosofia, in cui sia rinvenibile la sua propria decisione
assoluta di ergründen, di guardare a fondo nella determinazione della materia ad oggetto, a materiale. Cfr. W. DILTHEY, Das
Wesen der Philosophie (1907), in GS, V, cit., pp. 339-416; trad. it. di P. Rossi, L’essenza della filosofia, ID., Scritti filosofici (1905-

12
Il Pathos della Forma

In tutta evidenza, la mira di queste righe non è di preludere alla scrittura di una tavola
metodologica sulla formazione concettuale delle scienze, sulla diversità di riguardo che
ciascuno dei rivolgimenti conoscitivi può intrattenere con il proprio dominio di pertinenza.
La fraseologia che si vede utilizzata richiama al proprio uditorio più prossimo, come fosse il
vettore più capace di recare però un importo tematico inatteso, l’indugiare della riflessione
sul margine del distretto tematico consueto. «Ha un senso profondo coordinare la scienza
della cultura come scienza dell’effettualità alla scienza della natura» 1 .
Eppure considerandone il linguaggio, è agevole riconoscerne i riferimenti, i luoghi testuali
in cui sintagmi e locuzioni hanno preso forma, corroborando la loro pregnanza. Il
ricorrente utilizzo che Lask propone negli appunti che stiamo considerando – definendo
una sorta di hapax nel tracciato del suo pensiero – di Beurteilung, della valutazione decisiva
quanto all’abbrivio delle determinazioni peculiari alla filosofia, rimanda al paradigmatico
assunto windelbandiano, secondo cui «le valutazioni sono l’oggetto della filosofia» 2 , ove per
valutazione si intende la disposizione «di una coscienza volente e senziente rispetto ad un
determinato contenuto rappresentativo» 3 , ad una determinata composizione, complessione
delle rappresentazioni, così come sono venute annodandosi, riferendosi reciprocamente,
nel giudizio. Né meno distinto ed intelligibile è il rimando, che Lask conserva in capo alle
riflessioni sulla modalità teoretica di assunzione, di fronteggiamento del materiale sensibile,
dunque sulla generalizzazione e sulla – ben più dirimente – tendenza quantificante, alla coppia
concettuale rickertiana di continuo eterogeneo e discreto omogeneo, alla differenza cioè tra una
molteplicità estensiva ed una intensiva, quanto alla definizione di campi oggettuali, dunque
contenutistici, materiali nella distinzione delle occorrenze scientifiche. Il mantenimento,
piuttosto, del principio di eterogeneità di tutto il reale 4 , dell’inesauribilità, dell’irrisolvibile
riversarsi dell’effettualità, si dilata, fino a non poter essere rimosso, ma appena mitigato,
lenito dalla quantificazione 5 . Così la domanda se «l’essenza della scienza della natura possa
essere concepita attraverso la mortificazione del materiale sensibile ed il dominio della
generalizzazione come un mezzo per far fronte al materiale sensibile», accenna già fuori dal
proprio cono di luce, fuori dal recinto tematico cui si era prima facie consegnata.
Le indicazioni si scompaginano: le scienze della cultura rispetto ad un sostrato di processi
singolari di realizzazione, la geografia o la geologia riguardo al medesimo teatro del suolo,
Erdboden 6 , l’astronomia quanto alle costellazioni, riferite per antonomasia alla ritrazione

1911), Torino, Utet, 2004, pp. 403-494; ID., Die Typen der Weltanschauung und ihre Ausbildung in den metaphysischen Systemen
(1911), in GS, VIII, hrsg. von B. Groethuysen, Stuttgart-Göttingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 19916; trad. it. di P.
Rossi, I tipi di visione del mondo e la loro formazione nei sistemi metafisici, in ID., Scritti filosofici (1905-1911), cit., pp. 581-635. Cfr.
P. Rossi, Introduzione a W. DILTHEY, Scritti filosofici (1905-1911), Torino, Utet, 2004, p. 44: «Oltre che fornire una
tipologia dei sistemi, l’analisi di Dilthey voleva infatti mostrare “l’aspra contraddizione esistente tra la pretesa di validità
universale di ogni sistema filosofico e l’anarchia storica di questi sistemi”; voleva cioè mostrare l’infondatezza comune a
tutti i sistemi filosofici. Il riconoscimento della storicità della filosofia e delle sue forme metteva capo a una “filosofia della
filosofia”, concepita come “auto-riflessione storica della filosofia sopra se stessa”».
1 E. LASK, Zum System der Wissenschaften, in GS, cit., III, p. 260.
2 W. WINDELBAND, Was ist Philosophie?, in Preludien, I, Tübingen, Mohr, p. 33. Sulla nozione di Beurteilung, sulla sua

differenza da quella di Urteil, nel confronto Windelband–Brentano – cfr. F. BRENTANO, Psychologie vom empirischen
Standpunkte (1874), Leipzig, Duncker & Humblot, 1911; trad. it. a cura di M. Pugliesi, Sulla classificazione delle attività psichiche,
lanciano, R. Carabba, 1922, in part. pp. 43-sgg. – rimandiamo a S. BESOLI, Esistenza e giudizio. Un confronto tra Brentano e
Leibniz, in ID., Esistenza, verità e giudizio. Percorsi di critica e fenomenologia della conoscenza, Macerata, Quodlibet, 2002, pp. 99 –
133.
3 W. WINDELBAND, Was ist Philosophie?, in Preludien, I, cit., p. 34.
4 H. RICKERT, Kulturwissenschaft und Naturwissenschaft, Tübingen, 19266; trad. it. di M. Signore, Il fondamento delle scienze della

cultura, Ravenna, 1997, V, p. 80.


5 E. LASK, Zum System der Wissenschaften, cit., in GS, cit., III, p. 246.
6 Quanto alla definizione dell’Erdboden come Erfahrungsboden, ci si può richiamare al manoscritto husserliano D 17, datato

1934, pubblicato da M. Farber nel 1940 con il titolo Grundlegende Untersuchungen zum phänomenologischen Ursprung der
Räumlichkeit der Natur in Philosophical Essays in Memory of Edmund Husserl, Cambrigde, Harvard University Press, e tradotto
in italiano da G. D. Neri, Rovesciamento della dottrina copernicana nell’interpretazione della corrente visione del mondo (Umsturz der
kopernikanischen Lehre in der gewöhnlichen weltanschaulichen Interpretation), in Aut-Aut, 245, 1991, pp. 3-18. La genesi, tuttavia, di
tale concezione husserliana deve essere riconosciuta all’interno delle sue analisi sulla costituzione dello spazio, che ebbero
origine già nei corsi del 1907 tenuti a Göttimgen. Si veda in particolare un testo del 1916, dedicato alla differenza tra spazio
visivo e spazio obbiettivo, pubblicato come Appendice XI a E. HUSSERL, Ding und Raum. Vorlesungen 1907, in Hua, cit., Bd. XVI,

13
Il Pathos della Forma

della luna, tutti questi atteggiamenti, tutte queste disposizioni a fronteggiare il sostrato che
rimane segretamente, heimlich, dinanzi, richiamano ad una anthropozentische Einstellung, ad un
impianto antropocentrico 1 . A quell’orientarsi che consente di stabilire, di fissare un ambito
tematico, oggettuale, formalizzato. Ed è nella frattura tra Stoff e Material, tra materia e
materiale, tra sostrato e contenuto che ricorre l’assunzione di un atteggiamento, di un
rivolgimento, della costituzione di un riguardo scientifico. Qui si eleva la ragione del limite
teoretico, della determinazione di un insieme discreto che è rinvenibile tanto nel
padroneggiamento scientifico del continuo, in virtù di quelle indicazioni quantificanti che recidono
e definiscono l’ampiezza della generalità oggettuale, sulle orme della definizione platonica –
formulata nel Filebo – della radice matematica dell’ordine e della distinzione delle idee.
«Questo è l’eterno diritto del discreto, del peras» 2 , del limite.
Si rileva pertanto la posta in gioco nelle annotazioni laskiane, che hanno guadagnato,
nella centralità dell’atteggiamento, della posizione prospettica, dell’impianto della visione e
della considerazione, la prossimità tra le articolazioni scientifiche, la contiguità tra le
differenti dimensioni del teoretico. «Il senso del teoretico in generale deve consistere
evidentemente in ultima istanza nella missione categoriale, e cioè nella trasformazione in
oggetto» 3 . Dietro il pretesto di un’articolazione filosofica, in quanto teoretica della conoscenza,
delle determinazioni scientifiche, nei loro insovrapponibili ambiti di indagine, ciò che attrae
la sua attenzione, ciò che muove al pensiero, è come «il qualcosa debba diventare oggetto» 4 .
Come cioè la datità del reale in cui ci si trova immediatamente coinvolti, l’irriducibilità del
dato cui ingenuamente si consegna il riguardo, l’indicazione, il rivolgimento già
nell’atteggiamento pre-scientifico, vale a dire pre-teoretico, diventi, werden, si faccia, si
presenti come Etwas, prima, Gegenstand, poi, Objekt, o meglio, Objekte, gamma obbiettiva di
contenuti, infine.
In questo senso, il processo di formazione dell’oggetto nelle scienze della natura è capace di
apportare una notevole cogenza concettuale e problematica proprio quando si supera il
limite ottico della considerazione generalizzante: la determinazione di generalità, mediante
una composizione sistematica di leggi generali, risulta insufficiente a comprendere il suo
specifico piano oggettuale, rappresentando, piuttosto, un grado, un Vorarbeit, una
preparazione, una pre-elaborazione, cui possono però succedere procedimenti differenti.
L’inevitabilità del metodo generalizzante, vale a dire della considerazione di qualsiasi
Qualcosa in virtù della sua generalità, della sua funzione specificamente esemplare, consente
l’individualizzazione, ovvero la costituzione di un’oggettualità individuale in quanto compresa
quale determinatezza singolare nell’ampiezza del contenuto di legalità. «Dunque la
domanda: è il mondo sensibile come un solo processo, da comprendere quale totalità?» 5 ,
diversamente espressa suona: come si costituisce l’oggettualità determinata nelle scienze
naturali? Facendo riferimento all’aspirazione scientifico-naturale all’unità, all’unificazione
del proprio ambito materiale – di cui sono esemplari i principi dell’energetica, der
Energiesatz, e della termodinamica, precipuamente quel secondo principio che rende
ipotizzabile, attraverso la posizione di una costanza termica nell’universo conchiuso, die
Wärmetod – Lask tenta di fare ingresso in un dominio metodologico inattingibile alla mera
alternanza di Generalisieren/Individualisieren. «Laddove la scienza della natura apparentemente

hrsg. von U. Claesges, 1973, pp. 370-371, ove si può leggere: «Ogni spazio visivo ha già una obbiettività ed è l’unità di una
molteplicità di adombramenti dello spazio visivo, in cui esso si presenta e deve presentarsi centrato. Esso è già omogeneo
ed ha tutte le caratteristiche dello spazio geometrico, solo che si dà per così dire come spazio assoluto e mediante una
nuova appercezione si trova in relazione alla costituzione di un “corpo-suolo” [Boden-körper] fisso od in movimento e di
un corpo proprio “che va” verso di esso, dunque [in relazione] ‹alla› costituzione del corpo proprio come di una cosa alla
stregua delle altre».
1 E. LASK, Zum System der Wissenschaften, cit., in GS, cit., III, p. 248.
2 Ivi, p. 289. Cfr. PLATONE, Filebo, 25a-sgg. [I Dialoghi platonici sono citati nell’edizione italiana a cura di G. Cambiano,

Torino, Utet, 4 voll., 1970-sgg.].


3 E. LASK, Zum System der Wissenschaften, cit., in GS, cit., III, p. 289.
4 Ibidem.
5 Ivi, p. 248.

14
Il Pathos della Forma

parla dell’unica totalità del mondo, ha in verità dinanzi agli occhi una legge generale che
riguarda limitate, esauribili quantità di energia, così che gli esemplari di questa legge
possono essere solo parti della totalità del mondo, finite e conchiuse» 1 . L’anticipazione
della generalizzazione corrisponde dunque alla definizione di contenuti di generi tra cui si
istituisce una relazione categoriale, la cui definizione compiuta corrisponde al precipitato di
una legge scientifico-naturale. «Le composizioni legali sono contenuti generici legati
categorialmente, cioè un materiale, che si trova in categorie specifiche (cosalità, causalità), a
cui la categoria della generalità deve ancora essere aggiunta» 2 . Dunque si possono
individuare una prima trasformazione che riguarda la definizione di contenuti conformi al
genere, gattungsmäßig – non identificabile affatto con la connessione categoriale – ed una
seconda che pertiene al rango di generalità, di validità generale, Allgemeinheit, della
determinatezza della legge.
La questione della dimensione propria dell’oggetto, nell’elaborazione scientifica, vira
sulla corrispondenza logica tra Gattungsmäßigkeit ed Allgemeinheit, tra conformità al genere e
generalità. Qui entra in gioco la tendenza alla quantificazione, che dalla meccanica si estende
all’interezza delle scienze positive naturali, nonostante le differenze di riguardo, dunque di
modalità, che separano la fisica dalla chimica, dalla biologia.
«Se la meccanica fosse effettivamente un risultato solo della tendenza alla
generalizzazione ed ad essa fossero riconducibili l’invariabilità qualitativa e l’omogeneità,
allora nella fisica e nella chimica, ad esempio, dove non si tratta di corporeità meccanica in
generale, ma di una ben più ampia specificità e concretezza qualitative, bisognerebbe
ricercare l’eccedenza qualitativa (ad esempio, l’affinità chimica)» 3 . La funzione della
quantificazione è pertanto essenziale – pur nell’involutezza aforismatica che
contraddistingue la lettura epistemologica di Lask – a definire lo statuto proprio del
contenuto generico che viene ricompresso nella formulazione di legalità generale. La
costituzione oggettuale corrisponde alla determinazione di un quanto, di una funzione di
quanto, ad una designazione metrica, che funge da contenuto per la composizione
categoriale del wissenschaftliches Gesetz.
La quantificazione compare come l’isolamento di uno strato, come l’evidenziazione di un
livello di identificazione, ovvero di quel piano specifico che corrisponde alla nozione
scientifica di effettualità. «Ognuno degli isolamenti degli strati, che appaiono ordinati
secondo gradi di generalità, non può dedursi dalla tendenza alla generalizzazione, ma solo
da quella alla quantificazione» 4 . Se dunque la disposizione assiomatica di una teoria
scientifica, saldata dal legame di consequenzialità dei suoi asserti, è resa possibile da una
gerarchia di livelli di generalità, la medesima posizione di ciò che figura come terreno
contenutistico è determinata dalla quantificazione, in modo tale che quest’ultima sia
indipendente, in quanto relativamente, funzionalmente costitutiva, rispetto allo
5
Generalisieren als Bewältigungsmittel des sinnlichen Materials .
È così che la costruzione matematica, la definizione metrica del contenuto, guadagna con
evidenza il suo ruolo eminente nella definizione oggettuale delle scienze naturali, pur
rimanendone tuttavia estranea e reclamando, in grazia di ciò, una peculiare considerazione
teoretica. La determinazione matematica di uno scorcio contenutistico, Inhaltsschicht, ovvero la
designazione di uno strato in quanto contenuto è, dunque, ciò che rende possibile, nella
cerchia delle scienze naturali, l’applicazione propria di categorie, come quelle di cosalità e
causalità nei contrassegni concettuali di atomo, energia, forza 6 . La comparsa di quel
materiale, «quanto mai eroso ed umbratile» 7 , che rappresenta il trionfo dell’illimitabilità

1 Ibidem.
2 Ivi, p. 249.
3 Ibidem.
4 Ibidem.
5 Ivi, p. 247.
6 Ivi, p. 148.
7 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, cit., III, p. 243.

15
Il Pathos della Forma

della forma teoretica 1 , mostra la capacità matematica di una costituzione riflessiva, della
costituzione di una oggettualità riflessiva 2 , finendo per modificare il segno della sua propria
analiticità, ormai non più meramente ricorsiva. Di qui l’istanza, rinvenibile in Lask sin dalle
riflessioni sulla logica matematica contenute nel Fichtesbuch 3 ed ininterrottamente nelle
considerazioni sulle modalità della forma logica, di poter riconoscere alla matematica la sua
wahre Heimat, la sua vera patria più che nel quadro di un sistema delle scienze, all’interno,
invece, della Wahrheitslehre, della logica come dottrina della verità 4 .
Le scienze della natura pertanto assumono come propria designazione materiale, disposta
quantitativamente, la traduzione del concetto di effettualità in quello di natura. «Bisogna
distinguere la sensibilità dalla natura: la sensibilità è semplicemente espressione di una parte
costitutiva estranea al valore; la natura invece indica l’oggetto sensibile, dunque la sensibilità
più la forma categoriale. Meglio: ciò che non è significabile più l’obbiettività teoretica.
Dunque ciò che l’intelletto meramente afferra, ma non comprende, concependolo soltanto
teoreticamente» 5 . Espresso altrimenti, il concetto di natura nelle scienze positive
comprende la dimensione oggettuale della sensibilità, l’oggettualizzazione della pluralità
sensibile mediante la posizione quantitativa, l’oggetto dell’effettualità sensibile come quanto,
dunque l’obbiettivazione teoretica, la composizione di un obbietto di senso teoretico quale
formazione complessa, che funge da contenuto compiuto all’espressione categoriale
generalissima della legge. Altro resta nella sensibilità l’Undeutbar, ciò che da sé non è
significabile, in quanto estraneo al significato, tanto alla determinazione dell’oggetto quanto
alla definizione della generalità dell’obbietto.
Ed è appunto questa la domanda che si presenta a Lask: in che modo, l’encliticità propria
di ogni formazione categoriale, la protensione del suo accento fuori del dominio della
formalità, così come emerge esemplarmente nel metodo logico della matematica, anche
quando la si assuma come medio costruttivo dell’ambito contenutistico delle
Naturwissenschaften, in che modo, dunque, questo clivio essenziale alla forma accenna
all’insignificabilità del fondo, all’incompleto trapasso da Stoff a Material, dalla materia ai
reperti significativi, dunque già teoretici, del materiale, nella concettualizzazione scientifica?
Rimontando dunque all’accostamento iniziale con le scienze empiriche, nel cui perimetro
abbiamo fino ad ora indugiato, come si presenta, alla filosofia, la configurazione di Stoff
quale Material se non nella guisa della domanda sul modo dell’oggetto? È possibile disegnare
l’arco che conduce dal tratteggiamento anomalo di un sistema delle scienze all’interrogazione
sulla filosofia, come un irreversibile cammino dalla domanda sul luogo delle scienze, sulla
sistemazione di ogni singola scienza nella comprensione della Einteilung, della suddivisione,
a quella sul luogo dell’oggetto?
«Immergersi teoreticamente nel senso ateoretico del mondo, questo è il senso proprio
della contemplazione teoretica.
Ciò che è peculiare alla filosofia è ergere l’atteggiamento di valore teoretico su quello
ateoretico. La riflessione teoretica coinvolge cioè una decisione sull’ambito ateoretico della
vita» 6 . La decisione, cui qui Lask accenna, è lungi però dal garantire una piana successione,
una gradualità nella cui costruzione non vi siano lacune. L’ampiezza dell’accezione di

1 Ivi, p. 243, p. 244.


2 E. LASK, Die Logik der Philosophie und die Kategorienlehre, in GS, cit., II, p. 155, ove alla nota 119 riverbera l’istanza di
disporre «la dottrina delle categorie, sostenuta in questo scritto, quale dimora logica [logische Unterkunft] anche per l’intera
matematica».
3 E. LASK, Fichtes Idealismus und die Geschichte, in GS, cit., I, in part. pp. 44-56.
4 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, cit., II, p. 384: «Quanto alla matematica: Rickert parla di senso ideale. Perché anche

un tale concetto possa essere fondato, come qualsiasi “essere”, qualsiasi oggettualità, esso deve coincidere
copernicanamente con il senso.
Ora non si può discutere come, malgrado il suo carattere enclitico, sia possibile una dedizione conoscitiva rispetto al
senso isolato riflessivamente e come, in questo modo, si chiarisca la posizione propria della matematica, che non può
ricadere in nessuno dei due ambiti costitutivi della verità. Cito la matematica, per prevenire l’impressione che essa non
trovi alloggio nella nostra dottrina della verità. Speriamo al contrario di poterle assegnare la sua vera patria».
5 E. LASK, Zum System der Wissenschaften, in GS, cit., III, p. 243.
6 Ivi, p. 251.

16
Il Pathos della Forma

theoretische Besinnung, che finisce per comprendere anche la complessione delle


Weltanschauungen 1 , in quanto articolato teoretico poggiante sull’atteggiamento vitale –
scavando così un solco incolmabile dall’Husserl 2 di Philosophie als strenge Wissenschaft – non
appiana la frattura che sempre reca alle sue spalle.
«Anche la semplice valutazione è già un certo allontanamento dalla vita, anche se non è
ancora passato attraverso l’elaborazione del sistema. C’è sempre un tentativo di risalire
indietro all’obbietto ed, insieme, la sua frantumazione. Il mero intendimento, che si limita
ad accettare, smarrisce ancora di più l’immediatezza» 3 . Eccependo alla Lebensphilosphie, ed in
particolare alla concezione bergsoniana di intuizione, la pretesa alla unilateralità, ad una
pienezza unitaria senza scarti tra l’opaca inquietudine della particolarità di ciascuna vita e la
chiarezza della presentazione, della descrizione, Lask richiama alla lacerazione, all’apertura
di un quadrante vuoto, che campeggia sulla porta della decisione: l’assolutezza
dell’Entscheidung, della recisione da ciò che si dispone come oggetto, corrisponde a quella del
distanziamento, all’inaugurazione della distanza, all’indizione di un margine, alla sua
tracciatura. La distanza, Entfernung, dunque, precede l’estensione.
Perché si renda comprensibile, al medesimo tempo, la Fremdartigkeit, l’estraneità tra vita e
speculazione e l’edificazione di quest’ultima su quel «materiale in qualche modo assunto
dalla sfera della vita» 4 , Lask ricorre all’indicazione della comprensione fichteana 5 del
philosophische Trieb, della provenienza e della trazione del pensiero rispetto all’opacità non-
oggettuale dell’Erleben, dell’immediatezza dell’esperienza vissuta, quale «non “sapere” [weiß],
ciò che si “fa” [tut] o si “vive” [lebt]» 6 . Questo è l’esordio tragico della conoscenza; il suo
cominciamento risiede nel fatto della frattura, della non-coincidenza, della disparità. Qui più
che di una gnoseologia tragica 7 , pertanto bisognerebbe parlare della gnoseologia in quanto
esperienza vissuta del tragico. «Si è in imbarazzo – scrive Fichte – proprio in ciò che si è,
perché non lo si può conoscere. Bisogna uscirne, dislocandosi in un punto di osservazione,

1 Sulla considerazione laskiana della nozione di Weltanschauung, più che della Weltanschauungstheorie, si vedano A. CARRINO,

Giudizio e verità in Lask e Rickert, in M. SIGNORE (a cura di), Rickert tra storicismo e ontologia, Milano, Franco Angeli, 1989, p.
304 e R. HOFER, Gegenstand un Methode. Untersuchungen zur frühen Wissenschaftlehre Emil Lasks, Würzburg, Königshausen &
Neumann, 1992, pp. 81-88.
2 Ivi, p. 252. Cfr. E. HUSSERL, Die Philosophie als strenge Wissenschaft, in «Logos» (1911), pp. 289-341; poi in Husserliana

Gesammelte Werke, [da ora in poi, Hua], vol. XXV, Aufsätze und Vorträge (1911-1921), hrsg. v. T. Neon, H.R. Sepp,
Dordrecht, Nijhoff, 1987, pp. 3-62; trad. it. di C. Sinigaglia, La filosofia come scienza rigorosa, pref. di G. Semerari, Roma-Bari,
Laterza, 1994.
3 E. LASK, Zum System der Wissenschaften, in GS, cit., III, p. 259.
4 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 190.
5 Sul richiamo a Fichte, che scuote le pagine laskiane su Leben und Erkennen, oltre al riferimento alla sua opera, Fichtes

Idealismus und die Geschichte, in GS I, cit., pp. 1- 228, in part. su Philosphie und Leben, pp. 116- 121, sembra opportuno il
riferimento ad una più vasta recezione, che comprendendo le note di Windelband, nel saggio Kritische oder genetische
Methode?, in W. WINDELBAND, Präludien, II, pp. 126-127 – ove l’impresa fichteana viene intesa come il tracciamento di un
senso teleologico in seno alla riflessione filosofica, alla costruzione di un sistema critico-assiologico – trascorre sino al Fichtes
Atheismusstreit und die Kantische Philosophie di Rickert ed alla ripresa heideggeriana, nel corso del semestre straordinario di
guerra del 1919, Zur Bestimmung der Philosophie. Cfr. W. WINDELBAND, Präludien, II, cit., pp. 126- 127; H. RICKERT, Fichtes
Atheismusstreit und die Kantische Philosophie, in «Kantstudien», 1899, 4, pp. 137-166; M. HEIDEGGER, Zur Bestimmung der
Philosophie, in Gesamtausgabe [d’ora in poi, GA], II Abt., Bd. 56/57, hrsg. v. B. Heimbuechel, Frankfurt am Main,
Klostermann,19992; trad. it. di G. Auletta, a cura di G. Cantillo, Per la determinazione della filosofia, Napoli, Guida, 1993, pp.
46-sgg. Nel ripensamento della filosofia fichteana, soprattutto quanto alla nozione di Vernuftthathandlung, all’interno della
fenomenologia, un luogo eminente è occupato dalle lezioni husserliane del 1917 sul Fichtes Menschheitsideal, E. HUSSERL,
Aufsätze und Vorträge (1911-1921), in Hua, Bd. XXV, cit., pp. 267-293.
Riguardo alla lettura heideggeriana di Fichte, ed al profondo influsso laskiano esercitato su di essa, cfr. TH. KISIEL, Das
Kriegsnot-semester 1919: Heideggers Durchbruch zur hermeneutischen Phänomenologie, in «Philosophisches Jahrbuch», 99, 1992, pp.
105-122; A. DENKER, Fichtes Wissenschaftslehre und die philosophischen Anfänge Heideggers, in «Fichtestudien», 13, 1997, pp. 35-
49.
6 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 191.
7 Il riferimento implicito è alla definizione che Mario Untersteiner dà del pensiero gorgiano come capace di intrecciare una

gnoseologia ed un’ontologia tragiche, ove il filosofo di Lentini non viene inteso come «uno scettico, ma come un tragico [che]
non si propose di dissolvere il pensiero, ma scoperse la dissoluzione del pensiero», tentando di legare assieme
speculazione sulla natura, poesia tragica e prassi giuridica. M. UNTERSTEINER, I Sofisti (1949), Milano, Bruno Mondatori,
1996, pp. 218-219. Sul tragico, invece, considerato come esito del pensiero lasciano si veda S. BESOLI, La verità sottratta alla
conoscenza: l’esito tragico-mistico della dottrina del giudizio di Lask, in ID., Esperienza, verità e giudizio. Percorsi di critica e fenomenologia
della conoscenza, Macerata, Quodlibet, 2002, pp. 239-338.

17
Il Pathos della Forma

che ne sia esterno. Questo uscire dalla vita effettiva, questo punto di osservazione esterno
ad essa, è la speculazione» 1 . Di qui, dunque, la complicazione di quel distanziamento che
non è meramente abbandono, di quel distacco, di quel Herausgehen, che reca in se stesso
ancora l’incombenza dell’imbarazzo, non solo come traccia scolorita, ma come accenno del
pensiero a quell’estraneità profondamente infissa in sé, che non si può restituire nella sua
forma. Di quel rovello, di quel difetto del pensiero – che fatica vanamente a tematizzare –
di essersi costruito, aggrappandosi «all’estrema inadeguatezza della vita, alla sua nullità, alla
sua piccolezza» 2 .
Ciò che è ritratto nella questione, non è la dominanza di un momento pratico all’interno
della dimensione teoretica, come se le diverse regioni fossero già assegnate ad una modalità
ed a un deposito del sapere – quello teoretico o quello pratico. Quando, riprendendo in una
breve Bemerkung la differenziazione rickertiana della storia empirica, quale caso specifico delle
scienze empiriche della cultura, dal momento di valutazione assoluta, in quanto risalente al volere
pratico, cioè valutazione presistematica delle singolarità, nota che questa già appartiene del tutto
all’ambito teoretico – allo stesso modo di ogni politica assoluta 3 – Lask non intende riscrivere il
suo contributo sulla confutazione di un primato della ragion pratica nella logica 4 , piuttosto
accennarvi avendo guadagnato una ulteriore angolazione. Diventa dirimente quella soglia,
che lasciata vacante dalla decisione, tanto la riflessione quanto l’impegno e l’opera della
soggettività etica possono recuperare nella dimenticanza. Di ciò viene considerato
esemplare l’arco dell’esposizione, della descrizione, Darstellung, ove resta silenziato l’eco
della precedenza 5 . «Apprendere è il concetto fondamentale! Cioè presentare sul
fondamento di una cultura effettivamente riconosciuta. Questo è l’opposto dell’assoluta
esplorazione del fondo! Dunque una esposizione non probante sul fondamento dei valori
culturali accettati senza alcun esame» 6 . Quanto rende ad una scienza lo statuto della propria
empiricità è una zentrumlose Hingabe 7 , è un rivolgimento che astrae da sé il proprio centro:
essa è empirica perché non rende conto del fondo che la sostiene, «weil nicht-ergründend das an sich
Ergründbare» 8 . La decisione che mette capo alla filosofia 9 è dunque il rivolgimento a quel

1 J.G. FICHTE, Über den Grund unseres Glaubens an eine göttliche Weltregierung (1798), in Sämmtliche Werke, 8 voll., hrsg. von I. H.

Fichte, Berlin, Veit, 1845-46, V, p. 342, cit., in E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS II, cit., p. 191. Proprio sugli scritti
filosofico-religiosi di questo medesimo periodo della riflessione fichteana (1798-1800), Lask ebbe a scrivere nel suo, già
citato, Fichtesbuch: «Pertanto l’effettualità vivente, dacché era mero limite dell’Io puro diventa l’implesso di ogni valore
concreto, mentre la filosofia si muta in una semplice speculazione riflettente sul valore, cui manca però la facoltà di
fondare essa stessa valori». E. LASK, Fichtes Idealismus und die Geschichte, in GS, cit., I, p. 162. Per una trattazione, ben più
ampia e compiuta, sulla lettura laskiana di Fichte – in quanto determinante per la sua stessa posizione di pensiero, ben lontana
dal modello di un primato della ragion pratica – rimandiamo infra al prossimo capitolo, II. Individuazione e formazione, §§ 1-4.
2 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS II, cit., p. 194. Sulla comunicazione tra vita e speculazione, Lask scrive con

estrema chiarezza – ibidem – : «Nel contenuto delle decisioni filosofiche si può tradire l’orizzonte, la piccolezza o
l’ampiezza, la povertà o la ricchezza dell’esperienza vissuta immediata, e ciò che si sceglie per una filosofia, non dipende
da, ma in qualche modo è legato a che tipo di uomo si è». Cfr. J. G. FICHTE, Erste Einleitung in die Wissenschaftslehre (1797),
Ww. I, p. 434; trad. it. di M. Sacchetto, Prima introduzione alla dottrina della scienza, in Scritti sulla dottrina della scienza (1794-
1804), p. 365: «Quale filosofia si scelga dipende dunque da che uomo si è, perchè un sistema filosofico non è una morta
suppellettile che possiamo deporre o prendere a nostro piacimento». In merito, cfr. U. B. Glatz, Emil Lask, cit., pp. 116-
118., ove si sottolinea l’importanza del limitativo in qualche modo, in gewisser Hinsicht che Lask introduce nella citazione da
Fichte.
3 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS II, cit., p. 274.
4 E. LASK, Gibt es ein «Primat der reinen Vernuft» in der Logik?, in GS, cit., II, pp. 347- 356; trad. it. parziale di G. Gigliotti, in

G. GIGLIOTTI Il Neocriticismo tedesco, cit., pp. 219- 225.


5 E. LASK, Zum System der Wissenschaften, in GS, cit., III, p. 257: «Dunque l’esposizione dell’atteggiamento effettivo senza

giudizio di valore non intende ciò che è in verità, ma come questo viene esperito».
6 Ivi, p. 262.
7 Ivi, p. 258.
8 Ivi, p. 257.
9 In proposito, cfr. E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, pp. 196- 205. Lask distingue infatti lucidamente la

decisione filosofica dalla presa di posizione della vita [die Stellungnahme des Lebens] quali rispettivamente una presa di posizione
teoretica ed una presa di posizione intatta teoreticamente. Quanto le distingue è la tardiva ricorsività, quella differenza riflessiva,
che consente all’atteggiamento conoscitivo della filosofia di rivolgersi a ciò che è degno di riconoscimento e di vita
[anerkennungswürdig und lebenswürdig], non conservandone alcuna traccia di immediatezza. In questo modo, dunque, si
consegue il riconoscimento dell’eccentricità della Stellung filosofica rispetto a quella nella vita – la generazione di uno spazio
vettoriale a due fuochi, ove la tensione è ancora immersa nella vita – , non certo quello della mera indifferenza, o della
reciproca esclusione. «In primo luogo, la conoscenza filosofica non è affatto legata alla presa di posizione effettiva

18
Il Pathos della Forma

fondo, das Tiefe, a quella profondità che non trapassa né si identifica con il portato
contenutistico di una modalità dell’atteggiamento conoscitivo 1 . «Profondità [Tiefsinn] e
«chiarezza teoretica» non sono in opposizione, ma la profondità viene assunta dalla
chiarezza teoretica come materiale, viene sistemata, ordinata, perlustrata. Questo è lo
specifico della teoria, che l’intelletto si rivolga a ciò che è «profondo», vi acceda e lo porti
alla chiarezza» 2 . La composizione di questo tragitto è la restituzione di ciascuna delle
dispersioni, degli adombramenti, delle scialbature cui la dedizione alla conoscenza dà corso.
Non vi è mera corrispondenza, adeguazione, conformità. Piuttosto l’indicazione di una
mancanza, di una indigenza – la disidentificazione tra das Tiefe ed il sostrato, tra il fondo ed
il contenuto, tra il materiale ed il suo assetto nell’esperimento 3 – dinanzi a cui è costretta
essenzialmente a porsi la filosofia. Domandarsi della quantificazione o della
generalizzazione, della tipizzazione o dell’individuazione non corrisponde alla
determinazione di un ordito nella suddivisione delle scienze, ma all’intenzione di intendere,
in ciascuno di questi casi, in ciascuno di questi ambiti, come quel passaggio, quel ponteggio
tra Stoff e Material possa compiersi, lasciando volta per volta impensato – ed inchiarificabile
– il resto, ciò che übrig bleibt, ciò che rimane internamente fuori di ogni competenza. Né il
teorema della decisione, indicato da Lask in queste righe, risolve o risarcisce la clausola di
incompletezza: piuttosto la dichiara, la rende presente, la porta alla luce come un
argomento iperbolico, che assumerà figure eminenti nel trascorrere del suo pensiero. Il
richiamo alla decisione, nei fugaci appunti laskiani come nella celebre formulazione di

[tatsächliche] della vita, ma solo al non-sensibile; ed il non-sensibile, indipendentemente da ciò, sussiste come un’originaria
figurazione trascendente, a cui, quale correlato soggettivo, corrisponde un’esperienza vissuta, che semplicemente si rivolge
ad esso, un’esperienza vissuta che ha ceduto all’insufficienza [ein…der Unzulänglichkeit verfallens Erleben], pur non
provocando alcuna depravazione. Quanto detto si può esprimere in breve nel modo seguente: la filosofia non assume il
suo materiale dalla vita fattuale, ma dalla sfera di ciò che merita di essere immediatamente esperito, di ciò che merita di
essere vissuto. Con la trattazione filosofica delle fattualità della vita, invece, si apre un altro campo. […] In una più precisa
teoria della conoscenza, bisognerebbe elaborare il carattere puramente teoretico di queste “valutazioni del giudizio”, [di
queste “valutazioni] valoriali” [della filosofia] e mostrare che, tra loro e la presa di posizione della vita si apre il medesimo
abisso che separa la teoria e la vita, vale a dire tra la presa di posizione teoretica rispetto al non-sensibile e quella intatta
teoreticamente». [Ivi, p. 196].
Quanto l’uso linguistico laskiano sia stato determinante nella formazione di Martin Heidegger – questione su cui
torneremo in seguito, al fine di verificare proprio nella superficie linguistica un terreno di prova del confronto Lask-
Heidegger – è testimoniato, con ogni evidenza, dall’utilizzo dell’espressione verfallens Erleben, per indicare lo strato fattuale
dell’esperienza vissuta.
1 Per indicare l’attecchimento della decisione filosofia all’esperienza vissuta fattuale, nella forma della singolarità temporale, della

puntualità, Lask utilizza un esempio solo a prima vista paradossale: la figura nietzscheana del creatore di nuovi valori: «Anche
il creatore di nuovi valori è solo lo scopritore di uno strato in sé valido, il quale riflette su un materiale, che appartiene alla
sfera dell’esperibilità immediata, la cui vissutezza egli ha trovato in primo luogo solo presso se stesso. Creare nuovi valori
è solo la prima preparazione di un luogo di esperienza [erstmailges Bereiten einer Erlebnisstätte]» [E. LASK, Die Logik der
Philosophie, in GS, cit., II, p. 196]. Quanto alla ricezione laskiana di Nietzsche, numerose sono le occorrenze esplicite che si
accumulano nel System der Philosophie – in GS, cit., III, pp. 258-sgg., 274, 277 – soprattutto circa la considerazione della
Blasiertheit, di quell’apatia dell’apprensione storico-monumentale, che viene definita in virtù dell’abbandono del proprio
centro [Zentrumlosigkeit], della mancanza di una presa di posizione assoluta [das Nicht-Stellungnehmen], di un abbandonarsi,
quindi, all’assoluto [das Sichhineinversenken ins Absolute]. Il riferimento laskiano è alla seconda delle Considerazioni Inattuali, ed
in particolare al capitolo settimo, ove alla mancanza di controllo rispetto al giudizio storico si attribuisce una capacità
distruttiva, inaridente, irrigidente, sterilizzante [das schnelle Verdorren, Hart- und Unfruchtbarwerden]; cfr F. NIETZSCHE, Unzeitgemäße
Betrachtungen, Zweites Stück: Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben (1874), in Kritische Gasamtausgabe, hrsg. G. Colli
e M. Montanari, Berlin, 1967, III, 1, p. 254; trad. it. di S. Giametta, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Milano,
Adelphi, 200617, p. 60. In questo senso, pertanto, la Blasiertheit dell’ipertrofia storica contraddice l’atteggiamento filosofico –
così come contraddice «l’autentica considerazione filosofica della storia», ovvero «la considerazione assoluta e pre-
sistematica», ma già teoretica, della vita [E. LASK, Zum System der Wissenschaften, in GS, cit., III, p. 258] – non perché implica
un allontanamento, un’assunzione della distanza, ma perché a tale derealizzazione sottrae il carattere di esperienza, di
vissutezza, di paticità, condannando lo studente di storia «ad un’apatia troppo precoce» [F. NIETZSCHE, Unzeitgemäße
Betrachtungen, Zweites Stück: Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben; trad. it., cit., p. 62]. In merito alla correlazione
trofica storia-vita si rimanda a E. MAZZARELLA, Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della vita, Napoli, Guida, 1983, in part.
sulla Seconda Considerazione Inattuale, pp. 32-43. Riguardo alla lettura di Nietzsche nella Scuola neokantina badense, con
particolare interesse per l’opera di Rickert, si veda A. GIUGLIANO, Nietzsche, Rickert, Heidegger (ed altre allegorie filosofiche),
Napoli, Liguori, 1999, in part. pp. 58-59, 209-233.
2 E. LASK, Zum System der Wissenschaften, in GS, cit., III, p. 252.
3 E. LASK, Zum System der Philosophie, in GS, cit., III, p. 206: «Nell’esperimento scientifico l’effettualità è sostrato della

dimostrazione [Demonstrationssubstrat] e non materiale [Material]».

19
Il Pathos della Forma

Gödel 1 sull’inclusione di un elemento in un insieme, non si ripromette di erigere un


artificioso argine al regressus ad infinitum, piuttosto di farlo presente, di renderne
l’inoggettuale datità, nella medesima determinazione del limite. Tutt’altro che una differenza
fatta dal soggetto a sua immagine, di una subjektsgeschaffener Unterschied 2 : essa è la disposizione
della differenza originaria a parte subjecti, «nella sua proiezione rispetto all’atteggiamento
soggettivo» 3 , della differenza stante l’onticità fattuale del soggetto esperiente e conoscente,
di quella differenza, incombendo già la Preisgabe, l’abbandono della più elevata
contemplazione teoretica.
Ora, rispetto a tutto ciò, qual è la modalità di conoscenza cui la filosofia aspira,
quell’Erkennen, mediante cui guadagnare il riconoscimento del suo proprio rango di
scientificità? «Conoscere è semplicemente contemplare, esplorare il fondo, chiarificare» 4 :
Lask prova a rendere mediante l’elenco, la successione, un incremento significativo, in cui
ciascuna accezione rimanda all’allargamento, alla saturazione concessa da quella seguente.
Se infatti per filosofia si intende quella dedizione teoretica, quella concessione allo sguardo,
alla visione dinanzi a cui soltanto «il Tutto resta così come esso è» 5 , ciò è reso possibile
dalla sua proiezione ad Ergründen, a das All zu ergründen 6 , ad fundum esplorare, a rendere il fondo,
più che della totalità, in quanto totalità. E questo è restituito con chiarezza, quando
ritornando al programma di differenziazione materiale delle scienze, Lask annota – con il
suo vocabolario segnato dalla fatica del pensiero – che «la missione della conoscenza è
tanto più ampia, quanto più gravoso ed originario [ursprünglicher] è il materiale», così da
rivelare compiutamente il portato della filosofia, l’unico atteggiamento teoretico, in cui «il
Tutto si fa materiale» 7 . Ovvero, l’unica disposizione della conoscenza in cui la questione del
Material-werdung e dunque del Gegegenstand-werdung si riferisce alla non-oggettualità del Tutto.
Il riguardo dell’originarietà del fondo per la filosofia non è in primo luogo quello della
Begründung o della Fundierung 8 , quello cioè della determinazione compiuta di un sistema
scientifico, in quanto quadro legale di una Beziehungsnets 9 , di una rete di relazioni, quello della
systematische Grundlage, della fondazione sistematica che potrà compiersi solo nella
definizione riflessiva, nell’identificazione degli ambiti, delle distinte dimensioni oggettuali 10 .
Piuttosto, la filosofia si rivolge al Grund in una veste che solo successivamente potrà
accogliere la diversificazione dell’Erforschen, delle ricerche determinate: la chiarificazione che
ad essa si appunta è piuttosto un portare alla luce. Per rendere ciò, Lask fa ricorso ad un
conio latino da verbo eruere, che vale come rintracciare, scoprire; solo in virtù dell’e-ruere, del
trarre ex, da, del diroccare la parete del deposito obbiettivo perché si mostri – appunto così
come è – ciò che non viene ricompresso dalla sua propria cristallizzazione. «Dunque Eruere,
portare alla luce, come stiano le cose [Bewandtnis mit] con la totalità della regione
originaria» 11 .
Pertanto, se per das All si intende das Zusammenspiel, il gioco di insieme, combinato, la
contesa dei due elementi, delle due dimensioni, dei due mondi 12 , semplicemente come

1 K. GÖDEL, Über formal unentscheidbare Sätze der Principia Matematica und verwandter Systeme I, in «Mh. Math. Phys.», vol. 38,

pp. 173-98, 1931; trad. it. di E. Agazzi, in appendice a Introduzione ai problemi dell’assiomatica, Milano, Vita e Pensiero, 1962.
Cfr. E. NAGEL, J. R. NEWMAN, La prova di Gödel, Torino, Bollati Boringhieri, 20062.
2 E. LASK, Zum System der Wissenschaften, in GS, cit., III, p. 240.
3 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 189.
4 Ivi, p. 240. Sull’essenziale carattere conoscitivo della filosofia: «È essenziale alla filosofia semplicemente il suo carattere

conoscitivo. Tutto il resto essa lo condivide con la sfera della vita», ivi, p. 199.
5 E. LASK, Zum System der Philosophie, in GS, cit., III, p. 185: «Conoscenza = Apice; l’unico atteggiamento, che lascia il

Tutto così come esso è».


6 E. LASK, Zum System der Wissenschaften, in GS, cit., III, p. 239.
7 Ivi, p. 252.
8 Sulla differenza tra Ergründen e Begründen, rimandiamo alle considerazioni di S. NACHTSHEIM, in Emil Lasks Grundlehre,

Tübingen, J. C. B. Mohr (Siebeck), 1992, pp. 70-83.


9 E. LASK, Zum System der Wissenschaften, in GS, cit., III, p. 253.
10 «Il sistema è una compagine complessiva dei modi di far fronte [al materiale], un’unità comprensiva; è un immagine

della totalità dei contenuti, ciascuno per il suo luogo ed la sua posizione», Ivi, p. 253.
11 Ivi, p. 240.
12 «Il Tutto = il gioco d’assieme dei due mondi: questo è l’unico grande tema della scienza», Ivi, p. 240.

20
Il Pathos della Forma

dualità dell’origine, dualità nell’esperibile in generale, dualità di materia e forma, dunque poi di
sensibile e non-sensibile, effettuale e non-effettuale, temporale e non-temporale, vale a dire
in tutte quelle figure, quelle immagini parziali, che il pensiero, nel suo corso 1 , ha concesso a
tale differenza, affidandosi più alle virtù esplicative del linguaggio che al richiamo, alla
pretesa della questione, allora, in che modo nella filosofia, e solo in essa, si inverano
mutuamente il das All ergründen ed il das All zu Material werden?
«Da ciò nascono [entspringen] tutte le formazioni di valore…Questa scienza, che esplora a
fondo la totalità, è la scienza, scienza senza aggiunte, scienza κατ’ ξοχΗν: la filosofia è la
scienza originaria [Urwissenschaft]» 2 . L’aspirazione della filosofia alla scientificità è il suo
essenziale rimando alla scienza dell’origine, Urwissenschaft, vale a dire comprensione, e non
meramente esposizione, abbandono a, dell’origine di ogni atteggiamento conoscitivo,
origine della materialità della scienza. «Tutto ha un assoluto senso e significato, dunque
tutto è oggetto [Gegenstand] della filosofia» 3 . La filosofia è la dedizione alla totalità, non in
quanto compiutezza, ma come illimitatezza pre-materiale – illimitatezza di quanto non ha
ancora assunto la posizione di materiale –: quella mancanza di limite che precede la
determinazione di materia, in virtù della quale qualcosa si fa oggetto della riflessione, quanto al
senso ed al significato, quanto alla distinzione ed alla complicazione di senso e significato.
La filosofia appare dunque a Lask come Urwissenschaft, in cui il rispetto teoretico si rivolge
alla propria alterità pre-teoretica, poiché essa non si vede assegnato il confine di una
configurazione oggettuale, il confine segnato da una specifica ed einseitig, unilaterale,
tipologia di oggetto.
Tale rango di originarietà non pertiene dunque alla filosofia in quanto disposizione dei
principi delle scienze, quale Wissenschaftslhere, dottrina della scienza intesa, tuttavia, come
metodologia 4 , cui spetta la classificazione e l’ordinazione dei distinti ambiti teoretici, come
comprensione logica delle scienze positive 5 . La filosofia non coincide con la dottrina della
scienza, ove per quest’ultima si intenda la fondazione logica dei domini della conoscenza,
come traduzione nei termini di una tecnica normativa del retto pensiero applicata a
determinati perimetri oggettuali, a specifiche formulazioni conoscitive; né coincide con la
dottrina della scienza, in quanto determinazione di un’unità, frantumata nelle singole
pertinenze del sapere, e da esse ricomponibile. La filosofia non attende alla dottrina della
scienza né come interezza né come unificazione.
Proprio nel ripensamento sulla Wissenschaftslehre, sulle difficoltà concettuali a cui essa dà
adito, dunque nella ripresa, tutt’altro che univoca, dell’Idealismo tedesco, muovendosi
eminentemente tra Fichte ed Hegel, tra due differenti presentazioni del sistema delle
scienze, nel confronto con le ipotesi di condotta, logica e metodologica, di Cohen e soprattutto
di Natorp, in virtù di un sempre più profondamente condiviso rimando alle dottrine
platoniche, Lask riafferra la distinzione tra logica e dottrina della scienza, come frattura tra logica
della filosofia e riflessione meta-teoretica. Se infatti la seconda – la riflessione meta-teoretica –
riguarda la composizione regolativa, quindi riflessiva, delle determinazioni oggettuali così
come compaiono nelle singole scienze, vale a dire l’assunzione dell’oggetto natura quanto

1 E. LASK, Die Logik der Philosophie und Kategorienlehre, in GS, cit., II, p. 5: «In migliaia di variazioni di nome e di senso è

stato ripetuto il dualismo, che originariamente Platone aveva coniato, questa teoria delle due sfere; in tali contro-posizioni
[il dualismo, ndt.] è stato espresso come sensibile e soprasensibile, αι̉σθητόν e νοητόν, sensibile ed intelligibile, apparenza
[Erscheinung] e vera effettualità, apparenza ed idea, materia e forma, materia e spirito, finito ed infinito, determinato ed
indeterminato, empirico e sovra-empirico, relativo ed assoluto, natura e ragione, natura e libertà, temporalità ed eterno».
2 E. LASK, Zum System der Wissenschaften, in GS, cit., III, p. 240.
3 Ivi, p. 240.
4 Cfr. E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 187:«La suddivisione «teoretica della conoscenza» dell’interezza

dell’ambito teoretico [secondo le loro determinazioni costitutive, dunque secondo le modalità oggettuali] si distingue a sua
volta dalla classificazione metodologica che spetta alla dottrina della scienza, a cui essa soltanto è chiamata a rendere
l’unico fondamento [Fundament] possibile».
5 Ivi, p. 200, nota 146: «Il compito [della metodologia o dottrina della scienza] non è di concepire logicamente le scienze

«positive», che si trovano depositate nei libri scritti, ma di riflettere sulle direzioni in sé possibili, e su quelle che
pretendono ad esserlo – ovvero come si pretenda che siano aperte – dei modi in cui scientificamente si padroneggia la
verità».

21
Il Pathos della Forma

alle Naturwissenschaften – dell’effettualità in quanto concetto di natura, concetto generale di


natura – o la posizione dell’oggetto storia o cultura o vita nelle Kultur- o Geisteswissenschaften; la
prima – la logica della filosofia – intende per se stessa non la comprensione della verità
assoluta, ma «l’esplorazione a fondo dell’assoluta verità sull’assoluto» 1 , ovvero l’intenzione
di quel fondo che è la Schrankenlosigkeit, la mancanza di limiti della verità.
«Se la logica del futuro vorrà rivolgersi anche alla teoria della conoscenza filosofica, allora
essa dovrà imbattersi nello stesso fatto di un atteggiamento teoretico «prescientifico»» 2 .
Questo adesso pare essere il senso ancora celato della decisione. Quella decisione che
rappresenta allo stesso tempo una sospensione ed una rottura, un distanziamento – come è
stato scritto in precedenza – dai depositi, dalle concrezioni conoscitive, che costituiscono il
terreno indiscusso delle nostre credenze abituali, quotidiane, non più di quello, altrettanto
non sottoposto ad esame, che sostiene la partizione delle scienze e la loro successiva
ricomposizione formale. Quella decisione, in se stessa non teoretica né scientifica, che
costituisce la precedenza e l’anticipazione di qualsiasi teoresi quale scienza, ove non è
ancora lecito contrapporre «le decisioni della volontà, della personalità rispetto
all’atteggiamento teoretico» 3 , non però in virtù della loro identificazione o coincidenza.
Piuttosto, per l’impossibilità di separarli se non piegando per uno dei capi della distinzione,
vale a dire se non assumendo per sé uno dei due luoghi costituiti, indetti da quella apertura.
La filosofia, dunque, non è scienza originaria, in quanto preteoretica, ma perché riguarda
la pre-teoreticità 4 , vi si regge, e vi ricade, rinvenendo in essa un luogo di esperienza, vale a
dire la posizione, Stätte, in cui pre-trovare, Vor-finden 5 , trovare già la consistenza del proprio
materiale, pur nella sua pre-materialità; essa fa questione dell’origine di ogni theoretische
Hingabe, di ogni dedizione o rivolgimento teoretico nella disposizione preteoretica: nella
decisiva disposizione preteoretica della materialità. La filosofia è rendere il fondo di questo
innesto.
Eppure, nell’andamento agitato e spesso, manifestamente, brachilogico 6 del Nachlaß, resta
difficile discernere tra i rimandi, le revisioni della sua tavola teorica, le correzioni, dai
ripensamenti che comprendevano il momento, i tempi della sua vicenda personale, in cui,
ad esempio, annotando le opere, talvolta riscrivendone interi paragrafi, Lask andava
legando insieme la ripresa dell’atteggiamento e della disposizione etica e la connaturata
insoddisfazione per lo stadio cui erano giunte le sue ricerche logiche, in una contesa
esperita tra vita e conoscenza, tra la vita propria e la filosofia. Così l’incompletezza e la
cursorietà, da cui erano affetti gli scarni appunti tracciati nell’estate del 1913 sul problema
dell’apparato logico, facevano idealmente da ponte alla posizione di una domanda che tornava
a farsi largo: quella sull’individualità, o meglio sull’inconcludenza del principio di
differenziazione materiale, della dirimenza dell’oggetto 7 , riguardo all’atteggiamento etico,
personale.

1 Ivi, p. 200.
2 Ivi, p. 185.
3 E. LASK, Zum System der Wissenschaften, in GS, cit., III, p. 252.
4 È interessante notare che proprio nella definizione della filosofia come scienza originaria, che pur muovendo

dall’immediata esperienza vissuta del materiale non-sensbile, del valore, dell’Eingehen des Werts ins Erleben, dell’entrare
ritraendosi del valore nella vita, non per questo può distinguersi quanto alla propria pre-teoreticità, vi sia una traccia rilevante
della differenza – e quindi della possibilità medesima del confronto – tra Lask ed Heidegger. Riguardo a ciò può essere
chiarificatrice una lettura del Krieg-notsemster 1919, Zur Bestimmung der Philosophie, ove Heidegger, muovendosi su un terreno
contenutistico e testuale molto prossimo ancora a quello laskiano, giunge ad una posizione essenzialmente differente, e
carica di significato, sino all’assunzione della fenomenologia come scienza originaria pre-teoretica. In proposito, cfr. M.
HEIDEGGER, Zur Bestimmung der Philosophie (Kriegnotsemster 1919; Sommersemester 1919), in GA, cit., Abt. II, Bd. 56/57,
hrsg von B. Heimbüchel, 19992; trad. it., Per la determinazione della filosofia, cit., in part. pp. 71- 119. Perché il versante
laskiano della questione in merito alla pre-teoreticità emerga in tutta la sua ampiezza, rimandiamo al prossimo capitolo, § 1,
su concettualizzazione prescientifica e precomprensione.
5 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 195: «Bisogna soltanto indicare la sfera, in cui [il materiale non-

sensibile] soltanto può essere vissuto, laddove sia in generale vissuto, il suo teatro per l’esperienza vissuta [Erlebnis-
schauplatz], dunque la sua pre-trovabilità [Vor-findbarkeit] nella vita».
6 E. LASK, Zum System der Philosophie, in GS, cit., III, p. 225.
7 Ivi, p. 235.

22
Il Pathos della Forma

Allontanandosi per l’ultima volta dalle rive del Neckar, Lask tornava ad articolare quella
domanda che lo aveva tratto agli studi filosofici: «quale fosse il concetto essenziale di
individualità per il concetto di storia» 1 , ovvero come fosse possibile concepire
essenzialmente l’individualità nell’ambito tracciato dal carattere evenemenziale della storia.
«Ci sono due tipi di individualità. La non sistematizzabilità in senso proprio ed assoluto,
cioè l’individualità della cosa = del senso, dell’opera (opera d’arte) e l’individualità della
persona. L’altro concetto di individualità, che è determinante anche per il metodo
dell’individuazione, è costruito mediante l’unicità spazio-temporale» 2 . Tra questi due
concetti, appena sgrossati, che corrispondono precipuamente al darsi dell’individuale, al suo
farsi presente nella consistenza dell’opera, del Werk, del mettersi in opera quale compito
proprio della persona, ed al suo ricomporsi nella successività discreta del particolare, Lask
scavò il solco della decisione, l’irriferibilità mimetica dell’atto a sé più proprio: sich befandt, si
trovò e si risolse a rivaleggiare con la dignità del proprio pensiero. Abbandonando alla
memoria i suoi manoscritti, sembrava calpestare ancora una volta il passo, la frattura che
insidia «la vita personale ed il legame vitale con il fondamento oltre-finito della vita [mit dem
überendlichen Lebensgrund]» 3 .

§ 2. Un quadro d’epoca. La formazione e l’irregolarità.

Sul finire del 1904, Emil Lask giunse ad Heidelberg, seguendo Windelband che già
l’anno precedente era stato chiamato alla Karl-Ruprecht-Universität 4 .
Erano appena terminati gli anni del soggiorno berlinese (1901-1904), ove aveva affinato
le sue competenze di dottrina dello stato e filosofia del diritto, immergendosi appieno nella
comprensione dei metodi della giurisprudenza positiva 5 , e frequentando le letture e le
lezioni di Simmel e di Dilthey 6 . Si era già concluso il primo tratto della sua formazione,
avendo conseguito, nel 1901, a Friburgo, sotto la guida di Rickert, il Doktordiplom con summa
cum laude negli studi filosofici, affiancando ad essi, come materie secondarie, diritto
pubblico ed economia politica. Sembrava fosse così disegnata l’ampiezza degli interessi di
quel giovane studioso, le cui scelte, le cui indicazioni di ricerca si erano ormai fatte,
ancorché intempestivamente, evidenti. Avendo assolto i suoi doveri militari, tra l’ottobre
del 1895 e lo stesso mese dell’anno seguente, Lask decise di proseguire i suoi studi, iniziati
durante il semestre estivo del 1894 presso l’università friburghese, a Strasburgo, per il
Winter-Semester 1896/1897. La frequentazione di quell’ateneo di frontiera, oltre che
permettergli la frequentazione dei corsi di politica economica tenuti da Georg Friedrich
Knapp, esponente della scuola storica, studioso della formazione culturale della moneta, e
quelli di filosofia di Theobald Ziegler, gli concesse di compiere quegli incontri che furono

1 E. LASK, Zum System der Wissenschaften, in GS, cit., III, p. 290.


2 Ibidem.
3 E. Lask, Zum System der Philosophie, in GS, cit., III, p. 225.
4 Le fonti biografiche sono essenzialmente: 1) i Personalakten Emil Lask (Universitätsarchiv Heidelberg, PA 1905); 2) il

repertorio di lettere conservato nel Nachlaß, presso l’Heidelberg Universitätsbibliotheck, con la segnatura 3820; 3) lo
Schizzo biografico della sorella Berta Lask, comprendente uno scambio epistolare (dattiloscritto, 6 fogli datati gennaio 1923;
Nachlaß Emil Lask. Heid. Hs. 3820, 266; 4) il romanzo autobiografico di BERTA LASK, Stille und Sturm, pubblicato in due
volumi solo nel 1955, ad Halle, presso Mitteldeutschland Verlag.
Tra coloro che hanno ripreso, seppur selettivamente le fonti conservate nel Lask-Nachlaß: H. SOMMERHÄUSER, Emil
Lask in der Auseinandersetzung mit Heinrich Rickert, Berlin, Ernst-Reuter-Gesellschaft, 1965; S. NACHTSHEIM, Emil Lasks
Grundlehre, Moher, Tübingen, 1992; R. HOFER, Gegenstand un Methode, Untersuchungen zur frühen Wissenschaftlehre Emil Lasks,
Würzburg, Königshausen & Neumann; A. ANTER, Männer mit Eigenschaften. Max Weber, Emil Lask und Georg Simmel als
literarische Figuren in Berta Lasks Roman “Stille und Sturm”, in «Literaturmagazin», 30 (1992), pp. 156-169; U. B. GLATZ, Emil
Lask: Philosophie im Verhältnis zu Weltanschauung, Leben und Erkenntnis, Würzburg, Königshausen und Neumann, 2000; C.
TUOZZOLO, Emil Lask e la logica della storia, Milano, Franco Angeli, 2003.
5 È interessante notare, seguendo le tracce della ricostruzione di U. B. GLATZ, Emil Lask: Philosophie im Verhältnis zu

Weltanschauung, Leben und Erkenntnis, cit., p. 14, come negli anni berlinesi Lask si fosse avvicinato, anche se per un breve
periodo di tempo, alla socialdemocrazia tedesca, per il fermento intellettuale ed etico che attorno ad essa, proprio nella
rinata capitale, andava fiorendo.
6 B. Lask, Stille und Sturm, I, cit., p. 293; cfr. U. B. Glatz, Emil Lask: Philosophie im Verhältnis zu Weltanschauung, Leben und

Erkenntnis, cit., p. 244.

23
Il Pathos della Forma

«di significato decisivo per il loro insegnamento accademico in filosofia» 1 : Paul Hensel e
Wilhelm Windelband.
Alle sue spalle, si ergeva già, maturata nell’intenso semestre friburghese, l’elezione del
magistero di Heinrich Rickert, il quale gli «aveva dischiuso, all’inizio degli studi, il senso
della ricerca filosofica, esercitando un influsso determinante per le sue aspirazioni
scientifiche» 2 . Già nel primo semestre, che Lask trascorre frequentando il seminario
giuridico, pur manifestando sin da allora il proprio proposito di spingersi verso gli studi
filosofici 3 , egli si indirizza alle lezioni di quello che rimarrà il suo primo maestro nella filosofia,
allora ancora Privatdozent, presso l’antica università del Wüttenberg. La ricchezza di quei
primi anni di dedizione agli studi è testimoniata, oltre che dalla frequentazione dei corsi di
Alois Riehl, dall’annodarsi di un altro dei legami, di ricerca e di vita, che accompagneranno
Lask fino a tutto il periodo heidelberghese: quello con Max Weber, presso cui seguiva allora
le lezioni di Nationalökonomie.
La determinazione dell’ambito e del tema della dissertazione del 1901, a conclusione del
suo corso accademico, rivela con chiarezza i riferimenti ed i rimandi che caratterizzavano il
profilo del giovane studioso. Nella ricerca sull’idealismo fichteano e la storia, veniva dichiarato,
sin dal Vorwort, l’intendimento di legare insieme l’analisi del concetto trascendentale di caso, cui
già Windelband aveva dedicato la sua prima opera, Die Lehre vom Zufall, e la posizione della
«domanda sulla peculiarità logica dell’oggetto della storia» 4 , che risaliva ai contributi rickertiani,
principalmente dei Grenzen. Quando il testo venne dato alle stampe a Tübingen, nel 1902,
in una versione accresciuta rispetto a quella che funse da piano della discussione del
Doktorprüfung dell’anno precedente, comprendendo una ben più accurata riflessione sul
pensiero fichteano, con una spiccata attenzione storico-filosofica per le differenziazioni
lungo le sue fasi distinte, ed includendo una ben più acuta considerazione delle relazioni
metodologiche tra storia e comunità, che preludevano all’ulteriore accostamento alla gamma dei
fenomeni giuridici 5 , la sua eco si diffuse non solo nella cerchia dei lettori più prossimi, più
affini al suo Doktorvater, Rickert, attirando l’attenzione di Ernst Troeltsch e di Max Weber,
ma investì uno spettro di risonanza maggiore, tanto da toccare anche Edmund Husserl 6 .
La lunga permanenza ad Heidelberg di Lask rappresentò il periodo più ricco di incontri e
frequentazioni, e più prolifico per le sue ricerche. La pubblicazione della Rechtsphilosphie nel
1905, preparata per l’abilitazione presso Windelband durante il semestre invernale
1904/1905, ne rappresentò un passaggio essenziale. Nonostante l’attrazione già esplicita
per gli interessi filosofici, le riflessioni sul diritto furono tutt’altro che un episodio; non
rappresentarono, il punto più periferico delle sue ricerche, da cui avrebbe riguadagnato ben
presto il centro, formato «da quei problemi essenzialmente logici e teoretici della
conoscenza, che lo occupavano scientificamente» 7 . È vero, piuttosto, che a più riprese,
durante le sue lezioni, Lask tornò alle argomentazioni circa la Rechts- und Sozialphilosophie e la
dimensione propria della personalità etica, lasciata come questione dal Formalismus der

1 E. LASK, Fichtes Idealismus und die Geschichte, in GS, cit., I, p. 5.


2 Ibidem.
3 Vita Dr. Lask (4 fogli), p. 1: in Personalakten Emil Lask. Universitätsarchiv Heidelberg. Cfr. U. B. GLATZ, Emil Lask:

Philosophie im Verhältnis zu Weltanschauung, Leben und Erkenntnis, cit., p. 13.


4 E. LASK, Fichtes Idealismus und die Geschichte, in GS, cit., I, p. 3.
5 La prima edizione del Fichtes Idealismus und die Geschichte, rispondente alla versione discussa come Inaugural-Dissertation per

il conseguimento della laurea in filosofia, venne stampata a Berlino, nel 1902, presso gli editori Imberg & Lefson,
comprendeva solo la prima parte, recante il titolo, I presupposti logici del razionalismo di Kant ed Hegel e la posizione di Fichte nello
sviluppo della speculazione tedesca. La seconda edizione dello stesso anno, ma pubblicata a Tubinga, presso J. C. B. Mohr (Paul
Siebeck), includeva invece una seconda parte, Razionalismo fichteano ed irrazionalità dell’empirico, ed una terza parte, sulla
Filosofia della storia di Fichte.
6 A questo riguardo rimandiamo alle ricerche di I. KERN, contenute nella prima parte del suo Kant und Husserl, cit., pp. 13-

15, ove elencando le letture e gli appunti di Husserl, nei suoi anni giovanili di studio fino alle Ricerche Logiche, indica la
conoscenza e la lettura parziale del Fichtesbuch laskiano, accanto a quella dei testi di Windelband, Rickert, Riehl, Helmotz,
Vaihinger, Cohen, Natorp e Cohn. Cfr. inoltre l’elenco completo della letteratura kantiana e neokantiana presente nella
biblioteca privata di Husserl, ivi, pp. 428-435.
7 H. RICKERT, Persönliches Gleichwort, in E. LASK, in GS, cit., I, p. IX; J. COHN, Rezension zu E. Lasks «Gesammelte Schriften»,

in «Kantstudien», 29 (1924), pp. 482-488.

24
Il Pathos della Forma

kantischen Ethik, cui avrebbe dovuto dedicare un Problemvortrag, già nel dicembre 1904, e che
«durante il periodo in cui fu combattente in guerra, aveva progettato una conferenza sulla
filosofia del diritto da tenersi presso la Kantgesellschaft» 1 . Le riflessioni sulla filosofia del
diritto rispetto alla posizione filosofico-culturale di Kant – così come emergevano dalle righe del
Fichtesbuch – reclamavano un’esposizione che legasse assieme i problemi filosofici quanto alla
storia e quanto al diritto, al fine di redigere una trattazione esauriente della Kulturphilosophie des
deutschen Idealismus 2 . Né mancarono le ripercussioni di questo breve, ma «pioneristico» 3 testo
nel medesimo ambito degli studi giuridici e giusfilosofici, come dimostrano le indicazioni di
Hermann Heller, di Hans Kelsen, e, con ancora maggiore vivezza, di Gustav Radburch, che
riprendendo la differenza tra una comprensione del diritto individualistica ed una
oltreindividualistica, ricordava come «l’impulso decisivo in questa domanda fondamentale»4 gli
fosse dovuta in grazia delle riflessioni laskiane contenute nel suo contributo alla filosofia
del diritto.
Conseguita l’abilitazione, Lask perseguì le sue connaturate inclinazioni all’irregolarità
accademica ed alla partecipazione a quella vita culturale che si diffondeva ad Heidelberg –
in colloqui, confronti, discussioni, scambi, di cui molte sono le tracce nelle sue opere e nei
suoi appunti – dipingendo un complesso quadro d’epoca. Pur conservando la sua marginalità
– Lask rimase Privatdozent fino al febbraio del 1910, divenendo poi professore straordinario ed
infine, sotto l’invito di Windelband, condirettore del Seminario Filosofico, nel 1914 – egli
andava guadagnando una posizione ed una dignità di ascolto molto incidenti. Quella
conoscenza con il docente friburghese di Nationalökonomie si trasformò, ben presto, in una
vicinanza di vita: la quotidiana frequentazione del desco di casa Weber, lo vide assurgere a
voce partecipe e costante di quel Max-Weber-Kreis, che avrebbe segnato di sé quei primi anni
del nuovo secolo. Nella casa sulla riviera meridionale del Neckar, «c’era quasi ogni giorno
qualcuno: tra gli studiosi, soprattutto Troeltsch, Jellinek, Gothein, Voßler e Lask. Del
mondo che sta al confine tra scienza ed arte, i coniugi Jaffè e gli Schmid, poi Gruhle, Mina
Tobler e altri. […] Con gli studiosi più anziani si svolgevano ogni volta importanti
discussioni scientifiche. Circondati dalla nuvola di fumo dei sigari, gli ingegni si infiammano
a vicenda – è uno spettacolo avvincente quando le conoscenze acquisite con la lunga
disciplina erompono come correnti vivaci, tinte della personalità individuale, e generano
con il loro connubio nuove vedute» 5 . Così dall’incontro tra generazioni diverse e distanti,
tracciati di vita che si incrociavano in quel cenacolo intellettuale, si generava un prisma di
interessi, sollecitazioni, richiami, favorendo la rarefazione di un’atmosfera, avida di
intravedere i suoi sviluppi. Si era, in tal guisa, disegnato il giardino dell’Heidelberg-Kreis, ove la
più lucida ed avveduta intellettualità tedesca attraeva le mire e le aspirazioni provenienti sia
dall’oriente russo, dopo il fallimento della Rivoluzione del 1905, sia da quello estremo della
Ostjudentum 6 , che affollava gli studi, già solidamente antichi, di letteratura e cultura
giapponese.

1 G. LUKÁCS, Emil Lask. Ein Nachruf, Kantstudien, Bd. 22, pp. 349-370; trad. it di P. Pullega, Emil Lask, in Sulla povertà di

spirito, Bologna, Cappelli 1981, p. 174.


2 E. LASK, Fichtes Idealismus und die Geschichte, in GS I, p. 248: «Un riflesso caratteristico di questo generale punto di vista

filosofico-culturale è raccolto in primo luogo dalla filosofia del diritto kantiana, in cui egli si adopera vanamente per
superare in maniera sistematico-concettuale l’atomismo giuridico della dottrina del diritto naturale»; cfr., ivi, nota 468. Al
riguardo della tematizzazione circa la Rchtsphilosophie all’interno di un quadro filosofico e metodologico più vasto, valga il
rimando alle minuziose note sulla formazione del Methodenkonzept in der Frühphase di R. HOFER, in Gegegenstand und Methode,
cit. , p. 21: «La revisione del concetto di metodo nella prima fase è testimoniata già nella lettera che Lask scrive a Rickert il
5.8.1903. Dalle questioni metodologiche egli passa chiaramente sempre al problema di una fondazione teoretico-conoscitiva della
metodologia. Egli infatti sostiene che «non possa darsi naturalmente alcuna filosofia giuridica senza una contemporanea
fondazione dell’intera struttura teoretico-conoscitiva e dunque un orientamento ai problemi puramente logici»[5.8.1903]».
3 G. LUKÁCS, Ein Nachruf, in «Kantstudien», Bd. 22, cit.; trad.it di P. Pullega, in G. LUKÁCS, Sulla povertà di spirito, cit.,

pp.171-195.
4 G. RADBRUCH, Einführung in die Rechtswissenschaft, Leipzig, Quelle & Meyer, 19194, p. 12, nota 1.
5 M. WEBER, Max Weber. Una biografia, cit., p. 445.
6 Sul rispecchiamento tra la immagine di Oriente, disegnata in ambito tedesco tra i due secoli, XIX e XX, e la fascinazione

che la gioventù orientale subiva per la forma culturale mitteleuropea, rimandiamo a M. CACCIARI, Dallo Steinhof, Milano,
Adelphi, 2005, in part. L’arte del tiro con l’arco, pp. 208-223. Il racconto dell’intreccio della «decisiva presenza

25
Il Pathos della Forma

«Molti nuovi personaggi» – come ricorda nelle sue memorie Marianne Weber –
«contribuiscono al nucleo accademico della vita intellettuale di Heidelberg: giovani che in
tutti i vari stadi della loro evoluzione e privi di un ruolo istituzionale, aspiravano ad entrare
un giorno nella ristretta cerchia accademica, ovvero vogliono soltanto vivere in
un’atmosfera che conferisce valore intrinseco al lavoro intellettuale. Le correnti moderne
affluiscono dall’esterno verso la riva ospitale della piccola città. I giovani stabiliscono un
diverso stile di vita, al di là delle convenzioni, allato alle strutture consolidate della
generazione precedente. Comincia a svilupparsi una libertà sociale quale sino ad allora era
stata di casa soltanto negli ambienti degli artisti a Monaco» 1 . Di ciò, Emil Lask sembrava
essere lucidamente esempio: in virtù dell’intreccio nel suo animo dell’acume intellettuale e di
un’arguzia piena di spirito, che spesso sembrava liberarlo dalla malinconica serietà della sua natura 2 , egli
si trovò a rappresentare una permeabile frontiera tra ambienti, non solo diversi, ma anche
distanti, tra arte, scienza, musica, tra l’amicizia con la musicista svizzera, Mina Tobler, e
quella con la famiglia dello psicanalista, Otto Gross. Alla platea ideale, che aveva tracciato
attorno a sé, anche in grazia delle lezioni che andava tenendo sin dalla Antrittvorlesung dell’11
gennaio 1905, su Hegel nel suo rapporto con la visione del mondo dell’Illuminismo, partecipavano
con quella caratteristica discontinuità, che faceva aumentare il numero dei suoi Schüler a
scapito di quello dei suoi Hörer, Georges Gurvitch, Karl Jaspers 3 , Georg Lukács 4 , Helmuth
Plessner, Fedor Stepun, Wihlelm Szilasi, Eugen Herrigel e Martin Heidegger.

dell’Ostjudentum nella cultura della Donaumonarchie» e la nostalgia tedesca per l’Oriente, o più semplicemente, la via tedesca
all’Oriente, muove dalla riflessione frontaliera di Eugen Herrigel, allievo proprio di Emil Lask ad Heidelberg, curatore dei
suoi Gesammelte Schriften, trasferitosi poi nel maggio del 1924 alla Università Imperiale Tôhoku di Sendai, in Giappone, ove
condusse cinque anni di corsi – sino al 1929, quando fu chiamato dall’Università di Erlagen – sulla logica e la teoria della
conoscenza nell’Idealismo tedesco, e, parallelamente, continuò il confronto tra la mistica cristiana, in particolare Meister Ekhart,
e quella buddista-zen. Da questa figura infatti dipartono sia la recezione giapponese di Lask sia un rinnovamento
dell’attenzione e della comprensione del limite orientale – specialmente nel suo Zen in der Kunst des Bogenschiessens, trad. it, Lo
Zen e il tiro con l’arco, Milano, Adelphi, 1975 – , attorno alla centrale «critica dell’intenzionalità, in quanto categoria-chiave
del nihilismo».
In merito, cfr. T. HAJIME, Lasks Logik, in «Shisô», n. 48, 1925; N. GÜLBERG, Von der Logik des Gegenstands zur Logik des
Ortes - Emil Lask und Nishida Kitarô, in K. AKIRA (a cura di) Verschiedene Erscheinungsformen der Ortstheorie, 1997, pp. 130-153;
ID., Tanabe Hajimes Stellung in der japanischen Lask-Rezeption (Anhang, Übersetzung von Tanabe: "Lasks Logik" und Lask-
Bibliografie), in «Humanitas» (The Waseda University Law Association), n. 36, 1998, pp.33-83; ID., Eugen Herrigels Wirken als
philosophischer Lehrer in Japan (1), in «Waseda-Blätter», n. 4, 1997, pp. 41-66; ID., Eugen Herrigels Wirken als philosophischer
Lehrer in Japan (2), in «Waseda-Blätter», n. 5, 1998, pp. 44-59. Tali contributi illuminano, tra l’altro, il terreno che accolse
nell’Impero del Sole la riflessione di M. Heidegger, cfr. R. ÔHASHI, Die frühe Heidegger-Rezeption in Japan, in H.BUCHNER (a
cura di), Japan und Heidegger. Gedenkschrift der Stadt Meßkirch zum hundertsten Geburtstag Martin Heideggers, Sigmaringen (JAN
THORBECKE), 1989, pp. 23-37, e J. LAUBE [trad.], Hajime Tanabe: Die neue Wende in der Phänomenologie - Heideggers
Phänomenologie des Lebens, ivi, pp. 89-108.
1 M. WEBER, Max Weber. Una biografia, cit., p. 447.
2 Ivi, p. 446.
3 Raccontando del suo apprendistato filosofico, svolto durante il periodo del volontario assistentato presso la clinica

psichiatrica di Franz Nissl, Jaspers scrive nel Poscritto alla sua Filosofia: «Con ciò non pensavo ancora di fare della filosofia
la mia professione. Ero psichiatra. Quando il filosofo Lask, di cui frequentavo il seminario e col quale discutevo
apertamente con un atteggiamento contrario, ma amichevole sul piano personale, pensò un giorno (1911) con diffidenza,
evidentemente senza conoscere i miei progetti, all’abilitazione in filosofia, non potei fare a meno di meravigliarmi perché
l’idea mi era del tutto remota. Eppure, non indifferente alla forza penetrante e alla serietà del suo pensiero, avevo sempre
avuto modo di cogliere la sua scientificità». K. JARSPERS, Philosophie, 3 Bde, Berlin, Springer; trad. it. a cura di U.
Galimberti, Filosofia, Torino, Utet, 1978, p. 69.
4 È interessante notare, nella lettura dell’epistolario di G. Lukács (1902- 1917), come, nella filigrana dell’ingresso del

giovane filosofo ungherese nell’ambiente accademico ed intellettuale di Heidelberg, databile all’inverno 1911-1912, dopo
un fugace soggiorno fiorentino, ove aveva «cominciato a lavorare al suo sistema estetico e di filosofia dell’arte», si possa
comprendere la posizione che ad Emil Lask fosse riconosciuta. Nella lettera, del 25.05.1912, che G. Simmel scrive a Lukács,
in risposta alle sue sollecitazioni per una presentazione al corpo filosofico dell’università heidelberghese, si legge
dell’intermediazione di Lask (confermata dalla lettera di quest’ultimo dell’11.06 seguente) al fine di conseguire un contatto
con Windelband. Qualche anno più tardi, in una lettera scritta da Weber, il 14.08.1916, testimonianza dell’impegno e
dell’interessamento per l’opera lukácsiana che andava facendosi largo, ove però risultavano vieppiù evidenti, le difficoltà a
riconoscergli dignità di cattedra, l’ormai vecchio e venerabile professore richiama a documento proprio il parere di Lask:
«Devo essere franco ed aggiungere una cosa. Un Suo ottimo amico – insomma Lask – era di questa opinione: è un
saggista nato, non rimarrà al lavoro sistematico (a regola d’arte); perciò non dovrebbe fare l’abilitazione. Infatti il saggista
non è sicuramente inferiore neppure di un capello al sistematico che lavora a regola d’arte – semmai proprio il contrario!
Ma non c’entra con l’università e non vi fa il bene né del lavoro né soprattutto di se stesso». Cfr. E. KARADI, E. FEKETE,
Introduzione a G. LUKÁCS, Epistolario 1902-1917, a cura di E. Karàdi e E. Fekete, trad. it di A. Scarponi, Roma, Ed.

26
Il Pathos della Forma

Quella fama defilata, riottosa a qualsiasi riduzione della propria opera, se non a quella
essenziale ed arcana forma di debito, che intravedeva nel proprio pensiero, finiva per
mostrarlo come «un filosofo estraneo al mondo […], dimorante sui picchi freddi e innevati
della contemplazione» 1 . Di tale liminarità fu testimonianza concettuale la sua
partecipazione al terzo congresso internazionale di filosofia, tenutosi ad Heidelberg nel
1908, con un tagliente contributo dedicato alla domanda C’è un “primato della ragion pratica”
nella logica?, che raccoglieva insieme le sollecitazioni sulla metodologia scientifica e sullo
statuto proprio della logica, derivanti dalla attenta lettura dei Prolegomeni husserliani, ed una
netta presa di posizione polemica rispetto al modello rickertiano della lettura di Fichte,
dunque sull’assetto teoretico della nozione di valore. Quel breve Vortrag rappresentò un
irrimediabile scarto, che consegnò Lask alla più densa e matura fase del suo lavoro
filosofico, passando dalla fatica della preparazione e del silenzio, alla determinazione
dell’espressione e del deposito letterario 2 .
Era oramai giunta a compimento la definizione della sua propria figura di intellettuale:
lontano dalla piccola città di Wadowice, in quella Galizia austriaca, che fungeva da modello
agli irredenti polacchi al di là del confine, così come lontano dalla sua originaria confessione
ebraica, da cui si era discostato già ventenne, aderendo al protestantesimo. L’assestamento
della sua cultura nazionale, iniziata sugli scranni del ginnasio umanistico di Falckenberg, nella
marca prussiana del Brandeburgo, ove suo padre si era trasferito – impiantando una piccola
fabbrica di carta – per favorire l’educazione dei figli –, e maturata nelle letture e nelle
ricerche giuridiche (di cui le nozioni di comunità, di nazione e di stato costituivano
agonisticamente il fulcro), sembrava ormai evidente nella statura definita dello studioso, del
filosofo, dell’uomo pubblico.
La sua dimidiata partecipazione all’ambiente accademico heidelberghese – esemplare nella
rinnovata articolazione accademica che l’Impero unificato stava tentando di costruire 3 – ne
rappresentò, pertanto, una prova, un rivelatore corpo a corpo, l’indice principale di ciò che
assunse come la propria historische Situation 4 . Sarebbe artificiosa la riduzione della figura
intellettuale di Emil Lask alla coppia insider / outsider, che P. Gay 5 utilizza per descrivere con
acribia il panorama culturale tedesco tra la riunificazione e Weimar. Piuttosto le lacune, i
vuoti, che nascevano dal grembo del suo erracinement, di quella inappartenenza che avrebbe
cercato solo vanamente di redimere, mediante l’afferramento di un’identità di pensiero, di cui
intendeva raccogliere il terreno, rappresentarono gli squarci profondi, attraverso i quali egli
si rese capace di intravedere le inquietudini del suo tempo. Quella Ungleichkeit, quella

Riuniti, 1984, pp. 21-sgg. Sul rapporto Lask-Lukács, si veda L. GOLDMANN, Introduzione a Kant. Uomo, Comunità e Mondo
nella filosofia di I. Kant, Milano, 1972, pp. 225-sgg.
È difficile sostenere se questo giudizio fosse generoso od equanime: tuttavia, di lì a poco, - il rovinio assordante con cui
vide spegnersi la grande guerra e l’adesione al Partito Comunista ungherese, nel dicembre 1918 – Lukács avrebbe
imboccato un’altra strada, ben distante dall’immagine di «un “interessante” eccentrico libero docente di Heidelberg» [ivi,
p. 23].
Cfr. anche le lettere di Weber a Lukács, del 28.01.1913 e del 22.03.1913, sui medesimi argomenti.
1 M. WEBER, Max Weber. Una biografia, cit., p. 611. Marianne Weber dedica a Lask un lungo e dovizioso profilo,

intersecando i suoi ricordi con brani di alcune lettere tratte dall’epistolario del marito, restituendone una figura compiuta,
ma fin troppo prossima ai toni del romanzo. Si vedano, al riguardo, ivi, le pp. 611-613.
2 Si veda la lettera del 15.10.1910 alla sorella Berta; cfr. Nachlaß Emil Lask, Heid. Hs. 3820, 405.
3 Uno degli indizi più chiari della posizione che doveva assumere l’istituzione universitaria di Heidelberg, e più

complessivamente la politica culturale del Baden è quello dell’ammissione nel 1908 di studentesse donne agli studi
universitari, anticipando un provvedimento che varrà di lì a pochi anni per tutto il Reich.
Cfr. Ruperto-Carola Sonderband aus der geschichte der Universität Heidelberg und ihrer Fakultäten, Heidelberg, Brausdruck, 1961;
G. MORETTI, Heidelberg romantica: romanticismo tedesco e nichilismo europeo, Napoli, Guida, 2002. Sulla temperie culturale
tedesca, e mitteleuropea, tra la riunificazione e la repubblica di Weimar, cfr. J. HERF, Il Modernismo reazionario, con una
introduzione di G. E. Rusconi, Bologna, Il Mulino, 1988; M. STÜRMER, L’impero inquieto. La Germania dal 1816 al 1918,
trad. it. a cura di D. Conte, Bologna, Il Mulino, 1986.
4 Quanto al ruolo di una presentificazione corretta e compiuta della historische Situation, ad esempio nel caso specifico della

maturazione della speculazione dell’Idealismo tedesco, tra il Diciottesimo ed il Diciannovesimo secolo, al fine di illustrare
i moventi essenziale della riflessione fichteana, rimandiamo ad E. LASK, Fichtes Idealismus und die Geschichte, in GS, cit., I, p.
195.
5 P. GAY, La cultura di Weimar, con una introduzione di C. Cases, Bari, Dedalo, 1978.

27
Il Pathos della Forma

diversità, quella intima disuguaglianza, e quella Niemals-Ruhe-Halten, quella impossibilità di


trattenere la quiete che è propria delle cose umane 1 divenne il basso continuo, rovinoso e sordo,
sul cui sottofondo avrebbe guardato la scala che il Reich aveva lanciata verso il cielo 2 nei primi
decenni del secolo Ventesimo. Così come i luoghi della sua osservazione, che fungevano
più che da mero sfondo, furono quelli di una akademische Geselligkeit 3 , di una socievolezza
accademica, di una prossimità, in cui vigeva la stilizzazione di quel modo di vita, grazie al
quale «l’allievo, lo studente, il libero docente, il professore vissero l’intenso scambio
culturale in riunioni informali piene di letture e di discussioni, in serate aperte, in
associazioni scientifico-erudite, in spettacoli teatrali e musicali universitari» 4 .
Eppure, come ebbe a scrivere Lask nei suoi appunti tardi, a differenza della moralità,
dell’amore, che rappresentano nella vita effettiva i più immediati rapporti tra persona e
persona, la socievolezza è già una mediazione, un compromesso, appartenendo piuttosto al
dominio di ciò che viene imposto, rafforzato, costituito mediante dispositivi, alla stregua
delle determinazioni istituzionali o simboliche.
«Tutto questo è deposito, ma non del senso, piuttosto dell’attività vitale [Lebenstätigungen],
dell’azione [Handlungen]» 5 . E quella trama di relazioni fu, certo, la trasposizione simbolica, la
stratificazione vissuta di una delle forme che aveva assunto l’età della crisi della borghesia,
stretta tra il suo volto e le sue aspirazioni, tra le parti ed il loro ordine, tra i foederati e
l’impero: alla cui edificazione fu dato l’icastico titolo di mandarinato tedesco 6 . Quella
assunzione del primato intellettuale, del ruolo di indirizzo, di guida da parte dell’élite colta,
liberale, dei Gelehrten 7 , di coloro che erano avveduti nell’utilizzo dei propri strumenti
concettuali o tecnici, nell’applicazione osservabile, lucida delle proprie competenze, in cui è
possibile rinvenire la socio-genesi del concetto di valore 8 .

Nell’ormai inoltrato 1912, scrivendo alcune considerazioni aggiuntive alle sue note su
Platone, sull’orlo del proprio tempo, indirizzando quasi uno sguardo meduseo su quella
differenza radicale, che proprio nelle riflessioni contemporanee sulla nozione di valore
aveva raggiunto la sua più compiuta espressione, nella forma del dualismo metodologico,
Lask rivolgeva a sé la domanda estrema circa la traduzione politica del lascito platonico, quale
mira ed esigenza dell’ordine mondano della giustizia. «Quale è l’ultimo atto del dramma della
filosofia del valore? Forse: la libera, volontaria obbedienza al bene contenutistico, così che
il valore dell’autonomia ne sia l’unica norma» 9 . O la fallibilità del suo rifiuto.

1 E. LASK, Rechtsphilosophie, in GS, cit., I, p. 301; trad. it. di A. Carrino, Filosofia giuridica, Napoli, Edizioni Scientifiche
Italiane, 1984, p. 39.
2 M. STÜRMER, L’impero inquieto, cit., p. 539: «Bismarck morì nel 1898. Il sistema delle potenze europee si ampliò in sistema

mondiale, e la costruzione della flotta da guerra diede incisività strategica alla politica mondiale delle élites di potere
tedesche ed allo slancio industriale verso l’economia mondiale. Quando Bismarck scomparve, il suo sistema di disciplina
sociale per la società industriale di massa era ormai logoro, ed il suo grande gioco con le cinque bocce della grande politica
di potenza europea si era ormai inceppato, reso obsoleto dall’inasprimento della concorrenza internazionale e dal
restringimento delle periferie. Pochi però si lamentarono della piega che gli avvenimenti andavano prendendo. I tedeschi,
capi e seguaci, avevano alzato una scala verso il cielo. Nel 1914 l’ascesa divenne mortale. Nel 1918 crollò il cielo».
3 G. Roth, Marianne Weber e il suo ambiente, in introduzione a M. Weber, Max Weber. Una biografia, cit., p. 12, riferisce il

nome del circolo cui diede vita Marianne Weber dagli inizi degli anni ’20.
4 J. GEBHARDT, La sociogenesi del concetto di valore, in M. SIGNORE (a cura di), Rickert tra storicismo ed ontologia, Milano, Franco

Angeli, p. 100.
5 E. LASK, Zum System der Philosophie, in GS, cit., III, p. 184.
6 F. RINGER, The Decline of German Mandarins, Cambridge 1969, trad. ted. Die Gelehrten. Die Niedergang der deutschen Mandarine

1890-1933, Stuttgart, 1987.


7 Sulla nozione di Gelehrt è obbligato il riferimento a J. G. FICHTE, Über die Bestimmung des Gelehrten an sich (1794); trad. it. di

, Roma-Bari, Laterza, 2005.


8 J. GEBHARDT, La sociogenesi del concetto di valore, cit., in part. p. 95. Sulla saldatura tra umanisti e tecnici nel quadro complesso

del mandarinato tedesco, si veda J. HERF, Il Modernismo reazionario, cit., pp. 165-190 [Gli intellettuali-mandarini e la tecnologia].
Interessante è notare inoltre, nell’ambiente di Technik und Kultur (organo della Verband Deutscher Diplom-Ingenieure), quale
fosse l’utilizzo paradigmatico dell’espressione Bildungswert des Bauens, il valore formativo del costruire, come coniugazione
di emisferi culturali, solo a tutta prima separati.
9 E. LASK, Nachträglicher Bemerkungen zur Platonvorlesung, in GS, cit., III, p. 47.

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Il Pathos della Forma

§ 3. «Welche Bewandtnis hat es mit diesem Anderem?»: il luogo della Dottrina


delle idee platonica.

«La questione ultima resta: si dà qualcosa d’altro rispetto al mondo spazio-temporale; ma


quale è la costituzione di questo Altro?» 1 .
Questa domanda compare in apertura del corso tenuto da Lask, come Privat-dozent
all’Università di Heidelberg, nel semestre invernale 1911-1912 – cui sarebbero succedute a
completamento ed a sostegno formativo le esercitazioni sulla logica aristotelica – assumendo
così il compito di introdurre allo studio filosofico, fidando su un modello ricorrente
nell’esegesi testuale, riguardo al quale – quasi come su una cartina di tornasole – si vedono
reagire le sue proprie opzioni di lettura ovvero le sue proprie variazioni di pensiero: la
dottrina platonica delle idee.
L’aspetto che l’interrogazione prende, ed assieme l’abbrivio delle lezioni, è ciò a cui
dedicheremo in primo luogo la nostra attenzione: quale è la costitutio, la Beschaffenheit di
questo Altro dalla posizione e dalla consistenza di ciò che si riconosce distintamente, ossia,
in modo indipendente nelle percezioni spazio-temporali? Come stanno propriamente le
cose, welche Bewandtnis hat es mit, con questo Altro? A meno di non soddisfarsi di «un
“sensualismo” troppo ristretto» ed al medesimo tempo «sincero» - rivelando così
un’inusitata indulgenza che meriterà un ben più corposa riflessione in merito – a meno,
cioè, di non arrestarsi al piacere discreto della vista e del tatto, grava la domanda sulla
differenza, che è nei sensi, in quanto più propria, nascosta.
«Nel tuo nulla spero di trovare il mio tutto» 2 : questa è l’inaudita espressione di cui si fa
medio, durch, Platone. Tra gli estremi di questa dualità si fa largo la traccia discontinua della
lettura laskiana di Platone, che ne accompagna ogni snodo, ogni passaggio della riflessione,
come fonte della ripetizione, della continua proposizione di quella domanda – la domanda
sulla differenza, e sul modo della sua sussistenza – cui cerca di dare ascolto. Da tale urgenza
problematica discendono distinte derivazioni che costituiscono l’insieme analitico dei
riguardi sotto cui Lask si rivolge, nei differenti luoghi testuali della sua elaborazione,
all’esemplare figura platonica, impedendone un’improvvida semplificazione, una
intempestiva unificazione, rendendo bensì complesso il ritrovamento di una trama
interpretativa, che funga da indirizzo comune. Possiamo tuttavia isolare alcuni aspetti
dirimenti, attraverso cui decantare le occorrenze, i riferimenti.
In primo luogo, stando allo strato più superficiale delle considerazioni, che può essere
assimilato a quanto abbiamo individuato come il momento a noi più prossimo della
trazione, dell’approssimazione al pensiero, l’indicazione a Platone funge da richiamo alla
distanza, che dà luogo al confronto, alla rettificazione, alla correzione nell’agone della
personalità etica. La precedenza effettuale cioè dell’incongruità, di quella frattura di non-
coincidenza tra l’aspirazione, anche se indistinta, non chiarificata, non sottoposta ancora al
taglio della riflessione, e l’assetto proprio che i dispositivi istituiti rendono alla convivenza
tra gli uomini. In quest’ottica, riteniamo possa intendersi l’elezione laskiana del proprio
uditore in quella figura risolutamente weberiana del Kulturmensch 3 , dell’intellettuale nella sua
accezione più ampia, a cui la lettura filosofica della radicale ed originaria dualità, intravista
nel lascito platonico, è capace di rivolgere die Auforderung an zur Ordnung, la pretesa a definire
ed a scoprire un ordine, der Anruf, il richiamo, l’appello, che – incontenibile alla mera
contemplazione, all’assistenza inane dell’osservatore – travasa nel Beruf, nel reformatorische

1 E. LASK, Vorlesungen über Plato [d’ora in poi, Plato], GS, cit., III, p. 4.
2 Ivi, p. 4.
3 Ivi, p. 3: «Non c’è nessun uomo di cultura, nei cui discorsi non vi sia continuamente traccia della dottrina platonica delle

idee, sia quando si riferisce all’ideale od al mondo ideale, sia quando fa cenno al modello od alla norma». Sulla valenza
politica della ripresa platonica o neoplatonica nelle vicende alterne della storia del pensiero occidentale, con particolare
riguardo a quella traccia, che pur attraverso interruzioni e scarti pare estendersi dall’occorrenza umanistica e
rinascimentale – di eminente significato simbolico – sino al romanticismo di Novalis ed oltre, si veda E. GARIN, Rinascite e
rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Milano, Mondadori, 1992, in part. pp. 91- 129.

29
Il Pathos della Forma

Beruf 1 , nel compito, nell’impegno, nell’opera della riforma 2 . Nel nötige Werk – che non si
seda, ma si nutre della sua opacità e mancanza di splendore – in quel lavoro necessario e doveroso 3 di
ingaggiare ed incrinare la forma, di declinare la forma nel tempo quale disposizione del
tempo ad un’altra gradazione di forma. Lo spazio che in questo modo si apre non viene
semplicemente risolto nell’ambito della giustificazione, del confronto insolubile,
nell’eventualità di un’opaca adeguazione. Quella pretesa platonica – che si disvela nella sua
interezza e multiformità proprio nelle considerazioni sulla disisdentità tra l’idea di diritto e
quella di giustizia nella Rechtsphilosophie – non riguarda solo il volere e l’agire della personalità, che
funge invece da deposito, da sostrato capace di determinazioni internamente occasionate,
temporali, ma anche l’ordinamento oggettuale [gegenständlich] del «mondo etico» stesso 4 . È dunque nel
ripensamento di questa modalità duplice di oggettività ed obbiettività, nella difficile coincidenza
con la nozione di trans-personalità, che viene alla luce una traccia, appena nascosta, della
lettura di Platone, inaugurandone l’esame più acuto e pertinente.
«Oltre alla scoperta meramente speculativa del non-sensibile, l’inaudita impresa platonica
consiste nell’aver posto, accanto all’essere del sensibile, l’essere del non-sensibile, nell’aver
assunto un concetto di oggetto [Gegenstandsbegriff] che comprendesse il sensibile ed il non-
sensibile […]. Senza tema di essere fraintesi, si può considerare che l’immortale opera
platonica sia documentata proprio dall’aver impresso il non-sensibile in un essente, dall’aver
oggettualizzato [Vergegenständlichung] anche il non-sensibile. Questa opera, decisiva per
l’universalità del logico, si può formulare così: Platone ha applicato per la prima volta la
categoria di ambito dell’oggettualità o dell’”essere” al non-sensibile» 5 . Ed è in virtù di tale
applicazione, della modalità logica che assume tale Anwendung, che si biforca ulteriormente
l’attenzione della lettura laskiana. In Platone, cioè, Lask rintraccia la disposizione della
domanda circa il concetto di oggetto, o meglio circa la forma dell’oggetto, laddove la sua
estensione non sia limitata alla sfera del contenuto sensibile, alla datità effettuale che ha
luogo nello spazio e nel tempo, ma comprenda anche una modalità di sussistenza
ineffettuale, non-sensibile. Ed è in virtù di un tale allargamento, corredato alla stringente
questione dello statuto proprio della Gegenständlichkeit, dell’oggettualità a differenza della
concretezza della realizzazione, che viene scorta la piega metafisica dell’ordito platonico. Sia
chiaro che questo tuttavia non coincide affatto con la riduzione delle dottrine platoniche
all’univoca prospettiva di un modello metafisico; piuttosto nella comprensione di Platone,
così come è presente nella riflessione laskiana, si distinguono, pur ruotando sempre attorno
alla questione dell’oggettualità, una serie di spettri tematici: a) la dualità platonica come
elevazione della pretesa, b) la determinazione del Gegenstandsbegriff, c) la sovrapposizione
metafisica di non-effettuale ed oltre-effettuale. Se cioè è possibile rivenire, in Lask, una
considerazione della filosofia platonica all’interno di una trattazione, di un abbozzo,
seppure incompleto, di storia della metafisica, ciò rimanda alla preparazione rispetto alla
dimensione semantica propria dell’oggettualità, ove se ne sia, in qualche modo, postulata la
distinzione dalla consistenza effettuale: è il problema dell’oggettualità a fungere da
connettivo nella ricognizione sugli aspetti, sulle tipologie, sulle morfologie storiche, in cui si
compie la metafisica. Proviamo, dunque, ad esplicitare questi assunti, per la loro posizione

1 Ivi, p. 5.
2 Sulla specie filosofico-politica della riforma, riguardata in quanto mutamento e movimento, nel costante ed invalicabile
confronto con quella della rivoluzione, del tutto visibile nel dibattito pubblico della Germania dei primi due decenni del
secolo scorso, ove si dipanava la controversa vicenda della Sozialdemokratie tedesca, cui – come già è stato notato – Lask
prese parte attiva nel giovanile soggiorno berlinese, si veda N. BOBBIO, Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero,
Torino, Einaudi, pp. 539-582.
3 Da S. GEORGE, Der Krieg, in Das neue Reich (1928), in ID., Werke, a cura di R. Boehringer, München, Beck, 1958. Sul ruolo

di Stefan George nella Heidelberg dei primi due decenni del Secolo scorso, si veda E. MASSIMILLA, Vita e storia nella «nuova
scienza» del George-Kreis, in G. CACCIATORE, G. CANTILLO, G. LISSA, Lo Storicismo e la sua Storia. Temi, problemi, prospettive,
Milano, 1997, pp. 435-442.
4 E. LASK, Rechtsphilosophie, in GS, cit., I, p. 293; trad. it. di A. Carrino, Filosofia giuridica, cit., p. 31.
5 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, pp. 224 – 225.

30
Il Pathos della Forma

preliminare quanto all’Auseinandersetzung, al confronto, alla misurazione con i dialoghi


platonici, e con le loro letture più cogenti.

3.1. Un abbozzo di storia della metafisica.

Quando, iniziando a scrivere le sue note sulle categorie filosofiche nella storia della filosofia
teoretica, Lask puntualizza di non avere affatto intenzione di contrapporsi alla storia della
metafisica, scritta da Eduard von Hartmann 1 – ed in maniera inescusabile trascurata 2 – in
quanto il tenore della sua vorläufige Zusammenstellung, del suo quadro provvisorio, è quello di
un primo sguardo, di un breve abbozzo storico, egli rimanda, per fugare ogni ambiguità,
tanto concettuale quanto lessicale, alle considerazioni sulla differenza tra la
Geltungsphilosophie, cui attende, e la Metaphysik, che avevano aperto il suo studio sulla dottrina
delle categorie. «La filosofia del valente non può mettersi al posto di una qualche metafisica
del sovra-sensibile, né può assumere il compito, che essa ha da sempre adempiuto» 3 . Tale
distinzione, piuttosto l’accortezza ad una tale insovrapponibilità, si radica nella
disidentificazione, che proprio la riflessione geltungsphilosophisch guadagna, tra das Geltende, ciò
che vale, e das Übersinnliche, l’oltre-sensibile, ciò che né è effettualmente né vale, in quanto
non coincide né con la sfera dell’essente sensibile né con quella dell’in-essente, Un-seiende,
peculiare alla valenza 4 . La differenziazione dalla metafisica consente alla Geltungsphilosophie di
assicurarsi, sich bewahren, dallo scavalcamento oltre i suoi propri limiti 5 , ed allo stesso tempo
dal proposito di distruggere semplicemente la metafisica. «Seppure l’oltre-sensibile si risolvesse
nel nulla [in Nichts], esso non si scioglierebbe mai nel valente. La sola possibilità di una
distruzione della metafisica [Zerstörung der Metaphysik], a cui si potrebbe pensare, cioè farla
finita con la metafisica attraverso una riflessione “teoretica della conoscenza” sulla dottrina
delle categorie, viene dimostrata nulla, attraverso questo scritto. Sarebbe perciò un’illusione,
credere che tutte le formazioni storiche della metafisica siano da ricondurre al tentativo
deviato, auto-fraintendente, di una speculazione, che ipostatizza il valore valente [geltende
Wert] nell’essere assoluto. Certo, ci sono presunti problemi metafisici, in cui il valente è
“ipostatizzato” nella realtà soprasensibile, che si possono sciogliere [auflösen]
completamente in problemi di valore, e che pertanto devono esserne disgiunti [ablösen]. La
loro eutanasia e la loro traduzione in problemi di valore hanno l’effetto di provocare come
un sollievo, ed attendiamo di sapere, per nulla intristiti, del merito e della vittoria della
filosofia del valore. Ma in nessun modo l’interezza del novero dei problemi metafisici,
fattisi presenti nella storia, rende possibile un tale superamento [Aufhebung] nella teoria
filosofica del valore» 6 . La metafisica, cioè, non è un errore che possa essere depennato, la
debolezza del pensiero, caduto nell’insidia di considerare la separatezza del soprasensibile
alla stregua di una consistenza parziale, sussistente in se stessa – sul conio delle eccezioni
aristoteliche alla dottrina platonica delle idee 7 – o la tentazione di spostare l’accento dallo
Übersein 8 , dall’oltre essere, allo Sein überhaupt, alla generalità dell’essere. Il problema che da
essa dirama non può essere risolto in una mera rettificazione, in cui alla fondazione

1 E. VON HARTMANN, Geschichte der Metaphysik, Leipzig, 1899-1900.


2 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 223, nota 170: «Lo schizzo che segue dà solo un quadro provvisorio,
di quanto emerge già ad un primo sguardo. Quanto sarà presentato in merito al medioevo non si fonda su uno studio
delle fonti. Né queste brevi tracce storiche si piccano di contrapporsi alla storia della metafisica di E. v. Hartmann. Ad esso
siamo debitori soprattutto per la considerazione della dottrina delle categorie di Plotino. Hartmann è l’unico, che abbia
considerato la storia della dottrina delle categorie, dal punto di vista storico dell’universalità del logico-categoriale, che
forma il pensiero fondamentale della presente trattazione. I suoi spunti, sotto molti aspetti pionieristici, sono stati
tralasciati inescusabilmente. Sono stato attento alla sua rappresentazione, pur avendo intrapreso una mia propria strada
sistematica per conseguire la convinzione della necessità dell’allargamento del problema delle categorie».
3 Ivi, p. 8.
4 Ibidem.
5 Ibidem.
6 Ivi, p. 9.
7 ARISTOTELE, Metafisica, I, 6, 987a, 29-988a, 16; I, 9, 990b, 1-993a, 10.
8 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 10.

31
Il Pathos della Forma

metafisica si sostituisca, mediante il filtro erkenntnisstheoretisch, una sorta di costruzione logica del
mondo. Se alla riflessione filosofica – che a partire da Kant si è fatta consapevole
dell’internità dell’oggettuale all’ambito di competenza logico, vale a dire della disgiunzione
definitiva tra oggettualità e metalogicità, quindi metafisica – si riserva un compito, è quello
di considerare la differenza – nel novero del non-effettuale, di ciò che non è effettualmente
– tra il valente, un-sinnlich, a-sensibile, e quell’Über-sinnlich, oltre-sensibile, di cui non è
possibile trovare un predicato specifico, un’espressione adeguata. Insomma, il compito di
attenersi rigorosamente all’Umkreise des Ametaphysischen 1 , alla cerchia dell’A-metafisico.
«L’essenza del problema del valore giunge alla purezza, se non gli si addossa il risarcimento
dei problemi metafisici, se si rinuncia a far compiere alla filosofia del valore i compiti della
metafisica» 2 .
Dunque, secondo Lask, la metafisica – in virtù della propria differenza – non viene risolta
né quanto al problema dell’Übersein, del modo peculiare della sua sovraessenzialità, né
quanto al ripensamento del suo dispiegamento storico, quale Geschichte der Metaphysik 3 . È
piuttosto la ricognizione sullo sviluppo nella storia della riflessione sulla Kategorienlehre, sulla
dottrina delle categorie, laddove essa incontra il nodo del suo allargamento, della
totalizzazione del suo riguardo, laddove si imbatte cioè nelle difficoltà implicite alla
differenziazione degli ambiti costitutivi dei contenuti categoriali ed alla generalizzazione
riflessiva delle loro forme, a fungere da regolo interpretativo, anche nella grossezza
dell’Abriß che chiude la Logik. Infine, in essa dev’essere l’attenzione costante alla
determinazione delle modalità oggettuali, che consente di distinguere le figure filosofiche che si
succedono nella discontinua trama epocale.
In virtù di ciò, l’urgenza teoretico-conoscitiva di decantare il valente, l’oggettualità valente,
da ogni scoria oltre-essente, oltre-sensibile, trova il suo compimento nel rintracciare la
possibilità di tale assimilazione, la radice di una tale equivocazione. «Bisognerebbe in primo
luogo riflettere sul fatto che è pensabile un incontro in alcune ramificazioni del sovra-
sensibile e del valente, e che si potrebbe rendere comprensibile la confluenza nella
speculazione passata, senza alcuna eccezione, della filosofia del valore e della metafisica del
sovra-sensibile. Al sovra-sensibile come al valente si contro-pone [steht gegenüber] la stessa
cosa, cioè la soggettività esperiente [die erlebende Subjektivität]. Il sovra-sensibile, come il
valente, assume, in rapporto alla soggettività, il posto dell’obbietto comprensibile [des
ergreifbaren Objekts]; ad ambedue si può dedicare, si può sottoporre, l’esperienza [das
Erleben]» 4 . La disposizione rispetto al soggetto, la contro-posizione che distingue, in der
vergangene Spekulation, il luogo proprio dell’oggetto, in quanto obbietto di comprensione, è la
superficie scabrosa su cui lo scivolamento dalla valenza alla sovrasensibilità si rende
possibile, in quanto ogni volta possibile, ogni volta che vi si rivolga il pensiero. In questa
concezione obbiettiva dell’oggetto cova la questione dirimente. «È proprio nel rivolgimento
alla soggettività che giunge ad evidenza ciò che lega insieme ambedue le due sfere non-
sensibili» 5 . Vale a dire, ciò che rende possibile l’apparenza di identificazione tra le due
specie del nicht-sinnlich è il loro comune essere impegnati rispetto alla soggettività, il loro
Hingewandtsein, il loro essere rivolti alla soggettività, intesa nel grado zero della soggettività
esperiente.
Diventa pertanto ineludibile sia per la retta determinazione della Geltungsphilosophie, sia per
la sua recisione ultima dalla mistione con l’ambito concettuale proprio della metafisica,

1 Ivi, p. 9.
2 Ibidem.
3 Sull’idea di una storia della metafisica, che ha nel secondo volume dell’Einleitung diltheyana il suo modello, in quanto

presentazione sistematica «del problema della metafisica e della coscienza metafisica, come problema insieme della sua
storia e della sua istanza ancora ‘vigente’», e che si distenderà compiutamente nel pensiero di Heidegger, si veda E.
MAZZARELLA, Per una storia della metafisica tra Otto e Novecento: il paradigma diltheyano, in ID., Storia Metafisica Ontologia. Per una
storia della metafisica tra Otto e Novecento, Napoli, Morano, 1987, pp. 9-49. Sul concetto temporale di metafisica, in Dilthey, cfr.
W. DILTHEY, Einleitung in die Geisteswissenschaften, I, cit.; trad. it., cit., pp. 249-263.
4 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 11.
5 Ibidem.

32
Il Pathos della Forma

procedere a quella faticosa depurazione metodica dai sintomi del riferimento alla soggettività1 , se
si vuole procedere a far emergere la dualità cui proprio la soggettività dà luogo,
eminentemente come determinazione della volontà, tra dedizione e ritrazione, tra
assunzione e rifiuto. Lungo questo arco, ove la ripresa storica è sin dall’inizio rivolta alla
preparazione ed alla prefigurazione di una logica universale e di una dottrina delle categorie del futuro, la
considerazione dell’assetto e del ruolo assunto dalla logica è decisiva, purché se ne intenda
l’interna articolazione, purché si sia capaci di riconoscere il luogo proprio della dottrina del
giudizio per il rilievo che in essa ha la determinazione soggettiva della conoscenza, la
disposizione sintetica della soggettività. Se dunque il principio ordinatore della
Zusammenhang – che Lask intende più che come un’appendice documentaria, come
un’estensione diacronica delle riflessioni sulla dottrina delle categorie, quale problema filosofico
sulla composizione e sulla determinatezza della forma contenutistica del pensiero – è la
considerazione delle modalità oggettuali, dei modi in cui il concetto di oggetto si dispone, ciò
diviene possibile, laddove si provveda, parallelamente, ad indicare l’apporto della
soggettività, il suo ingresso ulteriormente differenziante, il suo destino di frantumazione, di
rivolgimento, dunque di elaborazione, laddove a fronte della sua vaga concezione unitaria,
si distingua il suolo dell’Erlebnis, la dedizione della soggettività conoscitiva, la complicazione
propria della personalità etica.
Di qui, dunque, la posizione che viene assunta dalla dottrina platonica delle idee, in quanto la
disposizione della domanda sullo statuto delle idee, sull’essere delle idee, consente di porsi
dinanzi alla questione della Zusammenwerfung, alla forzosa commistione – nella stazione
oggettuale – del non-sensibile valente e dell’oltre-sensibile metafisico 2 . Ma, allo stesso tempo, ciò
consente anche il tracciamento di una linea genealogica nella lettura della Ideenslehre
platonica, la cui origine viene rinvenuta nell’opera decisiva di Lotze, nella sua scoperta del terzo
regno del valente. «Siamo oggi nell’epoca del suo influsso stimolante. Al concetto lotzeano di
“ciò che vale, senza dover essere [Sein zu müssen]”, Windelband ha dato un significato, che
sovrintende unitariamente a tutto il sistema della filosofia, fondando su di esso l’ultima
divisione del pensabile, la suddivisione di ogni conoscenza, e rinnovando così nel presente
la dottrina dei due mondi, a cui ci si è rivolti all’inizio di questa introduzione.
Indipendentemente da Lotze, allontanandosi dalla sua formulazione, ma in ultima istanza
non dal suo argomento, oltre a questo orientamento, vi sono Cohen ed l’intero
neokantismo, che riconquista di nuovo il concetto trascendentale kantiano di validità
apriorica. Husserl ha introdotto il concetto lotzeano di Valere in un ambito del tutto
determinato del pensiero bolzaniano, dando vita ad una significativa revisione dei concetti
logici fondamentali. Rickert, ne «L’Oggetto della conoscenza», opera fondamentale per la
teoria della conoscenza di questo orientamento, è andato oltre l’isolamento e la chiusura del
Valere trascendente [das transzendente Gelten], facendo del concetto di valore [Wertbegriff] il
concetto centrale anche della logica. Il Valere assume così colore e carattere, il Logico è
uscito dal suo isolamento, trovando nel Valere la sua vera patria [sachliche Heimat]» 3 .
Tuttavia, questo tracciato non rappresenta affatto il catalogo della retta opinione platonica,
piuttosto la delimitazione di un ambito di lettura, e di ripensamento e di fraintendimento,
cui l’interpretazione laskiana si vede costitutivamente assegnata. In quel perimetro storico
effettuale, disegnato dalle letture di Lotze, prima, e di Husserl, poi, trova posto il confronto
di Lask con la platonische Ideenlehre.

3.2. Alterità del Valere: le letture di Lotze ed Husserl.

1 Ivi, p. 11.
2 Ivi, p. 13. Lask intende il problema della commistione, della sovrapposizione platonica, nei termini seguenti [ivi, p. 13],
che saranno ripresi con differenti sfumature a più ondate nelle sue riflessioni: «Il Logico, la validità della verità, quello che
costituisce il senso dell’ambito teoretico, viene posto insieme con la ragione ed il senso del mondo, con il principio divino,
con il senso vero, di cui il sensibile è solo un basso riflesso. Solo questo è il senso vero dell’”ipostatizzazione” delle idee in
una realtà oltre-sensibile distinta dal mondo fenomenico».
3 Ivi, pp. 14-15.

33
Il Pathos della Forma

Ciò viene esemplificato nella maniera più evidente dall’angolazione prospettica in cui è
assunto il magistero di Hermann Lotze; la considerazione accurata, cioè, più che del
monumento filosofico e morale eretto nei tre libri del Mikrokosmos, della revisione del
trattato di Logica del 1874 – che emenda sostanzialmente il testo del 1843, la Kleine Logik,
quanto alla sua impostazione ed alla sua mira etica 1 – svolgendo, Lask, uno sforzo di
interpretazione, in buona misura, concordante con quello husserliano, in preparazione delle
Logische Untersuchungen.
I drei Bücher der Logik, che aprono il System lotzeano sono quelli in cui matura un disegno
formale della logica, guidato da una netta interpretazione della dottrina platonica delle idee.
L’intento movente sin dalle prime linee della dottrina del concetto, ovvero della costituzione
formativa del concetto, è quello di individuare lo strato di obbiettività proprio del pensiero:
«obbiettività [Objectivität] nel senso di un certo tipo di esistenza, che sussiste anche se
nessuno la pensa» 2 . Obbiettività nell’accezione, dunque, dello statuto della proposizione
indipendente dall’attualità individuale del suo essere pensata; obbiettività, in quanto modo
di ciò che si presenta nell’obbiettivazione. Al tal fine, la condizione obbiettiva dell’asserto,
della posizione proposizionale, deve essere distinta dall’effettualità delle differenze
oggettuali, dalla disappartenenza delle differenti forme di espressione. Così, Lotze –
tentando di dar conto della propria lettura di Platone ed allo stesso tempo del proprio
rifiuto dell’accusa aristotelica di ipostatizzazione, che proprio nella mescolanza tra forme
distinte di realtà affondava le radici – disegna la nota tavola categoriale, in cui la
scomposizione dell’opaca nozione di Wirklichkeit, lacera molto più che semplicemente la
consuetudine linguistica del pensiero. Quale è la realtà dell’idea, se non è meramente una
realtà ideale? come il concetto di realtà si modifica, frammentandosi, al cospetto dell’idea, o
meglio della composizione sistematica delle idee?
«Chiamiamo reale [wirklich] una cosa, che è, in opposizione ad un’altra che non è; è reale
anche un evento, che accade [geschieht] o che è accaduto, in opposizione a ciò che non è
accaduto; reale è una relazione, che sussiste [bestheht], in opposizione a ciò che non sussiste;
infine chiamiamo in verità reale una proposizione, che vale [gilt], in opposizione a ciò, la cui
validità [Geltung] è ancora dubbia» 3 .
Sotto l’uso apparentemente piano di Wirklichkeit, si distinguono quattro forme di essere-
reale: l’essere, Sein, delle cose, l’accadere, Geschehen, degli eventi, di ciò che si compie nel
tempo, il sussistere, Besthehen, dei rapporti, delle connessioni, dei relativi, il valere, Gelten,

1 Sulla centralità delle Grosse Logik lotzeana, rimandiamo alle cristalline parole di G. GABRIEL, La «Logica» di Hermann Lotze
e la nozione di validità, in «Rivista di Filosofia», vol. LXXXI, n. 3, dic. 1990, p. 462, «Se ci chiediamo che cosa, nell’opera di
Lotze, giustifichi la sua posizione centrale [nel quadro della filosofia tedesca di fine Ottocento], possiamo indicare la
seconda versione della Logik e specialmente la teoria della conoscenza esposta nel terzo libro, che nel secondo capitolo,
(su «Il mondo delle idee») contiene una ricostruzione della dottrina platonica delle idee nella quale viene introdotto il
concetto di validità. […] Ciò che egli otteneva con questa interpretazione era l’unione di filosofia platonica e filosofia
kantiana in una posizione epistemologica che potrebbe essere chiamata, come in effetti fu, platonismo trascendentale. Questa
posizione è platonica perché ammette contenuti di pensiero indipendenti dai soggetti individuali, ed è trascendentale (in
opposizione a «trascendente») perché l’indipendenza non è ontologica ma logica, cioè riguarda non l’esistenza ma la
validità».
Sulla aspirazione etica della prima redazione della Logik, cfr. B. CENTI, L' armonia impossibile. Alle origini del concetto di valore:
metafisica, logica e scienze della natura in R. H. Lotze dal 1838 al 1843, Milano, Guerini, 1993, ove – p. 168 e p. 241 – si intende
con idealismo teleologico, che «l’inizio della metafisica [nel LOTZE della Kleine Logik] si trova nell’etica», ovvero che «con il
termine valore, Lotze, esplicita quella che in Kant era la formalità della legge morale, il suo essere categorica». Quanto
invece alla differenza tra le due redazioni della Logik, cioè tra la Kleine Logik [1843] 1a Logik, contenuta come prima parte
del System [1874], cfr. S. BESOLI, ne Il valore della verità. Studio sulla „logica della validità“ nel pensiero di Lotze, Firenze, Ponte
delle Grazie, in part. pp. 57-sgg., la riconduce all’orientamento ad alle giustificazioni della prima mediante motivazioni
etico-teleologiche e metafisiche, ovvero a quel retroterra metafisico che si comunica al soggetto attraverso dettami etici,
disposti al conseguimento del sommo fine, il bene supremo, ed alla determinazione della seconda nel più angusto ambito
della «scomposizione e ricomposizione delle forme logiche come strumenti dell’attività di pensiero». Più oltre, S. BESOLI,
Il valore della verità, cit., pp. 138- 139, si sofferma sulla lettura laskiana della interpretazione che Lotze propone della
dottrina delle idee platonica.
2 H. LOTZE, System der Philosophie, Prima Parte. Drei Bücher der Logik, Lipsia, Hirzel, 1874 [d’ora in poi, Logik, 1874], § 3, p.

15.
3 H. LOTZE, Logik, 1874, cit., § 316, p. 499.

34
Il Pathos della Forma

delle proposizioni, delle asserzioni 1 . Per wirklich, dunque, per essere-reale, si intende ciò che
accomuna ciascuno dei poli posizionali delle diadi oppositive, delle differenze di valore,
presentate.
«L’essere non si risolve nell’accadere, e la realtà che pertiene alle cose, quella cioè di
essere, non si addice affatto agli eventi; questi non sono, ma accadono; una proposizione,
invece, non è, come le cose, né accade, come gli eventi; anche il fatto che il suo contenuto
sussista come una relazione, può essere sostenuto solo se le cose, tra cui si enuncia una
relazione, sono; ma in sé, e prescindendo dagli utilizzi che se ne possono fare, la sua realtà
sussiste nel fatto che vale e che il suo opposto non vale» 2 . È l’ultima delle determinazioni
dell’essere-reale, quella del valere di una proposizione, in quanto vera, il valere in sé di una
verità, contrapposto al non-valere in sé di una non-verità, è il suo darsi evidente, quale
«oggettiva appartenenza reciproca originaria» 3 , i cui elementi non esigono quanto alla loro
unità di alcuna mediazione, di alcun ricorso, alcun intervento correlativo, ulteriormente
sintetico, a consentire l’intero quadro della differenziazione. Proprio il valere della verità,
l’auto-identità del significato della verità, e di ciascuna delle verità 4 , è ciò che indice la teoria delle
differenze, delle opposizioni di valore, tra ciò che è veramente e ciò che è non-veramente, tra
ciò che accade veramente e ciò che accade non-veramente, tra ciò che sussiste veramente e ciò
che sussiste non-veramente, dunque, tra ciò che è veramente valente e ciò che è non-veramente
valente. Tuttavia, in tale trasformazione avverbiale, il Gelten der Wahrheit si converte nel
Wahrheitswert, il valere della verità nel suo valore di verità, il valere della verità nel valore reale
di ciò che vale come vero, l’obbiettività del valere nell’obbiettivazione del valore.
Quando, in una lettera del 16.XI.1912, riferendosi alle sue letture ed alle sue lezioni, Lask
scrive a Rickert, «certo neanche il mio Platone è quello “obbiettivo”» 5 , si riferisce in primo
luogo a tale scarto lotzeano, o più precisamente al taglio della sua ambiguità, di quella
Verquickung 6 , di quella mescolanza, di quell’intreccio, da cui era avvolta la capitale sentenza
della sua Logica, secondo cui «la verità vale [gilt] ed è assurdo dire che sia [ist] o che accada
[geschieht]» 7 , tanto quanto sostenere che «debba essere [sein zu müssen]» 8 . L’ambiguità, cioè, in
cui si stringe il Gelten ed il Wert 9 , ciò che vale e ciò che ha valore, il groviglio
dell’oggettivazione del valore, del percorso lungo l’esperienza in cui si forma il riconoscimento
di qualcosa in quanto, wertvoll, pregno di valore, e l’oggettualità di valore, il carattere proprio

1 Ivi, p. 500: «Alle rappresentazioni, in quanto le abbiamo e le cogliamo, pertiene la realtà nel senso di un evento, esse
accadono in noi, pertanto come espressioni di un’attività rappresentativa non sono un essere in quiete, ma un divenire in
durata: i loro contenuti, invece, in quanto considerati separatamente dall’attività della rappresentazione, che vi dirigiamo,
non accadono affatto, né sono come sono le cose, ma semplicemente valgono».
2 Ivi , p. 500.
3 Ivi, § 364, p. 596. Cfr. S. BESOLI, Il valore della verità, cit., pp. 217-ssg, ove si sottolinea il rilievo dell’evidenza estetica, della

vigenza antepredicativa della sintesi originaria, dell’originaria verità sintetica.


4 H. LOTZE, Logik, 1874, § 317, p. 501: «Il significato in eterno uguale a se stesso delle idee, che sono sempre, ciò che sono

».
5 E. LASK, Plato, in GS, cit., III, p. 55. Allo stesso modo, G. GABRIEL, La «Logica» di Hermann Lotze, cit., p. 462, scrive,

«Non dobbiamo dimostrare che questa [la lettura lotzeana] sia un’interpretazione corretta di Platone».
6 E. LASK, Der System der Logik, in GS, cit., III, p. 62: «Die Wahrheit (bei Lotze verquickt) gilt, es ist absurd, zu sagen, sie ist oder

geschieht».
7 Ivi, p. 62.
8 Ivi, p. 59.
9 Cfr. B. CENTI, L’armonia impossibile, cit., p. 13: «Il Gelten (essere valido) ed il Werten (valutare) si radicano assieme nel

riconoscimento del Sollen, nel riconoscimento che il pensare è sempre un valutare che immediatamente si traduce nello
stabilire la validità di una parte di ciò che è sottoposto a valutazione». Che l’opera di chiarificazione dei legami reciproci
tra Gelten e Werten, metodologicamente prima ancora che di Geltung e Wert, sia un passaggio obbligato nella comprensione
del problema del valore lo dimostra, dall’esterno del torno autoriale e più ampliamente filosofico considerato, l’esordio del
saggio deweyano sulla Teoria della Valutazione [J. DEWEY, Theory of Valuation, Chicago, University Chicago Press, 1939, trad.
it. a cura di A. Visalberghi, Firenze, Nuova Italia, 1960, in part. pp. 7-8], ove si può leggere: «L’espressione value viene
usata in inglese come verbo e come sostantivo, e vi è una controversia fondamentale per stabilire quale dei due sensi sia
primario. Se vi sono cose che sono valori o che hanno proprietà del valore indipendentemente dalla connessione con
qualsiasi attività, allora il verbo”valutare” è derivato, poiché in questo caso un atto di intendimento viene chiamato
valutazione semplicemente a cagione dell’oggetto che esso coglie. Se tuttavia il senso attivo designato dal verbo è
primario, allora il sostantivo “valore” indica quello che in linguaggio comune viene designato come “apprezzabile”,
qualche cosa che è l’oggetto di un certo genere di attività».

35
Il Pathos della Forma

di ciò che vale, in quanto oggetto, dato, e che, rivolto all’atteggiamento corrisposto dal
soggetto, esige riconoscimento di valore, del modo in cui il valore si obbietta e del modo in
cui si dà quale oggetto. Quell’intreccio – la cui forma duale è solo l’aspetto analitico della
presentazione – è ciò a cui Lask dedicherà la traccia più scoperta del suo pensiero.
Nell’intento di specificare il corso della propria intellezione di Platone, Lask scrive
icasticamente del suo interesse esclusivo per i motivi logici, «per il taglio logico della
dottrina delle idee», così che, assumendo a tema l’attrazione, l’entusiasmo platonico per i
significati puri, vede svaporasi der göttliche Plato, mentre si fa innanzi «der Verfasser von
Husserls Logischen Untersuchungen», l’estensore delle ricerche logiche husserliane. Egli, cioè
riferisce – e questo non significa affatto identifica, ma confronta, ed esige, sulla sorte del
confronto, un giudizio – la propria lettura al modo in cui le ricerche husserliane sono state
capaci di elaborare il lascito lotzeano quanto alle dottrine platoniche.
Negli stessi anni, ma all’insaputa dei propri lettori, Husserl, nell’abbozzo ad una prefazione
delle Logische Untersuchungen – l’Entwurf data al 1913, anche se sarà pubblicato solo nel 1939 a
cura di Eugen Fink 1 – tenterà di portare a termine l’Auseinandersetzung ed il distanziamento
da Lotze, che aveva affidato ad una nota elusiva dei Prolegomena 2 . Proprio ricordando la
stanchezza «delle confusioni ed il timore di affrontare una critica senza fine», cui avrebbe
indulto l’esame dell’influsso esercitato sulle proprie riflessioni da quei grandi pensatori del
passato che mostravano «ovunque problemi non giunti a maturazione, ambiguamente
cangianti e teorie profonde, ma oscure» 3 , Husserl si decide a fare i conti con la propria storia
e soprattutto con quei gangli scoperti che nella maniera più acuta ed acrimoniosa avevano
destato scandalo: per antonomasia, cercava di far fronte al rimprovero di platonismo logico 4 . La
sua traduzione teoretica di ciò doveva essere la delimitazione critica rispetto a Lotze, anticipata
significativamente a quella nei confronti di Bolzano.
«La conversione pienamente consapevole e radicale» più che da una vaga ipoteca
psicologistica – quasi un’Idra di cui è difficile distinguere le fattezze 5 – dalla sovrapposizione
di temi ed argomentazioni che condannarono la Filosofia dell’Aritmetica all’incompiutezza,
dunque l’emancipazione, il risveglio di Husserl ad alcune dominanze concettuali, a
ripensare la formalità della logica, a riformulare la questione della legalità del pensiero, era
attribuito «allo studio della Logica di Lotze» 6 . Il platonismo che ne derivò viene qui
argomentato come una prima, intempestiva, figura dello scarto, del distacco.

1 E. HUSSERL, Entwurf einer “Vorrede” zu den “Logischen Untersuchungen” (1913), apparso a cura e con una introduzione di E.
Fink in Tijdschrift voor Philosophie, I, 1939, pp. 106-133, 319-339; trad. it. a cura di V. De Palma, Abbozzo di una prefazione alle
‘Ricerche Logiche’, in E. HUSSERL, Logica, psicologia e fenomenologia, Genova, 1999, pp. 187- 224.
2 E. HUSSERL, Logische Untersuchungen, Halle, Niemeyer, 1900-1901; poi in Hua, cit., XVIII, hrsg. von. E. Holenstein, Den

Haag-Dordrecht/Boston/Lancaster, M. Nijhoff, 1975, pp. 216-220; trad. it. di G. Piana, Ricerche logiche, I, Milano, Il
Saggiatore, 1968; ivi, 20052, pp. 223- 226 [§ 59. Rimandi a Herbart e a Lotze, in part. sull’obbiettività del concetto cioè sulla
rappresentazione in senso puramente logico].
3 E. HUSSERL, Abbozzo di una prefazione alle ‘Ricerche Logiche’, in Logica, psicologia e fenomenologia, cit., pp. 187- 188.
4 Ivi, pp. 194-sgg.. Per una ricostruzione della interpretazione husserliana di Platone (e del confronto riguardo alle dottrine

platoniche, principalmente, tra Husserl e Natorp), si veda C. MÖCKEL, Platos als “Gewährsmann” Husserls? Zur
Platonsrezeption im Husserlschen Werk, in «Recherches husserliennes», 12, 1999, pp. 77-111.
5 Al riguardo del confronto polemico, cui diede vita Natorp con Zur Frage nach der logischen Methode. Mit Beziehung auf E.

Husserls “Prolegomeni zur reinen Logik, in «Kantstudien», Bd. 6., 1901, pp. 270- 283, rimandiamo al secondo paragrafo
dell’Entwurf, Il senso dei Prolegomena: la distinzione tra il motivo logico e quello psicologico nell’unità di Un problema. Confronto critico
con Natorp, in E. HUSSERL, Logica, psicologia e fenomenologia, cit., pp. 189-192. Ciò che costituisce il centro focale del
confronto Natorp-Husserl sia riguardo allo statuto proprio della logica, e del Logico, sia quanto al discernimento della
lettura di Platone, che ne rappresenta un mezzo di contrasto esplicativo, è indubbiamente costituito dalla Frage nach der
Gegenstande selbst, o meglio dalla questione trascendentale dell’oggetto. «L’Idealismo intende fondare il reale nell’ideale, gli
ό̉ντα nei λόγοι; così in Platone, così in Leibniz, così in Kant, che ha riconosciuto con particolare chiarezza che la questione
dell’oggetto stesso era la questione centrale nella sua nuova logica “trascendentale”, in quanto l’intero concetto dell’oggetto si
costituisce solo dei costituenti formali della conoscenza, del Logico nel senso più profondo». P. NATORP, Frage nach der
logischen Methode, in «Kantstudien», Bd. 6, 1901, pp. 282- 283.
Una puntuale analisi della questione si ritrova nel saggio di M. FERRARI, Husserl, Natorp e la logica pura, in S. BESOLI, M.
FERRARI, M. GUIDETTI, Neokantismo e fenomenologia. Logica, psicologia, cultura e teoria della conoscenza, Macerata, Quodlibet,
2002, pp. 91- 108; sul brano del confronto da noi esaminato, in part. pp. 98-99.
6 E. HUSSERL, Abbozzo di una prefazione alle ‘Ricerche Logiche’, in Logica, psicologia e fenomenologia, cit., p. 202.

36
Il Pathos della Forma

«Già Lotze parlava di verità in sé, e così – ricorda Husserl – mi venne l’idea di trasferire
nel regno delle idealità tutto ciò che è matematico ed una delle parti principali di ciò che
secondo la tradizione è logico» 1 . Quanto ne emerge è l’attenzione husserliana per
l’accostamento della «sua teoria delle idee [cioè, di quella platonica secondo il criterio
lotzeano] e della dottrina della validità» 2 , vale a dire per la questione logica del modo di
generalità delle idee. Attraverso Lotze, il tema delle idee diventa quello della generalità, ed
allo stesso tempo, della genesi della forma. Cercando di astrarre dalle presunte deviazioni
lotzeane dall’itinerario principale – così come queste gli vengono imputate da Husserl
nell’Entwurf – le cui ragioni, ovvero le ragioni di quell’intreccio da cui abbiamo mosso,
meriteranno ben altra considerazione nel corso del nostro studio – ciò che costituisce il
fulcro del cosiddetto platonismo logico è l’assunto secondo cui «ogni logica avrebbe fine se il
concetto di oggetto non fosse inteso in modo così ampio […], se quindi non si
riconoscessero anche le idee come oggetti» 3 . Quindi, chiunque consideri le generalità
puramente ideali, le idee come forme di oggetti in generale, chiunque assicuri tali oggettualità
ad uno strato «che sta prima di ogni teoria e quindi anche di ogni teoria della conoscenza» 4 ,
chiunque cioè «formuli giudizi scientifico-ideali incurante delle rimozioni compiute dalla
filosofia mediante l’interpretazione» 5 , almeno in modo ingenuo – si intenda: almeno
preliminarmente, prima di ogni riduzione propriamente fenomenologica – è platonico 6 .

In una consonanza, dunque, non meramente ricorsiva, con Husserl, quello che stringe
assieme le considerazioni laskiane sulla dottrina platonica delle idee è la peculiare generalità
oggettuale, il concetto di oggetto in generale, come deposito logico dell’idea, come etwas “an
sich” Geltendes 7 , ed ancora del modo generale proprio dell’in sé. «Non deve stupire – scrive
dunque Lask – che l’idea di un Valere [Gelten] non-sensibile si unisca in Platone ai contenuti
generali, perché in tale guisa emerge nella maniera più evidente quale sia la missione del
Logico» 8 . È possibile, cioè, intendere il carattere proprio della generalità logica, in cui le
idee in quanto concepite compaiono, in quanto essendo state concepite si dispongono e
definiscono la propria rilevanza, solo se se ne intende il carattere oggettuale 9 . La
coalescenza del problema del valore – Geltungsproblem – con quello della generalità –
Allgemeinheitsproblem 10 – ed al medesimo tempo della loro mutua differenziazione,
rappresenta l’interrogativo di fondo delle letture laskiane, il terreno su cui si forma la sua

1 Ivi, p. 202.
2 Ivi, p. 208.
3 Ivi, p. 194.
4 Ivi, p. 195.
5 Ivi, p. 195.
6 Un’espressione simile si ritrova nella Metacritica alla “Dottrina platonica delle Idee” di Natorp, laddove scrive: «Se si pensa la

legge solo nei termini di astrazione di ciò che è comune togliendo via le differenza [si ripete] un fraintendimento che senz’altro
a partire da Aristotele – la cui miscomprensione dell’«Idea» platonica è stata illustrata nella Platos Ideenlehre [capp. 11-12] –
si è trascinato attraverso i secoli, mai però condiviso dai grandi, creativi ricercatori di leggi, i quali sono stati in tutto e per
tutto, coscienti o no, platonici». P. NATORP, Metakritischer Anhang, alla seconda edizione della Platos Ideenlehre. Eine
Einführung in den Idealismus, Lepzig, Verlag von Felix Meiner, 1921, p. 470; trad. it. di V. Cicero, a cura di G. Reale, Logos –
Psyche – Eros. Metacritica alla ‚Dottrina platonica delle Idee’ (1920), Milano, Vita e Pensiero, 1999, p. 18.
Sul platonismo logico e matematico cfr. G. LOLLI, Filosofia della Matematica. L’eredità del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2002,
pp. 83- 109, ove sembra essenziale la comprensione dell’oggettualità dell’universo delle verità matematiche, ovvero
quell’assunto, tratto da M. STEINER, Mathematical Knowledge – cit., in G. LOLLI, Filosofia della Matematica., cit., p. 83 – , in
grazia del quale «la considerazione della matematica come una scienza in sé implica che i numeri naturali, gli oggetti di
studio di questa scienza, sono oggetti nello stesso modo in cui le molecole sono oggetti». Che la questione principale si
accalchi attorno alla modalità dell’oggettualità matematica, ossia alla costituzione matematica dell’oggettualità, sarà
argomento dirimente nelle pagine che seguiranno, soprattutto nella lettura laskiana di Maimon all’interno del saggio su
Fichtes Idealismus und Geschichte, in GS, cit., I, in part. pp. 32- 40.
7 E. LASK, Plato, in GS, cit., III, p. 52.
8 Ivi, p. 18.
9 Ivi, pp. 16- 17: «Se c’è un atteggiamento pregno di valore accanto ad uno estraneo al valore, allora deve esservi un

oggetto sovra-sensibile, che nell’atteggiamento viene compreso. Questo obbiettivismo platonico contiene una
comprensione profonda dell’essenza del Teoretico, e riguarda l’abisso che sussiste tra la soggettività e le formazioni di
valore, tra il personale e l’impersonale».
10 Ivi, p. 19.

37
Il Pathos della Forma

comprensione di Platone, il mezzo idoneo a sgomberare il campo dal masso


dell’ipostatizzazione dei contenuti generali, ovvero della traduzione della formalità non-sensibile
nella materialità del sovra-sensibile 1 .
La distinzione tra l’unità ideale di valore e la generalità concettuale non ne recide il
vincolo, ma consente di individuare con chiarezza le spire di quel legame. «Secondo Platone
al blu sensibile corrisponde l’immagine trasfigurata [die verklärte Gestalt] di un blu ideale,
l’unità di significato intemporale blu» 2 , detto in altri termini, il blu in specie husserliano. «Se è
vero che un blu si può ripetere nello spazio e nel tempo, tuttavia quanto al suo contenuto
[Inhalt] è uno e lo stesso qui e lì. […] Il suo essere costituito in questo modo e non in un
altro [Sobechaffanheit], così da formare proprio questo contenuto, significa qualcosa,
indipendentemente dal fatto che sia pensato qui ed ora od altrove, o da quanto a lungo sia
pensato» 3 . L’oggettualità ideale consiste nel Sobeschaffenheit, nella unitaria determinatezza di
significato, che si traduce nella generalità del concetto di cui è contenuto. È in tale guisa che
è possibile intendere le idee come oggetti, come grani oggettuali del pensiero, in quanto da
pensare. Pertanto, si mostra a Lask scorretta l’identificazione delle idee con i concetti, tanto
quanto è improprio assumere i λΟγοι per significati di parole, invece che come correlati,
oggetti, nuclei oggettuali dei concetti generali4 .
«Le idee vengono indicate come eterne – aveva scritto Lotze – , come ciò che non nasce
né trapassa, di contro al flusso eracliteo, che deve trascinare con sé anche il proprio senso;
l’effettualità dell’essere non conviene loro, se non nel caso in cui le cose contingenti si
ornino o no di loro; la realtà effettiva del valore [Geltung], che un modo peculiare di realtà
effettiva, resta intatta a questo cambiamento; questa indipendenza da ogni tempo in
rapporto a ciò che nel tempo sorge e perisce, non può essere espressa altrimenti che tramite
il predicato dell’eternità, che nega ciò che è temporale e così anche la forza del tempo» 5 . In
questo modo la Logik lotzeana comincia la posizione dell’interrogativo circa la risolvibilità
reciproca della determinazione dell’idealità del valore e quella della sua generalità,
soffermando il proprio sguardo su un principio di separazione, Gesonderheit, χωρισμΟς, di
differenza, che anticipa e consente la duplicità di formalità e generalità – nella
consapevolezza che in ciò cova la condizione essenziale del confronto e della
comprensione delle dottrine platoniche. E la rilevanza e la gravità di questo passaggio
rappresenta il punto di maggiore prossimità con le Vorlesungen laskiane, ammettendo nella
maniera più evidente l’illustrazione di una vicenda che costituirà la linea di basso continuo che
accompagnerà lo scorrere della trama principale di questo studio.
«Che le idee siano divisibili o divise (χωρΛς τξν 0ντων) dalle cose – osservava Lotze –
indica in primo luogo la loro concepibilità, perché l’immagine [Bild] (εΜδος) del loro
contenuto [Inhalt] resta rappresentabile alla nostra reminescenza, anche quando
nell’effettualità dell’essere le cose sono scomparse, e solo mediante il loro impulso vengono
in noi risvegliate; ma poiché sotto quel contenuto viene inteso solo ciò che è comprensibile
in una forma generale [in allgemeiner Gestalt], allora questo si presenta come sempre lo stesso
nei differenti fenomeni della realtà effettuale esterna, e cioè è indipendente dai singoli
esempi della sua realizzazione [Wirklichung] sensibile» 6 . È il modo in cui viene trattenuta la
figura, la composizione figurale dell’intensità referenziale propria dell’idea, che, nella lettura

1 Ivi, p. 19: «Non si tratta semplicemente dell’ipostatizzazione dei contenuti generali, piuttosto il problema del valore nasce
nel [am] problema della generalità».
2 Ivi, p. 18.; cfr. P. 52. Sulla legittimità di quella Verklärung peculiarmente platonica che determina la indicazione delle

specie ideali come referenti delle formazioni generali, pertinenti cioè al genere, Gattung, delle generalità esperite, erlebbaren
Allgemeinheiten, Lask insisterà in special modo nel System der Logik, III. B. Die Vielheit der logischen Formen, GS, cit., III, p. 147.
La trattazione di tale questione è pertanto rimandata alla riflessione sulle declinazioni figurali della forma, che avrà luogo
oltre: cfr. infra, cap. III, § 1.3, pp. 171-179.
3 E. LASK, Plato, in GS, cit., III, p. 18.
4 Ivi, p. 19: «È pertanto scorretto intendere le idée come “concetti”, i λΟγοι come “significati di parole”; in verità, le idee

ne sono i correlati».
5 H. LOTZE, Logik, 1874, cit., p. 502.
6 Ivi, p. 502- 503.

38
Il Pathos della Forma

lotzeana, rende concepibile la conformazione generale quanto alla gamma variabile dei resti
impressionali. È la possibilità stessa della figurazione eidetica [Bild des Inhalts] vigente quale
medesimezza del significato a dettarne la trasformazione in un deposito contenutistico
[Gehalt], la cui estensione è esprimibile come generalità nella decorrenza del tempo, nella
instancabile successività delle occasioni di ciascuna delle intenzioni che ad esso si rivolge 1 .
La tenuta dunque non tanto e non solo dell’applicazione ermeneutica alla Ideenlehre
platonica, ma della stessa delineazione di un campo oggettuale-eidetico, oggettuale cioè in
quanto determinato eideticamente, per la logica, per una trattazione filosofica della logica,
dipende dalla cadenza di figurazione e formazione – oggettualità ed obbiettività – dei contenuti
ideali e delle modalità di comprensione o di ideazione. La forma logica pertanto resta
tributaria dell’incrocio irrisolvibile di Bild e Gestalt, degli aspetti graduabili della figura e della
discrezione di una conformazione che reca in se stessa l’affanno della differenza rispetto a
ciò cui mira, della morfologia della datità figurale – del darsi in quanto figura – e della
ripresa che cade in ogni Gestaltung 2 .
Ora è proprio la commisurazione con tale risma di questioni a sorgere ed a comporsi
nella nostra lettura delle Vorlesungen laskiane, concedendo un piano prospettico non certo
risolutivo, né comprensivo, ma capace di lasciare intendere la posta in gioco quanto al
difficile confronto con il platonismo lotzeano, ovvero con quella coimplicazione di Bilden e
Gelten, del figurare e del valere, e quindi – sul piano inferiore dell’apprensione – di Gestalt e
Wert, formazione e valore 3 .
Qui si introduce il tema della duplicità semantica scorta nell’idea di Urbildlichkeit, capace
di squarciare il corpo vivo dell’interpretazione e della perizia filologica 4 , lasciando minuti
spiragli al ripensamento. Ciò di cui si tratta è la differenza che vede divaricarsi tra «una
realizzazione, che attraversando la realizzazione e venendo da questa appresa, si configura
come modello [Vorbild] rispetto ad ogni altra manchevole» ed «il semplice e puro significato
di valore [Wert] che precede ogni realizzazione» 5 , dunque ogni realizzazione di valore, in
quanto valore valente. La distinzione, pertanto, delle due serie ideali, quella della
Vorrealisierung e quella della Realisierungsvollendung, della precedenza ad ogni realizzazione e
del compimento realizzativo, cioè del riempimento, Erfüllung, della saturazione della pretesa
a realizzarsi, si para di contro al pericolo sempre incombente – di cui la già indicata
Verquickung lotzeana è un involontario esempio – dell’ineinander übergehen 6 , del passaggio
l’uno nell’altro, della loro mutua sostituzione, del loro fraintendimento.
Ma tale minaccia è il tessuto stesso dell’Ideenlehre, è il motivo della relazione di non
coincidenza, che in essa trova espressione. «Le idee» – scrive in proposito Lask – «sono
trasfigurazione e duplicazione [Verklärung und Verdoppelung] di ogni cosa, solo perché sono
comprensibili come generi [gattungsmäßig]. Non è perché sono generali, che sono anche
pregne di valore, ma al contrario, in quanto sono pregne di valore, sono generali. La loro
generalità è solo il Motivo, grazie al quale si definiscono [erklären] come pregne di valore, è
solo la loro dignità logica. Appartiene all’essenza dei contenuti di valore [Wertinhalte] di

1 Come l’intemporale, ciò che non è affatto nel tempo, né sussiste, né vale, ma aoristicamente non è, è rappresentato, è messo
in figura generale nel tempo, nell’occasione di ciascuna espressione ed intuizione, sempre come eterno, come ciò che in
eterno dura, cioè è. Cfr. E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, pp. 19-sgg.
2 B. CENTI, L’armonia impossibile, cit., p. 81, «L’essente allora è una figura, un sistema omogeneo di delimitazioni spaziali

che si sciolgono dalla continuità dello spazio e procedono muovendosi sul suo sfondo». Sulla prossimità, quanto alla
trattazione del tema dell’immagine [Bild], tra i primi scritti lotzeani sulle scienze organiche e la epistemologia herbartiana
della Metaphysik, vedi ivi, p. 27. Riguardo invece alla riflessione logica fichtiana sull’intero plesso semantico di Bild/Bildung,
su cui torneremo nel prossimo capitolo, in part. J. G. FICHTE, Über Verhältniss der Logik zur Philosophie oder transzendentale
Logik, Nachdruck der Orig.-Ms., IV, 9, hrsg. von R. Lauth, P. K. Schneider, Hamburg, Meiner,1982; inoltre, cfr. M.
IVALDO, Fichte. L’Assoluto e l’Immagine, Roma, Studium, 1983.
3 E. LASK, Plato, in GS, cit., III, p. 20: «Se si tenta di caratterizzare logicamente questa originaria parte costitutiva della vita, la

conformazione del valore [Wertgestaltung] appare come la generalità sovrastante, il genere, mentre le realizzazioni appaiono
come casi singoli».
4 Cfr. in proposito la breve nota del curatore alle Plato, in GS, cit., III, p. 3.
5 E. LASK, Plato, in GS, cit., III, p. 22.
6 Ivi, p. 24: «[…] le due serie concettuali di pre-realizzazione e compimento della realizzazione passano l’una nell’altra

[ineinander übergehen]». Cfr. H. LOTZE, Logik, 1874, cit., pp.504- sgg.

39
Il Pathos della Forma

essere conformi al genere. Perciò appartiene all’essenza dell’Urbildlichkeit di offrire il metro


di misura alle innumerevoli singole realizzazioni. Se pertanto il rapporto dell’uno ai molti,
del generale al particolare, sembra essere, a Platone e ad Aristotele, il rapporto
fondamentale, questo non avviene per un fanatismo logico-formale, né per una
predilezione a favore della generalizzazione e dunque per un’incomprensione
dell’individuale, ma piuttosto perché è l’epifenomeno logico di quella relazione originaria
quanto alla Cosa [jenes sachliche Urverhältnis], che l’oltresensibile sia un ché di conchiuso, che
si frammenta [zersplittert] nell’infinita molteplicità del sensibile. Nel rendersi sensibile infatti
l’idea compare come l’Uno ed allo stesso tempo come il Generale rispetto alle realizzazioni
ripetibili all’infinito» 1 .
Quindi è evidente come, alla luce del concetto duale di Urbild 2 , della proto-figuratività,
intesa 1. come modello generale, come determinazione di un genere, Vorbild, all’interno del
tessuto proposizionale, costituito dalle formazioni ideali proprie della logica, e della sua
ricorsività nel tempo dell’intendimento, che dirama dalla dedizione conoscitiva, e della
proto-figuratività, 2. come origine figurativa di ogni figurazione, dell’Urbild als solches, come
principio in se stesso non compiuto, assegnato come traccia a ciascuna delle sue incomplete
figurazioni, emerga il profilo autentico della questione della generalità convertita nella
forma delle idee. Solo in questo modo sembra sia possibile presentare l’intreccio eidetico di
formalità e generalità che grava sulla definizione dell’ordine logico 3 : la primitività della
tipologia logica si traduce – attraverso il calcolo delle variazioni occorrenti nel registro delle
proposizioni, delle compagini enunciative – nell’ambigua indicazione della generalità 4 .

3.3. La validità dell’oggetto: il confronto con la lettura natorpiana di Platone.

1 E. LASK, Plato, in GS, cit., III, p. 26.


2 Sui distinti significati di Urbild, nel corso della storia del pensiero filosofico, soprattutto sulle oscillazioni da esso subite a
seguito dell’epistemologia lockeana tra modello e protofigurazione, si veda la voce Urbild, a cura di T. BORSCHE, nell’
Historisches Wörterbuch der Philosophie, Basel-Stuttgart, Schwabe & Co., pp.354- 356.
3 Su come questo groviglio di formalità e generalità, ed allo stesso tempo, di generalizzazione e formalizzazione, rappresenti

uno dei problemi preliminari più consistenti nella comprensione fenomenologica della logica, cfr. E. HUSSERL, Ideen zu
einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, I, Hua, Bde. III/1 e III/2, hrsg. von K. Schuhmann, Den Haag,
M. Nijhoff, 1976, § 13, pp. 26-28; Anhang III; trad. it. di E. Filippini, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia
fenomenologica, I, Torino, Einaudi, 2002, pp. 33-35; pp. 386-388; cfr. E. MELANDRI, Logica ed Esperienza in Husserl, Bologna,
Il Mulino, 1960, in part. pp. 48-73.
4 Queste considerazioni preliminari rimandano esplicitamente al modo in cui L. WITTGENSTEIN ha inteso, e

successivamente riformulato la nozione di Urbild tra il Tractatus logicophilosphicus (1922) e le Philosophischen Untersuchungen
(1945-49), così da fornire al proseguimento dello studio un terreno di confronto con il pensiero di Lask, che ecceda dalla
mera tenuta della Abbildtheorie, quanto alla teoria del giudizio, e verifichi invece la concezione di una forma logica come
figurazione oggettuale, come figurazione di oggettualità. Questa impostazione consente che entri in questione non tanto
un isomorfismo tra enunciazione e referenza, ma un più originario allomorfismo tra oggetto e presentazione dell’oggetto, una
più originaria differenza che regge – figuralmente – ogni differente figurazione, ogni differente ricorso figurativo.
Nella proposizione 3.315 del Tractatus, luogo per antonomasia dell’ostensione del concetto di Urbild, si legge: «Se
trasformiamo una parte costitutiva d’una proposizione in una variabile, v’è una classe di proposizioni le quali tutte sono
valori della proposizione variabile così nata. Questa classe dipende ancora in generale da ciò che noi, per convenzione
arbitraria intendiamo per parti di quella proposizione. Ma se trasformiamo tutti quei segni, dei quali si è arbitrariamente
determinato il significato, in variabili, resta pur sempre una tale classe. Ma ora questa è dipendente non più da una
convenzione, ma solo dalla natura della proposizione. Essa corrisponde ad una forma logica – ad un logische Urbild, ad un
archetipo logico». Ancora nei quaderni 1914- 1916, Wittgenstein ritorna sulla medesima questione, curandosi in primo
luogo di distinguere linguaggio segnico ed immagine primitiva [Urbild] (nota dell’8.5.15), così da affermare: «Il nostro semplice È:
il più semplice che conosciamo.- Quel semplicissimo cui la nostra analisi può spingersi – esso ha bisogno d’apparire nelle
nostre proposizioni solo quale immagine primitiva [Urbild], quale variabile – ecco quel semplice che noi intendiamo e
cerchiamo» (11.5.15). L’esito, certo non conclusivo, di tali riflessioni è raccolto come inasprimento del problema nel § 131
della Prima Parte delle Philosophischen Untersuchungen, ove nell’elaborazione della teoria dei giochi linguistici, l’Urbild dà conto
della sua avvenuta trasformazione in Vorbild, modello, solo in quanto regolo, termine di paragone: «Soltanto così, infatti,
possiamo evitare l’illegittimità o la vacuità nelle nostre asserzioni: prendendo il modello per ciò che è: termine di paragone,
- si potrebbe dire per un regolo – e non idea preconcetta, cui la realtà debba corrispondere. (Il dogmatismo in cui si cade
così facilmente facendo filosofia)». Cfr. L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, London, Routledge and Kegan Paul,
1961; trad. it. di A. G. Conte, Tractatus logico-philosophicus, Torino, Einaudi, 1995; ID., Philosophische Untersuchungen, Oxford,
Basil Blackwell, 1953; trad. it. di M. Trinchero, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1995.

40
Il Pathos della Forma

Il conseguente percorso di chiarificazione, che si comporrà nel tentativo di rendere conto


dei moduli di figurazione che si distendono nelle indicazioni e nelle elaborazioni logiche,
denuncia, in questa lettura, la sorgente platonica della filosofia di Lask; si ravvisa, cioè, in
questo grumo testuale il luogo più proprio in cui i rami della forma e della formazione, della
figura e della figurazione, dei generi e della generalità si innestano l’uno nell’altro. Né
tuttavia questo può essere un indizio risolutivo, né una teca abbastanza accogliente: l’intero
pensiero di Emil Lask, infatti, si consumerà nella prova di riafferrare il tema della figurazione
della forma – l’originaria figurazione avvisata nella Ideenlehre – e della formazione delle
variabili figurali – i molteplici, e particolari e generali, aspetti della costituzione figurativa di
proposizioni, assunzioni e giudizi ed impegni e promesse e norme.
Si scopre così il modo più prossimo all’interrogazione laskiana circa il valore, ovvero la
tappa più avanzata nella formulazione della domanda quanto alla filosofia platonica: avendo
«legittimato le idee come “oggetti” [“Gegenstände”], avendo scoperto l’oltresensibile come un
che di separato [Gesondertes]», particolare, individuato, si inaugura la domanda attorno al
principium individuationis. Il tema della determinazione oggettuale delle idee – del modo in cui
le idee fungono da riferimento di quell’intenzione di cui solo parzialmente diverranno
contenuto – introduce al baricentro ermeneutico delle Vorlesungen, a ciò da cui nasce la
pensabilità della dottrina platonica, das Urgeheimnis der Berühung, l’originario, misterioso,
segreto del contatto, ossia l’ipotesi di risoluzione non accrescitiva (dialettica), ma figurativa
(analitica) 1 della differenza. Ed è su questo piano della lettura e della comprensione che si
misura la distanza o la prossimità con altre strategie ed altri paradigmi interpretativi, ossia
non semplicemente quanto alla Geltung-gepräge dell’idea, così come deriva dalla superficie
lotzeana, ma quanto alla modalità oggettuale di tale Geltung. Se cioè la versione di ⊂δΦα in
Geltung/Wert consente una riflessione sull’alterità non-essente, senza dover ricorrere
all’istituzione di un rango superiore sovra-essente – il germe da cui deriverebbe
l’Ipostasierung – quello che resta invariabilmente in questione ed anzi ne rappresenta la crux, è
la dimensione dell’ ⊂δΦα in quanto geltend rispetto al nicht-geltend, di una ⊂δΦα in quanto
geltend rispetto ad un altro geltend, rispetto alla località del soggetto, allo sguardo attonito, e
capace di figurazione, della ψυχΗ: in altri termini, quanto si presenta senza mutazione
eppure separatamente alla differenziazione conflittuale degli intendimenti, delle realizzazioni
intenzionate, o, più semplicemente delle modalità espressive ed intenzionali, è la
disposizione propria eidetica.
Seppure le idee non sono, ma valgono, come, dunque, valgono le idee? Esplicativo al
riguardo è il mediato, ma costante corpo a corpo con l’interpretazione natorpiana della
dottrina delle idee, ed in particolare rispetto ai dialoghi platonici del Fedone e del Teeteto.
Seguiremo pertanto l’itinerario del confronto tra Lask e Natorp sui testi platonici, in un
ritmo costante di rispecchiamento e di rimando dall’uno all’altro, perché si comprenda, più
manifestamente possibile, quale sia qui la posta veramente in gioco.
La traccia dirimente nella riflessione di Natorp è sin dall’inizio quella che riguarda l’essere
oggettuale dell’idea, ovvero il suo essere nel giudizio, l’essere oggetto nel giudizio, in quanto
intenzionalità ed intenzionalità del concetto, riferimento al contenuto ed ad un contenuto
concettuale, che abbraccia la molteplicità estensiva degli oggetti-referenze, identificandone
la figura fondamentale, l’ εΜδος 2 . Il giudizio si configura pertanto come ambito di una
concatenazione, della realizzazione di una disposizione di senso, quale λΟγος, forma del
senso e di ogni senso, forma grazie alla quale ciascun senso può essere significativamente tale,
legalità sovratemporale. «Rispetto ad un qualsiasi oggetto particolare, inteso come materia

1 Sulla polarità indicata di dialettica/analitica quanto al compito della logica, rimandiamo oltre al cap. 2, in merito alle
considerazioni su Fichtes Idealismus und die Geschichte, in GS, cit., I, pp. 1-203.
2 P. NATORP, La dottrina platonica delle idee, a cura di G. Girgenti, Milano, Vita e Pensiero, 1999, pp. 58-sgg.: «l’opposizione

tra l’unità del contenuto concettuale e la molteplicità degli oggetti abbracciati in questo contenuto viene rimarcata con
particolare frequenza ed energia», quale identica figura fondamentale, εΜδος, così da determinare «la grande conquista del
Menone: la scoperta dell’ a priori», nella veste del καθ ’∉λον.

41
Il Pathos della Forma

del sapere, il sapere stesso è tuttavia qualcosa anche per se stesso in quanto coscienza, o
meglio, esso è la peculiare legalità in conformità della quale la coscienza sa qualcosa» 1 . Anzi,
prosegue Natorp, «è la legge propria della conoscenza a generare anzitutto l’oggetto, cioè a
generarlo come oggetto di coscienza» 2 . La legge, quale segno o cifra dell’identità e della
distinzione interna della cosa, è ciò che le conferisce il suo aspetto dato, μορφΗ, e la sua
figura pensabile, l’εΜδος. Dunque, la legge, in quanto unità noetica in generale, è ciò che
costituisce l’ον, definendone l’oggettualità, intendendo per statuto ontologico dell’oggetto che è
la sua posizione nel pensiero, l’unità della determinazione e quindi della predicabilità 3 . «In
termini teoretici generali: la Legge è la conservazione dell’unità in quanto punto di vista del
pensiero per l’interpretazione della molteplicità, della differenza, per il loro recupero nella
conoscenza» 4 .
È in questa prospettiva che Natorp legge la differenza tra τΛς λΟγος, una espressione
nella sua occasionalità, od un quadro coerente di espressioni, ed α∏τΟς λΟγος, la
medesimezza del λΟγος, ciò a cui si richiama l’ascolto di ogni voce attraverso di sé, ciò cui
Eraclito si rivolge nel celebre frammento 50 5 . «L’istanza ultima della scienza non è un
λΟγος [τΛς λΟγος, Simposio, 211 a], bensì il λΟγος stesso, il λΟγος in sé
[α∏τΟς λΟγος, Repubblica, 511 b], la legge fondamentale del Logico, l’unica legge a
fondare tutte le posizioni noetiche particolari [λΟγοι], ed, in queste, ogni Essere
particolare» 6 . Ciò a cui il pensiero aspira, ciò che per il pensiero vale senza condizione e
necessariamente, in altri termini la necessità logica della noesi è stabilita dalle leggi della stessa
funzione noetica pura 7 , dalla ψυχΗ, quale concetto di funzione 8 . La precedenza, dunque,
l’indipendenza della verità delle cose dall’arbitrio, dalla variabilità, dal contesto, dal conflitto
delle opinioni 9 , «la verità di ciò che è (degli ό̉ντα) va individuata unicamente nelle posizioni
noetiche [Durchsetzungen], λόγοι, nelle ‘enunciazioni’ fondate logicamente, cioè in quelle
enunciazioni “vere e sicure che si possono riconoscere come tali”, accertate attraverso una
deduzione sufficiente» 10 . L’ambito logico, quale ambito della legalità pura, della condizione
di validità di ogni asserto è, quanto all’atteggiamento scientifico, il sistema assiomatico del
pensiero, il campo assicurato alla deducibilità, alla transitabilità dal portato di una
proposizione a quello di un’altra in una sequenza, in una solida catena apodittica, inaugurata
dalla relazione di inerenza tra posizione soggettiva e posizione attributiva, dalla

1 Ivi, p. 43.
2 Ivi, p. 49.
3 Ivi, p. 136: «Essere qui significa: la posizione nel pensiero, l’unità della determinazione e quindi, della predicazione».
4 Ivi, pp. 71- 72.
5 I Presocratici. Frammenti, a cura di Diels e Kranz, trad. it. a cura di G. Giannantoni, Roma-Bari, Laterza, B 50, «ου̉κ ε̉μου̃ του̃

Λόγου α̉κούσαντας/ ο̉μολογει̃ν σοφόν ε̉στιν Έ̉ν Πάντα»; cfr. M. HEIDEGGER, Logos, in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo,
Milano, Mursia, 19976, pp. 141- 157; cfr. M. SANCIPRIANO, Il Logos di Husserl. Genealogia della logica e dinamica intenzionale,
Torino, Bottega d'Erasmo, 1962.
6 P. NATORP, La dottrina platonica delle idee, cit., p. 112.
7 Ivi, p. 149
8 Ivi, p. 145: «Molto spesso la parola ψυχΗ non indica un concetto di sostanza, ma un concetto di funzione». Riguardo

al ruolo esplicativo che la riflessione filosofica sul concetto di funzione ricopre quanto alla nozione di relazione, sotto cui
la medesima figura della ψυχΗ ricade, è interessante un rimando alle ricerche cassireriane sul concetto di funzione, che
Natorp interpone nel discorso, tenuto l’8 dicembre 1913 alla sezione berlinese della Kantgesellschaft, sulla Dottrina platonica
delle Idee: «La comprensione dei filosofi si è al riguardo dischiusa sempre più da quando l’approfondimento della logica,
mediante l’accesso fondamentale ai più recenti sviluppi della matematica, ha portato ad elevare in generale la relazione
(soprattutto sotto la forma matematica della funzione) al di là della mera quantità e qualità, e egualmente da quando la
direzione più recente della scienza della natura ha sempre più respinto la concezione cosale dei fattori ultimi della natura
in favore di una concezione funzionale, come fa dimostrato in modo esauriente e convincente soprattutto Ernst Cassirer
nel volume Substanzbegriff und Funktionsbegriff, e come anch’io ho cercato di spiegare nelle mie Logische Grundlagen» P.
NATORP, Logos – Psyche – Eros. Metacritica alla «Dottrina platonica delle Idee», cit., pp. 111- 112. Cfr. E. CASSIRER, Substanzbegriff
und Funktionsbegriff. Untersuchungen über die Grundfragen der Erkenntniskritik, Berlin, B. Cassirer, 1910; trad. it. di G. A. De
Toni, Sostanza e funzione. Ricerche sui problemi fondamentali della critica della conoscenza, Firenze, La Nuova Italia, 1999; cfr. P.
NATORP, Die logischen Grundlagen der exakten Wissenschaften, Leipzig – Berlin, Teubner, 19212.
9 P. NATORP, La dottrina platonica delle idee, cit., p. 158.
10 Ivi, p. 171, in rif. al Fedone, 99 e.

42
Il Pathos della Forma

partecipazione 1 – filtrata logicamente dall’inesse subjecto – degli elementi nel giudizio (valido,
fondato logicamente) 2 .
Diviene, pertanto, dirimente il modo in cui le letture rispettivamente di Natorp e di Lask
discernono tra le righe del Fedone, luogo in cui si fronteggiano la purezza delle «Forme
logiche – come si esprimerebbero i moderni» 3 , ovvero la designazione del καθ ’∉λον, e la
disposizione della conoscenza mediante i sensi, o meglio il differenziale sensibile, l’ πΟ
dell’intuizione sensibile.
«Diciamo che è qualcosa l’uguale? – si legge nel Fedone – Non intendo un legno uguale ad
un altro né una pietra uguale ad un’altra e null’altro di simile, ma qualcosa di diverso oltre
tutto ciò, l’uguale in sé» 4 . Rispetto a ciò, Lask afferma, a differenza di Natorp, la possibilità
di indicare l’inseità dell’eguale – meglio, riprendendo la diade già fatta presente, la generalità
dell’eguale – che rimonta all’urgenza ed alla rinvenibilità esperibile di una misura, od alla
sempre identica determinazione di una misura. «Sensibilmente – annota Lask – non è
possibile esperire l’uguaglianza in tutta la sua chiarezza, in quanto uguaglianza assoluta. E
sappiamo, infatti, che quanto qui è uguale, non è affatto l’uguale in assoluto, solo se
presupponiamo una uguaglianza assoluta come metro archetipo. Così una semplice
“forma” viene innalzata ad ideale ed a metro, finendo per essere posta esplicitamente sullo
stesso piano delle supreme idee di valore» 5 .
Ciò a cui qui si richiama è la traccia della misurazione, l’inevitabilità del riamando,
dell’hinausweisen über, alla precedenza obbiettiva rispetto alla singolarità od occasionalità delle
conoscenze. «Nella sensibilità si trova già qualcosa di obbiettivo, a cui essa rimanda, a cui
essa si dirige» 6 , meglio in alcuni tratti della sensibilità si dipana un filo, un’indicazione,
un’unità obbiettiva, che nelle duplicità segniche, nell’ ναντΛα, nelle tracce che
simultaneamente balenano, contrastandosi, rimane in sospeso, spingendoci a cadere
nell’imbarazzo, ′πορελν, nella vaghezza riguardo alla via da imboccare. Quello che invita,
richiama il pensiero a riconsiderare, a riprendere, a rimirare il proprio segno, il proprio
bersaglio, σκοπΟν, τΒ παρακαλουντα τΗν νΟησιν ε⊂ς πΛ-σκεψιν 7 , è la stessa
computabilità sensibile, ciò che rende possibile l’enumerazione, il numero degli α⊂σθητΒ,
dunque, la distinzione, la successione molteplice e temporale di ciò che viene arrecato dai
sensi. È per questo che a venir evocato in reo non è la dimensione del piano comprensivo
proprio della vista – almeno della visione astrattamente in quiete, come quella qui
considerata, e non in moto, cinestetica –la sua specifica capacità di disporre nella medesima
prospezione la pluralità comparabile, interrelabile, degli oggetti, come nella visione di una
mano la comprensione della sua unità non consente che s’ingeneri alcun dubbio sulla
dimensione o sulla diversità delle dita che ne compongono l’estremità: ciò che occupa
l’intenzione visiva rispetto ad una mano è pertanto la sua unitarietà che conclude circa il
radicamento e la ragione delle sue parti. La diversità, pure evidente, che sussiste tra ciascuna

1 Sul nesso tra partecipazione, del caso singolo alla legge, e sussunzione, del caso singolo nella legge, cfr. P. NATORP, La

dottrina platonica delle idee, cit., p. 197.


2 Si confronti questa idea dell’unità della scienza, della teoria con quella husserliana espressa in Logica formale e trascendentale:

«I giudizi in generale formano dunque un sistema della “conseguenza” – in senso ampio – quando in una “considerazione
più precisa” convergono per chi giudica nell’unità di un giudizio necessario all’interno della quale nessun giudizio
contraddice l’altro». Cfr. E. HUSSERL, Formale und Transzendentale Logik. Versuch einer Kritik der logischen Vernuft, Halle, 1929;
poi in Hua, Bd. XVII, hrsg. von P. Jansen, Den Haag-Dordrecht/Boston/Lancaster, M. Nijhoff, 1974, p. 290-291; trad.
it. a cura di G. D. Neri, Logica formale e trascendentale, prefazione di E. Paci, Roma-Bari, Laterza, p. 405. Inoltre, cfr. ivi, p.
406: «l’aspetto-base essenziale, a mio giudizio, della dottrina presentata nel testo di questo volume, sta proprio in ciò che
compatibilità, contraddizione e conseguenza in tutti i sensi considerati, in base alla funzione loro propria in tutta l’analitica
formale, possono essere e quindi anche devono essere precisati in un senso puro, che non contiene in sé alcuna relazione
alla verità od alla falsità dei giudizi, dei giudizi cioè che possono essere di volta in volta pensati come tematici in base a
rapporti analitici».
3 E. LASK, Plato, in GS, cit., III, p. 25.
4 PLATONE, Fedone 74b.
5 E. LASK, Plato, in GS, cit., III, p. 25.
6 Ivi, p. 25.
7 PLATONE, Repubblica, VII, 523 b. Cfr. E. LASK, Plato, in GS, cit., III, p. 25.

43
Il Pathos della Forma

delle dita, quanto a grandezza, forma, o fosse anche colore, non esige alcun ricorso oltre di
sé, in quanto viene ridotta alla relazione della loro appartenenza, quali parti, all’intero, in
virtù della quale quelle terminazioni ossee separate e disposte in una certa figura regolare,
quella del palmo, vengono riconosciute di primo acchito sotto il nome comune di dita.
Altrimenti pare essere il caso del tatto, ′φΗ, nello specifico esempio della percezione della
grossezza o sottigliezza, della mollezza o durezza, della pesantezza o leggerezza. «Dapprima
l’organo di senso preposto alla durezza è costretto ad incaricarsi a determinare anche la
mollezza, e avverte l’anima che percepisce il medesimo oggetto [ω̉ς ταυ̉τόν] come duro e
come molle allo stesso tempo» 1 .
L’aporeticità dunque rimanda all’inevitabilità, alla coazione all’elenco, alla distinzione, alla
moltiplicazione, alla differenziazione, al movimento logico dell’enumerazione, al λογισμός, al
calcolo dei sensibili, alla determinatezza aritmetica della sensibilità aptica in senso proprio,
tattile in senso ampio. È la digitalità del calcolo ad ulcerare, έ̉λκος, a ferire, a strappare le
dande del pensiero, ε̉λκτικόν ώ̉ν πρός ου̉σίαν, traendolo, attirandolo verso l’oggettualità dell’ου̉σία.
È nel contatto la ferita che segna l’origine della mira, ovvero il ricorso alla sua limitatezza.
È nella ferita che da sempre poggia l’Hinausgewiesenwerden über sie, la trama obbiettiva ed
ancora cinetica, il κινει̃ν ε̉ν ε̉αυτη̃ τήν έ̉ννοιαν 2 , il muovere il ripensamento alla medesima cosa,
l’essere rimessi, rimandati, riposti nella direzione che attinge al di là della propria attualità, e
dunque della propria concludenza, di sé.
Che «a partire dalle sensazioni tutte le cose percepite tendono ad essere come l’uguale,
pur restandone inferiori» 3 – dunque nella posizione più bassa del sostegno, del latore, del
sostrato – se e solo se «prima di cominciare a vedere, ad udire ed a percepire con gli altri
sensi» si sia disposto l’uguale in sé, significa, all’intendimento di Lask, spingere a
comprendere il modo in cui sussiste oggettualmente la misura, o meglio il modo di datità di
quell’Altro, che si sottrae all’essere effettualmente, pur rimanendovi appeso. «Ciò che
esperiamo, se non esperiamo soltanto questo qui, ma se nella medesima circostanza» - nel
medesimo arco o riferimento intenzionale, ma non quanto allo stesso contenuto –
«esperiamo anche un Altro, allora questo è un Qualcosa, che tuttavia non è qui» 4 , allora
questo Altro si dà in quanto qualcosa ma non nel modo dell’esistenza [da ist] effettiva. Da
ciò l’attenzione è irrimediabilmente attratta dalla specie del Gegenüberstellung, della
dislocazione di contro di una dualità, dall’irrecuperabilità del contatto originario, in quanto
esso medesimo origine, dal Beruf der Trägerschaft 5 , dal compito e dalla fatica del sostenimento
del senso, della sua portanza: della sua sostenibilità.
Del tutto differente è il percorso natorpiano per discernere e dare ragioni delle questioni
scambiate tra Simmia, Cebete e Socrate tra le righe platoniche, laddove la precedenza al
sapere, il voraus, diviene pre-sapere, vorauswissen, presupposto concettuale del sapere, ovvero
condizione formale e formata dell’a priori di ogni conoscenza. «Il concetto è accanto o fuori
rispetto al sensibile inteso come sua Alterità [Fedone, 74 a]; ma fuori da ogni confusione del
Sensibile, e soltanto fuori da essa, noi giungiamo a conoscere l’Essere puro, intelligibile,
quando, distogliendo la sguardo dalle fluttuazioni dei sensi, dirigiamo i nostri pensieri verso
ciò che si lascia fissare come uno ed identico in tutte le fluttuazioni» 6 . L’Alterità, ora ascritta
alla sensibilità, viene risarcita nella morfologia dell’anticipazione 7 , nel tracciamento non più
oggettuale della legalità di ciascun dominio di conoscenza, nell’indicazione di una Grundsatz,
di una proposizione fondamentale. «La proposizione fondamentale, la Hypothesis stessa è il

1 PLATONE, Repubblica, VII, 524 a-b.


2 PLATONE, Repubblica, VIII, 525 a.
3 PLATONE, Fedone, 75 b; cfr. E. LASK, Plato, in GS, cit., III, p. 26.
4 E. LASK, Plato, in GS, cit., III, p. 26.
5 Ivi, p. 22: «Non una sorta di effettualità “ideale” è portatrice di queste realizzazioni, ma proprio la effettualità sensibile e

personale, che esclusivamente assolve al compito di esserne latrice».


6 P. NATORP, La dottrina platonica delle idee, cit., p. 186.
7 La questione potrebbe anche essere ricondotta nel chiasma di attrazione all’altro (in Lask) e di anticipazione del non-altro

(in Natorp).

44
Il Pathos della Forma

Trascendentale, il trans-oggettuale, il trans-scientifico, in quanto è ciò che ad un tempo


fonda ogni oggetto, ogni scienza e perciò esso stesso è raggiungibile solo mediante la via
della scienza nell’ultima ascesa induttiva da le scienze a la scienza» 1 . Dunque – come Lask
commenta a proposito della lettura natorpiana – la dottrina delle idee si muta in
Wissenschaftslehre, nella dottrina dei «fondamenti della ricerca riguardo ai fenomeni!», dacché
le idee rappresentano «il traguardo che determina tutto il cammino della ricerca!» 2 . Infatti,
«dall’Idea bisogna pervenire al fenomeno» 3 , o piuttosto dall’idea deriva la possibilità di
risolvere l’enigma serbato sulla superficie fenomenica dell’esperienza, di trovare le
condizioni per disegnare la sua linea asintotica approssimandola alla funzione del limite 4 . «Il
fenomeno è indice della posizione relativa, ma il fondamento per la posizione relativa è
oramai indicato nella stessa funzione noetica pura, ed in ultima analisi, in quella funzione
universale del pensiero, che consiste appunto nel mettere in relazione» 5 : la funzione noetica
pura accede al campo della posizione relativa, allo stadio originario del pensiero empirico in
generale.
Qual è dunque non lo statuto, ma il modo proprio della conoscenza? Certo non
l’assolutezza dalle bassure dell’esperienza sensibile, ma la dedizione agli enti, la remissione
plurale a ciò che è. «Quale che sia il suo nome» 6 , quale che sia lo stemma che si scelga per
questa, essa è δοξάζειν: sull’intendimento di questa traccia greca – indice che inaugura la
filosofia della logica 7 , in quanto interrogazione filosofica rivolta al problema della verità, quindi,
alla distinzione di ciò che reca la medesima forma della verità e di ciò che reca una forma
diversa, e delle loro diverse modalità di sussistenza 8 – Lask stringe l’assedio alla dottrina
platonica delle idee nella fraseologia marburghese.
«In tedesco – scrive Natorp – non è possibile tradurre δόξα con Vorstellung,
rappresentazione, neanche nel primo senso […]. Forse si può tradurre con trovare [finden],
stimare [befinden], che in questo caso significherebbe “decidere dopo aver verificato”,
nell’altro “accettare senza verificare”» 9 . Nonostante sembri, prima facie, ingenerosa la
presentazione polemica che ne offrono gli appunti laskiani, secondo cui Natorp avrebbe
tralasciato proprio la nozione di δοξάζειν espressa in Teeteto 187 a 10 , sarà proprio l’Appendice
metacritica alla Platos Ideenlehre a rinvenire la medesima lacuna, quanto ad «un punto specifico
della dottrina della conoscenza, il quale non è stato ancora illustrato in maniera decisiva né
nella Platos Ideenlehre, né, in generale, altrove» e che «sarebbe senz’altro indispensabile
mettere meglio a fuoco» 11 . L’eccezione laskiana riguarda pertanto la considerazione non

1 P. NATORP, La dottrina platonica delle idee, cit., p. 221.


2 E. LASK, Plato, in GS, cit., III, p. 47. Il testo laskiano ha la forma dell’annotazione rapida e tagliente: «Unsinnigkeit in
ganzer Kraßheit s. 215 (Natorp) mehr unten: Ideenlehre = Grundlage der Erforschung der Phänomene! Idee = Ziele, das
den Weg der Erforschung bestimmt!!!».
3 P. NATORP, La dottrina platonica delle idee, cit., p. 302.
4 Sull’uso kantiano della figura dell’asintoto per indicare il processo di unificazione dell’esperienza in quanto unità

dell’esperienza, cfr. I. KANT, Opus Postumum, trad. it. a cura di V. Mathieu, Roma – Bari, Laterza, 20042, p. 370: «Fare
un’esperienza (mediante osservazione ed esperimento) è un tentativo asintotico»; cfr. H. HOLZEY, Kants Erfahrungsbegriff,
Basel, Schwabe & Co.,1970; trad.it. di G. Gigliotti, Il concetto kantiano di esperienza, Firenze, Le Lettere, 1997.
5 P. NATORP, La dottrina platonica delle idee, cit., p. 302; cfr. ivi, p. 336: «l’oggettualità dell’esperienza, l’unica per noi esistente

ed alla nostra portata, si basa [non sul pensiero puro], bensì sull’intreccio illimitato e sulla compenetrazione reciproca delle
funzioni noetiche originarie che accedono al mondo della relatività, onnilaterale, ossia al mondo del “fenomeno”».
6 PLATONE, Teeteto, 187 b.
7 M. KNEALE-W. KNEALE, The Development of Logic, Oxford, Clarendon Press, 1962; Storia della Logica, Torino, Einaudi,

1972, p. 25.
8 S. BESOLI, Introduzione alla Sezione Prima di E. HUSSERL, Logica, psicologia, fenomenologia, cit., p. 28: «L’acquisizione

husserliana del tema dell’intenzionalità si configura, per certi versi, come risposta indiretta al quesito platonico circa la
possibilità di conoscere od opinare ciò che non è, ovvero – tradotto in accezione fenomenologica – di avere coscienza di
qualcosa che non esiste [cfr. PLATONE, Teeteto, 189 a]». Sull’intenzione propria di ogni comprensione, cfr. P. Natorp, La
dottrina platonica delle idee, cit., p. 423, ove in riferimento a Politico, 278 b-d, Natorp traduce «η̉μω̃ν η̉ ψυχή ί̉σταται», con
comprehendere, Verstehen, Zum stehen kommen, Feststehen.
9 P. NATORP, La dottrina platonica delle idee, cit., p. 150.
10 PLATONE, Teeteto 187 a: «Come si chiama – chiede Socrate – quello stato dell’anima, quando essa in sé e per sé si occupa

degli enti? Opinare [δοξάζειν], credo – gli risponde Teeteto». Cfr. E. LASK, Plato, in GS, cit., III, p. 49: «Ad Natorp: […]
Denn [Teeteto] 187 a das δοξάζειν wird ja gerade abgelehnt!».
11 P. NATORP, Logos – Psiche – Eros, cit., p. 23.

45
Il Pathos della Forma

solo di quello stato mediano tra Unkenntnis und Wissen, tra ignoranza e sapere, ma della
traccia stessa di medietà – das Zwischen selbst –, per come essa trova espressione nella δόξα
ovvero quale relazione alla, Verhalten zu, γένεσις, quale correlato soggettivo della totalità degli
oggetti 1 . Ciò che suscita un problema, bisognoso di attenzione, è la corrispondenza della
mediazione della δόξα, nel bilico, nella mistione tra ciò che effettivamente è e ciò che non è affatto, a
quella determinante del giudizio.
Quando Natorp riprenderà le sue pagine sulla dottrina platonica delle Idee, proverà ad
intendere la δόξα, tralasciando la mera accezione negativa (1), anzi spregiativa, di parvenza,
mediante un’oscillazione tra le due accezioni di «(2) opinione, credenza, giudizio
semplicemente indifferente verso il vero ed il falso» e di «(3) giudizio affermativo e senza
riserve in forza dell’originaria funzione unitaria, nel cui esercizio la psiche stessa, dopo essersi
posta la domanda è o non è? Sì o no? rompe gli indugi e prende una decisione netta: sì, è
oppure no, non è» 2 . Al fine di tenere insieme tale duplicità semantica – tra presenza ed
assenza di riserve, tra indifferenza ed affermazione – Natorp pone il contrassegno dossico
della possibilità di errare, in quanto rovescio della possibilità di cogliere la verità, del
pronunciamento di έ̉στιν/ ου̉κ έ̉στιν 3 , di è così/ non è così. «La possibilità di errare diviene
addirittura il privilegio della doxa. La doxa non può decidere anticipatamente, e per poter
prendere essa stessa una decisione deve stare, per così dire, al di fuori delle parti. Le è
essenziale l’alternativa, il problema, l’oscillazione, la sospensione tra le due possibilità: «è»,
«non è» (διαστάζειν, Teeteto, 190 a), e ciò costituisce proprio la condizione del suo carattere
puramente attivo, spontaneo. Ma, allora, a maggior ragione c’è bisogno di una stabile
istanza decisiva, di una «misura» o «criterio». Ora, questo criterio, poiché è ciò di cui la doxa
ha appunto bisogno, non può essere la doxa stessa, deve essere un’istanza al di sopra di
essa. Ma il Teeteto non indica quale sia tale criterio, perciò la questione della possibilità della
conoscenza non ottiene qui la soluzione radicale» 4 .
È allora chiaro che la dualità non resta solo tra ε̉πιστήμη e δόξα, ma penetra piuttosto nella
δόξα, tra mediazione ed immediatezza, tra discorsività ed istantaneità, tra puntualità e
sequenza, quella «interna peculiarità, propriamente paradossale, della doxa, la sua ambiguità
“controsenso” ma assolutamente necessaria, con cui coglie nel segno e tuttavia sbaglia,
ambiguità di essere e tuttavia non essere, di dire il vero e tuttavia il falso, di conoscere e
tuttavia di non conoscere» 5 .
«È il doppio senso di valere [gelten] espresso intransitivamente: a. vale fondatamente; b. vale
senza che ne sia ricercato ed esaminato il fondamento» 6 ad inquietare la versione di δοξάζειν. È qui
che sorge l’inaudita derivazione costitutiva dell’essere dalla legalità del pensiero 7 . È qui che
si decide 8 della convertibilità valoriale dell’Idea, dunque della generalità del valore. Quanto
si presenta come lo scioglimento originario dell’antico enigma zenoniano del movimento, il salto
originario, Ur-sprung, che nella δόξα, come μέσον, come ε̉ξαίφνης, trova la sua intima
espressione, è la creazione, la produzione di quella «coesione, di quella continuità, che
rende possibile al logos il solido redde rationem con cui il pensiero trova la propria quiete» 9 , è
la disposizione della figura geometrica della misura, della verità come fondazione del suo
criterio di riconoscibilità.
Ora, sotto la lente dell’analisi laskiana è proprio la traduzione del μη ό̉ν, inteso dalla δόξα,
in errore e di quest’ultimo in falsità, a rappresentare una soluzione fallimentare. «Il concetto di μη

1 E. LASK, Plato, in GS, cit., III, p. 29.


2 P. NATORP, Logos – Psiche – Eros, cit., p. 23.
3 P. NATORP, Sulla dottrina platonica delle Idee, in P. NATORP, Logos – Psiche – Eros, cit., p. 82.
4 P. NATORP, Logos – Psiche – Eros, cit., p. 35.
5 Ivi, pp. 49- 50.
6 P. NATORP, La dottrina platonica delle idee, cit., p. 150.
7 E. LASK, Plato, in GS, cit., III, p. 49: «Ungeheuerliche Behauptung, daß bei Platon das Sein von Denken erzeugt wird!».
8 Sulla decisione del pensiero, cfr. P. Natorp, La dottrina platonica delle idee, cit., p. 251; sulla decisione assoluta che ordina la

filosofia, nella sua differenza dalle scienze positive, cfr. E. LASK, Zum System der Wissenschaften, I. Einteilung der Wissenschaften,
in GS, cit., III, p. 240. Cfr. supra, § 1.
9 E. LASK, Plato, in GS, cit., III, p. 50.

46
Il Pathos della Forma

ό̉ν non è sufficiente a chiarire l’errore. Mi sbaglio non solo dinanzi all’essente che già ho
come fondo [Vorrat], ma, in un senso completamente diverso, in ciò produco un non-
essente! Di qui pertanto nasce un disaccordo, che si mostra come una deprivazione rispetto
all’intera effettualità, come una composizione di elementi, che si trovano a distanza dal
piano dell’essente» 1 . Insomma, per Lask, è proprio nello spazio aperto di questa distanza –
la distanza tra la composizione del giudizio, del suo senso, la produzione della sua
articolazione, e l’articolazione logico-oggettuale, recata esemplarmente nella dottrina delle
Idee, l’oggettualità ideale dei significati – che si rende possibile quella Verwechselung, quello
scambio, da cui discende l’errore.
Giungiamo qui dunque al nocciolo di senso del confronto di Lask con l’interpretazione
natorpiana della dottrina platonica delle Idee, che non si riduce semplicemente all’obiezione di
scuola quanto ad una traduzione scientifica, logicista 2 , né alla mera, superficiale, accusa di
soggettivismo 3 , ma riceve la sua propria chiarificazione dinanzi all’ambivalenza insita
nell’affiancamento tra δόξα e giudizio, tra la sua insufficienza, la sua indigenza di
completamento, e la funzione unitaria del riferimento ad una unità posta al di là del suo
piano, «riferimento unitario che distingue appunto radicalmente ed invariabilmente il
“pensare” dal percepire o “sentire”» 4 .
In una lettera che scrive a Natorp, il 3 ottobre 1912 5 , nel tentativo di indicare la differenza
fondamentale tra le sue considerazioni ed il mio modo di pensare, Lask accentra la sua attenzione
proprio su quanto era rimasto sul tavolo delle differenti letture platoniche. Pur
conservandosi le tinte polemiche circa l’intendimento delle Voraussetzungen des Theoretischen,
dei presupposti del teoretico 6 , è su qualcosa d’altro che scivola l’Hauptdifferenz: il passaggio,
essenziale alla logica, oltre il piano della differenza tra correttezza e falsità. L’acquisizione del
portato e del compito della logica trascendentale come problema della verità.

§ 4. Digressione: l’incompletezza della valenza.

Perché emerga la congruità di questa esposizione, perché ne risulti evidente la tenuta


problematica – capace di sostenere le argomentazioni che seguiranno nel corpo dello studio
a partire da un affidabile assetto prospettico – intendiamo completare la descrizione dello
spettro semantico, che si nasconde sotto il nome vago di valore, già nella sovrapposizione
tra Gelten e Wert, tra l’oggettualità del valore e l’obbiettivazione del valore, indicandone
un’ulteriore accezione: quella della valenza. Il compito di queste considerazioni sarà di
restituire una gamma di distinzioni, una serie di interstizi che consentano la disposizione e

1 Ivi, p. 34.
2 Ivi, p. 47: «Quanto alla comprensione dei Marburghesi è del tutto chiaro che il non-sensibile in generale venga identificato
con l’intelletto, e questo è favorito dall’intellettualismo platonico. Perciò è insensato intendere la dottrina delle idee come
una dottrina della scienza». In riferimento a tale eccezione, cfr. P. NATORP, Sulla dottrina platonica delle Idee, in P. NATORP,
Logos – Psiche – Eros, cit., pp. 97- 98: «Il nostro discorso apparterrebbe al capitolo “logica”, alla dottrina del concetto, del
giudizio, o persino alla dottrina delle scienze, ma con ciò si rimarrebbe ancora nel vestibolo della “dottrina delle Idee” di
Platone, la quale notoriamente sarebbe stata una metafisica e non una mera logica. Il nostro errore consisterebbe appunto
nel voler fare coartatamene della dottrina delle Idee una logica depurata dagli elementi metafisici; probabilmente perché
noi stessi nutriamo per una tale logica un fanatismo difficilmente comprensibile, e sentiamo il bisogno di migliorare la
nostra posizione, altrimenti troppo solitaria, appellandoci all’enorme autorità di Platone; il che però potrebbe riuscire solo
per finta mediante un’arrischiata trasformazione della dottrina platonica, appunto mediante quella illegittima
logicizzazione di essa. Questo sarebbe appunto il nostro pregiudizio logistico della “Scuola di Marburgo”; la quale, a dire il
vero, recentemente non sembra più essere limitata solo a Marburgo: ma allora a maggior ragione è chiaro che deve essere
combattuta».
3 P. NATORP, Logos – Psiche – Eros, cit., pp. 90- 91.
4 Ivi, pp. 93- 94.
5 H. HOLZEY, Cohen und Natorp, Bd. 2, Der Marburger Neukantianismus in Quellen, Basel-Stuttgart, Schwabe 1986, p.p 404-

407, cfr. S. NACHTSHEIM, Emil Lasks Grundlehre, cit., p. 135.


6 Della differenza nella considerazione dei presupposti del teoretico, tra Natorp e Lask, proprio l’interpretazione laskiana

di Platone si erge a modello, come slancio verso ciò che è esente da presupposizioni, abbandono di ogni presupposto, e proprio per
questo problema delle vorlogischen Voraussetzungen, di ciò che si presuppone alla determinazione formale della struttura logica.
Cfr E. LASK, in Plato, in GS, cit., III, p. 30: «I «presupposti» platonici non sono l’«inizio» od il «principio» o l’«ultimo», ma
rappresentano solo lo slancio verso ciò che è privo di presupposizioni, all’abbandono di ogni presupposto».

47
Il Pathos della Forma

la lettura delle argomentazioni che faranno seguito, vale a dire, il disegno provvisorio e
funzionale di un paradigma, attraverso il quale, più che mediante il quale, intendere l’ordito
della logica laskiana. In questa angolazione, il ricorso ad una nozione tratta da un ambito
oggettuale e disciplinare di una scienza, come quella chimica, accostata con intento
programmatico alla logica, proprio nel tentativo di intraprendere l’impresa della sua
emancipazione da psicologia e metafisica, proprio nel corso di una formalizzazione
compiuta della logica 1 – rendendo in primo luogo conto della sua analiticità – funge da
strozzatura, da mezzo di contrasto, da cartina di tornasole. Il proposito di rendere il
significato proprio al principio chimico della valenza, ovvero al costrutto ideale della valenza
di un elemento chimico, in quanto possibilità semantica del plesso concettuale del valore
nella sua dimensione logica, rappresenterà il redde rationem, a cui, sin da ora, sarà
proletticamente convocato il testo. La domanda che in questa digressione si accampa
suona, dunque, in che relazione si trova la valenza rispetto al Gelten e rispetto al Wert, ed
ancora, quale rapporto è lecito instaurare tra di essa e la generalità dell’oggetto e la forma
determinante del senso?
La modalità oggettuale della scienza chimica è designata in virtù del suo grado eminente
di costruzione grafica, ovvero la determinazione di ciascuno dei suoi elementi deriva
dall’individuazione della sua posizione rispetto agli altri, sulla superficie di un quadro, di un
campo la cui definizione discende da una forma di correlazione. In questo senso, alla
considerazione epistemologica di Bachelard risultava la centralità della realizzazione, la
declinazione del reale come realizzazione, come composizione definita di possibilità. «Ciò
che non è conosciuto è formulato. È sotto l’ispirazione di questo motivo ispiratore che
lavora la chimica organica: anch’essa ha conosciuto la catena prima degli anelli, la serie
prima dei corpi, prima degli oggetti. […] La ricerca delle sostanze è sotto la dipendenza
assoluta di una scienza di principi, d’una dottrina di norme metodiche, di un piano
coordinato, il cui non conosciuto lascia un vuoto così chiaro che la forma della conoscenza
vi è già prefigurata» 2 .
La prova di questo disegno epistemologico viene data dall’analisi della delineazione della
tavola periodica di Mendeleev. «I lavori di Mendeleev, che nella sua vita ebbero pochissima
risonanza, cinquant’anni dopo la loro apparizione acquistarono un’importanza talmente
considerevole che la tavola di Mendeleev, indubbiamente più volte modificata, è una delle
pagine più filosofiche della scienza» 3 . Quello su cui gravita l’attenzione è l’indirizzo
metodico, la scala costruttiva che approdò al compimento di quell’opera di scrittura, di
designazione. La successione di peso atomico, numero atomico, legame chimico e valenza

1 Il riferimento corre ad una citazione di Wundt – Logik. vol. I: Erkenntnislehre, Stuttgart, Enke, 18932, p. 158 – contenuta

negli Scritti postumi di G. Frege, curati nell’edizione italiana da E. Picardi – Napoli, Bibliopolis, 1987–: il fatto che i concetti
logici non sono originariamente contenuti di pensiero dati autonomamente, bensì prodotti di analisi [Zerlegungsprodukte] dei
giudizi, ha indotto molti logici a far procedere all’indagine dei concetti quella del giudizio […]. D’altra parte è innegabile
che l’analisi logica dei giudizi deve basarsi sullo studio delle proprietà dei suoi elementi concettuali. La logica si trova qui
nella stessa situazione di altre scienze in cui si presenta il bisogno di tali astrazioni. Per le stesse ragioni per cui il
grammatico deve anteporre alla formazione della frase quella delle parole, anche se la parola ricorre isolatamente
altrettanto poco del concetto, e per cui il chimico antepone alle proprietà dei composti quelle degli elementi, anche se gli
elementi chimici si presentano per lo più in composti, così anche per il logico quest’ordine degli oggetti è il più
conveniente». Cfr. E. PICARDI, La chimica dei concetti. Psicologia e logica tra il 1879 ed il 1927, Bologna , il Mulino, 1994, p. 61,
ove gli estremi della ricerca sono segnati dalla pubblicazione della Begriffsschrift di G. FREGE [1879] e da quella di Facts and
Proposition di RAMSEY [1927]. E. Picardi inoltre illustra l’occorrenza del nesso struttura-valore, dunque della valenza ovvero
della funzione di un elemento linguistico rispetto alla posizione che occupa in una struttura, nel Cours de linguistique generale
di F. Saussure. Ad emendare una simmetria troppo spinta tra logica e chimica, tra metodo logico e metodo chimico, cfr.
E. HUSSERL, Prolegomena, VI. § 31. Formule inferenziali e formule chimiche, in Logische Untersuchungen, Hua, cit., XVIII, pp. 106-
109; trad. it Ricerche Logiche, cit., I, p. 121- 124, ove, usando le prole di Kant, definisce disperato il tentativo intrapreso da
Heymans di fondare «una teoria della conoscenza che si possa definire anche chimica dei giudizi», perché «le formule
inferenziali non hanno lo statuto empirico loro attribuito.; il loro vero significato emerge in tutta la sua chiarezza quando
le esprimiamo in termini di incompatibilità ideali equivalenti. Ad esempio: in generale , due proposizioni della forma «tutti gli
M sono X» e «nessun P è M» sono vere se e solo se è vera anche la proposizione della forma «alcuni X sono P». E così in
ogni caso. Qui non si parla di coscienza, di atti giudicativi e di circostanze del giudicare».
2 G. BACHELARD, Epistemologie, Paris, PUF, 1971; trad. it., Epistemologia, Bologna, Zanichelli, 1978, p. 78.
3 Ivi, p. 81.

48
Il Pathos della Forma

rende esplicito il tracciato del cammino di formalizzazione oggettuale. «L’idea direttrice di


Mendeleev è stata di prendere per i corpi semplici, come primo criterio d’ordine il peso
atomico, e come secondo, la valenza chimica. Scrivendo, su una linea orizzontale, la serie
dei corpi semplici secondo l’ordine crescente dei pesi atomici, interrompeva la prima linea
per disporre in colonne verticali i corpi semplici di uguale valenza […]. Niente di più
semplicemente totalizzante di questa classificazione che utilizza le due nozioni di peso
atomico e di valenza chimica che dominano la chimica classica» 1 .
Essendo pertanto evidenti la portata e la mira del progetto metodologico menedeleeviano
meta-chimico in quanto provvede alla costituzione dell’ambito elementare di propria
pertinenza in virtù dell’unificazione – non dell’unità – formale, in virtù di una Charatteristica
chimica generale, riguardiamo ora alla relazione reciproca tra i principi ordinatori e la tipologia
di un vicendevole passaggio costitutivo. Il primo incremento di formalizzazione avviene
nella transizione da peso atomico a numero atomico, quello dall’ordinalità alla cardinalità 2 .
Tale trasformazione tuttavia non annulla la dimensione topologica e grafica della tavola
elementare: essa è una scrittura che mostra le proprie embricature strutturali nella sequenza
di linee orizzontali e verticali, di incroci e trasmutazioni. L’ambito oggettuale degli elementi
chimici è quello di un depositum scritturale, pittorico, di un foglio, di una carta di distanze e
prossimità, di concordanze ed inconciliabilità: di linee ai cui capi è possibile appuntare,
Zuspitzen, il luogo di un elemento. La dimensione simbolica della costruzione scientifica
peculiare della chimica diventa vieppiù apprezzabile quando si pone mente alla
determinazione segnica dei legami insistenti in una molecola, fosse pure
nell’esemplificazione più minuta, di minore complessità, di una molecola d’acqua: vale a
dire, al passaggio dalla formulazione H2O, a quella H–O–H. «Qui, in questa semplice linea
si constata un fatto: il nuovo simbolismo incorpora più concetti del vecchio, racchiude non
solo una vera storia dei progressi ma arreca ancora suggerimenti alla ricerca sperimentale. Il
simbolismo rettificato, arricchito, ha così un certo spessore filosofico, una profondità
epistemologica» 3 .
In che senso, quel segmento che esprime una funzione connettiva diventa il fulcro
dell’analisi epistemologica circa la chimica? Quel segmento indica ed esplicita un legame ed
insieme una polarità, una posizione ed, allo stesso tempo, una disposizione a connettersi od
a liberarsi – che ovviamente non ha assolutamente a che fare con la frustra duplicazione
della forza in attrattiva e repulsiva. «Si ha un legame chimico fra due atomi o gruppi di
atomi ogni volta che le forze agenti fra essi sono tali da portare alla formazione di un
aggregato di stabilità sufficiente perché il chimico lo possa considerare come una specie
molecolare indipendente» 4 . La questione come due o più atomi si uniscano legandosi,
formando aggregati, poli atomici e dunque come le forme di tale legame, o, che è lo stesso,
le forme di annullamento di tale legame, possano essere ricondotte alle condizioni formali
elementari. Come cioè la disposizione atomica, o meglio la disposizione dello strato
periferico di un atomo – ciò che viene contato nel numero atomico – determini la possibilità
di essere l’un all’altro legati, e come, infine, si possa da ciò rendere conto dell’assetto, della
polarità, della direzione degli aggregati 5 .
Intendiamo per valenza chimica, la disponibilità della corona atomica di un elemento a
stabilire un numero definito di legami chimici con atomi di un altro elemento. La distinzione,
e la dipendenza metodologica, funzionale, pertanto, tra valenza e legame è per la nostra
osservazione di rilevanza cruciale.

1 Ivi, p. 81.
2 Ivi, pp. 84- 86.
3 Ivi, p. 93.
4 L. PAULING, La natura del legame chimico [1940], trad. it., Roma, Ed. Italiane, 1961, p. 6.
5 T. MORRISON e R. N. BOYD, Chimica organica, Milano, Casa Ed. Ambrosiana, 1971, p. 16: «La polarità delle molecole

dipende non soltanto dalla polarità dei suoi singoli legami, ma anche dalla direzione dei legami, cioè, dalla forma delle
molecole».

49
Il Pathos della Forma

Quando C. S. Pierce, facendo leva sulle proprie conoscenze scientifiche, sulla propria
Bildung specificamente chimica, utilizza il riferimento alla tabulazione della Chimica Organica
per esplicitare il disegno grafico, iconico, semiotico della propria dottrina della
significazione e dunque del ragionamento e dell’implicazione, si rivolge alla nozione
dirimente di legame come legatura, gancio che diparte dalla periferia di uno spot, di un punto,
di uno spazio vuoto, di una casella bianca, da cui si traccia – o continua il tracciamento – di
una Linea di identità. «I concetti – si legge in uno scritto peirceano dal tono programmatico
del marzo del 1908 – possono essere composti unicamente in un modo che differisce per
un dubbio dettaglio da quello nel quale sono composte le cosiddette “sostanze” – cioè le
specie – della Chimica Organica, secondo la teoria della stabilità di quella scienza» 1 . La
distinzione del dettaglio cui si riferisce riguarda la qualità delle valenze chimiche rispetto alla
dimensione variabile dei ganci propri dei grafi esistenziali, riguarda più specificamente la
relazione intercorrente tra la differenziazione delle valenze – nell’esempio proposto – di
una molecola di azoto e quella dei legami individuali che ne derivano. «Ciascun grafo
elementare», così come ciascuna elementare composizione segnica, ad esempio un rema,
«come ciascun elemento chimico, ha la propria valenza definita – il numero di Ganci sulla
periferia della sua Occorrenza – e le Linee di Identità (che non si ramificano mai) saranno
del tutto analoghe ai legami chimici» 2 .
La valenza viene, pertanto, intesa come numero, come il numero incompleto delle possibili
tracce di connessione, come il segno grafico che intende la definitezza dei legami. Abbiamo,
ora, un enunciato, del tipo «Giovanni vende quest’auto ad Antonio per necessità», e
provvediamo alla sua formalizzazione sostituendo ai dimostrativi ed ai pro-dimostrativi –
ossia i nomi propri – non delle variabili, ma dei trattini: «la rappresentazione chiaramente
incompleta che ne risulta può essere chiamata rema relativo», distinto dal termine relativo in
virtù della conservazione dalla copula, o segno di asserzione 3 . «Un rema è in certo qual modo
strettamente analogo ad un atomo chimico o ad un radicale con legami insaturi […]. Un
rema relativo è come un radicale polivalente. […] Gli spazi vuoti di un rema possono
venire riempiti solo da termini o, il che è lo stesso, da “qualcosa che” (o simili) seguito da
un rema; oppure, due possono venire riempiti insieme per mezzo di “se stesso” o simili.
Allo stesso modo, in chimica, legami insaturi possono venire saturati soltanto unendo due
di essi, che di solito, benché non necessariamente, apparterranno a radicali diversi» 4 .
Uscendo dall’immagine diagrammatica di Peirce, l’interrogazione che ancora urge è quella
che investe la dipendenza dei legami dalla valenza, ovvero la specificità dell’incremento
formale e simbolico della valenza quanto alla comprensione della costruzione
significazionale della logica, nello specchio dell’esemplarità chimica.

In che modo il tracciamento di una linea, conforme alla valenza elementare, differisce
dalla ecceterazione delle variabili compatibili, in che modo cioè mediante la valenza si intende
la forma vuota della negabilità e dunque dell’individuazione, «così da poter affermare che gli
spots [all’estremità di una heavy line] si riferiscano al medesimo oggetto individuale» 5 ? O
altrimenti, in che tipo di forma vuota figura la Valenza? Cosa si intende quanto alla Valenza
per definitezza del vuoto 6 ? Ed infine in che senso le caselle vacanti di un rema, oppure,

1 C. S. PEIRCE, Il fondamento del pragmaticismo [manoscritto 300 - 1908], in Pragmatismo e grafi esistenziali, trad. it. a cura di S.

Marietti, Milano, Jaca Book, 2003, p. 199.


2 ID., «PAP» [manoscritto 293 - 1906], in Pragmatismo e grafi esistenziali, cit., p. 179.
3 ID., La critica degli argomenti, in Pragmatismo e grafi esistenziali, cit., p. 64. Ovviamente, la traduzione della copula in segno di

asserzione racchiude il nocciolo dell’interpretazione peirceiana della composizione logica.


4 Ivi, p. 64.
5 Ivi, p. 66.
6 Illuminante mi sembra al riguardo il rimando alla righe con cui ENZO MELANDRI conclude la sua riflessione su individuo

e funzione, in La linea e il circolo. Saggio logico-filosofico sull’analogia, a cura di G. Agamben, Macerata, Quodlibet, 2004, § 66, p.
366: «Un “simbolo incompleto” è per es. una funzione preposizionale a cui manchi la specificazione dell’argomento. Ora
tali simboli sono nondimeno – purché non trasgrediscano le condizioni poste dalla “teoria dei tipi” – dotati di senso.
Come minimo questo fatto – l’essere-dotati-di-senso – deve metterci in grado di decidere se due diversi simboli
incompleti siano sinonimi, interscambiabili e cioè dotati dello stesso senso oppure no. Altrimenti non si capisce che cosa

50
Il Pathos della Forma

approfondendo il livello dell’osservazione, la sua incompletezza essenziale rimanda a ciò


che è da significare, a ciò che – inapparente alla significazione – ne segna la direzione?

Concludiamo ora queste considerazioni preliminari anticipando in termini simbolici la


teoria della difettività della forma a cui saranno dedicate le analisi che seguiranno.
Poniamo la forma vuota, priva di contenuto (la forma riflessiva ottenuta per sottrazione
attraverso successivi atti riflessivi) come x = -1, ove per (-1) si intende la mancanza di
riferimento compiuto. Nel riempimento contenutistico (+1) non solo si satura la forma (0),
ma si aggiunge ad essa la forma propria del contenuto (+1). Quindi, legando la forma vuota
al suo contenuto e proiettando – per necessità essenziale – questo in una forma materiale,
si ottiene x = +1, ossia un’unità come forma di questo contenuto. Viceversa sottraendo il
contenuto all’intero complesso unitario (forma vuota, contenuto e forma del contenuto),
avviando cioè un procedimento analitico rispetto allo stato dell’esperienza della forma
contenutistica, rispetto all’unità evidente, all’unità nell’evidenza, ne deriva l’annullamento
conseguente anche della forma contenutistica, tornando all’(x = -1) della forma vuota.
Se volessimo delineare questa articolazione anche nella direzione opposta – non quella
riflessiva ma quella costitutiva – nel caso in cui cioè la forma contenutistica (x=+1) fosse
introdotta in un ulteriore riferimento, nel caso in cui essa fungesse a sua volta da
contenuto:
allora questa, in quanto contenuto (+1) imprimerebbe sulla forma vuota corrispondente
(-1) una nuova forma contenutistica (+1), stabilendo un’ulteriore unità (x=+1). E così via.
Questo significa che ciascun contenuto vale come una unità positiva in generale (+1), che
ciascuna forma vale come unità negativa individuale (x = -1) e che ciascuna forma
contenutistica vale come unità positiva individuale (x=+1). Così indichiamo il valore
intensionale di ciascun elemento, che invece può variare di volta in volta il proprio valore
estensionale. Possiamo pertanto definire questo schema formale come teoria della non-
accrescibilità. Questa vige accanto alla teoria della differenziazione – e come sua limitazione –
quale articolazione assiomatica dell’intera filosofia di Emil Lask. Laddove la differenziazione
riguarda il versante formale, lo statuto proprio della forma in quanto differenziata
materialmente, la non-accrescibilità si riferisce, invece, al versante materiale, indicando che la
moltiplicazione delle singole forme contenutistiche, e quindi dei singoli materiali formali,
non può corrispondere ad un accrescimento della materia, dell’entità specifica della materia.
In quanto non-accrescibile, ad essa viene riconosciuta la propria indipendenza: che non sia
accrescibile è, infatti, segno distintivo della indipendenza della materia rispetto alla forma,
ed alla sua formalizzazione – nota inversa a quella della forma che è definita in virtù della
propria non-indipendenza. Corollario, quindi, della teoria della non-accrescibilità è il principio di
indipendenza della materia, tanto quanto corollario della teoria della differenziazione è il principio
di non-indipendenza della forma.
A questi principi, ed alla loro reciproca implicazione – attraverso cui si intenderanno lo
nozioni sin troppo vaghe, ed equivoche, rispettivamente di trascendenza e di immanenza – si
atterrà l’esposizione delle nostre considerazioni in merito a logica, esperienza e diritto a partire
dal pensiero di Emil Lask.

II. Formazione ed Individuazione.

voglia dire “avere un senso”. Ma essendo per definizione “simboli incompleti”, non è possibile definirne la funzione a
partire dagli elementi: la loro funzione è incompleta proprio perché non specifica il numero degli elementi – “qualche” o
“tutti” – cioè l’”argomento” che la determina. Perciò anche qui – nella roccaforte del logicismo – l’identità funzionale non
coincide con quella individuale».

51
Il Pathos della Forma

§. 1. Zurück zu Kant

…oggi volevo raccontarti un po’ di Cézanne. Per


quanto riguarda il lavoro, egli affermava di aver vissuto
fino ai quarant’anni una vita da bohémien. Che solo a
partire dalla conoscenza con Pissarro sarebbe emerso in
lui il gusto del lavoro. Ma così grande allora che per
tutti gli ultimi trent’anni della sua vita non ha fatto
nient’altro che lavorare. Senza vera gioia, come pare,
con una rabbia senza tregua, in dissidio con ognuno dei
suoi lavori, dei quali nessuno gli pareva raggiungere
quello che lui riteneva la cosa più indispensabile.
Questa, che lui chiamava la réalisation, egli la
trovava nei veneziani, che aveva visti precocemente al
Louvre, e poi rivisti sempre di nuovo e che aveva
riconosciuto incondizionatamente. Il convincente, il farsi
cosa, la realtà spinta attraverso la sua propria
esperienza dell’oggetto fino all’indistruttibilità, questo
gli sembrava la prospettiva del suo lavoro più intimo.

[R. M. Rilke, a C. Rilke, Parigi, 8 ottobre 1907]

52
Il Pathos della Forma

Uno dei varchi per accedere al cammino di pensiero laskiano, che più si mostra capace di
restituire l’ampiezza e la tramatura del suo percorso, illuminandone le linee di provenienza,
di dipendenza e di confronto, è il discernimento dell’aspetto proprio che in esso assumerà
quel Bewegung zurück zu Kant, che dagli anni ’50-‘60 1 del secolo Diciannovesimo aveva
segnato di sé, con aspettative e destini differenti, l’intera filosofia tedesca, e l’intera
elaborazione intellettuale dell’epoca – gli studi storici, quelli economici, quelli giuridici ed
infine quelli scientifico– naturali – accostando traiettorie, reazioni, letture non affatto
sovrapponibili. Se dunque apparirà o frustrante o limitativa la riconduzione di tali
disomogenei fili ad una comune origine, o ad un comune movente – fosse pure la rinnovata
questione, indicata nei Colloqui di Davos da Heidegger, del rinvenimento di uno statuto
scientifico per la filosofia quando oramai «la totalità dell’ente è stata spartita tale scienze»2 -
ben altri risultati potrà procurare l’esame di ciò a cui, nel difficile risalimento a Kant, si
accorda volta per volta centralità.
È in questo senso che si può intravedere nella pubblicazione della Teoria kantiana
dell’esperienza da parte di Cohen l’inizio di una nuova epoca 3 , di cui si troveranno a far parte
anche coloro che non ne condivideranno il merito delle intenzioni e degli sviluppi, proprio

1 «Intorno al 1850 – scrive Heidegger nel dibattito con Ernst Cassirer svoltosi a Davos nell’aprile del 1929 – la
situazione è tale che tanto le scienze dello spirito quanto quelle della natura hanno preso possesso della
totalità del conoscibile, per cui sorge la questione: che cosa rimane ancora alla filosofia, se la totalità dell’ente
è stata spartita tra le scienze? Le rimane solo la conoscenza della scienza, non la conoscenza dell’ente, e
questo punto di vista è determinante per il ritorno a Kant. Di conseguenza, Kant è stato visto come teorico
della teoria della conoscenza fisico-matematica. La teoria della conoscenza, questo è stato l’aspetto sotto il
quale si è visto Kant. Anche Husserl tra il 1900 ed il 1910 è caduto in un certo senso nelle braccia del
neokantismo», in M. HEIDEGGER, Kant und das Problem der Metaphysik, Bonn, F. Cohen; poi in GA, cit., Abt. 1,
Bd. 3, 1991; trad. it. di M.E. Reina, Kant e il problema della metafisica, intro. di V. Verra, Roma-Bari, Laterza,
1981, pp. 219-220. Nonostante il valore indicativo della descrizione storica che ne dà Heidegger, come bene
sottolinea, M. Ferrari, nella sua Introduzione al neocriticismo, «un qualsiasi discorso sul ‘ritorno a Kant’ iniziato
nella filosofia tedesca negli anni ’60 del secolo scorso (ma come vedremo il neocriticismo non fu solo un
fenomeno tedesco, benché il suo epicentro sia certamente la Germania) rimarrebbe storicamente inattendibile
se non si tenesse conto delle molteplici radici che lo hanno alimentato e, al tempo stesso, di alcuni elementi di
‘lunga durata’ che in parte ne ridimensionano la pretesa di costituire una rottura verticale rispetto all’epoca
precedente. In verità, nonostante la formula programmatica del ‘ritorno’ – che potrebbe far pensare ad un
vuoto durato dalla morte di Kant alla sua ‘riscoperta’ negli anni ’50-’60 dopo la crisi dei grandi sistemi
dell’idealismo . una parte del dibattito filosofico in Germania aveva elaborato sin dalla priam metà
dell’Ottocento alcuni dei motivi che avranno poi larga diffusione nell’età del neokantismo. Al di là degli
schemi interpretativi che hanno riscosso in passato grande fortuna (basti pensare al percorso ascendente ‘da
Kant a Hegel’, a cui corrisponde simmetricamente quello da ‘Hegel a Nietzsche’ descritto in un celebre libro
di Karl Löwith) il primo Ottocento filosofico tedesco appare assai più popolato di quanto non si pensi
solitamente di filosofie alternative all’idealismo ‘classico’, specie sul terreno del rapporto con le scienze che
venivano mettendo in discussione le costruzioni della Naturphilosophie andando in cerca – soprattutto nel
campo emergente delle indagini fisio-patologiche e delle scienze della vita, anche in quello delle scienze della
società e della storia – di nove basi epistemologiche atte a fondarne lo statuto conoscitivo», M. FERRARI,
Introduzione al neocriticismo, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 5. Per una più compiuta periodizzazione delle
differenti fasi del cosiddetto ritorno a Kant, cfr. ivi, pp. 3- 40. Quanto invece alle modificazioni concettuali
soprattutto sull’idea di filosofia trascendentale e, segnatamente sulla teoria delle categorie, si veda M.
FERRARI, Categorie e a priori, Bologna, Il Mulino, 2003, in part. pp. 135- 164.
2 E. CASSIRER, M. HEIDEGGER, Colloqui di Davos, in Kant e il problema della metafisica, cit., p. 219.
3 M. HEIDEGGER, Zur Bestimmung der Philosophie (Kriegnotsemster 1919; Sommersemester 1919), in GA, cit.,

Abt. II, Bd. 56/57; trad. it., Per la determinazione della filosofia, cit., pp. 243-244: «Nell’anno 1871 era uscito lo
scritto di Cohen sulla Teoria kantiana dell’esperienza, destinato a fare epoca, a mettere in moto l’intera
evoluzione del moderno neokantismo in generale e a indicare una chiara direzione. Un anno prima Dilthey
aveva pubblicato il primo volume della sua opera geniale Vita di Schleiermacher (1870) e nel 1874 Brentano con
il suo scritto sulla Psicologia da un punto di vista empirico intervenne nella ricerca filosofica dell’epoca. Tre modi
del tutto diversi quanto ad atteggiamento spirituale e ricerca filosofica, che però determinarono in modo
marcante lo sviluppo del pensiero di Windelband e quindi della moderna filosofia dei valori. Tre sfere di
influenza la cui considerazione congiunta fa infine comprendere come mai la filosofia trascendentale dei
valori sia divenuta nel presente l’unica tipica (e seria) filosofia della cultura».

53
Il Pathos della Forma

perché in tale disegno era stata resa evidente la posizione arcontica dell’impianto della
analitica trascendentale. Su questo cardine sarebbe trascorso il filo delle condizioni di
possibilità dell’esperienza, come unità dell’esperienza, come unità pensabile dell’esperienza.
In ciò Cohen scorgeva la direzione di quel pensiero puro, di quel «significato del pensiero
fondamentale per la scienza», che diramando sin da Platone a Leibniz aveva trovato nella
nozione kantiana di trascendentale nella logica la sua espressione più compiuta. «La logica
pura, generale resta ancora ambigua, in quanto non rimanda ancora in modo sufficiente al
contenuto: “il contenuto può essere come si vuole (empirico o trascendentale)”.
“Trascendentale indica qui chiaramente la seconda parte della metafisica. Ma a cosa serve se
questa logica ha a che fare solo con la “pure forme del pensiero”? Che cosa può in generale
significare una forma, che non è in quanto tale forma del contenuto. In corrispondenza a
questa autentica forma del pensiero, deve darsi una logica, “in cui non si astragga da ogni
contenuto del pensiero”; in cui perciò si possa ritornare “all’origine della nostra conoscenza
degli oggetti”. Siamo di fronte alla logica trascendentale» 1 . Se dunque, continua Cohen, per
logica formale si intende, ancora all’ingrosso, «un canone per valutare, uno strumento
(organon) per le effettive attuazioni, o almeno per il miraggio di asserzioni obbiettive» –
recando in se stessa la mina di un utilizzo dialettico, la logica trascendentale invece è nel
suo senso più proprio indicazione dei principi e degli elementi della pura conoscenza
intellettuale, pertanto analitica trascendentale. La logica trascendentale è più che logica della
verità, è logica in quanto questione della verità, in quanto capace di rimandare – in forma di
problema – al Beziehung auf den Gegenstand, al rapporto all’oggetto, senza di cui «il
chiarimento nominale della verità, quale “accordo della conoscenza con i suoi oggetti”,
scadrebbe in un inconsapevole derisione di sé» 2 .
In un atteggiamento, prima facie concordante con quello coheniano, Lask rinviene proprio
nella logica trascendentale, in der Tat der traszendentalen Logik, nel fatto della logica
trascendentale, il senso della rivoluzione copernicana, ovvero che «il contenuto di valore logico
non ruota attorno agli oggetti, non si trova in dipendenza funzionale da loro, non vi è
legato come un ombra che li accompagna, non è verità sugli oggetti, così da significare:
tanto oggetti, quanto verità su di essi; ma al contrario: gli oggetti ruotano attorno al Valere
logico, quanto agli oggetti si tratta del Valere logico, la loro oggettualità è verità valente» 3 .
Eppure, nell’esplicitazione degli elementi, dei granuli concettuali che già in questa sorta di
epitome della Logik, Lask mette in gioco, matura il rilievo della sua posizione specifica, della
sua collocazione nella più vasta risalita alla fonte di una nozione di trascendentale, decisa
nella logica e capace di rendere alla logica la propria decisività nel sistema della filosofia. La
distinzione di oggettualità ed obbiettività, Gegenständlichkeit e Objektivität, di Valere e valenza,
la relazione su, riguardo a, la medesima determinazione della Frage nach der Wahrheit, così
come sono emerse nella serie del brano citato, attingono a diversi punti di connessione e di
emendazione sul corpo dell’opera kantiana, in una costante fatica di confronto e di
ritrovamento.
Nella ricognizione che ora ci proponiamo, perché emerga con la maggiore chiarezza
possibile la sua collocazione nel Bewegung zurück zu Kant ed, allo stesso tempo, la sua interna
consistenza, proveremo ad indicare alcuni luoghi dirimenti della Kritik der reinen Vernuft, che
figurano come veri e propri indici problematici nella lettura che ricorrentemente Lask vi
applicherà, in occorrenze e con derivazioni differenti.
In primo luogo, indichiamo il §. 19 della Dottrina trascendentale degli elementi - ove Kant
riconduce la forma logica comune di tutti i giudizi all’unità oggettiva dell’appercezione –
quale topos della rilettura laskiana delle nozioni di connessione soggettiva ed unità necessaria
oggettiva, cioè della chiarificazione dell’unità nell’oggetto, dunque della differenza tra

1 H. COHEN, Kommentar zu Immanuel Kants Kritik der reinen Vernuft, Leipzig, Felix Meiner, 1917 [2. ed.,
Hildesheim, 1989], cap. 4. , p. 21.
2 Ivi, p. 22.
3 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 30.

54
Il Pathos della Forma

relazione categoriale determinante e congiunzione copulativa. Sarà proprio l’insistenza


kantiana sull’«unità necessaria dell’appercezione nella sintesi delle intuizioni», sulla relazione
delle rappresentazioni, contenute nei giudizi, con «l’appercezione originaria, con la loro
unità necessaria», sulla validità oggettiva delle rappresentazioni così connesse a differenza di
quella validità esclusivamente soggettiva dei «rapporti che poggiano solo su leggi
dell’immaginazione riproduttiva» 1 , sarà proprio questo richiamo ad una concezione
trascendentale di oggettività a costituire per Lask insieme la premessa metodica e
l’incompiutezza cui assiduamente dedicarsi. Né tuttavia la considerazione della
determinazione oggettiva, dell’unità oggettiva di ciascuna determinazione, di quanto vale
come unità nell’oggetto, nella posizione oggettiva dell’oggetto, può ricevere chiarificazione
senza che sia rimessa in chiara luce la medesima nozione di oggetto, Gegenstand, nella sua
generalità, Gegenstand überhaupt. È quindi chiaro come la comprensione della chiusa
dell’Analitica trascendentale, nella nota all’Anfibolia dei concetti della riflessione, divenga nella
lettura laskiana un ineludibile banco di prova per la tenuta dell’intera logica trascendentale, con
particolare riferimento alla delineazione di una tavola di quell’oggetto in generale «da assumersi
però in modo problematico, lasciando indeciso se tale oggetto sia qualcosa oppure nulla»,
che figura come il «concetto più alto da cui si suole procedere in una filosofia
trascendentale» 2 . La definizione ermeneutica di questo secondo luogo della Critica diviene
evidente nel tentativo laskiano, di cui si è dato già parzialmente conto nel capitolo
precedente, di stendere una storia della filosofia occidentale – con un’espressione di scuola
– mediante l’ordine delle categorie, la loro partizione, la loro destinazione. Le due questioni
– fondamentalmente distinte, grundverschiedene – che si aprono a questo riguardo – nel
costante riferimento al modello platonico della concezione della dualità, che funge da metro
dichiarato nel suo abbozzo storico – rappresentano i fuochi più aspri con cui confrontarsi.
«La prima questione – scrive in proposito Lask – riguarda la relazione della forma di
conoscenza logico-trascendentale con l’oggetto. In essa si conserva (sich bewährt) il gesto
copernicano di Kant, la sua negazione dell’eccedenza ed in questo senso della trascendenza,
la sua assunzione dell’immanenza dell’oggetto nella relazione al teoretico, al logico-
costitutivo. Con questa correlazione tra oggetto e forma trascendentale della conoscenza,
con tale immanenza logica dell’oggetto non ha minimamente a che fare un’altra questione
del tutto metalogica, che non ricade affatto nell’ambito della filosofia teoretica, la questione
che riguarda il possibile materiale categoriale a-teoretico; questa riguarda cioè la relazione
del sensibile con l’oltre-sensibile, del fenomeno con la cosa in sé. La convinzione metafisica
di Kant della mera fenomenalità del sensibile per sé non è ancora una dottrina teoretico-
conoscitiva» 3 . Insomma, per Lask, la scoperta dell’inclusione dell’oggetto, e della sua
oggettualità, all’interno del dominio logico, quanto alla sua costitutività, il qualcosa, e quanto
alla sua riflessività, la generalità del qualcosa, fondamentale per la medesima trascendentalità
della logica, esige un approfondimento ed una revisione proprio in virtù della radicale
dualità – forma/materia – del pensiero. In tale ottica, la lettura laskiana dell’opera filosofica
di Kant – che si estende tuttavia a ben altre sfere di pensiero, sia nei rimandi espliciti sia
nella continua commisurazione teoretica con il dominio concettuale kantiano e con il suo
strumentario – può rappresentarsi come una riproposizione, come una reinstallazione in
uno dei passaggi della prima Critica, che maggiormente denuncia tra le sue righe la
riscrittura della seconda edizione e che con più stringenza richiama l’attenzione di chi vi si
dedichi. «Chiamo trascendentale – scrive Kant nella prima edizione dell’Introduzione
alla Critica della Ragion Pura – ogni conoscenza che si occupi in generale, non tanto di oggetti
quanto dei nostri concetti a priori degli oggetti in generale», proposizione corretta nella
seconda edizione con «non tanto degli oggetti, quanto del nostro modo di conoscere gli

1 I. KANT, Critica della Ragion Pura, trad. it. a cura di P. Chiodi, Torino, Utet, 1995, p. 168; cit. in E. LASK, Die
Lehre vom Urteil, in GS, cit., II p. 346, n. 61.
2 I. KANT, Critica della Ragion Pura, trad. it., cit., p. 299.
3 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, pp. 244-245.

55
Il Pathos della Forma

oggetti nella misura in cui questo deve essere possibile a priori» 1 . Nell’oscillazione tra i
concetti a priori degli oggetti in generale ed il nostro modo di conoscere gli oggetti, si apre per Lask la
breccia esemplare per la ripresa, per l’emendazione, per l’incremento del lascito kantiano,
laddove oggettualità ed obbiettività rischiano di confondersi o addirittura di escludersi, di
risospingersi ancora una volta meramente nella secondaria polarità soggetto-oggetto.
Pertanto, nonostante la consapevole brevità di questi accenni, sembra tuttavia possibile
additare, dalla prospettiva che abbiamo guadagnato, quale sia la posizione di Lask in quel
tentativo epocale di ritrovare il piano elementare dell’idea di una filosofia trascendentale, e più,
dappresso, di comprendere quale possa essere stata la tipologia propria di
quell’accentramento nella logica trascendentale quale eminente baricentro filosofico. Ebbene, la
sua intenzione rispetto all’impianto analitico della logica trascendentale riguarda la
possibilità di indicare l’oggetto, e la sua oggettualità – tanto quanto la comprensione
conoscitiva dell’oggetto, e la sua oggettività – non più semplicemente come il dominio
esterno dell’effettualità, di cui ricostruire artificialmente il riferimento, il rapporto del
riguardo, la über-Vehaltnis, ma come la dimensione della costituzione di oggettualità, come il
costituirsi di oggetti, la cui consistenza od appartenenza, la cui posizione reale rimangono
indifferenti allo statuto di oggettualità. In questo modo: 1) La necessaria unità oggettiva, in
quanto unità nell’oggetto, 2) il concetto di oggetto in generale – la cui esclusiva dipendenza
dall’esperienza sensibile viene messa in questione a favore di una nozione più ampia di
esperienza e quindi di materialità esperita –, infine, 3) la distinzione tra concetto a priori di
oggetto e modo di conoscenza dell’oggetto, disegnano il perimetro della cura che Lask dedica al
discernimento della trascendentalità della logica, quel perimetro che trova la sua trattrice
nella domanda sulla forma del concetto di oggetto, sulla forma logica, onde trascendentale,
dell’oggetto.
A riprova di quanto detto, è interessante vedere come Lask riprenda, con una chiara
consapevolezza problematica – cosciente cioè che ciò rappresenti il punto di non ritorno
della sua lettura di Kant –, un passo della dottrina trascendentale del metodo 2 , sostenendo, alla
lettera, che «la filosofia trascendentale debba essere intesa come una teoria dell’oggetto in
senso ampio, come “il sistema di tutti i concetti e di tutti i principi, che si riferiscano ad
oggetti in generale, senza assumere obbietti [Objekte], che debbano essere dati (Ontologia)”» 3 .
Ed il senso della postilla «ohne Objekte anzunehmen, die gegeben wäre», diviene per Lask da un
lato il principio dell’esclusione della limitazione della datità, quindi della contenutezza,
all’universo sensibile, in quanto restrizione mortifera per ogni progetto trascendentale della
filosofia 4 , dall’altro il rimando alla datità, alla Gegebenheit degli oggetti, al modo di datità degli
oggetti come forma logica degli oggetti, forma costitutivamente logica degli oggetti, come
innere Beschaffenheit, come interna costituzione.
Ora, è proprio in virtù di una tale genuina Erörterung rispetto a Kant, di una tale ricerca di
posizionamento [Ort], che ha nella comprensione delle nozioni logico-trascendentali di
oggettualità ed oggettività il suo fulcro, diventa possibile comprendere uno dei confronti
essenziali all’intendimento del pensiero di Lask: quello con la fenomenologia husserliana, o
meglio con la sua disposizione logica. È dunque mediante il rispecchiamento, la
triangolazione, che emerge nella recezione dell’idea di filosofia trascendentale, tra Kant, da
un canto, e Husserl e Lask, dall’altro, che risulta comprensibile una prossimità altrimenti
affidata alle suggestioni od ai calchi lessicali od alle dichiarazioni di concordanza 5 . Il terreno
su cui emerge la parallelità, Husserl-Lask, prima ancora che sia possibile l’indagine sui

1 I. KANT, Critica della Ragion Pura, trad. it. cit., p. 90.


2 I. KANT, Critica della Ragion Pura, trad. it. cit., p. 631.
3 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS cit., II, p. 253.
4 Ivi, p. 89:«La negazione della forma categoriale per il non-sensibile comprende crudelmente la negazione

suicida di ogni filosofia, compresa la teoria della conoscenza e la logica, anche di ogni logica della conoscenza
dell’essere o della natura. Non si tratta che della vita e della morte della filosofia in generale».
5 A questo riguardo, un importante documento è la lettera di Lask inviata il 25 dicembre 1910 ad Husserl, cfr.

E. HUSSERL, Briefwechsel, in Husserliana-Dokumente, V, a cura di K. Schuhmann, Dordrecht, 1994, p. 31.

56
Il Pathos della Forma

rispettivi registri concettuali, sulle prospettive fondative, sulle diramazioni tematiche, è


l’indice della ricerca sistematica sull’opus kantiano, è il tentativo di saturare la oggettualità
trascendentale.
Da questo punto di vista, sarà dirimente la contestazione – comune ad Husserl ed a Lask,
di cui si dovranno esporre nel corso dello studio le distinte movenze – di una «Vermengung
des Gegenständlichen un der auf sie bezogenen Erlebnisse» 1 , di una carenza nella riflessione sulla
complessità oggettuale, sulla costituzione correlativa dell’oggetto, e nella presentazione
delle esperienze dell’oggetto, in cui l’oggetto si dà, si mostra e si compone in oggettualità
obbiettive. Ed il peso di tale obiezione sarà stimato adeguatamente laddove se ne scorgerà la
coerenza al disegno kantiano, la mira a toccarne un ganglio vitale. Qui, in questione è
pertanto ein Weg über die Objektivität, una strada per intendere il modo di oggettualità ed
obbiettività, ovvero quella strada lungo la quale si cerca di comprendere – come si può
leggere nella imponente ricerca documentaria ed interpretativa, che Iso Kern ha dedicato
all’Auseinandersetzung tra Kant ed Husserl – in che modo i principi dell’obbiettività, in
quanto principi dell’oggetto logico, siano per ciò stesso principi ontologici 2 . Una strada per
l’ontologia che è sempre allo stesso tempo una strada per la logica formale, «una strada per
la critica delle scienze positive, una strada per l’ontologia della Lebenswelt» 3 . Una strada per
l’ontologia, che si distende come il tragitto verso la posizione trascendentale della logica
formale, poiché principia dall’interrogazione sull’oggettualità e sull’obbiettività
dell’oggetto 4 .
Per coloro i quali puntano «nella direzione di una logica radicale – secondo le parole di
Husserl –, è di particolare interesse il comportamento kantiano rispetto alla logica
formale» 5 , rispetto all’intendimento delle formazioni ideali in quanto oggettualità, che si
erge come sfera propria e principio fondamentale di una trattazione puramente
trascendentale delle formalità logiche. Ciò che desta attenzione sono le modalità della
costituzione delle oggettualità ideali 6 . La trascuratezza nei confronti dell’oggettualità dell’elemento ideale – i
cui esordi Husserl scorge in Locke e la cui continuazione intravede nella mancata critica,
esemplarmente in Kant, della sua teoria della conoscenza e κατ’ε̉ξοχή della sua teoria del
giudizio – si traduce nella ambasce in cui si dibatte la costituzione in modo trascendentale
dell’oggettualità della logica formale, della forma logica in quanto oggettuale, del sistema
teoretico, formale, della logica quale sistema assiomatico composto da oggetti formali, e non
quale traduzione astratta dell’insieme discreto delle operazioni naturali del pensiero.
È in virtù di queste considerazioni – quali in Lask si espliciteranno in una riflessione sulla
duplicità dei concetti di forma e di formalità nella logica – che si può intendere come «i
maggiori ostacoli, oscurità, difficoltà con cui Kant nella sua sfera problematica ebbe a
lottare, e che rendono così difficile trovare nelle sue teorie il risultato di una piena
chiarezza, sono proprio in connessione col fatto di non aver riconosciuto il problema
trascendentale della logica come un problema che doveva precedere quella
sfera problematica» 7 . Il fondamento di questo imbarazzo, di queste aporie, di questa
Fraglosigkeit consiste – secondo la lettura fenomenologica di una filosofia trascendentale –
nel non aver riconosciuto, nel pieno dell’ambito formale della logica kantiana, il carattere
idealmente oggettuale dei significati.

1 I. KERN, Husserl und Kant, Eine Unterschung über Husserls Verhältnis zu Kant und zu Neokantianismus, Den Haag,
M. Nijhoff, 1964, p. 65.
2 Ivi, p. 222.
3 Ivi, p. 218.
4 Ivi, p. 115: «All’essenza dell’oggettualità che giunge a datità valida in questi modi della coscienza,

corrispondono queste generali leggi ontologiche».


5 E. HUSSERL, Formale und Transzendentale Logik. Versuch einer Kritik der logischen Vernuft, [Logik] in HUA, cit.,

XVII, p. 228, p. 163; trad. it., Logica formale e trascendentale, cit., §. 100, p. 317; inoltre, cfr. p. 228.
6 Ivi, p. 229; trad. it., cit., p. 319.
7 Ivi, p. 234; trad. it., cit., p. 325; inoltre cfr. I. KERN, Husserl und Kant, cit., p. 87.

57
Il Pathos della Forma

Al termine di questa presentazione iniziale dei motivi essenziali della lettura laskiana della
logica trascendentale di Kant – essenziale sia a comprendere la sua posizione assoluta il
tracciato indicato e scelto per il risalimento al criticismo, sia la sua posizione relativa, cioè a
discernere le modalità essenziali del rapporto con il dibattito filosofico contemporaneo sui
medesimi temi, nelle indicazioni esemplari proposte: Cohen ed Husserl 1 – si rende possibile
la comprensione di come si sia costruita nella sua interezza la domanda sull’oggetto, sin
dalle prime elaborazioni, cui diede vita il pensiero di Lask. Compito di questo capitolo sarà
pertanto di esporre il ruolo e le acquisizioni delle riflessioni sull’oggetto storico e sull’oggetto
istituito del diritto – contenute rispettivamente nella dissertazione del 1902 sul Fichtes
Idealismus und die Geschichte e nell’Habilitationsschrift del 1905 sulla Rechtsphilosphie – proprio
nella loro comune intenzione di riprendere i modi di costituzione di quelle modalità
oggettuali, che rappresentano un maggior ostacolo ed una maggiore prova per una filosofia,
che per sé rivendica il titolo di teoria trascendentale della formazione concettuale.

§. 2. Per una Teoria trascendentale della Formazione concettuale.

Laddove la questione circa la trascendentalità della logica si converta nella riflessione sulle
modalità di costituzione e di determinazione di un ambito oggettuale in cui si veda
articolata l’interezza del pensabile, laddove l’interrogazione preliminare sconti la propria
precedenza riguardo alla consistenza di quanto si dà a pensare, a quella composizione
elementare che ancora figura come ignota, rispetto a cui le ulteriori complessioni si
commisurano, il compito conseguente che si ascrive alla filosofia è di rivolgersi alle specie
di formazione di concetti, agli strati differenti e disomogenei in cui si depositano gli aspetti,
le tipologie, i luoghi formativi, che colmano il novero della conoscenza. L’intendimento
della filosofia come Begriffsbildung si presenta come una univoca esplicitazione del suo nome,
in cui l’attenzione all’embricatura dei concetti, la ricerca di un loro principio di formazione,
dipana, ed allo stesso tempo segna, la stoffa del pensiero, rinviene il suolo proprio e non si
trattiene dal rivangarlo.
La filosofia in quanto «”Teoria dell’elaborazione filosofica dei concetti” è dunque una formula nel
linguaggio filosofico, dominante nell’epoca presente – scrive Heidegger in apertura del
corso friburghese del semestre estivo del 1920, su Phänomenologie der Anschauung uns des
Ausdrucks – con cui si indica ciò che deve essere inteso originariamente. La decisione sul
senso, sul carattere e sulla funzione del ‘concetto filosofico’ dipende da come il medesimo
filosofare si determina rispetto all’atteggiamento teoretico-scientifico quanto alla cosa in
maniera originaria, non in maniera classificatoria» 2 . Ciò di cui si fa conto, quindi, è
l’arretramento, la retrocessione dell’interrogazione sui modi di definizione figurativa dei
concetti nell’essenza stessa della filosofia, come argomento della sua origine, invece che
come protocollo, ove siano redatte le regole di conformità e di applicazione dei propri
dispositivi ad una distinta partizione contenutistica. Dinanzi ad una tale istanza, esibita già
nella trama di locuzioni, espressioni, enunciati, se si vuole, in quella sequenza di parole
procedenti da una elaborazione concettuale resa opaca dalla ricorsività e dall’usura, ed il cui
significato sfugge nella sua singolarità eppure si compensa mediante l’Entlastung del
linguaggio ordinario e comune, Heidegger disegna due cammini, resi, per pregnanza
retorica, in guisa oppositiva: la teoria dell’elaborazione filosofica dei concetti nella fenomenologia e
nella filosofia della riflessione. Da un canto, la figurazione dei concetti compare come correlato

1 Cohen ed Husserl rappresentano altresì anche due estremi del ripensamento sulla logica trascendentale di
Kant, due differenti principi ermeneutici che paiono costantemente presenti nei testi laskiani, più o meno
apparentemente nelle righe.
2 M. HEIDEGGER, Phänomenologie der Anschauung uns des Ausdrucks. Theorie der philosophischen Begriffsbildung

[Sommersemester, 1920], hrsg. von S. Strube, GA, cit., Bd. 59, Frankfurt a. M., Klostermann, 1993, p. 8.

58
Il Pathos della Forma

di una riflessione che si ripiega dall’esterno su una filosofia che rinviene ormai compiuta, dall’altro
l’effettivarsi compiuto ed esistente della filosofia stessa 1 .
La pretesa di un’esternità da cui ecceterare, incrementare la descrizione formale, sino ad
un livello metateorico di indifferenza materiale, la purificazione allegata alla riflessività, il
sapere che sporge il capo fuori da se stesso per scorgere la propria determinatezza, i limiti,
Grenzen, che ne indicono e conservano la validità, si pone di contro – nelle precoci
osservazioni heideggeriane – all’ambizione fenomenologia di scorgere l’insorgenza del
pensiero, non riguardo a, ma oltre, al di là delle determinazioni disciplinari, restituendo –
mediante il richiamo costante alla dipolarità costitutiva, e non meramente metodologica, di
intuizione ed espressione – il significato centrale del concetto per la filosofia, la radicalità
della determinazione concettuale della struttura fondamentale dell’oggettualità.
Il caso limite su cui la distinzione – tra formazione concettuale fenomenologica e
riflessiva – sembra arenarsi viene racchiuso, da Heidegger, in un breve paragrafo segnato
tra due parentesi, come se questa eccedenza riflessiva, in cui la filosofia riguarda se stessa, non
assumesse i caratteri peculiari al meccanismo del ripiegamento, ma attendesse, in posizione
incidentale, ancora adeguata considerazione: «È stato Lask a perseguire il primo tentativo
consapevole di una “Logica della Filosofia” sul terreno della filosofia trascendentale dei
valori, pur senza superare lo stadio delle indicazioni programmatiche» 2 .
Qui in gioco, con tutta evidenza, non pare essere una ripartizione, un’attribuzione
scolastica, quanto piuttosto il modo in cui – al cospetto dell’interrogazione intorno alla
propria origine – la filosofia intende la circolarità del sapere a cui è inevitabilmente
consegnata. L’irriducibilità non è data dalla coazione a ripercorrere di volta in volta il
cerchio conchiuso della propria autoreferenza, l’elevazione teoretica della questione sulle
fattezze conoscitive, osservative, ottiche, pertanto teoretiche, dell’atteggiamento scientifico
che la filosofia carica su di sé; la soglia, il cui calpestio appare inevitabile ed in virtù della
quale il pensiero decide della propria originarietà, è semplicemente fatta presente, in figura
concettuale, dalla conchiusione e dalla ricorsività: la circolarità del regresso, la mina della
sua vuota infinità sono le forme teoretiche della determinazione, non ancora pienamente
teoretica, che la filosofia reclama su di sé. «La circolarità è un fenomeno eminentemente
teoretico, essa è persino la più sublime espressione di una difficoltà squisitamente teoretica.
Il senso metodologico di tutti gli sforzi precedenti era quello di pervenire al limite
dell’assenza di presupposti, cioè all’origine, di far piazza pulita di tutto ciò che è gravato di
presupposti. Facendo così siamo rimasti noi stessi nel teoretico. La circolarità è una
difficoltà teoretica ed è prodotta teoreticamente» 3 . Provando a riformulare la divaricazione,
tracciata e ripetuta da Heidegger durante queste lezioni sul limite di Friburgo, così come è
stata introdotta, con una finalità strumentale ed esplicativa, il circolo segnato dalla

1 Ivi, p. 7.
2 Ivi, p. 6. È fuori di dubbio questa appartenenza, per quanto estrema e di eccezione, all’ambito della
recezione riflessiva del dettato trascendentale, a costituire per Heidegger il motivo ultimo di inconciliabilità e
di distanza tra la filosofia laskiana e la fenomenologia; in proposito, cfr. M. HEIDEGGER, Sein und Zeit,
Tübingen, Niemeyer, 1927; poi in GA, cit., Abt. 1, Bd. 2, hrsg. von F.-W. Von Hermann, 1977; trad. it. di P.
Chiodi, Essere e Tempo, Torino, Utet, 1994 [Sezione Prima, cap. 6, nota 34]: «L’unico autore che, fuori dal
campo fenomenologica, accolse positivamente le Ricerche Logiche husserliane, fu E. Lask, la cui Logik der
Philosophie (1911) è tanto influenzata dalla VI Ricerca (Sulle intuizioni sensibili e intellettuali) quanto la sua Lehre
vom Urteil (1912) lo è dalla sezione su Evidenza e Verità». ; inoltre, cfr. E. CASSIRER, M. HEIDEGGER, Colloquio
di Davos, trad. it. a cura di V. Verra, in M. HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, cit., pp. 219-sgg. nel cui
elenco dei sostenitori del neokantismo, non figura il nome di Lask. Sull’idea heideggeriana di una logica della
filosofia, Beiträge zur Philosophie, GA, Abt. 4, Bd. 65, hrsg. von F.-W. von Hermann, 1989, § 37, pp. 78-79; in
part. p. 78: «La domanda fondamentale è: come si essenza l’Essere? Il silenziamento [Erschweigung] è l’accorta
legalità del silenziare (σιγα̃ν). Il silenziamento è la “Logica” della Filosofia, in quanto questa domanda la
domanda fondamentale a partire da un altro inizio. Essa cerca la verità dell’essenziarsi dell’Essere, e questa verità
è il nascondimento accennante-ricordante (il mistero) dell’evento (il rifiuto temporeggiante)».
3 M. HEIDEGGER, Zur Bestimmung der Philosophie, cit.; trad. it. di G. Auletta, a cura di G. Cantillo, Per la

determinazione della filosofia, Napoli, Guida, 1993, p. 99.

59
Il Pathos della Forma

declinazione conoscitiva del sapere – del sapere come conoscenza di qualcosa, e di se


stesso nel medio della propria origine come qualcosa da conoscere – impone o la
considerazione incondizionata delle condizioni della conoscenza, la ritrazione in una
distanza capace di sinossi e di perimetrazione, la continuazione dell’indagine teoretico-
conoscitiva, come se si avesse dinanzi una complessione oggettuale di rappresentazioni,
concetti, giudizi, di cui rendere lucidamente le relazioni, le dipendenze, l’ampiezza di
validità (un impianto erkenntniss-theoretisch applicato al costrutto ed alla disposizione
filosofica, intesa come Erkenntnisstheorie); oppure la comprensione dell’addentellato
filosofico come stratificazione, sovrapposizione di istanze e modelli differenti, in cui
l’assetto della predicazione teoretica, la sua disponibilità spaziale arbitrata dalla
presentazione degli elementi concettuali all’interno della evidente distinzione giudicativa,
ovvero l’ambito apofantico cui da’ coessenzialmente luogo il pronunciamento in merito a
qualcosa, ove l’argomento, la materia del giudizio sia già data, tanto quanto la sua formalità,
nella sua veste concettuale, e concettualmente teoretica, siano definiti come costituenti
riflessivi, cioè strutturali, di un livello, della cui costituzione, dei cui momenti di formazione e
di ostensione, fare questione preliminarmente quanto alla philosophische Frage.
«Ora – domanda Heidegger – è possibile agguantare la circolarità nuovamente e
veramente con le mani: risolvere il problema della conoscenza teoretica attraverso una teoria
della conoscenza, la teoria con la teoria? Nei fatti si è anche indicata la logica come teoria della
teoria. Ma c’è qualcosa del genere? E se fosse un’illusione? Ma deve essere possibile,
altrimenti non ci sarebbe nessuna scienza del conoscere né i suoi assiomi, non ci sarebbe
nessuna disciplina fondamentale della filosofia, non ci sarebbe affatto una scienza
originaria. Se invece c’è la scienza teoretica originaria, il circolo sarebbe insopprimibile. Il
conoscere non viene fuori da sé stesso» 1 . La domanda sulla possibilità di una scienza
originaria, ovvero della filosofia quale scienza dell’origine, nelle fattezze di una teoria della
conoscenza, di una teoria del teoretico, di una teoria della teoria, esita di contro all’incompletezza,
divenuta, nella memoria heideggeriana, impossibilità, fallimento, di quel tentativo estremo
compiuto dal suo giovane maestro, Emil Lask, caduto sul fronte orientale della Grande
Guerra, un lustro prima della scrittura di queste pagine. L’estremità di quell’impresa
mancante mostrava inevitabile un punto di crisi, rispetto a cui ingiungere ai propri passi una
direzione: qui si differenziano Reflexionsphilosphie e Phänomenologie, l’ipotesi di un’originarietà
sovra- o metateoretica e quella di un’origine preteoretica, né non ancora, né non già
teoretica, ma meramente precedente in quanto non-teoretica.
Eppure la questione resta: come si può affrontare la cosa? Laddove la cosa è lo
squadernamento problematico che alligna nell’abbozzo sistematico in cui era impegnato
Lask, il registro secondo cui poteva essere mostrata l’alterità nel pensiero, in quanto
conoscenza, il plesso di ciò che non ha affatto forma predicativa, asseverativa,
gnoseologica, pertanto non concettualmente teoretica, al vaglio di una ricerca, di un esame
che rivendicava a se stesso ancora un rango formale, ove proprio il potenziamento o la
riduzione del grado di formalità costituiva la ripresa dell’interrogativo.
Ed è proprio l’inappartenenza al cammino della riflessione – in cui il ripensamento si
sfibra tra la sua successività – Nach-denken – e la pretesa di riporsi in una precedenza
rispetto alle composizione conoscitive – presenta, con chiarezza palmare, la ragione del
peso che Heidegger attribuisce al corpus logico-filosofico laskiano. Quella delle opere di
Lask, «non è una lettura che si fa tanto per farla» 2 : essa trattiene allo stesso tempo α̉πορία,
imbarazzo, impossibilità a trovare accessi, soluzioni, mancanza di tracce per individuare il
più agevole passaggio, e κρίσις, stadio ultimo, ove si appalesa l’urgenza della decisione,
l’impellenza di decidersi, di segnare l’azzardo del proprio prematuro, intempestivo

1 Ivi, trad. it., p. 100. Cfr. E. MAZZARELLA, Che cosa è metafisica ?, in Vie d’uscita, Genova, Il Melangolo, 2005,

pp. 153-169.
2 M. HEIDEGGER, Zur Bestimmung der Philosophie, cit.; trad. it., Per la determinazione della filosofia, cit., p. 182.

60
Il Pathos della Forma

responso 1 . È l’indicazione dell’inevitabilità e del limite del piano riflessivo della filosofia
rispetto al progetto dello sconfinato ripensamento della propria origine: «ogni filosofia non
può evitare di essere fino ad un certo grado filosofia della riflessione» 2 . Altrimenti espresso:
ogni filosofia assume l’onere di riconoscere il tracciato della propria interna opera di
riflessività, di determinazione riflessiva del proprio costrutto strutturale ed operativo,
accentrandosi di nuovo su quanto non cede alla riflessività, né può essere da questa ripreso.
Su quanto del sapere filosofico non perviene alla regolazione delle specificità o singolarità,
Einzelheiten scientifiche, di quelle determinazioni di ambito ottenute mediante l’iterazione
dell’identificazione e della disidentificazione, dell’appaiamento e della sovrapposizione,
della copertura e della non-coincidenza.
La conversione dunque della filosofia in teoria della formazione filosofica dei concetti
consta nell’assunzione della Theorie des Begriffs come ambito preparatorio – ove si può
disporre con pregnanza la Entscheidung der Frage sulla precedenza originaria, ma non già
immediatamente originante, del pensiero 3 – per la ripresa del dettato trascendentale.
Già nella prima opera che Lask diede alle stampe come dissertazione dottorale, Fichtes
Idealismus und die Geschichte, ove è evidente l’adesione al tracciato segnato dalla filosofia
trascendentale dei valori, i cui insegnamenti aveva ricevuto prima presso Windelband, a
Strasburgo, poi presso Rickert, durante la lunga permanenza heidelberghese, non solo nella
scelta dell’argomento, della posizione storico-problematica – Fichte, nell’immagine del
Größte Jung Kantianisch, elevata sulla linea che dalla Geschichte der neuer Philosophie, di Kuno
Fischer all’Ateismusstreit di Heinrich Rickert – ma anche rispetto all’imbocco metodologico
rivolto all’individuazione della modalità storica della Begriffsbildung, viene esibito il primo e
provvisorio titolo del ricorrente capitolo sulla nozione di trascendentale per la logica, sulla
trascendentalità nel dominio oggettuale del λόγος. «Dall’interna compenetrazione del Logico e del
Trascendentale – scrive Lask nel suo Fichtesbuch – si ottiene la teoria kantiana della formazione
trascendentale dei concetti, cioè di una formazione dei concetti, i cui principi direttivi siano i
valori trascendentali della conoscenza» 4 . Le variazioni, le emendazioni, gli allargamenti che
incontrerà la domanda nascente dall’intrecciarsi dei principi del Logico, dell’Oggettuale e
dunque del Trascendentale – già nell’evoluzione editoriale di questo medesimo testo, poi nel
quadro complessivo della sua scrittura – non inficiano l’individuazione del suo abbrivio,
dello scarto a cui inevitabilmente deve la sua iniziale espressione.

2.1. Teoria e Genealogia: tra Herbart ed Husserl.

Proviamo dunque a rendere della Theorie der Begriffsbildung la sua esplicitazione


trascendentale, il percorso lungo il quale emerge la questione della determinazione possibile

1 Sul ricorrere di queste categorie interpretative quanto alla recezione heideggeriana delle Ricerche Logiche,
alla cui lettura proprio il magistero e l’opera di Lask avevano instradato l’allievo, si veda M. Heidegger,
Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, GA, cit., II Abt., Bd. 20, hrsg. v. P. Jaeger, 1979, pp. 32-33; trad. it. di
R. Cristin e A. Marini, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, Genova, Il Melangolo, 1991, p. 33: «Insolito e
del tutto contrario alla maniera corrente di filosofare è il modo di penetrazione e di comprensione che
quest'opera (le L.U.) dal lettore. Essa ha un andamento di ricerca continua; e richiede una presentificazione ed
una documentazione controllata passo passo ed espressamente di ciò di cui si tratta. Se non si vuole falsificare
tutti il senso delle ricerche, non si può quindi ricavarne semplicemente dei risultati e inserirli in un sistema,
perchè la tendenza dell'opera stessa mira alla elaborazione e all'approfondimento delle cose trattate.[...] Sta
nell'essenza delle ricerche fenomenologiche di non poter essere ogni volta ripetute e ripercorse». A riguardo
cfr.. J. TAMINIAUX, Le Regard et l'excedent. Remarques sur Heidegger et les «Recherches logiques» de Husserl, in «Revue
Philosophique de Louvain», febbraio 1977, p. 81.
2 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p.164.
3 E. LASK, Fichtes Idealismus und Geschichte, in GS, cit., I, p. 29, ove si afferma che nella contrapposizione tra le

filosofie di Kant e di Hegel ciò di cui principalmente si tratta è la teoria del concetto, ovvero la comprensione
delle conformazioni concettuali, la distinzione o l’eguagliamento tra estensione ed intensione, l’intellezione o
l’elusione del plesso generale-individuale, su cui avremo modo di tornare approfonditamente in seguito.
4 Ivi, p. 38.

61
Il Pathos della Forma

dell’oggetto – dell’oggetto della conoscenza come dedizione cognitiva, non implicando


ancora la specificazione del proprio impianto sistematico, prima cioè che si presenti una
qualsivoglia formalizzazione scientifica. Il rintracciamento delle coordinate dell’oggettività
viene ricondotto da Lask alle condizioni di formazione del concetto di un oggetto in
quanto oggettività; il concetto di un oggetto si dispone come l’aspetto formale dell’oggetto,
l’aspetto che si dà la forma dell’oggetto, quale forma data di qualcosa. Quanto viene assunto
è che il concetto di un oggetto sia la forma espressiva, nominale di qualcosa e, nel
medesimo tempo, qualcosa come oggettività dell’indicazione.
«Ogni speculazione, la si chiami teoria, sistema, o come si vuole – scrive nella Metafisica
Generale, Herbart, cui si deve la più lucida definizione della Philosophie als Teorie der
Begriffsbildung – cerca una costruzione di concetti che, se fosse completa, rappresenterebbe il reale, così come
esso sta a fondamento di ciò che accade ed appare» 1 . I cardini, appena avanzati, sembrano dunque
essere la costruzione – e la metodologia, la dinamica costruttiva rispetto al proprio
riferimento contenutistico – e la polarità completezza/incompletezza, ove si fa presente
una clausola alla composizione del quadro concettuale, il limite su cui gioca ciascuna
pretesa di validità. In primo luogo, si fa questione dell’accezione del concetto come
costruzione formale, come costruzione di una forma, il cui formato però non rappresenta
meramente il contenuto del concetto, l’insieme delle note cui il concetto dà espressione
unitaria. In secondo luogo, la dimensione di tale piano formalizzato, di tale struttura logica del
mondo 2 , dunque il requisito epistemologico di una descrivibilità obbiettiva, emerge come
l’autentico problema filosofico della comprensibilità dell’esperienza, in quanto ricostruzione
razionale dell’esperienza mediante concetti. La coincidenza tra la completezza della
risoluzione concettuale, la necessaria consequenzialità nel registro dei concetti, nella
raggiera delle relazioni tra i concetti differenti e di quelle obbiettivate in ognuno dei singoli
concetti, e l’incompletezza del rimando alla consistenza ontologica, rappresenta, pertanto,
la traccia eminente di queste considerazioni herbartiana.
Dunque, a cosa dà forma il concetto, cosa ricorre nella sua oggettività? Se la formazione
dei concetti è una trasformazione, una riformazione, in che guisa è ammesso un modello
formale precedente alla concettualizzazione? E tale precedenza, che arreca una
anticipazione rispetto ad ogni tipologia conchiusa – in questo senso sistematica – di
conoscenza, come si presenta alla formazione concettuale?
Seguendo ancora la guida della riflessione ontologica di Herbart, in quanto «comprensione del
reale mediante concetti» 3 , lo stadio primo, da cui prima l’analisi logica, poi la
ricomposizione concettuale prendono le mosse, è la datità contraddittoria delle forme
dell’esperienza 4 ; il modo in cui l’esperienza giustappone i suoi volti, le sue multiformi
immagini, rimanda ad una molteplicità irriducibile, di cui resta il compito di darne conto. È

1 J. F. HERBART, Allgemeine Metaphysik nebst den Anfängen der philosophischen Naturlehre, §. 3, in Sämtliche Werke
[d’ora in poi, HSW] VIII, a cura di K. Kehrbach, O. Flügel, Aalen, 1964; trad. it. Metafisica Generale con elementi
di una teoria filosofica della natura, a cura di R. Pettoello, Torino, Utet, 2003, pp. 68-69.
2 Si riprendono le riflessioni che G. Preti, in Russel e la filosofia del nostro secolo, in «Rivista critica di storia della

filosofia», XXXI (1976), p. 444, dedicò al pensiero herbartiano, aprendo un consistente capitolo, italiano ed
europeo, di indagini sia storiografiche che teoretiche sulla ricostruzione del problema ontologico – di uno
specifico realismo critico quanto all’ontologia – all’interno di un piano logico; a riguardo, R. PETTOELLO, La
realtà dell’apparenza ed i modi di dire l’essere, in S. POGGI (a cura di) Le leggi del pensiero tra logica, ontologia e psicologia.
Il dibattito austro-tedesco (1830-1930), Milano, Unicopli, 2002, pp. 35- 64.
3 J. F. HERBART, Allgemeine Metaphysik, in HSW, cit., VIII, §. 35; trad. it. Metafisica Generale, cit., p.117.
4 «Le forme dell’esperienza sono date? Risposta: sì, sono certamente date, ancorché come determinazioni del

modo in cui le sensazioni si collegano. Se non fossero date, non soltanto potremmo staccarle dalle sensazioni,
in modo tale che il percepito sarebbe del tutto senza connessione, del tutto singolare, ma potremmo anche
udire e vedere a piacimento altre figure, altri intervalli», J. F. HERBART, Allgemeine Metaphysik, in HSW, cit.,
VIII, §. 11; trad. it. Metafisica Generale, cit., p. 80. Su questi argomenti, e sulle emendazioni che Herbart rivolge
alla filosofia critica kantiana – riguardanti essenzialmente la prima Critica – rimandiamo a R.PETTOELLO,
Scatole quadrangolari e recipienti vuoti. Genesi psicologica delle categorie e forme dell’esperienza nella critica di Herbart a Kant,
in «Rivista di storia della filosofia», n.s., 55, 2000/1, pp. 5-25.

62
Il Pathos della Forma

nella riflessione, nell’autoosservazione sull’attualità dell’esperienza, che si esige il


riconoscimento delle contraddizioni che vengono condotte nelle maglie formali
dell’esperienza. L’intera metafisica – quale determinazione adeguata della comprensione del
dato, procedendo da esso, nel suo medio, oltre di esso - «descrive un arco che, dalla
superficie del dato, penetra sempre più in profondità, avvicinandosi al reale e quindi,
risollevandosi da quella profondità che si era riusciti a raggiungere, ritorna al dato, con quei
chiarimenti che si sono resi possibili» 1 .
Tuttavia, bisogna chiarire che, in quest’impostazione, il dato ed il reale non
rappresentano meramente i due estremi di un cammino, la cui tappa di partenza prescrive
un compito, un problema cui offrire una soluzione mediante l’individuazione dei processi
di generazione, mediante l’additamento di una provenienza, da cui trarre generativamente o
deduttivamente gli sviluppi. La distinzione pure irrisarcibile tra dato e realtà permane,
piuttosto, su una linea formale, anzi disegna il tracciato della determinazione formale della
forma della realtà. Ciò che cade nell’attenzione dell’indagine herbartiana è dunque il paio
costituito dalla forma della datità, dalla forma della datità per come essa ci è ovunque data
in sé, e dalla forma della realtà, o meglio dalla realtà come forma compiuta di ciò che è. Se
le forme dell’esperienza presentano, all’analisi logica, le incongruenze date dalla
giustapposizione di condizioni e fattispecie molteplici, l’esigenza che ammonta alla
formazione concettuale è di rendere loro pienezza formale, mediante semplificazione e
rettificazione. In tal guisa, le forme dell’esperienza – quelle forme non sovrapponibili, che
intrecciavano le condizioni della sensibilità, l’implesso della sensibilità come stratificazioni
di stati, di modificazioni, quelle forme non riconducibili le une alle altre che esaurivano
l’ambito resistente dell’apparire – «si trasformano in forme della posizione del reale e se non lo
impediamo, finiscono col coinvolgere l’essente nelle loro contraddizioni. Così ci costringono a porre il reale ed
a vigilare» 2 . La filosofia, dunque, come elaborazione concettuale, consente il passaggio
ricostruttivo dalle forme, che nell’esperienza ha la datità, alle forme secondo cui il reale può
essere assolutamente posto – in quanto non-contraddittorio e semplice. La posizione
assoluta del reale è la saturazione dell’elaborazione concettuale: il concetto di un oggetto è
– e non semplicemente esprime – la forma di realtà di un oggetto. Il concetto di un oggetto
è l’oggettualità, o realità, di un oggetto.
Eppure, quale è lo statuto logico che viene riconosciuto ad un concetto? Se infatti il
concetto è lo strato elementare dell’universo logico quanto alla realtà, il nucleo nominale di
ciascuna predicazione, tuttavia in quanto retroterra ignoto di ciò che si presenta, dandosi
per noto, la trama formale che restituisce l’immagine piena e reale di ciò che è, in quanto
ricostruzione della forma che si dà l’esperienza, necessita di un medio e di un luogo.
Nonostante la trattazione logica herbartiana meriti, a giusto titolo, un posto eminente nella
catena di quelle considerazioni oggettuali della formalità logica, che, nell’età moderna,
ricongiunge il gesto bolzaniano a quello della mathesis universalis leibniziana 3 , distinguendosi
per la dignità dell’unità di oggetto riconosciuta alle formazioni ideali, tuttavia la
disposizione rappresentativa propria del concetto, la sua distinzione, quale pensato,
Gedachtes, rispetto agli atti del pensiero, Akten des Denkens 4 , non esime dallo sporgersi verso il
piano del giudizio. L’idealità logica dei concetti, infatti, non toglie la necessità del loro
attraversamento per il giudizio, «perchè i concetti vengano accostati sempre di più all’ideale;
quindi [i giudizi], in un certo senso, precedono questi ultimi [i concetti]» 5 . La nuclearità

1 J. F. HERBART, Allgemeine Metaphysik, in HSW, cit., VIII, §. 4; trad. it. Metafisica Generale, cit., p. 70.
2 J. F. HERBART, Allgemeine Metaphysik, in HSW, cit., VIII, §. 39; trad. it. Metafisica Generale, cit., p. 122.
3 E. HUSSERL, Logiche Untersuchungen, I, Prolegomeni, in HUA, cit., XVIII, pp. 211-227; trad. it. Ricerche Logiche, I,

Prolegomeni, cit., pp. 220-234; ID., Logik, in HUA, cit., XVII, pp. 63-66; trad. it., Logica formale e trascendentale, cit.,
pp. 88- 92; ID., Abbozzo di una prefazione alle Ricerche Logiche, op.cit., pp. 199-205.
4 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, GS, op.cit., II, p. 304.
5 J. F. HERBART, Lehrbuch der Psychologie, in HSW, cit., V, (§. 78) pp. 295-436; trad. it. a cura di I. Volpicelli,

Manuale di Psicologia, Roma, Armando, 1982, p. 65. cfr. R. MARTINELLI, Origine dei concetti e logica pura: Herbart,
Lotze e Husserl, in Le leggi del pensiero., cit., pp. 180-181. A questo proposito, riprendiamo le chiare esplicitazione

63
Il Pathos della Forma

concettuale rimanda – od addirittura presuppone, in ragione di un compimento sistematico


– alla sequenza continua della progressione dei giudizi. La puntualità univoca dei nomi, di
ciscun nome come consistente del suo nominato, ritorna alla successione espressiva della
predicazione, che già compone le tessere elementari del suo proprio quadro.
Il cerchio rimonta, di nuovo stringe al collo la riflessione.
Torniamo – dopo la specificazione del modello herbartiano di formazione concettuale – alla
questione della resa trascendentale della filosofia come Theorie der Begriffsbildung, da cui aveva
mosso la nostra presentazione del pensiero di Emil Lask. Tale espressione reca con tutta
evidenza una reduplicazione, che abbiamo lasciato silente al livello del primo stadio
dell’indagine: da un canto Theorie, dall’altro Begriffsbildung. Rendere il significato del legame
insistente tra questa duplicità coincide con la sua comprensione essenziale. Ovemai si
intendesse il genitivo oggettivo indicante il contenuto teorico, come ciò su cui si applica
una regolazione metateorica, come l’ampia gamma delle differenti formazioni concettuali
alla cui unificazione viene evocata una determinazione sistematica, che ne stabilisca le
modalità di connessione ed i vincoli di legalità formale, alla logica filosofica, cui perterrebbe
propriamente il titolo di teoria della formazione concettuale, ovvero teoria logica della
concettualizzazione filosofica, verrebbe riservato un ufficio normativo, sovraordinato ai
singoli campi di definizione materiale 1 . Questo pare essere il cammino obbligato per una
Reflexionsphilosophie, ove la trascendentalità coincide con la sua forma riflessiva, con la
successività indefinita della regolazione. Ben altro è considerare l’indicazione della teoria
come espressione della dimensione – e non semplicemente dell’uso – trascendentale della
formazione concettuale. L’interezza del sintagma teoria della formazione concettuale esprimerebbe
così la costituzione trascendentale della formazione dei concetti, la trascendentalità della
formazione, in quanto figurazione, Bildung. Il riguardo trascendentale investirebbe l’oggetto
del concetto, quale unità, non semplice, ma incompleta, della figurazione in concetti,
dunque la determinazione figurale ed oggettuale degli elementi concettuali. Il definiendum
“teoria trascendentale della formazione concettuale” non è pertanto un mero pleonasmo, che
appesantisce ed esorna le prime pagine a stampa di Lask: è piuttosto il tentativo di
esplicitare un’ipotesi di risoluzione a problema posto. Pur non essendone ancora chiarito il
portato, è palmare la differenziazione: teoria trascendentale e formazione concettuale, ove il primo
tronco richiama la ragione costitutiva del secondo.

di S POGGI in I sistemi dell’esperienza. Psicologia, logica e teoria della scienza da Kant a Wundt, Bologna, Il Mulino,
1977, p. 250: «I giudizi che, come momenti psicologici di rappresentazione, caratterizzano il corso del nostro
pensiero e nei cui termini quest’ultimo si organizza in una struttura essenzialmente predicativa non sono
quindi in definitiva altro che quei momenti del corso del nostro pensiero nei quali noi ci «avviciniamo» ai
concetti generali che costituiscono il dominio della logica e che si presentano come il punto di riferimento
costante della nostra riflessione [HSW, IV, p. 394]. Il procedere del nostro pensiero in termini di giudizi
formulati sul piano psicologico è quindi in effetti un processo che ha come risultato la definizione (nei termini
di quell’astrazione che si esplica come un costante rinvio al contesto logico ideale cui riferire i giudizi
psicologici in questione) di strutture concettuali sempre più organiche e generali operanti all’interno del
nostro pensiero stesso».
1 «La concezione della logica come disciplina autonoma e normativa del pensiero costituiva così un elemento

fondamentale della impostazione data da Herbart alla problematica filosofica. Herbart non concepiva il
conoscere come un atto intuitivo immediato, da ricondurre a «facoltà» indefinibili; in realtà, il conoscere
nasce, si sviluppa e si organizza nel confronto e nella coordinazione dei dati conoscitivi che, come concetti
sono «rielaborati» dall’attività fondamentale del pensiero: la riflessione. La filosofia «prende le mosse dalla
riflessione, cioè dal cogliere (Auffassung) i concetti» e si organizza quindi come «elaborazione dei concetti»
forniti dalla esperienza, i quali, a causa dei «capovolgimenti (Umwälzungen)» cui sono sottoposti dalle
contraddizioni dell’esperienza stessa, possono presentare oscurità e veri e propri «errori (Fehler)» che è
appunto compito specifico della riflessione filosofica, nella «elaborazione dei concetti» che è ad essa
demandata, di emendare e correggere [HSW, IV, pp. 44-45, ed anche p. 29]». S POGGI, I sistemi dell’esperienza,
cit., p. 186. Sull’intenzione herbartiana della logica come disciplina normativa, si vedano le obiezioni
husserliane nei Prolegomeni a una logica pura, in E. HUSSERL, Logiche Untersuchungen, I, Prolegomeni, in HUA, cit.,
XVIII, pp. 216-220; trad. it., Ricerche Logiche, cit., pp. 223-226.

64
Il Pathos della Forma

Cosa se ne deriverebbe se rendessimo questa scomposizione con teoria della costituzione


trascendentale delle formazioni concettuali? Vale a dire, cosa si intende definendo la logica
trascendentale come teoria della costituzione trascendentale delle formazioni concettuali? Che
cosa muta nel modello esaminato fino ad ora, se assumiamo il compito trascendentale della
logica quale comprensione, quale ricostituzione della «possibilità della formazione di oggettività
universali o di “concetti”», dell’«universalità dell’operazione della formazione dei concetti» 1 ?
Laddove il modo d’essere delle oggettività universali, di quegli oggetti ideali che
accampano la propria dimensione significativa nell’universale possibilità di indicazione,
viene ricondotto al loro proprio essere-costituito, non come mero essere generato nelle
operazioni o nei procedimenti dell’intendimento, ma come essere preceduto dai suoi
elementi, dalla consistenza dei loro sostrati contenutistici, la questione non riguarda più
l’emendazione, la purificazione, la rettificazione di moduli e complessi formali dati nella
loro incompossibilità: essa concerne piuttosto la determinazione propria di quelle
complessioni di senso, che giungono a compiutezza sul piano delle sintesi giudicative, in
ragione dei modi di costituzione antepredicativi, della dimensione oggettuale che nella
forma dell’esperienza si dà. La forma da tessuto dell’elaborazione concettuale diviene così
medio, o meglio, luogo in cui si definisce la originaria modalità del qualcosa che è.
Poiché dunque il principio da cui abbiamo mosso – il presupposto sin dall’inizio
esplicitato – è di rendere conto del problema trascendentale della logica come intendimento
della precedenza nella formazione dei concetti, evitando di ignorare l’induzione alla
ricorsività, avanziamo l’ipotesi 2 , che accompagnerà l’intera nostra ricerca ed alla prova della
cui concludenza, riguardo al pensiero laskiano, essa sarà interamente rivolta, secondo la
quale l’essenzialità del lascito kantiano, quanto alla considerazione trascendentale delle
formazioni ideali della logica, si risolva e si compia nella sua ripresa genealogica. A cosa
miriamo quando, pur nella provvisorietà propria dell’ancora precoce livello analitico cui
siamo giunti, procediamo a tradurre l’iniziale traccia che Lask ascrive al suo movente
filosofico, nella radice genealogica della domanda trascendentale sulla logica? Se la questione su cui la
formazione concettuale aveva amplificato la sua portata trascendentale era stata
chiaramente evocata dal radicamento della tipologia formativa nella sequenza accrescitiva
del giudizio, cosa reca l’imperativo teoretico, secondo cui «una logica, nell’epoca del
kantismo, una logica, che raccoglie i problemi “trascendentali” e quelli “logico-formali” in
una unità complessiva, deve assumere come suo più alto compito, anche nella dottrina del
giudizio, quello di chiarificare [klarstellen] la relazione del giudizio rispetto alla regione
logico-oggettuale» 3 ? Cosa riguarda e come deve essere resa la proposizione laskiana «di
attribuire alla regione del giudizio, mediante la sua commisurazione [Messung] rispetto all’originaria

1 E. HUSSERL, Erfahrung und Urteil. Untersuchung zur Genealogie der Logik, hrsg. von L. Landgrebe, Hamburg,

Classen Verlag, 1948, p. 396; trad. it. di F. Costa, introduzione a cura di E. Paci, Milano, Silva, 1965, pp. 372-
373.
2 Che questa sia un’ipotesi interpretativa dovrà essere sin da ora evidente, al fine di scongiurare qualsiasi

ingiustificata sovrapposizione, o compensazione tra percorsi teoretici differenti; il suo valore euristico
consiste nella possibilità di intendere attraverso una denominazione – quella appunto della genealogia della
logica – non solo il suo modello scientifico, quello husserliano stretto tra Formale und Trascendentale Logik ed
Erfahrung und Urteil, ma la medesima possibilità di comprendere gli strati costituiti e costituenti che precedono
le compiute formazioni ideali, sintetizzate e serrate nell’ambito proprio del giudizio. Se, dunque, la posta in
gioco nell’opera, intenzionalmente sistematica di fondazione filosofica, della Logica laskiana, è di intendere la
dimensione oggettuale su cui ed in cui si compie l’intervento formativo del giudizio, della predicazione,
dell’individuazione, dell’obbiettivazione, dunque della temporalità, della soggettività, e se è in virtù
dell’inevitabile collocazione dell’α̉πόφανσις in quel dominio di sostrati oggettuali, che in se stessi si danno, che
si rende senso alla trascendentalità della logica – di quella logica, che si assume il carico della riflessione
kantiana – allora la nostra lettura si impegnerà, proprio mediante quell’ipotesi ermeneutica, a rintracciarne i
vincoli di possibilità. Questa è la dimensione propria di quella triangolazione Kant-Lask-Husserl, che a più
richiami tornerà sulla superficie delle nostre pagine: non un confronto, suffragato filologicamente, ma il
disegno di una concorrenza teoretica, il cui vertice (Kant) rappresenta l’importo problematico: che cosa
significa logica trascendentale.
3 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, cit., II, p. 287.

65
Il Pathos della Forma

struttura logico-trascendentale, la sua posizione assoluta nel complesso della logica» 1 ? Il primo deposito
dell’interrogazione pare essere quello di una chiarificazione del rapporto di commisurazione
tra le formazioni predicative, apofantiche, in cui cioè si asserisce qualcosa su qualcos’altro,
il carattere predicativo di qualcosa, assunto come argomentum dell’asserzione, rispetto a ciò
che originariamente le precede, al sostrato oggettuale, già logico 2 : la chiarificazione di una
misura riguardo all’origine.
«La chiarificazione dell’origine della logica – scrive Husserl, introducendo il piano di
Erfahrung und Urteil – scopre che il dominio del «logico» è ben più ampio di quello che la
logica tradizionale ha fino ad oggi trattato; essa scopre in pari tempo da quali nascoste
ragioni essenziali deriva quella restrizione, appunto perché si rifà innanzitutto all’origine del
«logico» nel senso tradizionale. In tal modo non si trova solo che l’operare logico consta di
strati che la tradizione non ha scorti, e che la problematica logica tradizionale si pone su di
un piano già relativamente elevato; ma si trova piuttosto che negli strati inferiori sono da
cercare presupposti nascosti sul cui fondamento divengono intelligibili, alla fine il
significato ed il diritto delle evidenze di grado più elevato che lo studioso di logica
possiede» 3 . Mirando ad un concetto, allo stesso tempo comprensivo e preliminare di «logica e
logos», che sia capace di intendere la non ultimatività 4 della determinazione del logico,
ovvero dell’essere riguardato logicamente, una considerazione genealogica della logica tenta
di individuare il piano, o piuttosto, i piani di costituzione delle elaborazioni più complesse e
di grado più elevato. Che tuttavia questo intento si esplichi non eccedendo arbitrariamente
la dimensione del logico, ma – in quella differenza già eraclitea tra λόγος e ragione 5 –
indicando il percorso di formazione costitutiva degli oggetti nel logico, dell’individualità, non
ancora pienamente oggettuale, degli oggetti nel dominio complessivo del logico, ne
contrassegna l’impronta e l’ambizione trascendentale.
«La chiarificazione dell’origine dei giudizi predicativi, che è compito fondamentale della
genealogia della logica […], diviene logica trascendentale» 6 : ovvero il modo in cui qui viene
1 Ivi, p. 288.
2 Che la precedenza oggettuale definisca già un ambito logico, in quanto forma originaria dell’oggetto su cui
[worauf], e non uno stadio fisiologicamente prelogico, o – per usare i termini laskiani – Metalogisch, metalogico, è
decisivo per il disegno trascendentale. Nella seconda considerazione dell’oggettualità, infatti, la questione
sull’origine si trasforma in quella della causa originaria, nel reperimento del momento sorgivo [Ursache,
Entstehung] e non del fondamento [Grund], transitando da una caratterizzazione «logica», in senso «oggettivo», ad una
psicologica, in senso soggettivo. Cfr. E. LASK, Zum System der Logik, [I. Die Grundbegriffe der Geltungsphilosophie], in
GS, cit., III,p. 60. Sull’argomento ci diffonderemo in seguito, nel prossimo capitolo, dedicato allo specifico
della definizione logica laskiana.
3 E. HUSSERL, Erfahrung und Urteil, cit., pp. 3-4; trad. it., Esperienza e Giudizio, cit., p. 5.
4 E. LASK, Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 26: «Proprio sulla parola «logico» grava un’antichissima

suggestione. Lo si considera come qualcosa di ultimo, di incomparabile, di incoordinabile, su cui non è dato
porre ulteriori domande». Tali considerazioni vengono riprese in quella vera e propria riscrittura della Logik
[come esplicheremo in seguito], che è il System der Logik, in G. S. III, cit., p. 60: «Proprio sulla parola «logico»
aleggia un’antichissima e venerabile suggestione. Che cosa è logico ? È stato fatto passare per qualcosa di
ultimo, incomparabile, incoordinabile, su cui non si può chiedere di più. Logico è propriamente logico e non
psicologico. Ma di quale materia è intessuto? Non ha nulla di simile? Che cosa sono dunque concetti e
fondamenti? Che cosa sono identità, sillogismo, cosa, causalità? Sono realtà od immagini ideali, intemporali? Il
passo decisivo della filosofia contemporanea è stato, aver collocato il dominio del logico, univocamente ed
indubbiamente ed insperatamente, in quella vera teoria dei due mondi, nella dualità di essente e valente,
destinandogli la sua effettiva patria. Davanti ad un che di ultimo bisogna fermarsi. Ma il logico per sé non è
ancora un tale ultimo».
5 ERACLITO, fr. 50 [in DIELS-KRANZ, I Presocratici. Frammenti e testimonianze, trad. it. a cura di G. Giannantoni,

Roma-Bari, B 50, p. 208], cfr. M. HEIDEGGER, Logos (Heraklit, Fragment 50) (1951), in Vorträge und Aufsätze
(1936-1953), Pfullingen, Neske, 1957; poi in GA, cit., Bd. VII; trad. it. di di G. Vattimo, Logos, in Saggi e
Discorsi, Milano, Mursia, 19976, pp. 141-157; E. LASK, System der Logik, in GS, cit., III, p. 141: « Lo studioso di
logica osservando, nell’intera sussistenza del contenuto [Inhalt], lo specifico contenuto di significato logico,
isola il logico, il Logos, il dominio del contenuto logico formale dalla sua confusione con l’alogico, e lo separa
da questo, esercitando una critica del puro Logos, non della Ragione [Kritik des reinen Logos, nicht der Vernuft]».
6 E. HUSSERL, Erfahrung und Urteil, cit., p. 50; trad. it., Esperienza e Giudizio, cit., p. 48. Riguardo all’essenzialità

di un programma di genealogia della logica all’interno della ripresa del problema trascendentale all’interno della

66
Il Pathos della Forma

aperta la questione della trascendentalità della logica è quello di una Untersuchung zur
Genealogie der Logik. La conversione della domanda circa la logica riguarda in primo luogo il
modo in cui si dispongono quei sostrati su cui il giudizio investe, correlandoli,
comparandoli, identificandone le posizione relativa, consentendone il pronunciamento, il
compimento dell’espressione in una determinata sequenza temporale; quei sostrati che
fungono – e la funzione è già una determinazione predicativa, consentita dalla relazione che
viene tematicamente assunta – da elementi della composizione giudicativa. Non resta più
possibile, pertanto, considerare tali nuclei semantici come «alcunché categorialmente ancora
del tutto informe», come sostrati che, non essendo ancora entrati «in un giudizio per
assumervi una forma» 1 , rendano superfluo l’esame del loro autentico rango di formatività
materiale, non coincidente con la formazione apofantica. «Non basta che in un modo
qualunque siano dati degli oggetti qualunque, e che il giudicare si diriga su di essi, bastando
a ciò soltanto le regole ed i principi che la logica ha delineato in riferimento alla forma» 2 ,
laddove per forma si intenda la continuità, e l’indifferenza, formale della traccia predicativa.
«La riuscita dell’opera conoscitiva presuppone piuttosto che la logica pretenda anche ai
modi di pre-datità degli oggetti stessi riguardo al contenuto» 3 . La forma in cui materialmente si
danno quegli oggetti stessi – quegli oggetti in quanto gli stessi, selbst da, da se stessi,
selbstgegebene, dati da se stessi, in se stessi prima – della loro compiuta determinazione
categoriale. Pertanto l’iniziale, irrefutabile, banco di prova per una ricerca attorno alla
genealogia della logica, riguarda la considerazione della forma materiale semplice in cui
questi oggetti si dispongono. Se è vero che «ogni universalità ed ogni molteplicità, anche
quella che è massimamente primitiva, si riferisce già a più individui presi insieme e perciò
ad un’attività logica, più o meno primitiva, in cui gli individui presi insieme possiedono già
una formazione categoriale, forma di universalità» 4 , allora il carattere proprio di quei
sostrati oggettuali originari che costituiscono il worauf di ciascuna elaborazione logica è
quello di oggetti individuali. Ove però ciò che alimenta la questione sono proprio gli statuti
specifici di oggettualità e di individualità.
Ora è bene domandarsi: cosa indicano oggettualità ed individualità prima della
formalizzazione categoriale dei sostrati, prima cioè di qualsivoglia oggettivazione ed
individuazione? La strettoia segnata da questi interrogativi costituisce il passaggio obbligato,
lo spettro tematico invalicabile di una logica trascendentale in quanto genealogica, in quanto
questione dell’origine oggettuale della predicazione, dunque sia di quella pregnantemente
fenomenologica consegnata da Husserl ai suoi contributi raccolti in Erfahrung und Urteil ed
in Formale und Transzendentale Logik, sia, secondo la nostra ipotesi di lettura, di quella
intessuta da Lask, tra la Logik der Philosophie ed il System der Logik. Ciò comporta, con
evidenza, la sua irresolubilità compiuta e concludente al livello attuale della ricerca, ma non
l’espunzione di una, seppur provvisoria e preliminare, chiarificazione.
Quanto non può affatto corrispondere all’oggettualità individuale dei sostrati ultimi è la loro
identità, quale identificazione di individualità; perché siano sin dapprincipio banditi gli
equivoci, che potrebbero lasciare scadere queste riflessioni in una mera e pedante
discriminazione terminologica proviamo a specificare una differenza essenziale all’interno
di questo plesso concettuale.

fenomenologia, cfr. E. HUSSERL, Logica formale e trascendentale, cit., p. 286: «Così noi guidati dal sapere e dalla
scienza alla logica come teoria della scienza, e condotti ulteriormente dalla sua fondazione effettiva ad una
teoria della ragione logica o scientifica, siamo d a va nt i a l p r o b le m a u ni ve r s a le d e l la f i l os of i a
tr asce nde nt al e, nella sua sola forma pura e radicale, quella di una f e n om e n ol og i a t r a s c e nde nt a le ».
Cfr. E. HUSSERL, Erste Philosophie (1923-24), Erste Teil, Kritische Ideengeschichte, Ergänsende Texte, in HUA, cit.,
Bd. VII, 1956; trad. it. di C. La Rocca, Kant e l’idea della fenomenologia trascendentale, Milano, Il Saggiatore, 1990.
1 E. HUSSERL, Erfahrung und Urteil, cit., p. 20; trad. it., Esperienza e Giudizio, cit., p. 20.
2 Ivi, p. 11; trad. it., cit., p. 12.
3 Ivi.
4 Ivi, p. 20; trad. it., cit., p. 21.

67
Il Pathos della Forma

Il concetto pregnante di oggetto intende «il correlato di una identificazione effettuatesi in


ripetizione infinitamente aperta e libera», il correlato contenutistico dell’obbiettivazione,
Objektivierung 1 , che si ascrive al titolo comprensivo della predicazione nel giudizio. L’oggetto
del giudizio, cioè, è obbiettivazione, determinazione obbiettiva secondo la forma ed il corso
predicativi: l’oggetto del giudizio è l’obbiettivazione di un sostrato originario che già da sé si
dà come [nella forma di] un oggetto, non ancora obbiettivato. Né la costituzione, né
l’oggettualità coincidono con l’obbiettivazione, piuttosto quest’ultima fa parte del loro più
ampio arco.
Come si dà – dunque – un oggetto non obbiettivato? Intendiamo un oggetto già dato, ma non
obbiettivato come l’essente «in quanto unità dell’identità», ove «l’unità d’identità
passivamente già-data non è ancora un’identità oggettiva colta e mantenuta come tale» 2 .
Quindi, un oggetto non obbiettivato è una unità che si dà come medesima, non però
conservando la propria medesimezza – esprimibile con: x, nella durata dell’estensione
conoscitiva, è continuamente lo stesso – nella variazione intenzionale degli sguardi che vi si
protendono e degli aspetti che si lasciano successivamente scorgere; è unità d’identità, ma
non identità di questa unità. Un oggetto non obbiettivato non si dà come lo stesso, ma come
da se stesso. Nella separazione tra unità ed identità – essenziale alla costituzione di un
concetto di oggetto non meramente ricorsivo – si divarica il luogo proprio dell’individuale,
quale differente dall’individuato, nella misura della sua identificazione. In questo senso, un
oggetto non obbiettivato – e solo un oggetto di tale risma – è un oggetto individuale, non
individuato, in quanto non identificato.

Così il tema dell’individuale si divarica nel cuore della traduzione genealogica della
trascendentalità della logica, a cui sin qui ci siamo dedicati, tentando di mostrare come
l’abbrivio fenomenologico, l’indirizzo a retrocedere alla costituzione degli elementi logici
oggettuali si insedi nelle difficoltà che aveva ingenerato la posizione di una teoria
trascendentale della formazione dei concetti. Questo rappresenta allo stesso tempo
l’orizzonte problematico dei nostri studi ed un’ipotesi analitica riguardo al percorso del
pensiero laskiano, in cui proprio le prime fatiche teoretiche forniscono un irripetibile piano
sperimentale all’edificazione successiva dell’intero edificio logico. Quelle focalizzazioni
proprio sul cono d’ombra della singolare temporalità dell’accidentale, sulle dimensioni
interrelate dei depositi culturali, del valore e della norma, attraverso le quali giunge in
superficie il fenomeno del diritto, l’entità istituita, Gebilde del diritto di cui si fa volta per volta
esperienza, denunciano l’estensione di uno spazio di ricerca, di un ambito di indagine da cui
Lask trae imprescindibili istruzioni sulle determinazioni oggettuali di senso, dunque sulla
costituzione dei concetti di oggetto. Intendere cioè il Fichtesbuch e la Rechtsphilosphie come le
ricerche logiche laskiane ci consentirà di comprendere appieno l’ampiezza e la portata
sistematica del suo pensiero – pur senza celare quegli angoli e quelle oscure complicanze
che ancora gli rendono l’aura di un percorso incompiuto.

2.2. Dalla concettualizzazione pre-scientifica alla precomprensione.

«Dal punto di vista della teoria della conoscenza – scrive Lask iniziando la trattazione
metodologica della Rechtsphilosophie –, la realtà effettiva vale [gilt] come un prodotto di sintesi
categoriali. La metodologia estende questo punto di vista copernicano alle creazioni
dell’attività selezionatrice delle singole scienze e vede p.es. negli atomi e nelle leggi naturali
prodotti della concettualizzazione delle scienze della natura, negli eventi della storia
universale, nei fenomeni giuridici, politici ed economici prodotti della concettualizzazione
delle scienze della cultura. Allo sguardo inesperto non risulta facile attenersi

1 Sull’utilizzo husserliano di Objektivieren, vd. la nota della trad. it. E. HUSSERL, Esperienza e Giudizio, cit., p. 60.
2 E. HUSSERL, Erfahrung und Urteil, cit., p. 60; trad. it., Esperienza e Giudizio, cit., pp. 57-58.

68
Il Pathos della Forma

scrupolosamente alla fondamentale idea copernicana. È ovvia l’obiezione che non è certo
solo lo storico ad imporre ai grandi fatti storici il loro ruolo storico-universale, che non è
solo la scienza a delimitare tra loro i differenti significati tipici della cultura come economia,
diritto, linguaggio ecc. Anche il metodologo non potrà fare a meno di riconoscere, nel
disciplinare il materiale già dato [in der der vor ihm bereits vorgefundenen primitiven Disziplinierung
des Stoffes], per così dire dei lavori preliminari [Vorarbeiten] dell’attività scientifica» 1 . Se la
considerazione sulla costituzione della effettualità, della Wirklichkeit, come modo d’essere
dell’essente effettivo, wirklich, era già stata fatta presente nei rudimenti di quella critica alla
Wissenschaftslehre che ci ha impegnati durante il primo paragrafo del capitolo primo, ciò che
ora è più dappresso in questione è il rispetto specifico di quanto si configura come la
disposizione contenutistica già data, bereits vorgefunden, alla concettualizzazione scientifica. In
altri termini, il tema che viene ora posto in primo piano è la modalità propria di quei
depositi dei lavori preliminari dell’attività scientifica, delle pre-elaborazioni, Vor-arbeiten che
precedono la distinzione scientifica, in quanto contenuti della determinazione conoscitiva.
Il primo strumento di intellezione che Lask addita per dare conto di questo evidente
Tatsache, di questo dato di fatto della pre-lavorazione del materiale scientifico, è la
comprensione della «concettualizzazione pre-scientifica» 2 , così come era venuta alla luce
nelle riflessioni che il suo primo maestro di filosofia, Rickert 3 aveva intrecciato dai Grenzen 4 al
Gegenstand der Erkentnis 5 , attraversando la Geschichtsphilosophie 6 .
«Per formulare una teoria completa ed esauriente dell’elaborazione concettuale – scrive
Rickert nel quarto capitolo dei Grenzen – dobbiamo assumere il termine “concetto” nella
sua accezione più ampia, a prescindere dalla differenza [tra pensiero scientifico-naturale e
pensiero storico], e quindi, nell’interesse logico, è giustificato chiamare concetti sia le
formazioni di pensiero in cui è colta l’essenza storica della realtà, sia quelle in cui si esprime
la natura generale delle cose. Entrambi i processi logici hanno lo scopo di trasformare e
semplificare la realtà empirica per farla entrare in una rappresentazione [Darstellung]
scientifica. In questo compito abbiamo visto, fin dall’inizio, l’essenza più generale
dell’elaborazione concettuale» 7 .
Ciò che conta, per Rickert, nel contesto logico, è la modalità in cui la formazione dei concetti
si presenta non come Abbildung, riproduzione, formazione di una tipologia concettuale di
un modello materiale, appreso percettivamente, ma come Umbildung, trasformazione in
vista della compiuta e rigorosa comprensione scientifica 8 , formazione di un ulteriore
registro, di un paradigma epistemologico, la cui regola viene espressa da un giudizio
ipotetico: la teleologia scientifica della formazione concettuale è il fine immanente
dell’intera impresa scientifica. Il concetto è una formazione, Gebilde, è un modulo costituito,

1 E. LASK, Rechtsphilosophie, in GS, cit., I, pp. 308-309; trad. it. Filosofia giuridica, a cura di A. Carrino, Napoli,
ESI, 1984, p. 50.
2 Ivi, p. 309; trad. it. p. 51.
3 E. LASK, Fichtes Idealismus und die Geschichte, in GS, cit. I, pp. 5-6, Rechtsphilosophie, in GS, cit., I, pp. 289- 291;

pp. 308-310, trad. it., cit., pp. 27-29, pp. 50-53; anche riguardo ai differenti rapporti che Lask aveva con
Rickert e con Windelband, determinante con maggior forza il secondo quanto alla sistemazione
epistemologica della Giurisprudenza, come si vedrà in seguito. Sulla prossimità tra allievo e maestro nelle
prime opere di Lask, sull’oggetto della storia e del diritto, si veda G. LUKÀCS, Emil Lask. Ein Nachruf, in Kant-
Studien, Bd. 22, trad.it di P.Pullega, in G.LUKÀCS, Sulla povertà di spirito, Bologna, Cappelli 1981, pp. 173-174.
4 H. RICKERT, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung. Eine logische Einleitung in die historischen

Wissenschaften, Tübingen, Mohr, 2. Aus.; trad. it. a cura di M. Catarzi, I limiti dell’elaborazione concettuale scientifico-
naturale. Un’introduzione logica alle scienze storiche, Napoli, Liguori, 2002 [la traduzione italiana prende in
considerazione la seconda edizione dell’opera, 1902].
5 H. RICKERT, Der Gegenstand der Erkentnis, Tübingen/Leipzig, 2. Auf., Mohr, 1904. [La scelta della seconda

edizione è determinata in virtù delle letture e dei confronti possibili ad Emil Lask].
6 H. RICKERT, Geschichtsphilosophie, in Die Philosophie im Beginn des zwanzigsten Jahrhunderts. Festschrift für Kuno

Fischer, hrsg. von W. Windelband, Heidelberg, Carl Winter's Universitätsbuchhandlung, 1904, pp. 51-135; trad
it. La filosofia della storia, a cura di P. Rossi, in Lo storicismo tedesco, Torino, 1977, pp. 341- 423.
7 H. RICKERT, I limiti dell’elaborazione concettuale scientifico-naturale, cit., p. 178.
8 Ivi, p. 21.

69
Il Pathos della Forma

obbiettivo, in cui ha luogo l’espressione scientifica: è una formazione determinata dalla


contenutezza in un giudizio, o meglio in un sistema logicamente conseguente di giudizi, in
una teoria scientifica.
Come è possibile intendere la costituzione della formazione concettuale ed il suo riferimento,
ove è scongiurata la versione ingenua di una Abbildungstheorie, che pretendeva di rendere
l’adaequatio nei termini di una mera conformazione tra elementi omogenei, di una riduzione
all’univocità o alla reduplicazione di ciascuna delle coppie raffigurative, ripetendo
instancabilmente la messa in scena dell’argomento del terzo uomo? Come è possibile fare
questione del Masstab eines Erkenntnis, se l’indicazione o la riproduzione si incagliano nei
limiti di rappresentazioni chiuse, disperdendo l’illusione di un accordo con l’ordine in sé dato
delle cose, o facendo figurare ad arte un ulteriore regolo funzionale, ripiombando nella
formulazione di un Masstab, nach dem man sich mit seinen Vorstellungen richten kann 1 ? È lecita la
posizione di un’eccezione circa un Masstab eines Erkenntnis, nella costruzione di un sistema
riflessivamente assiomatico? Che ne è della nozione trascendentale di Masstab?
Se è possibile considerare misura della conoscenza la sua proiezione teleologica 2 , il
conseguimento compiuto della conoscenza, il riconoscimento debito della posizione del
valore, resta tuttavia sospesa una domanda in merito alla precedenza rispetto al quadro
organico della concettualizzazione. Del resto, Rickert assicura alla fonte della duplicazione
dell’attività conoscitiva negli stabili ambiti contenutistici, contrassegnati come
naturwissenschaftlich ed historisch, un Trieb, una «pulsione conoscitiva», uno strato cioè pre-
concettuale che tende l’arco della chiarificazione e della definizione concettuale 3 . E sarà
proprio la correlazione tra questo piano non affatto concettuale ed il livello della primitiva
concettualizzazione pre-scientifica ad impegnare la sua riflessione nella continua riscrittura
del Gegenstand der Erkenntnis, sin dalla seconda edizione del 1904, quella su cui Lask raffina
le sue argomentazioni.
«Nei presupposti di ogni conoscenza bisogna distinguere due fattori, cioè ogni scienza è
anche da un punto di vista empirico elaborazione di un materiale [Bearbeitung eines Materials],
e da ciò sorgono due problemi, di cui l’uno riguarda il materiale, l’altro la sua elaborazione.
Possiamo far fronte per intero alla domanda sulla elaborazione o sulla formazione
concettuale solo se ricerchiamo ciò che, dal punto di vista del realismo empirico,
presupponiamo, oltre al dato [Gegebene], ancora come materiale della conoscenza, come
materia [Stoff] dell’elaborazione o della formazione concettuale, affinché, laddove si dovesse

1 H. RICKERT, Der Gegenstand der Erkentnis, cit., p. 75.


2«La trasformazione (Umbildung) della realtà empirica nella forma del concetto sembra inscriversi in un’aporia
comune tanto al realismo empirico quanto alla sua confutazione. Se la teoria della conoscenza come
riproduzione presuppone la stessa conoscenza della realtà da riprodurre, altrimenti non sarebbe possibile
valutare la corrispondenza della conoscenza alla realtà, altrettanto si deve dire per la prospettiva opposta.
Parlare di impossibilità di riprodurre la realtà così come è presuppone proprio la conoscenza della realtà così
come è, altrimenti non si potrebbe misurare tale impossibilità. Entrambe, dunque, presuppongono che
l’esperienza sia già conosciuta prima ancora di venire conosciuta. Anche la «trasformazione» dell’esperienza
nella forma del concetto presenta la stessa difficoltà. Trasformare significa mutar forma ad un contenuto che
si pensa comunque identico. Ma per pensare che si tratto dello stesso contenuto presente in una diversa forma è
necessario conoscere già tale contenuto. La conoscenza attraverso un processo di trasformazione sembra
quindi presupporre la conoscenza di ciò che viene conosciuto.
Il termine «trasformazione» però, in Rickert, deve essere inteso in un’accezione metaforica. Esso esprime un
processo che tende ad uno scopo: far passare il contenuto dell’intuizione nel contenuto del concetto. Il
contenuto è il medesimo, cioè l’infinità. Ma, a differenza dell’infinità dell’intuizione, l’infinità del concetto è
calcolabile, e quindi esprimibile secondo una formula matematica. Un’unica formula vale per un’infinita
molteplicità, è in grado di controllarla stabilendo, per ogni elemento di essa, un precedente e un successivo».
Introduzione, di M. CATARZI, a H. RICKERT, I limiti dell’elaborazione concettuale scientifico-naturale, cit., pp. XLII-
XLIII.
3 A riguardo, la Introduzione di M. Catarzi a H. RICKERT, I limiti dell’elaborazione concettuale scientifico-naturale, cit.,

p. XXVI. Sulla radice windelbandiana della nozione della tensione o pulsione conoscitiva, presente nella
differenziazione tra naturwissenschaftlich ed historisch, si veda W. WINDELBAND, Geschichte und Naturwissenschaften,
in Präludien, II, cit., pp.148-sgg.

70
Il Pathos della Forma

dimostrare che questo materiale è più del dato, si indicasse quale equivalente teoretico-
conoscitivo deve trovarsi nel sistema dell’idealismo trascendentale per questo presupposto
empirico-realistico di un materiale che supera il dato» 1 . L’intenzione rickertiana dunque
mira ad individuare, proprio nella reduplicazione quanto alla dedizione scientifica,
conoscitiva, tra il materiale da elaborare concettualmente e questa medesima elaborazione
del materiale, il modo in cui si disponga il piano della datità, della Gegebenheit, della
Vorgefundenheit, della Thatsächlichkeit, laddove la specifica determinazione contenutistica non
sia ancora compiuta.
È la parola questo a fornire il tipo elementare dell’indicazione: cosa si intende quando si
afferma 2 «questo è blu, questo è rosso»?
Perché si possa considerare la categoria della datità, die Kategorie der Gegebenheit, die Form der
Dinghaftigkeit, la forma della cosalità come «la categoria dell’essere-questo [Diessein] in
opposizione alla categoria dell’essere» è necessario rinvenire la forma generale del Diessein,
di questo qualcosa, del qualcosa individuato, la generalità dell’individuazione nella
medesima Bejahungsform, nella forma dell’affermazione. Ciò si rende vieppiù evidente
quando si considera il principio normativo del giudizio di fatto come principio di
singolarità, in quanto principio di singolarizzazione, di isolamento, Norm des Vereinzelten 3 .
Ciascun questo-qualcosa formante quello strato concettuale pre-scientifico è già sempre
individuazione compiuta, indicazione risolta in un’affermazione, è identificazione di
un’unità, identità dell’unità del dato, che come medesimo – questo è blu e non rosso – nel
trascorrimento della coscienza lungo la sequenza del tempo. La costituzione della effettualità
obbiettiva, della objektive Wirklichkeit, corrisponde dunque alla unificazione ordinata delle
posizioni identificate della datità. Ma in questo modo, la domanda dunque su cosa resti
hinter, dietro all’unità dell’esperienza, dietro all’unità obbiettiva dell’esperienza, è destinata a
cadere nell’arcana insensatezza della moltiplicazione dei mondi e delle tracce metriche 4 , se
non «pone il problema della forma teoretico-conoscitiva della datità» 5 .
Le riflessioni di Rickert giungono così ad un’espressione tanto lucida e tagliente, che
finisce per fungere da parametro teoretico riguardo alle nostre ricerche: «La domanda
sull’essenza del contenuto dell’effettualità non è una domanda, perché l’effettualità non ha
affatto alcun contenuto. […] Questa è l’unica strada per risolvere il “problema ontologico”,
che resta dopo aver stabilito il concetto di effettualità obbiettiva. Su questa strada non si
trova alcuna unità dell’essere, ma ci si meraviglia sempre di più della molteplicità del suo
contenuto» 6 .
In che relazione è questa proposizione rickertiana con l’esplicitazione, che Heidegger
propone, del concetto fenomenologico di fenomeno, quando nel Methode-Abschnitt di Sein
und Zeit lapidariamente scrive «dietro i fenomeni della fenomenologia non si trova
assolutamente nulla» 7 ? Perché la recisione della domanda nach dem Wesen des Inhaltes der
Wirklichkeit, radicata nella non-rinvenibilità – teoretico-conoscitiva – dell’essenzialità
contenutistica che avrebbe da riempire il complesso categoriale dell’effettualità, si distingue
dalla ricusazione della vana ricerca di un’oggettualità non solo inapparente, ma eterogenea a
qualsiasi mostrazione oggettuale? Avvicinando la medesima nozione di contenuto, così
1 H. RICKERT, Der Gegenstand der Erkenntnis, 2. auf., cit., p. 188.
2 Ivi, p. 178. Sull’identificazione rickertiana tra indicazione ed affermazione, che costituisce il nucleo del
confronto a questo riguardo con Lask, torneremo in seguito.
3 Ivi, p. 187.
4 Ivi, p. 193.
5 Ivi, p. 221.
6 Ivi, p. 221.
7 M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Tübingen, Niemeyer, 1927; poi in GA, cit., Abt. I, Bd. 2, 1977; trad. it. Essere e

Tempo, cit., p. 96: «Il concetto fenomenologico di fenomeno intende come automanifestantesi l’essere
dell’ente, il suo senso, le sue modificazioni ed i suoi derivati. L’automanifestazione ha caratteri suoi propri e
non ha nulla in comune con l’apparire. L’essere dell’ente non può assolutamente essere inteso come qualcosa
«dietro» cui stia ancora alcunché «che non appare». «Dietro» i fenomeni della fenomenologia non si trova
assolutamente nulla, a meno che non vi si celi qualcosa destinato a divenire fenomeno».

71
Il Pathos della Forma

come si presenta nelle due differenti modalità proposte nel registro teoretico-conoscitivo di
Rickert ed in quello fenomenologico, è possibile ritrovare la ragione di una tale distinzione
proprio nell’assunto che, mentre lo strato concettuale pre-scientifico rickertiano accoglie già
l’identificazione posizionale, l’identità di un’unità oggettuale, invece i sostrati elementari,
che figurano nella disposizione logica della fenomenologia, restano ancora affatto
identificati, individuati, oggetti senza alcuna obbiettivazione?
Proviamo ad esaminare come i due corni della questione si rendano visibili nella
riflessione laskiana.
«Purtroppo è un’inveterata abitudine, identificare il sapere tout court con la scienza,
pensare che non vi sia altro oggetto della filosofia teoretica oltre alla scienza. I più
elementari problemi logici si dischiudono solo a quel ricercatore logico che riguardi anche
alla conoscenza «pre-scientifica» nell’ambito della sua ricerca. Se la logica del futuro vorrà
rivolgersi anche alla teoria della conoscenza filosofica, dovrà toccare proprio quel dato di
fatto dell’atteggiamento teoretico «pre-scientifico» [die genau gleiche Tatsache eines
«vorwissenschaftlichen» theoretischen Verhaltens], che è presente anche nella conoscenza
dell’essere [Seinserkennens]. Come vi è una conoscenza dell’essere pre-scientifica, così vi è
anche una conoscenza pre-scientifica della valenza e del valore [ein vorwissenschaftliches
Geltungs- und Werterkennen], un filosofare pre-scientifico, che tuttavia di regola rimane alle
singolarità del senso e della vita toccata dal senso [des sinnberürthen Lebens]. Ciò che si chiama
scienza nell’ambito della conoscenza dell’essere e della conoscenza filosofica, è solo l’anello
finale di una catena continua, il livello più alto del padroneggiamento della verità
[Wahrheitsbemächtigung], condotto con metodo. Non si deve mai dimenticare quanto il
teoretico sia già fortemente radicato nella vita non-scientifica e vieppiù nell’atteggiamento
rispetto al non sensibile e nell’atteggiamento sensibile» 1 . È possibile distinguere, dunque,
seguendo Lask, lungo la serie continua della conoscenza – che richiama lo spirito fichteano
dell’unità del sapere, in cui le distinzioni sono appunto di grado, sono distinzioni
differenziali contenute nella medesima scala – oltre alla compiutezza scientifica – tutt’altro
che chiara, segnatamente nel caso della conoscenza filosofica – una conoscenza pre-
scientifica dell’essere, vale a dire di ciò che è oggetto di conoscenza in quanto essente, e della
valenza, vale a dire di ciò che è oggetto della conoscenza in quanto valente. L’insieme delle
ultime due tipologie costituisce quella «attività ininterrotta della coscienza pre-scientifica»,
quel «mondo – paragonabile ad un prodotto semilavorato – già riferito a significati
culturali», quella coagulazione della ragione teoretica, quell’intreccio di «incarnazioni di
“concettualizzazioni” – per quanto pre-scientifiche» 2 , che sorregge contenutisticamente i
singoli campi culturali e scientifici. Tuttavia, questa realtà culturale data, in quanto elaborata
pre-scientificamente, alla trattazione tematica delle Einzelwissenschaften, accoglie in se stessa
già una differenziazione del radicamento del teoretico, del Hineinragen des Theoretischen, nella
vita non-scientifica, quella appunto tra Seins- e Geltungserkennen, o meglio – considerato come
carattere distintivo della conoscenza filosofica un gradiente di riflessività, di mediatezza –
tra atteggiamento immediato rispetto al sensibile ed atteggiamento immediato rispetto al non-
sensibile.

1.3. Il pregiudizio dell’ esperienza.

Per rendere conto di ciò, rimandiamo ad un brano della Logik, in cui Lask isola una
infiltrazione [Einsickern] del contenuto teoretico – proprio della storicità delle scienze, della

1 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 185. In riferimento alla nozione di «conoscenza pre-
scientifica», Lask rimanda in nota al «merito di Rickert nell’aver presentato la formazione concettuale pre-
scientifica, tra l’altro nel contributo Geschichtsphilosophie al Festschrift «Die Philosophie im Beginn des 20.
Jahrhunderts», 2.a ed., 1907, p. 333».
2 E. LASK, Rechtsphilosphie, in GS, cit., I, pp. 309-310; trad. it., Filosofia Giuridica, cit., p. 52.

72
Il Pathos della Forma

scrittura storica delle scienze e non solo della storicità di quelle storiche –
nell’atteggiamento quotidiano al mondo ed un suo impregnamento [Durchtränktsein] 1 da parte
di un ripensamento non ancora o non affatto scientifico. Ambedue designano campi di
ricerca sperimentale. Ognuno indica un diverso punto di fuga. In quanto tracciati
sperimentali si offrono alla riflessione scientifica già come sostrato di una dimostrazione 2 ,
invece che come semplice materiale. In quanto sostrato di una dimostrazione dunque
sostengono due aperture o elaborazioni distinte: non fungono allo stesso modo. Un
deposito sperimentale è la variabile compatibile di una funzione, non un mero esemplare:
succede e non precede la sua variazione. Che l’impronta teoretico-categoriale attraversi
l’intera vita non-scientifica, pur senza giungere alla sua affermazione, non può essere
semplicemente scisso in un verso conoscitivo ed in un altro pratico, od in un orientamento
al sensibile ed in uno al non-sensibile, dovendo presupporre una divisione all’infinito
dell’impatto formale sul non-formale, naufragando nella petitio principii della determinazione
della formalità e del suo carattere indicativo, prima di averne seguito la sua costituzione.
Tuttavia, solo in quanto sostrati differenti, solo essendo stati elaborati come sostrati
differenti, inaugurano differenti indagini, raffigurano due modi distinti di intreccio, forse
del medesimo intreccio. Uno, l’Einsickern, è l’atteggiamento quotidiano naturale, carico di
premesse, carico della pietrificazione della consuetudine, l’ambito dossico proprio del
rinforzo consuetudinario, da cui dipartono complicazioni strutturali ed oggettuali del tutto
peculiari, l’altro, l’Druchtränktsein, pretende di essere la sua costituzione, ciò che consente
alle pietre stesse della tradizione di incunearsi nell’esperienza, ed all’esperienza di generarle
come fossero sue proprie. L’Einsickern, il substillare, dunque vale come la stratificazione in
modalità differenti di riferimento a significati, a funzioni culturali del medesimo
attraversamento, del medesimo impregnamento, Durchtränktsein, Erfüllen, riempimento
dell’indicazione teoretica, dell’accenno valoriale nel primitivo Verhalten dell’esperienza.
Quello che qui fa problema è la medesima possibilità di una esperienza originaria, in quanto
pre-teoretica, quindi ancora estranea-al-significato, non ancora determinata quale unità dei
significati, di qualcosa che pur essendo in essa intrecciata, la eccede in quanto irrimediabile
alterità.
Come giocano rispettivamente, dunque, esperienza ed estraneità al significato, se è
possibile individuare un’esperienza teoretica, come correlato soggettivo del senso teoretico, dunque
di ciò che è proprio e conforme al significato, ed un’esperienza sensibile a-teoretica, in
quanto non attinta teoreticamente 3 ?
È una lectio minor quella che esaurisce l’esperienza a Repräsentant, rappresentante di ciò che
funge da materiale, dunque del materiale sensibile, non rivestito logicamente, e del senso
teoretico 4 . La domanda invece che inquieta la scrittura laskiana, alimentandone le
emendazioni successive che trovano posa nel rapsodico corpus postumo, formato da
Randbemerkungen, epistole e tentativi di rifacimenti sistematici, è se, quanto all’esperienza, sia
concesso «parlare di un correlato soggettivo dell’estraneo al significato, dell’esperienza
dell’estraneo al significato, o se piuttosto l’estraneo al significato consista nell’essere
determinatezza di un’esperienza estranea al significato» 5 . Cioè, se l’estraneità al significato
coincida con l’esperienza, se «la determinatezza estranea al significato consista nella
determinatezza dell’esperienza» 6 .

1 «Bisogna considerare che oltre a questo essere impregnata della vita dalla riflessione prescientifica c’è anche
un graduale infiltrarsi nella vita di un contenuto teoretico, che sorge dalla scienza. [Außer diesen Durchtränksein
des Lebens durch vorwissenschaftliches Nachdenken ist fernen auch das allmähliche Einsickern eines der Wissenschaft
entstammenden theoretischen Gehalts ins Leben zu bedenken]», E. LASK, Logik der Philosophie und Kategorienlehre, in GS,
cit., II, p. 186.
2 E. LASK, Zum System der Philosophie, in GS, cit., III, p.206. cfr. supra §.1, cap. 1.
3 E. LASK, Die Logik der Philosphie, in GS, cit., II, p. 83.
4 Ivi, p. 84.
5 Ivi.
6 Ivi, p. 277.

73
Il Pathos della Forma

In queste riflessioni marginali Lask pare obiettare a se stesso che non basta fissare la
dualità tra significato ed estraneità al significato, senza dare conto della sua originarietà
quanto all’esperienza. Un’obiezione che in qualche modo presente quella che ben
successivamente gli si rivolgerà in merito alla dirimente lacuna di una estetica trascendentale 1 ,
di una dottrina compiuta sull’esperienza e più specificamente della costituzione oggettuale
nell’esperienza.
Seguiamone l’obiezione. Sostenere che ciò che è estraneo al significato si può solo esperire
significa escludere il suo assorbimento da parte della capacità di formazione logica, significa
sancirne la differenza: è cioè una clausola limitativa. Ma ciò non vuol dire che «esso
consista nell’esperienza, che si risolva nella singolarità dell’opinione» 2 .
Tuttavia in che rapporto sono l’esperienza e la singolarità dell’opinione, die Seltsamkeiten
des Zumuteseins?
Sostenere che la proposizione l’esperienza e tutte le mere determinatezze dell’esperienza sono sempre
estranee al significato non valga anche e contrario, cioè che non se ne deduce anche che viceversa
tutto ciò che è estraneo al significato è esperienza 3 , non è risolutivo, anzi also ist noch die Frage.
Alimenta la questione sull’equivocità dell’esperienza. «Quando affermiamo – scrive Lask –
che l’estraneo al significato è ciò che si esperisce, quando parliamo di impressioni subite,
quando asseriamo che si dà all’interno dell’ambito estraneo al significato questa frattura tra
esperienza ed esperito, non abbiamo ancora stabilito se c’è un esperire estraneo al
significato, che, essendo diverso dallo stato di cose, viene considerato come relazione con
qualcosa estraneo al significato, se si dà esperienza dell’estraneo al significato o solo
esperienza estranea al significato» 4 . Sembra che tutto ricada in diese Trennung des Erlebens und
Erlebten. Questa frattura non rientra nella generalità dell’esperienza; anzi l’esperienza risulta
essere uneigentliche Gattung, genere improprio per ciascuna determinatezza dell’esperienza 5 .
Non è ί̉διον γένος, è inappropriato a ciascuna singolarità dell’esperienza, non è proprio di ciò
che di volta in volta si dà dell’esperienza, ne trabocca. È improprio, dunque, e non ancora
comune, κοινόν.
Ora, se l’esperienza di qualcosa estraneo al significato viene intesa come correlativo
soggettivo, ovvero come relazione di immanenza tra la posizione di una formazione logica
obiettiva, in cui il materiale si trovi riguardato dalla forma valente ed il soggetto esperiente, in
quanto perviene al soggetto esperiente, vi ricade, l’esperienza come estranea al significato, cioè
la determinatezza concreta dell’esperienza, pur essendo immanente al suo genere,
riempiendolo contenutisticamente, non vi ricade. La determinatezza concreta dell’esperienza
è eccentrica rispetto all’esperienza in quanto stralcio materiale, in quanto accesso all’evidenza
intuitiva. L’esperienza di qualcosa di estraneo al significato può essere esperienza, Etwas-
Erleben, esperienza di qualcosa, se lo si esperisce quale materiale formale di un contenuto di
senso, se lo si esperisce in un oggettualità logica di cui è materiale. Se si esperisce già
qualcosa di non-estraneo, dunque, al significato, se si esperisce la forma di ciò che è
estraneo al significato: se si esperisce la forma di oggettualità dell’oggetto. Se si intuisce
l’oggettualità categoriale 6 . «Tutto il resto non è esperire qualcosa ma una determinata

1 Cfr. K. SCHUHMANN, B. SMITH, Two Idealism: Lask und Husserl, in Kant Studien, 83 (1993), pp. 448–466; K.
SCHUHMANN, B. SMITH, Neo-Kantianism and Phenomenology The Case of Emil Lask and Johannes Daubert, in «Kant-
Studien», 82, 3, 1991, pp.303-318.
2 E. LASK, Die Logik der Philosphie, in GS, cit., II, p. 276.
3 Ivi, p. 277.
4 Ivi, p. 276.
5 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, cit., III, p. 109.
6 Sul concetto di intuizione categoriale, cfr. E. HUSSERL, Logische Untersuchungen, II, in HUA, cit., XIX, pp. 128-

164; trad. it., Ricerche Logiche, II, cit., pp. 431- 465. Sulla possibilità di definire una nozione di intuizione
categoriale, nella forma dell’esperienza della forma, della datità della forma, cfr. M. HEIDEGGER, Sein und Zeit,
op.cit.; trad. it., Essere e Tempo, cit., pp. 334; inoltre cfr. J. BENOIST, L’a priori conceptuel. Bolzano, Husserl, Schlick,
Paris, Vrin, 1999; S. G. CROWELL, Husserl, Lask, and the Idea of Trascendental Logic, in R. SOKOLOWSKI (ed.),
Edmund Husserl and the Phenomenological Tradition, Washingthon D.C., Catholic University of America Press, pp.
73-78; F. DASTUR, La problematique categoriale dans la trdition neokantienne (Lotze, Rickert, Lask), in «Revue de

74
Il Pathos della Forma

esperienza» 1 . Una esperienza determinata non esperisce qualcosa, ma esperisce così…dimentica


dell’obietto. È una objektfreie Tätigkeit. Tra esperienza e determinatezza dell’esperienza non vi è
un abisso, non vi è né relazione soggetto-obietto, né, propriamente, forma-materiale.
Eppure, «l’esperienza è del tutto diversa dalle determinatezze dell’esperienza, in cui
l’esperienza stessa è tagliata via [weggeschnitten]» 2 . La loro differenza è quella di centro e
periferia 3 . Per determinatezza concreta-periferica dell’esperienza si intende «un’esperienza
cioè, che non è un esperire-qualcosa nel senso dell’esperire-un-obbietto, così che bisogna
distinguere tra obbietti dell’esperienza e concrezione dell’esperienza periferica, tra il
rapporto soggetto-obbietto da un lato ed il rapporto di centro dell’esperienza e concrezione
dell’esperienza periferica o coscienza e concrezione della coscienza da un altro» 4 .
Se così possiamo esprimerci, in che modo la perifericità dell’esperienza determinata si
raccoglie nella centralità dell’esperienza oggettuale, ed in che modo questa si dissemina nei
singolari depositi periferici? Non basta pensare ad una distensione, ad un allargamento dal
centro verso i margini, come la diffusione di una colata lavica che vede cristallizzarsi le
pareti esterne, la membrana di contatto con l’esteriorità. Non è sufficiente intendere la
periferia come «irraggiamento, sfera di estensione del sostrato centrale» 5 , quasi fosse una
perifrasi ancora più oscura.
L’interrogativo si complica se, grattando il palinsesto laskiano si riesce a scorgere una
breve, appuntita, annotazione: es besteht zwischen ihnen doche iregendeine Beziehung, etwa die des

Methaphysique et de Morale», 3, pp. 389-403 ; R. HOFER, Gegenstand un Methode, cit., pp. 100-150; U. B.
GLATZ, Emil Lask : Philosophie im Verhältnis zu Weltanschauung, Leben und Erkenntnis, cit., pp. 200-232.
1 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, op. cit, III, p. 108.
2 Ivi, p. 109.
3 Il nucleo di interesse a questo riguardo, sta nel fatto che la coppia centro-periferia dell’esperienza pur

dovendo apparire a Lask già gravida di significazioni pregresse, viene assunta in un punto dirimente
dell’argomentazione, quando l’esigenza di chiarificazione va facendosi più urgente.
L’introduzione di tale sintagma nel pensiero neocritico risale, senza dubbio, alla riflessione psico-logica di
Natorp: tanto nell’Allgemeine Psychologie (Tübingen, Mohr, 1912) quanto nei Logische Grundlagen der exakten
Wissenschaften (Leipzig-Berlin, Teubner, 1910) la distinzione centro/periferia rappresenta una chiave di volta
euristica nella composizione delle funzioni primitive del pensiero. I due corni del plesso stanno rispettivamente per
la qualità, od il procedimento qualitativo, e per la quantità, il procedimento quantitativo; quantità e qualità
sono due momenti fondamentali della sintesi, che si corrispondono necessariamente: alla molteplicità
estensiva del quanto corrisponde l’unità intensiva del quale, all’estensione periferica l’approfondimento
centrale od unificazione. «La direzione quantitativa dell’unità sintetica in quanto periferica si distingue da
quella qualitativa in quanto centrale» [L.G. e.W., p.63]. Da un lato la determinazione della molteplicità resta
complessione, aggregato, dall’altro giunge a comprensione. Il disegno topografico assume significato trascendentale,
restando capace di intendere, o tradurre, la disposizione fisiologica. «La periferia, l’apparato sensoriale, la
parte epiteliale, che subisce l’impronta del fenomeno esteriore, è altamente specializzata e differenziata, per la
sua propria suscettibilità organica. […] Nella periferia sensoriale, l’elemento periferico interroga le
modificazioni epiteliali ed eccita i neuroni; l’elemento periferico obbedisce ai neuroni centrali e sollecita la
modificazione sensoriale; nel centro si esercitano così le due attitudini, quella passiva e quella attiva». [P.
BONNIER, Rapport de l’intuition spatiale avec les raprésentations intellectuelles, «Bibl. de Congrés de Ph.», Paris, 1900,
pp.21-23]. L’interesse natorpiano per quell’immagine duale dovrà permanere – pur nelle differenti intonazioni
semantiche – se ancora nella sua Philosophische Systematik (con una nota introduttiva di H.-G. GADAMER, a cura
di H. Knittermeyer, Hamburg, Meiner, 1958) si legge «il tempo nel suo momento originario, nell’Ora reca un
carattere centrale, il carattere del centro ultimo del proprio ambito, mentre lo spazio ne reca uno periferico»
[p.275]. La digressione in cui ci siamo impegnati rende conto di un significato della coppai centro-periferia in
riferimento alla costituzione dell’unità dell’esperienza che doveva essere ben chiara agli occhi di Lask nel
momento della scrittura delle stesure e delle note costituenti il System der Logik. Vieppiù la chiarificazione di
questo panorama semantico sarà in grado di mettere meglio a contrasto il tentativo laskiano, pur nella fitta maglia
di relazioni e scarti che ne caratterizzano l’andamento. A tributo della possibilità di un confronto radicale tra
Natorp e Lask vanno esemplarmente alcune pagine della Systematik natorpiana in cui si traccia, con il passo
incalzante di una Vorlesung, la concatenazione di Lokation, Figuration, Konzentration (cfr. pp. 147-151), quando la
questione era divenuta quella della «“penetrazione dell’idealismo fino all’ultimo individuale”, di risolvere cioè
la “più attuale delle domande della filosofia contemporanea”, il problema del principium individui», secondo
le parole del suo allievo Gadamer (Intro., P. NATORP, Philosophische Systematik , cit. p. XIII).
4 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, op. cit, III, p. 109.
5 E. LASK, Zum System der Philosophie, in GS, cit., III, p. 206.

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Il Pathos della Forma

“Besiegens”. Cosa aggiunge alla posizione della domanda, più che alla sua risoluzione,
affermare che la relazione che insiste tra esperienza e determinatezza esperienziale è quella
del “vincere”? Se questo significasse che il centro dell’esperienza ne vince la periferia, in
quanto la domina, la sovrasta, la assoggetta, la domina, sarebbe un truismo, come dire che il
centro è il centro della (rispetto alla) periferia. Ed allora, come avviene che la perifericità discreta
dell’esperienza, che la sua frammentaria rete di gesti e di impressioni ceda al suo centro 1 ?
Raccontando il gioco del mondo, Julio Cortàzar, scrive: «vince chi conquista il centro. […] Però il
centro potrebbe trovarsi in una casella laterale, o fuori dal tavolo di gioco. […] Ma io non so proprio che
cosa sia, non vale come espressione topografica di una unità? […] Un quadro anamorfico nel quale devi
cercare l’angolo giusto» 2 .
Tale annotazione, lungi dall’allontanarci dal nostro contesto, può fungere da utile leva alla
nostra interpretazione. Ciò che suggerisce è che il centro non è una costruzione ortogonale
le cui linee terminano nel tracciato periferico. Non è ortocentro, ma eterocentro, è un quadro
anamorfico. La periferia figura dal centro. Il rapporto che insiste tra il centro e la periferia è
quello della figurazione. O dell’unità della figurazione. Non si tratta della mera proiezione di
un’intera figura facendo leva su un punto, di un’alterazione morfologia che consente – ad
arte – di intravedere una differente composizione. Dinanzi ad una folla di segni colorati, la
cui serratura suggerisce l’illusione dell’uniformità cromatica, si può vedere quella figura che
da sempre reclama il suo riconoscimento, solo seguendone le linee di composizione. Si fa
leva su un punto inaffidabile. Su una parte che non pretende al tutto, differendone. Che
tuttavia, come una casella vuota, gli fa spazio, lascia che si mostri.
Se è giusto conservare sino in quelle ultime righe, lasciate in nota, l’accenno laskiano alla
proiectio per hiatum irrationalem 3 , mutuato dalle letture fichteane ed assiduamente rielaborato
nel corso della sua opera, dobbiamo restituirgli una sua compiutezza, evitando di lasciarlo
pendere come una vaga suggestione. Proviamo, dunque, ad intendere la proiezione come la
confluenza di una figurazione, il precipitato della lamina figurativa in un punto, che non si
trova in essa, ma su di essa, α̉νά: α̉να-μόρφωσις. Analogia. In un punto di concentrazione o di
individuazione. In dem “Konzentrationspunkte” des Wissens, den Fichte wieder Gefühl nennt, soll das
“Prinzip der Individualität” entdeckt sein 4 .
Dunque il rango e la nozione di esperienza centrale o di centro esperienziale, in quanto
genere esperienza, deriverebbe dalla concentrazione in essa della concretezza delle singole,
particolari esperienze determinate, da una proiezione anamorfica che ne restituirebbe l’unità

1 Per offrire un parallelo testuale – capace di rendere maggiormente comprensibile l’uso della terminologia
risalente a besiegen, nelle considerazioni laskiane sulla concentrazione figurale, essenziali nella genesi della dottrina
della determinazione di significato e nell’individuazione del suo luogo trascendentale – ricorriamo ad un
interessante documento heideggeriano sulla coniugazione della nozione di falsum e quella di imperium,
conservato nel corso del semestre invernale 1942-43, intitolato a Parmenide. «L’ambito essenziale determinate
per lo sviluppo del falsum romano – si legge in M. HEIDEGGER, Parmenides (Wintersemester 1942-43), in GA,
cit., Bd. 54, hrsg. von M. S. Frings, Frankfurt, 1982, pp. 70-72; trad. it di G. Gurisatti, a cura di F. Volpi,
Parmenide, Milano, 1999, pp. 92-94 – è quello dell’imperium e dell’imperiale. Assumiamo qui questi termini nel
loro senso rigoroso ed originario. Imperium significa Befehl, «comando», laddove si intende la parola tedesca
Befehl nel suo significato più tardo, romano-romanico. Originariamente, Befehl significa lo stesso di bergen,
«mettere al riparo» […]. Per influsso del francese, il befehlen tedesco diventa commandieren, o più precisamente il
romano imperare, im-parare, cioè instaurare, predere provvedimenti, vale a dire prae-cipere, occupare in anticipo, e
quindi possedere ciò che si è occupato come territorio [Gebiet] in cui dare ordini [Gebieten]. L’imperium è il
comando nel senso dell’ordine. […] Il comandare in quanto fondamento essenziale del potere implica
l’«essere al di sopra» [das Ober-sein], il che è possibile solo come costante innalzarsi, al di sopra degli altri, i quali
sono dunque i sottostanti. Un innalzarsi che consente a sua volta il costante «poter abbracciare con lo
sguardo» [übersehen-können]. Non si dice forse «abbracciare qualcosa con lo sguardo» nel senso di dominarlo».
2 «Gana el que conquista el centro. […] Pero el centro podrìa estar en una casilla lateral, o fuera del tablero. […] Y ese centro

no sé lo que es, ¿no vale como expressiòn topografica de una unidad? […] Un cuadro anamòrfico en el que hay que buscar el
àngulo justo», J. CORTÁZAR, Rayuela, a cura di Andrés Amoròs, Madrid, Catèdra, 200417, §§. 154, 19.
3 E. LASK, Fichtes Idealismus und Geschichte, in GS, cit., I, p. 173. Su ciò, si veda in seguito §. 3.2. Analogia e

figurazione. La prima formulazione del problema trascendentale nel confronto con Maimon e Fichte.
4 E. LASK, Fichtes Idealismus und Geschichte, in GS, cit., I, p. 171.

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Il Pathos della Forma

della figura. E l’unità della figura è già individuazione. L’esperienza non si concentra in un
punto attenzionale, nell’isolamento di uno dei raggi della considerazione: la concentrazione
dell’esperienza è il varco della determinazione della forma, del significato. È Spielraum, lo
spazio in cui l’evidenza intuitiva gioca la sua differenza determinante.
Torniamo, dunque, alle considerazioni laskiane sull’esperienza, e più specificamente sulla
differenza tra esperienza sensibile e conoscenza dell’essere, per comprovare quei tratti che
sono appena stati presentati.
Se è vero che l’isolamento di un atteggiamento ateoretico, in cui cioè non compaia affatto
l’indicazione di un contenuto di senso, è possibile solo a costo dell’astrazione, se dunque
solo artificiosamente è dato disincagliare l’accenno alla forma logica dal suo esilio
[hineingebannt] 1 nell’esperienza, quello che ora conta è assistere al modo in cui la
determinazione dell’essere e della cosa non sia generata dalla, ma si generi nell’esperienza. «La
conoscenza dell’essere è più che un mero esperire [Dahinerleben] sensibile, più che l’essere
immerso nelle impressioni, prive di senso e di significato» 2 .
In che cosa consiste questo mehr als, questo sovrappiù che non si risolve in un esperire-là,
in un esperire deteriorato [dahin] dalla sua dispersione periferica? «Nella semplice ressa delle
sensazioni e delle percezioni – risponde Lask –, non emerge [auftaucht] ancora il “pensiero”
dell’essere e dell’oggettualità, non emerge ancora il “pregiudizio” [“Vorurteil”] sulla
consistenza obiettiva, che si può avere con o riguardo a questa massa di sensazioni; quel
pregiudizio sulla sussistenza e sulla composizione obiettive, che si impadronisce solo dei
complessi impressionali, quel pensiero secondario [Nebengedanke] dell’effettualità obiettiva,
che dovrebbe sorgere aprendosi un passaggio [durchbrechen] nella semplice vita dei sensi
[Sinnenleben]» 3 . In queste righe ricade una ricchezza concettuale a cui dobbiamo dedicarci
con attenzione.
In primo luogo è bene notare che ciò che eccede la collazione delle concretezze
esperienziale (non dei concreta, che già spartiscono il livello oggettuale con le cosalità) venga
indicato con evidenza con due notazioni locali: das “Vor-urteil” über die objektive Bewandtnis 4
ed jeder Neben-gedanke an obiektive Wirklichkeit. Vor, prima che il giudizio componga
sinteticamente la sua distinzione, neben, dopo la attestazione impressionale, accanto alla
determinazione formale 5 . La posizione dell’è, dell’oggetto che mi sta dinanzi ha questa, e non
un’altra, consistenza, non deriva dalle rive tra cui si trova, né dalla composizione artistica del
giudizio né dalla semplice vita dei sensi. Ma in quest’ultima si fa strada, durch-brechen, trova la
breccia del suo passaggio. Trova il luogo che gli è stato disposto: in questo senso ne di-
pende. Vi si genera.
Se in un compito di fantasia isolassimo questo eccesso della conoscenza dell’essere (la cui
autentica significazione attende ancora di essere compiutamente compresa), otterremmo un
semplice Auf-Sich-Einströmen-Lassen der Eindrücke, un semplice lasciar fluire a sé le impressioni, in
cui saremmo seins, wirklichkeits, dingsvergessen, dimentichi dell’essere, dell’effettualità, della
cosa, in breve di un mondo di cose e di avvenimenti 6 . Non ci troveremmo cioè ad indicare le
impressioni come impatti di qualcosa, di qualcosa di realmente effettuale, che ricade in un
orizzonte mondano ed in esso trova o disperde i suoi legami.
1 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, cit., II, in part. p. 168; Zum System der Philosophie, in GS, cit., III, p. 76.
2 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS. cit., II, p. 84.
3 Ivi.
4 Per una tematizzazione del significato di Bewandtnis tra Lask e Heidegger, si veda infra, cap. IV, 2.3.

Bewandtnis: στάσις, constitutio.


5 Sulla posizione della costituzione dell’oggetto dell’esperienza, dunque della datità oggettuale dell’esperienza

in precedenza rispetto al giudizio, ben più ampia riflessione andrebbe ingaggiata, che esorbita il perimetro, più che
le intenzioni di queste note, coinvolgendo la più parte dei raggi della intenzione laskiana dell’idea di una
filosofia trascendentale. Quanto al nesso esperienza-giudizio nel pensiero di Kant, cfr. H. HOLZHEY, Il concetto
kantiano di esperienza, cit., che si distingue oltre che per la sua opera di ricostruzione e di lucida interpretazione,
per lo sguardo complessivo che offre, stringendo insieme gli esordi del periodo critico e le ultime lezioni di
logica.
6 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 85.

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Il Pathos della Forma

Se poi questo isolamento artificioso volesse trovare un pur esile appiglio dovrebbe
rivolgersi non già e non più ad una mera vita pre-scientifica – di cui è ormai difficile
concepire le fattezze -, ma ad una vita differente, non umana, animale, ripetendo un gesto
comparativo che trova nel Treatise humeano il suo esempio più elevato 1 . In Hume l’istinto
non è altro che la cronicizzazione della consuetudine, la sua trasformazione in abito
impresso del comportamento animale, ove non è più possibile dissociare la consolidatezza
della consuetudine e l’impatto della motivazione. In Lask, invece, la questione è circa
l’eccezionalità, quello che già prima avevamo notato come Seltsamkeit des Zumuteseins, ciò che
non rientra nelle aspettative, ciò che stupisce: estraneità non ancora inibizione, Hemmung 2 .
«L’istinto piuttosto fa indietreggiare dallo spavento dinanzi alla dura parete, che ci si pone
di contro, dunque dinanzi a certi complessi sensibili eccezionali rispetto a quanto ci si
attende [Zumutesein], cioè dinanzi all’affiorare, richiamato associativamente, di passate
sensazioni tattili di avversione, che si accompagnano alle attuali impressioni ottiche» 3 . La
superficie del contatto si sedimenta come in una camera oscura mediante il distanziamento
tattile, mediante il tracciato della distanza che si raccoglie nell’iterazione del tocco – è
evidente che queste non sono solo riflessioni sulla fisiologia animale. La dimensione
spaziale non è nel grumo di percezioni tattili né nel ricorso all’attualità della vista: ovvero
non è in questa complessione associativa laddove resti intatta la dimenticanza o la
conchiusura. Ove non si faccia largo ad altro. «La parete, in tutto questo viluppo di
sensazioni e riproduzioni sensoriali, non può presentarsi in quanto realtà» 4 . In diese Knäuel,
in questa matassa, l’ostacolo non è reale, non è la parete ad ostacolare; la discontinuità si
converte solo nell’arretramento, nel muto timore. La parete non c’è. Compare solo il
tremore, la paura, la fuga, la singolarità dell’eccezione. Non basta l’associazione, il richiamo,
la sovrapposizione inter pares, poiché resta nella buia internità dimentica di mondo. Non si
accede all’effettualità: der Schritt zur Wirklichkeit ist der Schritt zur kategorialem Geltungsgehalt 5 .
Accedere all’effettualità significa accedere al contenuto di valore categoriale, ovvero
accedere alla determinazione della forma. Significa raggiungere l’ideazione della forma
oggettuale, in quanto eidetische Phantasie, di fantasia eidetica 6 . «Ciò che distingue l’essere delle
cose sensibili dai meri complessi impressionali sensibili, non si aggiunge come un nuovo

1 D. HUME, A Treatise of Human Nature (1739-40), trad. it di E. Lecaldano, Trattato sulla natura umana, in ID.,
Opere filosofiche, vol. I., Roma- Bari, Laterza, 20047, pp. 190-194 (La ragione negli animali).
2 Sul significato di Hemmung, sarebbe necessario richiamare una lunga serie di riflessioni che oscillano tra

psicologia e logica, anzi che restituiscono in ragione di quella nozione una notevole bilateralità all’impatto
contro l’ostacolo (più che contro il limite), in quanto impedimento od inibizione. Cfr. HERBART, Psychologie als
Wissenschaft neu gegründet auf Erfahrung, Methaphysik und Mathematik (1824- 1825), in HSW, cit., vol. VI, da cui
ricava l’uso nelle sue prime opere E. HUSSERL, in part. Rappresentazione come rappresentanza. Forme della
rappresentanza [M. K I 55, 1893- 1894], in ID. Logica, psicologia e fenomenologia, a cura di S. Besoli e V. De Palma,
Genova, 1999, p. 46. Riguardo a quest’utilizzo husserliano, S. Besoli, Introduzione a E. HUSSERL, Logica,
psicologia e fenomenologia, cit., p. 22, n. 52. Si consideri anche il breve accenno in H. RICKERT, Der Gegenstand der
Erkenntnis. Einführung in die Transzendentalphilosophie, Tübingen/ Leipzig, Mohr, 19042, p. 60.
3 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 85.
4 Ivi.
5 Ivi.
6 «L’eidos, la pura essenza» – scrive Husserl, in Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen
Philosophie: Erstes Buch [Ideen, I], in HUA, cit., III/1, p. 12; trad. it. di V. Costa ed E. Franzini, Idee per una
fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. I, Libro I, Introduzione generale alla fenomenologia pura, Torino,
Einaudi, 20042, p. 19 – «può essere esemplificata intuitivamente attraverso datità dell’esperienza – datità della
percezione, della memoria, ecc. – come anche attraverso mere datità della fantasia. Possiamo quindi afferrare in se
stessa e nell’originale un’essenza tanto partendo dalla corrispondenti intuizioni empiriche quanto partendo da
intuizioni che non derivano dall’esperienza,che non afferrano l’esistente, e che sono anzi puramente immaginarie». A cosa si
riferisce dunque Lask parlando della conoscenza originaria, di quella conoscenza, in quanto Erleben, che si
compie nella mera dedizione, Hingabe, al materiale riguardato categorialmente, nel semplice coglimento [Erfassung]
dell’Ur-bild, dell’oggettualità che figura originariamente, dello stare dei contenuti nelle categorie, se non ad una sorta di
fantasia eidetica? Una fantasia eidetica – e non una mera schematizzazione immaginativa – in cui si riannodino i
fili delle sue riflessioni su Form e Bilden, su formazione e figurazione? Cfr. E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS,
cit., II, p. 396. Una tematizzazione più compita a questo riguardo è rimandata, infra, 3.6. La figura della nudità.

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Il Pathos della Forma

momento sensibile alle qualità sensibili, ma come la semplice “necessità di collegare le


rappresentazioni”, come il momento solo “pensabile” dell’obiettività, non percepibile
sensibilmente, ma comprensibile solo non-sensibilmente» 1 . L’obbiettività è la connessione
necessaria della consistenza, è la necessità della consistenza obiettiva di essere così e non
altrimenti. La parete mi sta dinanzi, è. Il riferimento al senso, la determinazione teoretica,
l’indicazione categoriale sono nell’esperienza come ein möglicherweise stets hörbar hervortretender
Oberton 2 , come un sovratono armonico che è sempre possibile ascoltare. L’ampiezza orizzontale
dell’ascolto di una serie continua di suoni. Sono quell’apice tonale che consente l’ascolto di tutto
quanto lo precede in virtù della sua altezza, della sua posizione armonica in cui il richiamo a
ciò che la precede è allo stesso tempo in bilico su ciò a cui si appella come conclusione. Più
che una mera pretesa all’unità, è la delineazione di un altro sistema metrico, il passaggio
consonante dalla strofa appena udita – che ancora riecheggia nella sua elementarità – ad una
inattesa, inaudita, che rivolgendosi dietro di sé ricompone la catena già distesa di suoni.
Una delle annotazioni più brevi e taglienti – un aforisma, sarebbe più appropriato dire –
Lask la appone in margine all’analisi dell’unitarietà della conoscenza, al tentativo di considerare
la conoscenza come una corrente graduale, intensiva, che si compone mediante i suoi
differenziali. …die Bäume beim Spaziergang… «Gli alberi lungo una passeggiata = verità
originaria; cosa differente dal nudo logico!» 3 .
Gli alberi accompagnano e definiscono la linea del viale, che riempie gli occhi nel corso
del cammino. Non si sovrappongono, ma disegnano la cortina dell’identità loro propria e di
ciò che costeggiano. La durata dei tronchi infilati è quella della strada e quella del passo.
Non è qui in conto la percezione iterata di un oggetto dopo l’altro, l’enumerazione di ciò
che di volta in volta si ferma sotto lo sguardo. L’apparente sproporzione morfologica tra
l’oggettualità degli alberi e l’attività del cammino non è risolta dalla congiunzione, beim.
Anzi il senso di queste righe viene provocato a mostrarsi 4 . Ben più che come immagine,
come correlazione oggettiva, trama differenziale di oggetti della medesima stoffa dell’esperienza.
L’originarietà della verità è la sua interezza; la sua chiarificazione nella dedizione conoscitiva
è l’identificazione della sua unità.

«L’uomo grande e forte piangeva…


Gli alberi gemevano, squassati da un vento rabbioso…
[…] Per dolorosi e occulti motivi, gli uomini si differenziano per il grado delle loro
esperienze» 5 .

Qui, nella concentrazione dell’esperienza, inizia a delinearsi il luogo ancora sconosciuto del
soggettività, come grado o differenza. Ed allo stesso tempo, la costituzione di una materialità,
come riferimento, come contenuto, come sostrato, la cui determinatezza o determinazione
ricorreranno come domande ed asperità fondamentali nelle prossime pagine.

§. 3. Concepire il caso. La funzione sperimentale del Fichtesbuch.

Se l’obiettivo del Fichtesbuch è dichiarato sin dalle prime righe del Vorwort come la
posizione della «domanda sulla peculiarità logica dell’oggetto storico», non va dimenticato che
premessa di questa analisi critica della formazione dei concetti della scienza storica – di cui abbiamo

1 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 84.


2 Ivi, p. 186.
3 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 282.
4 Non è accidentale che in queste ultime righe si inciampi nei due convitati di pietra delle nostre argomentazioni:

nudità logica e verità originaria. Né che siano richiamate in virtù della loro differenza. La distanza tra verità
originaria [come intero] e la nudità logica [come totalizzazione della parte] è la soglia della dottrina della
determinazione materiale del significato. Dunque, anche del nostro percorso genealogico.
5 V. KANDINSKIJ, Al di là del muro, in Il Suono giallo, a cura di G. Di Milia, Milano, 2002, p. 32.

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Il Pathos della Forma

cercato finora di tracciare gli ampi confini speculativi – è l’eccezione di incompletezza,


elevata da Dilthey, quanto all’applicazione del metodo kantiano al quadro delle vicende
temporali dell’umano: «Se la grandezza di Kant consiste nel rilievo dato al momento di
valore per il concetto della storia, il suo limite è dato dal sconfinamento al valore formale,
dall’abitudine a giudicare il singolo [das Einzelne] solo come portatore di generalità di valore» 1 .
Come si vede, in questa espressione Lask lega insieme il tema della formalità, la sua
valenza, la sua estensione, la sua funzione, la sua duplicità, quello, distinto, della modalità di
concezione della generalità del valore, sulla sua differenza dalla compiutezza della totalità e
dalla mera indicazione della forma, infine quello del latore di valore o di significato, che ora
compare meramente come singolarità, e che assumerà nel corso della trattazione tinte ed
ampiezze dissimili. Formalità, generalità e Trägerschaft, portanza, sostrato, materiale, ora
configurati come singolarità si stagliano da subito come i tre punti cardinali della riflessione
laskiana. Questa triade concettuale consentirà a Lask di non ripetere una mera critica alla
comprensione trascendentale del piano storico e pratico come rigidamente e vuotamente
formale, piuttosto di curvare la sua attenzione sul ginepraio di differenze e di possibilità di
pensiero che in essa si aprono. Quanto in essa manca – riecheggiando Dilthey - «è un senso
più forte del positivo in ogni aspirazione», «il senso del principium individui» 2 . In quest’ottica
non basta ripetere il quadro critico, come quello in cui «l’empirico o l’a posteriori è una
formazione individuale, che assume l’a priori in ogni singolo caso», così che «l’a priori
diviene una caratteristica comune all’a posteriori», mentre «un concetto di generalità, di cui la
molteplicità dell’a posteriori costituisce l’inizio empirico, fornisce [liefert] l’esemplare
sussumibile»; il problema è già stato spostato sul modo di formazione e di figurazione
dell’individuale, per quanto riesca a recare il peso e la ricchezza della materialità. «Poiché la
ricerca kantiana – scrive Lask, in proposito – secondo il suo intero proposito, si rivolge
esclusivamente alla parte apriorica ed in questa scorge il valore oltre-empirico della
conoscenza, allora necessariamente valore e non-valore vengono divisi nell’opposizione
logica di generale e particolare: solo il generale vale come valore oltre-empirico, mentre il
concreto o individuale negli obbietti conoscitivi vale come ciò che per sé è privo di valore,
divenendo al massimo latore di un valore generale, suscettibile di una valorazione mediata.
Questa suddivisione del valore – che deriva conseguenzialmente dal metodo di trattazione
critica determina definitivamente il problema dell’individuale in Kant e concede la più
profonda ragione perché, ai suoi occhi – come a quelli del razionalismo leibnizeano-wolffiano –
l’individuale significhi sempre solo il fattivo [Faktische] puro, il «meramente» empirico, ciò
che è κατ’ε̉ξοχήν privo di valore. Kant, in verità, ha riportato con molta nettezza l’inevitabile
legame, non affatto razionalistico, dell’elemento apriorico con il materiale empirico,
all’ambito teoretico. Ma questo fato intelligibile e trascendentale, questa brutale
indispensabilità dell’empirico non lo fece illudere sulla sua principale mancanza di valore» 3 .
Laddove, dunque, la questione del rapporto tra particolare e generale nella tramatura degli
accadimenti storico-temporali diviene il luogo in cui rendere conto – con il massimo grado
di evidenza – dell’originaria dualità teoretica, quella di forma e materiale, l’opera di
intendimento kantiana riguardo alla storicità viene intesa come il tentativo di trascrizione
trascendentale della storia, il cui modello è mostrato dalla geografia 4 . La determinazione
kantiana della storia è quella di una geografia trascendentale della storia. E come nella
costruzione segnica della topografia il compito è di tradurre sulla superficie piana della
carta, nelle due dimensioni che sorreggono il reticolo delle coordinate, l’irregolarità
curvilinea, geodetica, tridimensionale del pianeta, della sua scabrosa superficie e della sua
inapparente profondità, così la determinazione logico-trascendentale dell’ambito e dell’oggetto
storico si misura costantemente con uno scarto prospettico, con una rimanenza che

1 E. LASK, Fichtes Idealismus und die Geschichte, in GS, cit., I, p. 12.


2 Ivi.
3 Ivi, pp. 13-14.
4 Ivi, p. 11.

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Il Pathos della Forma

proprio nella traslazione del piano, da essa indetto e costruito, mina la leggibilità e
l’aderenza 1 . La Somiglianza del Mondo 2 .

3.1. Il tempo della materialità: il concetto trascendentale di caso.

Ciò che è in conto quindi non è la mera sussunzione dello specifico particolare
nell’universale generale così come si svolge nel giudizio determinante, ovvero nella
funzione determinante del giudizio, ma la costituzione dell’individuale come particolare
nella determinazione della generalità. Pertanto gli sbocchi di lettura sul corpus kantiano,
presentati da Lask – con un lucido e consequenziale ordine espositivo – sono quelli del
concetto trascendentale di caso, la cui esposizione esemplare è contenuta nella nota al §. 75, sul
concetto di una finalità oggettiva della natura, della Critica della facoltà del Giudizio, e la serie di
pensiero che si origina – valicando Kant, nelle riflessioni di Maimon prima e più
compiutamente in quelle di Fichte poi – dalla questione dello schematismo trascendentale. Due
casi, seppur differenti, di costruzione trascendentale. Già da qui si può intravedere forse che
l’arco del pensiero laskiano oscilla, nella ricerca dell’interna loro differenziazione, tra le
funzioni logiche di costituzione [Beschaffenheit], costruzione [Konstruktion] e tecnica, facimento ad
arte, arte-fazione [Technik, Künstlichkeit], rispetto a cui si orienta la separazione tra oggetto,
oggettualità [Gegenstand, Gegenständlichkeit] ed obbietto, obbiettività [Objekt, Objektivität].
Partendo dalla posizione rispetto all’effettualità empirica, Lask riconosce nell’intreccio del punto
di vista logico e di quello teoretico-conoscitivo il tratto distintivo della concezione
trascendentale dell’analiticità della logica. «Si rende così evidente – annota Lask – che la
logica analitica è compatibile con il razionalismo critico, che questa deve tradursi all’ambito
trascendentale. Laddove la parte a priori della conoscenza viene assunta come mera forma
senza contenuto [inhaltsleere], si mostra già simile agli altri concetti di genere, ma di grado
più elevato. Siamo in tal guisa preparati al risultato, che solo in seguito sarà fondato in
maniera più compiuta, cioè che secondo il metodo trascendentale l’a priori deve essere
considerato solo come prodotto dell’analisi teoretico-conoscitiva, e che le pure forme del pensiero
si dimostrano come concetti trascendentali di genere formati correttamente secondo le regole [nach dem
Vorschriften] della logica analitica» 3 . Date queste premesse, diviene necessario intendere il
nesso che lega la logica analitica alla costruzione trascendentale delle oggettualità ideali, i
concetti di genere, quanto al medesimo concetto di oggetto. «Se le pure forme della
conoscenza, che devono presentarsi come concetti meramente astratti di genere, valgono,

1 Un’interessante lettura filosofica della geografia è contenuta nelle pagine dell’opera recente del geografo, R.
FARINELLI, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, in cui proprio il tema del passaggio dimensionale,
ovvero della determinazione della differenza dimensionale, rappresenta il fulcro tematico ed argomentativi.
«Un libro di geografia – scrive l’autore nella Premessa sullo spazio logico della geografia – non è un libro
qualsiasi perché più di ogni altro esso, anche se l’autore non se ne accorge, si riferisce sin dall’inizio al mondo
intero, a quella cosa che, senza più saperlo, indichiamo ogni volta che allarghiamo le braccia per significare
rassegnazione: gesto che si riferisce all’impossibilità del compito che occasionalmente si ha davanti, ma che
appunto deriva dal primo originario tentativo, quello di afferrare e portare con sé, nella direzione voluta, «la
totalità dei fatti» [L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, 1.1] di cui il mondo si compone. […]. Per
essere il mondo, i fatti devono essere nello «spazio logico» [L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus,
1.3]. Se i filosofi leggessero i geografi e viceversa, si sarebbe compreso da tempo che tale espressione equivale
alla rappresentazione cartografica, alla mappa.[…]Nessuno ci ha mai spiegato che ogni volta che squadriamo
un foglio con riga e compasso torniamo come Ulisse ad accecare Poliremo, ridurre il mondo a spazio.
Poliremo, «il mostro del pensiero illogico» rappresenta il mondo prima di ogni ragione, il potere basato sulla
pura forza fisica. E questo mondo coincide con il globo, con l’enorme e pesante masso che sbarra l’ingresso
della grotta e impedisce ai greci di tornare in libertà. Per essi, quando finalmente riusciranno a tornare alla
luce, davvero nulla sarà più come prima, tra loro ed il mondo vi sarà qualcosa che prima non c’era: la Terra».
R. FARINELLI, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Torino, Einaudi, 2003, pp. 3-4. Cfr. L.
WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, cit., p.25.
2 Richiamiamo qui il titolo della prima opera geografica sull’intera Terra in lingua spagnola, Semeiança del

Mundo, scritta nella prima meta del Duecento, citata da F. FARINELLI, cit., p. 7.
3 E. LASK, Fichtes Idealismus und die Geschichte, in GS, cit., I, p. 34.

81
Il Pathos della Forma

essi stessi, come autentici produttori [Erzeugner] della realtà e dell’obbiettività [Realität und
Objektivität]: come è possibile che l’«effettualità empirica» si presenti loro nel medesimo
significato che ha per gli altri concetti generali [Allgemeinbegriff], con la pretesa ad un
significato a parte? Perché qualcosa in generale possa chiamarsi oggetto [Gegenstand],
bisogna pensarlo già insieme a categorie. Da un punto di vista puramente logico, possiamo
rispondere a questa considerazione solo nel modo seguente: come nella conoscenza di una
cosa in generale si pensa già insieme ad essa la proprietà trascendentale, la categoria, così
avviene per qualsiasi delle proprietà empiriche, ad esempio, la proprietà del nero, viene già
pensata insieme nella comprensione di una cosa nera, od espresso altrimenti: nello stesso
senso in cui in ciascuna cosa nera si rende effettuale [sich verwirklicht] la proprietà del nero,
così in ogni cosa in generale, in quanto obbietto dell’«esperienza» [«Erfahrungs»objekt], si rende
effettuale individualiter la categoria generale della realtà [Realität]» 1 .
Tuttavia, la consentaneità nella conoscenza di ciascun obbietto dell’esperienza, in quanto
obbietto, di un qualcosa dato in generale e di questa medesima generalità formale, che cioè
ciascuna conoscenza implichi un atto multiradiale che comprenda il pensiero insieme,
Mitdenken, di qualcosa e della sua posizione formale, non risolve certo l’obiezione
riguardante una traslitterazione dei concetti di Realität e di Objektivität, piuttosto ne prepara
l’elaborazione compiuta. Una tale premessa presenta cioè la questione della struttura logica
dell’A priori trascendentale, il problema logico-formale della logica trascendentale 2 , il nodo
imprescindibile della teoria del concetto.
Restano del tutto intatti ancora gli interrogativi 1) sulla modalità di correlazione tra i due
raggi od elementi conoscitivi, 2) sulla specie di costituzione rispettiva dell’oggettualità, o
meglio della datità, e della obbiettività, dunque sul modo logicamente proprio della materialità
e della formalità, 3) sulla possibilità di un loro mutuo isolamento, ed infine 4) sulla
differenziazione trascendentale dei concetti di genere [Gattungsbegriff], di generalità
[Allgemeinheitsbegriff] e di forma [Formbegriff].
Per intendere la teoria analitica del concetto, «bisogna partire – scrive Lask – dalla
refutazione kantiana di un «intelletto intuitivo». Dal carattere discorsivo della nostra
conoscenza discendono due specie di questioni. In primo luogo, il destino logico generale, per
cui in ogni conoscenza della realtà effettuale è inevitabile la divisione in «due parti del tutto
eterogenee, l’intelletto per i concetti e l’intuizione sensibile per gli obbietti, che
corrispondono loro», ed, in secondo luogo, la traduzione specifica di questo fenomeno logico generale
alla conoscenza della conoscenza stessa, cioè al metodo della ricerca trascendentale. La piena
effettualità della conoscenza, possiamo anche esprimerci così, tanto quanto l’effettualità, non
si dischiude affatto ad una «intuizione intellettuale». Anche il compito del filosofo
trascendentale consiste in una scomposizione mediante la quale si libera il contenuto di valore
della necessità e della generalità [der Wertgehalt der Notwendigkeit und Allgemeinheit], che è
presente nei concetti dell’«esperienza», la conoscenza viene comprovata sugli elementi
apriorici» 3 . Ciò che qui Lask chiama icasticamente il destino logico, quell’essere confinato del
contenuto della conoscenza nella frattura, quell’essere esiliato del qualcosa nella scissione che
inaugura ogni dedizione conoscitiva, comprende sia la Seinserkennen, la conoscenza degli enti
1 Ivi, pp. 34-35.
2 Ivi, p. 36, nota 40.
3 Ivi, pp. 35- 36. La citazione inserita nel brano è tratta da I. KANT, Critica della facoltà del Giudizio, §. 76. nota, a

p. 371 dell’ed. italiana a cura di A. Bosi, Torino, Utet, 1993: «Una tale distinzione (tra la possibilità e la realtà
delle cose) non esisterebbe, se per l’uso delle facoltà conoscitive non fosse necessaria una corrispondente
coppia di elementi del tutto eterogenei, l’intelletto per i concetti e l’intuizione per gli oggetti [Objekte]
corrispondenti».
Al termine dello stralcio laskiano riportato nel testo, vi è un illuminante rimando in nota a A. RIEHL, Der
philosophische Kritizismus und seine Bedeutung für die positive Wissenschaft, Bd. 1, 2 (1), 2 (2), Leipzig, Engelmann,
1876-87, I, Geschichte und Methode des Philosophischen Kritizismus, 1876, p. 343: «Kant prende questa strada, la
strada di un’analisi puramente concettuale delle rappresentazioni, per fondare il dato di fatto dell’a priori». Nella
filosofia trascendentale il punto di vista di una logica «analitica» è così tanto corretto che Kant stesso ha
paragonato il suo «metodo della divisione dell’empirico dal razionale» all’«analisi ed alla riduzione» chimiche».

82
Il Pathos della Forma

che si dispongono effettualmente secondo la distensione puntuale dello spazio e la serie


della temporalità della indicazione e dell’espressione, sia quel tipo di philosophisches Erkennen,
di un ulteriore grado riflessivo, che pone a suo tema la conoscenza medesima, quel riguardo,
sempre ancora, logico e teoretico-conoscitivo che delinea l’ambito sistematico della filosofia
trascendentale, in quanto logica e teoria della conoscenza, quel tipo di philosophisches Erkennen, che
pur presentandosi ora in uno stato ancora immaturo rimanda a ciò che diverrà, in seno alla
Logik, il piano della Logologia o Logica della Filosofia.
Pare chiaro da subito, che nell’intenzione laskiana il cammino dell’una si intrecci
essenzialmente con quello dell’altro, configurando così in nuce la propria immutata idea di
filosofia trascendentale. «Come ogni effettualità anche quella della conoscenza deve essere
analizzata, e come ogni effettualità anche la conoscenza si scompone in una parte del
«concetto» ed in una dell’«intuizione» o – secondo la logica kantiana – in una parte del
generale ed in una del particolare. Alla divisione trascendentale delle due sfere della
conoscenza si lega una contrapposizione [Entgegensetzung] puramente logica. L’apriorico è la
parte della conoscenza che si conserva uguale [sich gleichbleiben] dappertutto, l’empirico
invece la parte che si configura [gestaltete] sempre in maniera differente. La necessità
razionale, ad esempio le categorie ed i derivanti principi fondamentali dell’intelletto
possono perciò essere intesi come ciò che è comune o Generale, sotto cui si può sussumere
la parte individuale come esemplare. Nei contenuti sensoriali, che si distinguono all’infinito,
concetti come la sostanzialità od il legame causale si presentano come caratteri generali
[Gattungs-charaktere] teoretico-conoscitivi. Ogni relazione causale percepibile, ad esempio
quella tra il sole ed una pietra riscaldata, è solo un caso singolo in cui si rende effettuale la
causalità in generale (il concetto di causalità). L’applicazione delle categorie agli oggetti
dell’esperienza vale significativamente come una faccenda [Geschäft] della facoltà del giudizio
che sussume il particolare sotto l’universale» 1 .
Ciò che viene alla luce, nell’ancora iniziale descrizione della determinazione nel giudizio, è
la differenziazione nella costituzione rispettivamente della generalità e della particolarità.
Mentre quel allenthalben sich gleichbleiben, quel rimanere ovunque uguale a se stesso della
generalità formale – laddove ancora generalità e formalità devono compiutamente
rescindersi – rimanda con evidenza leggibile, ad una permanenza ed ad un uguagliamento che
appartengono del tutto alla funzione riflessiva, alla determinazione riflessiva dell’ordito
categoriale – come viene già esemplarmente chiarificato da Windelband nel contributo
all’Accademia delle Scienze di Heidelberg del 1910, titolante Identität und Gleichkeit, «Identità ed
Uguaglianza» 2 – nella differenziazione e nella configurazione dell’importo, del contenuto
empirico riluce una considerazione ormai innestata sull’aspetto costitutivo del campo
categoriale. Ciò che è particolare, o empirico, überall verschiedene gestaltet, si configura in modo
distinto, unendlich verschiedene, differenziandosi infinitamente. È chiaro che qui la nozione di
figurazione differenziale riguarda ovviamente la determinazione categoriale del particolare ed
anche già la determinazione particolare del categoriale, vale a dire, che se da un lato
l’oggettualità è una determinazione categoriale dell’oggetto, è complessione formale e materiale,
dall’altro, essa è sempre già determinazione oggettuale della categoria, effettualizzarsi, sich
verwicklen, della generalità categoriale.
Sembra necessario quindi che la riflessione si soffermi su una teoria generale della
subsumierenden Urteilskraft, della facoltà del giudizio sussumente, ovvero sulla teoria della
sussunzione del particolare unter, sotto l’universale nel giudizio determinante. Mai come in
questo testo, Lask ne darà espressione più compiuta, pur ritornando su questo tema
cursoriamente soprattutto, come pare ovvio, nella Lehre vom Urteil, segno di come sia in
questi luoghi che viene costruendosi la sua propria considerazione della funzione del

1E. LASK, Fichtes Idealismus und die Geschichte, in GS, cit., I, pp. 36-37.
2 W. WINDELBAND, Identität und Gleichkeit, Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften
Stiftung Heinrich Lanz Philosophisch-historische Klasse Jahrgang 1910. 14. Abhandlung, 15 ottobre 1910,
Heidelberg, Carl Winter's Universitätsbuchhandlung Verlags, 1910, n. 512, pp. 3-24.

83
Il Pathos della Forma

giudizio nella dottrina trascendentale kantiana, proprio dinanzi al tema della sottoposizione o
meglio della sottoponibilità, dell’Enzelheit.
Se nel seguito della sua riflessione la tematizzazione della teoria della sussunzione riguarderà
un approfondimento del compito della logica trascendentale rispetto al giudizio, 1) quanto
all’indicazione di una sua corrispondenza, Entsprechenheit, a correlati oggettuali-
trascendentali, e 2) quanto all’indicazione a priori del caso, ovvero del particolare, cui la
regola, l’universale cui la regola deve essere applicata 1 , nel corso del Fichtesbuch ciò che resta
dirimente è la relazione, istituita nel giudizio sussumente, di sotto-posizione e non di
inclusione tra das Besondere e das Allgemeine, in cui ciò che è sottoposto, subsumutum, subjectum, si
conserva come una mancanza, una lacuna cui si appunta la generalità, senza cedere
all’integrazione, così come avviene nello specifico rapporto mereologico, parte-tutto, distintivo
della logica emanatistica, ove nell’internità della parte al tutto 2 – nel riferimento del particolare
all’universale come fosse una parte di una intera totalità – la parzialità disperde la sua
ricchezza contenutistica di alterità 3 . Tuttavia, la formulazione riguardante il giudizio, che già
da ora rapisce l’attenzione laskiana, per la sua lucida densità, è quella raccolta da Fichte in

1 La matura concezione laskiana della teoria della sussunzione viene espressa in alcuni passi della Lehre vom
Urteil, seguendo essenzialmente la genesi della dualità soggetto-predicato. «Che nel predicato si trovi il
generale» – scrive Lask nella Lehre, in GS, op.cit., II, p. 335 – «e perciò – nel senso di questa complicazione
problematica – il solo momento logico, il baricentro logico della compagine teoretica, viene espresso, sin dal
principio, dalla teoria della sussunzione del giudizio. Anche questa assume il soggetto come subjectum ed allo
stesso tempo nel senso del subsumutum, nel senso del sotto-ordinato, portando ad assegnare al soggetto ed al
predicato rispettivamente l’Alogico ed il Logico. Giudicare significa, secondo questa teoria, in ultima istanza,
l’inclusione dell’inconcepibile nel concepibile».
A questo riguardo Lask cita – Lehre, in GS, cit., II, p. 335, nota 51 – tre luoghi esemplari delle Critiche
kantiane. In primo luogo, l’Analitica dei principi, dunque l’Analitica dei concetti della Ktitik der reinen Vernuft, ed
infine l’Introduzione alla prima edizione della Kritk der Urteilskraft. Dalla prima riprende il compito della logica
trascendentale rispetto al giudizio, cioè di «rendere esatto e sicuro il giudizio nell’uso dell’intelletto puro, per
mezzo di regole determinate», e la preminenza della filosofia trascendentale su ogni altra scienza teoretica –
eccettuata la matematica – in quanto «oltre alla regola (o, piuttosto, oltre alla condizione universale per le
regole) quale è fornita nel concetto puro dell’intelletto, essa può altresì stabilire a priori il caso a cui la regola
deve essere applicata» [I. KANT, Critica della Ragion Pura, Analitica dei principi, Introduzione del giudizio trascendentale
in generale, cit., pp. 188-189]. Dalla seconda, invece, sottolinea la nozione della conoscenza mediata del
giudizio. «Il giudizio è pertanto la conoscenza mediata di un oggetto, quindi la rappresentazione di una
rappresentazione dell’oggetto. Ogni giudizio contiene un concetto che si addice ad una molteplicità di
rappresentazioni, fra cui comprende anche una rappresentazione data; quest’ultima, poi, è riferita all’oggetto
immediatamente». [I. KANT, Critica della Ragion Pura, Analitica dei concetti, Sezione Prima . Dell’uso logico dell’intelletto
in generale, cit., p. 138]. Dal paragrafo IV della prima introduzione alla Critica della facoltà del Giudizio, mette in
evidenza il presupposto trascendentale del giudizio ed il suo compito legislativo. «È un presupposto trascendentale
soggettivamente necessario, che l’inquietante, infinita diversità delle leggi empiriche, l’eterogeneità delle forme
naturali, non si addicano alla natura, ma che questa assurga al rango di esperienza (come sistema empirico)
mediante l’affinità di leggi particolari sotto leggi più generali. Ora, questo presupposto è il principio
trascendentale del Giudizio. […] Il Giudizio, cui spetta il compito di ricondurre sotto leggi di ordine superiore
(anche se pur sempre empiriche) le leggi particolari (anche per ciò che le differenzia nell’ambito delle stesse
leggi generali), deve basare i suoi procedimenti sopra un tale principio». I. KANT, Critica della facoltà del Giudizio,
Prima Introduzione, IV, trad. it. di A. Bosi, Torino, Utet, 1993, p. 103.
Tuttavia, perché la costellazione delle riflessioni laskiane sulla teoria della sussunzione e del giudizio nella
sua funzione determinante acquisisca il suo profilo sistematico, manca ancora l’innesto della nozione
rickertiana di decisione del giudizio, Urteilsentscheidung, che gli consentirà di accedere ad un livello ancora
superiore di frammentazione e di costruzione, e delle differenziazioni brenatniane e windelbandiane tra Urteil
e Beurteilung.
2 In seguito renderemo più ampiamente conto della concezione laskiana della relazione parte-tutto, anche alla

luce dei contributi fenomenologici, contenuti nella III. Logiche Untersuchung husserliana.
3 Il ruolo, in qualche modo, di salvaguardia svolto dalla sussunzione – sulla cui prima esposizione

trascendentale nella teoria del concetto, così come viene delineata da Lask nel Fichtesbuch, ci soffermeremo in
seguito – sarà ribadito proprio nella nota 63 alla pagina 346 della Lehre vom Urteil, ove si sostiene che «persino
la teoria della sussunzione è una teoria metagrammaticale di soggetto-predicato», vale a dire che nonostante
l’identificazione che in essa avviene della relazione categoriale con quella predicativa, soggetto-predicato,
tuttavia in essa si mantiene il riferimento allo sfondo trascendentale delle condizioni di validità oggettiva, che
fungono da Maßstab, metro, regolo.

84
Il Pathos della Forma

una lettera a Jacobi: «Tutta la saggezza mi sembra debba essere rinvenuta nel fatto che al
sapere resta sempre [immer übrig bleibe] qualcosa di impenetrabile al concetto, qualcosa per esso
incommensurabile ed irrazionale; …che ne sarebbe, se in questa prospettiva, l’essenza
della filosofia non consistesse in null’altro che nel – concepire l’inconcepibile in quanto
tale?» 1 .
Infatti, nel Begreifen des Unbegreiflichen als solchen, nel concepire l’inconcepibile in quanto tale,
Lask ritrova la determinazione bilaterale di concezione, concepibile e di inconcepibile, vale a dire la
trasformazione della datità empirica in particolare prima, e pertanto, in non-conforme
all’universalità del concetto, non concepibile, poi. Deve cioè essere chiaro che
l’equiparazione di particolare e limite alla concepibilità, resto dalla concepibilità, è la messa in
figura specifica della materialità così come si compie nella determinazione del giudizio; detto
in altri termini, è il modo in cui figura la contenutezza materiale rispetto alla costruzione
della forma, quale universale.
Questa condizione costruttiva e figurale del Besondere è la guida che conduce Lask a
riprendere il concetto logico-trascendentale di Caso, quale era stato presentato da Kant nella nota
al §. 75 della Critica della facoltà del Giudizio, sulla finalità oggettiva della natura come principio critico
della ragione per il Giudizio riflettente.
«Dalla struttura logica del razionale e dal carattere discorsivo del nostro pensiero è
emerso fino ad ora per il fattore individuale della conoscenza, che non possiamo assumere
l’effettualità nella sua datità immediata, ma che a scopo conoscitivo deve sempre essere
scomposta in una disgiunzione, di cui un elemento è il generale od astratto. È stato inoltre
già stabilito che la relazione richiamata nella vita del singolare all’universale deve
contrapposta ad un incorporamento [Eingliederung] fattuale e metafisico.
Ma la logica analitica richiede inoltre una delimitazione più ampia della conoscenza; essa
sottrae non solo al concetto generale la dignità metafisica di una realtà superiore, ma
discopre anche limiti certi al suo significato logico. Mettendo così a nudo le lacune logiche
del concetto, soffre, in un certo senso, di una difficoltà, fatta da sé; il concetto infatti
tradisce l’incompletezza, cui facevamo cenno, proprio nella sua relazione all’empirico, per
la cui comprensione e padronanza viene prodotto artificiosamente ancora una volta tutto il
dualismo di generale e particolare. Così il singolo o l’empirico, che tanto facilmente si rende
accessibile all’esperienza immediata, ricade nell’ambito della riflessione mediante il
«generale» fatto apposta per le finalità del pensiero, in una chiarificazione peculiare e
problematica; e qui giungiamo finalmente al punto in cui si rischiara la più profonda
connessione del problema teoretico-conoscitivo dell’effettualità e dell’individualità con la natura
del concetto trascendentale di astrazione» 2 .
Muovendo da queste considerazioni, Lask ritiene indispensabile una riflessione ben più
approfondita su quella «fondazione rigorosamente logica» del concetto trascendentale di
caso, che appare come dirimente segno distintivo tra la Critica della Ragion Pura e la Critica
della facoltà di Giudizio, pur non avendo ricevuto, questo concetto, un’adeguata attenzione
dalla letteratura in merito a disposizione di Lask, fatte eccezioni per Cohen, Riehl, Stadler e,
pradigmaticamente, per Windelband, nella Lehre vom Zufall: proprio nel superamento dei
resti della metafisica leibniziana, ancora presenti nella concezione del particolare formulata
nella prima Critica, si rinviene il «concetto di caso come limite [Grenze] del razionale» 3 .

1 E. LASK, Fichtes Idealismus und die Geschichte, in GS, cit., I, p. 175.


2 Ivi, pp. 38-39.
3 Ivi, pp. 39-40; cfr. nn. 46-47, p. 40, sulla letteratura critica in merito alla Critica della facoltà del Giudizio.

Cfr. anche ivi, p. 50, n. 98: «È stato merito di Cohen aver sottolineato questo verso della questione sul
concetto di caso, in part. nella Teoria kantiana dell’esperienza, 2. ed., [Berlino, 1885], pp. 499-sgg., 502 sgg., e 506
sg, 522 sgg.; nella Fondazione kantiana dell’etica, [Berlino, 1877] pp. 30-sgg., «…è il compito inevitabile della
ragione; è la copertura dell’abisso, che scopre la casualità intelligibile», p. 34, Fondazione kantiana dell’estetica,
[Berlino, 1889], pp. 118-sg. Ma questa è intesa come “casualità intelligibile”, perché Cohen non la chiarisce
mediante l’inderivabilità del materiale dal formale. Cohen mostra inoltre, che l’idea di una “unità sistematica”
è in connessione con il fattore contenutistico della conoscenza, si veda la Teoria kantiana dell’esperienza, pp. 508-

85
Il Pathos della Forma

«Riguardo all’antico rapporto fondamentale del particolare all’universale troviamo


sviluppata in Kant la corretta considerazione secondo la quale la più grande pienezza di
contenuto, che distingue il particolare prima del suo concetto di genere, da cui tuttavia per
la nostra conoscenza nulla si può derivare, la relazione del particolare all’universale, in
riferimento ai nostri concetti, merita di essere chiamata dunque irrazionale. Il particolare non
è contenuto logicamente nell’universale, sotto cui si trova, è cioè in riferimento al concetto
«accidentale». L’incapacità della nostra conoscenza, che si rivela in questa irrazionalità fonda il
concetto logico di caso. Applicando Kant questo concetto ancora una volta alle relazioni della
generalità trascendentale, se ne fornisce un particolare uso ed una sua specifica tipologia, cioè
il concetto logico-trascendentale di caso. La sua dottrina del caso, di cui si è molto parlato e che
spesso è stata fraintesa – soprattutto nella definitiva versione che ha trovato nella Critica
della facoltà del Giudizio – non solo è rigorosamente critica, ma appartiene alle sue più grandi
e fruttuose imprese» 1 . Così, l’irremeabile frattura che si rivela ad ogni intenzione
conoscitiva, il distanziamento, la separazione che indicono la discorsività, quindi la serialità,
la gradualità del nostro intelletto, la sua durata, la temporalità che nella composizione del
giudizio trova la sua determinazione, l’essere inevitabilmente consegnati all’originaria forma
della dualità – l’Urgeheimnis der Berührung, l’enigma originario del contatto – trova nella
definizione del concetto logico-trascendentale di caso la sua più completa presentazione.
Allo stesso tempo, però, la configurazione della Zufalligkeit nel quadro trascendentale, quasi
nell’accezione humboldtiana dell’accidentale come struttura individuale del presente 2 , ne
rappresenta un approfondimento sistematico, una ripresa carica di echi concettuali. Il
concetto logico di caso, in quanto struttura speculativa dell’intera «Critica della facoltà del
Giudizio», contiene anche una ricomprensione dell’impianto logico-trascendentale.

sgg. Qui tuttavia l’idea della casualità nel senso della inchiarificabilità a partire dal formale viene appena
sfiorata, ma non si esprime ancora chiaramente, che si tratti della relazione logica tra particolare ed universale;
si veda ancora, ivi, pp. 556-sgg., Fondazione kantiana dell’estetica, pp. 113- sg., Teoria kantiana dell’esperienza, pp.
524-sgg., Fondazione kantiana dell’etica, pp. 65-sgg.. Anche Stadler nelle sue eccellenti argomentazioni sul
problema del caso in Kant, lo ha inteso essenzialmente dal punto di vista dell’idea, facendo leva sulle
questioni, «che toccano solo la giurisdizione della ragione», si veda A. STADLER, Kants Teleologie [und ihre
erkenntnistheoretische Bedeutung, Leipzig 1874,] in part. pp. 61-sgg. La pura fondazione logica in Kant viene anche
da lui solo sfiorata, si vedano pp. 63-sgg., cfr. pp. 32-sgg., p. 54».
1 Ivi, p. 39.
2 Sul concetto di caso in Humboldt, ove assume rilievo proprio quanto all’ambito storico e delle

determinazioni giuridiche e politiche, rimandiamo all’ampia introduzione di F. TESSITORE a W. V.


HUMBOLDT, Scritti filosofici, a cura di G. Moretto e F. Tessitore, Torino, Utet, 2004, pp. 40- sgg: «Nelle Idee del
1791 Humboldt ha detto che «tutto il nostro sapere, ogni nostra conoscenza si basa su idee generali; cioè,
trattandosi di oggetti dell’esperienza, su idee complete e solo a metà vere; di ciò che è individuale possiamo
afferrare ben poco e invece qui (nella storia) si tratta esclusivamente di forze individuali, di sofferenze e
soddisfazioni individuali». Il caso è proprio la «struttura individuale del presente», «le forze a noi ignote, da cui
si produce il risultato e vengono a prendere forma i progetti che la ragione si sforza di elaborare
teoricamente». Dopo il saggio Über die Gesetze già citato, quando è divenuto chiaro, con il processo di azione e
reazione che caratterizza l’accadere, l’antinomico convivere di individuale e universale, di particolare e
generale di cui è intessuta la storia (ed è da qui, da questa consapevolezza aurorale che nasce il singolare
procedere dello scrittoi, quasi incerto tra affermazioni e negazioni continue della possibilità di definire le leggi
dell’evoluzione), il problema diventa quello della definizione della realtà di fronte all’accidentale, del caso di
fronte alla ragione. […] La struttura dell’individuale è l’azione, è la forza, quella che i Materialen del 4 giugno
1789 (leggendo il Traité des sensations di Condillac) definiscono «la forza originaria del nostro io», ciò che
assegna all’Einbildungskraft non giò il compito di combinare quanto non è reale, bensì la creazione di ciò che
non è reale. Principio rafforzato dall’osservazione compiuta un mese prima, l’8 maggio 1798 sempre a
confronto con Condillac, questa volta dell’Essais sur l’origine des conaissances humaines, quando alla mancanza di
attenzione per la «forza originaria» viene fatto risalire il disinteresse per il processo generazionale dei concetti,
per l’attività spontanea, per il rapporto tra io e non-io, che sono, invece, intesi dalla filosofia critica tedesca,
dalla quale non è smarrito il problema del rapporto tra realismo ed idealismo, tra realtà e idea come tensione
regolatrice. Ancora una volta ciò indica l’essere individuale, da ricercare nell’azione, la quale consente – con le
parole di Humboldt – di «applicare il principio della ragione che cerca e stabilisce leggi fisse col fine di
bandire l’accidentalità». W. V. HUMBOLDT Il Secolo diciottesimo, ivi, pp. 302-303.

86
Il Pathos della Forma

«Per la nostra ragione, per il nostro “intelletto discorsivo” è impossibile superare


l’opposizione di universale e particolare, ed a questa invalicabile duplicità è inscindibilmente
collegata anche l’inconcepibilità per noi del passaggio «dall’indeterminatezza della sfera
logica in relazione alla possibile suddivisione» ad un contenuto specifico, cioè che «il
particolare in quanto tale è trattenuto in relazione all’universale come qualcosa di accidentale», e
viene lasciato «indeterminato» dal generale. «Il nostro intelletto – scrive Kant – è una facoltà
dei concetti, cioè è un intelletto discorsivo, per cui deve essere contingente la specificità ed
il grado di diversità del particolare che gli può essere dato nella natura e che può essere
sistemato sotto i suoi concetti»» 1 . È dunque la relazione di trattenimento e non di
contenimento dell’universale rispetto al particolare a rendere possibile la costituzione del
particolare come contingente, vale a dire estraneo proprio nella stretta della sussunzione. In
questo senso, la nozione di contingenza non è relativa in quanto meramente soggettiva, in
quanto riferita ad un piano naturalmente limitato delle facoltà conoscitive, ma è relativa in
quanto posizionale, funzionale, è tale perché esprime la posizione del particolare sotto
l’universale, e non il suo stato metafisico. Lask principia qui a riflettere sul luogo di
estraneità del contenuto materiale, quale non più semplicemente Gehalt, risolto nella presa
concettuale, determinato al suo interno, ma Inhalt, tenuto, serbato a stento nella sua alterità.
Si rivela così un’articolazione formale che sosterrà lo sviluppo delle considerazioni sulla
contenutezza materiale, senza mai recedere dalla concezione di una collocazione rispetto a,
dalla rinnovata attenzione alla topica trascendentale.
«All’elemento formale – precisa Lask – spetta del fattore necessario dunque ineliminabile,
che condiziona ogni conoscenza. Da questo non si può derivare l’accidentale, anzi questo
stesso è il contrario dell’accidentale, è il necessario. Neanche la necessità è un’asserzione sulle
cose, ma sulla costituzione della nostra conoscenza. Come l’accidentalità mostra una
mancanza, così la necessità mostra una potenza della nostra conoscenza. Le «leggi necessarie
della natura» si dicono necessarie, perché «si addicono necessariamente alla natura», in
quanto carattere essenziale, derivante dal suo concetto. Questo è necessario per la natura,
perché i più alti principi fondamentali secondo modo e numero non sono tratti dal
materiale empirico, ed è necessario per la ragione, derivabile dall’essenza della ragione, in
quanto esso stesso razionale. Questo fonda la nostra conoscenza razionale, e da ciò si può
riconoscere, che questo debba fondare una tale conoscenza. È ciò che è «anticipabile» per
ogni esperienza, indipendentemente dall’esperienza, senza che si possa affatto pensare
l’esperienza. Questa espressione utilizzata da Kant nelle «Anticipazioni dell’esperienza», ma
utilizzata anche in riferimento al formale in generale, offre un principio logico, privo di
qualsiasi sfumatura psicologistica, per la suddivisione in a priori ed empirico» 2 .
Lask – a tutta prima seguendo alla lettere il tracciato kantiano – non presenta qui la
necessità razionale dei principi, come la risoluzione della materialità, senza scarto alcuno
nell’idea di una unità sistematica della conoscenza, come una sua restituzione, Ersatz, infinita,
evidenzia piuttosto la dimensione della differenziazione, di una dualità di ambiti, o meglio
di elementi, nebeneinander und verschiedene, l’uno accanto all’altro e distinti, in cui solo può avere
luogo il dispiegamento dell’esperienza, anche nella forma della sua schematizzazione. «A
causa della sua chiara opposizione a tutte queste proprietà, il materiale si può ora
caratterizzare come il caso logico-trascendentale. […] È vero che tutto, anche il più singolare e
più piccolo, è dominato dalla legalità, ma ciò che ricade sotto le leggi non può essere
derivato, né concepito nella sua particolarità a partire dalle leggi, non è in queste
logicamente contenuto [enthalten]. «Leggi particolari, poiché riguardano fenomeni
determinati empiricamente, non possono essere da ciò» – cioè dalle leggi generali della
natura – «completamente derivate, sebbene tutte siano sotto queste». Il «molteplice
dell’esperienza» si mostra come non logicamente deducibile dagli elementi formali, ma solo

1 Ivi, p. 40. Nel corso di questa pagina Lask cita il §. 77 della Critica della facoltà di Giudizio, sulla proprietà
dell’intelletto umano che ci rende possibile il concetto di fine naturale, nella trad. it., cit., p. 375.
2 Ivi, p. 41.

87
Il Pathos della Forma

come la pienezza contenutistica «data» [«gegebene» Inhaltsfülle] che a queste può del tutto
nuovamente aggiungersi. Se si prescinde da tutti i concetti, rimane l’esperienza in quanto
«ciò che non si può affatto anticipare né può essere dato a priori», come resto irrazionale.
Casualità od Irrazionalità è il senso autentico del materiale, «della materia per noi così intricata
(davvero infinitamente molteplice, non commisurata alla nostra capacità di comprensione)»;
Casualità od Irrazionalità è anche l’ultima parola, che il razionalismo, che perciò stesso
diviene «antirazionalismo critico», ha da dire sul problema dell’effettualità empirica e
dell’individuale. Ciò che viene inteso sotto «effettualità», non può essere confuso con la
«dignità» dell’oggettualità, che significa piuttosto necessità razionale. In ogni conoscenza
l’oggettualità rappresenta, come funzione sintetica dell’intelletto, proprio ciò che può essere
derivato dalle forme del pensiero, mentre l’effettualità empirica rappresenta il resto
inderivabile dalle forme. Poiché il fattore formale e quello materiale della conoscenza sono
realiter legati l’uno all’altro, si può dire che in ogni oggetto della conoscenza, in quanto deve
essere non solo «percezione», ma anche «esperienza», deve essere esposto con il carattere
dell’oggettualità o, viceversa, l’oggettualità deve rendersi effettuale in questo individualiter.
«Effettualità» significa dunque solo ciò che non è dicibile, ciò che non è perlustrabile fino
in fondo [Unergründliche], ciò che gioca [umspielt] il carattere dell’individuale, ed allo stesso
tempo la salda determinatezza e l’imperturbabile essere-così [Sosein], a cui si deve pensare,
se si pronuncia il nome «effettualità» » 1 .
Quanto resta, dunque, non è la incommisurabilità, Unangemessenheit, dell’effettualità, in
quanto individuale, rispetto alla generalità dell’impianto ideale logico, piuttosto è l’eterna
incompletezza del nostro concepire riguardo alla realtà effettuale, eine ewige Unvollkommenheit unseres
begreifens gegenüber der Wirklichkeit, è l’irrimediabile incompiutezza dell’analisi riconsegnata al
pensiero, della ferita originaria che vi campeggia. La configurazione dell’effettuale quale
incommensurabilità dell’individuale è la cifra della discorsività dell’intelletto, della sua coazione a
raccogliere nella mancanza il materiale cui rivolgersi, di contro alla quale si erge la
possibilità emanatistica di un pensiero oltre-umano, immediatamente identificantesi al suo
contenuto. Est enim verum sui index et falsi. Tuttavia, prosegue Lask, «nell’a priori discorsivo-
trascendentale sorge la seguente ben nota difficoltà: se i concetti trascendentali
dell’esperienza, le categorie, sono divise dall’abisso dell’irrazionalità dalla molteplicità
empirica, di cui ha pur bisogno per il suo concreto riempimento, come è possibile
concepire una loro applicazione al mondo dell’esperienza? Dinanzi a questa difficoltà Kant
riesce a trovare nello «schematismo» della ragion pura la via d’uscita di introdurre tra le
categorie e l’elemento puramente a posteriori l’anello di congiunzione apriorico-sensibile
del tempo» 2 .
Ora, è proprio nello schematismo trascendentale, nelle sue differenti formulazioni nell’opera
kantiana e nelle riflessioni cui diede origine presso il pensiero post-kantiano, segnatamente
in Maimon prima ed in Fichte poi, Lask rinviene il secondo ceppo del ripensamento della
posizione trascendentale della materialità in quanto contenuto 3 . La dottrina dello
schematismo trascendentale, così come si presenta nella Critica della Ragion Pura, consente la
costruzione a priori di una molteplicità, nella cui determinazione si rinvengono già le figure
delle condizioni aprioriche. La dedizione alla forma del tempo che ne risulta, potenzia il
carattere eventuale, ancora ben presente nella concezione trascendentale della datità come
contingenza, come variabile terminazione temporale. Nell’uno come nell’altro caso, la
temporalità richiama la condizione di unità dell’appercezione, ovvero l’unità dell’esperienza,
l’oggettività come serie dell’identificazione dei nuclei contenutistici. «Lo schematismo
1 Ivi, pp. 39-40.
2 Ivi, p. 47.
3 Il rilievo che assume l’analisi dello schematismo trascendentale viene potenziato dal ruolo che ebbe nella

disposizione della dottrina della determinazione materiale di significato nelle mature opere logiche di Lask, sino a
suggerire ad alcuni studiosi la sovrapposizione funzionale tra le due dottrine, cfr. R. LAZZARI, Emil Lask e le
«Ricerche Logiche» di Husserl, in S. BESOLI, M. FERRARI, L. GUIDETTI (a cura di), Neokantismo e Fenomenologia.
Logica, psicologia, cultura e teoria della conoscenza, Macerata, Quodlibet, 2002, p. 190.

88
Il Pathos della Forma

consente solo di giungere fino alle condizioni aprioriche della sensibilità. Proprio da qui
però fatalmente si dividono le strade. Dallo strato della mediazione apriorica, giungiamo
all’individuale, al concreto solo sotto la condizione, che questo sia un molteplice costruibile
a priori, un deposito [Liegendes] matematico, che cioè si trovi al di là dell’effettualità
empirica. Solo in questo caso, possiamo unire le condizioni aprioriche e la particolarità
concreta, mentre per gli oggetti, che tentiamo di dominare nelle scienze della natura, esse
[le condizioni aprioriche] persistono – anche dopo la mediazione del tempo – in una
generalità formale insuperabile. Lo schematismo concilia concetto ed intuizione, ma non concetto ed
intuizione empirica, non concetto ed effettualità individuale» 1 .
La duplicità, cui Lask fa cenno in riferimento alla riproposizione della questione che
riposa in seno allo schematismo trascendentale, può essere per ora indicata come quella
della determinazione matematica, o meglio della costruibilità matematica, che nelle ricerche
maimoniane sulla filosofia e la logica trascendentali troverà la sua massima espressione, e della
figurazione del pensiero, del pensiero quale figurazione, che emergerà nella Wissenschaftslehre
fichteana. Da un canto, dunque, la capacità matematica di fornire da se stessa a se stessa il
proprio materiale, in virtù della costruzione analogica, in cui le differenze contenutistiche
recedono al rango di differenziali, di distinzioni di gradi in una scala continua, dall’altro il
pensiero, che come possibilità di formare figure, gestaltende Bildung, rinviene nell’inesauribile
alterità del dato la propria misura ed allo stesso tempo il proprio spazio di formazione. Se
nella Konstruktion il materiale viene risolto, padroneggiato, nel calcolo infinitesimale
dell’ecceterazione dei punti su una linea continua, nel gradiente della differenza, nella
differenziazione riflessiva, nel Bilden peculiare al pensiero, in quanto sapere, ciascuna datità
determina, condiziona, riempie, sollecita, tende la superficie formale della figura. A ciò
ovviamente corrispondono l’infinito, come continuità, nel primo caso, e l’infinito, come
irriducibilità del limite, nel secondo. Così come è possibile riferire un ramo della
biforcazione al pensiero reale di Maimon, l’altro alle dottrine della scienza fichteane, è lecito
altresì trovare, a parere di Lask, la loro scaturigine in due luoghi distinti del corpus kantiano:
lo schematismo matematico e la dottrina dello schematismo esposta, ancora una volta, nella
Critica della facoltà di Giudizio.
Perché emerga la differenza che separa la conoscenza filosofica da quella matematica,
Lask risale alla Sezione Prima della Dottrina trascendentale del metodo, ove si specifica come la
prima specie di conoscenza razionale, la filosofia, «non considera il particolare che
nell’universale», mentre la seconda, la matematica, «non considera l’universale che nel
particolare, o meglio nel singolo, ma tuttavia sempre a priori e attraverso la ragione, sicché
allo stesso modo che questo singolo è determinato secondo talune condizioni universali
della costruzione, così l’oggetto del concetto a cui questo singolo corrisponde solo in
quanto ne è lo schema, deve essere pensato come universalmente determinato» 2 . Se dunque
lo schema di un concetto è «la rappresentazione del procedimento generale mediante cui
l’immaginazione appronta al concetto la sua immagine» 3 , il numero, vale a dire lo schema
puro della quantità, che funge da sostrato materiale della conoscenza matematica, è «l’unità
della sintesi del molteplice d’una intuizione omogenea in generale, per il fatto che io
produco il tempo stesso nell’apprensione dell’intuizione» 4 .
Perché si illustri la condizione fondamentale della conoscenza matematica quale unità
schematizzata di concetto ed intuizione a priori, Lask evoca l’esempio kantiano della
costruibilità del triangolo. ««Il concetto matematico di un triangolo potrei costruirlo, cioè
darlo a priori nell’intuizione, raggiungendo in tal modo una conoscenza sintetica ma
razionale. Ma se mi è dato il concetto trascendentale di realtà, sostanza, forza, ecc., non è
designata né un’intuizione empirica né un’intuizione pura, ma solo la sintesi delle intuizioni

1 E. LASK, Fichtes Idealismus und die Geschichte, in GS, cit., I, p. 47.


2 I. KANT, Critica della Ragion Pura, trad. it., cit., p. 551.
3 Ivi, trad. it., cit., p. 192.
4 Ivi, B 182, trad. it., cit., p. 193.

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Il Pathos della Forma

empiriche (che, dunque, non possono essere date a priori). Da un siffatto concetto non può
mai derivare una proposizione sintetica determinante – per la impossibilità della sintesi di passare a
priori all’intuizione che corrisponde al concetto – ma solo un principio della sintesi di possibili
intuizioni empiriche».
Così alla classica domanda fondamentale sulla possibilità dei giudizi sintetici a priori si
può rispondere, se si rimanda alla differenza, dettata dal postulato della razionalità assoluta,
tra la matematica e le scienze pure della natura, restando fedeli al principio secondo il quale
bisogna cercare nella possibilità della produzione apriorica [aprioristicher Erzeugung], il
criterio, che valga sia nell’estetica che nella logica trascendentale, per la considerabilità e per
la comprovabilità, rinvenibili nel caso singolo e completamente razionali, dei giudizi
sintetici a priori. Ora, secondo Lask, più che nella Critica della Ragion Pura, è nella Critica della
Facoltà del Giudizio che Kant lega l’idea dello schematismo a quella dell’irrazionalità. Qui,
infatti, il filosofo di Könisgberg, indica esplicitamente i limiti dell’applicabilità, mediata
dallo schematismo, delle categorie, che giungono solo fino ai principi «necessari», ma non
fino alle leggi empiriche «accidentali». […] Qui dunque è ancora una volta per Kant decisiva
l’idea che unicamente la matematica giungerebbe alla razionalità dell’individuale, la conoscenza
concettuale invece solo alla razionalità di una generalità schematica» 1 .
È in virtù di ciò che Lask indica la matematica, o meglio la logica matematica, la logica del
concetto matematico, in qualche modo la teoria matematica del concetto, come un tipo di
conoscenza che è libero dal destino, Verhängnis, dell’irrazionalità; come un tipo di connessione cioè
che non costituisce l’oggettualità individuale in quanto irrazionale, e che si colloca perciò
come l’«anello di congiunzione tra la logica analitica e quella emanatistica» 2 , tra l’indigenza e
la sovrabbondanza nel concetto. L’esemplarità della matematica, vale cioè per Lask, ben
oltre il cerchio del kantismo, come una tipologia del concetto di oggetto, una modalità
oggettuale di cui fare filosoficamente questione 3 .

3.2. Analogia e figurazione. La prima formulazione del problema trascendentale


nel confronto con Maimon e Fichte.

Sarà proprio nella riflessione di Maimon che questo tema, ovvero la relazione del metodo
intuitivo-trascendentale all’irrazionalità attraverso la costruzione matematica, giungerà alla più
compiuta esplicitazione.
Nel suo Fichtesbuch, Lask scrive che «l’intera speculazione di Maimon può essere intesa
unitariamente come un conclusivo corpo a corpo con l’idea dell’irrazionalità. Il suo
scetticismo non si dirige contro la generalità dell’a priori – egli era infatti un «dogmatico nel
razionale» – ma contro la concepibilità del passaggio dal razionale all’empirico. Egli non dubita del
rendersi effettuale dell’a priori nell’a posteriori, ma solo della conoscibilità di questo
rendersi effettuale in un qualche caso singolo ovvero dell’applicabilità pratica dell’a priori.
L’applicabilità è infatti il problema nella speculazione di Maimon. Non si cura della
domanda quid juris in senso kantiano, cioè come la valenza delle categorie si possa fondare
per l’esperienza in generale (la deduzione kantiana), ma si preoccupa piuttosto del fatto che
la legislazione dell’a priori, della cui correttezza non dubita, sia condannata praticamente
all’inefficacia, poiché l’individuale, il fattuale non può essere sussunto sotto le leggi generali;
ciò che lo inquieta è la domanda quid facti» 4 .
«Il primo principio (Grundsatz) di ogni pensiero reale» – scrive Maimon, infatti, in capo al
suo Versuch einer neuen Logik –, a differenza di ogni altro pensiero meramente “formale”, «è

1 E. LASK, Fichtes Idealismus und die Geschichte, in GS, cit., I, pp. 48-49. La citazione kantiana è tratta da I. Kant,
Critica della Ragion Pura, Dottrina trascendentale del metodo, trad. it., cit., p. 556.
2 E. LASK, Fichtes Idealismus und die Geschichte, in GS, cit., I, p. 51.
3 Sulla posizione della matematica nell’abbozzo di epistemologia laskiano – cfr. supra, cap. 1., §. 1. La distanza

della decisione – si veda R. HOFER, Gegenstand und Methode, cit., pp. 185-260.
4 E. LASK, Fichtes Idealismus und die Geschichte, in GS, cit., I, p. 50.

90
Il Pathos della Forma

quello che io ho chiamato principio di determinabilità» 1 . Vale a dire, «il pensiero (reale) in
generale poggia sull’evidenza [Einsicht] della relazione di determinabile e determinazione tra
gli elementi della molteplicità da connettere mediante il pensiero» 2 . Ora, tratta di
comprendere cosa si intenda dunque con tale Grundsatz der Bestimmbarkeit. In primo luogo,
il principio di determinabilità è essenziale alla configurazione del terreno logico come
oggettuale, come composto di aggregati oggettuali. Se una topografia logica dovrà poter
annoverare plessi oggettuali, accanto a connessioni non-oggettuali, sarà necessariamente
rimandata a dare conto della determinabilità dei propri oggetti, quelli che già compaiono
qua contenuti, gli altri che ancora restano da contenere. Non è indifferente che il principio
di determinabilità converta la pluralità tra cui si instaura in quella di forma e materiale od in
quella soggetto ed oggetto: non lo è per Maimon né per Lask. Ove il principio sia inteso
quale Grundsatz, quale indice di fondazione – come nel Versuch über di Traszendentalphilosophie
- assumerà sotto di sé gli Objeckte des Denkes, gli obietti del pensiero; ove invece sia inteso
quale Grundsatz, quale fondamento delle proposizioni – come nel Versuch einer neuen Logik,
di quattro anni successivo – designerà Sätze, proposizioni, vale a dire già formazioni
complesse, predicazioni, giudizi. Nella prima occorrenza dunque il principio si convertirà
nella Lehrsatz; spiega, infatti, Maimon: «un obbietto del pensiero è il concetto di un oggetto,
ottenuto mediante regole e condizioni generali; esso è composto di due parti: 1. la materia
del pensiero, o un dato (intuizione) attraverso cui si applica questa regola o condizione
generale ad un determinato obietto del pensiero; 2. la forma del pensiero, ovvero questa
condizione o regola generale, senza la quale il dato resta oggetto (intuizione) ma non
obietto del pensiero» 3 . Nel secondo caso, invece, il principio «si dividerà in due posizioni: 1.
quella che riguarda il soggetto in generale: ogni soggetto deve essere non solo come
soggetto ma anche in sé un oggetto possibile della coscienza; 2. quella che riguarda il
predicato: ogni predicato deve essere un oggetto possibile della coscienza non in sé, ma
come predicato (in collegamento al soggetto)» 4 . Non è, dunque, per accidente che nelle
carte laskiane si fatichi a trovare citata l’opera maggiore di Maimon, a favore di testi per
molti versi più acerbi, anche laddove tali riferimenti hanno apparentemente solo un ruolo
di mediazione, di passaggio strumentale tra due modelli logici, quello analitico kantiano e
quello emanatistico hegeliano, in relazione alla «peculiarità logica dell’oggetto della storia» 5 . La
delineazione laskiana della logica, prima che si possa indicarne un campo di applicazione,
avoca a sé eine streng objecktivistische Tendenz 6 , ovvero attesta che nell’ambito logico si assiste
soltanto alla trasformazione degli oggetti in obietti. L’obbiettivismo logico rimanda oltre di sé; è la
tendenza che fa scivolare la logica nell’antro della propria fondazione. La lettura
dell’esordio di Maimon, «la facoltà della conoscenza esige due parti: 1. la materia, cioè il
dato, o ciò che [Was] deve essere conosciuto nell’oggetto della conoscenza; 2. la forma, ciò
1 S. MAIMON, Versuch einer neuen Logik, Berlino, E. Flisch, 1794, p. 17. Sul ruolo primario svolto da S. Maimon

nella ridefinizione della logica e della psicologia trascendentale nell’epoca del postkantismo, in virtù di
quell’energia e di quella chiarezza «con la quale non solo impostava un autonomo sviluppo delle prospettive
aperte dal metodo trascendentale della rivoluzione copernicana, ma anche coglieva la problematicità di alcune
delle soluzioni proposte nell’estetica e nell’analitica della critica della ragione e concentrava così gran parte della
propria attenzione sul complesso delle questioni relative al procedimento di deduzione delle categorie» si veda
S. POGGI, I sistemi dell’esperienza, cit., pp. 84-114.
2 Ivi, p. 24 .
3 S. MAIMON, Versuch über di Traszendentalphilosophie, Berlino, E. Flisch , 1790, p. 48.
4 S. MAIMON, Versuch einer neuen Logik, cit., p. 17 . Che sia ben presente in Maimon la distinzione tra i due

percorsi è evidente anche in Versuch über di Traszendentalphilosophie, cit., p. 84, ove la seconda strategia viene
applicata alla sintesi, dunque alla proposizione, al giudizio, e non all’obbietto. «Se una sintesi è tale che una
parte può essere pensata senza relazione con l’altra, cioè in un’altra sintesi, mentre l’altra non può essere
pensata senza la prima, allora la prima parte è soggetto, la seconda predicato». Ciò che qui è in questione
dunque è la traduzione grammaticale della duplicità di materiale-forma in quella di soggetto-predicato, cfr. E.
Lask, Lehre vom Urteil, in GS, cit., II, in part. pp. 44- 79 [Primo Capitolo. Secondo Paragrafo. La teoria
metagrammaticale di soggetto-predicato]
5 E. LASK, Fichtes Idealismus und Geschichte, in GS, cit., I, p. 4 .
6 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, cit., III, p. 91.

91
Il Pathos della Forma

mediante cui [Wofür] si deve conoscere» 1 , si può ritrovare, traslata, in un brano cruciale della
Logik der Philosophie: «il principio fondamentale della filosofia teoretica trascendentale è che
[…], in ogni determinatezza logica, il contenuto di valore non riempie il suo senso in se
stesso, non riposa in se stesso, non forma per sé un “mondo”, ma, come un qualcosa che
ha bisogno di aderire ad altro, come un qualcosa che chiede di essere completato, indica
oltre di sé ad un estraneo fuori-di-sé. Non c’è Valere, che non sia un Valere riguardo a, che
non sia un Valere riferito a, che non sia un valere per […].Questa non-indipendenza, questa
inevitabilità di essere in un altro e per un altro, in una veneranda terminologia, si può
chiamare carattere formale del Valere. […]Se il carattere del valore-per del Valere si può
indicare come “forma”, la situazione, per cui il Valere vale, e di cui ha bisogno per il suo
riempimento, si indicherà come “contenuto” o “materiale”» 2 . Insomma, il materiale è il
Was, la forma il Wofür, l’Hin: il materiale è oggettualità indipendente, la forma è oggettualità
non-indipendente, ove si intenda la concezione di parte non-indipendente secondo il
concetto pregnante di non-indipendenza, che Husserl riferisce «a connessioni propriamente
“contenutistiche”, ai rapporti dell’essere contenuto in, dell’essere uno con ed eventualmente
dell’essere legato a» 3 . Tuttavia, in questo modo annoveriamo senza ulteriori differenziazioni
ancora modi logici e nozioni disidentiche. La reciproca non-indipendenza di forma e
materiale deriva dalla loro inclusione come parti oggettuali, dall’essere reciprocamente
congiunti nell’unità del senso proposizionale: né però la materia è contenuta nella forma, né la
forma nella materia: nota Lask «Form weist hingeltend auf Inhalt hin, und Inhalte stehen in der
Form» 4 .
Allora, in che modo il contenuto è nella forma, non essendo recato dalla forma, ovvero in
quanto Inhalt e non Gehalt? Ed ancora, per dirla con le parole di Maimon, se in una filosofia
kantiana, «la sensibilità è indipendente dall’intelletto e l’intelletto (in considerazione del suo
impiego reale) è dipendente dalla sensibilità» 5 , così che «la sensibilità concede il
differenziale ad una coscienza determinata; l’immaginazione trae da ciò un obbietto finito
(determinato) dell’intuizione; l’intelletto deriva dalla relazione di questo differenti
differenziali – che sono gli obbietti – la relazione tra gli obietti sensibili» 6 , come può
intendersi in termini di indipendenza/non-indipendenza la dualità forma-materia?
Provando a riassumere quanto detto sinora, osservando che dal carattere ancipite della
forma, da quel carattere che designava come reciprocamente rimandanti forma e materia,
individuando nella relazione il momento di realizzazione della formazione oggettuale, Lask
crede invece di differenziare il carattere enclitico della forma, che non si lascia risolvere
semplicemente nella disposizione di un segno, nella connotazione di un rimando, nella sua
dimensione di significante. La forma non è per essenza relazionale, sbilanciata nella
connessione di due elementi ad essa esterni. La forma, dunque, non è di-polare, ma uni-
polare, mono-tetica 7 . Né è mero elemento di una ulteriore connessione. Ma è, tanto quanto
la materia, parte di una determinazione di unità, di identità. «L’originario materiale sensibile
e la forma valente, non-sensibile, sono di per sé due semplici elementi che solo nella loro
confluenza costituiscono l’unità del senso; pertanto, ambedue, rispetto alla completezza ed
alla struttura del senso, hanno per così dire il carattere di semplici pietre di costruzione ed
1 S. MAIMON, Versuch über di Traszendentalphilosophie, cit., p. 12 .
2 E. LASK, Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 31.
3 E. HUSSERL, Ideen, I, in HUA, cit., III/1, p. 29; trad. it., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia

fenomenologica, cit., § 15, p. 36 .


4 E. LASK, Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p.31 .
5 S. MAIMON, Versuch einer neuen Logik, cit., p. XIX .
6 S. MAIMON, Versuch über di Traszendentalphilosophie, cit., p. 31 .
7 Secondo un concetto di-polare di forma: «ogni forma è una tensione fra l’elemento di permanenza e

l’elemento di emergenza». Ogni forma è relazione, cosa insostenibile secondo Lask, che impegna un lungo
cammino introduttivo proprio a distogliere la relazionalità dalla forma e dalla categoria, esibendo esempi di
forme categoriali non-relazionali, quelle dei giudizi esistenziali, in quanto – stando anche ad una terminologia
fenomenologica – mono-tetiche. Cfr. E. PACI, Tempo e relazione, Torino, Taylor, 1954, pp. 3-5, p. 235-sgg. ed
E. MELANDRI, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Macerata, Quodlibet, 2004, pp. 366-sgg.

92
Il Pathos della Forma

ambedue sono, se si vuole, qualcosa di “non-indipendente”» 1 . Lask sottolinea, quindi, che


ambedue, forma e materiale, mancano dell’unità da cui sono tratti, od in cui si rinverranno
durante la dedizione conoscitiva, ma in maniera differente. Se ci si fermasse a questo primo
stadio dell’equiparazione, si esigerebbe il ricorso ad una relazione neutra rispetto a membri
anodini; dunque ad una sinngebende Syntesis. Ad una sintesi che non è unità, ma richiama alle
sue radici un’unità. «Ma oltre a ciò, è propria della forma una non-indipendenza derivante
dal suo carattere enclitico di riferimento-a, mancante al materiale sensibile» 2 . Ciò che
impedisce l’equiparazione di queste due modalità del senso è quella Anlehnungsbedürftigkeit
der Form, che non decade nemmeno quando si isola la forma, tematizzandola,
commutandola in materiale di una ulteriore formazione logica. La forma esige appoggio, esige
di essere sostenuta. Eppure appoggio non è solo riempimento, saturazione. [Il rapporto
forma-materia eccede il nesso intenzionale o lo riduce]. In che modo dunque la forma
attecchisce, riguarda il materiale 3 ? La forma è determinata in quanto modo del senso dall’acume della
materia.
Tuttavia, se è vero che «le strutture “superiori” del pensiero umano sono “unitarie”», se
cioè la disposizione formale, ovvero la forma non-determinata di determinabilità della
nostra conoscenza è unitaria, allora, come scrive Maimon, «tutte le differenze che
incontriamo tra i vari complessi di conoscenze non possono non essere ricondotte alla
“diversità della materia” ed al tipo di collegamento tra i vari elementi della molteplicità dei
dati dei sensi operato dall’immaginazione» 4 , ove la stessa modalità connettiva si ancora alla
singolarità materiale e ne discende.
Così, dall’«abisso irrazionale tra le possibilità concettuali e la realizzazione concreta, in
quanto infinita variabilità della realtà effettuale», mediante il principio della determinabilità,
si giunge non solo alla costruzione di un singolo ambito oggettuale, ma alla costruibilità
dell’intera estensione empirica, quale concetto generale di ambito. In tale guisa, «non solo
concetti ed intuizione, ma anche intensione ed estensione del concetto vengono connesse
mediante costruzione» 5 . Dal dissidio tra concetto ed intuizione, intensione ed estensione,
Inhalt und Umfang, generalità e singolarità, il vero enigma della singola realtà effettuale si
disloca nella derivazione del determinato dalla determinabilità 6 ; ed il compito del pensiero diventa
«dover giungere ad un sapere “effettivo”, in cui l’infinito indeterminato si debba
determinare rispetto ad un “quanto determinato”, in cui il sapere si concentri in un singolo
“punto della presa” sull’intuizione reale e la determinatezza assoluta sia il “primo
fondamento” ed il punto di origine di ogni sapere» 7 . Bestimmtheit und Anschauung.
Determinatezza, materialità, intuizione.
A questo punto della faticosa speculazione laskiana, è la lettura di Fichte a fungere da
specchio dinanzi al quale prende corpo e sembianze autonome il suo pensiero, ancora
costretto nelle dande del confronto. Laddove nella revisione reinholdiana della filosofia

1 E. LASK, Logik der Philosophie, in GS, cit., II, pp. 93-94.


2 Ibidem.
3 Riguardo al confronto tra le nozioni laskiane e quelle rickertiane di forma-materia, SOMMERHÄUSER, Emil

Lask in der Auseinandersetzung mit H. Rickert, cit., p. 302, scrive: «mentre per Rickert la forma è da paragonarsi al
bicchiere del quale l’acqua deve necessariamente assumere la conformazione, Lask pensa la forma come un
abito il cui taglio dipende dal corpo che deve vestire». È interessante notare l’affinità tra le immagini
esplicative appena esposte con una breve citazione di Gurwitch, rinvenuta in P.P.PASOLINI, Dal laboratorio, in
Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1991, p. 75, ove tra eloquenti parentesi si legge: «le strutture sociali sono
come degli abiti: sotto c’è qualcos’altro che li fa muovere e persino scoppiare». Sull’apprendistato laskiano di G.
GURWITCH, Les tendances actuelles de la philosophie allemande. E. Husserl, M. Scheler, E. Lask, M. Heidegger, Paris,
Vrin, 1930.
4 S. MAIMON, Gesammelte Werke, [MGW], hrsg. von V. Verra, II Bd., Hildesheim, Georg Olms Verlag, 1965-

1976, III, p. 250; cfr. sul “principio di determinabilità”, V. Verra, Nachwort a S. MAIMON, MGW, cit., I.
5 E. LASK, Fichtes Idealismus und Geschichte, in GS, cit., I, p. 52
6 Ivi, p.172, «Das Hervorgehen des Bestimmten aus der Bestimmbarkeit ist eben das Geheimnis der einzelnen

Wirklichkeit».
7Ivi, p.171.

93
Il Pathos della Forma

trascendentale, quanto alla radicale scissione tra forma e materia, montante al principio
fondamentale di ogni Wissenschaftslehre quale predicazione obbiettiva, o predicazione
dell’obbietto, la datità sensibile compare come entgegensetze Klippe 1 , scoglio che si
contrappone alla purezza della concettualizzazione, come Hemmung, ostacolo, minaccia
incontenibile di elusione, di mancanza, di incontenibilità, sarà la definizione fichteana
dell’effettualità a fornire una ulteriore formulazione del Wirklichkeitsproblem. Emerge così «la
duplicità della fondazione dell’intero processo conoscitivo, una solida contrapposizione di
forma e materia, di generale e particolare, di in generale [überhaupt] e proprio così [gerade so], di
ovunque uguale ed infinitamente differente. Ma chi giunge a questa scissione della
conoscenza, si inoltra da qui ad un determinato rischiaramento dell’individuale, ad una determinata
comprensione del problema dell’effettualità.
Per la caratterizzazione logica dell’empirico diviene ora decisivo il riconoscimento
dell’abisso oltre-individuale che per il nostro intelletto separa la forma generale dal contenuto
[Inhalt] specifico. Come il filosofo «dovrebbe ideare un nuovo ambito», per elevarsi all’Io
puro, così dovrebbe ridiscendere da quella sfera in un altro mondo, perché ritorni alla
molteplicità della contenutezza [Mannigfaltigkeit des Inhaltlichen]. Il singolo [Einzelne] non
viene così contenuto nelle forme, come nell’intuizione emanatistica-metafisica del
particolare contenuto di coscienza nella totalità del sapere, ma può solo assumerlo od
esperirlo [erlebt] come fattualità data immediatamente [als unmittelbare gegebene Tatsache].
Questa fondazione dell’indipendenza del fattore empirico sorge gradualmente proprio per
un particolare empirismo» 2 .
Quanto più risalta la differenza, la scissione, anche nella mera forma dell’indipendenza
della materialità, della sua resistente opacità, tanto più si assesta la questione della relazione,
del riferimento, non più in ragione di una concludenza concettuale, risolvente il resto
illegiferabile dell’accidentalità, piuttosto in virtù della possibilità di un’indicazione figurativa.
«La brutalità è la «legge» dell’effettualità, la sua unica ed assoluta legge. Dalla brutalità
consegue quindi che l’effettualità può essere attesa [abgewartet] ed accolta [hingenommen] nella
sua incalcolabilità [Unberechenbarkeit], che l’effettualità deve essere sempre «nuova» e
sorprendente. Questo strappo improvviso di tutti i fili della speculazione dinanzi al dato di
fatto della brutale effettualità è ciò che Fichte chiama lo iato assoluto, che non può essere
riempito da alcuna riflessione, costituendo quanto vi è di ultimo ed irrecuperabile per il
medesimo pensiero. L’effettualità può perciò essere pensata come il «produrre» dell’Io, ma
beninteso come produzione di un obietto, «del cui sorgere non può darsi in alcun modo
conto, di quel luogo buio e vuoto, nel mezzo tra proiezione e proiettato, che io esprimo in termini un
poco scolastici, la projectio per hiatum irrationalem»» 3 . La formazione proiettiva, l’analogia
figurativa che nella proiezione viene così rappresentata, funge da spazio di riferimento, di
rimando, che tuttavia non ricade nella giurisdizione della purezza del pensiero, è, come è
stato accennato in precedenza, una concentrazione eccentrica, l’additamento di un fulcro
fuori della focale visiva. La proiezione non assicura un passaggio sicuro tra le due sponde,
come se tra di esse fosse stato gettato un ponte, un tragitto bilaterale transitabile al
pensiero. «Mentre cioè il critico cerca solo come si possa porre l’idea dell’unità accanto
all’«infinità» fattuale mediante una proiezione fittizia, il metafisico piuttosto eleva la
questione di come dall’uno assoluto si possa costruire un «ponte» [Brücke] per giungere
all’infinita molteplicità delle cose finite» 4 .

1 Ivi, p. 123, p. 208. Sulla definizione di Hemmung, essenziale nello sviluppo postkantiano di una psicologia
trascendentale, vd. S. POGGI, I sistemi dell’esperienza, cit., pp.132-sgg.
2 E. LASK, Fichtes Idealismus und Geschichte, in GS, cit., I, p. 116.
3 Ivi, p. 173. La citazione fichteana è tratta dall’edizione del 1797 della Wissenschaftslehre, 210. Sul rapporto tra

effettualità e legge, essenziale sia per lo stadio attuale dell’elaborazione trascendentale, sia per gli sviluppi
riguardanti l’ambito giuridico, Lask scrive dopo poche righe – ivi, pp. 173-174 – «l’effettualità singolare segue
[folgt] le leggi, ma non ne consegue [befolgt]».
4 Ivi, p. 187. A questo riguardo, Lask ricorre ad una citazione da S. MAIMON, Über die Progressen der Philosophie,

16 (i. Abh. Der «Streifereien i. Gebiete d. Philos.»), in cui si afferma: «La filosofia…non può costruire alcun

94
Il Pathos della Forma

Il carattere proprio della proiezione è pertanto figurale, e non affatto meramente


raffigurativo; in essa si compie certo una figurazione, una gestaltende Bildung, la formazione di
una figura, ma senza che sia possibile rinvenire un originale da raffigurare. È una
figurazione di nulla di raffigurabile: la figurazione reca in se stessa il nulla della
raffigurazione. «L’effettualità vitale, prima mero limite [Schranke] dell’Io puro, diviene
l’implesso [Inbegriff] di tutti i valori concreti, mentre la filosofia diventa una mera
speculazione riflettente sul valore, cui manca la capacità di fondare essa stessa valori [Werte
zu begründen]. Essa è teoria della conoscenza, teoria della morale, teoria della religione, ma
sempre solo registrazione e caratterizzazione teoretica, «dottrina della scienza», non «scuola
di saggezza», solo medio, per «conoscere» la vita, non per «formarla». Questo procedimento
del «pensiero astraente», è dunque analisi di ciò che già si rinviene immediatamente [des
unmittelbar Vorgefundenen]» 1 .
In forza di questo riposizionamento della questione trascendentale della differenza tra
particolare e generale, Lask guadagna la determinazione di una dualità di generalità
trascendentale e particolarità trascendentale 2 , o più dappresso di determinatezza particolare
e determinatezza generale 3 , che farà da fondo alla specificazione di una forma categoriale e
di un materiale categoriale, quale comparirà come concetto fondamentale della dottrina
categoriale della Logik der Philosophie. La dualità si insinua così nel tessuto stesso della
formalità restituendo l’immagine di un pensiero internamente diviso, passibile attraverso la
frattura che in se stesso ospita, non solo più di indicazione formale, ma anche piuttosto di
determinazione materiale.
Dinanzi al testo fichteano, Lask si rende dunque capace di rendere al problema
trascendentale una sua prima formulazione 4 , nei termini dell’analogia e della figurazione,
delle modalità del Bilden, che ne accompagneranno, mediante il loro incessante affinamento,
la riflessione e l’elaborazione sistematica. Il Bilden, come ritmo del rapporto tra forma e
materialità, e non solo più come facoltà formale di formatività, capacità trascendentale di

ponte, mediante il quale sia possibile il passaggio [Übergang] dal trascendentale al particolare». La coppia oppositiva
Projektion/Brücke richiama quella tra Erklären/Verklären.
1 E. LASK, Fichtes Idealismus und Geschichte, in GS, cit., I, pp. 162- 163. «Il mondo è l’immagine della nostra

interna azione, realizzata secondo comprensibili leggi razionali, è semplice intelligenza, all’interno di limiti
incomprensibili, in cui siamo rinchiusi – questo dice la teoria trascendentale» [Ivi, p. 118, cit. J.G. FICHTE,
Über den Grund unseres Glaubens an eine göttliche Weltregierung, in Sämmtliche Werke, cit., V, p. 184]. È del tutto
evidente come la nozione fichteana di Bild, ovvero la concezione figurale del sapere, abbia informato la
filosofia laskiana, determinandone significati, che si sarebbero andati distinguendo nel tempo, senza però
essere più trascurati. «Pensare – scrive Fichte in Über das Verhaltnis der Logik zur Philosophie oder transzendentale
Logik, Nachdruck der Orig.-Ms., IV, 9, hrsg. von R. Lauth, P. K. Schneider, Hamburg, Meiner,1982, p. 124 –
è un sapere, una ulteriore determinazione del sapere; abbiamo caratterizzato il sapere come vedere di un
essere attraverso un’immagine [als Sehen eines Seins durch ein Bild]». «L’immagine dell’essere stesso, perché questa
non è attraverso se stessa, ma attraverso l’essere, è la figurazione originaria [das Urbild]» [ivi, 171]; «Questa
assoluta mediatezza del figurante e del figurato, dell’intendere e dell’inteso, è la sua forma assoluta, che non
diviene, ma è, ed è perché l’assoluto appare come qualcosa di indivisibile dalle sue apparizioni. […] Deve
considerarsi produttiva la forma che il quale assoluto del fenomeno assume della forma figurativa […].
L’essere, il quale assoluto viene semplicemente sciolto nel divenire, dunque in un divenire del tutto assoluto,
dunque non un essere, uno stare, una compiutezza, un essere-prodotto»[ivi, 173]. In virtù di ciò, Fichte riesce
a distinguere, conseguendo un risultato di consistente rilevanza anche nella lettura laskiana, tra Grundbild,
come immagine fondamentale della legge [Bild des Gesetzes], e l’Urbild, come figurazione medesima della legge [ivi, pp. 191-
192], anche oltre la definizione archetipica dell’io puro. Al riguardo, H. KRINGS, Traszendentale Logik, cit., in part.
pp. 26-37; M. IVALDO, Fichte. L’assoluto e l’immagine, Roma, Studium, 1983.
Su ciò anche E. HUSSERL, Phantasie und Bildbewußtsein, HUA, cit., XXIII, hrsg. von E. Merbach, Hamburg,
F. Meiner, 2006; cfr. inoltre V. GHIRON, La teoria dell’immaginazione di Edmund Husserl. Fantasia e coscienza
figurale nella «fenomenologia descrittiva», Venezia, Marsilio, 2001; C. CALÌ, Husserl e l’immagine, Palermo, Aestetica,
2002
2 E. LASK, Fichtes Idealismus und Geschichte, in GS, cit., I, p. 110.
3 Ivi, p. 171.
4 La filiazione fichteana si ravvisa anche nella selezione del vocabolario filosofico di Lask, si noti ad esempio

l’uso di schweben, E. LASK, Fichtes Idealismus und Geschichte, in GS, cit., I, p. 187, n. 407.

95
Il Pathos della Forma

mettere in figura, Einbildungskraft, accostamento schematizzato tra contenutezza sensibile e


determinatezza concettuale, mostrerà di qui innanzi l’assetto in cui Lask guarderà al
Wirklichkeitsproblem, ovvero al problema della dualità originaria.

3.3. Inhalt und Umfang. La teoria del concetto.

Diviene pertanto ora dirimente accostare in maniera più diretta la teoria del concetto, il piano
sul quale divergono con maggiore evidenza la logica analitica e quella emanatistica: mentre
nella prima, infatti, l’intensione e l’estensione del concetto restano irrimediabilmente
distinte. «La subordinazione matematica e la coordinazione matematica – scrive Lask – si
mostrano come esempi per la logica emanatistica. Anche secondo il loro punto di vista
dall’intensione concettuale [Begriffsinhalt] di ogni singolo caso di realizzazione bisogna poter
costruire l’intera estensione [Umfang], e bisogna inoltre intendere l’estensione come un tutto
in se stesso connesso. Invero, però, l’ultima misteriosa conseguenza cui l’emanatismo può
giungere, ovvero l’identificazione dell’intensione e dell’estensione, e l’effetto derivante che
il legame che unisce l’estensione debba essere cercato nella mera intensione del concetto
medesimo, non viene compiuta nella matematica; invece, la costruzione dell’intera
estensione sembra sempre equivalente a quella dell’intensione, come fosse la sua semplice
continuazione, in essa potenzialmente contenuta. Dunque, [nella matematica] non si può
pensare ad un immediato essere contenuto dell’esemplare nell’intensione del concetto.
L’istruttiva posizione logicamente mediana della matematica potrebbe essere
caratterizzata conclusivamente come segue: l’abisso dell’irrazionalità tra concetto ed
intuizione è qui superato, l’isolamento dell’esemplare evitato, ma non si può ancora affatto
assumere una identità di generale e particolare, di intensione ed estensione» 1 .
Come e se ciò sia lecito, senza ricadere nella recisa ammenda kantiana di un utilizzo
ricorsivo e dialettico degli elementi logici, ovvero senza eccedere dalla analiticità invalicabile
della logica, è rimesso alla possibilità di emendare – non affatto su un piano meramente
linguistico e terminologico – la catena concettuale che abbiamo veduto aggregarsi attorno al
nome di oggetto.
Riprendendo un motivo appena accennato, domandiamo ora se la vuotezza del concetto
di un oggetto in generale attiene alla sua intensione, Inhalt, od alla sua estensione, Umfang,
ed in che modo questa distinzione si sovrappone – pur non coincidendovi – con quella tra
contenuto e riferimento 2 ? In altri, e più espliciti termini, come l’interrogazione cui ci siamo
sottoposti termina nella nozione pregnante, fenomenologicamente, di contenuto quale –
generalmente – Inhalt, laddove reca in se stesso un rimando essenziale alla specifica
determinazione unitaria oggettualmente, espressa come Inbegriff?
In quest’ottica è esemplare l’indicazione dell’estremo rappresentato dalla logica
emanatistica, ossia dalla logica oggettiva hegeliana. «L’estensione è l’intensione realizzatasi,
l’intensione il movimento vitale che attraversa tutta l’esensione; al mutare dell’estensione si
lega l’incremento dell’intensione e viceversa.
Da questa identificazione di intensione ed estensione diventa chiaro perché nell’ultima
parte dell’esposizione del pensiero di Hegel abbiamo abbandonato le analogie matematiche.

1 E. LASK, Fichtes Idealismus und Geschichte, in GS, cit., I, p. 56.


2 Sulla questione della distinzione nel concetto, o meglio nella definizione di un concetto, di Inhalt, intensione,
contenuto, e Umfang, estensione, si sofferma Ernst Cassirer in una lunga nota critica ad un saggio di K. Marc-
Wogau, dal medesimo titolo, Inhalt und Umfang des Begriffs, del 1936, , rivendicandone la rilevanza e la vigenza
proprio quanto alla duplicità irrisolvibile nella formazione concettuale; cfr. E. CASSIRER, Inhalt und Umfang des
Begriffs. Bemerkungen zu Konrad Marc-Wogau: Inhalt und Umfang des Begriffs, in «Theoria», 2, pp. 207-232; trad. it. di
G. Raio, Contenuto ed estensione del concetto. Osservazioni sull’omonimo libro di Konrad Marc-Wogau, in Conoscenza,
concetto, cultura, cit., pp. 145-174.

96
Il Pathos della Forma

Esse erano ancora utili per caratterizzare l’Hegel degli inizi, sostenitore di Schelling; ma si
rivelano insufficienti a comprendere gli ultimi risultati della sua teoria dialettica. Ancora una
volta si dimostra la posizione mediana della matematica tra la logica analitica e quella
emanatistica.
Anche da un punto di vista critico Hegel assume perciò una posizione particolare nella
storia del problema dell’irrazionalità. Senza dubbio né prima né dopo di lui si è dato
esempio di un razionalismo più forte, più persuasivo. Nessun sistema filosofico è così
lontano da un disconoscimento dell’irrazionalità come la sua dottrina. Anche un critico
dovrà rendere ragione ad Hegel: se è accoglibile il concetto, modificato dialetticamente,
allora e solo allora vi sarà un superamento dell’irrazionalità. […] Tuttavia il critico non potrà
riconoscere le condizioni della premessa: il concetto in senso hegeliano» 1 .
Assumendo – dal confronto Überweg/Drobisch, costitutivo per la ridefinizione del
vocabolario logico-formale sul finire del XIX secolo – una declinazione oggettuale della
logica, ove i concetti siano già stati intesi come oggetti, ossia determinati quanto alla loro
formalità, alla loro posizione e distinzione in una rete relazionale – dunque in un quadro di
serie funzionali – allora si riguarderà l’estensione, Umfang, l’ambitus, la sphaera, contrassegnabile
con il simbolo Σ, come l’insieme degli oggetti referenziali, la gamma delle singole referenze
(a, b, c). Dato, così, un concetto m, la sua estensione sarà raffigurata come m = Σ{a, b, c},
mentre si renderà l’intensione, Inhalt, come il modo in cui qualcosa inne halt, il modo in cui
qualcosa regge l’internità, la consistenza interna resa esplicita dal filare delle note,
semplicemente nel come del che cosa il concetto intenda, ovvero l’oggetto a cui esso si
appunta nella sua modalità di rapporto, m = φ (x), ove per φ (x) si intenda la funzione che
decide dell’appartenenza di ciascuna delle notazioni, pur non essendo risolvibile in alcuna
di esse. La singolarità di un concetto per cui «ciascun concetto in quanto tale si presenta
solo una volta» 2 , sta per la medesimezza del concetto pur nella innumerevole variabilità
delle sue occorrenze, dunque delle sue aggregazioni referenziali. Si distingue pertanto un
Aggregat, una somma di indicazioni, di riferimenti, retti da un legame di Beiordnung 3 , da una
connessione coordinativa, ed un Complexus 4 , in cui si distingue soltanto l’unità funzionale e

1 E. LASK, Fichtes Idealismus und die Geschichte, in GS, cit., I, p. 72. Sulla considerazione laskiana di Hegel, e più
in generale dell’Idealismo tedesco, si può vedere E. LASK, Hegel in seinem Verhältnis zur Weltanschauung der
Aufklärung, in GS, cit., I, pp. 333- 345, trad. it. di A. Carrino, Hegel e la concezione del mondo dell’Illuminismo, in E.
LASK, Filosofia giuridica, cit., pp. 79-90. Una considerazione a parte meriterebbe la risoluzione dialettica della
logica, cfr. J. COHN, Teorie der Dialektik. Formenlehre der Philosophie, Leipzig, F. Weiner, 1923.
Nel ripensamento neokantiano della filosofia di Hegel, e dell’hegelismo, un ruolo decisivo lo ebbe il discorso
accademico [1910] tenuto da W. WINDELBAND, Die Erneuerung der Hegelianismus, in Präludien, I, cit., pp. 260- 276.
A questo riguardo, cfr. C. TUOZZOLO, Emil Lask e la logica della storia, cit., pp. 39- 80.
2 M. W. DROBISCH, Neue Darstellung der Logik, I Auf., Leipzig, Voss, 1836, §. XII, p. 10.
3 Cfr. ivi, §§. 22-23, pp. 15-16.
4 Cfr. FR. ÜBERWEG, System der Logik und Geschichte der logischen Lehren, III. Auf., Bonn, A. Marcus, 1868, §. 50,

p. 103, «La totalità delle rappresentazioni parziali, nel modo della loro reciproca congiunzione, determinato
dalle relazioni reali corrispondenti, è l’intensione [Inhalt] (complexus) della rappresentazione».
A questo riguardo, riporto alcune annotazioni laskiane sull’argomento spaziale, che coinvolgono le nozioni
di aggregatum, compositum, totum, tratte da E. LASK, Fichtes Idealismus und die Geschichte, in GS, cit., I, p. 53. «Negli
ultimi argomenti sullo spazio [coordinazione e subordinazione] concetto ed intuizione sono paragonati l’uno
all’altro di modo che nel concetto logico si perviene alla relazione del genere rispetto ai suoi esemplari, mentre
nell’intuizione pura si giunge solo alla relazione dello spazio con le parti spaziali. Gli esemplari cioè si trovano
sotto il concetto, mentre le parti dello spazio sono assunte nello spazio unico che comprende ogni cosa solo come
limitazioni. Solo sotto di sé e non in sé il genere contiene i suoi esemplari, cioè questi non ne sono creati, ma ne
sono divisi dall’eterna distanza dell’indeducibilità. L’irrazionalità si lega alla relazione concettuale del sotto, non
a quella intuitiva dell’in, alla generalità concettuale (universalitas), non alla totalità intuitiva (universitas).
Questa contrapposizione di intuitivo e concettuale può essere sufficiente solo se si pensa che anche nella
conoscenza concettuale vi sia una universitas, un analogo della relazione tra parte e tutto, cioè quella tra il singolo
esemplare e l’interezza dell’estensione empirica. Tuttavia, secondo le argomentazioni kantiane, anche da questa
universitas, non solo dall’universalitas, è del tutto differente la totalità intuitiva. L’interezza dell’estensione di un
concetto cioè rappresenta un aggregato senza connessione, lo spazio invece non è un collettivo (compositum),
composto di unità discrete, ma un tutto (totum) continuo, un tutto, che non è il prodotto, piuttosto è il

97
Il Pathos della Forma

non la specificità elencabile dei funtori. Qui si apre una divaricazione dirimente tra il genere e
l’essenza, giacché « il concetto, per intensione ed estensione [Inhalt und Umfang] corrisponde
all’essenza ed al genere» 1 : all’ampiezza, alla distinzione del genere – in quanto
rappresentazione generale – corrisponde l’estensione del concetto, laddove, alla mera
chiarezza dell’essenza – in quanto rappresentazione singolare – corrisponde invece
l’intensione del concetto. Poniamo il complesso essenziale dell’Inhalt come Inbegriff,
implesso 2 , come presentazione dell’in-wohnen, dell’in-abitazione delle note nel concetto,
dunque della pura forma della località, in, riguardo ad un concetto. La questione
dell’essenza – dell’eidos dell’oggetto nel concetto – diviene così la traccia della peculiare
topologia dei concetti. Che forma ha la determinazione di luogo riferita ad un concetto, o
meglio all’intensionalità di un concetto? È la forma essenziale di un concetto quella del
luogo ed ad essa pertiene la vuotezza? Quale sarà allora l’aspetto logico della generalità
concettuale della vuotezza oggettuale, se l’una, la generalità, atterrà all’estensione, alla serie
chiusa della totalità degli oggetti che sottostà al principio di generalità di un concetto, e
l’altra, la vuotezza riguarderà invece l’intensione, la modalità unitaria in cui essenzialmente
si trovano le note oggettuali?
«Se si assume il concetto del qualcosa, della cosa in generale, dell’oggetto, come un
singolo concetto, lo si può facilmente scambiare per uno vuoto intensionalmente» 3 . Se per
Leerheit, dunque, intendiamo la forma di intensione – di Zuspitzung, di terminazione
oggettuale – di un concetto, allora il contenuto vuoto riguarda non l’inesperibilità effettuale
di enti conformi ad una designazione concettuale, l’incongruenza o l’indistinzione
estensionale, ma la modalità singolare, il Wie, di qualcosa che sia della medesima stoffa della
formalità, seppure di grado o di ordine formale differente.
Prova sperimentale di ciò può essere rinvenuta nell’elaborazione del logaritmo,
esprimente la grandezza dell’estensione in rapporto inverso all’intensione di un concetto,
contenuto in una annotazione alla Logik di Überweg, dedicata all’ultimo brano del
confronto con la Neue Darstellung di Drobisch. Contestando il presupposto, non esplicitato,
della fissità ed invariabilità tanto degli elementi intensionali quanto di quelli estensionali, si
propone di stabilire che «l’estensione di una rappresentazione, rispetto ad una superiore, è
inversamente proporzionale alla potenza, la cui base è formata dal numero delle
rappresentazioni subordinate a quella rappresentazione, e l’esponente dal numero degli
elementi intenzionali di quella rappresentazione» 4 . Nel caso della vuotezza, l’elevazione del
dato rappresentazionale all’esponente nullo dell’intensione, r 0 , determina come risultato
l’unità, quale condizione fondamentale, con rispetto generale, di ogni rappresentanza
concettuale.
Avendo chiarito ciò come chiave di lettura del medesimo tipo logico dell’oggetto, quale
possibilità di riguardare alla costituzione della nozione di oggetto, quanto segue di più
stringente consiste nel considerare la differenziazione fenomenologica dell’ancora vaga
denotazione di contenuto in Gehalt ed Inhalt, misurandoci in primo luogo con le riflessioni
husserliane raccolte in quegli studi elementari che precedettero le Ricerche Logiche.
La nostra mira resta infatti levare sulla nozione di oggetto in limine alla logica kantiana, per
ripensare un transito tra logica ed ontologia, che proprio di oggetti, in una accezione
profondamente emendata, consista, per come nella veste di Grundproblem – di problema
fondamentale in quanto conviene al fondamento – essa compare nel pensiero di Emil Lask.
È solo infatti presentando l’interrogativo sul contenuto e sull’oggetto, nella sua incidenza
sulla configurazione di una logica formale e trascendentale, quanto al suo rilievo sulla

presupposto delle singole parti, che perciò non possono essere pensate come singolarità isolate, sussistenti in
se stesse, ma solo come limitazioni dello spazio».
1 FR. ÜBERWEG, System der Logik und Geschichte der logischen Lehren, cit., §. 8, p. 14.
2 F. BARONE, Logica formale e logica trascendentale, I, Milano, Unicopli, 1999, p. 7.
3 M. W. DROBISCH, Neue Darstellung der Logik, cit., §.13, p. 11.
4 FR. ÜBERWEG, System der Logik und Geschichte der logischen Lehren, cit. cfr. Drobisch, Neue Darstellung der Logik,

II. Auf., cit., pp. 196-200.

98
Il Pathos della Forma

sensatezza del connettivo tra formalità e trascendentalità nella logica, che si assolve al
compito di raffigurare l’elemento proprio in cui nuota e trascorre la sistematica logica laskiana,
nelle sue spire oggettuali, nelle sue distinte verificazioni periferiche.

§. 4. La Formazione del Diritto. La Rechtsphilospohie come dottrina della


costruzione giuridica.

Il rilievo che spetta alla formazione peculiare del diritto, all’interno della più ampia
tematizzazione del problema trascendentale riguardo alla determinazione della materialità,
sempre ancora come contenuto e come riferimento, emerge nella sua pienezza già nelle
ultime pagine che Lask dedica alle riflessioni fichteane sui concetti di comunità, di nazione e di
stato, ove la delineazione logico-sociale di un ambito allo stesso tempo non-individuale e
storico, di unificazione e di differenziazione, di sovranità e di eccedenza, ne rappresenta un
esito teorico ma anche un’indicazione eccentrica, a stento trattenuta nella rete delle
argomentazioni. L’insistenza sulla esigenza di colmare una lacuna della filosofia
trascendentale proprio riguardo ai problemi geschichts- und rechtsphilosophisch, recide il tessuto
kantiano alla ricerca di una nozione di formalità, che sia capace di accogliere la costituzione
giuridica, la sua specifica modalità normativa, la tipologia della sua pretesa al valore in
quanto gültige Gebilde, formazione valida, più che per la mera ricusazione dell’impianto
formale, che l’analitica logica aveva disposto anche per il più alto e complesso degli artifici,
quello delle strutture della convivenza degli uomini nella storia. Ancora una volta, secondo
una intenzione concordante con quella husserliana, la critica che Lask rivolge alla dottrina
kantiana del diritto non riguarda cioè il predominio dell’assetto formale, la vuotezza
contenutistica della trattazione dell’atteggiamento normativo: la questione, in altri termini,
non è il presunto formalismo dell’etica e vieppiù della filosofia del diritto kantiana. La
questione riguarda piuttosto la disposizione della formalità, laddove la specie della relazione
materiale, presenta difficoltà ed ostacoli, ancora del tutto trascurati. Quando Carl Schmitt,
nella sua Teologia Politica, riflettendo sul problema della sovranità, impatta nella concezione neo-
kantiana di forma giuridica, renderà a Lask una menzione, che, pur nella sua brevità, sarà
capace di mostrare una traccia della portata teorica della sua dedizione gius-filosofica: «Che
significato ha il fatto che oggi nella dottrina dello Stato il formalismo dei neo-kantiani sia
stato accantonato ma che, nello stesso tempo, da tutt’altra parte venga postulata un’altra
forma? Si tratta forse di una di quelle eterne inversioni che rendono così monotona la storia
della filosofia? In questa tendenza della dottrina dello Stato moderna si può in ogni caso
riconoscere un fatto: la forma deve essere trasposta dal soggettivo all’oggettivo. Il concetto
di forma della dottrina delle categorie di Lask è ancora soggettivo, come è naturale per
qualsiasi sistemazione di critica della conoscenza» 1 . Un suo indubbio merito interpretativo
consiste senz’altro nell’unitarietà che restituisce al pensiero laskiano, all’ininterrotto
interesse logico e logico-giuridico, all’intenzione di trovare una caratterizzazione compiuta,
1 C. SCHMITT, Teologia Politica, in Le categorie del ‘Politico’, trad. it. a cura di G. F. Miglio e P. Schiera, Bologna, Il

Mulino, 19996, pp. 53-54. Sulla teoria dello stato, si vedano per un inquadramento tematico generale, A.
PASSERIN D’ENTREVES, La dottrina dello Stato, Torino, Giappichelli, 1967; N. BOBBIO, Stato in Enciclopedia, III,
Torino, Einaudi, 1981; M. GALIZIA, La teoria della sovranità dal Medioevo alla Rivoluzione francese, Milano, Giuffrè,
1951; P. GIORDANO, Profili della sovranità. Il dibattito gius-filosofico negli anni Venti, Napoli, ES, 1995. Cfr. E.
KAUFMANN, Kritik der neukantischen Rechtsphilosophie ; trad.it di A.Carrino, Critica della filosofia neokantiana del
diritto, Napoli, ESI, 1981; E. KAUFMANN et alii, Neokantismo e diritto nella lotta per Weimar, trad.it di A.Carrino,
Napoli, ESI, 1992; A. BANFI, Il problema epistemologico nella filosofia del diritto e le correnti neo-kantiane, in «Rivista
internazionale di filosofia del diritto», vol. 6, 1925, pp. 194-251; Il diritto come relazione. Saggio critico sul neo-
kantismo contemporaneo, Torino, Giappichelli, in part., pp. 31 sgg; L. RECASENS SICHES, Panorama del pensamiento
juridico en el siglo XX, Città del Messico, vol.1, 1963, pp.224-227; K. HOBE, Emil Lasks Rechtsphilosophie, in
«Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie», Bd. 59, pp.221-234; J. SIEGER, Das Recht bei Emil Lask:
Untersuchungen zur Rechtstheorie des Neu- kantianismus , Bonn, Bouvier, 1964.

99
Il Pathos della Forma

e compiutamente logico-trascendentale, della forma e dell’oggetto, della forma dell’oggetto,


della forma in quanto forma oggettuale. Eppure se qualcosa viene eluso è giusto il punto in
cui la mira laskiana si fa concorrente con la propria, laddove il rivolgimento materiale della
forma, il suo irrimediabile declivio oggettuale, non mina l’indicazione formale, pur
modificandone profondamente la disposizione, laddove cioè quel medesimo problema del
rapporto, non invertibile, non identificabile tra forma e materia, tra la forma del diritto, la
forma che il diritto non cessa di essere, e la materialità che gli si fa sotto, l’incostanza e
l’inquietudine dell’esperienza vissuta, l’ineguaglianza delle condizioni temporali, le verticali
modificazioni qualitative nelle vicende storiche, non viene risolta nella definitività di
un’irruzione, di una mera frattura informale, muta, non riportabile formalmente. La
differenza, che pure abbiamo compreso essere la stimma della riflessione laskiana su
ciascuno degli aspetti della formalità, quella differenza di cui è stata anzi indicata
l’originarietà nel pensiero, è tutt’altro che una distinzione in cui si fa lecito l’isolamento di
ognuno dei membri. Anche quando è stato das Zufallige, l’accidentale, il caso, che nella sua
declinazione contabile e soggettiva diventa margine tra prevedibilità ed imprevedibilità,
spazio accidentato dell’inferenza o scientifica o politica, era la sua posizione logico-
trascendentale a conquistare la scena filosofica. Le contrapposizioni di personale, non
personale, oltre-personale, di concreto e generale, di individuale ed universale, di validità di
fatto e norma astratta, che in Lask, come in Schmitt, fungono da terreno inestimabile di
confronto, mostrano però sempre la loro permanenza, mai il loro superamento, mai la
ricaduta dell’uno nell’altro. L’indifferenza contenutistica della decisione, la sua inderivabilità
dalle premesse, che le rende la necessità dell’opportunità circostanziale, rivolta solo alla
dipendenza da ciò cui da origine – così come viene lucidamente presentata da Schmitt,
rappresenta l’estremo impensato da Lask, sulla cui regolazione è possibile mostrare un altro
cammino di pensiero quanto al diritto, ove saranno proprio i concetti di dipendenza, ma
anche, inscindibilmente, di incompletezza della forma rispetto al già suo materiale, ad alla
sempre estranea materia, a costituirne lo snodo centrale.
Quando nel tentativo di individuare l’ambito proprio della Rechtsphilosophie – la cui
imperfetta coincidenza con la Philosphie des Rechts sarà argomento delle nostre successive
considerazioni – ne rifiuta la equivoca definizione di teoria del concetto del diritto, in quanto
diretta piuttosto alla concettualizzazione filosofica del diritto, in quanto essa «studia gli scopi
formali ultimi del diritto, la sua posizione nel regno dei valori culturali, il suo influsso sulla
condotta di vita» 1 , poiché, essendo momento dell’unitaria corrente della riflessione logico-
trascendentale, determina il luogo trascendentale del diritto, ovvero il luogo trascendentale
dell’oggettualità giuridica, Lask impone come premessa delle sue ricerche la persistenza di
quel fatto dell’elaborazione pre-scientifica, che abbiamo visto rappresentare una prima figura di
precomprensione della materialità. «L’esistenza di una concettualizzazione pre-scientifica
non gioca un ruolo così grande in nessun altro luogo che nel campo giuridico. Se si
prescinde dalla scienza stessa, non esiste nessun fenomeno culturale che, come fattore
concettualizzante [begriffsbildender], possa paragonarsi, anche solo approssimativamente, al
diritto. Ed è il diritto stesso ormai, che si confronta con la realtà extragiuridica ed elabora
concetti di così elevata perfezione tecnica [technischer Vollendung] che, spesso, la scienza e
l’elaborazione scientifica possono distinguersene solo nel grado e a volte in nessun altro
modo che come la semplice prosecuzione del processo formativo cominciato dalla legge» 2 .
Il dualismo metodico, che ne accompagnerà l’esposizione gius-filosofica, esorbitando però
– come sarà illustrato – dal suo recinto tematico, e che in questo assunto è
problematicamente contenuto, cerca di rendere conto cioè dell’irrisolta duplicità, la cui
presentazione inaugura e non risolve la sua trattazione filosofica, determinata dagli
Hauptthemata, dai temi fondamentali, 1) della «peculiare ed unitaria presa di posizione del
diritto e della giurisprudenza nei confronti del sostrato pregiuridico [vorjuristiche] della vita e

1 E. LASK, Rechtsphilosophie, in GS, cit., I, p. 286; trad. it., Filosofia Giuridica, cit., p. 24.
2 Ivi, p. 315; trad. it., p. 58.

100
Il Pathos della Forma

della cultura, cioè la trasformazione [Umprägung] del materiale pregiuridico [vorrechtlichen] in


concetti giuridici», e 2) del «reciproco nesso sistematico [systematischen Zusammenhang] dei
concetti giuridici, ovvero la forma di sistema della giurisprudenza» 1 .
L’attenzione a distinguere tra la compiutezza concretissima della effettualità, la sua pienezza
effettuale, dalla realtà culturale, quale complesso di elaborazioni di riferimenti a valori
culturali, che la determinazione giuridica affetta – disidentificazione recata ad evidenza dal
fatto che «il sostrato del diritto non coincide quasi mai con il dato psico-fisico originario
[mit der ursprünglichen psychophysichen Gegebenheit]» 2 – diventa essenziale per gettare luce sulla
rete di significati presenti nel diritto (e sulla riflessione su di esso compiuta dalla scienza
giuridica), al fine di scongiurare in anticipo ogni tentativo di contrapporre artificiosamente
formalità e contenutezza, od in termini schmittiani, decisione ed ordinamento, legittimità e
legalità. Il disegno laskiano è piuttosto rivolto a comprenderne la differenziazione, la
separazione, la moltiplicazione di piani che volta per volta sorge nella formazione del
contenuto, e nel prosieguo della sua formalizzazione compiuta. L’esempio sperimentale di
tale procedimento – valga ora come indicazione da seguire più approfonditamente in
seguito – è offerta da un’attestazione apparentemente piana, in merito alla complicazione
contenutistica, che si verifica nella maglia concettuale giuridica, per cui, in essa, «la cosa si
identifica col corpo tanto poco quanto la persona con l’uomo. Nello stesso modo tutti gli
oggetti [Gegenstände] accessibili al diritto sono rivestiti, per così dire di un tessuto
teleologico. Ciò che è metodologicamente significativo consiste nel fatto che il mondo
giuridicamente formato conosce nuove sintesi, nuovi principi di individualizzazione e di
unione, possibilità di classificazione straordinarie e del tutto differenti per la considerazione
naturalistica e gnoseologica e, spesso, anche per la concezione della vita. Ciò che
naturalisticamente è continuo può essere giuridicamente discreto, ciò che
naturalisticamente è solo una pluralità collettiva può essere giuridicamente una unità
distinta dalla mera somma. Il presupposto più indispensabile per la comprensione dei
principi di unificazione giuridica è l’analisi […] dei concetti scientifico-sociali di cosa e di
collettivo [Ding- und Kollettivbegriffe]» 3 .
Queste righe, pur nel tenore costantemente introduttivo che caratterizza l’intera scrittura
della Rechtsphilosphie, più che per carenza dottrinaria, per l’intento insieme epistemologico e
filosoficamente fondativo dell’opera, espongono in maniera cristallina l’ampiezza ed il
portato della riflessione laskiana sulla formazione delle oggettualità giuridiche: la cura della
disposizione teleologica, che stralcia dal metodo windelbandiano, restringendone la
pertinenza, il complesso passaggio dalla determinazione del continuo a quella del discreto
nel seno stesso della rechtliche Begriffsbildung, i principi, peculiarmente giuridici, di
individualizzazione e di unione, l’essenzialità dei concetti di oggetto, di cosa e di collettivo.
In ragione di ciò, lo studio della Rechtsphilosphie appare come compimento di un cammino di
ricerca riguardo alle modalità primarie di formazione concettuale, riguardo al loro
attecchimento sulla superficie già parzialmente elaborata, dalla precomprensione e dalla
concettualizzazione pre-scientifica, che funge da vera e propria base sperimentale per la
successiva sistemazione dell’architettura logica trascendentale, recando tuttavia il sovrappiù
della specifica posizione del diritto in una sorta di scala formale, determinata dalla
consentanee estrema formalizzazione analitica, della posizione e dell’ordinamento
normativo, e penultima prossimità al sostrato materiale, del caso e della fattispecie.

4.1. Astrazione e formalizzazione. Lo jus.

1 Ivi, p. 316; trad. it., p. 58. Sulla differenza tra vorjuristiche e vorrechtliche, cfr. P. F., SAVONA, In limine juris. La
genesi extra ordinem della giuridicità e il sentimento del diritto, Napoli, ESI, 2005.
2 Ivi, p. 316; trad. it., p. 59.
3 Ivi, pp. 316- 317; trad. it., pp. 59- 60.

101
Il Pathos della Forma

Che il diritto rappresenti la più astratta e formale figura tra i tipi di valori sociali, è una
considerazione che non cessa mai di ripercuotersi nelle considerazioni laskiane,
rappresentandone la principale premessa metodica. L’intenzione correlata – che giungerà a
distinguere tra diritto, scienza giuridica e metodologia giuridica – sarà dunque quella di
comprendere il modello della sua costruzione ed al suo interno di individuarne le lacune
che sole ne consentono il riferimento, o meglio l’attecchimento, alla datità prima culturale poi
effettuale. In altri termini, nel diritto Lask studia un tipo di concetto di oggetto, che a sua
volta viene costituito come oggetto di un grado formale superiore, come oggetto ideale
istituito: in ciò il processo analitico, scindibile ancora in astrazione e formalizzazione,
rappresenta il principio costruttivo.
Alla ricerca di una linea genealogica per il concetto di diritto nella storia dell’Occidente
classico, Aldo Schiavone in un opera recente, facendo fronte alla figura ed all’opera di
scrittura giuridica di Quinto Mucio Scevola, presenta la funzione dei diciotto libri Iuris civilis
all’interno di una ben più ampia «domanda di testualità nei confronti della sedimentazione
magmatica del ius civile, [domanda che] nasceva anche dal confronto con quanto stava
accadendo nella prassi quotidiana delle più vitali istituzioni della repubblica: con gli editti
dei pretori e degli altri magistrati nella capitale e nelle province; con le leges rogatae nei
comizi, o datae nelle realtà municipali. Dovunque si affermava e si diffondeva una rapporto
prevasivo ed inscindibile tra scrittura e normatività, quale Roma non aveva più conosciuto
dai tempi delle XII Tavole» 1 .
La possibilità medesima dell’inaugurazione di un deposito grafico per la norma
retrocedeva a due condizioni fondamentali, l’una che «determinava la sequenza di insieme,
riflesso del formarsi del ius civile nella città», l’altra che invece sosteneva «l’analisi dei singoli
temi, centrato sull’uso della diairesis» 2 . Alla tenuta di tale dualità, l’unificazione sistematica e
l’individuazione diairetica, era essenziale «la conquista di un solido livello di astrazione
rispetto alle conoscenze da esso inquadrate. È impossibile disporre per generi e specie i
cavalli o le qualità dell’oratore, se non si possiede un’idea generale della cavallinità e
dell’oratoria; e questo doveva necessariamente valere anche per le nozioni giuridiche: la

1 A. SCHIAVONE, Jus. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino, Einaudi, 2005, p. 155. L’intenzione di seguire la
genealogia del diritto in Occidente porta con sé un dirompente valore analitico, per l’uditorio contemporaneo
di questi studi, affaticato da un frustro chiacchiericcio sulla radicale identità occidentale, proprio dinanzi alle
nuove codificazioni giuridiche, tanto da far scrivere ad A. Schiavone che se riuscissimo a riprenderne
correttamente il filo, «saremmo ancora una volta di fronte a uno dei caratteri originali dell’intera storia
dell’Occidente» [ivi, p. 176]. Il profilo di queste ricerche infatti si avvolge sul diritto, in quanto quella forma di
«scrittura su cui l’Occidente non ha mai smesso di riflettere e di interrogarsi, per un tempo lunghissimo. […]Il
diritto è una forma che ha invaso la modernità, diventandone presto un carattere insostituibile: ed è una
forma inventata dai Romani. […] Fu, infatti, soltanto a Roma che l’inevitabile disciplinamento presente in
ogni aggregazione comunitaria venne riservato in modo precoce a un severo specialismo di ceto, poi
trasformatosi in una tecnologia sociale con uno statuto forte, che avrebbe isolato per la prima volta e per
sempre la funzione giuridica ed i suoi esperti, i ‘giuristi’ (una parola sconosciuta a qualunque lingua antica,
tranne il latino), staccandoli da ogni altra produzione culturale o centro istituzionale – dalla religione, dalla
morale, dalla stessa politica – permettendone un’identificazione autonoma, netta e definitiva. […] Questa
lunghissima parabola – circa un millennio – è progressivamente scaduta nel secolo appena concluso: il
declino, già in qualche modo percepibile nell’Europa dei tardi anni Venti – diciamo dopo Weimar e dopo
Kelsen degli scritti viennesi, o se si preferisce, con l’imporsi dei regimi totalitari – è diventato sempre più
evidente nel secondo dopoguerra, manifestandosi negli anni Sessanta,e ancor più nell’epoca del «diritto
globale», con i tratti di una vera rottura. […]È una situazione dalle conseguenze imprevedibili, mentre gli
scenari economici e politici che si stanno aprendo innanzi a noi pongono in termini mai prima conosciuti il
problema dei rapporti tra organizzazioni statali, socialità mondiale e ordine normativo, e sembrano aprirsi
enormi spazi di vita che il diritto – almeno nei modi in cui l’abbiamo finora pensato – non riesce più ad
afferrare e disciplinare. Essa però consente almeno di acquisire un punto di vista storiograficamente
vantaggioso: quello di poter osservare finalmente dall’esterno e da lontano un’eredità che ci ha condizionato
tanto a lungo, e che con tanta tenacia ha continuato a far parte del nostro orizzonte» [ivi, pp. 5-18].
2 Ivi, p. 171.

102
Il Pathos della Forma

scomposizione dei loro elementi costitutivi presupponeva sempre l’astrazione dei concetti
da cui partiva» 1 .
La costruzione formale del diritto civile nel I secolo a. C. determina dunque un piano
referenziale, significativo ed autonomo per la delineazione della normatività giuridica,
definendone per la prima volta in maniera compiuta il proprio ambito funzionale. «Il punto
di riferimento [dei concetti giuridici, della giurisprudenza romana] non era né la natura, né
l’interiorità dell’uomo, né i modi dell’etica o della politica, ma la struttura della socialità
«privata» in un ambiente cittadino ormai sviluppato ed in piena proiezione imperiale. Essi
nascevano dalla capacità di separare analiticamente – appunto, di astrarre – le forme
funzionali dei rapporti presi in considerazione dal ius – scambi, appartenenze, obblighi,
pretese, poteri, soggetti, azioni – dalla materia viva che li componeva, e di dar loro una
consistenza del tutto autonoma, staccata dalle determinazioni concrete che ne costituivano
il contenuto nella realtà (quella merce, quel bene, quel cittadino, quella prestazione, quel
comportamento processuale, quel grumo di interessi, e che avevano consentito fino ad
allora una sorta di tipizzazione empirica delle somiglianze). Di conseguenza, il
discliplinamento giuridico che si voleva raggiungere si sarebbe potuto legare in modo
diretto e sintetico allo schema formale così ottenuto e agli equilibri funzionali che esso
esprimeva, invece che dipendere solo dalla valutazione di una molteplicità casistica che la
crescente complessità sociale rendeva inevitabilmente elusiva e sfuggente» 2 .
Si definiva così una rete di tipologie giuridiche, le cui relazioni reciproche erano garantite
dai rispettivi vertici di significato formale, dai nomi giuridici che ciascuna figura esigeva per
se stessa. Questo quadro segnico, grafico, nominale, che definiva lo Spielraum, lo spazio in
cui poteva essere giocata la significazione giuridica, ovvero la pretesa di validità della
norma, che vale in primo luogo come connessione costitutiva, come espressione formale di
uno stato di cose assunto giuridicamente, la cui infrazione reca la nullificazione del suo
stesso riferimento oggettuale, e quindi poi come consolidamento regolativo, si disponeva
come un sistema di oggetti giuridici. La chiave formalistica del diritto avrebbe cioè consentito la
delineazione di un ambito di an sich seiende rechtliche Gebilde, di entità giuridiche per se stanti, di
formazioni giuridiche che sono per sé – come si sarebbe espresso Reinach nel suo Die
apriorischen Grundlagen des bürgerlichen Rechtes, quindi sempre in riferimento al ius civile– ovvero
di una teoria analitica di tutti i tipi possibili di oggetto in quanto tali [Analyse aller möglichen
Gegenstandsarten al solcher], intesa come teoria a priori degli oggetti od ontologia [als Ontologie oder
aprioriche Gegenstandslehre] 3 . «L’ontologizzazione dei concetti giuridici sarebbe presto

1 Ivi, p. 171. «Dobbiamo considerare perciò l’astrazione e non la diairesis come il centro delle novità introdotte
da Mucio. Il constituere generatim della valutazione pomponiana [nel Commentario ad Q. Mucium] può acquistare
così ai nostri occhi un significato più ampio dell’allusione ad un metodo classificatorio scontato fuori del
sapere giuridico. È invece la spia che riconduce in modo obbligato (senza astrazione, niente diairesis) al primo
formarsi di un impianto analitico del tutto nuovo. Un sapere nel quale il ius civile era per la prima volta
presentato attraverso una rete di concetti, scanditi entro schemi diairetici la cui capillarità appare un indizio
inequivocabile del corrispondente espandersi dell’astrazione. Al loro interno, caput dopo caput, si disponevano
le serie casistiche ricavate direttamente dall’attività respondente o dalla tradizione della disciplina: noi
possiamo ancora intravederne qualche traccia» [ivi, pp. 172- 173].
2 Ivi, p. 173. Gli esempi più chiari di questa trasformazione formale nel diritto civile romano sono offerti dalle

relazioni di compra-vendita: «Non più una miriade di situazioni nelle quali si riconosceva a posteriori chi
comprava e chi vendeva, e a cui si potevano collegare le azioni processuali «del venduto» e «del comprato»,
ma il paradigma astratto della compra-vendita come scambio funzionale al trasferimento di una merce contro
un prezzo, cui si riconducevano una volta per tutte una serie di regole che definivano gli obblighi reciproci dei
soggetti coinvolti nella transazione, la cui violazione faceva scattare il diritto alla tutela giurisdizionale
attraverso l’esercizio dell’azione» [ivi, p. 173].
3 A. REINACH, Die apriorischen Grundlagen des bürgerlichen Rechtes, in «Jahrbuch für Philosophie und

Phänomenologische Forschung», 1, 1913, pp. 685- 847; riedizione in A. REINACH, Sämtliche Werke, Bd. I, Die
Werke, Philosophia, Monaco, 1989 (a questa edizione si riferisce la citazione), p. 145. Trad. it. parziale di G.
Stella, in A. CARRINO (a cura di), Metodologia della scienza giuridica, Esi, Napoli, 1989, pp. 161- 200. Trad. it.
integrale di D. Falcioni, I fondamementi a priori del diritto civile, Milano, Giuffrè, 1990; trad. it. parziale di P. Di

103
Il Pathos della Forma

diventata totale, e le essenze trasformate in presupposti imprescindibili di ogni esperienza


normativa, condizioni assolute di possibilità della trama privata della vita: una specie di «a
priori» del diritto, capaci di sintesi straordinariamente efficaci dell’esperienza empirica» 1 .
L’ordinamento giuridico come sistema di ontologia sociale, più precisamente di ontologia
giuridica 2 – derivato da un procedimento compiuto di astrazione, di trasformazione del caso
in fattispecie, di diairesis, di individuazione delle differenze specifiche, e quindi di
formalizzazione, di costruzione tecnica di un campo consistente di formazioni entitative
giuridiche, rappresenta da un lato il deposito storico del diritto civile, dall’altro il principio
metodologico della questione sul luogo trascendentale del diritto, dunque sulla topologia
trascendentale del diritto, così come viene espressa nella Rechtsphilosophie laskiana. In conto è
dunque la comprensione della modalità oggettuale propria di quelle formazioni complesse,
Zusammengebilde, che corrispondono alle entità giuridiche, ove la bilateralità forma-
contenuto viene resa e mantenuta nella maniera più evidente e maggiormente capace di
sollecitare l’indagine teoretica-conoscitiva.
Scrive in proposito Lask: «la nostra esposizione fino a questo punto potrebbe, forse, dare
l’impressione che il diritto venga preso in considerazione per la metodologia solo nella sua
figura [Gestal] già pronta, chiusa, codificabile, come complesso di norme o come «diritto in
senso oggettivo» [Komplex von Normen oder als «Recht im objektiven Sinne»]. Che diritto e realtà
pre-giuridica [vorrechtliche Wirklichkeit] si contrappongano come regni separati e comparabili
l’uno con l’altro in abstracto, secondo le relazioni logiche dei loro contenuti. Questo perché
finora si è tralasciato di fare riferimento al fatto che il diritto viene per così dire trascinato
[hineingerissen wird] dentro la molteplicità ed allo smembramento [Vereinzelung] della vita reale
come «diritto in senso soggettivo» e proprio nella forma dei «singoli, concreti» rapporti
giuridici e delle altre relazioni giuridiche soggettive. La critica metodologica deve far luce
anche su questo lato del rapporto di diritto e realtà [der Verhältnis zwischen Recht und
Wirklichkeit], ed in tal modo sorge il nuovo problema dell’intreccio di significato giuridico e
sostrato reale nel caso individuale [das neue Problem der Verschingung von rechtlicher Bedeutung und
realem Substrat im Einzelfall]. Anche il diritto nella sua condizione individualizzata e
concretizzata, temporalizzata, deve essere concepito come regno di puri significati e separato
dalle basi reali su cui comunemente poggia. In questo tentativo si rivela un fenomeno

Lucia, in A. G. CONTE, P. DI LUCIA, L. FERRAJOLI, M. JORI, Filosofia del diritto, Milano, Cortina, 2002, pp. 17-
31.
1 A. SCHIAVONE, Jus, cit., pp. 177-178.
2 Quanto alla definizione rispettiva dei due sintagmi ontologia sociale ed ontologia giuridica – su cui torneremo con

intento esplicativo e problematico, più volte in seguito – rimandiamo per ora ad alcuni studi generali, che
stanno occupando la porzione più avanzata degli studi analitici riguardanti questioni gius-filosofiche.
Per un inquadramento di massima sulla definizione di Ontologia sociale, si veda P. DI LUCIA (a cura di),
Ontologia sociale. Potere deontico e regole costitutive, Macerata, Quodlibet, 2003, da cui è possibile ricavare le
indicazioni essenziali sulle fonti e sui modelli principali riguardanti il tema in esame: oltre al già citato A.
REINACH, Die apriorische Grundlagen; un manoscritto husserliano del 1910, recante il titolo Soziale Ontologie und
deskriptive Sociologie, in E. HUSSERL, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus Nachlaß. Erster Teil: 1905-
1920, a cura di I. Kern, Den Haag, M. Nijhoff, 1973; CZ. ZNAMIEROWSKI, Pdstawowe pojęcia teorij prawa. Układ
prawny i norma prawna (Concetti fondamentali della teoria del diritto. Struttura giuridica e norma giuridica), Poznań, Fiszer
i Majewski, 1924, trad. it. parz. a cura di G. Lorini, Atti tetici e norme costruttive, in A. G. CONTE, P. DI LUCIA, L.
FERRAJOLI, M. JORI, Filosofia del diritto, cit., pp. 75-80; ID., The Basic Concepts of the Theory of Law. Introductory
Remarks, in Z. ZIEMBIŃSKI (a cura di), Polish Contributions to the Theory and Philosophy of Law, Amsterdam,
Rodopi, 1987, pp. 33-37; il testo recentiore di J. R. SEARLE, The Social Construction of Reality, trad. it. di A.
Bosco, La Costruzione della Realtà sociale, Torino, Einaudi, 2006. Al riguardo si veda anche M. FERRARIS,
Lineamenti di una teoria degli oggetti sociali, in A. BOTTANI , R. DAVIES (a cura di), Ontologia della proprietà intellettuale,
Milano, Franco Angeli, 2005 (in corso di pubblicazione).
Riguardo invece alla definizione di ontologia giuridica, si vedano principalmente: G. RENARD, La Théorie de
l'Institution. Essai d'Ontologie Juridique, Librairie du Recueil Sirey, Parigi, 1930; I. HUBNER, G., JORGE, Notas para
una Ontología Jurídica, in Anales de la Facultad de Derecho, Santiago de Chile, vol XIII - Años 1948 y 1949 - Nº 52
al 59; B. SMITH, Ontologie des Mesokosmos: Soziale Objekte und Umwelten, in «Zeitschrift für philosophische
Forschung», 52 (1998), pp. 521–540; G. SCHÖNRICH (a cura di), Institutionen und ihre Ontologie, Hausenstamm,
Ontosverlag, 2005.

104
Il Pathos della Forma

generale, ancora poco analizzato nella sua esatta struttura e comprensibile solo allo spirito
analitico dei metodologi: il farsi tutt’uno di contenuti astratti e basi concrete [das
Verwachsensein abstrakter Inhalte mit konkreten Trägern], che ci simula l’apparenza del suo reale
essere-per-sé e provoca sempre, per ciò, la sua ipostatizzazione nella coscienza ingenua.
Questa frizione di un’esistenza indipendente si ripete in tutte le sfere della conoscenza:
nella «concreta» realtà culturale di fronte alla effettiva realtà nel senso gnoseologico, nelle
astratte realtà parziali di fronte alle realtà culturali complesse [komplexen Kulturrealität] ed
infine nei significati – p. es. giuridici – di fronte alle realtà vitali e culturali [Kultur- und
Lebensrealitäten] o psicofisiche che servono loro come sostrato» 1 .

3.2. Dimensione e differenziazione.

Se dunque la mira dell’indagine laskiana e di scorgere l’esplicitarsi dell’intreccio,


Verschingung, od addirittura del farsi tutt’uno, Verwachsensein, del ricoprirsi l’uno con l’altro,
del rimarginare l’uno con l’altro dei significati normativi e dei latori, Trägern, di senso concreti,
laddove la formalità viene trascinata sfilacciandosi, hineinreißen, nella molteplicità delle
singolarità effettuali, è necessario assumere come presupposto una guida gnoseologica che
scongiuri la mera considerazione parziale, e restituisca invece l’aspetto pieno della
correlazione. In questo senso, Lask indica come le Scilla e Cariddi della Rechtsphilosophie, gli
scogli cui essa deve principalmente sfuggire, nelle figure metafisiche dell’astoricità
giusnaturalistica e dell’empirismo storicistico.
Tuttavia, ambedue possono essere convertiti in posizioni problematiche, in apici
interrogativi. Se cioè «la ricerca e l’esame di un significato assoluto del diritto e delle sue
relazioni con altri valori incondizionati, ricade immediatamente nel grave sospetto della
eresia giusnaturalistica», la domanda che ne deriva è se «debba veramente ogni filosofia non
empiristica del diritto coincidere con l’antica metafisica del diritto discreditata da un
abbagliante sviluppo della scienza positiva. […] Il giusnaturalismo era un interrogarsi sul
senso assoluto di diritto e giustizia e per questo assurse a principio storico-universale e
storico-problematico, il cui significato non può essere offuscato da nessuna correzione, per
quanto metodicamente indispensabile. Ogni pensabile speculazione sui valori anche quella
«critica», condivide col giusnaturalismo questa tendenza assoluta, filosofico-
trascendentale» 2 .
Ciò che tuttavia distingue la considerazione metafisica propria del giusnaturalismo dalla
filosofia critica del diritto è il modo in cui interrogano il rapporto tra il «valore che pretende
validità assoluta [dem unbedingte Geltung beanspruchenden Wert] e la realtà empirica [der
empirischen Wirklichkeit]» 3 . Questo sottende però una ben più ampia morfologia del mero bi-
dimensionalismo metodologico, tra considerazione filosofia e considerazione empirica,
laddove i termini propri della correlazione non sono soltanto il Wert normativo, pertanto
non-empirico, e la Wirklichkeit, empirica, temporale, storica, ma comprendono anche gli
archi della Beanspruchung, pretesa, e della corrispettiva Geltung, validità. Pur in una non
compiuta teorizzazione sulla distinzione tra le modalità di valenza, Geltung, valore, Wert, e
validità, Gültigkeit, alla quale attenderanno i due Hauptwerke logici, la Logik e la Lehre, tuttavia
pare già chiaro come «il concetto di valore sia il prius oggettivo del concetto di norma [der
Wertbegriff ist das sachliche Prius des Normbegriff]», così da volgere essenzialmente lo sguardo al
modo logico ed alla modificazione effettuale, in cui il valore diventi norma o postulato 4 . Ciò
implica oltremodo una comprensione plurale della realtà empirica, che pur conservando la
propria unicità, di unico tipo, einzige Art, della realtà effettuale, rivela la sua non-unitarietà
analitica, in quanto figura anche come «scena, Schauplatz, o sostrato di valori sovraempirici,

1 E. LASK, Rechtsphilosophie, in GS, cit., I, pp. 318- 319; trad. it. Filosofia Giuridica, cit., pp. 61- 62.
2 Ivi, p. 279; trad. it., p. 16.
3 Ivi, p. 279; trad. it., p. 16.
4 Ivi, p. 288; trad. it., p. 26.

105
Il Pathos della Forma

di significati universalmente validi [allgemeingültiger Bedeutungen]» 1 . Se dunque la pretesa di


validità di una norma giuridica si dipana secondo una relazione forma-materiale, o meglio
nella duplicità della relazione formale rispetto al suo materiale, o contenuto quale
riferimento, ed al suo sostrato, l’errore principale del giusnaturalismo consiste in una
derivazione emanatistica «dell’essere esternamente vincolati dei membri di una comunità
direttamente dal significato assoluto di un postulato giuridico, cioè dalla sua dignità
puramente ideale» 2 . Essendo ormai del tutto evidente come la considerazione
giusnaturalistica 3 disperda la posizione propria della positività giuridica, il suo grado di

1 Ivi, p. 280; trad. it., p. 17. È interessante notare come la sottolineatura che appare nella edizione del 1907,
riguardo all’unicità del tipo di realtà, non ha alcun corrispettivo in quella del 1905, segno evidente – insieme
alle molte altre correzioni che fanno della seconda edizione una vera e propria riscrittura del testo – di una
maturazione del pensiero laskiano quanto alla complicanza forma-materiale, in riferimento al concetto di
realtà, al Realitätsbegriff.
2 E. LASK, Rechtsphilosophie, in GS, cit., I, p. 282; trad. it. Filosofia Giuridica, cit., p. 19. In altri termini, la nozione

di giusnaturalismo qui avanzata da Lask è coincidente con una concezione di diritto comune, di un «”luogo di
raccolta per le teorie ed i concetti giuridici generali vaganti”, una parte generale o generalissima, elaborata per
induzione ed astrazione, dell’intera scienza del diritto», ove il medesimo criterio di generalità viene elaborato
in termini contenutistici, come datità compiutamente valente di una universitas, di una totalità: di qui la
coincidente ricusazione dell’emanatismo, che vi si cela, e dell’ipostatizzazione della generalità in sovra-
empiricità. Cfr. ivi, p. 279; trad. it., p. 16. Cfr. V. CATHREIN, Naturrechtliche Strömungen in der Philosophie der
Gegenwart, in «Archiv für Rechts- und Wirtschaftsphilosophie», Bd. 16, 1922-23, pp.215-224; M. SALOMON,
Die „Überwindung“ des Personalismus und Transpersonalismus bei M.E.Meyer, in «Archiv für Rechts- und
Wirtschaftsphilosophie», Bd. 18, 1922-24, pp.431-446
Tale considerazione è attestata nella versione più analitica nell’esame del sintagma diritto naturale, Naturrecht,
isolando la valenza semantica della naturalità. «Nel termine diritto naturale sono contenuti in verità parecchi
significati di natura, raramente distinti a sufficienza. Natura significa in primo luogo – principalmente nel
concetto formale di diritto naturale – assolutezza o universale validità in opposizione alla validità puramente
relativa dell’ordinamento [Satzung] umano, ed in secondo luogo, l’universalità del contenuto, o della ragione o
della natura, in opposizione alla particolarità individuale» [E. LASK, Rechtsphilosophie, in GS I, cit., pp. 285-286;
trad. it. Filosofia Giuridica, cit., p. 23.]. In queste righe, Lask, riprendendo la doppiezza tra un diritto naturale
formale ed uno materiale, ne offre altresì un’apertura su un più ampio spettro teoretico-conoscitivo,
indicando nell’equivocazione dell’Allgemeingültigkeit, della validità universale e della Allgemeinheit, universalità,
come principi di uni-totalità, il vizio logico che in essi si cela. Il diritto naturale, cioè, nelle sue differenti
specie, ad un tempo mostra la questione della determinazione formale della validità normativa e ne depaupera
la ricchezza, obliterando il carattere proprio della relazione formale della valenza, ovvero la sua proiezione, il
suo riferimento al materiale.
3 Pur meritando questo tema ben più ampia dedizione di quella che possiamo riconoscergli nel corso di queste

righe, dobbiamo tuttavia riconoscere che la questione del giusnaturalismo si conservi in Lask non come
deposito dottrinario, ma come problema, cioè solo nella forma della dualità, della soglia di non-coincidenza tra
diritto e potere, così come si configura nella vicenda del pensiero giuridico e politico moderno, dalla riflessione
groziana alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, alla Verfassungstheorie alla definizione dei diritti umani.
Essa attinge cioè a quella duplicità speculare, i cui due corni Bobbio identifica nelle massime, proprie nella
modernità rispettivamente del positivismo giuridico e della dottrina dello stato di diritto, di auctoritas facit legem e lex facit
regem, legando – con molteplici tracce di discontinuità, di variazioni e di scarti – l’esordio dell’Esprit des Lois di
Montesquieu – «le leggi, nel loro più ampio significato, sono i rapporti necessari derivanti dalla natura delle
cose» – al concetto di Natur der Sache lumeggiato da Radbruch. Basterebbe riprendere la parafrasi bobbiana di
Kant, secondo cui il potere senza diritto è cieco, ma il diritto senza potere è vuoto, per comprendere quale sia il luogo
proprio di queste argomentazioni nel pensiero di Lask, ove campeggia appunto il ribaltamento della cecità in
nudità, finendo per ridefinire anche la posizione della vuotezza, come si vedrà in seguito. La domanda
riguarderebbe dunque – seguendo la declinazione laskiana – la nudità del potere ed il dimensionamento del diritto.
Cfr. C. MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, 2 voll., a cura di S. Cotta, Torino, Utet, 2006, in part., I, pp. 55-65;
G. RADBRUCH, Grundzüge der Rechtsphilosophie, Leipzig, Quelle & Meyer, 1914; ID., Einführung in die
Rechtswissenschaft, Leipzig, Quelle & Meyer, 1919; ID., Rechtsidee und Rechtsstoff, in «Archiv für Rechts- und
Wirtschaftsphilosophie», Bd. 17, 1923-24, pp. 343-350; ID., Rechtsphilosophie, nuova ed. Stuttgart, Koehler,
1932pp. 79-307; N. BOBBIO,Über den Begriff der Natur der Sache, in «Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie»,
XLIV, pp. 305-321; ID., Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Torino, Einaudi, pp. 161-199; A.
BARATTA, Relativismus und Naturrecht im Denken Gustav Radbruchs, in «Archiv für Rechts- und
Sozialphilosophie», 1959, Bd. 44, pp. 505-537; ID., Natura del fatto e diritto naturale, in «Rivista internazionale di
filosofia del diritto», XXXVI, 1959, pp. 177-228.

106
Il Pathos della Forma

complicazione effettiva, il suo aspetto di coinvolgimento e di modificazione dei fattori


materiali, completamente presa nel disegno di «un abbozzo di una legislazione ideale, con un
complesso di meri postulati, di norme di ragione degne di essere codificate ma che di per sé
non sono ancora diritto vigente, e la cui qualità formale di diritto può piuttosto svilupparsi
solo grazie ad esplicita introduzione da parte della legislazione positiva» 1 , Lask intende
schierarvi funzionalmente di contro l’analisi della «oscura esuberanza contenutistica
[Inhaltsüberschluß] dell’inesauribile fatticità» 2 , cui si dedica la Scuola storica, che fa proprio il
magistero di Savigny. Tuttavia, il confronto cui così si dà principio, tra la filosofia del diritto
e la metafisica del diritto, «ha comportato che la speculazione critica dei valori, lungi dal
respingere l’empirismo, piuttosto lo fonda e lo conferma. Ciò non toglie che il rovescio
della medaglia debba essere altrettanto energicamente sottolineato: cioè che la speculazione
doveva allora difendersi senza indugio dall’empirismo stesso, ed in particolare
dall’empirismo storico, non appena quello pretendeva di presentarsi come filosofia. È
infatti un’illusione oggi molto diffusa che, proprio nel campo della filosofia giuridica e
sociale, possa essere conquistata una concezione del mondo a partire dalle idee
fondamentali della Scuola Storica» 3 .
La fallacia che il tale approccio si annida, la quaternio terminorum che reca la determinazione
assolutamente storica dei plessi normativi, in quanto valoriali, non consiste dunque nella
medesima concezione storica del diritto, nella comprensione del dipanarsi della molteplicità
positiva degli ordinamenti istituzionali nella corrente del tempo, piuttosto nella specifica
concezione della realtà effettuale storica quanto all’universo formale del diritto.
«L’effettività storica – scrive Lask – essendo sempre racchiusa nella mera temporalità e, in
questa sua formale struttura fatticistica, restando ovunque uguale a se stessa. Non garantisce da
sé nessun principio di rivelazione del valore assoluto, ma si limita a dare un teatro al valore:
l’effettività storica può servire come mezzo di orientamento nella ricerca del valore
assoluto. In questo rapporto tra complesso dei fatti storici e quanto se ne può ricavare di
valore sovra-empirico, nulla cambia nemmeno di fronte a quelle incomparabili figure di
valore di significati sovra-storici come grandi personalità ed opere d’arte. Queste
rappresentano «individualità di valore» nel senso che contengono un surplus di valore e non
un mero surplus di realtà rispetto a quegli elementi classificabili in sistemi di valore,
mostrano cioè una irrazionalità che non va scambiata con l’impenetrabilità dell’unica realtà
spazio-temporale, ma si fonda, piuttosto, sulla irrisolvibilità di un contenuto di valore in
sistemi di valore. Anche la comprensione speculativa di siffatte grandezze di valore non

Un’angolazione, che consente di scorgere nell’ambigua nozione di diritto di natura le differenze semantiche
che si sono andate affastellando a suo carico, come un costante regolo storico-filosofico, tra l’accenno eracliteo al
λόγος ed il giusrazionalismo stoico, tra l’invenzione ciceroniana del diritto e la tripartizione tomistica, non più del
dirtto, ma, significativamente, della lex, in divina, naturalis ed humana, fino al pieno del dibattito
contemporaneo, è quella offerta da Piovani, sin dai suoi Lineamenti di una filosofia del diritto. Ciò che resta da
pensare – nell’ampia e doviziosa critica di Piovani al diritto naturale – non è infatti la mera dispersione del
legame giusrazionalistico e giusontologico, che vigeva nella fattispecie peculiare del giusnaturalismo cristiano
medievale, cominciata già con l’irruzione della pluralità delle ragioni umane ad opera della renovatio
rinascimentale, e sancita infine dallo scompaginamento dell’etica moderna, ma il tema della misura nell’istituzione
del diritto, e non solo, quale ancora vige nella determinazione del principio della normatività, e della sua incerta
esperibilità nello jheringhiano sentimento del diritto. Cfr. P. PIOVANI, Lineamenti di una filosofia del diritto, Padova,
Cedam, 1958; ID. Normatività e società, Napoli, Jovene, 1949; ID., Giusnaturalismo ed etica moderna, a cura di F.
Tessitore, Napoli, Liguori, 2000; P. PIOVANI (a cura di), La filosofia dell’esperienza comune di G. Capograssi, Napoli,
Morano, 1976. Quanto ad una lettura della decostruzione piovaniana del giusnaturalismo nella prospettiva di
riformulare, però, compiutamente, il suo, ancora urgente, importo problematico, rimandiamo a E.
MAZZARELLA, Vita, natura, diritto: la critica di Piovani al giusnaturalismo e le prospettive del diritto naturale, in
«Archivio di storia della cultura», XIV, [numero monografico dedicato alla filosofia di P. Piovani], 2001, pp. 334-341;
ID., Il diritto e la salvezza della vita: vita, natura, diritto, in E. MAZZARELLA, Vie d’uscita, Genova, Il Melangolo,
2005, pp. 103-119.
1 E. LASK, Rechtsphilosophie, in GS, cit., I, p. 283; trad. it. Filosofia Giuridica, cit., p. 21.
2 Ivi, p. 284; trad. it., p. 21.
3 Ivi, p. 289; trad. it., p. 27.

107
Il Pathos della Forma

sistematizzabili, che nascono una sola volta e «storicamente», è una tecnica creativa, un
uscir fuori del valore dalla temporalità, un emergere di incondizionati punti alti dalla totalità
del mondo culturale conosciuto dalle scienze empiriche. Ne consegue altresì che anche
questi valori «individuali» non possono essere semplicemente dedotti dalla realtà storica» 1 .
Le argomentazioni laskiane tornano così nel corso principale della formazione dei
complessi valoriali, dei nessi di valenza, nel tentativo di comprenderne il legame e la
differenza, l’intreccio e l’allontanamento in ciascuna concentrazione particolare, in ciascuna
di quelle che poi indicherà lucidamente come determinazioni materiali. Ciascuna
considerazione parziale che si presenti come completa, conclusiva, in altri termini, ciascuna
proposizione consideri l’inclusione della parte nella somma delle sue ecceterazione, come
assunzione risolvente la parte nella propria totalità, manca di rendere conto della duplicità
che ne sovrintende al rapporto, elude la presa di quanto è principalmente in esame: la
modalità della differenza. Perciò Lask può affermare, riguardo all’ambito giuridico, la
parallelità di giusnaturalismo e storicismo, può sostenere cioè che l’uno è das genaue
Gegenstück, l’esatto pendent dell’altro. «il giusnaturalismo vuol fare apparire magicamente il
sostrato empirico dalla assolutezza del valore, lo storicismo l’assolutezza del valore dal
sostrato empirico. Il giusnaturalismo, ipostatizzando i valori, distrugge l’autonomia
dell’empirico e cade nell’errore dell’a-storicità. […] Lo storicismo, d’altro canto – e non la
storia o la stessa concezione storica del diritto –, distrugge ogni filosofia e concezione del
mondo. Esso è la più moderna, più diffusa e più pericolosa forma di relativismo, il
livellamento di tutti i valori. Giusnaturalismo e storicismo sono i due scogli da cui la
filosofia del diritto deve guardarsi» 2 .
Eppure l’intera architettura metodologica sin qui delineata rimanda la propria solidità, al
mantenimento di quella pluralità, o meglio di quella differenzialità di dimensioni che entra
inevitabilmente in gioco nella Rechtswissenschaft. Che cosa si intende, infatti, nel considerare il
diritto come «fattore culturale reale, come fatto della vita sociale e come complesso di
significati, più esattamente come complesso di significati normativi esaminato nel suo
contenuto dogmatico» 3 ? Ed ancora, intendere l’adeguamento [Anschmiegung] dei concetti giuridici al
sostrato pre-giuridico nella duplice direzione di «un mantenimento di un certo nucleo psico-
fisico [Beibehaltung eines gewissen Kernes der psychophysischen Gegebenheit] – così quando distinzioni
naturali tra cose o tra fenomeni psichici penetrano effettivamente in qualche modo nel
mondo del pensiero giuridico – od, in secondo luogo, come adattamento [Anlehnung] alle
realtà, già teleologicamente formate, della vita e della cultura» 4 ?
Al fine di comprendere, dunque, tanto l’Anschmiegung, la stretta, la contiguità estrema, più
che una mera adeguazione eguagliante, e la Anlehnung, l’appoggio, l’accostamento della
concettualità giuridica al suo materiale, della gamma dei significati giuridici ai propri
riferimenti contenutistici, ed, in uno, ai loro sostrati, Lask introduce due modelli di
formazione della datità effettuale o culturale, che consentono di illuminare la soglia extra
ordinem, pre-giuridica, sia vorrechtliche che vorjuristiche, della costituzione delle formazioni
giuridiche. La prima riguarda la typische Gestaltung, la figurazione tipica, la tipizzazione
preparatoria del materiale alla regolazione giuridica, che rimanda essenzialmente agli studi
scientifici sul diritto ed, in particolare, sulla Statslehre, sulla dottrina dello stato di Jellinek 5 . In

1 Ivi, p. 290-291; trad. it., pp. 28-29.


2 Ivi, p. 291; trad. it., p. 29.
3 Ivi, p. 311; trad. it., p. 54.
4 Ivi, p. 279; trad. it., p. 67.
5 Nella Allgemeine Staatslehre, Berlino, O. Häring, 1900, JELLINEK, introduce alla metodica della dottrina dello

stato, come ad una ricerca tipologica, ove si intenda per tipo il suo medesimo oggetto – die Typen als Gegenstand
der Staatslehre, ivi, pp.31-39. «Il compito di una scienza dello stato e delle istituzioni stautali in generale è di
ricercare questi elementi tipici nei fenomeni statuali e nei loro rapporti reciproci» [ivi, p. 31]. Jellinek accoglie
il concetto di tipo in due accezioni differenti. «Nel primo caso, il concetto di tipo è inteso nel senso che esso
indica l’essenza perfetta di un genere, ad esempio nell’accezione platonica di idea, la quale si rinviene solo
imperfettamente nei fenomeni individuali, oppure intesa con Aristotele, come forza operante, formativa, che

108
Il Pathos della Forma

questo caso, la cogenza dell’esempio consiste nella possibilità di rinvenire una primitiva
morfologia di indicazione formale. La seconda figura evocata, invece, si riferisce alla
costituzione pre-giuridica di un livello di interdipendenza dei singoli, dunque di un grado di
istituzione sociale della trans-personalità, così come si ritrova nelle ricerche sul diritto
germanistica di Gierke 1 , nella specifica attenzione rivolta alla struttura complessa delle
corporazioni, in quanto capace di infrangere la frustra divisione tra societas e communitas,
Gesselschaft e Gemeinschaft, che proprio nell’introduzione dell’ordine giuridico, grafico,
artificiale, aveva uno dei suoi cardini discriminatori 2 .
Perché emerga appieno lo statuto proprio della pluridimensionalità in cui Lask inscrive la
descrizione dell’addentellato valoriale della norma giuridica, consideriamo una esposizione,
contenuta nella conferenza tenuta ad Heidelberg sulla confutazione di un primato della ragion
pratica nella logica, di poco successiva alla seconda edizione della Rechtsphilosophie, ove per la
prima volta viene apertamente tematizzata la questione della duplicità in seno alla relazione
formale della valenza. Laddove si assuma cioè la determinazione di una norma dinanzi
all’atteggiamento soggettivo, o meglio dinanzi all’atteggiamento personale pratico, la
ulteriore costituzione valoriale in cui ci si imbatte è «una forma il cui valore consiste nel
corrispondere al valore, il cui valore riposa sul lato soggettivo [ein mit dem Wert des
Wert e n t s p r e c h e n s, mit dem auf der subjektiven Seite stehenden Wert ausgestattetes Gebilde]» 3 .
L’obbietto normativo, l’Objekt, il momento obbiettivo in cui il valere, Gelten, diviene norma,
in quanto pretesa, Fordern, di validità, non è il valere obbiettivo, das objektive Gelten, ma
l’obbiettività di una prescrizione che ha come suo termine una corrispondenza, già una
relazione, o meglio la figura, Gestalt, di una relazione, ai cui capi si dispongono una
determinazione valoriale ed un atteggiamento personale. Ciò che una norma prescrive –
vale a dire il suo obbietto, non la sua intera costituzione oggettuale – è ormai la
determinazione di un comportamento, di un Verhalten, dunque di una modalità
esperienziale. Dal punto di vista della alterità del valere, l’esigenza normativa, das normative
Fordernde, «non è qualcosa che esige, ma qualcosa di richiesto [gar nicht ein Forderndes, sondern
ein Gefordertes]. Si spiega ora chiaramente anche l’ambiguità di tutte quelle espressioni come
esigenza, norma, comando, dover-essere [Fordern, Norm, Gebieten, Sollen]» 4 .
La norma giuridica, dunque, quale prescrizione normativa, strato elementare dell’apparato
deontico, completamente riducibile alla gamma delle declinazioni dell’obbligatorietà 5 , ove

sviluppa i singoli esemplari del genere» [ivi, p. 32]. «Il tipo ideale – secondo Jellinek – non è obbietto del
sapere, ma del credere, da ciò si deduce una certa affinità tra il dottrinarismo politico ed il fanatismo religioso»
[ivi, p. 33]. Il tipo, nonostante o proprio in ragione della sua figuralità, in quanto individuazione di un
Durchschnitt, è sempre coinvolto nel flusso dell’accadere storico [ivi, p. 36]. Compito della scienza diventa
dunque quello «di determinare una strada, in cui si incontrino il formarsi ed il trasformarsi dei singoli tipi» [ivi,
pp. 36-37].
Sul rapporto tra tipo e fattispecie, JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, cit., p. 37, n. 1: «Julianus L. 10 D. De Le
gibus, 1, 3: Neque leges, neque senatus consulta ita scribi possunt, ut omnes casus, qui quandoque inciderint, comprehndantur,
sed sufficit e tea, quae plerumque accidunt, contineri».
1 GIERKE, Die deutsche Genossenschaftrecht, 3 Bde., Berlin, Wiedmann, 1868-1881; ID., Die Genossenschaftstheorie

und die deutsche Rechtsprechung, Berlin, Wiedmann, 1887.


2 F. TÖNNIES, Gesellschaft und Gemeinschaft, Leipzig, Fues, 1887, trad. it, di R. Treves, Comunità e Società, Milano,

Comunità, 1979.
3 E. LASK, Gibt es einen «Primat der praktischen Vernuft» in der Logik?, in GS, cit., I, p. 354; trad. it. parz. di G.

Gigliotti, in G. GIGLIOTTI (a cura di), Il Neocriticismo tedesco, Torino, Loescher, 1983, pp. 223-224.
Qui, tra il riferimento della norma ad un contenuto, la fattispecie, un’elaborazione culturale, e ad un sostrato,
la realtà effettuale dell’esperienza vissuta, si apre lo spazio dell’ α̉πλω̃της, della nudità della vita; cfr. G.
AGAMBEN, Homo sacer, Torino, Einaudi, 2005, in part. 77-127; E. MAZZARELLA, Il diritto e la salvezza della vita:
vita, natura, diritto, in E. MAZZARELLA, Vie d’uscita, cit., pp. 103-119; ID., Gibt es auf Erden ein Maass? Es gibt
Keines…, ivi, pp. 121-152.
4 E. LASK, Gibt es einen «Primat der praktischen Vernuft» in der Logik?, in GS, cit., I, p. 355; trad. it. in G.

GIGLIOTTI (a cura di), Il Neocriticismo tedesco, cit., p. 224.


5 A questo riguardo, G. H. VON WRIGHT Deontic Logic, in «Mind», 60, 1951 pp. 1-15, poi in Logical Studies,

London, Routledge & Kegan Paul, 1957, pp. 58-74; trad. it. di G. di Bernardo, Logica deontica, in G. DI
BERNARDO, Introduzione alla logica dei sistemi normativi, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 125-140; ID., Norm and

109
Il Pathos della Forma

pure se ne intenda l’opposizione come infrazione od inadempienza, o la sua diramazione


debole come concessione, deve poter attecchire al suo obbietto, che possiamo qui intendere
anche come contenuto, e potersi misurare al suo sostrato. Deve cioè potersi riferire a due
formazioni che appartengono di certo all’ambito pre-concettuale, eppure si ritrovano in una
prima figurazione tipica, in forza dell’impregnamento precomprensivo e della
stratificazione culturale. All’altro capo della norma, quello che la lega alla trasformazione
normativa del valere, quello che riguarda la sua specifica coloritura di valore, la costituzione
nella realtà della sua valenza significativa, si erge una determinata formazione sociale,
qualcosa che – prendendo a prestito lo strumentario logico-sociale di Reinach – potremmo
definire come un sistema complesso di atti sociali 1 .
Scrive in proposito Lask: «trascurare l’ambiguità del concetto di norma, la frattura tra il
suo senso filosofico ed il suo senso empirico ( con la conseguente, in qualche modo
improvvisa contrapposizione della giurisprudenza come «scienza normativa» alle discipline
puramente empiriche), significherebbe confondere, nel modo più dannoso, i confini
metodologici, indipendentemente da tutte le analogie pure indubitabili. Certamente sia la
giurisprudenza sia la filosofia hanno ad oggetto non un esistente ma un puro significante,
non un essente, ma un dovente-essere, un qualcosa che pretende obbedienza. Ma mentre
questo carattere di dover essere deriva nella filosofia da una assoluta adesione di valori
[absolute Werthaftigkeit], per la quale non si dà alcuna autorità empirica, nella giurisprudenza
esso ha la sua causa formale nell’ordinamento positivo di una volontà sociale [seinen formellen
Grund in positiver Anordnung durch Gemeinschaftswillen]» 2 . Come dovrebbe risultare chiaro ciò
cui qui Lask fa riferimento – seppure in una non chiara presentazione dell’essenziale
problema della Statslehre ovvero quello dell’autorità istituita, o meglio della sovranità che
sancisce l’ingresso del plesso normativo nella consequenzialità assiomatica dell’ordinamento
– è una sorta di livello originario dell’istituzione sociale, ove sia possibile evitare la sua
remissione all’arbitrio ed al tatto personale [dem persönlichen Takt] del legislatore 3 . In questo
senso è dirimente la definizione di formalità del deposito sociale. «Il sociale è formale di
fronte al sostrato empirico del valore e formale di fronte alla individualità del valore. Esso
assume nel regno dei valori una particolare posizione intermedia. Concretamente, esso
appare come un mondo di nuovi valori transpersonali in rapporto alla esclusiva uniformità
del tipo di personalità individuale, e astrattamente o formalmente come valore sistematico
distinto dalla individualità del valore. Da questa posizione intermedia deriva (lo ha già
rilevato Windelband) che i valori sociali appaiono contenutisticamente dal punto di vista
del dovere dei singoli, formalmente di fronte ad ogni complessiva definizione individuale
della società stessa» 4 .
Provando a riassumere la determinazione dimensionale del diritto, del sistema giuridico,
quale può essere tratta dalla logiche Selbstbesinnung, dalla riflessione logica su se stesso, cui dà
espressione Lask nella pagine della sua Rechtsphilosophie, possiamo distinguere tra una
considerazione del diritto come fattore reale ed un’analisi del diritto come complesso di
significati, ulteriori piani concorrenti: da un lato, la tipizzazione materiale, che corrisponde
al precipitato, al deposito culturale degli atteggiamenti precomprensivi, dall’altro i gradienti

Action, London, Routledge and Kegan Paul, 1963; trad. it. di A. Emiliani, Norma e azione, Bologna, Il Mulino,
1989.
1 Cfr. A. REINACH, Die apriorischen Grundlagen, cit. trad. it. I fondamenti a priori del diritto, cit., in part. Pretesa,

obbligazione, promessa, pp. 23- 31; al riguardo K. MULLIGAN, Promesse ed altri atti sociali: costituenti e struttura, in S.
BESOLI, L. GUIDETTI (a cura di), Il realismo fenomenologico. Sulla filosofia dei circoli di Monaco e di Gottinga, Macerata,
Quodlibet, 2000, pp. 309- 384; B. SMITH, Per una teoria degli atti linguistici, in S. BESOLI, L. GUIDETTI (a cura di),
Il realismo fenomenologico, cit., pp. 385-418.
2 Ivi, I, p. 314; trad. it., p. 57. Sulla volontà sociale come volonta generale, si veda la lettura laskiana di Rousseau,

si veda E. LASK, Fichtes Idealismus und die Geschichte, in GS, cit., I, pp. 247-248.
3 Ivi, p. 289; trad. it., p. 27. Il brano cui facciamo riferimento è una interpolazione della seconda edizione della

Rechtsphilosophie (1907).
4 Ivi, p. 305; trad. it., p. 44.

110
Il Pathos della Forma

di formazione della valenza normativa, formanti un arco dall’assolutezza di senso del


valere, o della semplice funzione della valenza, alla determinazione sociale della pretesa di
validità in un ordinamento positivamente istituito, alla corrispondenza dello specifico
comportamento personale.
Nonostante tale quadro pluridimensionale del diritto non giunga alla consapevolezza ed
alla limpidezza espositiva che progetti con il medesimo intento concettuale avranno nelle
teorizzazione di M. Reale 1 o di W. Sauer 2 , è tuttavia chiaramente comprensibile come
quella moltiplicazione di piani cui riferire le formazioni oggettuali del diritto risponda al
percorso più vasto di una problematizzazione sulla figurazione del valore, che nelle opere
logiche mature riceverà la sua maggiore espressione. Se cioè l’eccezione di Reale 3 al sistema
laskiano, definito meramente bidimensionale – avente cioè solo le dimensioni della norma e
dell’effettualità culturale, a differenza di quello proprio tri-dimensionale, comprendente
valore, norma e attualità – rimanda essenzialmente alla esclusione reciproca tra i livelli, gli
strati, senza che sia possibile, tra di questi, passaggio, trasformazione o, semplicemente,
comunicazione, è necessario precisare come il nucleo teorico laskiano sia la differenziazione,
piuttosto che la commutazione. È senza dubbio assente nella sua riflessione qualsiasi ipotesi
dialettica 4 – fondamentale invece per la riuscita del tentativo gius-filosofico di Reale – che
si appunti su una derivazione emanatistica anche da una parte all’altra, anche da una parte
totalizzantesi ad una totalizzata.
Un’amplificazione interessante della differenziazione dimensionale nel diritto, presentata
in nuce nella Rechtsphilosophie potrebbe derivare invece dall’applicazione, delineata da N.
Luhmann, della teoria dei sistemi all’universo giuridico. Egli intende «il sistema giuridico di
una società come costituito da tutte le comunicazioni sociali che vengono formulate con
riferimento al diritto» 5 , così che «il diritto stesso, come una forma di restrizione delle
aspettative di comportamento, viene prodotto in ogni sistema della società, perché,
diversamente, l’interazione sociale non è possibile. Il processo di differenziazione di un
particolare sistema sociale, funzionalmente specializzato per il diritto, presuppone
restrizioni già disponibili in forma di diritto. Queste restrizioni, che sono sempre già

1 M. REALE, Teoria tridimensional do direito, São Paulo, Saravia, 1994; ID., Filosofia do direito, São Paolo, Saravia,

1954, trad. it. di L. Bagolini e G. Ricci, Torino, Giappichelli, 1956. cfr. A. CARRINO, L’irrazionale nel concetto,
cit., pp. 145-147.
2 W. SAUER, Neukantianismus und Rechtswissenschaft in Herbstimmung, in «Logos», Bd.10, 1921, pp.162-194, ID.

Juristische Methodenlehre, Stuttgart, 1940.


3 M. REALE, Teoria tridimensional do dereito, cit.; T.FERRAZ SAMPAIO, Die Zweidimensionalität des Rechts als

Voraussetzung für den Methodendualismus von Emil Lask, Meisenheim am Glan, A. Hain, 1968; ID., Concepcão de
sistema juridico no pensamiento de Emil Lask, in «Revista brasileira de filosofia», vol. 26, pp. 307-324; ID., Conceto de
sistema no direito, São Paolo, Atlas, 1976; ID., Concepcio de sistema juridico en el pensamento de E. Lask, Valparaiso,
1982; Direito, Politica, Filosofia, Poesia, São Paolo, Atlas, 1992, ID. Estudios de filosofia do direito, São Paolo, Atlas,
2003. Si vedano anche W. GOLDSCHMIDT, Introduciòn filosofica al derecho. La teoria triplista del mundo juridico y sus
horizontes, Buenos Aires, Depalma, 19734; E. DIAZ, Sociologia y Filosofia del Derecho, Madrid, Taurus, 1981.
Quanto alla recezione latinoamericana, soprattutto in ambito giusfilosofico, sin dalla prima traduzione in
lingua straniera della Rechtsphilosophie [Filosofia juridica, trad. sp. di R. Goldschmitt, Buenos Aires, Depalma,
1946] si veda K. HOBE, Emil Lask. Eine Untersuchung seines Denkens, Diss. Heidelberg, 1968; in part. cfr.
GALAN Y GUITIERREZ, La filosofia del derecho de Emil Lask en relacion con el pensamento contemporaneo y con el classico,
in «Revista general de Legislacion y Jiurisprudencia», vol. 89, n.3, pp. 132-162, pp. 361-412; L. RECASENS
SICHES, Panorama del pensamiento juridico en el siglo XX, Ciudad de Mexico, vol. 1, pp. 224-227; E. GARCÌA
MAYNEZ, El problema filosofico-jurìdico de la validez del derecho, Ciudad de Mexico, 1935; ID., El problema de la
objetividad de los valores, El Collegio Nacional, Mexico, 1969; ID., Introduccìon a la logica jurìdica, Colofòn, Mexico,
1993.
4 Sulla dialettica in Lask, vd. J. COHN, Rezension zu E. LASK, Gesammelte Schriften; ID.., Selbstdarstellung, in R.

SCHMIDT (hrsg. von), Die Philosophie der Gegenwart in Selbstdarstellungen, vol. II, Leipzig, 1923, pp. 61-80.
5 N. LUHMANN, La differenziazione del diritto, Bologna, Il Mulino, 1990, cap. 2 Differenziazione del sistema giuridico,

p.61. Sulla pregnanza della teoria luhmanniana dei sistemi sociali, e della differenziazione del diritto, in essa
inclusa, si veda F. CIARAMELLI, Istituzioni e norme. Lezioni di filosofia del diritto, Torino, Giappichelli, 2006, in
part. pp. 25-29 e pp. 109-118. Inoltre cfr. F. CIARAMELLI, Creazione e interpretazione della norma, Troina, Città
Aperta, 2003.

111
Il Pathos della Forma

esistenti, permettono due diversi usi nel processo di comunicazione. La loro separazione e
la loro ricombinazione attivano il processo di differenziazione» 1 . Mediante il rapporto
frontale tra la sovranità basale, il piano di determinazioni semplicemente trans-personali
dell’indirizzo al valore, e la sovranità della decisione, quale specifica caratteristica della
normatività giuridica si cerca di intendere la corrispondenza tra imputs dei casi ed imputs
delle premesse decisionali. «Attraverso il processo di differenziazione di un sistema del
diritto, la funzione giuridica, che deve essere soddisfatta nella società in tutta la sua
ampiezza, viene ricostruita con riferimento ad una differenza tra sistema (del diritto) ed
ambiente all’interno della società. La funzione ed il suo problema di riferimento restano
rilevanti per l’intera società; essi possono essere presupposti ovunque e ad essi si può fare
appello ovunque: questo però solo nella forma del superamento di un limite» 2 .
Ciò consente a Luhmann di indirizzare i suoi sforzi verso una teoria del diritto sovradogmatica
e sovrapositiva, ovvero ad una teoria del sistema giuridico il cui compito sarebbe quello di
«indagare come, per mezzo della struttura categoriale del diritto, vengano orientati
l’interdipendenza delle decisioni ed il loro potenziale innovativo e come vengano bilanciati
con le altre esigenze del sistema» 3 . Una determinazione sistemica del diritto, in cui sia
proprio la comprensione dello specifico processo di differenziazione a rendere esplicabile
l’irrimediabile asimmetria tra internità ed esternità, tra assunzione e delimitazione decisionale,
tra permanenza normativa e temporalità effettuale. «La teoria dei sistemi ed in particolare la
rappresentazione di una differenziazione tra sistema della società e sistema giuridico
fornisce la possibilità di comprendere il diritto come regolazione della contingenza; essa in
articolare permette di comprenderlo non solo nella sua normatività – come una esclusione
di altre possibilità che è oggetto di aspettativa controfattuale, ma proprio per questo non è
ancora effettiva – ma con l’ausilio di una relazione sistema/ambiente che può essere
indicata con maggiore precisione. Tutto il diritto sta in una relazione fondamentale con il
problema della contingenza dell’agire umano, vale a dire, con il fatto inconfutabile che gli
uomini possono anche agire diversamente da come ci si aspetta. Anche la formazione di
sistemi non esclude la contingenza. Quando però vengono apprestati sistemi per la
produzione di decisioni giuridicamente vincolanti, questo problema assume una forma
particolare, cioè la forma di una certezza doppiamente contingente. La contingenza allora,
non viene negata direttamente, non viene ridotta per il fatto che la si elimini e che si
costringa l’agire entro una sola possibilità, che diviene, quindi, necessità: essa viene ridotta
per il fatto che la si accresce. Accanto alla contingenza dell’agire sociale viene costruito un
secondo ambito dell’agire anch’esso contingente, cioè il sistema della decisione giuridica» 4 .

4.3. Sulla possibilità di una teoria degli oggetti istituiti socialmente.

L’intera nostra lettura della Rechtsphilosophie ha mosso dal tentativo di indicare nell’ambito
formativo del diritto una modalità di determinazione oggettuale del tutto impropria alle
pertinenze tematiche, contenutistiche, oggettuali delle Einzelwissenschaft, delle singole
scienze, dunque di rinvenire una peculiare figurazione concettuale dell’oggetto, così come
emergeva dal dettato del problema logico-trascendentale. «Non temiamo – scrive Lask,
principiando la trattazione metodologica sulla scienza giuridica – di considerare come realtà
[Realitäten] anche gli oggetti delle singole discipline culturali formalistiche [die Objekte der
einzelnen formalistischen Kulturdisziplinen], nelle quali l’estraneamento artificiosa dal sostrato di
realtà, originario in senso gnoseologico, ha progredito infinitamente oltre» 5 . Dunque, le
formazioni di significato, come quelle giuridiche, che devono la consistenza del loro aspetto

1 Ivi, p. 65.
2 Ivi, p. 67.
3 Ivi, cap. 6, Contributi della teoria dei sistemi alla teoria del diritto, p. 182.
4 Ivi, p. 201.
5 E. LASK, Rechtsphilosophie, in GS, cit., I, p. 312; trad. it. Filosofia Giuridica, cit., p. 55.

112
Il Pathos della Forma

alla determinazione tecnica, propria del tenore meccanico della costruzione di un


ordinamento giuridico, possono essere considerate come una particolare tipologia di oggetti
obbiettivati, di objektive Gegenstände. Essi sono, come scriverà Reinach qualche anno dopo, «un
tipo del tutto nuovo di oggetti [Gegenstände], oggetti che non appartengono in senso vero e
proprio alla natura, che non sono né fisici né psichici, e che, insieme, per la loro
temporalità, si distinguono anche da tutti gli oggetti ideali [ideelle Gegenstände]» 1 . Risulta,
quindi, evidente, che alla considerazione logica è rimessa la determinazione di questa specie
oggettuale, curandosi della complicazione di livelli, di dimensioni, di differenziazioni, che li
compongono.
In un luogo a tutta prima inconsueto per considerazioni di ordine giuridico e di dottrina
dello stato, in un paragrafo di Erfahrung und Urteil dedicato alla distinzione di oggettività reali ed
irreali nel suo significato esteso, Edmund Husserl apre una riflessione illuminante per lo stadio
della ricerca cui siamo giunti. «Un altro caso di oggettività irreale che ci condurrà ad una
importante distinzione nel dominio delle irrealtà è quello della costituzione politica. Uno
stato (come nazione) è una realtà mondana plurimo-unitaria. Esso possiede una sua
particolare localizzazione in quanto ha un territorio come reale ambito territoriale in cui
gode della sua sovranità. La costituzione ha una idealità in quanto è un’oggettività
categoriale, espressione della volontà dello stato, o anche del dovere statale che in tempi
diversi è riproducibile, riattivabile, riconoscibile ed identificabile da persone diverse. Ma nel
suo riferirsi ad una nazione determinata nel mondo, questo ideale possiede ancora una sua
irrealtà di specie propria. La sua riproducibilità (riattivabilità) da parte di ognuno indica che
ciascuno lo può riprodurre nel senso di dovere che all’ideale appartiene e che è ora identico
in rapporto alla localizzazione nel mondo. A questo punto noi dobbiamo distinguere la
riattivabilità autentica da parte del cittadino che nella sa volontà di cittadino porta in sé la
volontà dello stato ed è funzionario di esso, dalla riattivabilità in autentica da parte di colui
che sta al di fuori dello stato, come chi eventualmente ne studia la costituzione da un mero
punto di vista storico» 2 .
È la duplice misura di costruttività nelle istituzioni giuridiche a renderne il carattere
peculiarmente oggettuale: qui, proprio dinanzi a quella che, delle forme che danno
figurazione, è la più avventata, intempestiva, il diritto, torna ad aprirsi la domanda sulla
formalità e sulla sua determinazione materiale. Questo rende la soglia giuridica nel pensiero
laskiano un passaggio preliminare, sempre precedente, ed allo stesso tempo un rimando
ultimo, ancora da venire compreso.

1 A. REINACH, Die apriorischen Grundlagen, cit.; trad. it., cit., p. 23.


2 E. HUSSERL, Erfahrung und Urteil, §. 65, p. 321; trad. it., Esperienza e Giudizio, a cura di F. Costa, Milano, Silva,
1965, p. 300. Sull’intendimento fenomenologico della costituzione stratificata dei differenti tipi di comunità, tra
cui quella sociale e, quindi, quella propriamente giuridica, si vedano E. HUSSERL, Ideen II, in HUA, cit., IV, §§.
50-52 e 60 c)- d), pp. 185-208 e pp. 268-275; trad. it., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica,
cit., II, pp. 189-212 e pp. 268-274; E. HUSSERL, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, in HUA, cit., I,
§§. 55-58; trad. it. di F. Costa, Meditazioni Cartesiane, Milano, Bompiani, 19942, pp. 139-153. Riguardo alla
possibilità di una «esperienza sociale» in cui siano date le oggettualità sociali, si veda in particolare l’Aggiunta al §. 51
delle Ideen II, in cui Husserl comprova efficacemente su distinte tipologie di istituzioni sociali l’ordito delle
variazioni eidetiche. Uno dei rari studi riguardanti i lineamenti di dottrina politica rinvenibili nelle riflessioni
husserliane, si deve all’acribia di K. SCHUHMANN, Husserls Staatsphilosophie, Freiburg/München, Verlag Karl
Alber, 1988, ove si presta attenzione all’interdipendenza tra la configurazione teorica dello Stato e la
determinazione di differenti tipi di comunità, ovvero diversi livelli di determinazione di un ambito
comunitario. Inoltre cfr. R. CRISTIN, Il diritto del fenomenologo. G. Husserl e la fondazione fenomenologico-giuridica della
comunità intersoggettiva, in G. HUSSERL, Diritto e Tempo, Milano, Giuffrè, 1998, pp. V-XXIX.

113
Il Pathos della Forma

III. Differenza e Significazione.

§. 1. Estetica della differenziazione. Una lettura di Jonas Cohn

…aprirai le mani e sentirai il sudore delle palme e


forse ricorderai che nascesti senza linee di vita o
fortuna, di vita o di amore: nascesti, nascerai col le
palme lisce, però basterà che tu nasca perché, in poche
ore, questa superficie in bianco si riempia di segni, di
righe, di annunci: morirai con le tu linee dense, stanche,
ma basterà che tu muoia perché, in poche ore, tutte le
tracce del destino scompaiano dalle tue mani…

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Il Pathos della Forma

C. Fuentes, La muerte de Artemio Cruz

Nelle ultime righe della Rechtsphilosophie ormai Lask consegna alla lettura un lucido
rendiconto della propria opera, comprendendo non solo il tracciato propedeutico che
aveva attraversato la scienza giuridica, la portata delle sue questioni, la specificità
inesauribile delle modalità proprie della costituzione di significato, ma anche i frutti di una
meditazione più vasta: quella che si andava misurando con la vicenda storica e filosofica
dell’Idealismo tedesco, sin da quando era stata compiuta la ricerca del Fichtesbuch. Lungi
dall’indicare una piana e monotona continuità nell’elaborazione e nel procedimento del
pensiero laskiano, facendo strali di un’ampiezza tematica e di una disomogeneità
argomentativi, questa ricostruzione ripercorre piuttosto la composizione di un arco
interrogativo, che ha collezionato insieme una prima riflessione sulla storia della logica, con
riguardo alle modificazioni semantiche succedutesi all’interno del modello aristotelico di
una logica apofantica formale, ovvero di una logica formale, in quanto traduzione
formalizzata delle possibili complessioni del giudizio, ed, in uno, la considerazione accurata
della concettualizzazione trascendentale del vuoto, scavato nella trama del pensiero dalla
Zufalligkeit, dall’accidentalità; essa riguarda cioè l’inquietarsi di una domanda che ha trovato
nel tessuto temporale della storicità, il modificarsi, l’avvolgersi, il complicarsi di formazioni
di senso, prime tra tutte quelle giuridiche, la cui comprensione attraversa ed eccede il piano
su cui con tutta evidenza attecchiscono. Così la tendenza verso la logische Selbstbesinnung, verso
una risignificazione che sconta la propria logicità in quanto fa questione del da se stesso, da
cui parte, tocca certo la giurisprudenza, in grazia del suo ruolo esemplare, ma finisce anche
per ricadere oltre di essa, in quel sistema coerente, che dovrebbe essere capace di darle asilo.
Se tuttavia l’importo più rilevante che Lask, in questo stadio del suo pensiero, può recare
alle sue spalle, è la trasformazione della primitiva disposizione trascendentale della dualità
generale-particolare, quale emergeva nella riflessione sulla ripresa del problema dello
schematismo trascendentale, oltre Kant, in Maimon e Fichte, nell’assunto metodologico di una
duplicità metodologica a fronte di una elaborazione scientifica, che esalta la
differenziazione dei riguardi, quella del diritto, no va tralasciato come questo implichi anche
la dispersione di un potenziale teoretico, che pare irriducibile allo stretto filtro normativo.
«In questa sede» – scrive Lask indicando ben più di una lacuna della propria Rechtsphilosophie
– «abbiamo trattato della teoria generale del diritto unicamente come oggetto di ricerca
della metodologica, così che non solo la trattazione scientifico-sociale e storico-culturale del
nesso vitale del diritto con le altre forze vitali è bandita dalla filosofia, ma anche i più
generali problemi giuridici concernenti il rapporto tra Stato e diritto, diritto oggettivo e
diritto soggettivo ecc, sono rimessi alla scienza empirica» 1 .
Oltre che accennare alla dissipazione di un potenziale tematico, rescisso nella
moltiplicazione delle sfere di competenza, decise ad un livello meta-teorico, qui inizia a farsi
largo una stratificazione che solo nel ricorso osservativo e sperimentale realizzatosi
nell’intenso corpo a corpo con le formazioni giuridiche, può venire alla luce, beneficiando
di sé un ambito di riflessione ben più vasto. Ne è esempio, la trattazione dei concetti di
Stato e di comunità così come si evolve e si distingue nella terza parte del Fichtesbuch, rivolto
propriamente alla filosofia fichteana della storia e nei rudimenti di Staatslehre rinvenibili nella
Rechtsphilosphie. Se nella prima evenienza l’attenzione era attratta dal modo in cui la
determinazione di uno spazio vissuto comunitario, della communitas e della sua
equivocazione come Nation, riusciva a soddisfare l’esigenza di una universitas effettuale, a
fronte dell’universalitas generale, peculiare del disegno analitico-formale kantiano, nella
1 E. LASK, Rechtsphilosophie, in GS, cit., I, p. 328; trad. it., Filosofia Giuridica, cit., p. 72.

115
Il Pathos della Forma

seconda la trattazione si sposta verso la verifica di modalità ed atteggiamenti, occasionali,


storici, in cui venga costituito un dominio comune, come nella formazione già giuridica
delle corporazioni nel diritto germanico. Laddove, cioè, nel primo caso, in una trattazione,
che pretende per sé il titolo di logica dell’oggetto storico, l’intenzione pare quella di ritrovare una
tipologia di raccoglimento dell’essenziale accidentalità storica, in un modulo che riuscisse a
tener conto delle eccezioni recate dall’intenzione hegeliana dell’oggettività giuridica, nel
secondo la mira è piuttosto di verificare il formarsi, in una lettura analitica della storia dei
popoli, di livelli di condivisione, di determinazioni sociali dell’essere in comune, come
generanti il complesso giuridico. In questo senso, nell’accostamento dei due itinerari, solo
apparentemente coincidenti, il Gemeinsam si presenta differente tanto dalla generalità quanto
dalla identità, tanto dalla depurazione astraente quanto dalla generazione unitaria. Il
dispositivo giuridico esige, cioè, due condizioni disposte diametralmente: la riconoscibilità
delle fattispecie, la loro distinzione in una grammatica univoca, quanto al suo materiale, e la
dimensione ordinamentale del sistema normativo, l’interna coerente consequenzialità,
quanto alla sua forma. Di contro si assestano due mancanze, due strappi: la differenziazione
tra materiale e sostrato giuridico, tra le preformazioni culturali che la norma giuridica
coinvolge, facendone il proprio argomento, e la datità pre-formativa, la sottrazione del
Niemals-Ruhe, dell’inquietudine vitale a ciascuno, che reca e sostiene la scale delle
determinazioni formali, ma non ne viene compresa. Il tema, consueto alla Scuola Badense, del
limite, del resto individuale rispetto alla generalità del valore, si frattura, in Lask, da un lato,
nella questione dell’individuazione del valore in formazioni trans-personali, e non più
meramente universali, di cui è esempio la costituzione dello Stato, e, dall’altro, in quella
della differenziazione quale dimensione propria della formazione del senso.
Quanto abbiamo, dunque, nominato in precedenza come prima formulazione trascendentale
della dualità, vale a dire la figurazione del qualcosa quale compito del pensiero, era tributario
della convergenza di due itinerari: quello della figurazione artistica e quello delle formazioni
analogiche matematiche. Figurazione ed analogia rappresentano quel campo mediano che –
nel quadro per immagini che Lask ci restituisce della formazione trascendentale dei concetti –
separa la possibilità analitica della logica da quella emanatistica. Figurazione ed analogia
sono due aspetti della relazione tra costituzione e costruzione, che rispondono tuttavia ad
un esame più attento ad esigenze euristiche differenti. Mentre nel primo caso, quello
dell’arte, la disunione dei membri, la disparità materiale intacca la forma estetica, la ritrae
sull’opera, la dissemina, consegnandole solo la traccia dell’unità, nel secondo, quello della
matematica, l’originaria equivocità del dato, la multiformità oggettuale che lo precede, si
risolve nel disegno, nella costruzione di un piano unitario, in cui ciascuna differenza è
rimandata alla gradualità, alla divisione senza scarto della continuità. Proprio in grazia della
frattura, dello smembramento, da cui muove, la domanda che si apre dinanzi al Kunstwerk
riguarda la sua unità di senso, così come la questione propria alla determinazione matematica
è – seguendo l’indicazione di Hermann Cohen – quella dell’unità, da cui poter derivare la
molteplicità 1 . Figurazione ed analogia rappresentano pertanto due modalità distinte per
rendere la differenza, quale relazione tra unità e molteplicità: la prima risalendo alla
gestaltende Bild, alla forma capace di dare figura, intende la differenza come alterazione, come
differenziazione; la seconda, mediante l’essenziale nozione di funzione, assume ciascuna
differenza all’interno di un campo di variazione, ove emerge con chiarezza la costitutività
analitica di un sistema assiomatico, ovvero che l’articolato formale della matematica si lega,
si compone costitutivamente, pur tenendo ferma la sua propria riflessività. Arte e
matematica, figurazione ed analogia, differenziazione e variazione edificano così un teatro

1 È interessante notare come il concetto di Stato funga da terreno di confronto tra analogia e figurazione, in
qualche modo tra arte e matematica, in virtù della confluenza in esso di un intento tecnico costruttivo, che
rimanda ogni formazione statuale al proprio luogo, alla propria localizzazione, e di una aspirazione analogica,
che ne consente la ripetizione ed allo stesso tempo il riconoscimento.

116
Il Pathos della Forma

ideale in cui mettere in scena le argomentazioni laskiane circa costituzione e costruzione,


circa l’espressione filosoficamente compiuta della dualità forma-materia.
Seppure esula dalla competenza di questi studi un approfondimento della differenza, in
cui ora stiamo rendendo i plessi di analogia e formazione nel pensiero di Lask, questa
disposizione offre nella maniera più distinta una visione della ripresa ulteriore della
questione riguardante la dualità, nella forma in cui era custodita sul margine estremo del
suo più maturo corpus logico. Ove cioè al termine individualità corrispondevano già
individuazione e materialità, ed al termine materialità, ancora contenuto, sostrato, materia,
mentre nel concetto di generalità si aprivano le nozioni di formalità e validità generale,
tracciando un perimetro filosofico, che pretendeva di dare luogo all’idea di una filosofia
trascendentale come Geltungsphilosphie, nel progetto di una Logik der Zukunft.

1.1. La costruzione insatura della matematica.

Perché si possa intendere in tutta la sua ampiezza il ruolo che giocano le riflessioni
preparatorie che comprendono gli atteggiamenti dell’arte e della matematica riguardo al
problema dell’oggettualità, ovvero allo statuto di intendimento dell’oggetto, sembra
necessario includere ora il confronto con le opere di Jonas Cohn, quel pensatore che
insieme allo stesso Lask ed a Bruno Bauch formava il ristretto circolo dei più giovani dei
neokantiani, i quali procedevano ormai oltre i limiti tematici della Scuola sud-occidentale, di
cui facevano parte, segnandone un inatteso esito. Mettendo a frutto la sua formazione
scientifica, trascorsa negli studi chimici e biologici, Cohn, nel suo periodo friburghese, a
contatto con le letture di Cohen e con gli insegnamenti di Rickert e Windelband, procede
ad un approfondimento degli studi di estetica e di logica e teoria della conoscenza 1 . Il
percorso, che lega i testi, cui ci riferiremo con maggiore insistenza, la Allgemeine Ästhetik e
Voraussetzungen und Ziele des Erkennens 2 , ove i motivi del neocriticismo si mescolano con una
profonda conoscenza dei nuovi assunti della logica matematica, da Dedekind a Russel, è
l’espressione di una lenta e complessa elaborazione del tema del margine materiale alla
formalizzazione teoretica, in una chiara consonanza con Lask almeno quanto alla
individuazione ed alla posizione del problema. Vieppiù, l’accostamento dei Denkwege di
Cohn e Lask non funge soltanto da presentazione di un terreno teoretico comune, di una
condivisa interrogazione riguardo a quella mina alogica nel pensiero, che Rickert aveva
contribuito ad illuminare, ma riesce a costruire un’ipotesi comparativa degli esiti teoretici,

1 «Il mio proprio sviluppo – scrive Jonas Cohn nella sua Selbstdarstellung – mi aveva condotto in prossimità dei
pensieri di Windelband e Rickert; tanto più incisero il rapporto personale e quello mediato dallo studio
vissuto [belebte Studium] con i loro scritti. L’allontanamento dallo psicologismo, cui in parte ero legato quanto
alla logica ed alla teoria della conoscenza, giunse a compimento grazie allo studio degli scritti kantiani di
Hermann Cohen, avendo conseguenze più generali, sino a comprendere anche l’estetica e l’etica. Imparai ad
intendere la filosofia come scienza critica dei valori, giungendo alla più chiara consapevolezza del compito che
in me era nato per necessità interna». J. COHN, Selbstdarstellung, cit., pp. 64- 65. Sulla formazione di Cohn,
sull’annodarsi nel suo pensiero dei primi studi giovanili di botanica e delle ricerche pedagogiche, di riflessioni
sulla logica matematica e di motivi religiosi, riemergenti dalla sua radice ebraica, in ragione della quale fu
costretto a riparare in Inghilterra nel 1939, a causa delle persecuzioni naziste, rimandiamo ad alcune opere che
tengono ben serrati il profilo biografico e quello teoretico: S. MARCK, Am Ausgang des jüngeren Neu-
Kantianismus. Ein Gedenkblatt für R. Hönigswald und J. Cohn, in «Archiv für Philosophie», 3, 1949, pp. 144- 164;
H.-L. OLLIG, Der Neukantianismus, Stuttgart, Metzler, 1979; W. FLACH, H. HOLZEY, Erkenntnistheorie un Logik
im Neukantianismus. Seminar-Textbuch 1. Fach: Philosophie, Hildesheim, Gerstenberg, 1980; S. NACHTSHEIM, Jonas
Cohn, in W. WOLANDT, Ostdeutsche Denker, Bonn, 1992, pp. 197- 199; M. FERRARI, Il Neocriticismo, Roma-Bari,
Laterza, 1997, pp. 197- 198; M. HEITMANN, Jonas Cohn, Philosoph, Pädagoge und Jude. Gedanken zum Wedergang
und Schicksal des Freiburger Neukantianers und seiner Philosophie, in W. GRAB, J. H. SCHOEPS, Juden in Weimarer
Republik. Skizzen und Porträts, Darmastad, Primis-Verlag, 1998, pp. 179- 199; E. MASSIMILLA, Avalutatività,
valutazione e teoria del valore. Jonas Cohn versus Max Weber, in «Archivio di storia della cultura», XIII, 2000, pp.
205- 254.
2 J. COHN, Allgemeine Ästhetik, Leipzig, Engelmann, 1901; ID., Voraussetzungen und Ziele des Erkennens.

Untersuchungen über die Grundfragen der Logik, Leipzig, Engelmann, 1908.

117
Il Pathos della Forma

risarcendo l’incompiutezza del pensiero laskiano attraverso l’indicazione del problema di


una relazione dialettica, che elegge a suo ascendente più Scheiermacher che Hegel, quale
modello di comprensione della originaria dualità 1 .
L’argomento movente, cui Cohn dedica interamente le sue fatiche filosofiche, viene reso
nella maniera più icastica nella coppia di presupposto e mira, od in quella di Vorbegriff e Begriff,
precedenza al concetto e concettualizzazione, in cui viene esposto il riguardo della forma –
nelle differenti modalità che essa può assumere – rivolto a qualcosa di altro, di estraneo alla
propria stoffa, in quanto contenuto. Il suo tentativo si risolve nel sottoporre a verifica le
diverse tipologie di composizione formale in base al rapporto che intrattengono con il
sostrato materiale, cui fanno indicazione. Eminente, dunque, non è soltanto acclarare la
distinzione statica tra forma e contenuto, la loro mera disposizione frontale, piuttosto
intendere come se ne possa delineare il rapporto significativo, dismettendo la frustra
considerazione della polarità. Ciò che grava sul pensiero è come possa formarsi il
contenuto o come possa saturasi la forma, rimontando così alla loro reciproca differenza.
Cosa importa dunque intendere la costruzione, la produzione artistica rispetto non solo
alla superficie, alla massa materiale che maneggia, che forma, che adopera, ma anche al suo
rivolgimento, a ciò cui accenna nel suo farsi opera? Cosa espone – alla riflessione filosofica
– il trattamento dell’arte in virtù della sua causalità materiale? E, d’altro canto, come la
considerazione di un Minimum der Denkfremdheit, di un minimo di estraneità al pensiero,
riesce a chiarire la costituzione oggettuale propria del procedimento matematico?
Tali sono le questioni in cui si scioglie, nella prima lettura di Lask, la dottrina cui Cohn,
con evidenti echi religiosi, diede il nome di Utraquismo 2 , che, muovendo dall’irriducibile
alterità tra i presupposti e le mire della conoscenza, intende accostare, senza conciliazione
alcuna, un sensismo critico ed un razionalismo critico.
«La grande diversità» – scrive Cohn concludendo la prima parte di Voraussetzungen und
Ziele des Erkennens – «di quelle connessioni, che rappresentano le mire della conoscenza,
dimostra già che l’Utraquismo di queste mire, come quello dei presupposti, non può essere
formulato in un principio unitario; pare piuttosto che questo si esprima proprio nella
molteplicità delle mire. […] Con il principio dell’Utraquismo, che abbiamo indicato come
risultato della nostra analisi dell’evidenza del giudizio, sono conciliabili ancora teorie molto
differenti fra di loro. Questo afferma solo che ogni giudizio contiene una parte evidente del
pensiero ed una di ciò che è estraneo al pensiero, che non possono essere ricomposte l’una
con l’altra. Non si esclude in alcun modo che queste due parti evidenti abbiano un
significato molto differente per le mire della conoscenza. Secondo l’Utraquismo, un certo
sensismo sembra in qualche modo compatibile con i presupposti, mentre un certo
razionalismo sembra compatibile con le mire della conoscenza. Un sensista siffatto
dovrebbe considerare le forme della conoscenza come un mezzo ausiliario per il
raggiungimento della pura datità [der reinen Gegebenheit]; il razionalista invece, con il

1 J. COHN, Teorie der Dialektik. Formenlehre der Philosophie, Leipzig, F. Weiner, 1923. A tale proposito, scrive
Cohn, ancora nella Selbstdarstellung, cit., pp. 79-80: «Bisogna in primo luogo riconoscere il diritto della
dialettica, disporre una teoria della dialettica, chiarire i suoi presupposti, le sue mire, le sue forme. Quella
hegeliana non è l’unica forma dia dialettica; già Schleiermacher mostra la necessità di compierla. Inoltre è
errata l’idea hegeliana per cui il sistema della verità segua uno sviluppo lineare. Il sistema del vero è una
formazione multidimensionale, la cui presentazione nel tempo non può essere unidimensionale. Deve essere
dialettica ogni ricerca che non si contenti di rimanere in un ambito ben determinato, che non voglia essere
confinata in una singola scienza, ma aspiri ad essere filosofica. Perciò, la teoria della dialettica è una logica
della filosofia. Questione, il cui significato specifico è stato riconosciuto da Emil Lask».
2 Il termine utraquismo deriva dalla denominazione di una dottrina eretica hussita che pretendeva per ciascun

uomo la comunione sotto le due specie del pane e del vino (sub utraque specie); essa venne promulgata per la
prima volta nel 1414 da Giacomo de Mies, professore all’Università di Praga, e condannata poi come eretica
dai concili di Costanza, Basilea e Trento. L’utilizzo esteso di questo termine tuttavia è rinvenibile anche nella
teoria dell’analogia, come continua oscillazione tra proiezione ed introiezione, mediante cui Sandor Ferenczi
cerca di ricostruire e comprendere psicoanaliticamente il metodo matematico, ovvero la prensione matematica
dell’oggetto. Cfr. S. FERENCZI, Matematica, in ID., Fondamenti di Psicoanalisi, vol I, Rimini, Guaraldi, 1972.

118
Il Pathos della Forma

progresso della conoscenza, dovrebbe esigere in maniera sempre crescente di mettere al


posto della datità determinazioni del pensiero [Denkbestimmungen]» 1 .
Con ogni evidenza, la frattura cui Cohn si riferisce, risalendo alla disposizione medesima
della conoscenza, richiama la duplicità già esplicata da Rickert – facendo fede al dettato
kantiano – consistente tra l’idealismo trascendentale, indicato come Aufgabe, compito, ed il
realismo empirico, che proprio nello svolgimento di quel compito ha da essere corretto e
fondato 2 . È pertanto comprensibile sin da subito come il fulcro attorno a cui ruota la
questione della duplicità, sia piuttosto la determinazione accurata del modo in cui si dà la
distanza, la separazione su cui si stende l’indicazione ed il riempimento della conoscenza.
Che si assicuri, in altri termini, l’eterogeneità, ovvero la non convertibilità della precedenza
al concetto nella realizzazione concettuale, nella ben determinata formazione concettuale,
può sì soddisfare una condizione del intendimento logico della teoria della conoscenza, ma, non
per questo, ne rischiara affatto l’ambito, né la portata, né l’ufficio. Sarà piuttosto l’esibizione
doviziosa delle specie di formalizzazione, delle determinazioni in cui il deposito materiale si
trova, della definizione di un impianto formale passibile di inclusione, di incorporamento,
di accenno al materiale, a rivelarsi decisiva, sia nell’incedere della riflessione cohniana, sia,
ancora con maggior rilievo, nella lettura che Lask ne farà ininterrottamente, nella
composizione delle sue opere, talora per rinvenire un appoggio affidabile, un ricorso
comprovante, talaltra per riconoscerne differenze, ostacoli, correzioni. In quest’ottica, il
banco più solido su cui provare la saldezza della teorizzazione cohniana sulla differenza e
sul ruolo della dimensione materiale, è quello offerto ancora una volta dalle costituzioni
formali della scienza matematica e dell’arte.
Riprendendo nel suo Hauptwerk logico le conquiste più recenti dell’analitica logica
generatesi nell’ambiente anglosassone, in particolare nelle ricerche sui fondamenti logici
della matematica di Bertrand Russel, ove trovano rettificazione in un differente complesso
sistematico le riflessioni fregeane sul riferimento concettuale, Cohn colloca al centro della
trattazione sulla Begriffsbildung, o meglio sui suoi estremi, una estesa esposizione di quella
nozione di numero, cui già aveva dedicato il suo testo di esordio filosofico, recante il titolo
di Geschichte des Unendlichkeitsproblems in abendlandischen Denken bis Kant 3 . «Sin da Platone» –
scrive Cohn – «le determinazioni di misura e di numero sono state elogiate come sono state
elogiate come puramente concettuali [gedanklich]. Bisogna tuttavia mostrare come anche gli
oggetti ultimi, più astratti, che qui vengono esaminati, tutti i numeri naturali, contengono
un elemento estraneo al pensiero [ein denkfremdes Element]. Un numero è un aggregato
[Inbegriff] di unità, che si raccoglie in unità. Nella composizione, il numero contiene già una
relazione: le sue parti semplici, di cui qui solo ci occupiamo, sono dunque unità. Si potrebbe
protendere a considerare l’unità come la semplice forma della posizione [Setzung]. Tuttavia
poiché questa forma è in ogni oggetto la stessa, in questa guisa non si potrebbe intendere il
modo in cui solo da questa forma si possano derivare elementi distinti, in quanto separati

1 J. COHN, Voraussetzungen und Ziele des Erkennens, cit., pp. 154- 155.
2 H. RICKERT, Der Gegenstand der Erkenntnis, cit., p. 166: «Ora dobbiamo rivolgerci alla domanda, se l’idealismo
trascendentale, può unirsi a quei presupposti, che dal punto di vista delle singole scienze non si possono
abbandonare, senza perdere il proprio senso, dobbiamo cioè mostrare adesso che, avendo deciso di rifiutare
ogni realismo metafisico, non ci troviamo in una in componibile opposizione con il realismo empirico.
L’idealismo trascendentale piuttosto ha il compito di correggere e fondare il realismo empirico, e può farlo in
opposizione al positivismo ed al realismo teoretico-conoscitivo, ambedue i quali negano i presupposti del
realismo empirico, ove si trova appunto il suo significato».
3 J. COHN, Geschichte des Unendlichkeitsproblems im abendländischen Denken bis Kant, Leipzig, Engelmann, 1896.

Riguardo alla coimplicazione tra il testo, che stiamo sottoponendo ad esame, e quello con cui Cohn
principiò la sua dedizione completa agli studi filosofici, valga una breve annotazione contenuta in testa alle
Ricerche logiche sugli oggetti matematici, che costituiscono l’intera seconda parte dei Voraussetzungen und Ziele, in cui,
quasi con un intento programmatico, si legge: «Il percorso della ricerca conduce dal numero allo spazio ed
ancora al problema dell’infinità e della continuità. Sulla successione delle ultime due parti si può discutere; che
si cominci con il numero è evidente a ciascuno. Questo argomento si trova infatti nel punto in cui si
incrociano logica e matematica». J. COHN, Voraussetzungen und Ziele des Erkennens, cit., p. 158.

119
Il Pathos della Forma

l’uno dall’altro. Infatti, la forma del pensiero dell’identità ha bisogno per il suo
completamento [Ergänzung] di qualcosa di identico. La possibilità di un qualche contenuto
viene presupposta dal pensiero, anche se si determina solo l’unità del tutto in generale. Al
numero appartiene inoltre la possibilità di una qualche formazione oggettuale [beliebiger
Gegenstandbildung], cioè la possibilità, che si formino delle unità, che sempre di nuovo si
formino delle unità. Nel semplice numero ciascuna unità viene definita solo come unità.
Ogni unità è uguale alle altre, cioè ciascuna unità può entrare in relazione con ogni altra
unità, ma nessuna unità è identica alle altre, perché altrimenti non sarebbe assumibile
accanto alle altre, ma vi coinciderebbe» 1 .
Come si evince da quanto detto, a partire dalla definizione del numero come Inbegriff, la
cui complessa ed ampia significazione, risalente già ai Paradossi dell’infinito di Bolzano,
impegna la riflessione sull’ambito proposizionale della logica, finendo per rappresentare per
le nostre ricerche un dirimente metro di misura per la risoluzione del complesso formale di
ciascuna thesis concettuale, la domanda che viene sollevata attinge al modo di figurazione
concettuale dell’oggetto nella determinazione numerica, vale a dire nella determinazione
concettuale dell’oggetto, in quanto unità numerica. Se dunque alla forma posizionale
rimanda l’omogeneità del tessuto matematico, l’equivalenza di ciascuna determinazione
metrica, in quanto riferentesi all’elementarità dell’unità, resta ancora in questione come sia
comprensibile la differenza tra l’uno e l’altro di questi elementi. Quella che qui viene indicata
come Gegenstadbildung, la formazione di un oggetto nel concetto matematico di numero
viene cioè elusa al livello della mera Gleichkeit formale, insistendo piuttosto l’eccedenza
contenutistica della non-coincidenza, Nicht-Zusammenfallen, della disidentità.
«Anche se considerassimo l’oggetto come semplice unità» – continua nella sua trattazione
Cohn – «perché lo si possa distinguere da altre unità, bisogna presupporre in generale
qualcosa di estraneo al pensiero. Questo è un Qualcosa – cioè la forma dell’identità deve in
qualche modo essere pensata come riempita in esso con qualcosa di estraneo al pensiero.
Senza il Qualcosa non si può parlare dei puri fondamenti della logica. Già se si volesse
formulare l’identità come posizione [Satz], bisognerebbe presupporre una pluralità di
oggetti differenziabili e la ripetuta possibilità di porre [Setzbarkeit] lo stesso oggetto.
Comprendiamo da così un’altra angolazione perché è così difficile, se non impossibile,
esprimere in un principio l’identità con la semplicità che le compete. Possiamo indicare
questa possibilità di una qualsiasi formazione oggettuale come quel minimo di estraneità al
pensiero, senza di cui non si forma alcun oggetto, né dunque lo si può giudicare» 2 . La
generazione di una serie numerica dunque, anche la mera ecceterazione, quale forma più
semplice della successione, inanellare unità ad unità, la sequenza aritmetica di (x1 + x2 + x3
+ … xn), dipende dalla differenziazione, dalla variazione delle unità e dalla ripetizione in esse
implicata. La condizione della formazione oggettuale rimanda pertanto ad un principio che
figura come presupposto, come precedenza ad ogni posizione, come forma della
Unterscheidheit. In altri termini, se la forma dell’identità copre la riflessione propria
dell’eguagliamento, è la forma della differenziazione quella in cui qualcosa viene esibito, a
soddisfare l’esigenza costitutiva dell’identificazione. Ciò che viene definito come minimo di
estraneità al pensiero è dunque ancora un’indicazione formale 3 , che tuttavia esorbita dalla

1 Ivi, p. 109.
2 Ivi, pp. 109- 110.
3 Sull’indicazione formale, formale Anzeige – come questione della relazione tra il senso quale contenuto, quale

riferimento e quale attuazione, compimento – sulla linea che congiunge il was ed il wie – è interessante leggere
il §. 13 della prima parte del corso dedicato da Heidegger all’introduzione alla fenomenologia della vita religiosa, ove
si trova la radice dell’uso che poi verrà fatto più sistematicamente di questo termine in Essere e Tempo.
«1.Formalizzazione. Tramite questa configurazione nasce un compito particolare: la teoria del formale-logico
e del formale ontologico. In virtù della loro configurazione in base al senso del riferimento, le categorie
formali rendono possibile lo svolgersi delle operazioni matematiche. 2. teoria del formale-ontologico (mathesis
universalis), mediante la quale è posta anche, come separata, una regione teoretica. 3. Fenomenologia del
formale (considerazione originaria del formale stesso ed esplicazione del senso del riferimento all’interno della

120
Il Pathos della Forma

ricorsività riflessiva, in quanto Form der Inhaltlichkeit, forma della contenutezza, forma
dell’essere-contenuto. Così viene correttamente disposta la questione circa la
Gegenstandbildung, la formazione di un oggetto, quale rivolgimento differenziale ad un
contenuto.
Da ciò tuttavia discende un ulteriore interrogativo in riferimento specifico alla
costruttività matematica: «Come si forma nelle scienze costruttive un nuovo oggetto? Si
applicano le relazioni definite agli oggetti già formati come referenti e si assume il nuovo
oggetto come correlato. Nella serie dei numeri naturali la relazione che consente la
continuazione è “più grande di 1”. In questo modo si rimane all’interno della medesima
classe. Una nuova classe può ottenersi solo attraverso il postulato, che essa possieda una
relazione, in qualche modo derivata, con tutti i referenti della vecchia classe. Ma con quale
diritto si presuppone la sufficienza di questo postulato?» 1 . Si trascorre dunque dalla
determinazione degli elementi ulteriori di una serie, alla posizione, alla circoscrizione
dell’intero ambito di una serie, di cui assicurare la dipendenza relazionale, formale, da un lato
e l’indipendenza costitutiva, contenutistica, dall’altro. Quanto pretende di essere giustificato è
la derivabilità del principio relazionale, del principio in virtù del quale si decide
dell’appartenenza alla serie degli elementi, ed, in uno, l’inderivabilità degli stessi elementi da
quelli di una serie differente. Ambedue le condizioni richieste deducono la propria validità
dalla sufficienza, Suffucienz, di quel postulato, che prescrive assieme la correlabilità, la
consequenzialità, e la differenza. La domanda dunque con cui Cohn amplifica la questione
della formazione degli oggetti, o meglio della costruibilità degli oggetti matematici potrebbe
piuttosto suonare come quale forma ha la sufficienza di un postulato. «Chiamiamo» – scrive
ancora Cohn – «in generale postulato una pretesa [Forderung], e ciò attraverso cui viene
soddisfatto [genügt] tale postulato, lo indichiamo come il sufficiente di questo postulato
[Suffizienten dieses Postulates]. Nel sufficiente vi è sempre una estraneità al pensiero. Se invece
questo fosse derivabile dalle pure forme del pensiero, se cioè fosse garantita senza altro la
soddisfazione [Erfüllung] del postulato, non vi sarebbe alcun bisogno che questa fosse
richiesta. Da questa considerazione delle relazioni si ottiene immediatamente che
l’estraneità al pensiero non coincide affatto con ciò che si indica come carattere empirico» 2 .
La struttura formale di un postulato, derivante dall’arco insito in ogni pretesa, Forderung,
come esazione di qualcosa di non già presente, cui si aspira, dunque come declivio verso il
suo esterno temporale, in primo luogo, da cui discende la stessa radice della posizione
numerica, è quella che, nei termini adottati dalla logica formale dopo Frege 3 , può essere

sua attuazione. […] Uno sguardo sulla storia della filosofia mostra che la determinatezza formale
dell’oggettuale domina completamente la filosofia. Come si può prevenire tale pregiudizio (preconcetto)? È
questo appunto il compito dell’indicazione formale che, come momento metodico, inerisce all’esplicazione
fenomenologica stessa. Perché si chiama «formale»? Il formale è qualcosa di conforme al riferimento.
L’indicazione deve indicare in anticipo il riferimento del fenomeno – invero in un senso negativo, quasi per
avvertimento! Un fenomeno dev’essere dato in maniera tale che il senso del suo riferimento sia tenuto in
sospeso. Ci si deve guardare dall’assumere che il senso del suo riferimento sia originariamente quello
teoretico. Il riferimento e l’attuazione del fenomeno non sono determinati in anticipo, ma sono tenuti in
sospeso. Questa posizione contrasta nel modo più drastico con la scienza. Non c’è alcun inserimento in un
ambito reale, bensì, al contrario, l’indicazione formale è una difesa, un’assicurazione preventiva, sichhè il
carattere di attuazione rimane ancora libero. La necessità di questa misura precauzionale emerge dalla
tendenza decadente dell’esperienza effettiva della vita, la quale minaccia continuamente di scivolare
nell’obbiettivo, eppure è partendo da essa che dobbiamo mettere in evidenza i fenomeni». Inoltre, cfr. M.
HEIDEGGER, Die Phänomenologie des religiösen Lebens. 1. Einleitung in die Phänomenologie der Religion, in GA, cit., LX,
hrsg. V. M. Jung, T. Regehly, C, Strube, Frankfurt a. M., Klostermann, 1995; trad. it. di G. Gurisatti, a cura di
F. Volpi, Fenomenologia della vita religiosa, Milano, Adelphi, 2003, pp. 98- 100.
1 J. COHN, Voraussetzungen und Ziele des Erkennens, cit., p. 179.
2 Ivi, p. 113.
3 G. FREGE, Funzione e concetto (1891), in ID., Senso, funzione e concetto, a cura di C. Penco e E. Picardi, Roma-

Bari, Laterza, 2005, pp. 3- 27. A questo riguardo ci riserviamo di tornare in seguito per esplicitare gli estremi
del confronto possibile tra la teoria della forma logica fregeana, ove in particolare coinvolge una critica alla
consolidata concezione della coppia soggetto-predicato, e quella laskiana. Cfr. P. CASALEGNO, Il paradigma di

121
Il Pathos della Forma

definita come funzione proposizionale insatura. Utilizzando così ancora una volta il gergo
chimico, si addita così la collocazione di una posizione vuota, non semplicemente
incognita, in cui si indica l’argomento della funzione, come ciò che viene esatto, gefordert dal
postulato, la cui saturazione, o soddisfazione, implica pertanto sempre un ricorso a qualcosa
di altro, perché sia postulato di qualcosa. L’estraneità quindi ancora una volta è l’eccedenza
dal piano riflessivo formale in cui viene composta la funzione proposizionale. Così come
una nuova classe o serie di elementi oggettuali è, e deve essere, altra da quella da cui parte la
costruzione matematica, ed allo stesso tempo deve poter esservi correlata, nella forma del
riferimento comune alla regolazione della serie delle serie, vale a dire al sistema che include
ciascuna delle possibili serie, allo stesso modo, in questo caso, Cohn, tenta di tenere
assieme la protensione fuori da se stessa della funzione-postulato, e la sua coerenza,
generalmente valida, dunque logicamente necessaria, con l’imposizione formale di cui è
portatrice. È allo scopo appena additato che Cohn distingue la Denkfremdheit, sempre
contenuta dalla soddisfazione di un postulato, dal carattere empirico della particolarità,
Besonderheit. Tuttavia, nell’esempio offerto dalla scienza puramente costruttiva, l’eccezione
costituita dal minimo di estraneità al pensiero, proprio in quanto separata non solo dalla mera
empiricità, ma dalla medesima proprietà del differente, in quanto particolare, rischia di
costringere il pensiero ad una torsione in cui la determinazione contenutistica non sembra
nemmeno più affidata ad una formalità del contenuto, ancora tutta da rischiarare, ma solo
alla costruzione finzionale di qualcosa nel seno stesso dell’apodeixis: l’anticipazione di una
mancanza, più che il rimando ad un riempimento. Questo infatti è ciò che Cohn definisce
come die überschiesende Teile des Suffizienten, la parte eccedente del sufficiente, ovvero la
condizione autentica della soddisfazione, che non rimanda alla ulteriorità della saturazione,
ma la precede e la consente. «C’è dunque – rispondendo del significato del numero di
dimensioni dello spazio, ovvero della possibilità di determinare lo spazio come
tridimensionale – un certo momento della sufficienza, che deve essere determinato, perché
l’esperienza sia possibile, cioè la cui determinazione non può essere derivata dall’esperienza,
senza però che si possa derivare teleologicamente dal postulato un tipo completamente
determinato del riempimento. Chiamiamo questa parte la parte eccedente del sufficiente» 1 .
In virtù di questa porzione che eccede l’estraneità, la non appartenenza del riempimento
all’indicazione del postulato, il sufficiente figura dunque come la costruzione anticipata,
apriorica, della saturazione.

1. 2. La materia dell’arte.

Se ciò, tuttavia, si rende possibile nella modalità costruttiva della matematica, ove il
sufficiente non sembra altro che la determinazione tecnica, artificiale, del contenuto, una
vicenda diversa è quella che coinvolge il facimento dell’opera d’arte, ove l’individualità del
latore di senso, la particolarità del corpo artistico, non consente di estrarre il portato
significativo, non permette che questo trasgredisca la sua incorporazione, od il suo essere
immanente 2 . Quello che Cohn considera caratteristico del complesso delle arti è un tipo di
determinazione, o meglio, di differenziazione, che non ammonta semplicemente alla forma,
né a quella che possiamo intendere come precedenza formale del contenuto. Le arti
piuttosto paiono differenziarsi in virtù del loro materiale. O meglio, come scrive Cohn,
poiché «i principi della formazione [Formung] sono comuni a tutte le arti», e comune «è
anche che esse abbiano espressione [Ausdruck] e che possiedano un materiale di

Frege, in ID. (a cura di), Introduzione alla filosofia analitica del linguaggio, Milano, Cortina, 1997, pp. 3- 40; G.
GABRIEL, Frege als Neukantianer, in «Kantstudien», 77, 1986, pp. 84 – 101.
1 J. COHN, Vorassetzungen und Ziele des Erkennens, cit., p. 242.
2 Ivi, p. 145.

122
Il Pathos della Forma

obbiettivazione [ein Material der Objektivierung]», allora il loro principio di differenziazione è


dato «da ciò, che esprimono, oppure dal modo del materiale dell’obbiettivazione» 1 .
Ebbene, cosa si intende per obbiettivazione in un’opera d’arte? La considerazione cohniana
del Kunstwerk, in ragione del suo contenuto di valore, passa per la coniugazione di due
differenti versanti, l’espressione, Ausdruck, e la figurazione, Gestaltung. «Figurazione ed
espressione – scrive Cohn, componendo la sua begriffliche Erörterung sull’ambito oggettuale
estetico – si rapportano l’una all’altra in maniera del tutto simile a quei due fattori, che nel
nostro pensiero dobbiamo sempre comporre insieme, la datità [Gegebenheit] e l’elaborazione
[Bearbeitung]. Non si può pensare alcun dato, cui non attecchiscano funzioni logiche. Già il
risalto di un’impressione, di un qui ed ora, come dice Hegel, è fissazione di un ché in se
stesso identico e la differenza del medesimo da tutto il resto. D’altro canto, non si può
isolare alcuna funzione del pensiero, senza che si pensi insieme ad essa almeno la forma
della datità» 2 . Tuttavia il modo in cui si legano nell’opera d’arte espressione e figurazione,
elaborazione e datità, ne definisce il carattere specifico. Se cioè l’espressione pertiene alla
dimensione intensiva della forma estetica, e del conseguente rilievo dell’esperienza sua
propria come rivivimento, la figurazione invece corrisponde all’innere Beschaffenheit, all’interna
costituzione dell’opera: «Questo particolare modo della forma dell’estetico lo definisco la
sua figurazione» 3 .
Ora è proprio attraverso il concetto di figurazione, che Cohn riesce a cogliere la
dimensione oggettuale dell’opera d’arte ed il ruolo che al suo riguardo svolge l’obbiettivazione.
«Perché si possa parlare della figurazione di un’intuizione» – osserva Cohn – «è necessario
che sia in qualche modo presente un oggetto, che questa figurazione reca con sé. Possiamo
ottenere dalla sensazione un’intuizione, se la riferiamo ad un oggetto. Ma mentre
nell’intuizione della natura questa oggettualità [Gegenständlichkeit] della comprensione si
trova per così dire prima del processo di rivivimento [Nachleben] estetico, l’artista deve
creare egli stesso l’oggetto che poi sarà rivissuto. Nel caso dell’artista, al cui riguardo
vogliamo studiare più da vicino la figurazione, essa si può dividere in due parti. Possiamo
qui distinguere la produzione dell’oggetto come obbiettivazione [Objektivierung] dalla
elaborazione della nostra comprensione della forma che corrisponde a questo oggetto, la
formazione [Formung]. In maniera caratteristica nell’opera d’arte, l’obbiettività e la forma
dovrebbero corrispondere all’attività dell’obbiettivazione e della formazione. L’obbiettività
consiste nel fatto che l’opera ha un’esistenza slegata, indipendente dal suo autore. […] Si
assume qui la parola “Obbiettivazione” in un’accezione molto ampia. L’”Obbietto” non ha
bisogno di alcuna figura spaziale, né di essere rappresentato come qualcosa di fantastico,
piuttosto la serie tonale ritmica-melodica o la sequenza delle parole (nella poesia lirica), in
quanto latori autonomi dell’espressione, sono la propria “obbiettivazione”. Vi deve sempre
essere un qualche materiale autosussistente (figura spaziale, tono, ecc.). Attraverso il modo
di questo materiale le singole arti si distinguono l’una dall’altra» 4 .

1 J. COHN, Allgemeine Ästhetik, cit., pp. 90- 91.


2 Ivi, p. 125.
3 Ivi, p. 75. Cohn definirà nel corso dell’Allgemeine Ästhetik la figurazione sempre con sintagmi che rimandano

ad una modalità formale costitutiva: seine eigene innere Eigentümlichkeit, innere Beschaffenheit, oppure innere
Vollständigkeit. Cfr. ivi, p. 81.
4 Ivi, pp. 79-80. Riguardo al concetto ed ai principi della Formung, Cohn fa riferimento, illuminando, allo

stesso tempo, una distanza ed un’appartenenza al vasto ripensamento filosofico post-kantiano sulla forma, e
sulle complicazioni che la legano mutuamente alla Gestaltung ed alla Bildung, a due opere in proposito
esemplari, per contenuto e per effetto: A. V. HILDEBRAND, Das Problem der Form in der bildenden Kunst,
Straßburg, Heitz, 18982; A. RIEHL, Bemerkungen zu dem Problem der Form in der Dichtkunst, in «Vierteljahresschrift
für wissenschaftliche Philosophie», XXI, 3, pp. 283-306, 1897; XXII, 1, pp. 96-114, 1898.
All’interno delle modalità formali della figurazione di un’opera d’arte, Cohn definisce le Stilregeln, le norme
di riconoscimento della stilizzazione, come principi della figurazione del materiale artistico. «Le leg g i d e l lo s t i l e
s o n o in f a t t i q u e i pr i nc ip i d e l la c o nf i g u r a z i o ne [Umgest alt ung] a rt is t ic a d e l l’ e s pe r ie n za
m a t e r ia le , q u a l i v e n g o no s e n t i t i ne c e s s a r i a l l’e s s e n za d e l l a m od a lit à e d e l p r o p os i t o
a rt ist ic o c ons ide rat o. Un’opera, che violi queste norme, è senza stile; un’opera, in cui la configurazione si

123
Il Pathos della Forma

In che modo la differenziazione materiale delle arti, il loro distinguersi in virtù della
disparità del medio, in cui l’opera trova assieme espressione e figurazione, come ad esempio
nella temporalità della musica 1 il legame armonico dei suoni e la loro successione ritmica
funge da sostrato sia all’elaborazione espressiva che alla composizione figurale, alla
composizione della Gestalt armonica, in che modo, dunque, la Unterschiedenheit des Materials
der Objektivierung è in relazione con l’unità della singola opera d’arte, l’unità in cui ciascuna
opera d’arte di volta in volta si trova?
L’unità dell’opera d’arte – secondo il tracciato analitico di Cohn -, ciò che consente
all’«esperienza estetica di essere rivivimento [Nachleben] di un’intuizione in quanto
espressione figurata [eines gestalteten Ausdrucks]» 2 , è inevitabilmente unità di figurazione ed
espressione. Tale unità, tuttavia, non riceve una presentazione essenziale dalla mera
indicazione dell’essere necessariamente insieme, dal notwendige Zusammensein, di espressione e
figurazione. «Un necessario essere insieme si trova ad esempio anche tra il colore e la forma
estesa nello spazio. Ogni forma deve essere in qualche modo colorata, qualora si
subordinino i semplici gradi di luminosità, bianco, grigio, nero, al concetto di colore; ogni
colore inoltre deve avere una forma spaziale, sia anche indeterminata, sia pure pensato
insieme ad un bordo sbiadito. Forma e colore non possono essere l’una senza l’altro; ma
restano, quanto alla loro particolare determinatezza, l’una indifferente all’altra. Ogni colore
può avere qualsiasi forma, nessun colore ha una particolare relazione con una forma
determinata. Ma le cose riguardo all’espressione ed alla figurazione stanno in tutt’altro
modo. Piuttosto il contenuto, che tende all’espressione, cerca la sua figurazione adeguata.
L’espressione stessa diviene principio della figurazione, la figurazione diventa espressiva
[ausdrucksvoll]. L’essenziale unità di un’impressione estetica si rompe, se si considera ogni
lato a sé stante. Qui non si tratta di un mero essere insieme, ma di un’interna
coappartenenza» 3 .
Ciò che qui Cohn indica come unità dell’opera d’arte è dunque l’esigenza dell’espressione
a mantenere la propria figura, e della figurazione ad assumere la modalità espressiva ad essa
conveniente. Ambedue, Ausdrück e Gestaltung, comprendono una relazione alla materialità,
come contenuto e come medio: il loro intreccio necessario trova segno nella determinatezza
materiale dell’opera. Il vincolo dell’opera, in quanto unità, alla propria singolarità
oggettuale, è quanto resta in essa Unbeschreibliche, non descrivibile assumendo altra
espressione od altra figura. «Ciascuna descrizione [Schilderung] approssima certo l’espresso
all’intendimento, ma lo modifica anche, sottraendogli la propria autentica effettualità [seine

manifesta secondo i principi dello stile, è stilizzata. Ma non si parla di stile solo riguardo a quelle modalità
artistiche, che derivano da una singola esperienza extra-estetica, ma anche riguardo a quelle, che danno una
nuova libera figurazione, rimandando ad una realtà effettiva non estetica, solo nella disposizione d’animo
generale oppure in certi punti secondari: come nella musica, nell’ornamento geometrico, nell’architettura,
ecc.». J. COHN, Allgemeine Ästhetik, cit., p. 117.
1 È interessante che nell’Allgemeine Ästhetik di Cohn, a fronte della consueta distinzione tra modalità artistiche

spaziali, quelle delle arti figurative e plastiche, della pittura, della scultura, e modalità artistiche temporali, il cui
esempio più evidente è la musica, ma anche la poesia lirica o la prosa ritmica, si elevi un’eccezione: una
disciplina, la cui inclusione tra le belle arti è del resto ambigua, come l’architettura, che pur misurandosi con la
costituzione dello spazio, viene riconosciuta nei suoi tratti temporali. «La ripetizione – scrive Cohn – nelle
opera d’arte temporali ha sempre luogo nella successione uguale degli elementi, mai con il ribaltamento di
questa successione come nella simmetria. La ripetizione in questo senso non manca nemmeno nelle opere
d’arte spaziali, ma se nella pittura e nella scultura ha solo un importanza subordinata, unicamente
nell’architettura gioca un ruolo grandissimo. Le opere di quest’arte vengono comprese molto difficilmente
con un solo sguardo, e le diverse visioni, che seguono l’una all’altra, si legano in unità, mediante la ripetizione
delle medesime forme. Questo si nota al meglio nel Gotico, ove nel grande e nel piccolo si ritrovano gli stessi
motivi (in un‘opera concepita unitariamente, spesso sono uguali anche i dettagli)». Ivi, p. 87.
2 Ivi, p. 104.
3 Ivi, pp. 125-126. Sul legame apriorico, in quanto costitutivo, tra colore ed estensione, quale primo esempio

husserliano di apriori materiale, si veda in part. E. HUSSERL, Logische Untersuchungen, II, Halle, Niemeyer, 1900-
1901; poi in Hua, cit., XIX, pp. 249-256; trad. it. di G. Piana, Ricerche Logiche, cit., II, Terza Ricerca Logica. Sulla
teoria degli interi e delle parti, pp. 39-46.

124
Il Pathos della Forma

eigentümliche Wirklichkeit]» 1 . Ovvero, ciascuna ripresentazione dell’opera modifica insieme il


suo statuto oggettuale e la modalità della sua superficie materiale. La riproduzione di un
Kunstwerk ne altera la dimensione di senso, proprio perché essa vale come Neuschöpfung,
riproduzione, in quanto ulteriore produzione 2 , il cui contenuto sarà la precedente unità
singolare di espressione e figurazione.
Nonostante lo stato di abbozzo in cui si trova la dottrina cohniana della differenziazione
materiale, nella sua applicazione all’universo estetico, tuttavia è sin da subito possibile
vedere come la sua eminente caratteristica concettuale ammontI alla dipendenza della
traduzione dell’unità, dell’unità di senso dell’opera d’arte, in questo caso, nella sua identità,
dal riferimento alla materialità, reso come modalità di obbiettivazione della materia. L’unità
dunque si rivela, già ora, seppure solo per tratti, come indigenza dell’identificazione
materiale. In questo senso, la teoria estetica cohniana si presenta – inconsapevolmente –
come un illuminante precedente del tentativo laskiano di ripresentare la questione
trascendentale del dato, del contenuto, del materiale, dell’oggetto, muovendo – come
abbiamo appurato nel precedente capitolo, con particolare riferimento al Fichtesbuch – oltre
le ambasce, in cui era caduto l’impianto dello schematismo kantiano, oltre il suo ripensamento,
in Maimon ed in Fichte.

La lettura dell’Allgemeine Ästhetik interessò Lask sin dalla scrittura del Fichtesbuch,
ritrovandovi tracce di quella valutazione estetica, che sola riesce «ad intendere la figura
singolare piena di valore come mondo in sé compiuto, come una realizzazione della
ragione, nella sua isolatezza» 3 . Il merito cohniano sarebbe stato dunque quello di
comprendere la differenza della valorazione estetica, ästhetische Wertung, da ogni inclusione
in un complesso generale di connessioni, ovvero quella intensiva intrasgredibilità 4 del senso
estetico dalla localizzazione in cui assume la sua Einzelgestalt, la sua figura singolare, la sua
figura di singolarità.
Perché sia possibile intendere questo primo accenno alla differenziazione materiale, presente
nelle pagine laskiane mediato dal riferimento al disegno estetico compiuto qualche anno
prima da Cohn, è inevitabile la considerazione del ruolo del medium estetico, che fungerà da
potente leva per la definizione della teoria logica del contenuto, quale Inhalt. Nonostante le
annotazioni a cui ora porremo mente sono databili in un epoca successiva a quella della
scrittura dei due Hauptwerken logici, apparendo anzi come un loro vero e proprio
rifacimento, alla luce di differenti intenti teoretici, cha fanno perno sul rilievo della
mediatezza segnica, del deposito di senso che nei segni alloggia, la loro apertura pare essere
invece propedeutica, introduttiva alla più interna architettura logica. Il precorrimento cui
stiamo per attendere è dunque senza alcun dubbio un gesto interpretativo, la cui
giustificazione può trarsi solo dal tentativo di recuperare uno dei fili conduttori della
redazione logica laskiana, che proprio nella lettura dell’estetica cohniana, come è stato
illustrato, inizia ad intessersi, pur restando per lo più celato sia nella Logik der Philosophie che
nella Lehre vom Urteil 5 . In una evidente consonanza con gli accenni cohniani, la questione

1 J. COHN, Allgemeine Ästhetik, cit., p. 127.


2 Obbligato è qui il riferimento a W. BENJAMIN, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, in
«Zeitschrift für Sozialforschung», 1936; trad. it. di E. Filippini L’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, intro.
di C. Cases, Torino, Einaudi, 1966; ult. rist., Torino, Einaudi, 2000.
3 E. LASK, Fichtes Idealismus und die Geschichte, in GS, cit., I, p. 219.
4 Sull’utilizzo di Trasgredient da parte di Cohn, in quanto preferibile in un contesto teoretico-conoscitivo a

quello equivocabile di Transzendent, si veda l’annotazione riportata in J. COHN, Allgemeine Ästhetik, cit., p. 27.
Quanto poi alla maturazione concettuale, cui Cohn attende nella scrittura della sua prima opera filosofica,
riguardo ai concetti di intensivo e consecutivo, Cohn riconosce con chiarezza l’influsso e la guida offertigli in quegli
anni da Rickert, e dal suo giovane discepolo, Lask; Cfr. ivi, p. 23.
5 L’isolamento invece di queste argomentazioni sulla superficie estetica, sull’opera d’arte e, come vedremo in

seguito, sul segno e sul simbolo, sulla scrittura e sul mezzo di comunicazione estetica renderebbe invece inevitabile
la distorsione ottica quasi di una compensazione postuma quanto all’atteggiamento soggettivo, stante il suo
completo tralasciamento nelle opere maggiori, così da rendere apparente la definizione di una seconda fase del

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Il Pathos della Forma

movente delle considerazioni, che Lask assembla, concludendo la seconda parte del System
der Logik, riguardante il Valere come Forma, si articola nel modo seguente: «Negli Obbietti
[Objekten] dell’atteggiamento estetico, dunque in ciò che prima abbiamo semplicemente
considerato come la sfera del mero contenuto di senso, non resta comunque
incancellabilmente una immane mancanza della Materia «estranea» [eine ungeheure Menge
fremden «Stoffes»], del materiale tratto d’altrove [anderwärts herstammenden Materials]?» 1 .
L’intenzione laskiana dunque è di convertire sull’obbietto estetico, sul complesso
obbiettivato esteticamente, la domanda fondamentale sullo statuto dell’oggettualità, in
modo da misurare in maniera sempre più accurata il duplice ricorso alla materialità, quale
rimando significativo e deposito nel mezzo della sua espressione.
Si inizia così a distinguere, proprio dinanzi al caso dell’opera d’arte, proprio dinanzi al
caso figurativo che nell’opera d’arte si fa presente – come cioè la figurazione occorra nel
Kunstwerk - il rimando contenutistico dell’indicazione formale e la sua ulteriore
modificazione nell’apertura espressiva, una prima ed una seconda occorrenza della
materialità, ove è possibile decantare la funzione del contenuto e quella del sostrato. «Gli
obbietti estetici,» – scrive Lask, in una digressione fulminante del suo System der Logik – «le
opere d’arte non consistono affatto di puri contenuti di senso estetico, piuttosto l’intero
mondo extra-estetico si protende in questi, l’intero senso estetico delle opere d’arte consiste
nel dare opera [wirkt] al contenuto di valore estetico rispetto a qualcos’altro, in quanto
«forma figurante» [«gestaltende Form»]; lo specificamente Estetico può dunque essere solo
Forma che cinge un ché di extra-estetico. Gli obbietti estetici non possono essere
completamente senso estetico, ma possono solo trovarsi completamente nella forma del
senso. Paesaggi, piante ed animali sono di per sé qualcosa di extra-estetico; ma qualsiasi
elemento di queste formazioni entra, senza poter essere distrutto, nell’obbietto estetico.
Questi elementi non si sciolgono nel contenuto di senso, ma il contenuto si aggiunge
soltanto, come Forma abbracciante, alla consistenza extra-estetica, che tuttavia rimane
intatta. I conflitti morali vengono tradotti nella tragedia in Valere estetico. In breve,
l’interezza dell’essente come del valente, senza perdere il suo carattere extra-estetico, viene
solo cinta dal contenuto di significato estetico. E questo non dipende dalla necessità di un
Materiale extra-estetico, ma da quella della duplicità funzionale di Forma e Materiale in
generale» 2 .
Nell’opera dell’arte, dunque, nel modo in cui l’arte mette in opera, wirkt, il contenuto di
senso, l’assetto formale cui la costruzione artistica accenna, ovvero la traccia di senso che il
fruitore tenta di scorgere, l’außerästhetische Bestand, la consistenza che resta fuori dalle altre,
quale segnale della sua indigenza, si dispone sia come argomento, o meglio quale vicenda
riflessa nella trama, come nell’esempio della tragedia classica, che a lungo accompagnerà le
riflessioni laskiane, sia come trattenimento opaco nel diaframma degli strumenti artistici.
Questa effettualità artistica, Wirklichkeit, che è allo stesso tempo effettualità dell’esperienza
vissuta che la sostiene e la innerva, è resa possibile dall’aspetto che la forma tecnica,
costruttiva assume, da quella determinazione della forma che rende singolare la sua valenza
di senso quanto alla concrezione in cui si ritrova ed all’immagine, sempre unidimensionale,
quindi separata, mancante, che la mostra. In questo senso, la forma, che caratterizza gli
obbietti estetici, è null’altro che il suo decadimento figurale, la sua alterazione in figura, la
gestaltende Form 3 , quella forma cioè che è in relazione al suo materiale in quanto Gestalt,
figurazione, unità e particolarità assieme della determinatezza figurale. È questo rapporto

pensiero laskiano, sulla scia dell’imprinting ermeneutico che il curatore dell’opera omnia del ’24, Eugen
Herrigel, diede alla letteratura successiva. Cfr. E. HERRIGEL, Emil Lasks Wertsystem, in «Logos», XII, 1923,
pp.100-sgg.
1 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, cit., III, p. 117.
2 Ivi, pp. 117 – 118.
3 Sul dibattito riguardante il nesso insistente tra Form e Gestalt, all’interno del George-Kreis – così prossimo, non

solo per accidenti geografici o storici, alla meditazione laskiana in merito – si veda S.GEORGE-L.KLAGES,
L'anima e la forma, Lucca, Fazi, 1995.

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Il Pathos della Forma

figurale tra forma e contenuto nell’arte a costituire la sua differenziazione materiale,


esiliando il senso estetico nel carattere che di volta in volta assume.

1. 3. Die verklärte Nacht

In ragione della nozione di gestaltende Form, nel limite che alla figurazione della forma offre
inevitabilmente il deposito materiale, in cui sempre l’opera d’arte si trova, si rende possibile
la considerazione dirimente del rango di chiarezza, di rischiaramento che la formalità reca
con sé. Perché la forma figurativa si distingua da una illimitata gestaltende Kraft, da quella
«forza creativa che attraversa la massa del Materiale», senza resto alcuno, corrispondente –
a parere di Lask – alla versione mitologica del Formprinzip, diviene essenziale comprendere la
distanza che separa la Umklärung e la Verklärung del contenuto, la sua chiarificazione e la
sua completa trasformazione in chiarezza, od in altri termini la figurazione e la
trasfigurazione. Quindi la differenza tra la figurabilità, Umklärbarkeit, del contenuto e la sua
corrispondente non-trasfigurabilità, Unverklärbarkeit 1 .
Ma, cosa si intende, nel Kunstwerk e nell’effettualità esperienziale ad esso corredata, per
Verklärung, per trasfigurazione? Cosa muta quando qualcosa, quando un contenuto extra-
estetico – ripetendo solo a scopo esplicativo un pleonasmo, giacché nell’arte ciascun
contenuto, in quanto tale, è ad essa già sempre estraneo – ricade nella messa in forma
artistica?
Cosa avviene nel caso più estremo e paradossale di quella Verklärte Nacht, di quella notte
trasfigurata, di quel buio fatto luce, che trascorre dai versi di Richard Dehmel allo spartito,
per sestetto d’archi, di Arnold Schönberg 2 ?
«Due esseri umani vanno in uno spoglio, freddo bosco [kahlen, kalten Hein]», due
Menschen, le cui sembianze impallidiscono nel chiarore lunare, cui non riescono a fare da
misura od argine né le nubi, né gli alti e bruni rami delle querce più alte, lasciando errare
soltanto i loro suoni, le loro voci. È la voce, die Stimme, di una donna, che appena si alza, a
cui quella di un uomo risponde, ma non un uomo od una donna si distinguono. A serrarli
tenuemente insieme è lo sguardo soltanto, uno sguardo oscuro che annega, ertrinkt, nella luce,
uno sguardo che dal buio degli occhi, affoga, si riempie dello smisurato bagliore. «Come
riluce chiaro l’universo [wie klar das Weltall schimmert], guarda, tutto è splendore [ein Glanz um
Alles] qui intorno». Il timbro incerto di una donna ha rivelato il segreto del tradimento, di
cui reca impronta il suo grembo: ella ha ricevuto, accolto, empfangen, un bambino,
abbandonandosi, umfangen, ad un altro uomo, ad un uomo estraneo, ein fremd Mann. Ma in
quel luccichio, in quel tepore unico, das fremde Kind, il bimbo prima estraneo, wird verklären,
sarà trasfigurato, diverrà non più accoglimento, ma generazione [von mir gebären], la cui
estraneità trascolora, si altera, eppure non si perde. L’estraneità della sua origine, della sua
provenienza, fa spazio a quella della sua nascita, della sua ancora impalpabile presenza: e
quella generazione trascinerà anche gli attori di questo dialogo notturno. La voce di un
uomo sillaba: «tu hai reso me stesso bambino [du hast mich selbst zum Kind gemacht]». Dalla
voce di un uomo procede ormai la voce di quell’uomo.
La mina dell’estraneo ha coinvolto nella sua incombenza, nella sua inconfessabilità, quello
che di più proprio vi era. Quell’estraneo, perché non ancora, quell’estraneo quale più

1 E. LASK, Die Logik der Philosophie und die Kategorienlehre, in GS, cit., II, p. 76: «Che la chiarezza si estenda su
qualcosa, significa sempre che un Qualcosa è attinto dal momento categoriale della chiarezza, che è
semplicemente avvolto dalla chiarezza; non che sia attraversato dalla chiarezza, ma che ne sia solo avvolto,
non che ne sia trasfigurato, ma solo figurato [ver- und um-klaren]. Perciò si è già polemizzato anche contro la
“trasfigurazione” [“Verklärung”] del contenuto alogico. Non si può pensare la verità dissolta in una massa di
pura chiarezza. Si deve tenere presente l’intrasfigurabilità [Unverklärbarkeit] del contenuto e la sua semplice
figurabilità [Umklärbarkeit]».
2 Il riferimento è al componimento poetico di Richard Dehmel, contenuto nella raccolta, Weib und Welt, 1896,

recante il titolo Verklärte Nacht, da cui Arnold Schömberg trasse la sua composizione omonima per sestetto
d’archi; cfr. R. DEHMEL, Poesie scelte, vers. ritmica e intr. di T. Gnoli, Lanciano, Barabba, 1914.

127
Il Pathos della Forma

semplice e scarna figura dell’altro, ha costretto il proprio a generarsi come differenza da sé.
Attorno la notte si è fatta alta e chiara, hohe und helle, mostrando anche nel registro verbale,
anche nei segni grafici, l’incauto, inatteso, eppure quasi invisibile, passaggio.
Nei versi di Dehmel pare essere dispersa ogni consistenza; anche l’individuazione degli
interpreti si fa difficile, abbandonati come sono alla loro ombra cromatica, tonale. Eppure
quella notte quasi polare, bianca, spazzata da un lucore invisibile, spaesante, non cessa di
calare, di farsi ancora più profondamente notte, abbandonando i due al loro reciproco
riflesso, fino a lasciare che si rechino l’uno nell’altra.
Cosa fa arenare la trasfigurazione, cosa la àncora nella resistenza di una singolarità? Dove
cioè quella notte trasfigurata trova chiuso il varco oltre la propria figurazione?
La successione della parole, il loro scambiarsi, la scala che disegnano sin da subito nella
lettura, rivela che ad essere ospitato come contenuto è qualcosa di estraneo, qualcosa che
non dismette la propria estraneità, procrastinandola piuttosto al momento della propria
nascita. L’abbraccio, Umfang, l’assumere in consegna, Empfang, la presa semplicemente,
Fang, fanno luogo all’inizio, serrato e sospeso a ciò che è iniziato. Così la trasfigurazione del
contenuto non è altro che la mise en abyme, la messa in figura, e sempre in una figura soltanto,
della materia poetica 1 .
Tuttavia, proprio a conclusione della digressione che ci ha condotto a rileggere
minuziosamente la Verklärte Nacht di Dehmel, ritorna la domanda circa il legame che
stringe la singolarità figurale dell’opera d’arte, l’unità singola che essa inevitabilmente
manifesta, e la particolarità effettuale del suo deposito, della sua materialità, per così dire,
esteriore.
In una lunga nota, in cui specifica la funzione dei realen Trägern, dei latori reali, körperlichen,
corporei di senso, Lask si rivolge, attraverso una minuta analogia esplicativa, all’arte, ovvero
al Kunstwerk, all’opera d’arte 2 . «Anche l’opera d’arte» – scrive Lask – «è semplicemente un

1 «Il poeta è per Dehmel – scrive G. Catalano, in un saggio su Jugendstil, simbolismo, poesia cosmica – colui che
possiede la bussola dei sentimenti, conosce la precisione dell’irrazionale e il luogo in cui le passioni di un attimo
raggiungono la loro espressione duratura. Così, quando la forma si traduce in immagine, il contenuto
dell’esperienza diviene materia poetica e, quindi, come vuole Dehmel, trova la sua inerente semplicità. Perciò la
via del linguaggio poetico può essere solo la via indiretta dell’elaborazione formale, della stilizzazione,
dell’immagine che si trasforma in simbolo ed allegoria. In questo contesto il gesto diventa un elemento
ricorrente che permette di accordare il sentire all’azione riconducendo la vita alla sua essenzialità». G.
CATALANO, Jugendstil, simbolismo, poesia cosmica, in M. FRESCHI (a cura di), Storia della civiltà letteraria tedesca, vol.
II, Torino, Utet, 1998, p. 293.
Al fine di intendere più dappresso come questa come questo modello di figurazione poetica trovi poi nel
registro poetico di Schönberg il suo contraltare, più che la sua semplice verifica, affidando alla nostra
riflessione alcuni motivi ulteriori, proprio riguardo al rapporto tra musica e parola, o meglio nella relazione
differente che esse hanno con il contenuto assunto e con la datità dell’opera, paiono interessanti alcune
annotazioni, che O. Mula stende riguardo al rapporto col testo nella musica tedesca da Haydn alla dissoluzione della
tonalità: «Il concetto wagneriano di musica come linguaggio dell’inesprimibile si ritrova sostanzialmente
immutato in Schönberg: quest’arte parla infatti in un modo che – come egli scrive nel saggio rapporto con il testo
(1912 ) – «la ragione non comprende», sicché ogni pretesa d’intenderla riferita a immagini concrete, a fatti e
sentimenti determinati, ne falsa la natura. Lungi dall’essere una limitazione, l’irrazionalità pone la musica al di
sopra della poesia che, «essendo ancora legata ai soggetti materiali», non può manifestarsi «in modo diretto,
incontaminato e puro».
Se dunque il suono viene associato alla parola, non perciò stesso decade al ruolo subalterno di commento.
È irrilevante che la struttura musicale riproduca con precisione quanto il poeta rappresenta, siccome «la
rassomiglianza di un ritratto rispetto al […] modello» dice poco del valore artistico del quadro. L’esteriore
conformità al testo riesce il più delle volte un difetto: a parte il fatto che «apparenti differenze in superficie
possono essere necessarie per realizzare un parallelismo» di fondo, la rigida osservanza della parola finisce col
ridurre la musica a un codice di formule stereotipe». O. MULA, Il rapporto col testo nella musica tedesca da Haydn
alla dissoluzione della tonalità, in M. FRESCHI (a cura di), Storia della civiltà letteraria tedesca, vol. II, cit., pp. 275- 276.
Cfr. A. SCHÖNBERG, Style and Idea, London, Faber & Faber; trad. it. di M. G. Moretti e L. Pestalozza, Stile e
idea, Milano, Feltrinelli, 1975.
2 «La vera opera d’arte – scrive Wassily Kandinsky, nello Spirituale nell’arte – nasce dall’artista in modo

misterioso, enigmatico, mistico. Staccandosi da lui assume una sua personalità, e diviene un soggetto
indipendente con un suo respiro spirituale e una sua vita concreta. Diventa un aspetto dell’essere. […] Il

128
Il Pathos della Forma

mezzo di deposito [Niederlegungsmittel], attraverso cui è possibile rivivere [nacherlebbar] quello


che è stato già prima vissuto creativamente [schöpferisch Vorerlebte]. Latore corporeo
simbolico [Symbolische körperliche Träger]. Questo è chiaro nelle arti, che si esprimono con le
parole. Ma lo è anche per quelle figurative. Tuttavia il loro ruolo è completamente diverso,
ad esempio nei dipinti. Lo stesso latore sensibile è il materiale della bellezza [Material der
Schönheit], diversamente da un libro stampato (in cui si prescinde dal valore estetico della
veste tipografica e dall’ornamento del libro). E dunque chiaramente ciò che conta non è la
tessitura della tela né le macchie di colore, ma, ad esempio, un paesaggio, cioè il
rappresentato e non l’effettivo [dargestellte und nicht wirkliche], piuttosto il paesaggio nella
fantasia artistica. Ancora più ciò avviene fortemente nella scultura. Ma è una differenza solo
di grado, in riferimento alla disparità del materiale [Verschiedenheit des Materials], dunque alla
frammentazione [auseinanderfallen]. Anche qui l’opera d’arte è solo mezzo di deposito, è
portatrice del senso estetico e del contenuto cosale, di ciò che è inteso artisticamente
[künstlerisch Gemeinte]» 1 .
Quanto riguarda specificamente l’analisi laskiana dell’opera d’arte, ossia dell’arte in
quanto opera, ciò in cui il suo sguardo si addentra, tentando di scovare le differenza proprie
di questa modalità di figurazione formale, è in primo luogo il piano esperienziale che
consente di rintracciare qualcosa in comune tra lo schöpferische Vorerlebte, tra quello che già è
stato esperito nella creazione, nella Schöpfung artistica, e quello che può essere rivissuto,
nacherlebbar, nella fruizione, nella susseguente osservazione 2 . A questo fine, non viene
meramente isolato un supporto, un indifferente sostegno, un materiale, la cui equivalenza
ne annulla il peso, il gravame; piuttosto se ne assume la definizione di latore corporeo simbolico,
ove körperliche, la corporeità, indica già l’incorporazione, la determinazione singolare in un
corpo, in quanto simbolo, in quanto raccolta di una duplicità. Se la materialità dell’opera è
già traslitterata nell’ineludibile dualità del σύμβολον, di qualcosa che stringe insieme due tratti
differenti,e non riducibili l’uno all’altro, se dunque tale materialità è materia formata, materia
in cui è rinvenibile il segno della forma, come l’indizione della sua stessa manifestazione,
ovvero semplicemente come figura della materia che si dà a vedere, ciò di cui bisogna
andare in cerca è – seguendo l’argomentazione laskiana – il dargestellte, il presentato,

problema non è sapere se la forma esteriore è rispettata, ma se l’artista ha bisogno di questa forma nella sua
apparenza esteriore. […] Insomma, l’artista non solo è autorizzato ma è obbligato a usare le forme che gli servono. […]
L’artista deve avere qualcosa da dire, perché il suo compito non è quello di dominare la forma, ma di adattare la forma al
contenuto». W. KANDINSKY, Über das Geistige in der Kunst. Insbesondere in der Malerei, München, Piper; trad. it. di E.
Pontiggia Lo Spirituale nell’arte, Milano, SE, 1989, pp. 87 – 89; cfr. P. KLEE, Das bildnerische Denken. Zur Form -
und Gestaltungslehre [Bauhaus, 1921-22], hrsg. von J. Spiller, Basel, Benno Schwabe & Co.; trad. it. a cura di M.
Spagnol e R. Sapper, Teoria della forma e della figurazione, Milano, Feltrinelli, 1959.
1 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, cit., III, p. 78. A questo riguardo, ovvero nella definizione del deposito

reale dell’arte in quanto messa in opera, riteniamo utile un rimando a ciò che Heidegger scrive in principio del
suo saggio sull’Origine dell’opera d’arte. «L’opera d’arte è, sì, una cosa fabbricata, ma dice anche qualcos’altro
oltre la pura cosa: ά̉λλο α̉γορεύει. L’opera d’arte rende noto qualcos’altro, rivela qualcos’altro: è allegoria. Alla
cosa fabbricata l’opera d’arte riunisce anche qualcos’altro. Riunire si dice in greco συμβάλλειν. L’opera d’arte è
simbolo. Allegoria e simbolo costituiscono il campo entro cui si muove, già da tempo, la caratterizzazione
dell’opera d’arte. Ma questo qualcosa che manifesta nell’opera qualcosa d’altro, che si riunisce a qualcos’altro,
è proprio la cosità dell’opera d’arte. Sembra quasi che la cosità nell’opera d’arte sia una specie di basamento in
cui e su cui poggia l’altro, l’autentico. Ma non è proprio questo essere-cosa dell’opera ciò che l’artista fa nel
suo operare? Ciò che proponiamo è di incontrare la realtà immediata e piena dell’opera d’arte: è solo così,
infatti, che nell’opera possiamo rintracciare l’arte nella sua realtà. Dobbiamo quindi incominciare col porre in
chiaro la cosità dell’opera. Ma a tal fine è necessario sapere chiaramente che cosa significa «cosa». Solo a
questo patto ci sarà possibile stabilire se l’opera d’arte è una cosa a cui inerisce anche qualcos’altro, oppure se
è alcunché di completamente diverso da una cosa; e quindi in nessun caso una cosa». M. HEIDEGGER, Der
Ursprung des Kunstwerkes (1935), in Holzwege, Frankfurt a. M., Klostermann, 1950; poi in GA, cit., Abt. I, Bd. 9,
Wegmarken (1919-1961), 20043; trad. it. di P. Chiodi, L’origine dell’opera d’arte, in ID., Sentieri Interrotti, Firenze, La
Nuova Italia, 19948.
2 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, cit., III, p. 83: «Analogamente si può indicare il contenuto di valore

estetico, il portato [Ertrag] di un’opera d’arte, come il senso dell’esperienza estetica, della pre-esperienza
creativa [des schöpferisches Vorerlebens], come del rivivimento che ne gode [des genießenden Nacherlebens]».

129
Il Pathos della Forma

l’esposto alla visione, il künstlerisch Gemeinte, quello che è stato inteso, e fatto proprio, meinen,
nell’opera d’arte. Reciprocamente lo statuto simbolico della datità materiale e l’indicazione
formale del senso estetico si illuminano in virtù dell’individuazione del Sachgehalt, di ciò che
è contenuto cosalmente nell’opera. Se pertanto distinguiamo la schietta materialità, che ricorre
nel mettersi in opera del gesto artistico, come mezzo di differenziazione graduale, se
assumiamo il riguardo raffigurativo, non a fronte della sua capacità di conformazione al
modello, all’esemplare effettuale esterno, ma nella sua traduzione espositiva, presentativi,
cosa costituisce il contenuto di senso dell’opera d’arte? Ed in che modo il suo rinvenimento
contribuisce alla ricerca circa la gestaltende Form, in cui Lask sembra impegnare le sue – e le
nostre - fatiche?
È evidente ormai che dalle riflessioni sinora raccolte traluce la ripresa di quelle
considerazioni mereologiche, che già avevano impegnato il Fichtesbuch nella distinzione tra la
teoria del concetto nella logica emanatistica ed in quella analitica, ove però diviene
dirimente la singolarità, la particolarità, non solo delle parti, ma della stessa unità del tutto.
La ripresa, e l’aggiornamento di quelle argomentazioni, è cioè reso possibile dalla selezione
della determinatezza, dalla posizionabilità materiale, dalla localizzazione iletica dell’opera
d’arte. «Anche quello che porta ad unità [verbindet zur Einheit] le singole parti dell’opera
d’arte, se non si intendono per parti le porzioni del mezzo esterno di rappresentazione, ci
conduce fuori dalla regione dell’accadere che trascorre nel tempo, legandosi causalmente.
Se un dramma iniziato esige [fordert] una determinata conclusione, allora gli atti precedenti
non sono la causa di quelli successivi, non si mostrano nel processo temporale come
antecedenti causali degli eventi che sopraggiungono dopo, ma ha luogo un reciproco
condizionarsi degli elementi del contenuto estetico totale [der Elemente einses ästhetischen
Gesamtgehaltes]. Mediante un’abbracciante coappartenenza [umspannende Zusammengehörigkeit]
del senso, le parti costitutive sono pretese [hingefordert] le une dalle altre» 1 .
La questione del contenuto di senso dell’opera d’arte, che ora si converte più
limpidamente in un contenuto complessivo, coincide con quella sulla sua unità, ovvero
concerne quel legame che conduce ad unità le parti, che qui ovviamente valgono come
momenti, come parti non indipendenti, e non come porzioni, pezzi, frammenti
indipendenti del deposito materiale. La disposizione del contenuto di senso estetico quale
unificazione rimanda dunque alla modalità della dipendenza delle parti non solo rispetto
all’unità, che le include, ma anche reciprocamente l’una in relazione con l’altra. Per questo
l’esempio addotto è quello della trama di un dramma, laddove il trascorrimento degli
episodi sembra aprire una pretesa intenzionale in merito alla successione, alla cadenza ulteriore
degli eventi. Lask opera infatti una variazione lessicale che merita attenzione, quando
sostituisce il mero termine pretesa, Forderung – appartenente al vocabolario logico in merito
alla formalità della Schlüsseltheorie, alla teoria della conclusione o dell’inferenza, che
sovrintende ad analisi rilevanti nell’ambito tedesco della logica post-kantiana, anche in
seguito al contatto con le ricerche milliane 2 , che si andavano traducendo, riscuotendo un

1 Ivi, p. 63. L’esempio di unità dell’opera d’arte qui arrecato da Lask, mostra evidenti le tracce aristoteliche, del
paragrafo settimo del περί ποιητικη̃ς: «Definiti questi punti diciamo quale debba essere la composizione
[σύστασιν] dei fatti, dal momento che si tratta del primo e più importante elemento della tragedia. Abbiamo
stabilito che la tragedia è l’imitazione di un’azione compiuta e intera [ό̉λης], dotata di una certa grandezza, è
possibile in effetti un intero privo di grandezza. Intero è poi ciò che ha un principio, un mezzo ed una fine.
Principio è ciò che esiste senza venire necessariamente [ε̉ξ α̉νάγηκς] dopo qualcosa d’altro, ma dopo cui
qualcosa d’altro necessariamente o per lo più [ε̉ξ α̉νάγηκς ή̉ ω̉ς ε̉πί τό πολύ] c’è o si produce. Fine, al contrario,
ciò che esiste necessariamente o per lo più dopo qualcosa d’altro, e dopo cui non c’è null’altro. Mezzo è ciò
che viene dopo altro ed è seguito da altro». ARISTOTELE, Περί ποιητικη̃ς, 7, 50b; trad. it., di D. Lanza, Poetica,
Milano, Fabbri, 1994, pp. 141- 143. Sulla definizione di intero, cfr. ARISTOTELE, Metafisica, 1042 a1.
2 In proposito scrive S. POGGI, ne I Sistemi dell’esperienza, cit., pp. 399- 400: «Il richiamo di Beneke alla analisi

epistemologica della nuova «filosofia naturale» inglese ed alla problematica dell’induzione come nodo
essenziale della struttura del metodo sperimentale delle «scienze della natura» era tuttavia un richiamo al quale
il dibattito filosofico tedesco degli inizi degli anni ’40 non sembrava rivolgere particolare attenzione data la
situazione di obbiettiva arretratezza in cui esso veniva a trovarsi. Tra la fine degli anni ’30 e l’inizio degli anni

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Il Pathos della Forma

consenso crescente – con quello più accurato e minuzioso di Hinforderung, di richiesta già
dotata del suo rivolgimento, Hin, a qualcosa. Che cosa indica, quindi, tale prefisso, Hin,
mediante cui le singole parti esigono vicendevolmente se non la loro umspannende
Zusammengehörigkeit, la loro comune appartenenza al senso, che ne determina la serratura, la
compagine?
«Che cosa è la «necessità», che da questi rapporti di valore accenna di-contro verso di noi,
e che cosa è l’essenza dell’opera d’arte che stringe insieme [zusammenzwingt], in un’unità
conforme al senso, gli elementi costitutivi, disponendone l’appartenenza e l’ordine
[Zugehörigkeit und Ordnung]? Riusciremo ad intendere la completa positività della risposta,
secondo cui il Valere atemporale riceve colore, solo se comprendiamo il valore [Wert] come
principio unitario nella molteplicità di colori del senso [das einheitliche Prinzip in der
Vielfarbigkeit des Sinnes]» 1 . L’essenza dell’opera d’arte, dunque, ancora una volta come
totalizzazione delle parti, e non come loro prensione semplicemente unitaria, è il
riconsegnarsi alla molteplicità cromatica delle determinazioni, è rimettersi alla pluralità del
suo contenuto. Se nel corso della lettura gli episodi di un dramma si mostrano in virtù della
loro corrispondenza, dell’ordine in cui si susseguono, conseguendo il successivo posizione
e ragione dal precedente, tanto quanto il precedente ampiezza e sbocco dal successivo, ciò
che colpisce l’analisi filosofica è il debito di connessione che reca in se stessa l’unità
dell’opera. In questo senso è lecito parlare di una necessità tra le parti del Kunstwerk, in
quanto esplicitazione di questa mancanza, di questa esigenza di cadere in uno spettro
cromatico dell’unità, che in se stessa è Farblosigkeit, assenza, quindi indigenza di colore. In
ogni opera si rinviene di volta in volta la determinazione di uno spettro, di una sfumatura,
di un oscuramento parziale, che tuttavia solo rende visibile qualcosa; in ogni opera cioè
quella che possiamo chiamare, ancora vagamente, come indicazione di valore della bellezza,
si arrocca in una deviazione, in una Abweichung, in una ritrazione, in un allontanamento, nel
cedere ad una determinatezza. Ciò che identifica l’arte, dunque, è che il suo atteggiamento
passa inevitabilmente per la produzione, Erzeugung, di una forma figurativa, in cui si compie
uno scarto, un’inversione, una modificazione: «l’arte» – scrive Lask, nel tentativo di
comporre l’architettura di un System der Werte – «produce pur sempre deviazioni immanenti
[immanente Abweichungen]» 2 . È proprio questa deviazione, essenziale alla messa in opera
dell’arte, che ne rintraccia l’autentica modalità formale, in quanto dare figura, mediante la
forma estetica, a qualcosa. «E questa dualità funzionale non si supera nemmeno se l’estetico
stesso diventa materiale dell’estetico. Dunque per noi questo non dipende dalla necessità di
un Materiale extra-estetico, ma da quella della duplicità funzionale di Forma e Materiale in
generale. Gli Obbietti estetici mostrano il tipo del Materiale, che si trova in una Forma. Il
contenuto di valore estetico è Forma, riguardo ad una materia [Stoff]» 3 .

’40 la discussione di Brobisch, di Beneke, di Trendelenburg, di Lotze aveva avuto indubbiamente il merito di
sottoporre a un indagine assai articolata molti dei motivi ricorrenti della speculazione filosofica post-kantiana,
in altri termini si era mostrata capace di un grande lavoro di revisione, di aggiornamento, aveva in un certo
senso compiuto l’«inventario» dei nodi problematici trascurati dal dibattito più direttamente ispirato dalla
tematica dell’«idealismo classico». […] In larga misura sollecitato dall’attenzione degli scienziati per la
problematica epistemologica francese ed inglese – liebig, nel pieno degli anni ’40, era stato il principale
promotore della traduzione (1849) del System of Logic di J. St. Mill – il dibattito filosofico tedesco iniziava
quindi a prendere contatto organico con questa problematica solo all’inizio degli anni ‘50».
1 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, cit., III, p. 65.
2 E. LASK, Zum System der Philosophie, in GS, cit., III, p. 185.
3 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, cit., III, pp. 117 – 118. Che le riflessioni laskiane sulla forma estetica,

sulla forma figurativa nell’opera d’arte siano tutt’altro che estranee al suo cammino di pensiero ed alla fecondità
della sua recezione, lo mostra nella maniera più evidente – E. LASK, Zum System der Philosophie, in GS, cit., III,
p. 212 – il rapporto con il Lukacs de L’Anima e le Forme, di cui viene messa in evidenza la polarità tra
solidificazione [Verfestigung, Formgeprägtheit] e fluenza [Fließende]. Lukacs, infatti, avendo ben considerato la
concezione propria della mistica tedesca dell’«afiguratività delle immagini», delle immagini nella loro nuda
purezza, intende – G. LUKACS, Die Seele und die Formen, Berlin, E. Fleischel; trad. it. di S. Bologna, L’anima e le
forme, Milano, SE, 2002, pp. 20-23 – la nozione di forma, nell’osservazione dell’opera d’arte, come recinzione
«di una materia che altrimenti si dissolverebbe nel tutto», come «delimitazione dei confini di ciò che è

131
Il Pathos della Forma

In margine a queste considerazioni, che appaiono a tutta prima eccentriche rispetto


all’asse principale del suo pensiero, Lask appone una clausola che getta ampia luce non solo
sulle doviziose analisi circa il Kunstwerk, ma anche sul quadro complessivo del suo
procedimento, includendo quasi una correzione tardiva, un aggiustamento metodologico di
non trascurabile rilevanza. In queste pagine, che si susseguono chiaramente come una
puntigliosa riscrittura della Logik, riprendendone talvolta interi passi, ed introducendovi
obiezioni, eccezioni, modifiche, approfondimenti, come nell’officina di un lavoro che
avrebbe meritato ben più tempo perché giungesse a compimento, Lask ritorna ad iniziare la
sua riflessione, o meglio, retrocede a porsi la questione del suo inizio. Così ripresentando la
sua speculazione come System der Logik, sospendendo l’affanno di misurarsi con se stesso,
pare fermarsi, ricavando un luogo testuale in cui sostare; così eccepisce: «si consideri che la
filosofia non ha solo a che fare con il senso, ma anche con la realtà effettiva attinta dal
senso» 1 . Anzi – scrive - «bisognerebbe giungere gradualmente a riconoscere, che tutta la
sfera del senso, in più di mille frazionamenti, sfumature, scialbature [Zersplitterung,
Abschattung, Verbalssung], non è altro che valore [Wert]…(ma qui non è ancora il
momento!)» 2 .
Allmänlich, poco a poco, recuperando quelle differenziazioni che si disperderebbero
altrimenti, rimandando ad una lenta raccolta nelle bassure della molteplicità, perché si
intenda sempre più dappresso quell’ancora indeterminata Fremdheit der Tatsächlichkeit,
quell’essere estraneo della fattualità. Lask ritiene ora più che illecito, impossibile, ciò che
pure lo aveva impegnato nella composizione dei suoi Hauptwerken, cioè iniziare, «senza
preamboli [Umschweifen], a provare, che la logica o la filosofia teoretica non consistano in
altro che nella comprensione a fondo [ergründen] di un determinato contenuto di valore, di
valenza e di senso [Wert-, Geltungs- und Sinngehaltes]» 3 . Ma quali sono le peregrinazioni cui
adesso deve attendere, quali sono le considerazioni, di certo secondarie, ma di cui ora
denota e rimarca la inevitabile funzione introduttiva? E soprattutto in modo contribuiscono
alla comprensione della questione della formalità del valere?

§. 2. Simbolo, sintomo ed annuncio.

2. 1. Segni simbolici

Già nell’analisi della conformazione propria all’opera d’arte, l’accenno alla materialità, in
cui essa giunge a compimento, esponendosi, manifestandosi nella sua singolarità, era stato
inteso nella sua valenza di innesto, nella duplicità insita nel mettersi in opera, nella confluenza
tra il contenuto di senso estetico rappresentato ed il sostrato, capace però non solo di
sostenerlo, ma anche di determinarlo ulteriormente, circoscrivendone la dimensione, il
perimetro, in virtù dell’ulteriore limite iletico. Dunque, quanto viene alla luce dunque in
merito alla definizione del sostrato, che essendo corporeo è anche sempre simbolico, è la
contribuzione che esso offre al rintracciamento dello statuto peculiare al senso, alla
significazione estetica, stando ai casi esaminati sino ad ora. Insomma, ciò che vieppiù
caratterizzava dunque il latore simbolico era l’essere stato creato, prodotto della sua figura, in
cui si rinveniva la forma della significazione.

estraneo all’essere». Quindi dinanzi al problema dell’unità ideale dell’opera d’arte, Lukacs può affermare – ivi,
p. 34 – che questa idea «è precedente a tutti i modi di esprimerla, essa è di per sé valore dell’anima, motore del
mondo e formazione di vita […]. L’idea è il termine di misura di tutto ciò che esiste, perciò il critico, che
rivela occasionalmente l’idea contenuta in qualche creazione sarà anche l’autore della sola vera profonda critica: a
contatto con l’idea soltanto ciò che è grande e ciò che è vero può vivere». Al riguardo si veda H. ROSSHOFF,
Zur Form des Gegenstandsbegriffs bei Emil Lask und dem frühen Georg Lukács, West Berlin, pp. 76-89.
1 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, cit., III, p. 65.
2 Ivi.
3 Ivi, p. 66.

132
Il Pathos della Forma

Continuando questo esame, ma virando più decisamente verso l’opera segnica più
propria al linguaggio, ovvero la scrittura, Lask prova ad individuare l’arco semantico del
significato, avvicinandosi così alla comprensione propria della forma espressiva, che dovrà
reggere la formalizzazione logica. Leggiamo infatti: «Probabilmente il termine «senso» in
una certa accezione ristretta, ed ancora di più il termine «significato» (con riguardo a), che
in questo caso è usato nella stessa accezione, indica proprio la relazione di segno [Zeichen] e
senso. La cosa più usuale è parlare del senso e del significato delle parole (Giudizio). Senso
e significato sono quello, a cui un segno indica [zeigt] (come mero portatore e sostituto
[Träger und Stellvetreter]), accennando [hindeutet] a ciò che è significato attraverso un segno
[das durch ein Zeichen Bedeutete], e bisogna pensare originariamente sempre a questa relazione
tra segno e designato (Significare). Innanzitutto: un determinato segno rispetto ad un
determinato designato.
Tuttavia ciò, a cui si accenna, è spesso l’essenza della cosa [das Wesen der Sache], mentre il
segno è un mero mezzo non apparente, che la porta all’espressione. Significare vuol dire
perciò indicare mediante le parole, esprimere, rappresentare simbolicamente mediante le
cose [bei Sachen] […]. Indicando il segno qualcosa d’altro, riceve esso stesso un certo peso:
significare qualcosa d’altro vuol dire: significare qualcosa stessa, avere importanza [auf sich
haben], voler dire [besagen], rappresentare, e così le locuzioni significare «qualcosa», «molto»,
«nulla», significante, significato assumono un senso assoluto di essenzialità [Wesentlichkeit],
che è divenuto d’uso comune in particolare con la lingua di Goethe (vedi il Deutsches
Wörterbuch dei fratelli Grimm), in cui è parzialmente scomparsa la relazione dell’indicare
qualcos’altro (aspetto che allo stesso tempo significa e lascia presagire [bedeutendes Gesicht
gleich ahnenlassendes]) o del venir significato da qualche altra cosa» 1 .
Come si può già chiaramente intendere, il procedimento laskiano assume come prima
tappa analitica la distinzione tra la definizione di senso e di significato, nell’accezione più
ampia di contenuto nella sua assolutezza, senza cioè alcun altro termine correlativo, e quella
di senso o significato di, quale riferimento a qualcosa. Al fine di risalire alla valenza semantica
originaria, da cui soltanto potrà prendere le mosse l’analisi logica, viene individuata la
seconda accezione, quella cioè che comprende un genitivo oggettivo, come più gravida di
conseguenze e di contributi per la comprensione. Nel caso, quindi, in cui si accolga
l’accezione più vaga di significare, per rintracciare la quale Lask utilizza il verbo latino
significare, ciò che viene in questione è la relazione tra un segno ed un designato, ovvero,
stante l’esempio del linguaggio, tra la designazione verbale ed il suo riferimento ad uno
stato, ad una condizione, ad un evento o, semplicemente, ad una cosa. Dunque, in questa
accezione, significare sta per indicare qualcosa attraverso un segno, hindeuten durch ein Zeichen; o,
più precisamente, sta per indicare qualcosa di determinato mediante un segno determinato.
Qui pertanto la determinazione, la delimitazione è duplice; si badi bene però: la
determinazione segnica, pur essendo inapparente nell’espressione – l’espressione cioè non
tematizza il segno, se non nel suo ricorso riflessivo – consente che qualcosa – che per ora
viene definito come essenza della cosa, ovvero la condizione contenutistica del segno, che si
presenta quale contenuto – giunga ad essere espresso. L’espressione di qualcosa è
duplicemente vincolata all’identificazione del contenuto ed alla limitazione della sua
declinazione segnica. In conclusione, se ci si fa carico dunque del significare, in
quell’accezione che considera l’effettualità del vettore significativo, il segno, si intende
l’espressione come il rimando a qualcosa di non meramente cosale, attraverso cose, le tracce,
appunto, i segni, le immagini, le parole. Il valore, non affatto indifferente, del segno si
insedia proprio nella sua non visibilità, nella sua ritrazione, nello spazio lasciato all’altro da
sé, a ciò che è indicato, additato, designato. L’indicazione segnica, cioè, reca in se stessa una
deformazione della mera significazione di qualcosa; ed è in virtù della determinazione
secondaria, correlata, indotta dal segno, che la sua rimandatività può assumere il carattere
del simbolo. Il segno, in altri termini, è latore di senso, è latore del senso di qualcosa,
1 Ivi, p. 82.

133
Il Pathos della Forma

inaugura cioè una duplicità di raggi referenziali, ogni volta che lo si tracci o lo si pronunci:
dispone di se stesso, celandosi in qualcosa d’altro, presenta se stesso in quanto indicante
qualcosa d’altro, espone se stesso e mostra, hin-deuten, qualcosa d’altro.
Perché ciò emerga, nella sua evidenza, Lask richiama la messe di esempi 1 che sono
raccolti nel glossario compilato dai fratelli Grimm, riprendendo per intero il secondo
lemma del verbo bedeuten, ove si richiama l’accezione del significare di cose, «senza accenno alle
parole», ed in parte il terzo che si apre con le locuzioni significare qualcosa, molto, poco, nulla. La
citazione che fa da perno alla sua dimostrazione, è tratta dal Wallerstein di Schiller, ove il
cantiniere, diffondendosi nell’interpretazione di una coppa istoriata, in risposta alla
domanda di Neumann, «qual senso è chiuso/ nel calice che veggo in questa insegna?», dice:
«l’antica/ libera elezion della Corona/ Boema effigiata è in quella donna. Il rotondo
cappello e quel feroce destrier che preme i simboli ne sono» 2 . Dunque ciascun hindeuten è
un bedeuten durch, ciascun indicare simbolicamente coincide con un significare qualcosa attraverso
qualcos’altro. Ciò che funge da latore di senso è il significato più prossimo del simbolo, è la
valenza semantica del runden Hut, del cappello rotondo, che consente il passaggio alla funzione
significativa di secondo grado – nel brano schilleriano -, alla corona boema. Nella
significazione simbolica il bedeuten si unisce, inestricabilmente, pena la dispersione del suo
senso, all’ahnen lassen, al lasciar presagire mediante una analogia, una somiglianza, Ähnlichkeit.

2. 2. Il ruolo differenziale della scrittura.

«Assumiamo, pertanto, che anche nei segni simbolici si trova una realizzazione
[Realisierung] del contenuto di senso. Allo stesso tempo aggiungiamo, che non è da ciò
intaccata la nostra tesi, secondo cui ogni senso rinvenibile nella fattualità è senso legato
all’esperienza fattuale. Dunque i segni simbolici, in cui è deposto [niedergelegt] il contenuto di
senso, sono solo una stazione mediana tra il contenuto di senso e l’esperienza» 3 .
Nonostante l’apparente limitazione, in cui Lask inscrive i symbolischen Zeichen, la deposizione,
il deposito, la solidificazione, la realizzazione, che in essi si compie, è tutt’altro che
ininfluente al fine di comprendere il modo di determinazione del contenuto di senso.
L’essere trattenuto nei segni simbolici è cioè un aspetto specifico dell’essere condotto,
Getragenwerdung, dell’essere portato ad espressione, la cui nota caratteristica è il peso della
fattualità. Quando viene in questione la realizzazione fattuale del contenuto di senso, o
meglio la sua realizzazione nella fattualità, si fa ovviamente riferimento alla composizione di
tale alloggiamento, alla modificazione, alla variabilità, cioè alla determinatezza temporale, in
cui l’esperibilità del Sinngehalt si apre nell’esperienza compiuta del suo deposito reale.
Nell’espressione di qualcosa mediante indicazioni segniche, mediante la formazione di segni,
il rimando al contenuto si accosta all’esposizione determinata di questo rimando: questo
consente il radicamento occasionale 4 dell’esposizione, stante la validità semantica, non-
occasionale del rimando, ovvero della relazione di senso. Sia chiaro, dunque, - e questo
argomento rappresenta l’ambito in cui il confronto con la dottrina husserliana delle Ricerche
Logiche giunge ad una maggiore maturità, riuscendo a conseguire una limpida distinzione –

1 Ivi.
2 F. SCHILLER, Wallerstein, Die Piccolomini, I, trad. it. in Liriche e Ballate, Milano, Mondadori, 1947: «Die
Weibsperson, die ihr da seht zu Roß,/ Das ist die Wahlfreiheit der böhmschen Kron,/ Das wird bedeutet
durch den runden Hut/Und durch das wilde Roß, auf dem sie reitet»,. Gli altri versi citati, disposti nella
medesima sequenza nel Deutsches Wörterbuch, ancora di Fr. Schiller, sono tratti da An die Freunde - «Sehn wir
doch das Große aller Zeiten/ Auf den Brettern, die die Welt bedeuten,/ Sinnvoll still an uns vorüber gehn»,
[«vediamo donde che la grandezza tutti i tempi/ sulle tavole che rappresentano il mondo/ significativamente
ci ignora nel silenzio»] – e da Das Lied von der Glocke - «freude dieser stadt bedeute,/ friede sey ihr erst
geläute», [«il primo squillo alla città, che l’ode,/nunzio di pace e di allegrezza sia»].
3 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, cit., III, p. 80.
4 Sulle espressioni essenzialmente occasionali, cfr. E. HUSSERL, Logische Untersuchungen., II, in Hua, cit., XIX, pp. 79-

86; trad. it. Ricerche Logiche, 1. vol., cit., Prima Ricerca Logica. Espressione e Significato, pp. 348-354.

134
Il Pathos della Forma

Lask riflette sul deposito segnico per isolare la parte occasionale dell’espressione, quella che
per ora continuiamo a chiamare esposizione, e non per assumere la definizione occasionale
dell’espressione, o di una determinata tipologia di espressioni.
Perché si intenda questa, solo di primo acchito, flebile differenza, esaminiamo più da
vicino come – nell’analisi laskiana – l’attecchimento su un deposito segnico, quindi figurale,
che abbia sussistenza reale [Realitätsbestand] contribuisca alla determinazione del contenuto
di senso. «Nei mezzi di rappresentazione e di accumulo simbolici [Darstellungs- und
Aufspeicherungsmitteln] e non solo,» – scrive Lask – «come il linguaggio, il materiale nell’arte
figurativa, i costumi, gli usi, le istituzioni, le azioni e gli oggetti simbolici, gli strumenti, ed
altro, viene investito ed incarnato [verkörpert] il (contenuto di) senso, la cosalità. Si incarna la
realizzazione del valore. Così ad esempio segni linguistici, parole pronunciate e scritte,
complessi fonetici e segni di scrittura sono immediati mezzi di deposito [del senso], mezzi
immediati di separazione del contenuto di senso teoretico. Sono figure del senso, mezzi di
rappresentazione figurali, sensibili del non-sensibile, segni reali in quanto portatori del non-
reale, ad esempio della verità intesa [der gemeinten Wahrheit] […]. La loro opera consiste nel
rendere effettivamente realizzabile un distacco del senso dalle formazioni complesse, dagli
atti dell’esperienza, in un determinato riguardo. Rendono il contenuto di senso autonomo
rispetto all’esperienza, rendendo possibile una esperibilità generale ed una invenibilità,
indipendenti dalle singole esperienze di realizzazione, garantendo loro appoggio in un
latore non solo reale, ma anche corporeo. Così i mezzi di deposito linguistici servono
all’autonomizzazione del senso vissuto, mediante la comunicazione e la custodia [der
mitteilenden und aufbewahrenden Versälbständigung]. Avendo infatti un senso rinvenibile nei
latori reali, siamo in grado di distogliere il contenuto di senso dal sostrato reale, senza
doverlo desumere dalla base dell’esperienza» 1 .
Nel lungo brano, appena presentato, Lask mette a punto un abbozzo di teoria dei segni,
con una considerazione particolare della scrittura, che rappresenta un hapax nella sua opera.
Ciononostante proviamo ad intenderne la funzione introduttiva e preparatoria alla
susseguente dottrina logica del senso. Come è stato già possibile verificare, sia nelle prime
pagine di questo capitolo, sia con maggiore ampiezza in quelle che le hanno precedute,
riguardanti le ricerche sugli oggetti storico e giuridico, la mira laskiana è di intendere le modalità
di realizzazione, di singolarizzazione che il riferimento al valore, od alla valenza del senso –
nei casi che ora ci riguardano più dappresso – assume volta per volta in formazioni
appartenenti al tessuto reale, effettuale, temporale, di cui qui si propone sin da subito un
quadro sinottico, vale a dire: le istituzioni sociali, prima, politiche poi, giuridiche, infine, gli
strumenti, i mezzi simbolici, il materiale, ovvero il materiale segnato dalla forma artistica. In
ognuno di questi casi, l’espressione di un contenuto di senso si sdoppia, dando luogo a due
catene differenti di effetti, a due considerazioni distinte, a due piani significativi, che
tuttavia interferiscono, pur non coincidendo, l’uno con l’altro. Quello che, nella
Rechtsphilosophie, abbiamo ritrovato come multidimensionalità del metodo, è tutt’altro che
una conquista limitata ad un campo tematico, ad uno specifico ambito oggettuale. Lungi dal
costituire un ostacolo alla comprensione, la determinazione figurale di qualcosa di non
riducibile a figura, il deposito sensibile di ciò che sensibile non è, offre un ineludibile piano di
avvicinamento alla morfologia dell’espressione generalmente, ed in ogni aspetto che essa va
assumendo nel corso dell’esperienza. Quello che rappresenta l’archetipo di queste
determinazioni figurali è, secondo Lask, l’opera grafica della scrittura, il cui carattere è
condiviso dalla graficità del diritto, dal tratto delle arti, dalla stratificazione dei segni simbolici.
La scrittura reca cioè in se stessa l’elementarità delle γράφαι, della scalfittura, dell’incisione,
della traccia, ma anche della designazione, della registrazione. In essa, la Niederlegung, il
deposito del contenuto di senso si rende possibile, in quanto concede un luogo di
autonomizzazione, di isolamento, di pietrificazione; in altri termini, lo concede mediante
due differenti versanti: la comunicazione, Mitteilung, e la conservazione, la custodia,
1 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, cit., III, pp. 77 – 78.

135
Il Pathos della Forma

Aufbewahrung. È sin da subito evidente come comunicazione e custodia rintraccino due opere
che hanno direzioni diverse, potremmo dire divergenti: in questa divergenza si insedia la
funzione della scrittura. Certo, se prendiamo in esame l’edificarsi faticoso di una tradizione,
la conservazione, il mantenimento, la cristallizzazione che la scrittura, come impresa grafica,
consente è da considerarsi funzionale alla comunicazione ed alla condivisione. Eppure in
ogni custodia, ne va di un trattenimento, di una dispersione, di un’alterazione, che non può
essere affatto trascurata. Ciò che Lask cerca di intendere è proprio l’interazione tra questo
trattenersi del contenuto di senso nel mezzo grafico e la sua differenziazione, tra il posarsi e
lo staccarsi, tra l’orma e l’assenza. Se è vero cioè che la scrittura reca la traccia deformata del
senso è altrettanto vero che è proprio in questa deformazione che si rende possibile
l’isolamento. Che la declinazione grafica del senso, immediatamente esperibile, perché
posta nel fluire dell’esperienza vissuta, fa presente all’esperienza una differenza 1 , in cui si
rinviene ancora una volta il senso. Se la cadenza della formazione è una successione di
deformazioni, come la serie dei colori riunita nello spettro cromatico è un insieme di
oscuramenti, è la frattura e lo sparigliamento della luce in un prisma, se ciascuna morfologia
è già sempre una teratologia, allora la scomposizione cui dà luogo la scrittura non è altro che
il destino differenziale del senso, il suo essere riconsegnato alla parzialità della presentazione,
della figurazione. La scrittura dunque appare come il mezzo di contrasto del senso, giammai
come lo spazio della sua generazione.

2. 3. Espressione ed Annuncio. Una lettura della Prima Ricerca Logica


husserliana

Le indicazioni segniche «indicano oltre se stesse [sie weisen über sich …hinaus] in un doppio
senso:» – scrive ancora Lask, includendo le sue considerazioni già in un ambito più vasto –
«in primo luogo come «espressione» [«Ausdruck»] indicano il senso da questi stessi
simbolizzato, ma, in secondo luogo, già con la loro mera esistenza [Dasein], in quanto
traccia, indizio, contrassegno [Spur, Anzeichen, Merkzeichen], «annuncio» [Kundgabe] indicano
un’esperienza che vi sta alle spalle (confronta con Husserl sulla differenza tra annuncio ed
espressione [Ausdruck und Kundgabe]). Proprio la formulazione linguistica è un indubitabile
sintomo [Symptom] del legame del senso deposto linguisticamente in un’esperienza. I segni
linguistici, in quanto posti arbitrariamente, sono documento della deposizione di un
qualche senso esperito. Il senso «espresso» [ausdrückter] linguisticamente deve essere senso
annunciato [kundgegebener], dunque esperito. Abbiamo trovato il senso in latori linguistici, ed
allo stesso tempo abbiamo tratte formazioni complesse nel nostro senso, cioè sullo sfondo
di latori di esperienza. Ogni senso, in qualsiasi modo lo si incontri, è un senso, che reca in

1 È bene sottolineare, in proposito, come la possibilità di tracciare una linea di confronto tra le riflessioni
laskiane sulla differenzialità della scrittura e la più ampia comprensione della scrittura come differenza in
Jacques Derida deriva più che da una lieve, ma pervasiva, suggestione linguistica, dall’insediamento di queste
argomentazioni – in ambedue i casi – in una revisione della dottrina fenomenologica dell’espressione. Sia di ciò
testimonianza, in particolare, il saggio su «Genesi e struttura» e la fenomenologia, costituente una cerniera teoretica
de L’écriture et la différence, ove Derida scrive al termine della rassegna delle tre direzioni (quella logica, quella
egologica e quella storico-teleologica) in cui si infrange la descrizione genetica della fenomenologia: «La ragione si svela
quindi da sé. La ragione, dice Husserl, è il logos che si produce nella storia. Attraversa l’essere in vista di sé, in
vista di manifestarsi a se stesso, cioè, come logos, di dire e di intendere se stesso. È la parola come auto-
affezione: il sentirsi-parlare. Esso esce da sé per riprendersi in sé, nel «presente-vivente» della sua presenza a
sé. Uscendo da se stesso, il sentirsi-parlare si costituisce in storia della ragione attraverso la deviazione di una
scrittura. Si differisce così per riappropriarsi. L’origine della geometria descrive la necessità di questa esposizione della
ragione nell’iscrizione mondana. Esposizione indispensabile alla costituzione della verità e dell’idealità degli
oggetti, ma anche minaccia del senso da parte del fuori del segno. Nel momento della scrittura il segno può
sempre «svuotarsi», sottrarsi al risveglio, alla «riattivazione», può rimanere per sempre chiuso e muto». J.
DERRIDA, L’écriture et la différence, Paris, Seuil, 1967; trad. it. di G. Pozzi, La scrittura e la differenza, trad. it. di G.
Pozzi, intro. di G. Vattimo, Torino, Einaudi, 20029, p. 215.

136
Il Pathos della Forma

sé il segno proprio dell’appartenenza ad una formazione complessa, del balenare davanti ad


un’esperienza, dell’essere mirato fattualmente» 1 .
Affinché si intendano queste considerazioni, con cui Lask aspira a proiettare la
determinazione del segno in una revisione della dottrina dell’espressione, è necessario
focalizzare quale sia l’esigenza di distinguere, con tanta nettezza, la Kundgabe dall’Ausdruck, il
dare notizia, annuncio di qualcosa, dal suo essere espresso 2 . La trattazione esemplare di
questa coppia concettuale, della sua interna differenza e delle ragioni della ricorrente sua
equivocazione, è data nel primo capitolo della Prima Ricerca Logica husserliana, ove
affrontando le distinzioni fenomenologiche ed intenzionali riguardanti le espressioni, se ne
esplicita la loro funzione comunicativa. «Per ogni nome – nota Husserl – si distingue tra ciò
che esso «rende noto» [«kundgibt»] e ciò che significa. Ed inoltre tra ciò che significa (il
senso, il «contenuto» della rappresentazione nominale) e ciò che esso denomina (l’oggetto
della rappresentazione). Noi troveremo necessariamente distinzioni analoghe per tutte le
espressioni e dovremo indagare accuratamente la loro essenza. Per questo noi separiamo il
concetto «espressione» da quello di «segnale», separazione che non si trova in contrasto con
il fatto che le espressioni possono anche fungere nel discorso vivente da segnali […]. Solo
considerando questi rapporti è possibile compiere una precisa delimitazione del concetto di
significato ed operare di conseguenza la fondamentale contrapposizione tra la funzione
simbolica dei significati e la loro funzione conoscitiva» 3 .
Avendo già isolato il carattere proprio del rimando segnico dalla significazione peculiare
all’espressione, nonché la veste fisica, effettuale dell’espressione, sia come complessione
fonetica che come articolazione grafica scritturale, Husserl, nel tentativo di conseguire il
concetto pregnante fenomenologicamente sia di espressione che di significato, quale
contenuto di un’intenzione espressiva, separa la funzione comunicativa dell’Ausdruck da
quella conoscitiva, a cui sono propriamente dedicate le sue chiarificatrici ricerche. «Per
ricavare le distinzioni essenziali, dal punto di vista logico» – scrive Husserl, dando inizio al
paragrafo quarto della Prima Ricerca, dedicato alla funzione comunicativa delle espressioni –
«consideriamo l’espressione anzitutto nella sua funzione comunicativa, che essa è destinata
originariamente ad assolvere. La complessione fonetica articolata (il segno scritto, ecc.) si
trasforma il parola parlata, in discorso comunicativo in generale per il solo fatto che colui
che parla la produce con l’intento di «pronunciarsi su qualche cosa», cioè conferisce ad essa, in
certi atti psichici, un senso che intende comunicare all’ascoltatore. Questa comunicazione
diventa tuttavia possibile perché l’ascoltatore comprende anche l’intenzione di colui che
parla. Ed egli può far questo in quanto coglie colui che parla come una persona che non

1 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, cit., III, p. 80.


2 Il significato di Kundgabe, e della serie linguistica che deriva dalla radice Kund, occupa un luogo centrale non
solo nella logica fenomenologica, al cui esame comparativo ci dedicheremo, con riguardo alla Prima delle
Ricerche Logiche husserliane, in cui il tema è quello di una dottrina del significato come relazione insistente tra
espressione, Ausdruck, ed intuizione, Anschaaung, tra l’apertura dell’indicazione, della mira, ed il suo
riempimento, coppia che fa da modello alle ricorrenti duplicità in seno alla fenomenologia. Un’occorrenza
illuminante del ruolo concettuale dei costrutti di Kund si evince dal secondo paragrafo delle Dingvorlusungen
(1907), riguardante il concetto preliminare di percezione esterna. «E’ dunque – scrive Husserl – il costituirsi [sich-
Konstituiren] – potrei anche dire l’auto-esibirsi in qualità di prova [das Sich – Beurkunden] - dell’oggettualità
empirica [Erfahrungsgegenständlichkeit] nell’esperienza inferiore che vogliamo qui studiare. Si tratta, in altri
termini, dei vissuti della semplice intuizione o presa intuitiva, sui quali solamente si edificano gli atti
superiori della specifica sfera logica e su cui solamente, nella così detta elaborazione del “materiale sensibile”
soggiacente, viene a costituirsi l’oggettività scientifica». E. HUSSERL, Ding und Raum. Vorlesungen 1907, hrsg.
von K. H. Hahnengress und S. Rapic, Hamburg, Meiner, 1991, p. 8. A riguardo si vedano, la traduzione
italiana parziale delle Dingvorlesungen in E. HUSSERL, Il libro dello spazio, a cura di V. Costa, Milano, Guerini,
1996; G. SCRIMIERI, La formazione della fenomenologia di Edmund Husserl. La ‘Dingvorlesung’ del 1907, Bari, Ed.
Levante, 1967; V. COSTA, L’estetica trascendentale fenomenologica. Sensibilità e razionalità nella filosofia di Edmund
Husserl, Milano, Vita e Pensiero, 1999; M. T. CATENA, Tatto e costituzione della cosa nelle ‘Lezioni’ husserliane del
1907, in «Archivio di Storia della Cultura», 2005.
3 E. HUSSERL, Logische Untersuchungen., II, in Hua, cit., XIX, p. 32; trad. it. Ricerche Logiche, 1. vol., cit., Prima

Ricerca Logica. Espressione e Significato, p. 299.

137
Il Pathos della Forma

produce meri suoni, ma che gli rivolge la parola, e che quindi, insieme ai suoni, compie anche
certi atti di conferimento di senso: egli vuole rendergli noti [kundgeben] questi atti o
comunicargli il loro senso. Ciò che rende innanzitutto possibile la frequenza spirituale e che
fa sì che il discorso che stabilisce un collegamento sia discorso, risiede in questa
correlazione, mediata dagli aspetti fisici del discorso, tra i vissuti fisici e psichici,
reciprocamente inerenti, delle persone che si frequentano. Vi è una coordinazione reciproca
tra il parlare e l’ascoltare, tra il dare annuncio [kundegeben] di certi vissuti psichici nel parlare
e l’assumere questo annuncio [Kundgabe] nell’ascolto» 1 .
Si mette così in scena il rapporto della comunicazione, la relazione duale cioè che rende
possibile il dialogo, trascinando dietro di sé un particolare utilizzo dell’espressione, che
raggiunge la sua forma apicale appunto nel kundgeben, nel rendere noto qualcosa di
comprensibile all’interlocutore, in un modo che gli sia, per qualche verso affine. In questo
caso non è in questione la comprensione compiuta del contenuto noematico
dell’espressione, ciò che essa esprime, il significato, quanto piuttosto la condizione del
richiamo, una specie del riferimento, del rimando indiretto ad un vissuto condivisibile, se
non condiviso. Per questo motivo, prosegue Husserl, «se si considera questo nesso nel suo
insieme, si riconosce immediatamente che, nel discorso comunicativo, tutte le espressioni
fungono da segnali. All’ascoltatore essi servono come segni dei «pensieri» di chi parla, cioè
dei suoi vissuti psichici significanti, così come degli altri vissuti psichici che sono contenuti
nell’intenzione comunicativa. Noi chiamiamo questa funzione delle espressioni linguistiche
funzione del rendere noto. I vissuti psichici resi noti formano il contenuto dell’annuncio.
Possiamo intendere questo essere reso noto in un senso più ristretto ed in uno più ampio. Nel
senso più ristretto, ci limitiamo agli atti di conferimento di senso, mentre nell’accezione più
estesa comprendiamo tutti gli atti di colui che parla, atti che l’ascoltatore gli attribuisce sulla
base del suo discorso (eventualmente perché in questo si parla di essi)» 2 . È lecito, dunque,
intendere qui nell’accezione più ampia della notificazione, del rendere noto qualcosa, una
gamma di atti linguistici che diviene di particolare rilievo in determinate circostanze, ove il
carattere di rimando segnico o di segnalazione, comprende con ogni evidenza modalità
performative che talora sostengono soltanto il discorso, talaltra lo fortificano, talaltra
ancora ne assolvono completamente il compito. Nell’esempio, cui di seguito fa cenno
Husserl, quello del pronunciarsi su un desiderio, la possibilità che l’ascoltatore percepisca
attualmente il vissuto, che l’enunciato reca in sé, è senza dubbio riconsegnato all’icasticità

1 E. HUSSERL, Logische Untersuchungen., II, in Hua, cit., XIX, pp. 32-33; trad. it. Ricerche Logiche, 1. vol., cit., Prima

Ricerca Logica. Espressione e Significato, pp. 299 – 300. Riguardo alla traduzione nel testo husserliano di Kundgabe,
kundgeben, abbiamo effettuato una variazione rispetto alla versione di G. Piana, che stando alla nota 6, p. 327,
dell’edizione citata, rende «Kundgabe con informazione, mentre le forme del verbo kundgeben con rendere noto». Al
fine di rendere accessibile la comparazione tra la trattazione husserliana con quella laskiana del medesimo
tema, abbiamo preferito invece adottare per l’intera ramificazione semantica e lessicale, in questione, i termini
di annuncio, dare annuncio o rendere noto, più attinenti alla non-posizionalità delle espressioni in cui ricorrono. Che
la comprensione distinta dell’accezione propria alla Kundgabe rappresenti un varco ineludibile all’intendimento
della teoria della significazione non solo in Husserl, ma nella più ampia letteratura fenomenologica, lo
dimostrano anche le ricerche sulla dottrina degli atti sociali in Reinach, cui si è dedicato J. Benoist. In un suo
contributo su Cosa rende gli atti sociali “sociali”? Osservazioni sul realismo sociale di A. Reinach, si può leggere:
«Reinach prende l’esempio del comando. Il comando non soltanto si riferisce ad un altro (non posso
‘ordinarmi a me stesso’ altrimenti che per scherzo) ma è indirizzato a lui: ordinando, mi rivolgo all’altro (ich wende
mich an den Anderen). Quel ‘rivolgersi a’ è una dimensione essenziale, costitutiva dell’atto che è il comando.
Questo significa che vige per il comando qualcosa come una costrizione (o un imperativo) di comunicazione.
La dimensione di ciò che Husserl chiamava nella prima Ricerca Logica la Kundgabe, l’informare, nel senso di ciò
che la linguistica anglofona contemporanea chiama ‘intimation’ (manifestazione linguistica da un locutore
all’altro dei propri atti psichici) è essenziale ad atti del tipo del comando.
Per dirla nel vocabolario di Reinach, “il comando, per sua essenza, necessita di essere percepito (der Befehl ist
seinem Wesen nach vernehmungsbedürftig)”». J. BENOIST, Cosa rende gli atti sociali “sociali”? Osservazioni sul realismo
sociale di A. Reinach.
2 E. HUSSERL, Logische Untersuchungen., II, in Hua, cit., XIX, p. 33; trad. it. Ricerche Logiche, 1. vol., cit., Prima

Ricerca Logica. Espressione e Significato, p. 300.

138
Il Pathos della Forma

del gesto, dell’intensità non solo linguistica, vale a dire del tono, della selezione
terminologica, del peso figurativo, in cui si assolve la comunicazione. «Quando io presto
ascolto a qualcuno» – continua nella sua puntuale descrizione Husserl – «lo percepisco
appunto come una persona che parla, la odo raccontare, dimostrare, dubitare, desiderare,
ecc. L’ascoltatore percepisce l’annuncio nello stesso senso nel quale egli percepisce la stessa
persona che la fornisce – benché i fenomeni psichici che fanno di essa una persona, in ciò
che essi sono, non possano cadere nell’intuizione di un altro. Il linguaggio comune ci
attribuisce anche una percezione dei vissuti psichici di persone estranee, noi «vediamo» il
loro sdegno, dolore, ecc.» 1 .
È proprio l’appartenenza dell’annuncio alla sfera impura del pensiero, come la definirebbe
Husserl, a quel campo di relazioni ombrose, condotte da quelle espressioni non posizionali,
non tetiche, in altri termini, non affatto conoscitive, in cui vige una presunzione di
percezione, una percezione inadeguata, ma non per questo semplicemente elusiva, una
percezione esterna e non interna 2 , è questa impurità che definisce nella maniera più
concludente lo statuto segnico, in senso ampio, simbolico, della Kundgabe 3 .
Risulta, quindi, ora evidente la ragione della critica – condivisa sia da Husserl che da Lask,
seppure con accenti differenti – alla confusione tra vissuti resi noti e vissuti espressi. In
questione non è solo la maggiore ampiezza del campo definito dall’espressione rispetto a
quello dell’annuncio, piuttosto è la determinazione propria di quest’ultimo per il contributo
che conferisce alla comprensione più netta della significazione e del significato. Raccogliendo le
sue considerazioni sulla simbolicità dell’annuncio ed, inevitabilmente, sullo statuto di
annuncio di ciascun simbolo, compreso il segno grafico, Lask annota, infatti, che
«l’esistenza [Existenz] del mezzo di rappresentazione simbolico è solo un indizio [Anzeichen]
della sussistenza di una qualsiasi esperienza di senso, ma non offre alcuna garanzia, che
quello che in verità si trova nel senso deposto sia effettivamente un senso esperito. I mezzi di
espressione del senso, che ci stanno davanti, sono in verità sempre annunci [Kundgabe] di
esperienze di senso, ma non sono una prova [Beweis] del fatto che il senso espresso,
secondo il suo esatto contenuto [Gehalt], si accordi con quello esperito, per esprimere il
quale avrebbe luogo la deposizione [Niederlegung], che esso si accordi con ciò che era stato
propriamente «inteso» [gemeint]» 4 . La questione, dunque, pare essere quella dell’insufficienza
della Kundgabe come prova, la sua non corrispondenza, giocata all’interno del medesimo
albero linguistico, con l’Urkunde, quella notizia dei fatti, ad esempio in ambito giudiziario,
che si avvalora in virtù della propria originarietà, l’Ur dell’Ur-kunde, quindi del Beweis. La
notizia data, resa manifesta, fatta uscire dall’incognito, non risarcisce cioè la sua fonte, che
scompare nel pronunciamento: in suo luogo si insedia il deposito simbolico, il segno, la
traccia. Detto altrimenti, nella Kundgabe, il portato significativo non è dato in se stesso, ma
attraverso altro, nella cui mediazione più che una ricomposizione, un riempimento, si
sancisce una distanza, l’impossibilità di un risalimento. La Kundgabe accompagna il suo
stesso contenuto: questo accostamento denuncia la propria accidentalità.
Riteniamo si riferisca a ciò Lask,quando osserva: «la formulazione linguistica è un
indubitabile sintomo del legame del senso deposto linguisticamente in un’esperienza. I

1 E. HUSSERL, Logische Untersuchungen., II, in Hua, cit., XIX, p. 34; trad. it. Ricerche Logiche, 1. vol., cit., Prima
Ricerca Logica. Espressione e Significato, p. 301.
2 «L’ascoltatore percepisce che chi parla manifesta certi vissuti psichici, e in questa misura percepisce anche

questi vissuti, ma egli non li «vive», non ha di essi una percezione «interna», ma «esterna». Si tratta della grande
distinzione tra l’apprensione effettiva di un essere in un’intuizione adeguata e l’apprensione presuntiva di un
essere in una rappresentazione intuitiva, ma inadeguata». Ivi, p. 301.
3 Che la Kundgabe pertenga a questo ambito è testimoniato anche dalle lucide analisi, che di certo non

sfuggirono a Lask, contenute nel secondo capitolo dei cohniani Voraussetzungen und Ziele des Erkennens. Cfr. J.
COHN, Voraussetzungen und Ziele des Erkennens, cit., pp. 60 – 67. Inoltre sul rapporto Husserl-Cohn, si veda R.
KLOCKENBUSCH, Husserl und Cohn. Widerspruch, Reflexion und Telos in Phänomenologie und Dialektik,
Phänomenologica Bd. 117, Dordrecht, Kluwer, 1989.
4 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, cit., III, p. 81.

139
Il Pathos della Forma

segni linguistici, in quanto posti arbitrariamente, sono documento della deposizione di un


qualche senso esperito» 1 . Ma a carico di tale questione è necessario concedere un
supplemento di indagine.

2. 4. Dal simbolo al sintomo.

Cosa si intende quando si afferma che qualcosa accade α̉πό συμπτώματος? Semplicemente
che qualcosa accade, πιπτέι, insieme a qualcosa d’altro, senza che però la loro
contemporaneità, il legame, che nella coincidenza temporale si fa presente, illustri alcun
nesso, senza che rechi alla sua comprensione alcuna necessità. Ciò che prendiamo in
considerazione viene visto, afferrato, accanto ad un altro stato di cose, non rivelandone
alcuna dipendenza. Τό συμπεσών, ciò che accade insieme, od in forma del tutto sostantivata,
τό σύμπτομα, il sintomo, ha, nel suo uso greco classico, un’accezione coincidente con τό
συμβεβηκόν, ovvero accidente, ed allo stesso modo, vale anche come proprietà accidentale,
carattere secondario.
Il passaggio che Lask compie nella considerazione del segno grafico, in specie del deposito
linguistico, dalla simbolicità all’annuncio, ed infine alla sintomaticità, si fa carico della non mai
accantonata meditazione sul transzendentale Zufallsbegriff: nell’uno, come nell’altro caso,
l’intenzione è di rendere il limite del concetto, più che della concettualizzazione, non un
concetto limite, né un Restbegriff, come margine statistico, ma la trama temporale della
realizzazione. In che senso, dunque, la formulazione linguistica è sintomo – seppure
indubitabile – della deposizione del senso in un’esperienza? Dove alberga qui l’accidentalità,
dove l’assenza di dubbio?
L’utilizzo dei termini, che risalgono alla radice di sintomo, è variamente ripetuto nel corpus
laskiano, quando in conto è un tipo di connessione, che comporti una dispersione, una
differenziazione ulteriore, una frammentazione esperienziale 2 , ed in particolare ove si tratti
di riferire di una formazione complessa, comprendente l’espressione linguistica.
Ogniqualvolta vi fa ricorso, il capo, di cui si scorgono i sintomi, è il contenuto di senso, è
l’essere contenuto del senso. Il precipitato di tale contenutezza, la composizione espressiva
dell’enunciato esibisce le vestigia della propria collocazione, il velame, il riflesso, Abglanz,
l’intorbidamento, Trübung 3 , della propria dimora. Quale forma essa abbia non discende

1 Ivi, p. 80.
2 Ivi, p. 93. «Il Valere è ciò che porta in sé un sintomo del proprio essere opposto [ein Symptom des
Gegegübersgestelltseins], una memoria del lato opposto all’esperienza, in cui giunge questo momento di relazione,
che sembra per così dire attinto, toccato, da questo essere rivolto verso la sfera oppositiva del soggetto». E.
LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, cit., II, p. 352: «Il fenomeno dell’oppositività nella regione del giudizio si
mostrerà come il sintomo della sua raffiguratività e della sua posizione secondaria». Ivi, p. 396: «In tutte
queste [forme di valenza e di valore] è presente il mero Valere senza molteplicità, conforme al valore, a cui il
contenuto di significato, intorbidato [trübere], si appoggia, in ogni forma singola, come sintomo dell’accenno
ad un determinato materiale».
3 L’utilizzo del termine Trübung, e dell’aggettivo da esso derivato, cui si fa riferimento quanto all’intendimento

laskiano della modalità di incidenza che lo strato dell’esperienza vissuta ha sulla collocazione del contenuto di
senso, e che più generalmente comprende la sua intera riflessione sulla catena morfologica del Valere, vale a
dire sulla modalità formale propria del Valere di farsi figura di valore – ed in altri termini, sulla modalità formale
del senso di farsi frammento figurale di significato, denuncia, a nostro parere con tutta evidenza, un cospicuo
legato del pensiero goethiano sulla figurazione, Gestaltung, ed in particolare sulla figurazione cromatica,
esposta nella Farbenlehre. Se da un lato la lettura laskiana di Goethe si inserisce in un più ampio piano di
Auseinandersetzung con il Romanticismo tedesco, prima ancora che con l’Idealismo, ove il legame con l’evento
della Rivoluzione francese funga da segno della discendenza dall’Illuminismo, come testimoniano le sue
riflessioni su Hegel e la visione del mondo dell’Illuminismo, confermate da alcuni capitoli intensi del Fichtesbich e dalle
annotazioni ultime su Hölderlin, tuttavia essa conserva caratteri autonomi, sia nella focalizzazione di alcuni
concetti che nella crescita e nella selezione linguistica. Sotto questa luce, il confronto con Goethe – anche

140
Il Pathos della Forma

affatto dalla morfologia del suo ospite, ma è di volta in volta riconsegnata all’arbitrio di chi
la edifica, la compone, la rifinisce. Ma ciò, la variabilità dell’aspetto che il soggetto può
rendere all’espressione, non è sufficiente a comprenderne l’essenza. Questo significa che
essa è sintomo, che reca in sé due raggi, la cui connessione non coincide con il medesimo
contenuto dell’espressione. L’enunciazione linguistica non dice del suo riferimento, ma si
limita a dare notizia di ciò a cui si riferisce. Se intendiamo per modalità sintomatologica quella in
cui il segno è casualmente connesso col suo designato, riferiamo l’accidentalità alla modalità formale
in cui il segno si trova, assegnando al segno un carattere non completamente semantico 1 .
Anzi, determinando la formulazione linguistica, e ciascuna formulazione complessa nel
linguaggio, come sintomatologica, differiamo la funzione semantica oltre di essa, pur
riconoscendone l’incidenza differenziante, proprio in quanto località, Situation.

Riprendiamo, ora, gli aspetti della significazione, che siamo andati sin qui distinguendo,
nella lettura delle pagine di Lask, perché sia di seguito presentato, nella maniera più analitica
possibile, lo specifico della sua teoria logica. 1) In primo luogo, stante il complesso della
significazione, troviamo il nesso propriamente di rimando, di rinvio del segno, Zeichen,
rispetto al proprio designato, che assume l’accezione più generica di significato 2 . In questo
primo caso, per significato si intende il terminale di un riferimento segnico, non affatto il
suo contenuto. 2) Nel seno della significazione segnica, la specificità del simbolo consiste
nella vigenza di un deposito materiale, di una consistenza data, in cui si insedia
un’indicazione di senso. Si assume così l’accezione di simbolo nella massima prossimità alla
sua radice etimologica, come coniugazione di due elementi che si differenziano
reciprocamente. Per simbolo, dunque, più che una relazione tra segni, ovvero di un segno
ad un altro, come nella logica fenomenologica husserliana, si intende una modalità di
significazione in cui la primaria concrezione materiale, il deposito materiale, inverte la sua
subordinazione quanto al suo riferimento, operandone una deviazione 3 . Ne è esempio la

riguardo alla sua centrale riflessione sulla costruttività del giudizio riflettente kantiano – rimane una possibilità
aperta lungo l’intero arco della filosofia di Lask, nella sua aspirazione ad una logica della filosofia – come
vedremo – quale tipologia trascendentale. In altri termini, il tentativo laskiano, che stiamo cercando di
illuminare progressivamente, sembra essere quello dell’imponente abbozzo di una teoria dei colori di valore, ove le
formazioni, cioè, di valore siano intendibili, morfologicamente, come formazioni cromatiche, affrontando le
mine della particolarità dell’individuazione. D’altronde, questo accostamento ermeneutico reca con sé l’importo
delle medesime ambiguità goethiane dinanzi alla scienza newtoniana, anche nella logica di Lask, come sarà
ravvisabile nella ulteriore comprensione della gegenständliche Urbildlichkeit fatta presente nella Lehre vom Urteil,
rispetto ai concetti goethiani di Kraft, in quanto ein beginnendes Vorbild, ovvero Gestalt der ersten Erscheinung:
eppure, questo non si para dinanzi a noi come un pericolo, piuttosto come un ulteriore campo su cui mettere
alla prova la dirimente pretesa trascendentale, che dovrebbe muovere l’intera impresa concettuale di Emil Lask.
Perché sia ancora più chiara la posta qui in gioco, rimandiamo all’articolo, goethiano su Der Ausdruck Trüb, del
1784, contenuto in JH. W. V. GOETHE, Die Schriften zur Naturwissenschaft, Leopoldina Ausgabe, hrsg. von D.
Kuhn, E. Matthei, W. Troll, K. L. Engelhardt, Weimar, Hermann Bölhaus, 1962, vol. 8, I, pp. 227-29, citato
in R. TRONCON, Perché una storia del colore?, in JH. W. V. GOETHE, La storia dei colori, trad. it. di R. Troncon,
Milano – Trento, Luni, 1997, pp. 28-31. «In un'introduzione alla morfologia – scrive Goethe – , non si
dovrebbe parlare di forma e, se si usa questo termine, avere in mente soltanto un'idea, un concetto, o
qualcosa di fissato nell'esperienza solo per il momento. Il già formato viene subito ritrasformato; e noi, se
vogliamo acquisire una percezione vivente della natura, dobbiamo mantenerci mobili e plastici seguendo
l'esempio ch'essa stessa ci dà»; JH. W. V. GOETHE, La metamorfosi delle piante e altri scritti sulla scienza della natura,
trad. it. a cura di S. Zecchi, Parma, Guanda, 1999, p. 43. Riguardo al concetto di Gestaltung, nelle opere
scientifiche di Goethe, si veda la dottrina della differenziazione delle figurazioni, avente come principio, «Alle
Gestalten sind ähnlich, und keine gleichet der andern», nell’elegia Die Metamorphose der Pflanzen (1798), in Gedichte,
Kommentiert von Erich Trunz, Hamburger Ausgabe , Bd.1; trad. it, La metamorfosi delle piante e altri scritti sulla
scienza della natura, cit. Cfr. E. CASSIRER, Goethe e il mondo storico, a cura di R. Pettoello, Brescia 1995; L. PICA
CIAMARRA, Goethe e la storia. Studio sulla “Geschichte der Farbenlehre”, Napoli, Liguori, 2001.
1 E. MELANDRI, La linea ed il circolo, cit., §. 13, pp. 57-63; §§. 36-42, pp. 191-228.
2 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, cit., III, p. 83.
3 A questo riguardo, pare di indubbio valore oltre che comparativistico, anche esplicativo, riportare la

designazione del simbolo, che Gadamer compie, nella sua opera di differenziazione dall’allegoria. «Il simbolo,
invece, [diversamente dall’allegoria] non è limitato alla sfera del logos, giacchè il simbolo non è in rapporto con

141
Il Pathos della Forma

produzione artistica, capace di formazione figurativa, come messa in opera di un contenuto di


senso estetico, a sua volta coinvolgente un riferimento, sempre, extra-estetico. 3) Ciascuno dei
casi presentati, esige che il rimando o la congiunzione siano esposti, espressi. All’interno
della ampiezza semantica dell’espressione, si è così distinta la tipologica dell’annuncio,
Kundgabe, ove la presentazione del contenuto è secondaria rispetto all’accenno rispetto
all’interlocutore, ed alla modalità, latamente, segnica in cui ricade. Della gamma della
Kundgabe, oltre alle distinte tipologie degli atti linguistici, Lask ritiene faccia parte anche la
stratificazione linguistica, la scrittura, che in maniera analoga a quanto accadeva nella
simbolizzazione, determina un arco di differenziazione, di declinazione del contenuto di
senso, in virtù della sua particolarità materiale, già evidente nel piano grammaticale, in cui si
compone.
Se dunque, in senso amplissimo, è distintivo dell’ambito della significazione la modalità
del rimando, dell’hinweisen, è nella determinazione di questo rimando che si scontano le sue
essenziali differenze. Se consideriamo il contenuto del sintagma senso di intendiamo già
sempre un contenuto di significato [Bedeutunggehalt] 1 . Quando cioè menzioniamo un senso di, ein
Sinn von, indichiamo il «senso dell’esperienza in formazioni complesse», facciamo
riferimento all’essere recato del senso nell’esperienza, ove «il venir-esperito significa il
venir-portato [Getragenwerdung] del senso, pre-rapporto [Vorverhältnis], in cui ricade il senso,
che è allo stesso tempo sempre un rapporto al senso» 2 . L’identità tra senso di e contenuto di
significato è definita cioè dall’appartenenza alla modalità espressiva delle komplexe Gebilde, di
un modo dell’essere figurato, che prevede essenzialmente il termine estremo della
soggettività esperienziale. «Il «di» nell’espressione «Senso di» [Das «von» in «Sinn von»], che
rimanda infine sempre ad un «per»» – scrive Lask, ultimando la prima parte del System der
Logik – «è un sintomo di significato nel Senso, un accenno al Soggetto [ein hinweisen aufs
Subjekt]. […] Solo seguendo questa strada otteniamo una differenza tra Senso e
Significato» 3 .
Questa strada – la distinzione delle modalità del rimando, così come il rinvenimento della
sua formalità pura, la sua differenziazione sulla superficie scabrosa della soggettività
esperiente così come il suo allontanamento, la sua eccedenza ultima 4 - è quella, che siamo
costretti a seguire nel prosieguo delle nostre ricerche

un altro significato mediante il proprio significato, ma il suo stesso essere sensibile ha «significato». Nel suo
essere presentato è qualcosa in cui si riconosce qualcos’altro: così per esempio la tessera hospitalis o simili. Il
simbolo indica ciò che non vale solo per il suo contenuto, ma per la possibilità di essere esibito, ed è quindi
un documento, attraverso il quale i membri di una società si riconoscono: sia esso un simbolo religioso, o si
presenti invece in senso profano come un distintivo, un lasciapassare o una parola d’ordine – in tutti i casi la
significazione del symbolon si fonda sulla sua concreta presenza e solo nell’essere esibito o pronunciato acquista
la sua funzione rappresentativa». H.-G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tübingen, Mohr, 1960; trad. it. di G.
Vattimo, Verità e Metodo, Milano, Bompiani, 199510, p. 100.
1 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, cit., III, p. 126.
2 Ivi, p. 81: «[…] ci imbattiamo nel concetto effettivamente più vasto e più significativo di «senso di», rispetto

a cui il senso, nell’accezione di «significato» (di un segno) ne appare solo dedotto».


3 Ivi, p. 136.
4 Ivi, p. 84: «Il termine «senso», così noi possiamo ora riassumere quanto detto in precedenza, unifica per noi

un momento di significato assoluto ed uno di significato relativo. È qualcosa preso assolutamente, quando
come «significato» (nel senso originario), non si dedi ca ad essere obbietto di un’indicazione, un qualcosa in
rapporto a qualcosa d’altro, un portato [Getragenes] da opporre ad un portatore [Träger]. Piuttosto esso indica
l’intera sfera del comprensibile in opposizione alla fattualità insignificabile [undeutbaren Tatsächlichkeit], dunque
uno degli emisferi nella dualità originaria del pensabile. Ma questo preso assolutamente è pensato carico
[behaftet] di un momento di relazione. Chiamiamo, quindi, «senso» il valente, se lo pensiamo tratto in un teatro
esperienziale [Erlebensschauplatz]. Nel senso si insinua già il significato secondario, secondo cui esso è in
opposizione all’essente, ma allo stesso tempo si trova in una relazione di appartenenza [Relation und
Zugehörigkeit] rispetto ad un essere, di cu i [w ov o n] è il senso».

142
Il Pathos della Forma

§. 3. Note su una teoria del senso: intorno alla dottrina stoica del λεκτόν.

È la quarta dimensione della proposizione. Gli


Stoici l’hanno scoperta con l’evento: il senso è ‘ciò
che è espresso dalla proposizione’, quest’incorporeo
alla superficie delle cose, entità complessa
irriducibile, evento puro che insiste o sussiste nella
proposizione. Nel XIV secolo questa scoperta
viene fatta una seconda volta dalla scuola di
Ockham, da Gregorio da Rimini e da Nicolas
d’Autrecourt. Una terza volta, alla fine del XIX
secolo, dal grande filosofo e logico Meinong.
[G. Deleuze, Logica del Senso.]

Indizi di lettura. Bolzano, Husserl, Lask

Ci proponiamo pertanto di seguire quella serie dei significati della nozione di ineffettualità
– α̉σώματον, bestehen: υ̉̉φισθάναι – che ci conduce alla studio della dottrina stoica della
significazione. Per conseguire ciò, seguiremo un percorso di lettura che muoverà dalla
ripresa, che ne aveva fatto Bolzano in testa al paragrafo 23 della Fundamentallehre, nel primo
libro della Wissenschaftlehre.
Che la scrittura e la pubblicazione di quest’opera – risalente al 1837 – siano precedenti
rispetto alla composizione della prima raccolta sistematica di frammenti stoici – a cura di C.
Wachsmuth 1 – pur limitata alle testimonianze sui primi due scolarchi, illustra già da subito
l’eccentricità dell’interesse di Bolzano, ed allo stesso tempo, della nostra lettura
conseguente, rispetto al piano di una trasparente e compiuta disamina storica e filologica.
Alla vaghezza, alla scarsità di documenti addotti per sostenere la tenuta di quel paragrafo
essenziale alla chiarificazione delle Sätze an sich 2 , all’isolamento di un solo frammento –
come viene sottolineato da Kneale-Kneale, nella loro Storia della Logica 3 – non fa seguito

1 C. WACHSMUTH, (a cura di), Commentationes de Zenone Citiensi et Cleanthe Assio, Göttingen, Hirzel, 1874-75.
2 Sulle Sätze an sich e sulla differenza tra proposizioni e mere rappresentazioni in sé, si veda B. BOLZANO, Von
der mathematischen Lehrart, in Einleitung zur Grössenlehre, Erste Begriffe der allgemeinen Grössenlehre, Stuttgart – Bad
Cannstatt, Frommann, 1975; trad. it. a cura di L. Giotti, Del metodo matematico, intro. di C. Cellucci, Torino,
Bollati Boringhieri, 2004, in part. pp. 44-45.
3 «I passi di autori precedenti che Bolzano cita a sostegno della propria dottrina dei Sätze an sich (ed, in

particolare delle Wahrheiten an sich) non sono molto adatti allo scopo. Egli non citainfatti con completezza la
dottrina stoica dei λεκτά, né quella medievale dei dicta propositionum o complete significabilia e menziona invece
affermazioni di antichi e moderni secondo i quali essere e verità possono essere identificati», M. KNEALE- W.
KNEALE, The Development of Logic, Oxford, Clarendon Press; trad. it. a cura di A. G. Conte Storia della Logica,
Torino, Einaudi, p. 411.

143
Il Pathos della Forma

alcuna integrazione genealogica, donde poter far risaltare la diffusione e lo sviluppo di una
dottrina della significazione, che avrebbe potuto trovare nelle dispute dell’età di mezzo
sostegno ed applicazione. Tuttavia, già l’indicazione di quella fonte – gioiello della filosofia
ellenistica – infrangeva un interdetto, provocando il pensiero.
È noto l’editto kantiano secondo cui «la logica da Aristotele in poi non ha dovuto fare
alcun passo indietro, a meno che non si voglia eventualmente attribuirle, come
perfezionamenti, l’eliminazione di alcune sottigliezze superflue o la determinazione più
chiara della materia esposta; ciò peraltro è pertinente più all’eleganza, che alla sicurezza
della scienza. Nella logica è ancora degno di nota il fatto, che sino ad oggi non ha neppure
potuto fare alcun passo in avanti e quindi, secondo ogni apparenza, sembra essere chiusa e
compiuta» 1 . Da questo decreto storiografico, che aveva trovato così la sua più nitida e
vincolante espressione – laddove illustrava la ricorsività sistemica della logica, quale
dedizione al disegno delle regole formali di ogni pensiero, scarno vestibolo della scienza, dunque
della logica in generale, in quanto formale, che nulla partorisce – discendeva un duraturo
impianto di lettura, culminante nella Geschichte der Logik in Abendlande di Prantl 2 , fonte
discreta ed affidabile di molte generazioni di studiosi europei 3 . Quel frattempo trascorso tra
1 I. KANT, Critica della Ragion Pura, III 7, [Prefazione alla Seconda Edizione], cit.. Che l’infrazione di tale interdetto
sia essenziale alla costituzione di un nuovo paradigma formale per la logica, lo dimostra, con concisione
esemplare, l’inizio del III capitolo dei Grundzüge der theoretichen Logik [pubblicati nel 1928 da D.Hilbert, in
collaborazione con W. Ackermann, raccogliendo i corsi sui fondamenti della logica matematica, tenuti tra il
1917 ed 1922], ove si addita nell’elusione del ruolo della formalità in un sistema logico, la distorsione
prospettica kantiana quanto alla storia della logica post-aristotelica. Ciò che resta assente nel disegno logico di
Aristotele – scrivono gli autori – è «la comprensione della rappresentazione simbolica delle relazioni che
sussistono tra oggetti differenti» [D.HILBERT, W. ACKERMANN, Grundzüge der theoretichen Logik, Berlin,
Springer, 1928, p. 44].
Come introduzione alla logica stoica rimandiamo, oltre agli studi citati nel corso del presente paragrafo, anche
a A. REYMOND, La logique stoicienne, Revue de Theologie ed Philosophie, s. II, XVII, 1929, pp.161-171 ; M.
PHOELENZ, Die Begründung der abendländischen Sprachlehre durch die Stoa, in «Nachrichten Gött. Gesellschaft»,
Phil. Hist. Kl., N. F. III, 6, Göttingen 1939 (1940); ID., Grundfragen der stoischen Philosophie, Abhandlungen
Gött., in «Gesellschaft Wissenschaften», Philolol. Hist. Kl. 26, Göttingen, 1940; O. GIGON, Das Problem der
Wissenschaft in der Antike, in «Universitas», I, 1946, pp. 1073-1084; A. VIRIEUX-REYMOND, La logique et
l’epistemologie des Stoiciens. Leurs rapports avec la logique d’Aristote, la logistique et la pensee contemporaine, Lausanne, Lire,
1949; ID., La formation de l’idee de loi scietifique dans l’antiquite, in «Revue Philosophique», CXLVI, 1956, pp.382-
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EDELSTEIN, The Meaning of Stoicism, Cambridge, 1966; W.H. HAY, Stoic use of logic, in «Archiv für Geschichte
der Philosophie», LI, 1969, pp.145-157; CH.H.KAHN, Stoic logic and Stoic Logos, in «Archiv für Geschichte der
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«Arch. Gesch. Philos.», LXII, 1980, pp. 276-288 ; M. NASTI DE VINCENTIIS, Logica scettica ed implicazione stoica.
A proposito di adv. Math VIII, 462-481, in AA. VV., Lo scetticismo antico, Atti del convegno in Roma 1980, a cura
di G. Giannantoni, Napoli, Bibliopolis, 1981, pp. 501-532 ; M. GARCIA SOLA, La doctrina estoica del lectòn, in
«Sodalitas», II, 1981, pp. 71-82 ; D. SEDLEY, The negated conjunction in Stoicism, in «Elenchos», V, 1984, pp. 311-
316; J.MANSFELD, Intuitionism and Formalism. Zeno’s Definition of Geometry in a fragment of L. Calvenus Taurus,in
«Phronesis», XXVIII, 1983, pp.59-74.
2 K. PRANTL, Geschichte der Logik in Abendlande, 4 voll., Leipzig, Leipzig, Hirzel, 1855-1870; trad. it. Storia della

logica in Occidente: Eta Medievale Parte Prima: Dal secolo VII al secolo XII, Firenze, La Nuova Italia, 1937.
3 De Prantlio nisi male [W. Risse]. W. VON CHRIST, Gedächtnisrede auf K. Prantl, München, 1890; CL., BAEUMKER,

K. Prantl, in «Allgemeine deutsche Bibliographie», vol. 55, pp. 854- sgg., 1900; F. ALESSIO, Prospettive e problemi
nella storia della logica medievale, in Atti del convegno di storia della logica [Parma, 8-10 ottobre 1972], Padova, Liviana,
1974, pp. 37- 61. Sull’inemendabilità del disegno storico di Prantl, rappresentando un giudizio condiviso da
una platea ben più ampia di studiosi rispetto a quella dei logicisti, Bochenski, nella sua Formale Logik, [J. M.
BOCHENSKI, Formale Logik, München, Alber, 1956, p. 297; trad .it., La logica formale, Torino, Einaudi, 1972]

144
Il Pathos della Forma

l’Organon e la Critica veniva pertanto presentato come un vano percorso tautologico, cui non
fidare attenzione, ma solo erudita curiosità 1 . In questo senso la cursoria citazione
bolzaniana risarcisce la propria elusività con l’eloquente richiamo più che ad una fonte
largamente trascurata, ad una possibilità di pensiero capace di ribaltare il piano
dell’osservazione sulla formalità della logica 2 .
Perché lo studio della logica coincida con il percorso di una scienza rigorosa, di una
Wissenschaftslehre, che pretende questo titolo in quanto conoscenza della totalità oggettuale
del pensiero, del suo implesso di Objekte, Bolzano dispone la sua teoria dei fondamenti
attorno alla nozione di Satz an sich, di proposizione in sé, quale forma del sostrato oggettivo
del pensiero. In tal guisa, si intende quel discorso o quella singola parola – oscillazione che
significativamente si accampa in questo tratto introduttivo dell’opera - «laddove si asserisca
o si affermi qualcosa, che sia sempre o vera o falsa, oppure, che, nel consueto significato
della parola – se così possiamo esprimerci – che deve essere o corretta o scorretta» 3 . Nella
proposizione pensata pertanto è possibile distinguere «la proposizione stessa dal pensiero,
dall’affermazione ad essa rivolta» 4 ; in altri termini, «ciò che si pensa in una proposizione, sia
che qualcuno l’abbia sia che non l’abbia asserita, sia che qualcuno l’abbia o non l’abbia
pensata, è ciò che io chiamo proposizione in sé, e lo stesso intendo se utilizzo per brevità la
parola proposizione, senza l’aggiunta: in sé. Per proposizione in sé intendo un qualche
enunciato, che qualcosa si o non sia» 5 . Ciò che Bolzano intende è che la proposizione
sconta la propria inseità nella sua irrimediabile distinzione dal pensiero e dal giudizio, in cui
l’esperienza può rinvenirla: nella separatezza del modo di essere della proposizione in un
pensiero. «La proposizione è sempre qualcosa di diverso da una rappresentazione o da un
giudizio» 6 , cui conviene con evidenza una presenza vissuta nel trascorrere del tempo,
quanto all’espressione, all’essere pronunciata, riferita, raccolta. «Per questo alla
proposizione in sé non si accorda alcun esserci (nessuna esistenza, nessuna realtà effettiva).
[…] La proposizione in sé, che costituisce il contenuto [Inhalt] del pensiero o del giudizio,
non è nulla di esistente» 7 .
Così, sotto un tipo di proposizione in sé si raccolgono le verità in sé 8 , ovvero quelle
proposizioni che asseriscono qualcosa così come esso è effettivamente [wirklich], ove però
si intendano i termini vero, verità e realtà effettuale non nel loro significato usuale, ma in einer
gewissen höheren, abstracteren Bedeutung 9 , in uno più elevato ed astratto. Certo, la parola Satz,

scrive: «confutare Prantl nei particolari sarebbe un compito immenso e poco vantaggioso. È meglio
trascurarlo del tutto. Malauguratamente, egli va considerato come non esistente da parte di un moderno
storico della logica».
1 Come la considerazione teoretica della logica formale quale registro astratto conforme all’impianto naturale

del pensiero – cfr. F. BARONE, Logica formale e trascendentale, I, cit. – e quella storiografica, in quanto tavola
normativa fissata una volta per tutte da Aristotele, dunque come normalità e normatività trovino coincidenza
nella Logica kantiana, diremmo diffusamente in seguito.
2 Riguardo a ciò, già l’anti-kantismo di Bolzano di cui illustra la portata, F. VOLTAGGIO, B. Bolzano e la Dottrina

della Scienza, Milano, Comunità, 1974. La rilevanza della considerazione della logica stoica nella edificazione di
un ambito formale per lo strato proposizionale della logica è dimostrata sia dagli studi che Jan Lukasiewicz,
muovendo dalla modificazione tra gli Stoici ed i Peripatetici della legge di identità, compì in preparazione della
sua teoria del calcolo logico, che dalle ricerche sui teoremata, sugli schemi inferenziali, che, in un’ottica
fenomenologia, o, più precisamente, di riflessione fenomenologia sulla logica matematica, condusse O. Becker. Cfr. J.
LUKASIEWICZ, Zur Geschichte der Aussagenlogik in «Erkenntnis» 5 (1935), pp. 111-131, poi in Selected Works, a
cura di L. Borkowski, Amsterdam, 1970, pp. 197-217; O. BECKER, Zwei Untersuchungen zur antiken Logik,
Wiesbaden, Harrassowitz,1957.
3 B. BOLZANO, Wissenschaftslehre, I, Fundamentallehre, §. 19, in Gesamtausgabe, Schriften, I, 11, 1, hrsg von J. Berg,

1985, Stuttgart, p. 103.


4 Ivi, p. 104.
5 Ivi, p. 104.
6 Ivi, p. 105.
7 Ivi, p. 105.
8 Ivi, p. 137 [§. 25].
9 Ivi, p. 139.

145
Il Pathos della Forma

proposizione, richiama mediante la propria radice, setzen, porre, un’azione, l’attività di porre
qualcosa, ciò di cui si parla od il suo ambito di composizione formale od il suo modo
linguistico. «Tuttavia» – sostiene Bolzano – «nelle verità in sé non bisogna pensare ad
alcuna attività. Queste non sono state poste da alcuno, neanche dall’intelletto divino.
Qualcosa non è vera perché così Dio la conosce; ma al contrario Dio la conosce così,
perché così essa è» 1 . Allo stesso modo è improprio riferirsi alle verità in sé come asserzioni
effettive di stati di cose effettuali, in quanto esse non hanno alcun rango di esistenza, né
sono composte da alcunché di esistente, ma sono verità 2 . Bolzano, infatti, assume per verità il
significato indubbiamente più autentico, mediante cui si indica «una certa costituzione
[Beschaffenheit], che può addirsi ad una proposizione sia che qualcuno la asserisca sia che
nessuno la asserisca», ossia un significato oggettivo astratto, per cui le verità in sé, in quanto
proposizioni in sé, sono oggetti (obbietti) [Gegenstände (Objekte)], che non hanno bisogno di
alcun altro oggetto, in cui trovarsi [sich befinden], cioè che non hanno bisogno di alcun
soggetto» 3 .
Per intendere la fitta trama dei primi concetti fondamentali, Bolzano ricorre ad esaminare
le precedenti esplicazioni logiche del concetto di proposizione, che tanto l’estensore del
trattato quanto il suo lettore trovano sul proprio cammino. L’intenzione, ciononostante,
non sarà di «seguire le differenti spiegazioni secondo l’ordine temporale della loro
apparizione, ma piuttosto secondo la loro interna costituzione [innere Beschaffenheit]» 4 , in
modo che la prova o la confutazione dell’una riverberi sulla presentazione dell’altra. A tale
medesimo scopo, avendo rassegnato la concezione leibnizeana di cogitatio possibilis, quale
«determinazione della relazione tra due rappresentazioni» 5 , come bisognosa di una verifica
ben più approfondita, vengono affiancate le due fonti antiche del Περί ε̉ρμηνείας aristotelico
e del Πρός μαθεματίκους di Sesto Empirico, sulle nozioni, non sovrapponibili, di
proposizione e giudizio 6 . Tanto il riferimento aristotelico intorno alla logica apofantica –
cardine della quale è il principio secondo cui l’espressione logica, l’α̉̉πόφανσις, il λέγειν τί κατά
τινός, è ciò che può essere passibile di verificazione o di falsificazione –, quanto lo scorcio
del brano di Sesto Empirico (adv. Math, VIII, 11, 12), in cui la significatività proposizionale
diviene esclusivamente quella di una forma di α̉ξίωμα, pur rappresentando gli strumenti più
idonei alla chiarificazione, recano una suddivisione, secondo tale opposizione binaria, che
non può aver luogo , ricorsivamente, già nel medesimo concetto di proposizione 7 . Eppure
proprio l’esibizione delle ragioni di quella ricusazione rimonta alla divaricazione essenziale
che definisce i due modelli presentati. «Affermare qualcosa significa null’altro che affermare,
che qualcosa sia vero; negare qualcosa non significa altro che affermare che qualcosa non sia

1 Ivi, p. 139.
2 Ivi, p. 140.
3 Ivi, pp. 135-6 [ §. 24].
4 Ivi, p. 119 [§. 23].
5 Ivi, pp. 118- 9.
6 Ivi, p. 119: «Possiamo iniziare dagli esempi più antichi. “Una proposizione – già presso i Greci – significa

ciò che è o vero o falso”. Λόγος α̉ποφαντικός – dice Aristotele (de Int., c. 4) – ε̉στίν ε̉ν ω̉̃ τό α̉ληθεύειν ή̉
ψεύδεσθαι; e gli Stoici (in SESTO EMPIRICO, adv. Math., VIII, 11, 12): α̉ξίωμα ε̉στίν, ό̉ ε̉στίν α̉ληθές ή̉ ψευ̃δος».
7 In ragione del medesimo errore, consistente nell’inclusione di una dualità nella proposizione, risolta

nell’unificazione della coscienza, Bolzano contesta la nozione kantiana di Satz, vd. B. BOLZANO,
Wissenschaftslehre, cit., §. 23, p. 127: «Nella Critica della Ragion Pura di Kant si legge: “il giudizio è la conoscenza
mediata di un oggetto, dunque la rappresentazione di una medesima rappresentazione”; mentre nella sua
Logica, curata da Jäsche: “un giudizio è la rappresentazione dell’unità della coscienza di diverse
rappresentazioni, o ,la rappresentazione della relazione di quelle stesse, in modo da costituire un concetto”.
La prima parte di ambedue le spiegazioni è fatta chiaramente in una guisa tale da non offrire alcun ausilio alla
nostra esplicazione del concetto di proposizione; infatti i concetti di una conoscenza o di una coscienza non
possono qui avere alcun luogo. Invece, ciò che viene espresso nella seconda parte [dei due brani kantiani,
ndt.], non può essere da me utilizzato, perché non credo che le proposizioni, come qui accade, possano essere
considerate come un tipo di rappresentazione».

146
Il Pathos della Forma

vero. Ambedue i concetti contengono il concetto di verità, e cioè quello di una


proposizione» 1 .
È alla comprensione del concetto di verità – quale oggettività proposizionale – e di vero
– quale oggettività nella proposizione – che si rivolge la presentazione bolzaniana; è,
insomma, attorno a tale ambizione che ruota e si dispone l’orizzonte eccentricamente
storico appena descritto. Così accanto a quell’accezione autentica di Wahrheit, di
un’oggettualità non indigente di alcuna altra oggettualità, di quella verità «di cui ho infinita
necessità, pur non sapendo quale sia», di verità come luogo inconsistente di qualsiasi evidenza,
se ne affianca una – cui Bolzano dedica la sua attenzione nella seconda annotazione al §. 24
– che si presenta come la più originaria: «Come già presso i Greci, riguardo alle dispute sulle
diverse opinioni intorno al significato originario della parola α̉λήθεια, alcuni, ad esempio
Sesto Empirico (adv. Math, VIII, 8) sostenevano che originariamente τό α̉ληθές non
significasse il vero, ma qualcosa che tutti dovevano riconoscere (cioè τό μή λήθον τήν κοινήν
γνώμην [il segno comune di ciò che non è nascosto]); allo stesso modo potrebbero essere
superate le controversie del tutto simili sulle origini della parola tedesca [Wahr]» 2 . È dunque
la possibilità di distinguere tra verità e vero, che ne proietta l’opposizione non rispetto
all’errore, ma rispetto al falso 3 – consentita dalla scoperta stoica della proposizione, di quel
sostrato logico antecedente il giudizio che si aggruma attorno ad un’ancora opaca
significatività – a costituire il movente della lettura.
In un intento molto prossimo a quello bolzaniano – seppure non coincidente, come sarà
illustrato – la riscrittura logica, che Husserl affiderà agli studi sulla Logica formale e
trascendentale, si assegna, in posizione preliminare, il compito di ricercare le ragioni storiche
dell’«occultamento dell’unità di apofantica formale e matematica formale» 4 . Più dappresso,
la questione verte su come il pensiero abbia fuggito l’intrico della forma e della formalità
dei suoi asserti. I due termini della coppia indicata maturano una mutazione rispetto a
quanto riportato nel titolo, divenendo logica, o apofantica, formale, ed ontologia formale.
Logica formale della proposizione significativa, ed ontologia formale, determinazione delle
oggettualità formali. Le ragioni di quell’occultamento emergono nel duplice aspetto di a)
«una mancanza del concetto della pura forma vuota» e di b) una formalità ed oggettualità
che si possano addire alle «formazioni apofantiche» 5 . Al doppio difetto, cioè, riguardo alla
forma ed all’estensione formale delle nozioni di oggetto, ente, realtà, il richiamo della logica
stoica – se il movente fosse esaurientemente storico – potrebbe replicare con due distinte
occorrenze: la dottrina del τί (e dell’ό̉υτινα) e quella del λεκτόν.
Tralasciando – per curarlo altrove – il confronta implicito (che richiamerebbe l’essenziale
registro di un’ontologia formale) ci rivolgiamo ad un aforistico appello pertinente le
obbiettività ideali. «La fondazione aristotelica dell’analitica come apofantica» – scrive Husserl
– «come logica dell’enunciato predicativo ovvero come logica del giudizio predicativo» 6 ,
intendendo il giudizio nella forma di S è P, e non in quella attributiva di S ha P – a cui
secondo Bolzano come secondo Husserl è possibile ridurre ogni altra modalità di giudizio –
risulta incapace di dispiegare «un campo obbiettivo proprio delle idealità a priori», di
sciogliere lo strato delle proprie complessioni di senso dalla composizione del giudizio, prima
ancora che dall’atto della valutazione, in quanto atto dell’io, effettiva pretesa egoica. Ciò
che, in tal guisa, si tralascia è il modo in cui si dispone precipuamente l’oggetto logico, in

1 Ivi, p. 120 [§. 23].


2 Ivi, p. 136 [§. 24]. Sull’interpretazione dell’espressione das Allle anerkennen müßten, ritorneremo in seguito, in
rif. a Sesto Empirico, Πρός μαθημάματίκους, (adv. Math.)VIII, 80.
3 Cfr. in proposito, E. HUSSERL, Formale und Transzendentale Logik. Versuch einer Kritik der logischen Vernuft, in

Hua, cit., XVII, p. 103; trad. it., Logica formale trascendentale, cit., §. 27, p. 142: «Dal fatto che il vero non sia
opposto all’errore, ma al falso, scaturisce la supposizione che qui non si stia parlando di giudizi veri, ma di
verità in sé».
4 Ivi, p. 70-sgg. ; trad. it., pp. 97-sgg.
5 Ivi, p.p. 70-71; trad. it. pp. 97-98.
6 Ivi, p. 71; trad. it., p. 98.

147
Il Pathos della Forma

cui le formazioni del pensiero si fanno innanzi, concedendo la possibilità di avvicinarle. La


maniera secondo la quale si danno come reali, pur rimanendo estranee all’esistenza, wirklich,
real, sinnlich. L’ordinazione aristotelica limitava il numero dei suoi gradi – riguardo
all’elementarità preposizionale – a quello di ciò che è stato detto, λεγόμενον, ed a quello di
ciò a cui si fa riferimento reale, ό̉ντα. La notazione del legame qui compare come veicolo di
verificazione, o di prova dell’affermazione o della negazione, mediante il rinvenimento
effettivo di ciò che si dice, τί, in ciò di cui si dice, κατά τινός. La correttezza o veridicità delle
predicazioni viene rinfrancata dall’esistenza corrispondente dei riferiti. Tuttavia, le
formazioni logiche «ondeggiano in modo oscuro tra soggettività ed oggettività» 1 : il loro
modo di presentazione è la validità, o meglio, l’unità di validità, Geltungseinheit, in quanto
oggetti, ed oggetti irreali.
In questo modo, si distingue l’oggetto dal reale, il reale dall’esistente, l’esistente
dall’effettualità sensibile. Alle oggettualità ideali compete la bilateralità dell’evidenza – come
essere evidente e come non poter essere diversamente 2 - del modo in cui si danno a vedere
ed in cui si offrono alla dizione ed al soppesamento valutativo. Tale concetto di bilateralità
pare mancare al registro formale aristotelico 3 .
D’altro canto, se è vero che il piano logico husserliano aspira ad un’articolazione duale –
che sembra per converso risiedere nell’assunzione a modello della logica platonica –
occorre in quest’occasione un’indicazione ulteriore, forse più circoscritta per gravità. Una
considerazione che intenda, pur, o proprio, restando nell’ambito dell’apofantica formale, la
dimensione in specie della consistenza del contenuto della proposizione (e dunque anche della
medesima proposizione). Ritorna così la tralasciata dottrina stoica del λεκτόν. A cosa
corrisponda, nell’uso husserliano, il termine greco, se al campo delle oggettualità logico-
formali, o se, più nello specifico, al contenuto od al significato od all’oggetto in quanto
senso intenzionale, non è chiarito. Vale a dire, qui non viene messo in rilievo se ricorra la
definizione di una categoria di significato, o quella di una categoria oggettuale formale, od ancora di
quella formalità, che ambedue condividono in quanto categorie. L’indizio difetta di
concludenza. Resta tuttavia una circoscrizione che pertiene al modo in cui «nella
proposizione con cui si giudica si intenda uno stato di cose [Sacheverhalt]» 4 . Ed allo stesso
tempo, si segnala l’elusione di un autentico confronto con quell’antico termine, λεκτόν, di
cui già impegna l’aspetto e l’identità grammaticale 5 .
La trama di riferimento che stiamo seguendo si rivolge ora indietro, ribalta l’ordine
temporale e si isola, intrattenendo un diretto rapporto di confronto con il modello
bolzaniano, quanto al tentativo di individuare una modalità, distinta dall’importo
significativo, capace di renderne il nucleo di senso. Il registro ermeneutico più vasto,
almeno materialmente, per numero di occorrenze, rispetto a quelli fin qui repertati, si
ritrova nella riflessione di Emil Lask, e segnatamente in due luoghi: 1) uno più
schiettamente storico, ove, in coda alla Logik der Philosophie, redigendo una breve appendice
su die philosophischen Kategorien in der Geschichte der theoretischen Philosophie, richiama le
concezioni stoiche del τί e del λεκτόν; ed un altro 2) esplicativo, in un’annotazione alla Lehre
vom Urteil, al fine di demarcare un Bereich del senso e di individuare la sua plurima
articolazione interna.

1 Ivi, pp. 71-72; trad. it., p. 99.


2 Cfr. A. MEINONG, Über die Annahmen, Leipzig, Johann Ambrosius Barth, 1902; poi in A. MEINONG,
Gesamtausgabe, hrsg. von R. Kindinger, R. Haller, R. Chisholm, Graz, 1969-78, vol. IV, pp. 385-489.
3 Quale tipo di dualità possa poi competere alle categorie in quanto modi di dire l’essere, sarà questione centrale

nella stesura laskiana della Kategorienlehre; si veda ultra capitolo Iv, §. 3, in merito alla differenza tra forma
categoriale e materiale categoriale.
4 E. HUSSERL, Formale und Transzendentale Logik. Versuch einer Kritik der logischen Vernuft, in Hua, cit., XVII, pp.

70-75; trad. it., Logica formale trascendentale, cit., pp. 97-104.


5 Sul nesso che nella nozione in questione può elevarsi tra disposizione grammaticale e disposizione meta-

grammaticale, rimandiamo ultra cap. 4, §. IV, pp. 294-sgg.

148
Il Pathos della Forma

La seconda posizione, alla cui intelligenza ci dedicheremo di seguito, essendo la più


prossima e pertinente alla traccia bolzaniana, da cui abbiamo iniziato questa indagine
indiziaria, riguarda la modalità obbiettiva della regione del senso, ovvero di ciò che è, o
meglio di ciò che si essenzia in quanto vale per, rimanda a qualcos’altro, distinto tanto dalla
attualità del pensiero, ovvero dall’atteggiamento del pensiero, dalla relazione semantica così
come è esperita di volta in volta, quanto dalla oggettualità elementare dei sostrati sintattici.
Il livello dell’espressione significativa che non si risolve su uno dei lati della connessione
che la costituisce richiama alla distanza tra νόημα e πράγμα. Qui vige pertanto il richiamo ad
un Mittleres tra la disposizione d’atto del soggetto ed il deposito oggettuale, un μέσον του̃
νοήματος καί πράγματος 1 , espressione con la quale non si intende semplicemente una vox
media, un Durchschnitt tra due ambiti, con evidenza disomogenei, quanto piuttosto un μέσον,
quale tratto di significazione, di riferimento, ad un μέσον quale λεκτόν. Questo è il titolo
dell’intera regione del senso, non di una porzione isolabile – compresa nel senso – della
formazione logica.
È dunque in questa prospettiva che può rivendicarsi il diritto a richiamarsi alla dottrina
stoica del λεκτόν, non però per riguardare i fattori significativi del giudizio, piuttosto per
comprendere la possibilità medesima della significazione, che sostiene ciascun giudizio.
Il λεκτόν, pertanto, assurge al rango di forma della misura. L’annotazione laskiana, nella sua
icasticità, sgrossa ed acuisce l’interrogazione. Quale sia, dunque, il λεκτόν – non
localizzabile, né rinvenibile distintamente, μέσον ed α̉σώματον, quale sia il movente della sua
inclusione sul piano della domanda quanto alla peculiare oggettualità del logico, come cioè
incrementi la designazione della forma vuota dell’oggetto in generale, da qui – chiarite
preliminarmente assunzioni, intenzioni, e, quindi, pregiudizi – muove la considerazione più
compiuta della dottrina stoica della significazione.

3.2. Logica alias Teoria del Senso.

«Basta dire che la logica è quella che giudica e valuta tutte le altre parti della filosofia, ed
in certo modo le pesa e le misura» 2 - questo è quanto può essere iscritto sull’architrave del
σύστημα crisippeo: l’attenzione logica alla misura come tracciato filosofico essenziale. La
logica può procedere al soppesamento delle articolazioni seguite dalle espressioni del
pensiero, dacché si dispone come dottrina della significazione, dei suoi modi e dei suoi
luoghi, dei suoi τρόποι e dei suoi τόποι. Pertanto, la logica non è uno strumento della
filosofia, non è un dispensario vario di utensili che potrebbero essere utilizzati
indifferentemente rispetto alla loro fattura ed al loro portato, né una sua semplice
articolazione interna, cui si può affidare un dominio materiale discreto: essa è piuttosto parte
costitutiva 3 . È ciò che costituisce la trama di significazioni propria alla filosofia: la necessità
della «ponderatezza, in quanto disposizione a ricondurre le rappresentazioni alla retta
ragione» 4 , al loro aspetto comprensivo come criterio di verità, verificatore, truthmaker.
L’articolazione della logica discende, dunque, dalla ripresa della costituzione semantica, i
cui estremi sono segnati da determinazioni consistenti, temporali, corporee: l’effettualità del
mondo esterno, percepibile sensibilmente, e quella della voce, φωνή, come proferimento di
suono. «La voce è aria percossa, oppure è oggetto udibile dal pensiero» 5 . La φωνή è dunque
corpo in quanto capace di esercitare un’azione, di provocare un effetto, come quello che la
vibrazione del tono vocale esercita sulla membrana uditiva: ciò che la voce compie è
richiamo, notazione, non annuncio, né espressione. Quest’ultima se ne distingue in virtù

1 E. LASK, Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 386.


2 ARRIANO, Epict. dissert., I, 17, 10, in M. ISNARDI PARENTE (a cura di), Stoici antichi, 2 voll., Torino, Utet,
1989, vol. I, p. 481.
3 AMMONIO, In Arst. Anal. Pr., 8, in Stoici Antichi, cit., vol. II, p. 687.
4 D. LAERZIO, Vitae Philos., VII, 45, in Stoici Antichi, cit., vol. II, p. 689.
5 D. LAERZIO, Vitae Philos., VIII, 55, in Stoici Antichi, cit., vol. II, p. 716.

149
Il Pathos della Forma

della sua composizione. «La voce è solo suono, espressione è voce articolata soltanto» 1 .
Ora, l’articolazione in questione è più la possibilità di determinare le formazioni del
discorso, i modi propri del λόγος, che invece mera segnatura grafica. La vaghezza della λέξις
sta nell’apertura del suo riferimento: fino ad ora l’espressione è semplicemente ciò che
differisce dalla voce perché costituita in maniera complessa, per l’inclusione che se ne può
fare nell’universo del discorso. «Il discorso significa sempre qualcosa, mentre la voce può
anche essere priva di significato […]. Anche il parlare è differente dal proferire: sono
proferite le voci, ma si parla sempre di cose, e queste cose sono i significati» 2 . Discorso è,
ad esempio, “è giorno”, ovvero una posizione, una Existentialsatz. Significato, invece, è ciò
che è contenuto nel discorso, è «ciò che sussiste in base ad una rappresentazione
dell’intelletto» 3 .
Dunque, come il λεκτόν può sussistere in una proposizione, ovvero in una semplice
formazione logica, in quanto espressione proposizionale declinabile nelle differenti
morfologie della costituzione?
Si possono distinguere due modi del λεκτόν – in ragione dei quali sarà possibile
individuare le differenziazioni preposizionali – : α̉υτοτελη̃ ed ε̉λλιπη̃ 4 . Per λεκτόν α̉υτοτελη̃ si
intendono quelle modalità di significazione che si presentano compiute in se stesse,
complete, capaci di disporre del termine della propria mira, del proprio τέλος:
l’indipendenza semantica che ne deriva, la disposizione determinata è ciò che è passibile di
essere giudicato, α̉ξιου̃ν. L’α̉υτοτελει̃α tuttavia non è nota caratteristica solo di questi giudizi,
α̉ξιω̃ματα, «con i quali asseriamo il vero ed il falso», ma comprende anche forme
proposizionali non posizionali, come imperativi, desiderativi, interrogativi: la loro disparità
modale non influisce sul piano del λεκτόν. Ovvero è possibile formulare proposizioni aventi
medesimo λεκτόν e modalità differenti 5 . Altri λεκτά invece sono ε̉λλιπάι, mancanti, non
determinati completamente, capaci di, o meglio necessitanti di ulteriori determinazioni, in
qualche modo dipendenti dalla risoluzione compiuta della proposizione. Alcuni di questi
sono forme ellittiche del discorso, accenni o torsi di locuzioni, sue parti non-indipendenti,
sia l’isolatezza di «chi?», che di «scrive». Tuttavia, un ά̉ρυθμος ε̉λλιπη̃ 6 non è semplicemente
una carenza espressiva nella numerazione, è un numero inferiore alla somma dei suoi
fattori, vale a dire è un incognita di cui trovare il valore, ciò che è determinabile mediante il
numero.
L’έ̉λλειμμα ha, quanto al λεκτόν, più una forma aritmetica che grammaticale, si riferisce ad
un segno proposizionale e non ad un termine. Infatti, «ai λεκτά ε̉λλιπάι appartengono i
semplici κατηγόρημα; […] il κατηγόρημα è un λεκτόν difettivo, combinabile con un caso retto
per dar luogo ad una proposizione» 7 . Il predicato, ovvero l’attributo, «scrive», «verdeggia»,
«cammina» non sono incompiuti in quanto mancanti di riferimento, parti artificialmente
isolate dalla proposizione, ma perché si formano in difetto di riferimento, in debito di
significazione. La mancanza del predicato è ciò che consente il riferimento, proprio perché
non viene risolto in se stesso, nella sua contenutezza, proprio perché accede ad una
connessione che termina fuori, al di là di sé. Qui si trovano le radici della riconduzione
essenziale dell’incorporeità all’indigenza, dell’α̉σωματία all’ έ̉λλειμμα.

1 Ivi.
2 Ivi, p. 716- 717.
3 Ivi, p. 719.
4 D. LAERZIO, Vitae Philos., VIII, 63, in Stoici Antichi, vol. II, cit., p. 719; cfr. SESTO EMPIRICO, Adv. Log., 70 in

Stoici Antichi, vol. II, pp. 743- 744.


5 M. KENALE- W. KNEALE, Storia della Logica, cit., p. 173.
6 NICOMACHI GERASENI PYTHAGOREI, Introductionis Aritmeticae, libri II, Leipzig, ed R. Hoche, 1866, I, 114;

cfr. TH. HEATH, A History of Greek Mathematics, Oxford, University Press, 1921, I, pp. 70-74.
7 M. KNEALE- W. KNEALE, Storia della Logica, cit., p. 172.

150
Il Pathos della Forma

Ciononostante, resta ancora una casella vuota, uno spazio lasciato vacante nel corso delle
descrizioni in ci siamo impegnati, il baricentro concettuale della nostra esposizione: il
λεκτόν. Cosa si intende con λεκτόν?
In primo luogo, il λεκτόν si distingue dal significato, ovvero dalla cosa significata, quanto
dalla rappresentazione, sia dal σημαινόμενον che dalla φαντασία 1 , in conformità della quale
(κατά) sussiste. Tanto la cosa significata quanto la rappresentazione condividono la forma
dell’esistenza locale, effettuale, rispettivamente come elemento logico e come impressione.
Laddove la specificazione della differenza rispetto alla cosa significata costituirà il nerbo
dell’esplicazione del λεκτόν, la distinzione preliminare riguarderà invece la rappresentazione,
al fine di comprendere il varco che si apre tra il λεκτόν e la significatio, assunta come rei per
vocem secundum placitum repraesentatio 2 . «Φαντασία ε̉στί παθός ε̉ν τη̃ ψυχη̃ γιγόμενον ε̉νδεικνύμενον ε̉ν
α̉υτω̃» 3 , la rappresentazione è un’affezione che si verifica nell’anima, che in se stessa indica ciò che la
produce. Nella rappresentazione sussiste l’ε̉νδείκνυμι, in conformità, in accordo con questa si
dispone la traccia del rimando. Il λεκτόν è ciò che regge la possibilità medesima del δείκνυμι,
o, più precisamente, di questo con il suo luogo, ε̉ν: la corporeità patita della
rappresentazione non solo si distingue dall’incorporeità del λεκτόν, ma ne esige la topica 4 .
Allo stesso modo, il λεκτόν non è identificabile con un costituente od un elemento
strutturale del discorso, in quanto «differenti occorrenze dello stesso tipo di proposizione
possono avere differenti valori di verità, come è verificabile in proposizioni che
contengono deittici» 5 .
Ma ancora, che cosa è λεκτόν? Sul versante della lingua greca antica λεκτόν appartiene
all’ambigua classe degli aggettivi verbali, la cui resa si trova a cavaliere tra «l’essere oggetti
indicanti φ-ing e φ-able» 6 . L’utilizzo prevalente che si può riscontrare nei tragici, in
particolare presso Sofocle ed Euripide, è prevalentemente verbale, predicativo, e
corrisponde all’accezione di dicibile o anche, attributivo, che è capace di dire: «ο̉υ τλητόν ο̉υδέ
λεκτόν» 7 , quindi né sopportabile né dicibile, così da mostrare il limite essenziale della dizione
o meglio della dicibilità, che nella risposta del coro rimarca la questione dell’attinenza
mediante la parola della cosa, τί, alle proprie orecchie. Ovvero «se posso sapere», se
attraverso la parola qualcosa può toccarmi, se posso sopportare il trapasso linguistico della
cosa, la notizia, Kundgabe, della cosa. Tuttavia, queste occorrenze coprono solo un lato del
λεκτόν: quello della possibilità di essere detto che nel medio comunicativo del linguaggio
coincide con la possibilità d’essere compreso. Eppure, come il λεκτόν muove da ciò che è
detto a ciò che si intende 8 ?
«Πα̃ν τε λεκτόν λέγεσθαι δει̃» 9 , ogni senso deve essere detto; è da questo che trae il suo nome, λεκτόν, ma
dire, come affermano gli Stoici, è pronunciare una espressione semantica relativa all’oggetto pensato, quale
per esempio questo verso: «canta, o dea, la furia del Pelide Achille». Queste righe si distinguono nel
lacerto di frammenti sulla dottrina logica crisippea, repertato fino ad ora, in quanto
mediante il filtro etimologico – ad imitazione proprio dell’eminente percorso metodologico
affinato dagli Stoici – si tenta di specificare insieme tanto l’aspetto morfologico, quanto

1 Sul differente significato che il termine φαντασία assume negli Stoici rispetto a quanto avviene in Aristotele,

vd. Stoici Antichi, II, cit., pp. 240-245.


2 PIETRO ISPANO, Summulae Logicales, VI, 2; trad. it. Trattato di logica di A. Ponzio, Milano, Bompiani, pp. 186-

187.
3 AEZIO, Plac., IV, 12, in Stoici Antichi, cit., vol. I, p. 481.
4 Cfr. C. ATHERTON, Stoics on the Ambiguity, Cambridge, University Press, 1993, p. 44.
5 C. ATHERTON, Stoics on the Ambiguity, cit., p. 142; cfr. N. DENYER, Stoics and token reflexivity in J. BARNES, M.

MIGNUCCI (a cura di), Matter and Metaphysics, Napoli, Bibliopolis, 1988, p. 378.
6 P. GEACH, God and Soul, London, Routledge & Kegan, 1969, cit. in C. ATHERTON, Stoics on the Ambiguity,

cit., pp. 148- sgg.; cfr. su ricorsivi-riflessivi anche KNEALE-KNEALE, Storia della Logica, cit., pp. 30-sgg.
7 EURIPIDE, Ippolito, v. 875.
8 Questa è la domanda fondamentale che Atherton nella sua analisi si pone, cfr. C. ATHERTON, Stoics on the

Ambiguity, cit., p. 164.


9 SESTO EMPIRICO, Adv. Math., VIII, 80, in Stoici Antichi, cit., vol. II, p. 738.

151
Il Pathos della Forma

quello funzionale: si finge un definiendum, il λεκτόν riguardo al suo nome, a cui si accosta un
definiens, λέγεσθαι δει̃, che scioglie in altra forma l’assunto, riconsegnandoci la questione, in
altra veste però. L’impersonalità del δει̃ è sostenuta dalla presunta quantificazione espressa
dal πα̃ν. Δει̃ vale per dovere, per si deve, è necessario, in quanto condotto sulle labbra dal
bisogno, dall’indigenza, dalla mancanza. Allo stesso tempo, è pretesa elevata dal vuoto.
Dalla totalità del λεκτόν, in quanto inconsistente cavità del λόγος. Λεκτόν, dunque, non è
tutto ciò che deve essere detto, ma il tutto, πα̃ν, in quanto esige, reclama di essere detto,
non essendo dissolvibile, esauribile, nell’ambito del detto, ovvero del già detto, è λεκτόν; è da-
dirsi, Zu-Sagen. Esso è ciò che incombe sul dire, ove per dire si intenda la relazione
semantica consegnata all’espressività della voce, rispetto a ciò che è stato pensato, o meglio
al suo nucleo noematico. Se quest’ultimo figura pienamente quale significato ed, in uno,
come l’argomento, come nell’illustre esempio omerico recato da Sesto Empirico – l’esordio
dell’Iliade, ove Μη̃νις è inaugurazione tematica e prima parola poetica della Grecità -, allora
il λεκτόν se ne distingue non come condizione ulteriore, come un dover poter dire, ma quale
ambito di bisogno che precede ogni connotazione. Λεκτόν, ovvero come ormai possiamo
rendere, senso è di più e di meno di ciò che è detto, è eccedenza, concessione ed
impedimento a dire, divaricazione ed invalicabile ostacolo alla dizione.
Λεκτόν è τί ed ού̉τινα, qualcosa e ciò che non è neanche qualcosa, il senso è il non nulla,
luogo ambiguo quanto alla sua sussistenza, in cui qualcosa resta come qualcosa da dirsi. È il
giogo su cui può finalmente montare la parola.
«Le riflessioni stoiche sulla lingua giungono ad una particolare ontologia, che include i
λεκτά, diversamente da Aristotele» 1 . La specificità di tale elaborazione logica consiste
pertanto nel modo in cui viene inclusa la spina dell’equivocità, pur senza essere ridotta od
appianata, nella composizione formale dell’essere: il λεκτόν è in modo ambiguo tanto rispetto
al τί quanto rispetto all’ού̉τινα, in quanto più che possibilità o condizione, debito sporto fuori
della propria continenza, debito di ciò che avrà sempre da accorrere su quanto rimane
ancora la penultima sillaba pronunciata, od ancora il penultimo segno lanciato od avvistato,
il penultimo suono urgente sulle labbra e non già articolato.
La distinzione che ammonta alla logica stoica, come teoria del senso, deriva dall’intenzione
del λεκτόν come forma vuota dell’oggetto, e quindi della vuotezza formale, come έ̉λλειμμα,
come difetto irrisarcibile, come ciò che grava sulla voce ed allo stesso tempo come pretesa,
Anspruch zu, urgenza di, zu sagen, λεκτόν, senso.
Λεκτόν – Senso non è ancora parola, né intenzione, né espressione compiuta e sostenibile,
ma è già ingiunzione ad essere detto, non è modus significandi né essendi, ma la figura formale,
ovvero lo spazio vuoto, in cui si distinguono logica ed ontologia.

1 C. ATHERTON, Stoics on the Ambiguity, cit., p. 463.

152
Il Pathos della Forma

IV. Le figure dell’Oggetto.


Logica formale e trascendentale.

153
Il Pathos della Forma

§. 1. La forma del senso.

Le argomentazioni circa la dottrina della significazione, ovvero circa le differenti


tipologie in cui può essere inteso l’essenziale indicazione, Hinweis, caratterizzante volta per
volta la significazione, quando si pone mente al rimando segnico od al trattenimento
simbolico, all’apertura della Kundgabe od ad un contenuto di senso in una proposizione, ci
hanno lasciato dinanzi all’imbocco di una strada, lungo la quale discernere la differenza del
senso. Quanto abbiamo considerato fino ad ora, prevedeva una disposizione rispetto al
piano immanente dell’esperienza vissuta, dell’Erlebnis, vale a dire la condizione del deposito
sul sostrato esperienziale. Tutto ciò corrisponde, quindi, utilizzando con accortezza la
terminologia laskiana, ad un’introduzione all’ambito noetico della logica, ovvero all’essere-
indirizzato del valore al theoretisches Subjektverhalt, all’atteggiamento soggettivo teoretico, alla
«semplice realizzazione del contenuto logico cosale [des logischen Sachgehalts] nell’esperienza,
posta di contro ad esso [in gegenüberstehenden Erlebens]», all’attingimento di una formazione
ideale, composta costruttivamente 1 . Certo, le annotazioni sulla dottrina della significazione non
esauriscono la più ampia vicenda della dedizione conoscitiva o della posizione
dell’esperienza – cosa su cui avremo modo di tornare, affrontando il nugolo problematico
della Lehre vom Urteil –; ciononostante consentono di guadagnare un prezioso angolo di
visuale all’interno della riflessione logica di Lask, scompaginandone l’apparente uniformità.
La distinzione, cioè, tra νοει̃ν e λόγος 2 , che pare sin da subito farsi avanti, costituisce più che

1 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, cit., III, p. 94: «L’indirizzo della norma in ogni vivere scientifico è solo

la formazione ideale dell’atteggiamento soggettivo teoretico «noetico», da ciò costruttivamente attingibile, la


semplice realizzazione del contenuto cosale nell’esperienza posta di contro. Già che la norma «richieda»
«riconoscimento», è un trascorrimento [Verlebendigung] appena deviante, per esprimere un semplice doversi
contro-porre di un’esperienza, avente il Valere come obbietto».
2 Sulla differenza insita nel termine greco λόγος, e tra questo e quello di νοει̃ν, due sono i riferimenti obbligati

cui non possiamo sottrarci, per completezza espositiva e per approfondimento concettuale. Il primo si ritrova
nel paragrafo inaugurale di Logica formale e trascendentale di Husserl, ove a partire dalle tre determinazioni

154
Il Pathos della Forma

una mera acquisizione dottrinaria, l’imposizione di un compito, di un Aufgabe, cui cerca di


obbedire l’intera opera logica di Lask, rivendicando per sé il titolo di critica del logos, invece
che quello di critica della ragione logica.
Una sorta di dovere teoretico che coincide con il tentativo di restituire nella sua radicalità
la disposizione kantiana di logica formale e logica trascendentale, accentrando la propria
fatica sul rischiaramento del valore trascendentale della forma, o, detto in altri termini,
affini, come già è stato mostrato con quelli della lettura husserliana, sul dispiegamento del
problema trascendentale della logica formale. Anticipando, pertanto, un’esposizione che
andrà prendendo corpo nelle pagine che seguono, possiamo rendere conto
dell’articolazione, in cui Lask intende ricomporre l’ambito della logica, presentando una
prima suddivisione schematica in 1) noetica, che comprende le modalità del rapporto duale
tra contenuto di significato ed esperienza, dunque gli atteggiamenti propri della dimensione
conoscitiva, – ciò che propriamente è dominio della Erkentnistheorie – scandita in Erleben,
Ausdruck, Urteil; ed in 2) aletica, ove si rinviene la dottrina generale della verità, includente la
pluralità delle forme logiche e la loro unità nel senso. A ciascuno dei due corni corrisponde
un’ulteriore partizione: la noetica, infatti, comprende a) la logica formale apofantica, o più
semplicemente quella trattazione logica, che considera l’addentellato della proposizione o
del giudizio, nella sua generalità formale, e b) la noematica, ovvero la dottrina formale degli
obbietti di significato e delle loro complessioni; dell’aletica, invece, fa parte la a) logica
trascendentale, intesa, nella sua accezione più ristretta, come determinazione degli oggetti di
significato, ovvero dei significati-sostrato, della sintassi del significato, e b) l’ontologia formale,
in quanto studio della costituzione degli oggetti di senso, cioè di quegli oggetti urbildlich, che
figurano originariamente 1 . Se il demerito evidente di questa Eingliederung, proprio in quanto

semantiche di parlare, pensare, pensato, si deduce l’intera articolazione della presentazione logica; il secondo
invece compare nel capitolo Essere e pensare dell’Introduzione alla Metafisica di Heidegger, distinguendo
progressivamente la valenza apprensiva del νοει̃ν. In ambedue i casi, con le evidenti differenze che discendono
dalla differente comprensione del ruolo del logico, dell’oggetto logico, e della logica, della forma oggettuale
logica, la coppia νοει̃ν- λόγος figura nella sua imprescindibile centralità di pensiero. E. HUSSERL, Formale und
Transzendentale Logik, in Hua, cit., XVII, pp. 16-20; trad. it., Logica formale e trascendentale, cit., pp. 23-38; M.
HEIDEGGER, Einfürung in die Metaphysik (Sommersemester 1935), Tübingen, Mohr, 1953; poi in GA, cit., Abt.
II, Bd. 40, 1983; trad. it. di G.Masi, Introduzione alla metafisica, Milano, Mursia, pp. 125 – 200.
1 L’articolazione, che qui abbiamo esposto, corrisponde alla ripresa sinottica di alcuni tentativi di ordinamento

unitario della logica, cui Lask si dedica ripetutamente, parallelamente alla scrittura dei suoi Hauptwerken. Il
quadro più concludente compare in alcuni fogli, in appendice il System der Logik – E. LASK, Zum System der
Logik, in GS, cit., III, pp. 167-169 – , che riportiamo per intero.
«Pensiero fondamentale: impianto unitario ab ovo. Perciò in primo luogo orientamento alla teoria dei due
mondi. Quindi sfera della valenza come dominio […], balbettìo. Qui c’è già il legame fraterno tra il concetto
di valenza e quello di valore, in quanto la Verità è valore. Dunque l’impianto si trova all’interno della sfera
della valenza. Prima Parte: Filosofia come dottrina del valore e del senso.
Primo Capitolo: Il contenuto di valore [Geltung] come obbietto. Il rapporto soggetto-obbietto.
Secondo Capitolo: Il contenuto di valore come forma. Il rapporto forma-materiale.
Terzo Capitolo: Valere (valore [Wert]); significato; senso.
§. 1. Valere (valore [Wert]) e significato.

155
Il Pathos della Forma

sistematizzazione riflessiva, è quello di separare forzosamente i due fronti, che proprio in


ragione della centralità del concetto di forma, si trovano a coincidere nella logica laskiana
costituendone la conquista concettuale di maggior rilievo, ovvero quello di una logica come
teoria del senso e teoria della verità, il suo merito, esclusivamente euristico, consiste
nell’offrire un quadro sincronico, in cui risulta più accessibile la comprensione della
stratificazione tra quelli, i quali più che capitoli, paiono essere livelli, dimensioni, ancora una
volta, della formazione del valere, quale forma del senso. A questo proposito, infatti, Lask
utilizza l’espressione transzendentale Topographie, topografia trascendentale, intendendo
insieme l’analiticità grafica e la disposizione trascendentale dei τόποι, di cui si compone il
dispiegamento di quella Frage nach der Logik, che suona come: qual è der transzendentale Ort, il
luogo trascendentale dell’oggetto della filosofia teoretica nella totalità del pensabile 1 ? Dunque: qual è la
forma logica dell’oggettualità?
«Se non si colloca il Logico» – scrive Lask, entrando nel pieno della sua trattazione della
Logik – «in una delle due sfere del pensabile [ovvero, in quella della valenza], tutto il
risveglio della filosofica trascendentale teoretica, del kantismo nella seconda metà del
Diciannovesimo secolo, il suo distacco dalla psicologia, con pretese ontologiche

Il momento del significato in generale.


Il significato dell’obbietto.
. Il significato della forma.
§. 2. senso e significato.
Seconda Parte: logica come dottrina del contenuto di valore [Geltungsgehalt] specificamente teoretico o
logico.
Primo Capitolo: dottrina generale della verità (dottrina generale del senso e del significato).
Verità trascendente: §. 1. concetto della verità
§. 2. la pluralità delle forme logiche
Verità immanente: §. 1. valore e non-valore [Wert-Unwert]
a) verità e falsità.
b) correttezza ed in correttezza
affermazione e negazione
§. 2. dottrina del giudizio: soggetto-predicato.
Concetto e giudizio
Secondo Capitolo.
È bene porlo in questo modo:
Seconda Parte. Logica.
Logica pura.
Primo Capitolo: dottrina generale della verità.
(Prima Parte: logica generale o formale)
Secondo Capitolo: il contenuto di significato teoretico. Dottrina delle categorie.
Dottrina delle categorie specifiche o costitutive, trascendenti (=«teoria della conoscenza»)
Dottrina generale, immanente delle categorie.
(Seconda Parte. Logica generale o formale)
II. Metodologia.
Meglio così: Prima Parte: Concetti fondamentali della logica.
Prima Sezione: Concetti fondamentali della filosofia del valore [Geltungsphilosophie].
Primo Capitolo: il rapporto [s.]oggetto-[o.]bbietto.
Secondo Capitolo: il rapporto [f.]orma-[m.]ateriale.
Terzo Capitolo: dottrina generale del significato.
Seconda Sezione: logica generale».
1 E. LASK, Die Logik der Philosophie un die Kategorienlehre, in GS, cit., II, p. 26.

156
Il Pathos della Forma

[seinwissenschaftliche Psychologie], da un lato, e dalla metafisica dell’oltre-sensibile dall’altro, non


sembra ancora uno stato di veglia completa. Se non assicuriamo pertanto che non si tratta
dell’origine, ma del “concetto”, non della causa, ma del “fondamento” dell’esperienza, non
del conoscere in senso soggettivo, ma in senso “obbiettivo”, non di una caratterizzazione
psicologica, ma di una “logica”, – si finisce in ultima istanza per balbettare parole e per
brancolare nel buio. Tanto più che sulla parola “logico” aleggia una antichissima magia.
Esso viene così considerato come qualcosa di ultimo, di incomparabile, di in coordinabile,
su cui non si può continuare a porre questioni. Ma Logico è soltanto logico, né metafisico
né psicologico. Ma, allora, di che tipo è, non ha nulla di simile, non ha collocazione nella
totalità del pensabile?» 1 . Eppure, nonostante l’importanza decisiva dell’introduzione
dell’articolato logico nell’ambito della valenza e del valore, quella traccia di pensiero, che da
Lotze ha diramato la sua influenza, con differenti gradazioni, in tutto il Bewegung züruck zu
Kant, finendo per superarne di gran lunga i confini, sostanziando di sé la rinascita –
intendendo proprio la nuova nascita, dopo l’interdetto kantiano – della logica formale in
Frege od in Husserl 2 , tuttavia rischia di ricacciare la logica in altre, talora ben più profonde,
ambiguità. Anzi, proprio quella trattazione del concetto di valenza, del Geltungsbegriff, che si
trova in Lotze – secondo la lettura laskiana – solo ad uno stadio aforistico, rappresenta solo
l’abbrivio per una compiuta chiarificazione dell’intero ambito problematico della filosofia. «Manca,
infatti» – scrive Lask – «la conoscenza della solidarietà tra il concetto di valenza e quello di
forma, l’esplicito approfondimento di una sfera della valenza all’interno di una teoria dei
due mondi, la sua fondamentale delimitazione rispetto alla regione dell’oltre-sensibile» 3 . Ciò

1 Ivi.
2 «Il concetto di validità – scrive G. GABRIEL, in La «Logica» di Hermann Lotze e la nozione di validità, in «Rivista
di Filosofia», vol. LXXXI, n. 3, dic. 1990, pp. 460-461 – diventò il concetto centrale delle dottrine logiche ed
epistemologiche fino agli anni ’30 del secolo Ventesimo, cioè fin quando si imposero la Lebensphilosphie,
l’ermeneutica esistenziale e la filosofia sociale. Per quanto il concetto di validità abbia avuto un ruolo centrale
non soltanto nel mondo filosofico di lingua tedesca, è di questa tradizione che ci occuperemo. Per quanto
riguarda la logica e la teoria della conoscenza possiamo dividere questa tradizione in due filoni principali,
l’uno neo-kantiano e l’altro fenomenologico. Entrambi i filoni possono essere fatti risalire a Lotze. Per essere
più precisi, dato che vi furono due scuole neo-kantiane, fu la cosiddetta scuola del Baden ad essere influenzata
direttamente da Lotze: anzitutto Wilhelm Windelband e Otto Liebmann, che studiarono entrambi con Lotze
a Göttingen, più tardi Heinrich Rickert, Bruno Bauch, Emil Lask e Martin Heidegger. Anche Max Weber
attraverso Rickert, entrò in contatto con questa tradizione. A differenza della scuola del Baden, sembra che i
membri della scuola neo-kantiana di Marburgo siano stati invece influenzati da Lotza soltanto indirettamente.
Per quanto riguarda la tradizione fenomenologica si deve ricordare che Franz Brentano era in contatto con
Lotze, e che i suoi discepoli Carl Stumpf (che fu insegnante di Husserl) e Anton Marty seguirono le lezioni di
Lotze». Da un altro discepolo Göttinger di Lotze, Gottlob Frege, discende un’altra progenie logico-filosofica,
che comprende Carnap e Russel, riguardando indirettamente il pragmatismo americano, di James e Dawey, ed il
neohegelismo inglese di Bradley e Bosanquet. Dall’annodarsi di questi fili si compone quella tela di ragno
disegnata da Gabriel – ivi, p. 461 – in cui la posizione centrale è occupata da Lotze. L’unica ascendenza, che
ne contende la centralità, è, come il medesimo schema illustra, ponendola allo stesso livello genealogico di
Lotze, ed avendo con questi una relazione dubbia – contrassegnata eloquentemente da un punto interrogativo
– è quella di Bolzano. Proprio dall’innesto delle dottrine di questi due padri, confluenti nella nozione
dell’oggettualità di valore, che prenderà la curvatura sua propria la logica laskiana.
3 E. LASK, Die Logik der Philosophie und die Kategorienlehre, in GS, cit., II, p. 270.

157
Il Pathos della Forma

dinanzi a cui la riflessione lotzeana si sarebbe arrestata – specificandone, nella maniera più
chiara, le ragioni nella sua Geschichte der Ästhetik in Deutschland – è appunto la determinazione
della formalità nella logica, la dimensione formale del contenuto di senso. Eppure – e su
questo punto Lask torna nella rielaborazione della sua dottrina logica, fornendo un
rilevante anello di congiunzione tematica nello sviluppo delle sue argomentazioni – è
proprio nell’estetica, oltre che nella logica, che la forma assume la sua posizione eminente 1 .
In termini volutamente icastici, ciò che Lask critica, e che cerca strenuamente di correggere,
è la separazione tra Geltungsphilosophie e Formphilosophie, tra una filosofia della valenza ed una
filosofia della forma.
Ma tale coniugazione di forma e valenza, di statuto formale e statuto valoriale, si rende
possibile, ed allo stesso tempo si complica in guisa inaudita, solo nell’assunzione piena del
gesto, dell’opera copernicana di Kant, della Kants kopernikanische Tat. «L’intero dogmatismo
prekantiano – scrive Lask – può avere un modo di pensare razionalistico o empiristico o
scettico – riguardo alla relazione tra sfera teoretica ed oggetto della conoscenza – ma la sua
essenza comune è che assume ancora una relazione tra, una distinzione, una dualità di
oggetto e verità, di “essere” e “conoscere”, di essere e contenuto trascendentale della
conoscenza, è che pone l’oggettualità al di là dell’intendimento, di ciò che si può intendere
teoreticamente, fuori del contenuto logico di valore. Il vero superamento che Kant compie
di ogni “dogmatismo” (in una ristretta accezione teoretica della conoscenza) consiste nella
rimozione di tale metalogicità, di questa “trascendenza” rispetto al logico, nel superamento
di questa indipendenza dell’essere dalla sfera teoretica, nella distruzione dell’antichissima
scissione di oggetto e contenuto della verità, nella conoscenza della logicità trascendentale o
della conformità-all’intendimento dell’essere» 2 . Ciò che Lask ritiene peculiare dell’impianto

1 Ivi, p. 270, n. 248; E. LASK, Zum System der Philosophie, in GS, cit., III, p. 215: «Quando io parlo della forma
separate, non solo attraverso la «forma» combatto contro il panlogismo ed il panestetismo, ma accenno già
anche ad una filosofia della forma. Cfr. già la conclusione della Logica della Filosofia ed in particolare quella
pagina sulla Geschichte der Ästhetik di Lotze: il paragrafo sul bianco. Eppure proprio Logica ed Estetica si
tengono alla forma ed all’impersonalità: per la Logica e per l’Estetica questo è ciò che vi è di più alto ed
assoluto».
2 E. LASK, Die Logik der Philosophie un die Kategorienlehre, in GS, cit., II, pp. 28-29. Qualche riga prima – ivi, pp.

27-28 – , introducendo il paragrafo sulla Kants kopernikanische Tat, Lask aveva scritto: «La posizione kantiana
nella storia universale dello sviluppo della filosofia teoretica posa sulla sua svolta copernicana. Per quanto
nella conformazione storica del suo sistema il sovvertimento, da lui operato, del concetto di verità e di
conoscenza del secolo scorso si mescoli alla sua teoria metafisica dei due mondi, alla sua contro-posizione di
fenomeno e cosa in sé, tuttavia la sua impresa rivoluzionaria nella teoria della conoscenza e della verità può
essere sciolta da questo legame, come fosse qualcosa di autosussistente. Mediante la svolta copernicana di
Kant, la speculazione teoretica di tutti i tempi si divide in un’epoca dogmatica ed in una critica. Che egli non
avesse inteso il problema della conoscenza come un che di psicogenetico, ma come una critica della pura
“ragione” speculativa, non chiarisce ancora la sua posizione unica, non lo rende ancora fondatore di una
nuova epoca. I grandi razionalisti di tutti i tempi ne sono stati precursori. Se la sua specificità critica fosse
consistita inoltre in quel progetto che già tanto spesso era stato elevato, di provare la conoscenza a partire
dalla ricerca degli oggetti, allora mancherebbe ogni originalità alla sua dottrina, e Kant scadrebbe al rango di
epigono di Descartes o di Locke. La concessione di una così grande precedenza nell’affrontare il problema

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Il Pathos della Forma

logico kantiano, ciò in cui vede consumarsi il distacco copernicano, ciò che compare qui
come il significato più autentico dell’idea di una filosofia trascendentale è la determinazione di
un proprio concetto di oggetto, è l’indirizzo dell’intendimento filosofico verso una modalità
oggettuale costituita formalmente, è, insomma, la possibilità di declinare il plesso
Gegenstand-Objekt, oggetto-obbietto, in maniera del tutto conforme alla formalità del logico.
Eppur tuttavia ciò non risolve la questione della distanza interna tra oggettualità ed
obbiettività, né quella della permanente resistenza dell’esteriorità: ne consente piuttosto una
formulazione, che si presenta ancora una volta come un disegno tutt’altro che compiuto,
denso di ulteriori sovrapposizioni, di cui appunto la molteplicità semantica di formalità è
indiscussa protagonista. Nella restituzione della logica a se stessa, nel rimpatrio della logica
all’interno del suo proprio territorio, si rende accessibile la scoperta di una dualità, ovvero il
disvelamento di quell’ultimo, che non è mai semplice, uno, ma duale, duplice, emancipato al
fine da quelle immagini che il linguaggio filosofico estraeva a forza dalla realtà sensibile.
Eine Doppelheit svestita dalle figure linguistiche di «un essere separato spazialmente [eines
räumlichen Auseianderliegens] l’uno dall’altro, di un essere strappato l’uno dall’altro, di un
combattere: α̉ντικείσθαι, oppositivo, contraddizione, intollerabilità» 1 . Espressa altrimenti, una
dualità di sensibile e soprasensibile, αι̉σθητόν e νοητόν, sensibile ed intelligibile, apparenza,
Erscheinung, e vera effettualità, wahre Wirklichkeit, apparenza ed idea, finito ed infinito,
empirico e sovra-empirico, relativo ed assoluto, natura e ragione, natura e libertà,
temporalità ed eterno.
Dunque, il merito incancellabile della svolta copernicana – espresso nei termini del
confronto ormai maturo che Husserl definisce rispetto a Kant – consiste nel fatto che
«nonostante egli fosse orientato – in quanto figlio del suo tempo – quasi esclusivamente
verso la scienza della natura ed il suo causalismo, iniziò tuttavia subito ad estendere il
percorso della problematica trascendentale a tutte le forme di oggettività possibile, il che
significava per lui al mondo morale ed a quello estetico» 2 . In questo senso, l’idea di una

filosofico della conoscenza prima di quello dell’essere non conduce ancora oltre tutti gli orientamenti
prekantiani dei vari dogmatismi. La cosa del tutto nuova ed inaudita, che nessuno aveva ancora “escogitato”,
consiste piuttosto nella traduzione del concetto di essere in un concetto della logica trascendentale».
1 Ivi, p. 19. In questo brano si rende ancora più evidente la funzione insieme analitica e propedeutica della

trattazione dello statuto del simbolo e del ruolo della scrittura, rispetto al contenuto di senso. L’esempio più
rilevante della traduzione simbolica delle concezioni, che nella storia della filosofia si sono andate costruendo,
è quello che riguarda l’equivocazione dell’intemporalità con l’eternità. «Si approssima chiaramente la tentazione»
– ivi – «di dipingere ancora una volta l’intemporalità del valente con l’ausilio di determinazioni come la durata
senza inizio né fine, di sostituire all’eternità intemporale quella temporale, all’aeternitas la sempiternitas. Il
persistere, che si conserva in “eterno”, il non essere sorto ed il non poter essere trascorso, è secondo la giusta
indicazione di Platone solo un’immagine della vera eternità, l’infinità del tempo è al massimo un simbolo
dell’intemporalità».
2 E. HUSSERL, Erste Philosophie (1923-24), Erste Teil, Kritische Ideengeschichte, Ergänsende Texte, hrsg. von R.

Boehm, Husserliana, VII, Den Haag, 1956, p. 228; trad. it. di C. La Rocca, La Rivoluzione copernicana di Kant ed il

159
Il Pathos della Forma

logica trascendentale coincide con il dispiegamento di un concetto di oggetto, dunque


sempre di oggettualità ed obbiettività, da cui si origina la domanda essenziale sulla realtà
dell’ideale, ovvero allo stesso tempo sulla realità degli oggetti ideali – sul modo in cui
figurano gli oggetti ideali, sulla loro realitas – e sulla loro realizzazione – sul loro essere-
contenuti in atti temporali di conoscenza 1 . L’identificazione dunque tra oggettualità,
Gegenständlichkeit, e contenuto logico valente, Geltungsgehalt, inaugura soltanto il percorso
trascendentale, ma non certo lo compie: traccia un perimetro di domande. La tesi si
trasforma ancora una volta in problema.

§. 2. Il regresso all’oggettualità

2.1. La vuotezza dell’oggetto.

Proviamo ora a fare presenti le riflessioni su oggetto ed oggettualità, obbietto ed


obbiettività, così come si presentano nell’idea kantiana di una logica trascendentale, fino al
punto della loro intersezione con la riflessione, latamente fenomenologica, su oggetto e
contenuto, e con la delineazione, seppur abbozzata di una Gegenstandstheorie.
Ciò da cui si muove è inevitabilmente la trattazione kantiana del fondamento della distinzione
di tutti gli oggetti in generale. «Mediante l’intelletto» – osserva Kant – «tutte le nostre
rappresentazioni sono in realtà riferite ad un qualche oggetto: dal momento che le
apparenze non sono altro che rappresentazioni, così l’intelletto le riferisce ad un qualcosa,
inteso come oggetto dell’intuizione sensibile» 2 . La ricorrenza dell’oggetto è data dal
riferimento; ciò a cui una rappresentazione si rivolge, ciò che costituisce il termine
referenziale di un atto rappresentativo è un oggetto. Il tragitto rappresentativo si conforma
alla presentazione propria dell’intuizione sensibile: «ciò che si obbietta immediatamente è il

senso di una tale svolta copernicana in generale (1924), in ID., Kant e l’idea della filosofia trascendentale, intro. di G. Funke,
con una postfazione di M. Barale, Milano, 1990, p. 117.
1 Circa la determinazione del problema della realtà dell’ideale come questione centrale della filosofia

trascendentale, capace di circoscrivere anche una ben definita posizione problematica rispetto al legato
kantiano, condivisa dalle ricerche logiche di coloro che abbiamo eletto, nel corso di questo studio, come i
principali interlocutori di Lask, a questo riguardo, ovvero Natorp ed Husserl, riteniamo necessario rimandare
ai due scritti natorpiani che maggiormente hanno segnato un’interferenza nell’evoluzione del pensiero
husserliano, sul crinale delle Logische Untersuchungen: Über objektive und subjektive Begründung der Erkenntnis,
contenuto nel «Philosophische Monatschrifte», 23, 1887, pp. 256-283, e la recensione Zur Frage nach der
logischen Methode. Mit Beziehung auf E. Husserls «Prolegomeni zur reinen Logik», presente nei «Kant-Studien», 6,
1901, pp. 270-283. In proposito, cfr. M. BARALE, Per una lettura di Husserl e di Kant, in E. HUSSERL, Kant e l’idea
della filosofia trascendentale, cit., p. 224; B. CENTI, Il luogo dell’oggetto. Brentano e Natorp nella Quinta Ricerca Logica
di Husserl, in S. BESOLI, M. FERRARI, L. GUIDETTI, Neokantismo e Fenomenologia. Logica, psicologia, cultura e teoria
della conoscenza, cit., pp. 121- 148.
2 I. KANT, Critica della Ragion Pura, [A 163] trad. it. di G. Colli, Milano, Adelphi, 1995, p. 322.

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Il Pathos della Forma

dato dell’intuizione sensibile» 1 . L’obbiettato, ciò che viene recato al pensiero, è quanto è
stato dato e deposto dall’intuizione, ciò che da essa gli è stato arrecato. È evidente, in
queste parole, che la singolarità dell’obbiettato – discendente da quella della
rappresentazione sensibile come Einvorstellung – la definitezza di ciò che è rappresentato,
non coincide con l’indicazione del riferimento, con l’ampiezza del correlato, con quel
qualcosa cui poter riferire l’intenzione conoscitiva. Scrive, infatti, Kant: «Questo qualcosa
può servire soltanto – come termine correlativo dell’unità dell’appercezione» 2 . La
dimensione del termine correlativo, in quanto punto finale del riferimento ed allo stesso tempo
condizione per cui possa esservi riferimento, differisce da quella del portato, Gehalt, o
contenuto rappresentativo ed in questo modo vi si correla. Il qualcosa, Etwas, è la
configurazione preliminare di quell’unità in cui l’esperienza si realizza, come sua medesima
possibilità, ovvero come condizione dell’oggetto. Il qualcosa è la forma unitaria che
assumono i contenuti rappresentativi in quanto oggetti, in quanto passibili di disporsi in
qualità di oggetti. È il concetto di oggetto in generale, determinazione formata della
molteplicità dei data intuitivi. È, quale concetto, la disposizione puntuale di qualcosa, in
virtù della sua riportabilità o riferibilità. È la dimensione della unità. Vale a dire: è il
principio del riferimento a qualcosa in quanto oggetto, ed all’oggetto in quanto contenuto,
cioè contenuto disposto dalla conoscenza. L’Objektivität è la condizione di unificabilità del
molteplice sensibile (ed allo stesso tempo, della dislocazione del molteplice all’interno
dell’esperienza, purché si intenda come unità dell’esperienza), che consente il riferimento
alla Gegenständlichkeit, come indeterminata possibilità di indicazione. Unità e riferimento. In
questo senso, «tale oggetto», il Gegenstand überhaupt, «non è per nulla un oggetto in se stesso
della conoscenza» 3 . È piuttosto un oggetto non obiettato. Se si vuole – più che già un
correlato, è la precedenza costitutiva della correlazione. È quell’orizzonte non tematico, che
tuttavia non scompare mai dal cono visivo.
Le distinzioni qui delineate permettono di comprendere la densità concettuale del
Gegenstand überhaupt, ove siano incluse la correlabilità e la contenibilità, la traccia del
rimando e quella dell’inclusione, ed ancor di più rendono chiaro quanto sia inevitabile, al
fine di intendere compiutamente i differenti accenni semantici, ritornare al loro mutuo
legame; o meglio, a quei principi di determinazione del nesso significativo tra contenuto e
correlato, in quanto «condizioni della possibilità degli oggetti dell’esperienza» 4 .

1 M. HEIDEGGER, Kant und das Problem der Metaphysik, Bonn, F. Cohen; poi in GA, cit., Abt. I, Bd. 3, 1991;
trad. it. di M.E. Reina, Kant e il problema della metafisica, a cura di V. Verra, Roma-Bari, 1991, p. 107.
2 I. KANT, Critica della Ragion Pura, [A 163]; trad. it. di G. Colli, cit., p. 322.
3 Ivi, [A 164]; trad. it. di G. Colli, cit., p. 324.
4 I. KANT, Critica della Ragion Pura, trad. it, di P. Chiodi, Torino, Utet, 1995, p. 201. I principi o le condizioni

che denotano la conjunctio, la Verbindung, la congiunzione, quale supporto logico dell’unità oggettuale

161
Il Pathos della Forma

Così l’oggetto, nella sua accezione trascendentale di condizione della determinazione di


una relazione ad un oggetto, ossia di un vettore di riferimento oggettivo, si distingue in
primo luogo dalla nozione ingenua, che qui vale per non fenomenologia, di cosa, Ding; e se ne
distingue non solo nel senso di un’ internità polare rispetto al fenomeno, «l’oggetto
trascendentale non è la cosa in sé», ma perché non ne condivide lo statuto di semplicità o,
detto altrimenti, di nominalità. Rimontando alle pagine logiche di Wolff, cui ancora Kant si
ispira come alla più affidabile esposizione formale, è possibile individuare una definizione
di cosa, nella cui filigrana sarà più agevole distinguere denotazioni di unità e semplicità, che
andranno vicendevolmente innestandosi nelle riflessioni successive 1 . «Tutto ciò che può
essere, sia effettuale o no, questo noi chiamiamo una cosa» 2 . Dunque, l’entità della cosa
non deriva dalla sua collocazione, eccede rispetto all’effettualità ed alla ineffettualità, così
come alla distinzione tra essere vero ed essere falso: cosa è ciò che può essere o è effettuale
od ineffettuale, la cui apprensione può essere vera o falsa. Il cardine, tuttavia, del dominio
delle cose, in virtù del quale è possibile averne comprensione, è dato dalla differenza tra
Einfachheit e Zusammengesetztheit, tra semplicità e composizione. Tale dicotomia rimanda ma
non coincide con quella di esterno ed interno. Se è vero che «diese Dinge deren wir uns außer
uns bewust sind», queste cose di cui siamo coscienti che siano fuori di noi, in quanto la loro
composizione, l’ordine e la ragione della loro composizione, la traccia e la misura della loro
figura ne segnala la posizione, l’assunzione, Einnehmen, nella gradualità apprensiva dello
spazio e del tempo 3 , la semplicità è ben più che un semplice rovescio. La innere Beschaffenheit,
la costituzione interna di un ente composto rimanda alla ragione essenziale della composizione
delle sue parti. La convenienza, Zukommenheit, delle parti, il modo in cui le parti si addicono
le une alle altre, determina la dimensione, lo statuto di una cosa, in quanto composta. La
cosa composta è tale in quanto intero, ovvero unità dell’intero. «Wenn viele Dinge zusammen
eins machen; so heißt das eine ein Ganzes», chiamiamo intero una composizione in unità di una pluralità
di parti. L’interezza di un ente avoca a sé le parti, ovvero quegli enti che «in Aussehung des
Ganzes», nella prospettiva o nel riguardo dell’intero, sono parti. Tuttavia ciò non esclude un
ulteriore rimando alla partizione ed alla complessione: una parte non è tale in quanto non
composta di parti, ma solo quanto alla configurazione dell’intero.

dell’esperienza, cfr, B 117. «Il riferimento delle rappresentazioni ad una legge generale (a priori) è l’oggetto»,
N 4642, cfr. AA XVII, 1622.
1 Cfr. B. CENTI, L’armonia impossibile. Alle origini del concetto di valore: metafisica, logica e scienze della natura in R. H.

Lotze dal 1838 al 1843, cit., pp. 60-sgg.


2 C. WOLFF, Metafisica Tedesca (1720), § 16, trad. it. di R. Ciafardone, Milano, Bompiani, 2003, pp. 70-71.

Sull’identificazione dirimente tra Ding e Seiende si veda in seguito.


3 Sull’esteriorità di spazio e tempo, si veda C. WOLFF, Metafisica Tedesca, cit., § 49; trad. it., pp. 90-91. Cfr. A.

MASULLO, Il Tempo e la Grazia. Per un’etica attiva della salvezza, Roma, Donzelli, 1995, pp. 35-37.

162
Il Pathos della Forma

La ricorsività della relazione mereologica, parte/intero, reclama un ripensamento che


passi per il confronto tra la modalità dell’unità e quella dell’interezza, che riguardi il modo
in cui, non il complesso delle parti si addice essenzialmente all’intero, ma l’aggregazione dei
pezzi procede in ragione della loro disposizione. La Einfachheit non è tale assetto, ma la
conversione formale dell’intero 1 . Se l’intero è la presentazione unitaria che comprende le
parti, è ciò che ci è cosciente come una cosa sola. La possibilità che si dia qualcosa di
irriducibile è la forma di datità, seppure nella sequenza analitica se ne potrà mostrare la
composizione, die Teilen. La forma cioè è quella dell’unità semplice della sua ragione, in virtù
della quale è lecito considerare la convenienza delle parti 2 . Dunque, se l’ente semplice vale
come la forma unitaria della cosa, la semplicità come forma unitaria della cosa, allora ciò di
cui rende ragione la cosa è di essere semplice, pur nella composizione; non è di essere
composta da parti senza parti, ma di essere semplicemente una nonostante le parti di cui si
compone. La semplicità assume pienamente il suo statuto ontologico quando si converte
nella sua unicità temporale. «Etwas auf einmal entsteht…», ente semplice è qualcosa che sorge una volta
soltanto. La semplicità è dunque l’estremo della pensabilità della cosa in quanto una,
nell’effrazione temporale del suo venire alla luce, l’irragionevolezza liminare della sua trama
discreta. In altre parole, essa è il tratto essenziale della nozione di ente qua cosa, ovvero la
forma logica monoradiale in forza della quale è possibile indicare qualsiasi ente, in quanto un
qualcosa, ma a cui non è possibile ricondurre o far risalire ragionevolmente alcun ente, in
quanto questo qualcosa.
Così l’oggetto si distingue dalla cosa in virtù della determinazione che se ne offre, della
innere Beschaffenheit, di quella costituzione interna, in quanto modalità e tenuta della
consistenza. L’oggetto, pertanto, è la condizione della Verbindung, conjunctio, congiunzione.
In una fittissima nota alla presentazione dei Principi primi dell’intelletto, Kant distingue nella
congiunzione – in modo molto più preciso che nelle lezioni di Logica – la composizione,
Zusammensetzung, e la connessione, Zusammenhang. «Ogni congiunzione (conjunctio) o è
composizione (compositio) o è connessione (nexus)» 3 . Questa distinzione sta a significare che,
per Kant, comprendere il senso di unità oggettiva dell’oggetto implica la definizione
esclusiva della composizione e della connessione, in ragione della relazione che
costituiscono tra le parti. «La composizione è la sintesi del molteplice, i cui componenti
non appartengono necessariamente gli uni agli altri» 4 . Ciò che distingue la composizione è
la non-appartenenza necessaria l’una all’altra delle parti: le parti non sono incluse le une

1 Sul nesso tra Semplicità ed Astrazione, cfr. C. WOLFF, Metafisica Tedesca, cit., § 86 trad. it., pp.110-113.
2 «Il semplice è dunque il fondamento interno delle cose in se stesse», I. KANT, Critica della Ragion Pura, trad. it.
di P. Chiodi, cit., p. 289.
3 I. KANT, Critica della Ragion Pura, trad. it., cit., p. 205.
4 Ivi.

163
Il Pathos della Forma

nelle altre, non presentano cioè una relazione di parzialità e di appartenenza interna.
L’omogeneità degli elementi riguarda la loro non-inclusione, ovvero la loro indipendenza.
Tale congiunzione viene definita matematica perché corrisponde al metodo di costituzione
matematica di una totalità, di una serie che comprenda la totalità dei suoi elementi. Per
illustrare questa nozione, Kant ricorre ai concetti di aggregazione e di coalizione.
L’aggregazione, spiega, è la congiunzione di elementi coordinati – nel caso della
determinazione del concetto, è la congiunzione di note 1 -, ovvero di elementi che si
succedono per ecceterazione: in questo senso l’aggregato è asintotico, senza limite
conseguibile. Levando sull’aggregazione si accresce la distinzione estensiva. Altresì, la
coalizione, o più propriamente serie 2 , è la congiunzione di parti subordinate, ovvero di parti
reciprocamente referentesi, che si identificano come parti rispetto al tutto, attraverso la
mediazione funzionale delle altre parti. Il dispiegamento di una serie, in quest’accezione
ristretta, corrisponde ad un approfondimento, alla delineazione dell’intensione
dell’interezza oggettuale. La complicazione reciproca di parti subordinate non corrisponde
alla necessità della coappartenenza, ma alla continuità dei gradi intensivi. Essa, infatti,
riguarda piuttosto gli elementi della connessione. Scrive, infatti, Kant: «La seconda
congiunzione (nexus) è la sintesi del molteplice, in quanto i componenti di questo
appartengono necessariamente gli uni agli altri» 3 . L’esempio principale condotto richiama la
rappresentazione della relazione mereologica per antonomasia, quella delle specie rispetto al
genere. Ossia la totalità come inclusione delle parti. In questo senso gli elementi della
connessione sono eterogenei, presentano morfologie differenti in quanto connessi: la
connessione è quella propria di parti non-indipendenti. La congiunzione in unità oggettuale
del molteplice si decide in ragione della dipendenza delle parti. Se il concetto di un oggetto,
in quanto unificabilità, rimanda alla valenza correlativa delle parti, la concepibilità di un
oggetto, in un sistema oggettuale, quale quello della logica, ricade nella possibilità di
assumere l’oggetto tematizzato alla stregua di una parte. La parzialità dell’oggetto nel piano
della conoscenza è la sua traducibilità in contenuto 4 . Ovvero, se la tracciabilità dell’oggetto
corrisponde al segno della sua contenutezza, la forma di qualcosa è la forma dell’essere-
contenuto, ovvero di essere contenibile nel pensiero quale unità, ora il concetto di un

1 I. KANT, Logik. Ein Handbuch zu Vorlesungen; trad. it. di L. Amoroso, Logica, Roma-Bari, Laterza, 20045,
Introduzione, IV, p. 53.
2 I. KANT, Logica, cit., p. 53.
3 I. KANT, Critica della Ragion Pura, trad. it., cit., p. 205.
4 Sulla possibilità di costituire la rappresentazione di un oggetto, si veda la Critica della Ragion Pura, trad. it. p.

232, ove KANT afferma: «Se andiamo alla ricerca della nuova proprietà che conferisce alle nostre
rappresentazioni il rapporto con un oggetto, e della dignità che ne deriva, vediamo che tale rapporto non
produce altro effetto che quello di rendere necessaria la congiunzione delle rappresentazioni secondo una
particolare modalità, col a una regola; e che, viceversa, è conferito un significato oggettivo alle nostre
rappresentazioni solo in quanto risulti fornito di necessità un certo ordine nella loro connessione temporale».

164
Il Pathos della Forma

oggetto ricomprende la nozione di contenuto. Se è vero che «i concetti possono essere


confrontati logicamente, senza che ci si debba preoccupare del luogo in cui rientrano i loro
oggetti» 1 , il concetto di oggetto può darsi senza curarsi del luogo occupato dal suo essere-
contenuto.
L’oggetto è un τόπος trascendentale, l’equivalente logico dello spazio assoluto, quale unità
dello spazio o principio di unità dei luoghi 2 . L’oggetto trascendentale ricorrerà al pensiero
come «semplice forma logica senza contenuto» 3 .
Quale può essere il contenuto della forma dell’oggetto trascendentale? Ebbene,
considerando il contenuto come termine referenziale, la differenziazione di ciò che è
comprensibile, ovvero sussumibile al concetto, nel concetto di un oggetto in generale,
essendone riflessivamente indipendente, si indica la mancanza di contenuto come
possibilità di essere contenuto. Ove però si assumesse il contenuto, Inhalt, come intensione,
dunque non come gamma estensiva dei riferimenti, ma come serie intensiva del significato,
o meglio della significazione, l’assenza di contenuto congiurerebbe contro la pensabilità del
concetto di oggetto, più che contro la concepibilità dell’oggetto 4 .
L’esposizione kantiana della dottrina dell’oggetto trascendentale, o della nozione
trascendentale di oggetto, che sconta nella maniera più corrusca la sovrapposizione
semantica cui ci stiamo accostando, è la chiusa dell’Analitica trascendentale, raccolta in
quelle poche note, che «pur non essendo in sé di particolare rilievo, [possono] tuttavia
sembrare necessarie per la compiutezza del sistema» 5 . Qui, Kant sostiene che nel concetto
di oggetto vi è la designazione di un luogo logico; sul suo piano viene articolata la divisione
più alta della filosofia trascendentale, quella tra possibile ed impossibile, che in riferimento
ad un qualche oggetto, diventa la divisione tra ciò che è possibile e ciò che è impossibile, tra
ciò che è possibile come qualcosa e ciò che non è possibile come qualcosa. La guida
categoriale, poiché «le categorie sono gli unici concetti che si riferiscano ad oggetti in
generale» 6 , poiché la forma categoriale è la condizione del riferimento a qualcosa che sia
dato nella, più che alla, intuizione, consente di definire il quadro delle modalità di

1 I. KANT, Critica della Ragion Pura, trad. it. p. 286.


2 I. KANT, Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft (1786); trad. it. di S. Marcucci, Principi metafisici primi
delle scienze della natura, «Biblioteca di Stud Kantiani», Pisa, 2004; cfr. E. CASSIRER, Substanzbegriff und
Funktionsbegriff. Untersuchungen uber die Grundfragen der Erkenntniskritik,Berlin 1910; trad. it. di E. Arnaud e G. A.
De Toni, Sostanza e funzione. Sulla teoria della relatività di Einstein, Firenze 1973; K. POLLOK, Kants «Metaphysische
Anfangsgründe der Naturwissenschaft» – Ein kritischer Kommentar, «Kant-Forschungen», 13. 2001, Frankfurt a. M..
3 I. KANT, Critica della Ragion Pura, trad. it., cit., p. 299.
4 I. KANT, Critica della Ragion Pura, trad. it., pp. 209-216.
5 Ivi, p. 299.
6 Ivi. Cfr. L. SCARAVELLI, Scritti kantiani, Firenze, La Nuova Italia, 1973, pp. 264-265: «Le categorie sono

“concetti di un oggetto in generale” non in quanto concetti di quegli oggetti che si presentano già formati
come quei quid su cui, poi, l’analisi potrà impiantare il suo processo chiarificatore (concetto di rosso, ecc.), ma
in quanto concetti che stanno alla base della formazione o costituzione intima dell’oggetto. Cioè della più
intima sua tessitura fondamentale, che è identica in tutti gli oggetti».

165
Il Pathos della Forma

connessione, conduce a stilare la tavola formale dell’oggetto in generale, di quell’oggetto


cioè non commutabile in contenuto del suo concetto.
Così, in capo alla tabulazione delle modalità dell’oggetto trascendentale, vi è la
duplicazione del concetto di oggetto. Seguendo l’acuto itinerario ermeneutico di Scaravelli,
sembra evidente la distinzione di un duplice significato di oggetto, di cui fa fede una lettera
kantiana ad Hertz del 1772, ove si nota che «se la rappresentazione contiene solo il modo
con cui il soggetto viene affetto dall’oggetto; è facile comprendere come essa sia conforme
all’oggetto. ‘L’oggetto da cui il soggetto è affetto non è l’oggetto quale risulta dal modo in
cui il soggetto è affetto’ (Questo secondo oggetto è l’oggetto fenomenico). Il primo
oggetto, l’Oggetto in sé è proprio quell’oggetto di cui si parla al principio della frase ‘la
rappresentazione contiene il modo in cui il soggetto è affetto dall’oggetto’, giacché è
l’oggetto che affetta la sensibilità, oggetto che immediatamente viene sostituito da
quell’oggetto che è contenuto solo nel «modo in cui il soggetto è affetto» 1 . Possiamo così
riassumere: per oggetto2 si intende l’oggetto che è contenuto nel modo in cui il soggetto è
affetto da un oggetto, ossia l’oggetto in quanto contenuto, mentre per oggetto1, l’oggetto
che affetta la sensibilità, si intende quel modo della datità “conforme”, omogeneo al modo
della sensibilità. In questo senso, del primo di denota l’eterogeneità, quindi la dipendenza
qualitativa della modalità sintetica dell’apprensione, del secondo, l’omogeneità, quindi
l’indipendenza, l’esteriorità. Dunque, la forma di un oggetto riguarda tanto l’indice del
riferimento quanto quello del contenuto; non ricuce la dualità semantica, ma la sostiene,
volgendosi ad un’unificazione referenziale ulteriore.
L’arco della tavola kantiana – che descrive le diverse morfologie dell’oggetto in generale
nei casi della sua nullificazione, vale a dire nelle occorrenze in cui le sue determinazioni
categoriali siano soggette a negazione 2 , Verneinung – trascorre dall’entità razionale 3 di un
concetto quantitativamente senza oggetto, il concetto di nessuna cosa simmetrico opposto di

1 Ivi, p. 149.
2 M. G. LOMBARDO, «La forma che dà l’essere alle cose». Enti di ragione e bene trascendentale in Suàrez, Leibniz, Kant,
Milano, IPL, 1995, p. 71: «[…] il “nulla” e le forme della negazione mantengono nel criticismo una funzione
fondamentale, benché in gran parte occulta». A tale riguardo E. MAYZ VALLENILLA in Kants Begriff des Nichts
und seine Beziehungen zu den Kategorien, in «Kant-Studien», 56, heft 3-4, 1966, p. 343, scrive «Poiché le categorie
kantiane stanno al servizio della costituzione fenomenologica dell’oggetto come qualcosa, cioè come
indicazione rappresentativa dell’essere, è inevitabile sottoporle ad una particolare negazione, essendo impiegate
per rivelare il Nulla. A seguito di questa negazione l’essere – o della sua corrispondente determinazione
categoriale – in un non-essere. Essendo dunque il concetto kantiano di nulla opposto al concetto di qualcosa, si
converte nel concetto di un non essente, che nasce da un procedimento di natura negativa [Verneinender]». Una
ben più ampia riflessione di Mayz Vallenilla sul medesimo argomento è rappresentata da E. MAYZ
VALLENILLA , El Problema de la Nada en Kant, Caracas, Monte Avila, 2^ ed., 1992. Vedi anche E. VOLLRATH,
Kants These über das Nichts, in «Kantstudien», 61, 1, 1971, pp. 50- 65; M. VISENTIN, Il significato della negazione in
Kant, Bologna, Il Mulino, 1992.
3 Cfr. M. G. LOMBARDO, «La forma che dà l’essere alle cose», cit., pp. 77- sg.: «L’ente di ragione è l’indice originale,

che si rende segno e funzione, dell’intenzionalità connaturale della mente alla dimensione esistentiva
noumenica. […] Ente di ragione e negatività assumono il valore di “sopratrascendentali”».

166
Il Pathos della Forma

tutto, molte cose ed una cosa, all’oggettualità di un concetto che contraddice se stesso, quanto
alle sue note, quanto alla modalità del suo proprio esporsi, riconducendosi alla formalità
dell’annullamento oggettuale, al nihil negativum. I gradi mediani invece riguardano la
riduzione a nulla della gradualità intensiva di qualcosa, la conversione, ancòra
completamente pensabile, della luce in ombra e del caldo in freddo, ambedue intesi nel
grado zero dello stato designato come positum/positivum, il concetto della mancanza di un
oggetto, la sottrazione tracciabile algebricamente di elementi all’unità – nihil privativum – e la
figurabilità non intuitiva, ma meramente immaginaria, l’ens imaginarium 1 , della semplice forma
dell’intuizione, lo svuotamento della relazione, di cui resta un trascoloramento dello schema,
un pallore capace però di accogliere come su di un telo la gamma di puntinature occorrenti
nella molteplicità della percezione.
Quanto costituisce il fulcro e la terminazione dell’ardua descrizione dell’oggettualità del nulla
è l’estremità della non pensabilità concettuale – e solo perciò oggettuale – esemplificata da
quella figura, che sia però formata in modo tale da non racchiudere alcuna porzione di
spazio, finendo per minare la possibilità medesima di una formazione figurale 2 . Ovvero ciò a
cui indica il ripensamento dell’articolazione kantiana dell’oggetto in generale è proprio la
questione della consistenza oggettuale di una formazione che si rimetta allo statuto della
sua figura, di una formazione che possa essere intesa proprio a partire dal carattere di
oggetto della sua figura, dunque di una figura in attesa che la formazione dia conto di sé in
virtù di essa e non viceversa. Una figura che sia intesa nella sua ulteriorità rispetto alla
formazione, e che pertanto non risulti da ciò semplicemente non formabile: l’oggettualità
della figura espanderebbe la formalità della formazione.

2.2. L’Oggetto «gegenstandstheoretisch».

Ripartiamo, allora, dagli stessi esempi kantiani. L’oggetto di un concetto, che contraddice se stesso,
come ad esempio, la figura formata da due lati rettilinei, oppure quella di un quadrato rotondo,
quell’oggetto che contrasta alla sua stessa possibilità, alla forma analitica della propria non-
autocontraddittorietà, rappresenta un oggetto che è insieme quadrato e rotondo, oppure una figura

1 Cfr. Ivi, p. 75: «Un ente immaginario di tal sorta è il posto vuoto che nella topica delle facoltà cognitive può
venir occupato da un oggetto reale, tuttavia considerato sempre dalla parte dell’intelletto».
2 Sul medesimo rapporto forma-figura, Mayz Vallenilla fa agire la questione dello schematismo nella

designazione della nullità oggettuale; «se l’opera oggettualizzante delle categorie dell’intelletto si compie
attraverso uno schematismo, che concede loro l’orizzonte temporale, attraverso cui soltanto viene
determinato il loro senso, che tipo di schematismo, cioè che tipo di senso temporale ha quest’opera, in forza
della quale ci rappresentiamo l’oggetto in generale come nulla? Manca forse del tutto al noumeno la
temporalità? Al contrario, il tempo si mostra anche come orizzonte del nulla». E. MAYZ VALLENILLA, Kants
Begriff des Nichts und seine Beziehungen zu den Kategorien, cit., p. 346.

167
Il Pathos della Forma

chiusa eppure composta da due lati non contigui. L’oggetto in questione viene presentato
da Kant come vuoto, ovvero privo di uno qualsiasi degli apporti dell’intuizione sensibile,
pertanto non effettuale, mentre il concetto si rivela impossibile, nulla.
Dunque, nel nihil negativum si verifica la assoluta non-corrispondenza alla determinazione
del riferimento a qualcosa di oggettuale 1 . «Noi» – nota Husserl – «parliamo di numeri
“immaginari” come √-1, di oggetti fittizi della mitologia come il “leone di Lerna”. Nelle
relative rappresentazioni, gli oggetti impossibili o fittizi sono rappresentati, ma essi non
esistono» 2 .
Nelle parole husserliane, il problema esposto rappresenta l’experimentum crucis per una
revisione del concetto di oggetto trascendentale, quanto al suo portato semantico – quale
possibilità dell’unità dell’esperienza ed in questo senso sovra-trascendentale 3 – e quanto alla sua
funzione – ovvero alla sua ambiguità indicativa tra logica ed ontologia.
È bene ricordare che ciascuno dei tentativi di provvedere ad un terreno oggettuale alla
considerazione logica ha affrontato l’angustia di questo varco: la Dottrina della Scienza di
Bolzano, considerando la composizione della proposizione come elemento logico, la teoria
brentaniana del giudizio, nell’intento di determinare un essenziale correlato intenzionale al
vissuto giudicativo, desiderativo, emozionale, le distinzioni che Twardowski cerca di
illustrare tra atto, contenuto, oggetto, dalle cui mancanze Husserl inizia i suoi studi logici,
ben prima della pubblicazione delle Ricerche logiche, la teoria degli oggetti di Meinong, e di
quel ramo brentaniano che crebbe attorno alla scuola di Graz (Marty, Mally, Ameseder,
principalmente), come anche la concezione fregeana di uno strato mediano oggettuale nella
logica, fino alla teoria della descrizione di Russell, negli ultimi principi della filosofia della
matematica. Tutti, da angolazioni e con risultati differenti, l’uno rispetto all’altro nella
posizione polemica dell’antagonista (come tra Husserl e Twardowski, Meinong ed Husserl,
Russell e Meinong, Frege ed Husserl), tutti muovono da un abbozzo di riscrittura della
nozione di oggetto – allo stesso tempo della notazione-nozione di oggetto e di oggetto della
notazione-nozione. Il passaggio obbligato – che qui vale evidentemente come schema
dell’interpretazione – è specificato dalla distinzione dei due indici conservati nell’oggetto, il
contenuto ed il riferimento. «Necessariamente non-intuitive» – osserva Husserl – «sono
tutte le rappresentazioni concettuali che contengono evidenti incompatibilità, come i
celebri quadrati rotondi, ferri di legno e simili. Esse non sono per questo dei non-sensi

1 E. HUSSERL, Manuskripte K I 56, K I 62 (1894), in Hua, cit., Bd. XXII, Aufsätze und Rezensionen (1890-1910),
1979, p. 303; trad. it. a cura di S. Besoli e V. De Palma, Oggetti intenzionali, in Logica, psicologia e fenomenologia, cit.,
p. 87.
2 Ivi.
3 Cfr. M. G. LOMBARDO, La forma che dà l’essere alle cose. Enti di ragione e bene trascendentale in Suàrez, Leibniz, Kant,

cit., pp. 78-79.

168
Il Pathos della Forma

(Sinnlosigkeit); esse sono rappresentazioni precisamente nel senso in cui lo è qualsiasi


rappresentanza. Esse hanno un’intenzione del tutto determinata e ben comprensibile, ma
rivolta a qualcosa di impossibile» 1 . La non-intuitività non coincide con la mancanza di
senso, vale a dire che una rappresentazione concettuale, o meglio una rappresentanza
concettuale, non si riferisca a qualcosa del novero della effettualità (dunque non è intuibile
sensibilmente); che invece – addirittura - si riferisca a qualcosa, negante la possibilità della
sua propria esperienza, le consente di rappresentare qualcosa, senza ingiungerne la
posizione. Essa pertanto conserva la determinatezza e la comprensibilità della sua mira,
deposta nel portato della rappresentanza. «È ovvio che possiamo rappresentarci un oggetto,
anche se esso non esiste affatto; rappresentarcelo significa infatti avere una raffigurazione
mentale corrispondente ad esso, e come in generale può esistere un’immagine, mentre il
raffigurato non esiste, così anche qui. Il contenuto (Gehalt) della rappresentazione non
viene toccato dall’essere o dal non-essere dell’oggetto» 2 . Ciò che Husserl matura nel
confronto con le riflessioni di Kazimir Twardowski, raccolte in Über den Inhalt und
Gegenstand der Vorstellungen 3 , e con la sua differenziazione tra contenuto ed oggetto (e più
specificamente con la distinzione tra oggetto reale ed oggetto pensato, intenzionale, di
chiara eredità brentaniana), è la disposizione nel seno della rappresentanza concettuale di
un riferimento, di un contenuto e di un oggetto. Se è vero che «ogni rappresentazione
rappresenta un oggetto», rappresenta qualcosa, reca in sé qualcosa di rappresentato, ciò
nondimeno non implica che «ad ogni rappresentazione corrisponda un oggetto», che
ciascun riferimento si converta in corrispondenza, ed in corrispondenza ad un oggetto che
non «ci faccia il torto di non esistere» 4 .
Il riferimento viene osservato, dunque, quale rimando analogico, signitivo, quale
indicazione, accenno, ove il fantasma oggettuale vale come la stoffa del rivolgimento.

1 E. HUSSERL, Psychologische Studien zur elementaren Logik, in «Philosophische Monatshefte» Berlin, 30, 159-191;

poi in Hua, cit., Bd. XXII, Aufsätze und Rezensionen (1890-1910), 1979, p. 102; trad. it. a cura di S. Besoli e V.
De Palma, Studi psicologici per una logica elementare, in Logica, Psicologia, Fenomenologia, cit., p. 68.
2 E. HUSSERL, M. K I 56, K I 62, in Hua, cit., Bd. XXII, p. 304; trad. it. Oggetti intenzionali, in Logica, Psicologia,

Fenomenologia, cit., p. 88.


3 K. TWARDOWSKI, Zur Lehre vom Inhalt und Gegenstand der Vorstellungen. Eine psychologische Untersuchung, Wien,

1894, ora in Wybrane pisma filozoficzne, PWN, Warszawa 1965; trad. it. di S. Besoli, in Contenuto ed oggetto, Bollati
Boringhieri, Torino 1988, pp. 55-169. Cfr. R. IRGARDEN, The scientific activity of Kazimierz Twardowski, in «Studia
Philosophica», 1939-1946, vol. III, 1948, pp.17-30; B. SMITH, Kazimir Twardowski: An Essay on the Borderlines of
Ontology, Psychology and Logic, Szaniawski (Ed.), The Vienne Circle, 1989, pp.313-73; R. POLI, Wolf und Twardowski,
relazione presentata al convegno internazionale The Theory of Objects in Central Europe. Twardowski and Meinong:
The Austrian-Polish Connection, Cracovia, 7-10 dic. 1989; L. ALBERTAZZI, Kant, Twardowski e Husserl nel pensiero di
Kazimierz Ajdukiewicz, R. POLI (a cura di), Kazimierz Ajdukiewicz: lingua e linguaggi, «Centro Studi per la Fil.
Mitteleuropea», Trento 1991, pp. 17-36; S. BESOLI, La verità del contenuto. Riflessioni intorno alla problematica del
giudizio in Twardowski, in «Discipline filosofiche», 2, 1991, pp. 49-94; P. SIMONS, Verità atemporale senza portatori
di verità atemporali, in «Discipline filosofiche», 2, 1991, pp. 33-47. Sulla posizione di Twardowski nella storia della
mereologia, si veda R. POLI, Ontologia formale, Genova, Marietti, 1992, pp. 427-441.
4 Ivi, p. 305; trad. it., p. 89.

169
Il Pathos della Forma

Donde, il contenuto, ‘ciò di cui si dà notizia’, si mostra invece come la dotazione semantica
di ciascuna rappresentazione, come la sua capacità di significato 1 . Né l’uno né l’altro, né
riferimento né contenuto, dipendono dalla posizione di esistenza dell’oggetto; ambedue
dipendono dall’oggetto, prescindendo dalla sua posizionalità esistentiva.
Ma il problema rimane. Come è possibile, infatti, continuare a fare questione del concetto
di oggetto, senza determinare con chiarezza la condizione primaria di indifferenza rispetto al
suo essere o non-essere effettualmente? E per converso, cosa si intende ribaltando l’essere
ed il non-essere possibile, l’essere o non essere esistente, l’essere contraddittorio o non
dell’oggetto, nella determinazione rappresentativa dell’oggetto 2 ? «Tuttavia, quali che siano i
motivi psicologici che determinano il nostro modo di parlare ora proprio, ora improprio di
oggetti rappresentati, è chiaro che solo il significato è una determinazione non separabile e
primaria della rappresentazione soggettiva, mentre il riferimento ad oggetti rimanda a
connessioni di verità di tipo differente, nelle quali si inseriscono i significati. L’oggetto
stesso, se esso in generale esiste, può essere occasionalmente immanente ad una
rappresentazione soggettiva; ma che esso lo sia o no, lo statuto (Gehalt) obbiettivo della
rappresentazione non subisce per questa ragione alcun mutamento; esso è appunto
esclusivamente determinato dal “contenuto” (Inhalt)» 3 . Il portato, lo strato obbiettivo della
rappresentazione, il Gehalt, «che essa rappresenti qualcosa», il “contenuto”, l’”Inhalt”, «il
qualcosa rappresentato», il riferimento, «che la rappresentazione rimandi a qualcosa»,
l’oggetto, «ciò a cui la rappresentazione rimanda». Come è evidente, qui, la precondizione al
prosieguo dell’analisi del concetto di oggetto, od, in altri termini, di ciò di cui è carico il
concetto di oggetto, è che non sia sufficiente alla sua definizione una frustra e vaga
collocazione frontale, il Gegen del Gegenstand; ma che tale posizione divenga comprensibile
solo in virtù della disposizione, di quella innere Beschaffenheit, che ne determina lo stare, stehen.
Procedendo a questo chiarimento si tenta di rimuovere uno dei maggiori ingombri alla
designazione dell’oggetto e della sua generalità. Il primato a favore frontalità dell’oggetto, e
per converso a detrimento della stazione oggettuale, rivela – nelle riflessioni di Meinong

1 E. HUSSERL, M. K I 56, K I 62, in Hua, cit., Bd. XXII, p. 323; trad. it. Oggetti intenzionali, in Logica, Psicologia,

Fenomenologia, cit., p. 107: «Con contenuto si intende qui chiaramente il contenuto signifiazionale della
rappresentazione».
2 Ivi, p. 315; trad. it., p. 95: «Le cose stanno in maniera del tutto analoga per quanto riguarda la suddivisione

degli oggetti in possibili ed impossibili (dei numeri, ad es., in reali ed immaginari). Non vi è una suddivisione
degli oggetti, ma una suddivisione delle rappresentazioni, a seconda dei giudizi validi di compatibilità o
d’incompatibilità nei quali esse entrano».
3 E. HUSSERL, M. K I 56, K I 62, in Hua, cit., Bd. XXII, p. 329; trad. it. Oggetti intenzionali, in Logica, Psicologia,

Fenomenologia, cit., p. 113. Sulla differenza tra oggetto e significato, ivi, p. 330; trad. it. p. 114. Sulla traduzione
di Gehalt come statuto, la cui scelta risale alla prima versione italiana delle Logiche Untersuchungen a cura di
Giovanni Piana, che ne espresse le ragioni nel glossario di quell’edizione, poi ristampata di recente, ma senza
correzione alcuna, ci riserviamo di ritornare; cfr. Nota del Traduttore a E. HUSSERL, Ricerche Logiche, II, a cura
di G. Piana, Milano, 20052, pp. 555-556.

170
Il Pathos della Forma

prima sulla dottrina delle relazioni, delle assunzioni e del giudizio, poi riguardo alla
Gegenstandstheorie ed alla sua collocazione nel quadro delle scienze – l’aspetto del pregiudizio a
favore del reale 1 . Questo principio valga per noi solo come la regola di non coincidenza tra
oggettualità ed effettualità, tra oggetto ed essere effettuale, tra essente oggetto ed essente
reale (effettualmente). «La totalità di ciò che esiste» – scrive Meinong – «con inclusione di
ciò che è esistito ed esisterà, è infinitamente piccola se paragonata alla totalità degli oggetti
della conoscenza [Erkenntnisgegenstände]. Che tutto ciò sia stato trascurato con tanta
leggerezza si deve certamente al fatto che l’interesse particolarmente vivo per il reale,
interesse che appartiene alla nostra natura, porta all’eccesso per cui si considera il non-reale
come un puro nulla o, più precisamente, a considerarlo come qualcosa che non offrirebbe
in alcun modo alla conoscenza dei punti di aggancio, oppure forse alcuni, ma solo
scarsamente apprezzabili» 2 . Da ciò sembra derivare quella condizione di Heimatlosigkeit, di
mancanza di patria per quegli oggetti o quelle gamme oggettuali che non sono considerati
propri da nessuna delle scienze tradizionali 3 . Quel Vorurteil, insomma, impedisce la
comprensione di quel non-reale che è, come le relazioni, le connessioni, i confronti, le qualità,
le distanze, e di quel non-ente, quale non-reale, non-possibile – «vi sono oggetti per i quali
vale che siffatti oggetti non ci sono» 4 - e tuttavia ancora non un nulla. «In opposizione ad
una simile preferenza per il reale, fino ad ora di fatto ancora mai rotta in nessuna scienza,
permane l’innegabile bisogno di una scienza che elabori i suoi oggetti senza limitarsi
precipuamente al caso particolare della loro esistenza, tanto da poter essere designata in
questo caso come daseinfrei, indifferente all’esistenza» 5 . La Freiheit von Daseins è
Unbekummertheit von Daseins: non importa semplicemente distinguere l’esistenza dalla
sussistenza o dalla consistenza dell’oggetto, come se quest’ultimo venisse collocato per
arbitrio in un’ulteriore sfera semantica della logica. Meinong considera piuttosto abbrivio

1 Che questa formula si offra assieme come stendardo ed equivoco sul pensiero di Meinong non lo
dimostrano solo le critiche più taglienti a lui arrecate, come quelle di Husserl e Russel, quale l’esemplare
marchio di moltiplicatore di oggetti in barba a qualsiasi concludenza logica, che riconosca autorità ad Ockham
ed al suo rasoio, ma forse con ancora più risalto ne viene alla luce l’intento retorico, epenetico, ricordando la
chiusa della Logica trascendentale kantiana, ove si legge che «senza un reale, tanto la negazione quanto la
semplice forma dell’intuizione non sono in alcun modo oggetti» I. KANT, Critica della Ragion Pura, trad. it. p.
300.
2 A. MEINONG, Über Gegenstandstheorie, in Untersuchungen zur gegenstandstheoie und Psychologie, a cura di Meinong,

A., Leipzig, pp. 1- 40; trad. it. di E. Coccia, Teoria dell’oggetto, Macerata, Quodlibet, 2003, p. 24.
3 «Grandi ed importanti gruppi di oggetti non hanno però trovato una patria nelle scienze tradizionali; inoltre

in queste scienze si ha a che fare esclusivamente con la conoscenza del reale, mentre anche il non-reale che è
ed oltre a ciò il non-ente, il possibile ed anche l’impossibile possono costituire l’oggetto di determinate
conoscenze, alle quali colui che è teoreticamente ancora ingenuo indirizza spontaneamente i propri interessi al
massimo quando ciò promette di fornire un medio di conoscenza per il reale». A. MEINONG, Selbstdarstellung,
in Die deutsche Philosophie der Gegenwart in Selbstdarstellung, hrsg. von Schmidt, R., Bd. I, Leipzig, F. Meiner, pp.
91- 150; trad.it. di E. Coccia Presentazione personale, in A. MEINONG, Teoria dell’oggetto, cit., p. 82.
4 Ivi, p. 28.
5 Ivi, p. 82.

171
Il Pathos della Forma

della propria indagine la differenza tra l’essere dell’oggetto ed il suo essere-così, o meglio il
principio della loro mutua indipendenza. Ovvero, il modo d’essere di un oggetto, la
modalità determinata della sua presentazione, che questa presentazione oggettuale si
imponga nel suo essere-così, non misura la propria ammissibilità sulla verificazione della
sua presenza intuitiva. «Non solo la celebre montagna d’oro è d’oro ma anche il quadrato
rotondo è tanto rotondo quanto quadrato» 1 . Che tale oggetto venga riconosciuto come
non-esistente, che ricorra cioè in giudizi negativi – si intenda: «giudizi che ne colgono il
non-essere» - il non-essere della corrispondenza effettuale e non del suo essere-così,
laddove la ricusazione di un “quadrato rotondo” non è la negazione del suo essere-
quadrato o –rotondo, ma della rinvenibilità coniugata in unità di ambedue i caratteri
attributivi, ossia della loro comune predicabilità, nell’ambito dell’esistenza o della possibilità,
dimostra e converso che la prima determinazione propria dell’oggetto è quella del So-sein. Tale
connotazione oggettuale risulta pertanto estranea alla dualità alternativa di essere e non-
essere.
Dnque, la dimensione oggettuale dell’oggetto sta «al di là dell’essere e del non essere»:
«l’oggetto è per sua natura außerseiend, fuori-essente» 2 . È muovendo da ciò che Meinong
può raccogliere le sue ricerche sotto il titolo di Gegenstandstheorie, quale scienza dell’oggetto
in quanto tale o dell’oggetto puro 3 , intendendo in primo luogo per puro, depurato
dall’ingiunzione all’esistenza. Né la purezza così adombrata dell’oggetto osta alla
comprensione dell’impurità della sua costituzione conoscitiva, della trama oggettiva di
completezza ed incompletezza, di determinazione o indeterminazione, che
rappresenteranno le acquisizioni più avanzate degli studi meinonghiani.
Ora se la tavola kantiana dell’oggetto in generale – si notino qui le differenze e le
concordanze tra in generale e puro – era l’ultimo sigillo all’incommutabilità oggettuale
dell’ontologia, indizio metonimico della metafisica, in che maniera la teoria dell’oggetto
consuma i suoi vincoli con la logica e con l’ontologia? O, in una versione più pertinente,
quanto all’intento introduttivo di questi paragrafi, come avvia a riguardo una
chiarificazione, quali sono gli intenti, ma anche gli scompensi e le lacune che inscrive su
questo piano? E, d’altro canto, quale è la posizione della teoria dell’oggetto nel sistema delle
scienze – die Stellung des Gegenstandstheorie um System der Wissenschaften? Ovvero, la posizione
rispetto alle scienze, se queste recano il rifiuto di usbergo agli oggetti difformi
all’esistentività?

1 Ivi, p. 28.
2 Ivi, p. 32.
3 Ivi, p. 82.

172
Il Pathos della Forma

Nell’apertura di tali questioni essenziali alla definizione di ambito, di competenza della


Gegenstandstheorie, in cui non si risparmiano contributi tematici e chiarificatori quanto alla
nozione di oggetto, Meinong definisce insieme i cardini della propria dottrina e le sue
valenze funzionali. Allo stesso tempo dichiara una posizione ed illustra distinzioni,
coincidenze, impieghi: dalla difficile conciliazione tra i due corni della presentazione deriva
un coagulo critico, che rappresenterà il primo deposito della nostra indagine preliminare.
«Sin dall’antichità» – osserva Meinong – «questioni di teoria dell’oggetto sono state
trattate anche sotto il nome di metafisica ed in particolare sotto quello di ontologia, intesa
come una parte della metafisica; specie l’aspetto caratteristico dell’indifferenza all’esistenza
non è stato affatto costantemente ignorato» 1 . Come si evince da queste righe, la pretesa
esplicita della teoria dell’oggetto è di attendere alla costituzione di un’ontologia emendata,
emancipata dalla preminenza del reale: un’ontologia che comprenda sotto il concetto di
oggetto puro l’intera gamma delle declinazioni dell’essere e dei suoi modi. La teoria
dell’oggetto, quindi, intende essere ontologia ruotando attorno al luogo vuoto dell’oggetto,
non come casella vacante né come cavo figurativo, ma come forma dell’oggetto. In questo
senso, dunque, la teoria dell’oggetto può essere intesa come ontologia formale, laddove la
forma dell’oggetto sia intesa quale suo vuoto.
Tale definizione elettiva sperimenta la sua tenuta nel riguardo del complesso delle altre
scienze. In particolare, l’incidente probatorio viene invocato quanto al rapporto tra
Gegenstandstheorie e logica, ovvero nella esposizione della teoria dell’oggetto come logica pura
e come logica matematica, e nella presentazione della medesima teoria dell’oggetto rispetto
alla logica pura o formale: biforcazione che non esiterà ad esplicitarsi. Meinong distingue
una teoria speciale dell’oggetto, ovvero quella che considera la specificazione di alcuni
determinati ambiti oggettuali, o, più esplicitamente, alcune classi di oggetti, ed una teoria
generale dell’oggetto, che invece riguarda la totalità degli oggetti, la loro generalità, cioè la
classe della totalità degli oggetti. Se della prima è possibile verificare come unico “mirabile”
esempio la matematica, o comunque l’estensione del «trattamento more matematico anche ad
altri ambiti scientifici o – si può ben dire – più brevemente oggettuali» 2 , della seconda
invece ne è caso esaustivo la teoria generale delle funzioni, come dottrina della molteplicità e,
per estensione, come logica matematica. Ciò non basta; alla teoria dell’oggetto risulta
inevitabile, necessario, a sua volta, il rapporto di distinzione – non di mera sovrapposizione
formale – con la logica, in specie quella non matematica. È da rinvenire in tale
differenziazione – o meglio della non coincidenza tra logica formale e mathesis universalis – la

1 Ivi, p. 82.
2 Ivi, p. 47.

173
Il Pathos della Forma

modalità in virtù della quale la Gegenstandstheorie sconta i propri rapporti con la logica.
Nonostante riconosca che grazie alla cosiddetta logica pura o formale – intendendo così
l’identificazione husserliana di logica pura e logica formale, sulla base di una concezione
della vuotezza della forma come sua purezza ed, in uno, come articolata analiticità – «sono
stati posti compiti che concordano in maniera innegabile con ciò che si deve
ragionevolmente esigere da una trattazione teoretica degli oggetti come tali» 1 , tuttavia
Meinong fatica a portare a compimento la distinzione di questa «idea di logica da quella di
un’arte interessata alla capacità di prestazioni del nostro intelletto senza farle violenza» 2 ,
senza cioè rimuovere la vocazione della logica ad essere “disciplina pratica”.
Ad un esame più attento il diniego di una tale disidentificazione si radica nell’attestazione
della dimensione grammaticale dello strato elementare logico, quello della proposizione. Da
ciò discende – come in un solo gesto del pensiero – la preminenza concessa al valore della
grammatica per comprendere lo sviluppo storico della logica, ed, in ultima istanza, ad un
progetto di grammatica logica. «Per quanto le cose siano nel complesso differenti, si è tentati
di affermare che la teoria generale dell’oggetto deve imparare dalla grammatica nello stesso
modo in cui la teoria speciale dell’oggetto può e deve imparare dalla matematica» 3 .
Ora, date queste premesse, in che modo la determinazione di queste relazioni, all’interno
di una sorta di sistema delle scienze, dipende dalla definizione avanzata della
Gegenstandstheorie come ontologia? Altresì, assumendo pure tale definizione, i legami, i
contatti, i rimandi alla logica vengono semplicemente risarciti dall’elevazione della
grammatica logica a modello della trattazione teoretica degli oggetti, nella sua generalità,
oppure ripetono le proprie inconciliabili incrinature, riproducendo l’estraneità tra ontologia
e logica in quella tra Gegenstandstheorie ed arte tecnica dell’argomentazione e, quindi, del
pensiero?
L’identificazione della teoria dell’oggetto con una forma di ontologia delude il compito di
cui era stata fatta carico; tale posizione si espone, infatti, alla possibilità del rapporto tra
logica ed ontologia, alla luce del concetto di oggetto in generale, appianando la questione
solo da uno dei suoi lati, innescandola altrimenti in una versione ancora più aporetica.
L’intento sembrava quello non di fornire una connessione artificiale, né la perimetrazione
di una zona franca, non semplicemente un tertium, un regno mediano – quello del Gegenstand
überhaupt – piuttosto quello dello studio di un livello oggettuale non accidentalmente senza
patria, in quanto essenzialmente improprio a ciascun deposito tematico. Improprio, e, per
questo, non ancora, o non affatto, comune.

1 Ivi, p. 38
2 Ivi, pp. 38-39.
3 Ivi, p. 50.

174
Il Pathos della Forma

È possibile leggere le emendazioni husserliane alla Gegenstandstheorie, come disciplina


specifica – legata nelle sue evoluzioni ai contributi di Meinong e dell’intera scuola di Graz –
e come dominio scientifico, in ragione delle segnature appena indicate. Nel capitolo settimo
dell’Abbozzo di una prefazione alle «Ricerche Logiche» (1913), che si impone come un breve
tentativo di Selbstdarstellung ed insieme di riscrittura, ove si dedica al confronto con
Meinong, Husserl compie ben più che l’atto finale dell’intreccio di due tracce biografico-
filosofiche. Egli mira piuttosto a collocare con nettezza rispetto a logica ed ontologia quella
Gegenstandstheorie, che compariva sin dalle pagine dei Prolegomena, evidenziandone il portato
essenziale proprio nella progressiva differenziazione dagli sviluppi meinonghiani. Husserl
confesserà in più circostanze la sua ritrosia ad utilizzare – nelle opere composte
precedentemente alle Ideen – l’espressione ontologia, per le concrezioni tradizionali e
dunque per gli equivoci cui avrebbe dato adito, conseguendo così una chiara delineazione
del suo proprio quadro epocale.
«Dapprima» – nota Husserl – «l’attacco del kantismo alle ontologie del suo tempo in
autentiche e metafisiche in senso deteriore (nelle quali e oltre alle quali si possono indicare
tuttavia anche spunti di una buona ontologia), e soprattutto l’avanzata vittoriosa della
filosofia empiristica nella seconda metà del secolo scorso [XIX], hanno fatto perdere
credito a tutte le ontologie» 1 . Né la presunta scoperta di una Gegenstandstheorie avrebbe
dissipato una tale equivocità, anzi ne avrebbe diffuso il germe della confusione 2 . Eppure
non si tratta di un redde rationem in cui decade ogni consistenza semantica della teoria
dell’oggetto: essa piuttosto pare assumere più chiare distinzioni caratteristiche. Se per
ontologia si intende «ogni scienza razionale di oggetti», ovvero ogni scienza della
costituzione eidetica della Gegenständlichkeit, dell’oggettualità nel senso più ampio 3 , «scevra

1 E. HUSSERL, Entwurf einer ‘Vorrede’ zu den ‘Logischen Untersuchungen’, cit.; trad. it. Abbozzo di una prefazione alle
«Ricerche Logiche» [1913], in Logica, psicologia, fenomenologia, cit. p. 206.
2 Ivi, p. 205: «Nell’interpretazione della logica pura ha creato qualche confusione il rapporto di quest’ultima

con la presunta “scoperta” di una “teoria dell’oggetto”».


3 E. HUSSERL, Formale und Transzendentale Logik, cit., p. 68; trad. it., Logica formale e trascendentale, cit., pp. 94-95:

«Se ci si domanda quale sia il concetto universale che deve delimitare il campo unitario di queste discipline
[matematiche] chiaramente omogenee, ci si trova subito nell’imbarazzo. Ma se si prende in considerazione la
generalità naturalmente più ampia dei concetti di insieme e di numero, e i concetti di elemento o di unità che
determinano il loro senso, si riconosce allora che la dottrina degli insiemi e dei numeri cardinali, si riferisce
all’universo vuoto dell’ogg ett o i n ge nera le , ovvero del Qu al co sa i n ge ner al e in una generalità
formale che di principio lascia fuori gioco ogni determinazione concreta degli oggetti; inoltre che queste
discipline sono interessate specialmente a certe determinate forme deduttive del Qualcosa in generale; l’una,
cioè la teoria degli insiemi, agli insiemi in quanto raccolti da oggetti qualsiasi; e similmente la dottrina dei
numeri cardinali, a numeri cardinali in quanto essi sono determinate differenziazioni, da produrre
sinteticamente, di forme di insiemi. Procedendo da qui si riconosce che come la dottrina degli insiemi e la
dottrina dei numeri cardinali, così pure le rimanenti d i sc ip li n e ma temati c he f orm a li sono f o rma l i nel
senso che esse hanno come concetti fondamentali certe fo rme di deriva zio ne del Q ua lc os a in
ge ner a le. Di qui si sviluppa una idea universale di scienza, quella di u na m atem at ica fo rma le ne l
s en so t ota lme nte circos cr ive nt e, il cui ambito universale si delimita solidamente come circoscrizione
del supremo concetto formale di o ggett o in ge nera le o del Qualcosa in generale pensato nella più vuota

175
Il Pathos della Forma

da ogni posizione dell’essere individuale» 1 - ove l’individualità è pertinenza della posizione,


del tratto tetico del giudizio, e non della datità particolare di ciò che è – e se per logica
formale si considera in prima istanza la morfologia a priori dei significati, dei contenuti –
Gehalten – oggettivi di significato, delle forme oggettuali di significato, in quanto
grammatica puramente logica (e non, all’inverso, di una logica puramente, del tutto,
grammaticale) e quindi l’apofantica formale, come dottrina dei modi di significazione, allora
la posizione della Gegenstandstheorie, al di là «della sua poco raccomandabile formulazione» 2 ,
si mostrerà come differenza, come tipologia della differenza.
La teoria dell’oggetto, quindi, in quanto domanda sulla consistenza dell’oggetto puro,
sulla forma oggettuale come mancanza, vuoto, indigenza di luogo, è la superficie sulla quale
viene riformulato il quesito sulla possibilità dell’ontologia, nella veste della differenza tra
logica ed ontologia. Essa non propone un fragile armistizio od una tregua in nome della
vaghezza: pur trovandosi la teoria dell’oggetto in posizione attributiva tanto rispetto alla
logica quanto rispetto all’ontologia, non finisce mai per occupare la posizione di termine
medio tra le due. Proprio essendo la strada lungo la quale si è data la distinzione della più
vasta nozione di oggetto in riferimento oggettuale e contenuto obbiettivo, dunque tra
oggetto, indicazione, significato, la teoria dell’oggetto svolge ancora il suo compito di disporre
l’assetto della forma bilaterale dell’oggetto – logico e ontologico – essenziale all’incremento
delle nostre indagini. È pertanto sulla dimensione di una forma oggettuale incompleta, in
quanto inattuale, opaca, di una forma vuota e differenziale dell’oggetto, dell’oggetto in
quanto unità e non solo intero, ovvero composizione costitutiva dell’intero, che
riprenderanno le nostre ricerche, verificandone il contributo ed il confronto rispetto al
pensiero di Emil Lask.

2.3. Bewandtnis: στάσις, constitutio.

«Cosa si trova» – scrive Lask – «in tutte quelle espressioni come essere, realtà, fattualità,
esistenza? Qui Kant – in ciò consiste la sua semplicissima ed inaudita impresa – è stato
capace di evincere qualcosa da tutte quelle parole, su cui si erano affaccendati i secoli. Egli

generalità con tutte le forme di derivazione producibili e perciò pensabili a priori in questo campo; forme che,
in una costruzione iterativa sempre nuova, danno luogo a forme sempre nuove. Tali derivazioni sono, oltre
all’insieme ed al numero cardinale (finiti e infiniti), la combinazione, la relazione, la serie, il collegamento, il
tutto e la parte, ecc. Così riesce facile di considerare tutta questa matematica come un’o nto l o gi a (dottrina a
priori dell’oggetto), ma come un’ontologia fo rma le , rivolta ai puri modi del Qualcosa in genere». Cfr. Nota
del traduttore sul termine Gegenständlichkeit, ivi, p. 16.
1 E. HUSSERL, Entwurf einer ‘Vorrede’ zu den ‘Logischen Untersuchungen’, cit.; trad. it. Abbozzo di una prefazione alle

«Ricerche Logiche» [1913], in Logica, psicologia, fenomenologia, cit. p. 206.


2 Ivi.

176
Il Pathos della Forma

ha scosso la riflessione filosofica, dando, una buona volta, senso a ciò che da tutte quelle
espressioni risuona in noi, se le pronunciamo in modo per così dire enfatico. Si scopre così
che: qualcosa è realmente così, qualcosa è effettivamente così, non significa altro che: qualcosa è
così in verità. Il carattere di realtà e di effettività di qualcosa non significa altro che: questo
ha la sua Bewandtnis obiettiva, dunque la sua verità. La sussistenza [Bestand] obiettiva, la
solidità e l’indipendenza dell’accadere non sono altro che la necessità e l’incrollabilità della
verità valente. L’oggettualità non è altro che validità, Valere indeterminato ed essere-ascritto
[Zurechtbestehen], obbiettività dell’essere [non significa altro che, ndt.] assolutezza del Valere.
Necessità oggettuale, essere, esistenza sono il contenuto di valore logico trascendentale
proprio del sensibile-intuitivo» 1 . Il tenore di queste righe – in cui solo prima facie Lask
presenta un passo introduttivo alla tesi copernicana – tradisce a pieno le tracce della loro
conversione problematica: proviamo a renderle ancora più esplicite.
Nella prima nota correttiva, che si trova nel Nachlaß, sul margine della copia personale
della Logik, Lask appunta accanto all’espressione es ist in Wahrheit so – così è in verità -
«quindi non è semplicemente vissuto [hinerlebt] così, ma è così in quanto oggetto, ovvero
pensiero [Gedanke]» 2 .
L’esigenza di questa emendazione, tuttavia, non soddisfa affatto l’importo problematico
della concezione laskiana circa l’oggettualità. Piuttosto ne indica la questione centrale. Per
illustrare l’asserto predicativo, quella che in seguito argomenteremo come Existenzial-satz,
ovvero come enunciato proposizionale che si risolve nell’indicazione dell’esistenza di
qualcosa, come quella proposizione cioè, il cui contenuto è la determinazione esistenziale di
qualcosa, Lask esplicita l’espressione «qualcosa è realmente così» in quella di «qualcosa è così
in realtà», ovvero, convertendo brentanianamente lo sein nell’haben 3 , «qualcosa ha così
carattere di realtà». Enunciare che qualcosa sia così significa dunque enunciare l’essere-così,
il so-sein di qualcosa, o altrimenti, che qualcosa ha il suo essere-così. Il contenuto, dunque,
dell’enunciato, preso in considerazione, che qualcosa sia così, nella definizione laskiana, vale
come la objektive Bewandtnis dell’oggetto, quindi, del qualcosa. Ma cosa si intende
propriamente per Objektive Bewandtnis?
Se sin da ora possiamo riferire l’obbiettività della Bewandtnis al suo essere contenuta in una
proposizione, il suo essere rinvenibile, in quanto collocato nella correlazione sussistente
nell’atteggiamento soggettivo della conoscenza – in Korrelation zum erkennenden
Subjektsverhalten – , il suo essere obbiettivato, che cosa significa, però, Bewandtnis?

1 E. LASK, Die Logik der Philosophie un die Kategorienlehre, in GS, cit., II, pp. 29-30.
2 Ivi.
3 Il caso dell’Existenzial-satz, da cui discende la possibilità di tradurre, secondo la dottrina brentaniana del

giudizio, ciascuna enunciazione sull’essere di qualcosa, nell’avere un carattere di questo qualcosa, sarà esaminato
nella sua compiutezza in seguito, quando sarà finalmente in conto la Urteillehre. Cfr. infra, IV, §§. 4-5.

177
Il Pathos della Forma

La dirimenza concettuale del termine, ed insieme la sua implicita difficoltà di traduzione,


impone un avvicinamento graduale al suo portato semantico. Le ambasce in cui cade la
lettura dinanzi a Bewandtnis sono potenziate dalla sua seppur breve storia effettuale o
pragmatica nella lingua filosofica tedesca. Comparso per la prima volta, nell’utilizzo logico che
stiamo esaminando, in queste pagine della Logik i suoi strali si estendono nell’intricata
vicenda delle riscrittura laskiane, comprendendo occorrenze notevoli nel Nachlaß, fino a
toccare l’elaborazione heideggeriana dalla tesi di libera docenza del 1916, sulla dottrina delle
categorie e del significato in Duns Scoto, ai Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, al §. 18 di Essere
e Tempo, sulla mondità del mondo, quale Bewandtnis, appunto, e Bedeutsamkeit, fino a lambire,
come estrema propaggine documentabile, le lezioni sul Parmenide del semestre invernale del
1942-43 1 . La nostra intenzione sarà dunque di 1) rassegnare gli usi e le accezioni di
Bewandtnis rinvenibili nei testi laskiani, 2) considerare l’assunto semantico heideggeriano, in
quanto derivato, al rango di prova della sua tenuta significativa, infine di 3) specificare la sua
derivazione semantica, in considerazione specifica del suo impiego più antico, risalente
all’alto-medio tedesco, ossia quello giuridico-normativo.
Nel tentativo di illustrare il carattere essenziale della formalità logica, quale questione
fondamentale della dottrina teoretica del significato, nel corso cioè di quella riflessione, che
in quanto Besinnung, è già dazione di senso, in merito al modo in cui la forma logica giunga alla
sua posizione ed, inevitabilmente, alla sua composizione, Lask osserva che in ciascuna
esibizione od indicazione formale, fosse anche la più semplice e primaria, vi «deve [muß]
essere già sempre un qualcosa», essa «deve già avere “con” un Qualcosa la sua “verità”, la
sua “obiettiva Bewandtnis”. Il contenuto di verità [Wahrheitsgehalt], questo specifico
contenuto formale, che avvolgendo formalmente un qualcosa, lo rende il senso teoretico o
vero, quella verità in concreto, che è la mira della conoscenza, deve essere sempre verità,
obbiettiva Bewandtnis con qualcosa e richiede fuori della sua propria essenzialità teoretica un
Qualcosa, con a cui avere la sua verità e la sua obbiettiva Bewandtnis, che si riveste di tale
forma obbiettiva [Objektivitätsform]» 2 . La objektive Bewandtnis, esprimendo la determinazione
propria del contenuto proposizionale, rende duplicemente la sua unità: quell’unità che
corrisponde alla objektive Bestand, alla consistenza obbiettiva, in quanto unità sussistente in

1 M. HEIDEGGER, Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus, 1916, ora in GA, cit., Abt. I, Bd. 1, Frühe
Schriften, pp. 131- 353; trad.it. di A. Babolin, La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, Roma-Bari,
Laterza, 1974, pp. 131- 353; ID., Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, in GA., op. cit, II Abt., Bd. 20, 1979;
trad. it. di R. Cristin e A. Marini, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, Genova, 1991; ID., Sein und Zeit,
Tübingen, Niemeyer, 1927; poi in GA, cit., Abt. I, Bd. 2, 1977; trad. it. di P. Chiodi, Essere e Tempo, Milano,
1968, pp. 112-118; ID., Parmenides (Wintersemester 1942-43), in GA, cit., Abt. II, Bd. 54, hrsg. von M. S.
Frings, 1982, pp. 132-sg.; trad. it di G. Gurisatti, Parmenide, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1999, pp. 170-
sgg..
2 E. LASK, Die Logik der Philosophie und die Kategorienlehre, in GS, cit.,II, p. 66.

178
Il Pathos della Forma

virtù della propria individuazione, e non della propria susseguente identificazione, ed in


quanto rapporto che rende possibile questa unità. È evidente dunque che essa è una unità,
quale composizione, indipendente dal proprio riconoscimento, e per ciò stesso è una unità
non affatto monoradiale – formata cioè da un solo elemento, da un solo raggio
intenzionale: una unità non semplice. Piuttosto la objektive Bewandtnis reca sempre con sé una
relazione specifica, quella del womit, del con-che, del συν. La objektive Bewandtnis indica cioè,
in primo luogo, un rapporto, o meglio il rapporto del rivolgimento, del rivolgersi, sich wenden,
implicante il polo con cui ci si trova in rapporto, riportando così come nel quotidiano uso
idiomatico mit der Sache hat es diese Bewandtnis – la faccenda sta così –, l’uso, seppure
traslitterato, del mit. Possiamo, pertanto, almeno provvisoriamente, asserire che per objektive
Bewandtnis si intende una unità contenutistica, internamente relazionale.
Tuttavia, come si dispone un tale rivolgimento? «Rivolgersi [zuwenden] conoscitivamente ad
un Qualcosa significa: essere rivolto [sein gerichtet auf] alla categoria che conchiude, che
convalida. Conoscere qualcosa significa dunque sempre: avere dinanzi a sé qualcosa d’altro,
cioè la forma categoriale riferita o riguardo [‘hinsichtlich’ oder betreffs] a sé, comprenderne
[erfassen ‘darüber’] verità e chiarezza, accorgersi [innewerden] dell’obbiettiva Bewandtnis, che
intrattiene con esso [damit], dunque sempre esperire qualcosa sopra o riguardo a [darüber und
darum]» 1 . La objektive Bewandtnis si definisce dunque attraverso le specificazioni successive
offerte dal damit, con cui, dal darüber, su cui, e dal darum, riguardo a cui: essa indica cioè quel
tipo di correlazione, caratterizzata dal con che, che rende possibile qualsiasi dedizione
riflessiva della conoscenza in merito. Ciononostante, il legame denotato dal con, quel legame
cioè che indica nell’oggettualità, la Mit-meinung, l’intendimento insieme della forma categoriale e
del suo riguardo, rende a sua volta conto al riferimento, zuwenden, della forma a qualcosa di
non-formale. Se l’objektive Bewandtnis, che Lask eguaglia semanticamente nel suo utilizzo alla
objektive Bestand, alla consistenza obbiettiva, accenna al contenuto assertivo, quindi
obbiettivo, di una proposizione, la Bewandtnis semplicemente designa la composizione
forma-materiale nella formalità logica dell’oggetto. Ciò che distingue ancora una volta la
Bewandtnis è il mantenimento dell’estraneità nella composizione, sancita dal ricorso al damit.
Possiamo dunque provare a tradurre Bewandtnis, in quanto sinonimo di Beschaffenheit, con
costituzione 2 , lasciando ferma l’attenzione sul modo specifico di costituzione, cui qui ci si
riferisce: ossia quella costituzione che sorga mediante la dualità. Domandarsi quindi che cosa

1Ivi, pp. 82-83.


2 Al lemma Bewandtnis, nel Deutsches Wörterbuch di J. e W. Grimm, si legge: « f. ratio, conditio, beschaffenheit: die
sache hat, mit der sache hat es diese bewandtnis; es habe damit gleiche bewandtnis;
was es etwan für eine bewandnüs mit dem studentenleben haben möchte. [SCHOCH];
wafne mich
der neuen zeit bewandnis zu begrüszen. [A. W. SCHLEGEL in Heinr. IV. th. 2 act 5, sc. 2]».

179
Il Pathos della Forma

sia un oggetto, ponendo così mente alla sua Bewandtnis, significa considerare la sua
costituzione categoriale, non per definirne le proprietà, i suoi propri caratteri invariabili,
giungere al livello della sua generalità, ma riferire della sua costituzione, del suo essere
costituito mediante il riferimento della forma dell’oggettualità, e di questa forma oggettuale,
a questo oggetto, ovvero alla determinazione non-formale, iletica di questo oggetto. Ciò a
cui la Bewandtnis introduce, ciò a cui questa nozione di costituzione soltanto fa accedere, è la
dottrina laskiana della forma, della indicazione formale, ovvero la teoria dell’originaria
coppia elementare μορφή-ύ̉λη, forma-materia 1 .
Proviamo ora a verificare la provvisoria versione di Bewandtnis, come costituzione duale,
sull’utilizzo che di questo termine Heidegger compie, derivandolo proprio dalle letture
laskiane, mediante cui vide evolvere i primi rudimenti di logica in studi preparatori di rilievo
decisivo 2 . Nonostante la nostra mira sia evidentemente rivolta a consolidare la
comprensione dell’accezione laskiana di Bewandtnis attraverso la ripresa imposta negli scritti
di Heidegger, prevalentemente in preparazione di Essere e Tempo, ciò corrisponderà anche
alla limatura di un ulteriore tassello nella ricostruzione di un rapporto, la cui chiarificazione
accompagna inevitabilmente le nostre ricerche: vieppiù, in questo caso, più che altrove,
misurandosi su un campo delimitato e ben identificabile, lo scarto del giovane studioso di
Messkirch, ed allo stesso tempo, ben più che un debito, l’eco di un compito, risulteranno
quasi geometricamente distinguibili. Nel tentativo preliminare di riformulare le strutture
categoriali, nella loro legittimità e nella loro pregnanza quanto all’analitica esistenziale,
Heidegger nei Prolegomena articola l’analisi del senso della mondità, ovvero della «struttura della
mondità del mondo su due punti: in primo luogo la mondità del mondo-circostante in
generale, “l’a-(che)-fare [Um-zu]” che incontra, la Bewandtnis; ed in secondo luogo la circum-
stanzialità, il carattere spaziale primario del “circum” come elemento costitutivo della

1 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, cit., II, p. 54: « Ma in che cosa consiste l’articolazione originaria che
domina l’ambito teoretico?
Non c’è in merito decisione più radicale che ricondurre ad un fenomeno particolare il Logico, il Teoretico
in generale ed in quanto tale, o almeno il Teoretico nella sua figura [Gestalt] originaria – dominante, secondo le
considerazioni dell’introduzione, nella stessa regione oggettuale -, cioè il semplice contenuto [Feingehalt] logico
di tutto il pensabile, di modo che, in virtù della sua essenza per così dire funzionale, esso si trovi in una
determinata situazione caratteristica rispetto a tutto il pensabile e, viceversa, tutto il pensabile si trovi in una
situazione del tutto determinata rispetto al Logico. Alla comparsa di questo fenomeno teoretico fondamentale
sarebbe dunque legata l’essenza di tutta la conoscenza; sul rapporto ad esso di tutto il pensabile si fonderebbe
l’ultima articolazione dell’ambito teoretico».
2 Sull’utilizzo heideggeriano di Bewandtnis, e sul rapporto generativo, in esso insito, con l’opera di Lask, si

vedano T. KISIEL, Why students of Heidegger will to read E. Lask, in «Man and World», 28, pp.197- 240; ID., Wash
eißt das – die Bewandtnis? Retraslating the categories of Heidegger’s Hermeneutics of the technical, in «Boston Studies in
Philosophie of Science», 225, 2002, pp. 127-136; E. MAZZARELLA, (a cura di), Heidegger a Marburg, Bologna, Il
Mulino, 2005; S. POGGI, La logica, la mistica, il nulla. Una interpretazione del giovane Heidegger, Pisa, Ed. Normale,
2006.

180
Il Pathos della Forma

mondità» 1 . Ciò che illustra ancora meglio l’inclusione della nozione in questione nella
maglia metodologica heideggeriana, è la distinzione di modalità o di fasi nell’analisi della
mondità del mondo-circostante, in cui si distinguono: «1. la dimostrazione [Ausweisung] dei
caratteri d’approccio al mondo, poi 2. l’interpretazione della struttura di incontro, ossia
l’esposizione del contesto fenomenale di fondazione dei caratteri dell’incontro stesso, e
infine 3. la determinazione [Bestimmung] della struttura fondamentale della mondità in quanto
Bewandtnisganzheit.
Questi tre punti serviranno – prosegue Heidegger – a chiarire quattro questioni tradizionali:
la prima perché in filosofia sia stata saltata fin dal principio e da allora continui ad essere
saltata l’autentica struttura d’essere del mondo, la mondità primaria. La seconda, perché
questa struttura d’essere, nonostante con i predicati di valore sia stato introdotto per essa
un fenomeno sostitutivo, venga tuttavia sempre considerata come bisognosa di spiegazione
e di deduzione. La terza, perché essa venga spiegata tramite chiarimento e fondazione in
uno strato fondamentale di realtà effettuale. La quarta, perché questa effettualità fondante
sia compresa come essere della natura ed addirittura nel senso della obbiettività della fisica
matematica» 2 .
Il ricorso alla Bewandtnis soddisfa, con ogni evidenza, l’esigenza di riscrivere l’impianto
categoriale – la sua presa, la sua ampiezza, il suo riferimento – alla luce di una relazione
interna, che non può essere meramente risolta nella fondazione di un campo di validità. Ciò
dunque che Heidegger conserva dell’invenzione linguistica laskiana è la sua posizione nella
riscrittura della formalità, dell’indicazione formale propria delle categorie, della
determinazione della forma categoriale, ovvero del rapporto forma-materiale, che diviene
formalizzazione/deformalizzazione 3 , internamente alle categorie. Tuttavia l’introduzione

1 M. HEIDEGGER, Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, in GA., cit., II Abt., Bd. 20, 1979, p. 231; trad. it. di
R. Cristin e A. Marini, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 208.
2 Ivi, p. 251; trad. it., p. 227.
3 Su generalizzazione, formalizzazione e deformalizzazione, cfr. E. HUSSERL, Ideen, I, in Hua, III/1, cit., p. 26; trad. it.

pp. 33-34. «La generalizzazione è del tutto diversa dalla formalizzazione, quale ad es. si mostra nell'analisi
matematica, mentre la specializzazione è del tutto diversa dalla deformalizzazione [concretizzazione,
Versachlichung], intesa come riempimento di una vuota forma logico-matematica o di una verità formale». Per
meglio esplicare la differenza tra generalizzazione e formalizzazione cfr. APPENDICE I, al §1 e al § 13, E.
HUSSERL, Ideen, I, in Hua, III/2; trad. it., p. 350: «1.la generalizzazione [formalizzazione] logico-matematica
che porta alle pure forme sostituendo i nuclei pieni con nuclei vuoti, materie determinate con indeterminati
qualcosa (materie in generale), oggetti determinati mediante "oggetti in generale", le essenze determinate
mediante "essenze in generale" (cfr.§13). 2. La generalizzazione materiale , per le essenze pure, la
generalizzazione pura [in breve, la generalizzazione], che procede dalle specie ai generi, ai generi veri e
propri, i quali, dal canto loro, sono un che di materiale, pure materie, previa astrazione da tutte le forme
sintattiche che li circondano». Tornando sul medesimo tema – introducendo al corso sulla fenomenologia della
vita religiosa – Heidegger scrive: ««Generalizzazione» significa universalizzazione secondo il genere. Per esempio, il
rosso è un colore, il colore è qualità sensibile; oppure la gioia è un affetto, l’affetto è esperienza vissuta.
Sembra che si possa proseguire: le qualità in generale, le cose in generale sono entità. Rosso, colore, qualità
sensibile, esperienza vissuta, specie, genere, essenza sono oggetti. Sorge però subito la domanda: il passaggio
universalizzante da «rosso» a «colore», oppure da «colore» a «qualità sensibile» è lo stesso passaggio da «qualità

181
Il Pathos della Forma

nell’analitica dell’effettività riduce l’ambito di significato della Bewandtnis, facendovi ricorso


piuttosto in quanto comprensione del modo d’essere del mondo – del modo d’essere
dell’ente che per primo si incontra nel mondo –, quale totalità di riferimento, in cui si renda
possibile ciascun um-zu, ciascun a-che-fare degli strumenti, degli utensili, degli utilizzabili.
Questo slittamento semantico si compie in virtù dell’utilizzo heideggeriano del termine
Bewandtnis in congiunzione con l’espressione bewanden-lassen, essere soddisfatto, essere
appagato 1 . La Bewandtnis è quindi una struttura categoriale, corrispondente al tracciamento
della linea del mondo come orizzonte di opportunità, o di appagatività.
La duplicità del riguardo, sotto cui è finora caduto il ricorso alla Bewandtnis nella
riflessione heideggeriana – da un lato, cioè, l’attenzione all’articolato categoriale, alla
domanda che cosa è una categoria, che cosa è una forma (categoriale), e dall’altro la contrazione
della sua accezione nell’indicazione di un modo di essere, quello della mondità del mondo –
, si conserva e si esplicita ulteriormente, nell’uso compiuto presso il §. 18 di Essere e Tempo,
quando si rinviene un legame essenziale con la Bedeutsamkeit. «Il «significato» di un segno»
– scrive Heidegger – «il «martellare» del martello, non sono proprietà di un ente. Essi non
hanno nulla a che fare con qualità, se con questa parola si vuole indicare la struttura
ontologica di una determinazione possibile delle cose. L’utilizzabile ha sempre solo
appropriatezze e non appropriatezze, e le «proprietà» sono, per così dire, latenti in quelle,
allo stesso modo che la semplice-presenza è latente nell’utilizzabilità come modo di essere
possibile di un utilizzabile. Tuttavia l’utilità (il rimando), in quanto costituzione del mezzo,
non è l’appropriatezza di un ente, ma la condizione ontologica della possibilità che esso
possa esser determinato mediante appropriatezze. Ma che cosa significa rimando? Che
l’essere dell’utilizzabile abbia la struttura del rimando significa che esso ha in se stesso il
carattere dell’essere-rimandato. L’ente è scoperto in un processo in cui, in quanto è l’ente che

sensibile» a «entità» e da «entità» ad «oggetto»? Evidentemente no! C’è qui una frattura: il passaggio da «rosso»
a «colore» e da «colore» a «qualità sensibile» è generalizzazione, quello da «qualità sensibile» a «essenza» è
formalizzazione. Si può domanda se la determinazione «qualità sensibile» definisca «colore» nello stesso senso in
cui la determinazione formale «oggetto» definisce un qualsiasi oggetto. Evidentemente no. Ciò nonostante la
distinzione tra generalizzazione e formalizzazione non è ancora del tutto chiara». M. HEIDEGGER, Die
Phänomenologie des religiösen Lebens. 1. Einleitung in die Phänomenologie der Religion, in GA, cit., Abt. II, Bd. 60, 1995;
trad. it. di G. Gurisatti, a cura di F. Volpi, Fenomenologia della vita religiosa, cit., p. 95.
Su formalità e deformalizzazione si consideri anche M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Tübingen, Niemeyer, 1927, §.
7; poi in GA, cit., Abt. I, Bd. 2, 1977; trad. it. di P. Chiodi, Essere e Tempo, Milano, Longanesi, 1968, pp. 47-51.
Segno dell’interesse del tutto nuovo che esercita l’asse della formalità/formalizzazione sulla rinascita logica, che
concresce anche in seno alla fenomenologia, sono anche gli studi di O. Becker sulla logica e la matematica
antiche, intendendo quest’ultima come studio dell’esistenza matematica. Cfr. O. BECKER, Formallogisches und
Mathematisches in griechischen Texten, in «Philologus», 1956, pp. 108-112; ID., Zwei Untersuchungen zur antiken
Logik, Wiesbaden, Harrassowitz, 1957. Il valore preparatorio di queste riflessioni, e di studi di tal genere, è
quello di avvisare sulla possibilità di intendere una radicalizzazione della formalizzazione, fino alla
conseguente (per l’ordine della riflessione) deformalizzazione (ovvero preformalizzazione).
1 M. HEIDEGGER, Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, GA, cit., Abt. II, Bd. 20, cit., p. 300, 310; trad. it., p.

269, 278. Cfr. Glossario, trad. it., p. 410.

182
Il Pathos della Forma

è, è rimandato a qualcosa. Esso ha con sé, presso qualcosa, il suo appagamento. Ciò che
caratterizza l’essere dell’utilizzabile è l’appagatività [Bewandtnis]. L’appagatività importa
l’appagamento con qualcosa presso qualcosa. Il rapporto espresso dal «con…presso…»
deve essere chiarito a partire dal concetto di rimando» 1 . L’incedere analitico heideggeriano
rende esplicita la costanza nel riferimento, già notato nella Logik laskiana, alle modalità del
carattere formale della Bewandtnis: 1) in quanto costituzione, determinazione, e non qualità,
proprietà, 2) in quanto rapporto del con…presso, 3) in quanto ricondotto alla modalità della
Verweisung, del rimando 2 .
L’elenco di tali caratteristiche della forma categoriale è condizionato inevitabilmente dalla
sua collocazione, dalla sua posizione rispetto al materiale, in cui si trova ed a cui si riferisce. Le
nozioni dunque di sostrato, di luogo, e di contenuto – il luogo dell’esperienza, l’Erlebnisstätte, in
Lask – quello del ci dell’Esserci, in Heidegger – ed il contenuto in esso esperito, erlebte,
tornano ad addossarsi sulla coppia forma-materiale, ora in seno alla domanda sulla
dimensione categoriale. Dunque, tornando alla questione del significato proprio che il
termine Bewandtnis importa nella riflessione – e che abbiamo visto riverberarsi, mutando
aspetto, tra Lask ed Heidegger – bisognerebbe domandarsi che tipo di costituzione esso
intende, nel rapporto tra forma e materia, ed in che modo è decisiva l’inclusione del con? Ed
inoltre: cosa denota il sintagma, introdotto ancora da Heidegger nelle sue lezioni sul
Parmenide platonico, che suona in riferimento alla polarità della πόλις, «welche Wendung und
Bewandtnis es mit dem Seienden hat» 3 ?

1 M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, cit.; poi in GA, cit., Abt. I, Bd. 2, 1977; trad. it Essere e Tempo, cit., pp. 112-113.
2 Di innegabile significato, anche per le nostre ricerche orientate sulla esposizione delle modalità e delle
articolazioni formali, nella traiettoria della significazione, è la considerazione che Heidegger compie alla fine
del §. 18, in merito alla possibilità di tradurre le articolazioni categoriali, ovvero i nessi relazionali scoperti,
quanto alla mondità del mondo, in espressioni funzionali, il cui ovvio interlocutore pare essere il Cassirer di
Substanz- und Funktionbegriff. ««Relazioni» e «relati» come il «per», l’«in vista di cui», il «con» di un’appagatività
[Bewandtnis], contraddicono, nel loro stesso contenuto fenomenico, ad ogni funzionalizzazione matematica.
Inoltre essi non sono qualcosa di pensato, qualcosa di posto in primo luogo dal «pensiero», ma sono rapporti
in cui si mantiene già da sempre il commercio prendente cura. Questo «sistema di relazioni», costitutivo della
mondità del mondo, vanifica così poco l’essere dell’utilizzabile intramondano che, in base alla mondità del
mondo, sorge la possibilità di scoprire questo ente nel suo «in sé sostanziale». È solo in virtù di questo
incontro con l’utilizzabile intramondano che nasce la possibilità, a partire dall’utilizzabile, di rendere
accessibile ciò che è solo una semplice-presenza. La semplice-presenza può essere determinata
matematicamente in «concetti di funzione» solo sul fondamento del suo essere soltanto semplice-presenza e
rispetto alle relative «proprietà». Ma concetti di funzione di questo genere sono ontologicamente possibili solo
rispetto a un ente il cui essere abbia il carattere della semplice sostanzialità. I concetti di funzione sono
sempre possibili solo come concetti di sostanza formalizzati». Ivi, p. 118.
3 M. HEIDEGGER, Parmenides, in GA, cit., Bd. 54, p. 132: «Was ist die πόλις? Das Wort gibt, wenn wir den alles

erhellenden Wesensblick auf das griechisch erfahrene Wesen des Seins und der Wahrheit mitbringen, die
gerade Weisung. Πόλις ist der πόλος, der Pol, der Ort, um den sich in eigentümlicher Weise alles dreht, was an
Seiendem dem Griechentum erscheint. Der Pol ist der Ort, um den sich alles Seiende wendet, so zwar, daß
im Bereich dieses Ortes sich zeigt, welche Wendung und Bewandtnis es mit dem Seienden hat». Nella
traduzione italiana di G. Gurisatti – Parmenide, cit., p. 170 – il brano suona: «Che cos’è la πόλις ? Se disponiamo
dello sguardo essenziale, che tutto chiarisce, sull’essenza dell’essere e della verità esperita nel mondo greco,
l’indicazione più esatta ci è fornita dalla parola stessa. Πόλις è il πόλος, il polo, il luogo attorno al quale ruota in
un modo caratteristico tutto ciò che appare alla grecità per quanto riguardo l’ente. Il polo è il luogo che

183
Il Pathos della Forma

Se teniamo ferma la determinazione locale, spaziale, posizionale, ed allo stesso tempo


l’irriducibilità del duale, tanto da poter comprendere anche l’applicazione di Wendung-
Bewandtnis alla nozione greca classica di πόλις, come accenno al luogo attorno a cui si mostra come
gli enti si rivolgono [Wendung] ed a quale applicazione [Bewandtnis] siano rivolti, ci viene in soccorso
un’accezione finora trascurata di Bewandtnis, quella giuridico-normativa. In quest’area
semantica, si rinviene infatti l’uso più antico di Bewandtnis, sotto tre aspetti: come
Bestimmung, determinazione, disposizione di un contratto; come Zuwendung, assegnazione,
donazione; e come Verwandschaft, parentela, consanguineità 1 .
Ora, in che modo nell’uso di Bewandtnis, cui facciamo riferimento, concorrono ancora le
accezioni di disposizione, di attribuzione, di lascito, quindi di pertinenza, appropriatezza,
Zugehörigkeit, e di congiunzione, di affinità, di reciproca appartenenza? In che modo, cioè,
questa raggiera di significati può confluire nel senso della costitutio, della στάσις? E piuttosto,
lo spostamento cui stiamo attendendo non rischia di tradire le premesse, da cui abbiamo
mosso, riducendo la determinazione formale di nuovo alla mera fissazione di una tavola di
indici, di caratteristiche, di note, di proprietà, ove la menzione alla materia ritorna nella sua
indifferente posizione ancillare?
Il significato originario di constitutio, στάσις, rivela la sua denotazione primaria di instabilità,
variazione, (som-) movimento. Tanto nel mondo greco arcaico quanto nell’Atene della
tirannide, la στάσις indica, infatti, non solo la posizione, la collocazione, l’essere stazionario,
ma anche il conflitto tra parti contrapposte della società, miranti all’egemonia, l’internal war,
la ragione scatenante della μεταβολή πολιτείων, del cambiamento di assetto istituzionale, di
costituzione 2 . Allo stesso modo, constitutio, oltre che complessione fisica o costituzione
politica, quanto al suo prevalente uso oratorio, indica, nella perifrasi causarum constitutiones,
più che semplicemente il fondamento di una causa, la determinazione della sua architettura

catalizza ogni ente, e per la precisione in modo tale che nell’ambito di questo luogo si mostra come vanno e
stanno le cose riguardo all’ente».
1 Dal Deutsches Rechtswörterbuch: «Bewandtnis: I. Bestimmung: Belegtext: na vruntlike bewantenisse unde vorstreckinge older

privilegien, Datierung: 1487 Fundstelle: Ostfriesisches Urkundenbuch (hrsg. von Ernst Friedlaender. – Emden,
Haynel); II. Zuwendung: Belegtext: dat billich na bewentniss nit sin sulde, Datierung: 1507 Fundstelle: Landtagsakten
von Jülich-Berg: 1400 - 1610 / hrsg. von Georg von Below. - Düsseldorf : Voss. (Publikationen der Gesellschaft
für Rheinische Geschichtskunde ; 11); III. Verwandschaft: Belegtext: wan ein iglicher ... es seinen kindern gibt, es sey
zu hielichsgift oder andere bewandtnus, Datierung: 1515 Fundstelle: Archiv für hessische Geschichte und Altertumskunde,
Hessisches Staatsarchiv, Darmstadt in Verbindung mit dem Historischen Verein für Hessen, Darmstadt,
Staatsarchiv».
Corrispondentemente, le accezioni di bewandt sono: «I. zugewandt, zugehörig; II. (bluts)verwandt; III. Vertreter des
Rechts».
2 H.-J. GEHRKE, La «Stasis», in S. SETTIS, (a cura di), I Greci, 2, II. Definizione, Torino, Einaudi, 1997, pp. 453-

480. Cfr. H. RYFFEL, ΜΕΤΑΒΟΛΉ ΠΟΛΙΤΕΊΩΝ. Der Wandel der Staatsverfassungen, Bern, P. Haupt,1949; H.-J.
GEHRKE, Stasis. Untersuchungen zu den inneren Kriegen in den griechischen Staaten des 5. und 4. Jahrhunderts v. Chr.,
München, Beck, 1985.

184
Il Pathos della Forma

interna, ciò di cui essa consta, pur nella pluralità dei suoi aspetti 1 . In ambedue i casi, cui ci
ha istradato la significazione giuridica di Bewandtnis, la indicazione formale, in alcuni casi
addirittura di marca grafica, convenzionale, ha luogo in ragione di una determinazione
materiale: ovvero la forma è determinata materialmente dalla sua medesima posizione. Il
luogo – la localizzazione costituzionale, quale primo modello – è l’invalicabile
determinazione materiale di questa tipologia e di questa dimensione formale. Per Bewandtnis
intendiamo, dunque, una modalità di costituzione formale, di costituzione della forma, il cui
vincolo di possibilità sia dato dalla determinazione materiale, ovvero dalla permanenza della
dualità, sancita nel damit.

§. 3. La forma dell’essere: ontologia o logologia.

3.1. Determinazione e costituzione.

Proviamo ora a riportare queste argomentazioni al tentativo di comprensione del


Formprinzip nella logica laskiana, in cui siamo impegnati. L’inclusione della forma oggettuale,
della Gegenständsform, nell’ambito logico – così come è stata operata dall’impresa
copernicana di Kant –, in altri termini, la «logicizzazione dell’oggettualità perde la sua
paradossalità tanto per la coscienza popolare quanto per quella dogmatica, non appena si
considera che è il carattere di oggettualità degli oggetti ad essere trasferito nel Logico, ma
non in modo che gli oggetti, nella loro totalità concreta [in ihrer konkreten Ganzheit], debbano
essere panlogisticamente coniati in conformità a contenuti logici. Si tratta solo di ciò che
negli oggetti, negli enti, nell’effettuale, nelle cose, negli accadimenti, connessi causalmente,
si differenzia dalla pienezza del loro cosiddetto contenuto [von der Fülle ihrer sonstigen
Inhaltlichkeit] come mero carattere, momento, epiteto, predicato, “categoria”
dell’oggettualità, dell’essere, dell’effettualità, della cosalità, della coappartenenza causale. Ciò
che va ascritto al contenuto logico si erge, nella pienezza dell’oggettuale, come un mero
momento dell’oggettualità. Il regno degli oggetti si scinde così nel momento
dell’oggettualità ed in quello che è oggettuale, nell’essere e nei contenuti essenti [ins Sein und

1 A questo riguardo il riferimento obbligato è allo scritto De ratione dicendi ad Herennium, denominato
comunemente Rethorica ad Herennium, del primo Secolo a. C., ove al paragrafo 18, del primo libro si legge:
«Causarum constitutiones alii quattuor fecerunt: noster doctor tres putavit esse, non ut de illorum quicquam
detraheret inventione, sed ut ostenderet, id, quod oportuisset simpliciter ac singulari modo docere, illos
distribuisse dupliciter et bipertito.
Constitutio est prima deprecatio defensoris cum accusatoris insimulatione coniuncta.
Constitutiones itaque, ut ante diximus, tres sunt: coniecturalis, legitima, iuridicialis».

185
Il Pathos della Forma

in seienden Inhalte], od, in breve, nell’essere e nell’essente [ins Sein und ins Seiende], nella cosalità
e nella cosa, nella necessità causale ed in ciò che è connesso causalmente. Il Logico si trova
come un mero momento su una massa alogica» 1 .
In queste righe, Lask dichiara il suo intento, quale assunzione dell’idea di una logica
trascendentale, che nell’indicazione della formalità oggettuale, dell’oggettualità, rinviene la posta
messa in gioco, il compito che essenzialmente le è assegnato. Decisive paiono essere, da un
lato la differenza tra la pienezza concreta, konkrete Füllheit, degli oggetti ed il momento
dell’oggettualità negli oggetti, e dall’altro quella tra l’oggettualità e ciò che è oggettuale, das, was
ist gegenständlich: la riuscita del suo disegno logico è aggrappata alla possibilità di rendere
pienamente conto di ambedue, in concordanza con la dualità elementare trascendentale. In
altri termini: come si relaziona il momento formale negli oggetti, ed in ciascun oggetto, con la
loro compiutezza data, effettuale? E come, nella cerchia formale della logica, la forma
dell’oggettualità si differenzia dalla determinatezza oggettuale di uno qualsiasi degli oggetti?
Il punto dirimente è ancora una volta occupato dalla definizione del concetto di forma, in
quanto forma dell’oggetto, ovvero forma di qualcosa, e del suo statuto valoriale 2 . «Se si
accenna ad una qualche determinatezza» – scrive Lask, riferendo della proposizione
fondamentale, che dovrebbe sovrintendere alla Transzendentalphilosophie – «ad esempio al
contenuto logico, allora ci si accorge che il contenuto di valore non riempie [erfüllt] il suo
senso in se stesso, non riposa in se stesso [in sich ruht], non forma per sé un «mondo», ma,
come un qualcosa che ha bisogno di aderire ad altro [Anschmiegungsbedüftiges], come un
qualcosa che chiede di essere completato [Ergänzung Heischendes], indica oltre di sé ad un
estraneo fuori-di-sé [über sich hinaufweist auf ein fremdes Außer-sich]. Non c’è Valere [Gelten], che
non sia un Valere riguardo a [betreffs], che non sia un Valere riferito a [hinsichtlich], che non sia
un valere per [ein Hingelten]; non c’è una regione di vacui contenuti di valore, che sia
sufficiente a se stessa, che sia autosussistente, che non abbia bisogno di appoggio, che non
accenni, che non sia orientata, che non sia commisurata ad alcunché fuori di sé. Questa
non-autosussistenza [Unselbstständigkeit], questa inevitabilità di essere in un altro e per un
altro, in una veneranda terminologia, si può chiamare carattere formale del Valere [den

1 E. LASK, Die Logik der Philosophie und die Ketegorienlehre, in GS, cit., II, p. 31.
2 Ivi, pp. 31-31: «In questo rintracciamento della posizione, che pertiene al contenuto logico trascendentale, la
presentazione si imbatte nella necessità di una prima decisiva revisione del concetto fondamentale, proprio di
precedenti letture della struttura della sfera del valore. In un sol colpo, vengono così corrette le precedenti
dottrine complessive della sfera del valore ed allo stesso tempo viene precisata in maniera più accorta la
attuale speciale dottrina del contenuto di valore teoretico e della svolta copernicana. Nell’introduzione
bisognerebbe considerare ancora solo il tipo della non-sensibilità, della modalità di valore, dell’intemporalità
in generale. Ora però si eleva una domanda, la più importante che si possa pensare: se quel “regno”
rappresenti effettivamente un implesso [Inbegriff] di vuoti contenuti di valore, una sola grande massa di tipo
valente ed intemporale, o se qualcosa come la consistenza della modalità intemporale del valore costituisca in
ciò solo un momento che imprime il conio alla totalità. Si tratta piuttosto della struttura, della costituzione del
“regno” obbiettivo».

186
Il Pathos della Forma

Formcharakter des Geltens]. Il contenuto di valore è mera forma vuota, che attende il
riempimento con «materiale» o «contenuto». Ogni valente è un valente-per che aspetta un
riempimento contenutistico [ein inhaltliche Erfüllung erwartendes Hingeltendes], un qualcosa che
riguarda altro e necessita di un materiale, in quanto riguardato [ein etwas anderei Betreffendes
und bedarf eines Materials als des Betroffen]. Come il carattere del valore-per del Valere si può
indicare figurativamente come «forma», così la situazione, per cui il Valere vale, e di cui ha
bisogno per il suo riempimento, si può indicare come «contenuto» o «materiale». Si scelga
per illustrare provvisoriamente questa relazione fondamentale una qualsiasi conformazione
singola del contenuto logico! L’identità è incomprensibile senza un qualcosa, senza un
contenuto, che sia identico, che sia rivestito della forma logica identità; l’identità rimanda
oltre di sé ad un qualcosa di identico. Allo stesso modo, la differenza, questa relazione
logica, questo rapporto, questo Tra logico [dieses logische Zwischen] è incomprensibile senza un
Tra-dove [ein Wozwischen], senza i lati della relazione, tra cui la relazione è. La relazione
mostra i lati ed i lati sono nella relazione. Ma che la relazione sia un esempio di una forma
logica, significa che: la forma, valendo per, mostra il contenuto, ed i contenuti sono nella
forma [Form weist hingeltend auf Inhalt hin, und Inhalte stehen in der Form]. Nella misura in cui,
secondo la tesi copernicana, anche essere, cosalità, causalità rappresentano contenuti di
valore teoretici, vale per la relazione tra essere ed essente quanto è stato prima affermato
riguardo a quella tra identità ed identici; per la relazione di cosalità e di causalità, per queste
coappartenenze, rispetto al materiale connesso cosalmente e causalmente, vale lo stesso che
per la relazione della differenza ai differenti» 1 .
Movendo proprio dalla consapevolezza delle ambiguità, cui aveva dato corso
l’introduzione del concetto di valore nella filosofia trascendentale, in ragione di
quell’iniziale vizio teoretico, nascente dalla sovrapposizione, già fatta presente, ma che ora
avrà la sua compiuta espressione, tra Gelten e Wert, Valere e valore, ed ancora di seguito, tra
Gelten e Gültigkeit, Valere e validità, Lask ritiene di dover riformulare il concetto di forma,
ovvero il principio della forma che sovrintende ogni ambito logico, su quello di Gelten, o
meglio di Hin-gelten, e viceversa quello di Gelten, su quello di forma. È da questa mutua
comparazione, che sorge la nozione di una forma logica, della forma logica dell’oggetto,
ovvero della categoria, quale hin-geltend, che vale per qualcosa, e quella di un Valere nel suo
carattere formale, cioè nella posizione della forma. Diventa decisiva pertanto la cognizione
della forma come indicazione posizionale, situazionale, come declinazione funzionale: della
forma cioè come momento di. La forma è – per utilizzare la terminologia husserliana, di cui

1 Ivi, p. 32- 33.

187
Il Pathos della Forma

spesso Lask, attento lettore, fa uso – una parte non-indipendente 1 , non è sufficiente a se
stessa, è consegnata inevitabilmente alla sua parzialità. L’intera questione della
Geltungsphilosphie – incagliata nel mancato riconoscimento lotzeano che solo la forma sia ciò che
vale 2 – viene riconsegnata al problema dell’incompletezza della forma, esprimibile in due modi
differenti, pur essendo prima facie adoperati in maniera sinonimica: come indigente di
appoggio, sorreggimento, adesione, Anschmiegungsbedüftiges, e come esigente, pretendente
riempimento, integrazione, Ergänzung Heischendes, Forderndes. Quello che appariva
icasticamente come il semplice difetto della forma, si duplica invece in due modalità, indigenza
ed esigenza, la cui comprensione rappresenta l’esame più avanzato per la conversione,
caldeggiata da Lask, della Geltungsphilosphie in Formphilosophie. Se seguiamo, infatti, le due
direzioni indicate, da un canto, dall’indigenza, dall’altro, dall’esigenza, vale a dire, verso
l’interno e verso l’esterno, o meglio, verso il basso e verso l’alto, nella scala delle
dimensioni, e dei gradi, formali, ritroviamo altrettante possibilità di rendere la condizione di
Unselbständigkeit, di mancanza, di ineffettualità, in quanto inattualità della forma. In questa
doppiezza – che come vedremo preluderà alla duplicità semantica introdotta nel concetto
di forma, a seguito del disegno trascendentale kantiano, quale oggettualità formale, ovvero
categoria, e quale forma di, forma del concetto o del giudizio, forma generale di una specie
conoscitiva – cova cioè un duplice rimando: al sostenimento, alla costituzione, ed al
riempimento, alla compiutezza. E se l’indicazione all’integrazione – comune a tutti gli
articolati teoretici, in quanto formali – ricalca il tragitto dell’essere intenzionale del
contenuto, fatto presente dalla fenomenologia husserliana, quel bisogno di appoggio, richiama
più dappresso alla concezione fregeana della forma 3 . Riempimento e saturazione

1 E. HUSSERL, Logische Untersuchungen, op. cit; in Hua, cit., Bd. XIX, pp. 226-260; trad. it. Ricerche Logiche, cit., II,
Terza Ricerca. Sulla teoria degli interi e delle parti, pp. 19 – 49.
2 E. LASK, Die Logik der Philosophie und die Ketegorienlehre, in GS, cit., II, p. 36.
3 G. FREGE, Ausführungen über Sinn und Bedeutung (1892-95), in G. FREGE, Nachgelassene Schriften, a cura di H.

Hermes, F. Kambartel, F. Kaulbach, Hamburg, Meiner, 1969, pp. 128- 136; trad. it. di E. Picardi, Osservazioni
su senso e significato, in G. FREGE, Senso, funzione e concetto, a cura di C. Penco, Roma-Bari, Laterza, 20053, pp. 75-
76: «Il concetto è qui presentato come una funzione di un argomento, il cui valore è sempre un valore di
verità. Mutuo il termine «funzione» dall’analisi e lo adopero in un significato più ampio, preservandone però
la caratteristica essenziale – estensione questa cui la storia stessa dell’analisi ci guida. Un nome di funzione
reca sempre con sé almeno un posto vuoto per l’argomento; in analisi l’argomento viene per lo più indicato
con la lettera «x» pertanto non fa parte del nome della funzione, ragion per cui è sempre possibile parlare, nel
caso della funzione, di un posto vuoto, in quanto ciò che lo riempie, a rigore, non ne fa parte. Di conseguenza
io chiamo la funzione stessa insatura o bisognosa di completamento, dal momento che il suo nome deve
essere completato con un segno per l’argomento per avere un significato in sé conchiuso. Un significato
siffatto lo chiamo «oggetto» e, nel caso presente, «valore» della funzione per l’argomento che opera il
completamento o la saturazione. […] Quel che nella funzione chiamo «insaturazione», «bisogno di
completamento» nel concetto possiamo chiamarlo «natura predicativa»». In nota, Frege, giustifica l’utilizzo dei
termini saturo ed insaturo, per analogia con il lessico chimico, facendo riferimento all’esempio rappresentato
dalla Logik di Wundt; sull’accostamento non semplicemente tra chimica e logica – già contestato nella sua
Naivität da Husserl, nei Prolegomeni ad una logica pura – ma tra scrittura, articolazione grafica nella scienza
chimica ed in quella logica, cfr. supra, cap. I, digressione sull’incompletezza della valenza. Cfr. G. FREGE, Funktion
und Begriff, Vortrag gehalten in der Sitzung vom 9. Jan, 1891 der Jenaischen Gesel. Für Medizin und

188
Il Pathos della Forma

corrispondono infatti a due aspetti differenti della vuotezza della forma: ciascuno concorre
alla definizione della forma pura dell’oggetto.
È il carattere formale dell’Hin-geltung, della valenza – quale valenza sempre di e per
qualcosa, valenza di un oggetto, di un contenuto teoretico, orientata verso, per un ambito,
ma allo stesso tempo, anche per un riconoscimento – a situarsi dunque su due piani
analitici. Cosa intende Lask, quando della forma osserva che weist hin-geltend auf Inhalt hin,
che mostra – valendo per – il contenuto, che dà sul contenuto, come l’affaccio di una
finestra weist auf die Straße hin, dà sulla strada, lascia vedere il suo corso, lascia entrare lo
stridore – soltanto – della vita che vi scorre?
«L’intreccio, la connessione [Das Ineinander, die Verklamerung] di forma e materiale, la
totalità, in cui la forma, di per sé vuota ed indigente di completamento» – scrive Lask – «si
presenta insieme al suo riempimento contenutistico, dovrebbe essere indicata come senso. Il
regno obbiettivo, dunque anche il regno della verità, […], è un regno del “senso”. Il senso
non consiste di un vuoto contenuto di valore, come prima poteva sembrare; piuttosto il
contenuto di valore [Geltungsgehalt] costituisce solo la forma del senso. Il senso si distingue
dalla mera forma, perché comprende il riempimento contenutistico, che è già preteso nella
forma, nella modalità dell’accenno [andeutungsweise bereits gefordert ist]. L’unità che comprende
gli elementi del senso tuttavia coincide [zusammenfällt] precisamente con ciò, che si trova già
nel carattere del valore-per [Hingeltungscharakter] della mera forma. Il contenuto valente, ad
esempio, lo specifico contenuto teoretico [der spezifisch theoretische Gehalt], che imprime il
conio a tutto l’essere [der dem ganzen Sein das gepräge gibt], posa del tutto ed indivisamente
nella forma del senso. Il materiale, in quanto ciò a cui si riferisce il contenuto del valore-per
[das durch den Hingeltungsgehalt Betroffene], viene solo per così dire trascinato dietro
[mitgeschleppt]. Solo la forma, non però l’intera compagine di senso, può considerarsi cioè
come un ché di conforme al valore. Certo, il materiale riguardato [das betroffene Material] – ad
esempio nelle verità riguardo al materiale sensibile-intuitivo, cioè laddove il materiale sta lì
avvolto dalla convalidazione della forma teoretica – può essere qualcosa di non valente. Il
senso come totalità non è un ché di valevole-intemporale né un ché di non-valevole-
temporale, ma sempre la connessione di ambedue; un essente-sensibile-temporale
riguardato [betroffen] da una forma intemporale, un contenuto di valore insieme [mitsamt] a
ciò riguardo a cui vale. Si chiudono, così, per sempre i conti con il regno della
1
intemporalità non fratturata, né articolata» .

Naturwissenschaft, Jena, 1891, poi in G. FREGE, Kleine Schriften, a cura di I. Angelelli, Darmstadt, 1967, pp.
125-142; trad. it. di E. Picardi, Funzione e concetto, in G. FREGE, Senso, funzione e concetto, cit., pp. 3-27.
1 E. LASK, Die Logik der Philosophie und die Ketegorienlehre, in GS, cit., II, p. 34.

189
Il Pathos della Forma

Ciò di cui, qui, si fa questione, corrisponde a quanto è stato già indicato come realtà
dell’irreale, realtà dell’oggettualità in effettuale, ovvero la compiutezza, l’unità del senso, la
pienezza in quanto riempimento, occorso in virtù del riferimento al momento della materiale
Füllheit. L’essere-riguardato, il Betroffen-sein, che consente l’accostamento, il mitsamt, è
proprio non della materialità, sic et sempliciter, come in una scolastica versione
dell’Abbildungstheorie, della teoria dell’adeguazione raffigurativa, in cui l’impregiudicata
esibizione dell’esteriorità funge da modello alla sua rappresentazione, in cui la datità
metalogica sorregga metafisicamente – ovvero, in quest’occorrenza, secondo il lessico
laskiano, dogmaticamente – la Wahrheit über, la verità a riguardo. Esso è piuttosto proprio di
quello che possiamo indicare come plena, la forma materiale della datità, il suo essere
costituito quale contenuto, la sua Inhaltlichkeit, che suona, in una versione forse sgradevole,
ma rigorosa, come contenutezza 1 . Vieppiù, la specificazione compiuta della relazione forma-
materiale, nella sua applicazione ad un primo abbozzo della dottrina della verità, è capace di
scongiurare una ripetizione di quella medesima bilateralità – nella forma, però, di oggetto,

1
Per rendere conto, seppur provvisoriamente, della relazione del riguardo, e dunque della posizione propria
del materiale rispetto a quella della forma, Lask utilizza, qui, come nelle Platos-Vorlesungen, l’esempio
husserliano del blu in specie, quale unità ideale di significato. Ivi, p. 35: «Secondo la precedente formulazione
della teoria delle due sfere, potrebbe sembrare che vi sia da un lato una regione di contenuti di valore del tutto
atemporali, come se vi fossero formazioni fatte completamente e senza distinzione della stoffa
dell’intemporalità, come ad esempio le verità atemporali. Ora diventa evidente che nelle cosiddette verità
atemporali solo la forma abbia modalità di valore atemporale. Le verità in quanto totalità non sono affatto
atemporali, ma un ché di atemporale riferito ad un non-atemporale, che ne è riguardato. Nel regno della
verità, cioè del senso teoretico, ha una sua collocazione anche ciò che non è conforme al valore, l’essente-
sensibile, in quanto materiale, in quanto riguardato, che in esso rimane intatto. Di ciò ci si convince
facilmente. Infatti se le verità, che il verde si distingue dal giallo ed il dolce dall’aspro, che a è la causa di b e c
la causa di d, dovessero essere più verità, non lo potrebbero essere per le comuni categorie di differenza e di
causalità, ma solo in ragione del materiale sensibile che varia. Questo dipende dalla determinatezza delle
singole “verità atemporali”, cioè fonda una differenziazione del senso. Il senso di una proposizione è distinto
da quello di un’altra, nonostante la medesimezza della categoria. Ora ci si rende conto, che è solo lo splendore
della forma che avvolge di valore, a gettare luce sull’intera singola compagine di senso ed a renderla quella
conformazione della “verità intemporale”. In questa compagine di senso, coniata dalla forma, deve essere
portato in salvo ciò che prima è stato assunto riguardo all’essenza dell’intemporalità. Solo adesso si chiarisce il
senso di tutte le espressioni utilizzate nel corso dell’introduzione, cioè che le verità su qualcosa di blu, di
spaziale, di temporale, di sensibile non sono verità blu né spaziali né temporali né sensibili. In precedenza,
poteva ancora sembrare che il blu sensibile si rispecchiasse nel regno della verità, fatto di vuota intemporalità,
nell’immagine trasfigurata di un blu ideale, o ancora di un ideale unità di significato blu, che fosse come un
elemento di tipo valente intemporale, come un blu, che significava blu intemporale, incluso in una compagine
complessa di pura intemporalità. In quelle formulazioni si seguiva ancora un’idealizzazione del contenuto
sensibile in una consistenza intemporale - originariamente figurativa, che rimandava alla dottrina platonica
delle idee, e che si trova esemplarmente nella riflessione contemporanea in Lotze ed in Husserl. Bisogna
infatti dire in primo luogo che Lotze ha elaborato in maniera chiara il Valere, ma non ha riconosciuto, che è
solo la forma, che vale: mentre il sensibile-alogico non può valere né “significare” qualcosa, ma può solo
trovarsi nella forma valente, nella sfera logica, può solo essere riguardato dalla forma categoriale; solo così
l’aureola della significatività intemporale sembra aleggiare sull’intero contenuto. Che il blu sia incluso nel
regno della verità non significa altro che: il blu sensibile-non-valente ed alogico, restando come esso è, viene
solo avvolto, convalidato dalla forma di verità categoriale, che vale intemporalmente. Le verità su qualcosa di
spaziale, di temporale, di sensibile sono valori di verità [Wahrheitsgelten] senza tempo né spazio, non sensibili,
formali, che si riferiscono a qualcosa di spaziale, temporale, sensibile, in quanto materiale riguardato. Nella
forma teoretica si insinua soltanto l’intemporalità e la non-sensibilità dell’intero ambito di verità. Questo è ciò
che viene misconosciuto da ogni razionalismo: che il materiale alogico può trovarsi nel logico, ma senza
diventare così un ché di logico».

190
Il Pathos della Forma

da un lato, e verità sull’oggetto, dall’altro, ovvero di ordo et connexio rerum, quale Inbegriff degli
oggetti riempiti spazio-temporalmente, e di ordo et connexio veritatum, quale Inbegriff di verità
senza tempo né spazio – nel seno stesso della filosofia trascendentale 1 . Introducendo,
infatti, nell’ambito delle logischen Gegenständlichkeiten, l’articolazione in forma e materiale, si
dispone una ulteriore modalità differenziale: «l’oggettualità formaliter spectata, l’oggettualità
negli oggetti, - sostiene dunque Lask – coincide con la forma categoriale della verità, con
l’insieme degli oggetti, l’oggettualità materialiter spectata, invece, coincide con l’insieme del
senso teoretico. L’oggettualità è identica alla forma categoriale della verità, gli oggetti sono
identici al senso teoretico. Gli oggetti essenti non sono vuoti contenuti logici, ma sono
materiale alogico, racchiuso dal contenuto logico di valore. Oggetti spazio-temporali, cioè:
oggettualità spazio-temporale riferita a qualcosa di spazio-temporale. Come l’oggettualità
degli oggetti spaziali e temporali è contenuto di verità, senza spazio né tempo, così gli
oggetti spaziali e temporali, senza spazio né tempo, sono materiale alogico “spaziale” e
“temporale”, riguardato dal contenuto di verità formale, o detto altrimenti: i singoli oggetti
sono singole compagini di senso teoretico [einzelne theoretische Sinngefuge], singole “verità”.
Dunque le verità, come singolarità di senso teoretico abbracciano, oltre ai contenuti di
valore intemporali, anche il materiale riguardato non-valente. Si può cioè affermare con
sicurezza: oggetti spazio-temporali sono verità, oggetti fisici sono verità fisicaliste, quelli
siderali sono verità astronomiche, quelli psichici sono verità psicologiche, etc. Cioè verità,
singolarità di senso, e non conoscenze, giudizi, o proposizioni; ed ancora, verità nella sfera
non artificiata [in der ungekünstelten Sphäre], e non in quello stato [Zustand] isolabile dalle

1
È utile riportare alcune righe della Logik a questo riguardo, che figureranno poi come alcune tra quelle con
più durezza corrette da Lask, nelle Bemerkungen, custodite nel Nachlaß. «In modo molto netto» – scrive Lask,
ivi, p. 41 – «questa distinzione di oggetto e verità, di oggetto e “senso”, di oggetto e “significato” è stata
sostenuta in epoca moderna da Bolzano e da Husserl. Si faccia ora attenzione, che qui l’oggettualità e la forma
di verità, gli oggetti e le verità sono resi reciprocamente autonomi, mentre invero i due ambiti degli oggetti e
delle verità, a riguardo, si serrano in un unico ambito oggettuale, identico all’insieme della verità, così che la
presunta ombra della verità cade negli oggetti stessi, che rifiutano come supposta quest’ombra». In margine,
tuttavia, Lask – dando segno di un ripensamento continuo proprio circa il concetto di forma, anche avendo
dinanzi l’ordito della Lehre vom Urteil – appunterà: « Questo è del tutto scorretto! Non ho affatto considerato
in maniera appropriata la distanza, che sussiste di fatto [tatsächlich] tra oggetto e regno immanente della verità
valente. […] Al contrario, nella dottrina del giudizio legittimo la relazione-a-riguardo [das Über-Verhältnis]».
Tuttavia tornando, qualche riga più avanti sul medesimo argomento, Lask avrà a scrivere – ivi, pp. 41-42 –:
«La presunta dualità dei due regni, dell’oggetto e della verità in merito, si rivela come una duplicazione
doppiamente scorretta. Da un lato cioè il contenuto categoriale si ripete sul lato opposto, ovvero nell’ambito
dell’oggetto, in quanto oggettualità metalogica, metacategoriale, nei confronti della quale la verità si trova in
una relazione, data dalla rifiguratività e dall’adombramento [Abbildlichkeit und Schattenhaftigkeit]. Dall’altro il
materiale alogico si ribalta, come un’immagine trasfigurata [in verklärter Gestalt], nell’ombroso ambito della
verità [Schattenreiche der Wahrheit], laddove tutto dovrebbe essere un unico puro concetto intemporale di valore.
Al posto della dualità dell’elemento logico forma e dell’elemento alogico materiale, costituenti ambedue
l’unico regno del senso teoretico, lì domina la dualità che pone da un lato un regno completamente
metalogico, ove anche il Logico compare con una maschera metalogica, e dall’altro un regno puramente
logico, ove anche l’Alogico si trova nei cieli dei significati valenti in modo intemporale».

191
Il Pathos della Forma

proposizioni scientifiche!» 1 . Sin intenda, dunque, l’uso – sottolineato dal corsivo – che Lask
compie del sein: sia nell’espressione riguardante l’oggettualità degli oggetti effettuali, situati, o
riempiti spazio-temporalmente, la cui apprensione cioè si svolge nello spazio e nel tempo, sia
in quella riguardante, invece, gli oggetti spaziali e temporali nei contenuti formali teoretici,
riguardati quale materiale, medesima e ripetuta è l’occorrenza del verbo. In altri termini:
nella compagine di ciascun contenuto di senso, l’oggettualità è la forma che mostra la
materialità gli oggetti, ove però la materialità non coincide affatto con la dimensione
sensibile della materia. L’oggettualità è Geltungsgehalt, è contenuto di valore, cioè mostra che
qualcosa è oggetto, l’essere oggettuale di qualcosa; ciascun qualcosa è l’Inhalt 2 , il contenuto della
compagine teoretica, ciò a cui l’oggettualità si rivolge, ciò che essa investe. Tuttavia, il qualcosa
oggettuale, il contenuto – qualcosa è oggetto – non coincide affatto con il riferimento, né il
riferimento corrisponde alla Seinsmasse, alla massa dell’essere, alla massa materiale che è, si
compie effettualmente.

3.2. Oggettualità o Essere dell’ente

Perché si comprenda la forma dell’oggetto, la dimensione propria della forma, come forma di
qualcosa, come forma oggettuale, è necessario rendere nella sua completezza a) l’ingente
questione teoretica, che riguarda la posizione del materiale, la Materialsstellung, ovvero, bisogna
sciogliere b) l’equivoco covante negli usi del termine essente, Seiende, nei molteplici modo di
dire che qualcosa è. Nella convinzione che questo rappresenti una chiave di volta nella
comprensione laskiana dell’assunto copernicano, cioè della sua trascrizione nella dottrina
trascendentale dei due elementi, il percorso che stiamo intraprendendo lega insieme le due
considerazioni preliminari, cui Lask da luogo in riferimento alla domanda sulla
Formbedeutung, così come vengono esposte rispettivamente nella Logik e nella sua, appena
più tarda, riscrittura, il System der Logik: ambedue si presentano come la soluzione di una
1 Ivi, pp. 40-41.
2 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, cit., III, p. 146: « La dualità di forma e materiale è, per il concetto più
generale di verità, tanto essenziale quanto esauriente.
Avere davanti a sé un Qualcosa, nel modo conforme alla conoscenza, significa, per quanto detto prima:
avere davanti a sé qualcosa come materiale categoriale o come «contenuto» [Inhalt]. Vogliamo indicare il
Qualcosa, riguardato logicamente, il materiale categoriale, il materiale della verità, quindi il materiale, in
ambito teoretico, come «contenuto» [Inhalt]. Essendo estremamente difficile trovare una locuzione linguistica
per ciò che non è riguardato logicamente, si cerca sempre di utilizzare il termine apparentemente innocuo di
«contenuto» [Inhalt] e ad esempio si parla di contenuti non-ancora-riguardati logicamente. Chi parla così,
tuttavia, da parte sua, ha fatto di ciò che non è riguardato logicamente un che di riguardato logicamente,
comunque mediante un conoscere teoretico-conoscitivo. Poiché il contenuto [Inhalt] ha senso solo in
opposizione alla Forma, accenna già alla posizione materiale di-contro al Valere formale. Vogliamo indicare
ciò che non è riguardato logicamente, in opposizione al divenire-contenuto, semplicemente come «Qualcosa».
Che il carattere contenutistico si imponga così facilmente, che noi siamo inclini a presentarci, senza
distinzione, ogni Qualcosa in generale come «contenuto», dipende dalle particolarità, ancora qui sconosciute,
del Valere teoretico. Perciò è tuttavia anche giusto indicare il Materiale teoretico come «contenuto»».

192
Il Pathos della Forma

Doppeldeutigkeit, una volta di Seiende, l’altra di Material, ambedue riferiscono cioè della
posizione di contro, della Gegenüber-stellung rispetto all’indicazione formale. Quanto si farà
innanzi sarà dunque, d’ora innanzi, sarà la ripresa del problema trascendentale – incontrato
nella sua prima formulazione nel Fichtesbuch, sottoposto a verifica, poi, nella lettura
dell’Allgemeine Ästhetik di Cohn –, l’ulteriore esposizione delle domande che gravano sulla
determinazione trascendentale della nozione di forma oggettuale: ossia, come è a) ciò che sta di
contro, il Gegenstand, b) come è ciò che non occupa la posizione formale, il Material, od
ancora c) come è ciò che è, il Seiende. Tre modalità iletiche di cui comprendere la forma.
«La linea di confine tra non-valente e valente» – scrive Lask, in riferimento alla resa
copernicana della dualità originaria all’interno di tutto il pensabile – «passa attraverso l’ambito
dell’essere. E proprio gli specifici epiteti o predicati, che danno nome all’intero ambito
dell’essere, l’essere, la cosalità, etc. esorbitano, come momenti logici, dalla sfera del non-
valente. Proprio i costituenti della sfera dell’essere sono quelli che devono essere posti dal
lato del non-essente. Non casualmente nella precedente presentazione questi “epiteti” o
“predicati”, che ora appaiono come “categorie”, spiccavano come qualcosa di particolare.
Sono infatti di una specie diversa da quella dell’intera restante massa dell’essere.
Si deve ora formulare con più precisione: non l’ambito dell’essere, ma solo l’essente, cioè ciò
che si trova nella categoria «essere», senza però questa sua forma categoriale, non
l’effettualità, ma l’effettuale, cioè ciò che – riguardato dalla forma categoriale – solo
l’effettualità concede [ergibt], rappresenta uno dei due emisferi, quello del non-valente.
Nell’ambito dell’essere tutto è essente, ma il contenuto dell’essere è un valente. L’essere
dell’essente appartiene già al valente, cioè al non-essente, la effettualità dell’effettuale
appartiene già al non-effettuale. L’essere è valente e solo il materiale è non-valente, e di
questo parla la forma categoriale «essere», che vale-per. Questo è materiale categoriale. Ma
questo suo «essere» vale. Quel materiale si può chiamare «essente» solo in riferimento al
fatto che esso si trova nella categoria «essere». Perciò è del tutto equivoco parlare di
essente. Infatti si può così intendere o l’intero ambito dell’essere, cioè la massa
contenutistica, che si trova nella forma categoriale «essere», insieme alla forma stessa
dell’essere, oppure il mero Qualcosa, riguardabile [betreffbare] dalla categoria essere. Solo in
quest’ultima accezione, di mero materiale d’essere, l’essente si contrappone al valente. Si
può pertanto continuare tranquillamente indicando il non-valente non più come ambito
dell’essere, ma solo come essente. Si deve solo chiarire che con questa espressione non si
rimane nel mero non-valente, ma già fuori da ciò che il non-valente è, pensando al ruolo,
che esso gioca nello spazio del senso teoretico. Esso si caratterizza per la situazione in cui si
trova di contro alla forma categoriale. Nella seguente presentazione, l’«essente» si intende

193
Il Pathos della Forma

sempre nell’accezione di materiale dell’essere. Bisogna pertanto distinguere tra l’essente o


materiale dell’essere, tra l’essere dell’essente o categoria dell’essere e l’ambito dell’essere od
il senso, che è composto da materiale e categoria; cioè tra l’effettuale, il carattere categoriale
dell’effettualità e l’effettualità. Questa triplicità potrebbe essere suddivisa anche in
oggettuale o materiale oggettuale, oggettualità o forma oggettuale ed ambito oggettuale,
insieme degli oggetti o senso oggettuale» 1 .
Seguendo le indicazioni laskiane, dunque, possiamo chiarificare l’ambiguità covante in
Sein/Seiende, seguendo una scomposizione, che di primo acchito pare corrispondere a quella
in 1) Seinsmaterial, materiale dell’essere, ovvero ciascun qualcosa che possa essere riguardato,
che possa figurare come riferimento della forma categoriale Sein, essere, od ancora, ciascun
qualcosa di cui si possa dire che sia; 2) in Sein des Seiende, essere dell’essente, vale a dire, la
forma essere che può riferirsi a ciascun essente, l’è, in ciascuna occorrenza si esprima che
qualcosa sia; 3) ed in Seinsgebiet, ambito in cui vale che ciascuno dei suoi elementi sia, ovvero
l’Inbegriff, l’implesso di tutti gli essenti che sono, in quanto sono; espresso altrimenti, l’insieme
infinito in cui le complessioni forma-materiale, i contenuti teoretici, recanti la
determinazione di qualcosa che è, solo hanno senso. Mentre tuttavia nella designazione di
Material o di Gegenstand ci troviamo alle prese con posizioni funzionali, che evidenziano cioè
il proprio significato in virtù della propria collocazione o funzione, o meglio in virtù
dell’isolamento di una parte della funzione , di cui da sempre fanno parte – ancora con più
chiarezza: la liceità di indicare qualcosa come materiale od oggetto, deriva dall’internità, anche
se taciuta, anche se obliata, di questo ad una relazione in cui già compare all’altro capo la
forma di valore – al contrario la Doppeldeutigkeit, che cova nel plesso Sein/seiende, deriva
dall’introduzione della polarità correlativa al suo proprio interno. Quando, cioè, si definisce
un ché di materiale, si assume da subito la sua inclusione in una dualità, che compare come
la ragione medesima della definizione: se un materiale non partecipasse già ad una relazione
forma-materiale – alla relazione cioè in cui si esprime un contenuto teoretico di valore –
non potrebbe dirsi materiale. Se invece si dice di qualcosa che è, in primo luogo si riguarda
questo qualcosa, poi si esprime che è, quindi si assume che per questo valga l’essere, che ha
senso dire che sia, infine che il suo essere non è, che il suo essere un essente non è, ma
soltanto vale, e, valendo-per, mostra, ergibt, concede che l’essente sia: dà l’essente.
Ma lasciamo parlare ancora Lask: «L’Essere nella filosofia – e questo noi ora mostreremo
di nuovo – non viene fondato [begründet] su o «ricondotto» a qualcosa d’altro, come ad
esempio al Valere, alla Norma etc. ma questo viene solo riconosciuto [erkannt] in quanto
valente. Cioè, si riconosce che dell’Essere bisogna predicare la categoria, da esso distinta,

1 E. LASK, Die Logik der Philosophie und die Ketegorienlehre, in GS, cit., II, pp. 46-47.

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Il Pathos della Forma

del Valere. Diversamente dal dogmatismo, tuttavia, la visione copernicana consiste nel
rimuovere il dogma del carattere ateoretico, della metalogicità dell’Essere, nell’intendere
[durchschaut] l’Essere come contenuto logico. L’Essere viene lasciato stare, senza che
qualcosa altro venga messo al suo posto; semplicemente si supera l’equivoco [Verkappung]
metafisico, vale a dire si riconosce l’Essere, che rimane Essere e che non dipende da
null’altro, in quanto Valente, coincide con la forma logica, nuda logicamente, e si trova nel
Valere.
Se si pone a fondamento la divisione della sfera del valere in categoria e materiale
categoriale, allora e solo allora si può compiere l’identificazione copernicana con buona
coscienza, senza rendersi colpevoli della confusione tra oggetto dell’essere ed oggetto del
valere, specialmente con l’oggetto della valenza logica, dell’ontico con il logico,
dell’ontologico con il logologico. Non viene così intaccata la frattura tra ambito dell’essere
ed ambito del valere, tra essente e valente, tra essere e valere, piuttosto viene fissata e difesa
in questo modo. L’Essere è semplicemente identificato ad un valente, dunque la forma
dell’oggetto, che è, con un materiale dell’oggetto, che vale, cioè in nessun modo l’Essere
con il Valere, ma con un qualcosa, ciò che qui vale, con ciò che si addice [zukommt] al
Valere. Ciò che è, non vale, l’essente non è il valente, l’Essere non è il Valere e l’ambito
degli oggetti, che sono, non è l’ambito degli oggetti, che valgono. Dunque si addice a ciò,
che è, l’Essere come predicato categoriale e cioè un qualcosa, cui è appropriato, dal suo
lato, il Valere come predicato categoriale» 1 .
Qui si giunge ad un punto dirimente nella posizione laskiana della domanda sulla forma
dell’oggetto, dunque sull’oggettualità. L’oggettualità è stata definita limpidamente come un
ché di valente, come una valenza, come appunto una forma categoriale costitutiva; per
oggettualità si intende tutto ciò che determina, in quanto materiale, una forma categoriale,
dunque sia l’oggetto, che è, sia quello, che vale. L’oggettualità dell’oggetto, che vale, è il
Valere, l’oggettualità dell’oggetto, che è, è l’Essere; la forma che mostra il valente è il Valere,
quella che mostra l’essente è l’Essere. Dunque, come si definisce la questione della forma
dell’oggetto essente, o meglio la questione della forma che ergibt concede, che l’essente ci
sia, es gibt? Come si definisce la questione dell’Essere dell’essente? Ma poiché la premessa

1 Ivi, pp. 121-122. Sulla nozione della priorità del Valere sull’Essere, cfr. ivi, p. 119; inoltre, cfr. H. RICKERT,
Der Gegenstand der Erkenntnis, cit., pp. 116-122; pp. 166-189. Si veda ancora la lettera di Lask a Rickert – del
27.XI.1910 – contenuta nel Nachlaß, Heid.Hs 3820, riportata in GS, cit., II, pp. 272-275. Cfr. H.
SOMMEHÄUSER, Emil Lask in der Auseinandersetzung mit Heinrich Rickert, Berlin, Ernst-Reuter-Gesellschaft,
1965; K. HOBE, Zwischen Rickert und Heidegger. Versuch über eine Perspektiven des Denkens von Emil Lask, in
«Philosophisches Jahrbuch», Bd. 78, 1971, pp. 360-376; A. O. PUGLIESE, La logica de E.Lask como transicion entre
le teoria del juicio en H.Rickert y el concepto de verdad en M.Heidegger, in «Cuadernos de Filosofia», Buenos Aires, vol.
11, 1971, pp.105-136; A. GIUGLIANO, Nietzsche, Rickert, Heidegger ed altre allegorie filosofiche, Liguori, Napoli,
1999, in part. pp. 173-208; A. DONISE, Il soggetto e l'evidenza. Saggio su Heinrich Rickert, Loffredo, Napoli, 2002.

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Il Pathos della Forma

metodica di questo discorso è la Kopernikanische Tat, la dizione completa della domanda


sarebbe: come si definisce, secondo Lask, la questione dell’Essere, dopo Kant? Come si
definisce la questione dell’Essere, se coincide con una questione circa un non-essente, come
valente, e non come un oltre-essente, über-seiende, come generalità metafisica di un oltre-
essente? Ora, assunto che ciò che pertiene al valente, a ciò che vale, si definisce logico, e ciò
che pertiene all’essente, a ciò che è, ontico, l’Essere dell’ente, in quanto valente e non essente
dovrebbe riguardare il logico, e non l’ontico. In parallelo, lo studio della forma del Valere,
che è sì valente, ma differisce dal valente, come la forma categoriale differisce dal suo
materiale, non è a sua volta logico, ma logologico. Esso appartiene cioè alla logica della logica,
ovvero alla logica della filosofia 1 , che è certo considerazione dei modi in cui il Valere vale –
delle sue modificazioni in valente, valore, validità – ma solo in quanto determinazione della
differenza fondamentale tra Essere e Valere, tra la forma dell’Essere e quella del Valere. La
logologia è lo studio della differenza formale tra Essere e Valere, è lo studio del Valere di
Essere e Valere; in essa ricade sia la differenziazione formale Valere sia la differenziazione formale
Essere. In questo senso, dunque la Frage nach dem Sein des Seiende, la questione circa l’Essere
dell’ente può essere definita ontologica, poiché è già parte della Logica della logica. Può essere
definita ontologica solo se viene assunta in un’accezione formalmente logica: la domanda
sull’Essere dell’ente, per Lask, è ontologia in quanto ontologia formale, teoria dell’oggettualità
dell’oggetto, che è. Ma come è possibile cogliere, erfassen, afferrare la forma dell’essente, il
semplice stare del materiale nella forma categoriale, se la conoscenza che qui si conduce non
può non essere un Erleben? Come è possibile mettere in scena, aus-statten – nell’esperienza

1 Alla medesima individuazione del titolo Logik der Philosophie, in quanto compimento del disegno
trascendentale di una logica quale logica delle categorie, è legata la lettura laskiana di Croce. Riflettendo infatti
sull’allargamento del dominio categoriale, in margine al suo historische Abriß, Lask ricorda come nel crociano
Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel – citato nella traduzione di K. Büchler, Lebendiges und Totes in
Hegels Philosophie, mit einer Hegel-Bibliographie, edita ad Heidelberg già nel 1909 – si scorga l’assunto di una logica
della filosofia come centrale nella speculazione hegeliana. «Croce – scrive Lask – in Logik der Philosophie, in GS,
cit., II, p. 267, n. 246 – appartiene a quei pochi tra i contemporanei, che postulano espressamente la critica
delle conoscenza filosofica come compito della logica». Nonostante le evidenti differenze concettuali, risalenti
all’utilizzo crociano del sintagma logica della filosofia nell’accezione di logica applicata alla disciplina filosofica – a
differenza di una logica della matematica, delle scienze naturali o della storia – vale a dire sempre nella forma di
Logik der, che nel disegno laskiano ha una valenza secondaria, appunto di angewandete Logik, di logica applicata,
come già i casi di Cohn – Logik des Sollen, Logik der Ideen – o di Natorp – Logik des Handelns – avevano
illustrato, Lask intende mostrare come la resa deiconti con la tradizione dell’Idealismo tedesco passi
inevitabilmente per una ridefinizione del dominio categoriale, dunque per la ricomposizione – anche sulla
sponda hegeliana della vicenda – di una logica della filosofia. Cfr. R. FRANCHINI, La logica della filosofia, Napoli,
Giannini, 1967; ID., Die Logik der Philosophie bei Hegel, Croce, Lask und Weil, in D. HENRICH, R.-P. HORSTMANN
(a cura di), Hegels Logik der Philosophie. Religion und Philosophie in der Theorie des absoluten Geistes, Stuttgart, Klett-
Cotta, 1984, pp. 106-123; ID., La logica della filosofia in Hegel, Croce, Lask e Weil, in «Atti dell’Accademia di
Scienze morali e politiche di Napoli», pp. 127-142. In merito al confronto Croce-Lask riguardo alla
dimensione della logica della filosofia – nel tentativo analitico di individuarne distanze e prossimità – si veda
l’appendice a C. TUOZZOLO, Emil Lask e la logica della storia, Milano, Franco Angeli, 2002, Logica della storia e
logica della filosofia: problematiche neokantiane nel primo Croce, pp. 157-195.

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Il Pathos della Forma

vissuta – il nudo logicamente corredato dai predicati categoriali se non attraverso la fantasia eidetica 1 ?
Non è proprio nella eidetische Phantasie che possono raggiungere la loro più compiuta
espressione le riflessioni laskiane su bilden e Form? Non è l’intera filosofia laskiana un
faticoso cammino intrapreso per scorgere quale sia la stoffa della fantasia eidetica?
Perché si possa tentare una risposta a queste interrogazioni, perché si possa considerare la
coerenza del disegno che Lask fa dell’ontologia, come ontologia formale, è necessario
rivolgersi più serratamene alla dottrina della differenziazione materiale di significato, a
quella sezione cioè in cui si mette alla prova la modalità medesima del riferimento, in
quanto determinazione. A quella dottrina in cui si analizza il modo in cui il materiale
categoriale determina la forma categoriale, nel suo significato, e la forma categoriale mostra il
materiale significato, nella sua dimensione, Umfang, il modo in cui il Valere è determinato
dal valente, mostrandolo, come l’Essere è determinato dall’ente, mostrandolo.

3.3. Determinazione e differenziazione materiale del significato.

Affrontando la questione della Materialstellung, in quanto dimensione dell’estensione,


Umfang, della forma ad essa riferita, Lask mette in chiaro che «il materiale è una parola per
lo stare di un qualcosa nella Forma, che lo riveste [in umkleidender Form], per l’essere-posto
[Hineingestelltsein] nella compagine Forma-Materiale. Non c’è un particolare significato di
Materiale, che balena su questo Qualcosa. Piuttosto, ciò che nell’espressione «Materiale»
richiama un significato logico e si aggiunge al mero Qualcosa, non attinto logicamente [zum
bloßen logisch unbetroffenen Etwas hinzutritt], non è separato da quanto si insinua nella Forma,
che, cingendolo, vale per questo Qualcosa. La posizione del Materiale, cioè quello che si
estende [Umfangende] nella Forma, viene espresso, può essere indicato, se considerato solo
dall’altro lato, in modo passivo, come essere esteso [Umfaßtwerden]. La medesima cosa, che
viene indicata a partire dalla Forma come circoscrivere l’estensione [Umfangen], appare,
considerata a partire dal Qualcosa, attinto logicamente, come un essere esteso

1 Cfr. E. LASK, Lehre vom Urteil, in GS, cit., II, pp. 334-sgg., pp. 396-sgg. Cfr. E. HUSSERL, Ideen, I, in Hua, cit.,
Bd. III, 1, cit., pp. 13-sgg.; Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, I, cit., pp. 19-sgg.; ID.,
Phantasie und Bildbewußtsein, Texte aus dem Nachlass (1898-1925), hrsg. von E. Marbach, in Hua, cit., XXIII,
pp. 111-171; ID., Zur Phänomenologie des Inneren Zeitsbewußtseins (1893-1917), hrsg. von R. Boehm, H.G.W., Bd.
X, 1969, pp. 73-98; trad. it. di A. Marini, Per una fenomenologia della coscienza interna del tempo, Milano, 1998, pp.
100-121. Cfr. inoltre S. G. CROWELL, Emil Lask: Aletheiology as Ontology, in «Kant-Studien», 82, de Gruyter, pp.
69-88; D. LOHMAR, Erfahrung und kategoriales Denken. Hume, Kant und Husserl über vorprädikative Erfahrung und
prädikative Erkenntnis, Dordrecht/Boston/London, Kluver, 1998; H. HOLZHEY, Neokantismo e fenomenologia: il
problema dell’intuizione, in BESOLI, S., FERRARI, M., GUIDETTI, L., Neokantismo e fenomenologia, cit., pp. 9- 23; R.
LAZZARI, Emil Lask e le «Ricerche Logiche» di Husserl, ivi, pp. 187-204.

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Il Pathos della Forma

[Umfangtwerden]. «Materiale», significa ciò che non è riguardato logicamente, insieme ad una
traccia del riguardo ad esso, che muove dal Valere» 1 .
La posizione materiale, quindi, può essere intesa, alla stregua di quella formale, quale
definizione di una figura geometrica. In cosa consiste infatti la costituzione di un cerchio,
se non nella circoscrizione, nella delimitazione di una porzione di spazio, in ragione di una
linea perimetrale chiusa, nell’esempio proposto, la circonferenza? E quale è la dimensione
del medesimo cerchio, se non quella ricavabile dalla misurazione – e dalle distinte modalità
di misurazione – dell’area compresa nella circonferenza, inclusa la circonferenza stessa? La
figura – che nell’argomentazione laskiana coincide con il contenuto di senso, ovvero con la
proposizione che qualcosa sia – è complessione, Zusammensetzung, di forma e materia,
risalendo al significato compiuto di Umfang, analiticamente scisso in Umfangende ed
Umfangtwerden.
Se tuttavia in questo modo si riesce, quanto all’ambito logico, a rendere conto della
dimensione estesa dell’oggettualità formale, dell’unità ideale «oggetto», si può cioè intendere
l’estensione del concetto di oggetto, manca ancora l’indicazione del suo riferimento, od
intensione, Inhalt. Detto altrimenti, possiamo certo discernere l’ampiezza del Geltungsgehalt,
del contenuto di valore, la sua sfera di significazione, quale è l’ambito in cui può applicare la
sua valenza; ma rimane ancora sospesa la domanda su ciò a cui si rivolge, sulla modalità di
ciò a cui si rivolge. L’oggettualità, in quanto Sinnbereich, ambito di senso, è una dimensione
categoriale unitaria, scomponibile a sua volta in una forma categoriale – la forma
dell’oggettualità, l’essere-oggettuale – ed in un materiale categoriale – la materia
dell’oggettualità, l’essente-oggetto: la prima accenna alla valenza di qualcosa, il secondo a
qualcosa che vale, in quanto essente. Ma cosa ha dinanzi a sé l’indicazione formale della
categoria? E, soprattutto, come può presentarselo?
«In primo luogo» – scrive Lask nella Lehre vom Urteil, affrontando la questione che
abbiamo appena sollevato – «bisogna mettere in guardia dall’errore di tradurre, come è
sembrato fino ad ora, categoria e materiale categoriale nei membri di una relazione,
sussistente tra di loro, cioè nelle parti costitutive di un’unità strutturale che li abbraccia.
Certo, qui si fa presente una connessione [Bezogenheit], una unione di elementi differenti,
una compagine strutturale in generale. Tuttavia questi elementi non possono essere
denominati categoria e materiale categoriale. Si deve considerare che la “forma” categoriale
esprime già un indicare [Hinweisen] e che il materiale esprime già un essere riguardato
[Betroffenheit]. Se la forma è qualcosa che accenna già ad un altro che le è correlato, allora si
dovrà pensare qualcosa per così dire preformale [Etwas vorformales], indipendente dalla

1 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, cit., III, p. 133.

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Il Pathos della Forma

situazione formale [Formsituation], il cui essere-intessuto con un altro concede [ergibt]


appunto il carattere formale. Poiché il contenuto [-gehalt] della forma logica non è sensibile,
a differenza del materiale intuitivo-sensibile, si può anche indicare quel qualcosa preformale
come non-sensibile. Nella forma categoriale una relazione ha già trovato così la sua
espressione. La forma è un “verso là” [“Hin”], una relazione o meglio uno degli elementi
della relazione, cioè il non-sensibile preformale, già con la relazione, che muove verso
[hingehen] l’altro membro, ovvero già con la sua posizione all’interno della struttura
oggettuale. Non la forma ma il non-sensibile preformale è uno dei membri della relazione,
mentre la forma è già più di un semplice elemento relazionale. Ora lo stesso vale anche per
il materiale. Anche in questo già si accenna e si cointende [mitgemeint] lo stare in una certa
relazione. Il materiale già include l’essere-riguardato di un qualcosa, insieme alla sua
posizione nella struttura oggettuale. Non il materiale, ma il Qualcosa, che si deve ancora
pensare indipendente dalla situazione del materiale, per così dire, premateriale [vormaterial],
ancora non-riguardato, è il singolo altro membro della relazione. I veri elementi sono il
Non-sensibile preformale ed il Qualcosa premateriale. Tra di loro soltanto c’è una relazione
originaria, attorno a cui tutto gira, essi soltanto sono gli elementi che sono stretti da un
legame unitario [Einheitsband]. Di contro, nella mera forma e nel mero materiale è già
inclusa l’unità, che serra i veri membri originari. Perciò è un’insensata sovrabbondanza ed
una stravaganza pleonastica stabilire una nuova correlazione tra forma e materiale, oltre alla
relazione originaria che già è presente in forma e materiale, che insiste tra i membri ultimi.
A differenza della forma vuota ed anche del mero materiale, nella forma riempita
contenutisticamente non si aggiunge affatto la connessione degli elementi, ma solo uno dei
due membri da connettere, all’interno della compagine forma-materiale. Rispetto all’intera
compagine, cioè, nella mera forma ed nel mero materiale manca ancora il completamento
[Ergänzung] dell’altro membro della relazione originaria. L’insieme di forma e materiale
costituisce la completezza e la conchiusura di questa totalità relazionale [die Vollständigkeit
und Abgeschlossenheit dieses Beziehungsganzen]» 1 .
Se ora retrocediamo sino allo strato in cui si dispongono soltanto un qualcosa, che non ha
ancora assunto la posizione del materiale, non essendo incluso nella compagine di senso,
che lo indica, che lo predica come essente, ed un non-sensibile, che non ha ancora indetto la
indicazione formale, che non è collocato nel contenuto teoretico quale forma, ci
imbattiamo in una dualità contrassegnata dalla cifra della precedenza, vor. Tuttavia, laddove
si voglia mantenere coerente il disegno logico laskiano, vale a dire la sua pretesa
trascendentale, non è concesso restituire una mera Zweiweltentheorie, una teoria che sarebbe

1 E. LASK, Lehre vom Urteil, in GS, cit., II, pp. 366-367.

199
Il Pathos della Forma

serrata solo da un’artificiosa relazione a riguardo, mettente capo alla conformazione


raffigurativa. Avendo conquistato questo angolo di visuale, essendo ormai arretrati oltre la
coppia – essenziale nell’ambito teoretico – di forma e materiale, la questione della forma
dell’oggetto, che fin dall’inizio abbiamo indicato come capitale nel pensiero laskiano,
assume un’altra disposizione. Se cioè, sino a qui, avevamo conservato il riferimento alla
composizione di forma-materia, alla objektive Bewandtnis, restando fermi al distretto del
significato teoretico, continuando a considerare sempre e solo ciò che risultava conforme
alla significazione teoretica, adesso il passo indietro, che siamo costretti a fare seguendo la
riflessione di Lask, non può che farci esorbitare da quell’ambito, accostandoci ad un piano,
con ogni evidenza pre-teoretico.
In questo modo, l’interrogazione matura sulla questione trascendentale della logica,
convergente nel rintracciamento di una Gegenstadform, risale alla soglia dell’edificio filosofico
che abbiamo indicato nell’abbrivio di questo studio: la pre-teoreticità del taglio da cui la
teoresi è segnata. Il problema del luogo dell’oggetto finisce per essere il problema del limes, in
quanto limite pre-teoretico nella o della filosofia.
Dinanzi al dispiegamento di questi interrogativi, radicali quanto alla riuscita del suo
progetto logico filosofico, Lask risponde: «per ciò serve una intesa sul principio di
differenziazione categoriale» 1 . In che senso la questione posta dal disvelamento di uno strato,
pre-formale e pre-materiale, dunque pre-teoretico, ante-predicativo, può essere ricondotta al
principio della categoriale Differenzierung? La pre-materialità di qualcosa si distingue dalla sua
resa materiale, dalla sua posizione quale materiale, nei termini di una differenza formale: il
legame della disidentità che insiste tra di loro è un legame formale. L’ammissibilità di un vor-
materiale Sicht – se non può ricadere in una ripetizione della visione pre-critica, in un mero
realismo ingenuo – passa per la possibilità di intendere questa differenza formale, in quanto punto
focale di una differenziazione della forma. Se dunque la forma è la differenza sarà la
differenziazione della forma a darne conto. «Come il carattere formale è in generale ed in
quanto tale sintomo del valore-per» – scrive Lask, dando inizio alla sua trattazione della
Bedeutungsdifferenzierung – «così la determinatezza della forma singola non è altro che sintomo ed
espressione, che la forma valente mostri un singolo materiale determinato. Carattere formale
significa: esigenza di completamento attraverso il riempimento contenutistico e dell’essere
assegnato al riempimento contenutistico; determinatezza della forma significa: essere
impegnata in un determinato riempimento contenutistico. Espresso diversamente: invece di
dire in maniera prolissa: la forma che vale per questo e proprio per questo materiale, si dice
con una sola parola: quella forma. Ad esempio: invece di dire: forma teoretica, nella misura

1 Ivi, p. 368.

200
Il Pathos della Forma

in cui riguarda un materiale sensibile, determinato proprio in questo modo, che coesiste o
nella misura in cui si riferisce ad un materiale sensibile, determinato proprio in questo
modo, che è in successione, utilizziamo le abbreviazioni “cosalità” o “causalità”. Diciamo
“cosalità” oppure “causalità” ed esprimiamo l’appuntarsi della forma teoretica in generale
nell’accenno ad un materiale completamente determinato. Dunque qui sono stati utilizzati
nomi brevi perché volevamo pensare un tale materiale, e nessun altro, in quanto riguardato
dalla forma teoretica in generale. Le singole determinate forme categoriali si portano dietro
già un riferimento a ciò, a cui sono chiamate a dare forma logica, a ciò rispetto a cui sono
chiamate a fungere da categorie. Riassumendo: con la determinatezza della forma non si
resta più semplicemente nel valente, ma si assume sempre già il suo riferimento alla
particolarità del materiale, si esprime la sua posizione come elemento di una relazione con il
materiale determinato» 1 .
Dunque, ciò che determina la forma, rendendole la propria determinatezza singola,
individuandola, ciò che costituisce la forma come una determinata forma di qualcosa è non
già il suo riferimento a qualcosa, ma la puntualizzazione della forma su questo qualcosa. «La
determinatezza della forma singola» – nota Lask, tornando sulla questione, nella Lehre –
«deve essere intesa come un’espressione abbreviata per rendere lo stato di cose, in cui il
non-sensibile dovrebbe essere pensato quale valente per [hingeltend zu] un materiale
completamente determinato, esprimendo il limitarsi e l’appuntarsi [Eingeengtheit und
Zugespitztheit] della forma in generale in un materiale del tutto determinato. […] La
determinatezza della forma deve essere chiamata contenuto formale [Formgehalt] oppure
“determinatezza del significato”, quella particolarità del materiale, cui la forma si appunta,
specificandosi in un contenuto determinato, deve chiamarsi momento che determina il
significato. Pur rimanendo nella sfera della forma, il piano del significato contiene già un
riverbero proveniente dall’esterno; cioè, pur essendo il non-sensibile ciò che qui viene
pensato in relazione, il materiale gioca già la parte di ciò rispetto a cui ha luogo la
connessione» 2 . Insomma, la determinatezza di una forma coincide con il suo limitarsi a –
einengen – , con il suo appuntarsi su – zuspitzen – una determinatezza materiale. In altri
termini, la determinatezza di un materiale esprime già insieme già anche la determinatezza
della forma corrispondente; basta riferire di una determinatezza materiale – che questo
qualcosa sia (materiale) – per rendere già anche una Zugespitztheit formale; ovvero, una
determinatezza materiale è già un contenuto formale. Questo significa che «la
determinatezza del materiale, ma non la sua intera determinatezza, piuttosto quella

1 E. LASK, Die Logik der Philosphie, in GS, cit., II, pp. 58-59.
2 E. LASK, Lehre vom Urteil, in GS, cit., II, pp. 368-369.

201
Il Pathos della Forma

particolarità, limitata a ciò, riguardo a cui la forma valente si appunta proprio in questa
singola forma determinata, può definirsi come momento che determina il significato» 1 . Ciò
che determina la formalità, in una forma, è diejenige Besonderheit am Material, è quella
particolarità nel materiale a cui la forma si appunta 2 . Ma questa particolarità nel materiale
non si identifica affatto con il materiale, ma si incontra in esso. «Il materiale non può avere
la funzione di determinare il significato, in tutta l’infinità della sua individualità concreta,
perché il fattore di determinazione del significato rappresenta solo un momento astratto,
una determinatezza generica nel [eine gattungsmäßige Bestimmtheit am] materiale. Ad esempio,
l’indifferenziata evidenza [Anschaulichkeit] sensibile in generale, che si lega ad ogni
contenuto [Inhalten] intuitivo-sensibile non determina altro che il significato della “categoria
di ambito” dell’essere reale; cioè, nonostante tutte le differenze ogni intuitivo-sensibile in
quanto tale, per la sua generale evidenza sensibile, deve essere indicato come un essente» 3 .
La unterschiedlose Anschaulichkeit non coincide con l’infinita molteplicità di ciò che è intuibile
sensibilmente, né ne rappresenta meramente il genere, piuttosto è gattungsmaßig, è conforme
al suo genere, è capace cioè in quanto forma di indicare quale ne sia il genere. È forma
generale, è la forma del genere, cioè dell’ambito della sua estensione significativa. La forma
dell’evidenza sensibile, dell’evidenza sensibile come carattere proprio di ciò che è esperito
sensibilmente, è tuttavia a sua volta in un’esperienza.

3.4. Il momento materiale della differenziazione: individuazione e spazio


intelligibile.

Per rendere, con vivezza, l’intreccio che sta conquistando la scena, la profondità di questo
Ineinander, che risponde al già altisonante titolo di principium individuationis del significato,
Lask evoca – se si intendono le reminiscenze storiche – il rimando alla dottrina plotiniana della

1 E. LASK, Die Logik der Philosphie, in GS, cit., II, p. 59.


2 E. LASK, Lehre vom Urteil, in GS, cit., II, p. 369
3 Ivi, pp. 369-370. A questo riguardo Lask continua – ivi, p. 370 – : «Per fare ancora un esempio, il momento

determinante il significato della categoria della causalità deve essere posto in quella proprietà completamente
generale dell’intero materiale [Vollmaterial] intuitivo, che è cagione del fatto che le innumerevoli connessioni
causali individuali concrete siano tutte allo stesso modo connessioni causali. La proprietà, in virtù della quale a,
b sono in relazione causale, può essere solo quella in virtù della quale essa concorda con ogni altro materiale
causale. Nell’implesso dei materiali causali, nell’ambito di dominio della causalità, solo la determinatezza di
gruppo, che conviene ad ogni singolarità dell’ambito, determina il significato della causalità. Nel caso in cui il
momento determinante il significato balena di-contro all’infinita pienezza del materiale, la singola forma
categoriale “domina” un’infinità di singolarità materiali. Il contenuto formale non si frantuma in infinite
singole figure formali, ma si lascia raccogliere in alcune, poche forme fondamentali, che puntano [durchsetzen]
ogni materiale. Essendoci qui dedicati a considerare solo questo caso della “forma apriorica”, è ovvio per noi
legare alla formalità logico-trascendentale, cioè all’essere-a-rigurado ed all’indigenza di riempimento del non-
sensibile, il carattere della generalità dominante nell’ambito materiale [Che chiaramente si divide in due parti nel
concetto di forma]». (Annotazione presente nell’edizione della GS, 1924).

202
Il Pathos della Forma

materia intelligibilis 1 . La nozione di ύ̉λη νοητή rappresenta in maniera esemplare l’elaborazione


plotiniana della tavola categoriale aristotelica, la sua collocazione frontaliera e mediana,
l’innesto dei μέγιστα γένη sui κατεγορούμενα 2 : derivando dalla Metafisica, nella duplice
accezione di spazio geometrico 3 e di ambito relazionale tra il genere e la specie 4 – inclusa cioè in
due aspetti della mereologia aristotelica, ove la totalità non sia risolvibile nella somma delle
parti – la nozione di materia intelligibile assume nel quarto libro della Seconda Enneade, un
carattere del tutto differente. «Se le forme sono molte» – osserva Plotino – «è necessario
che in esse vi sia qualcosa di comune, ed anche qualcosa di individuale, in modo che l’una
sia differente dall’altra. Ora, questo qualcosa di individuale e questa differenza che le
separa, e la forma particolare, che appartiene a ciascuna di esse. Ma se c’è una forma, c’è
anche qualcosa che è formato, al quale è inerente la differenza» 5 . L’inclusione della materia
intelligibile obbedisce dunque all’intento di comprendere la ragione della pluralità nelle forme,
la differenziazione che sancisce la sussistenza di forme particolari differenti l’una dalle altre.
Se il carattere delle forme è unitario, è ciò che tutte hanno in comune, quello che ne
consente la purificazione è qualcosa di non-formale, altro dalla forma: in questo senso,
Plotino menziona l’alterità intelligibile come principio della materia intelligibile 6 . La materia

1 E. LASK, Die Logik der Philosphie, in GS, cit., II, p. 61: « Il momento del significato è il principium individuationis,
il principio della pluralità nella sfera del valore. All’una, alla pura forma valente in generale, senza molteplicità,
si aggiunge un momento che accenna al materiale, dunque simile alla sostanza, che da la pluralità, una
“materia intelligibile” – se si intendono le reminiscenze storiche».
2 Quanto alla trattazione laskiana della dottrina delle categorie in Plotino, ed al suo ruolo di mediazione tra

Platone ed Aristotele, cfr. l’abbozzo storico sulla dottrina delle categorie, ivi, pp. 236-240.
3 ARISTOTELE, Metafisica, VII 10, 1036a 9-11: «la materia intelligibile è quella che è nelle cose sensibili, ma non

in quanto sensibili, come gli enti matematici»; ed ancora, VII 11 1036b 32 - 1037a 5: «Quanto agli enti
matematici, perché le definizioni delle parti non sono parti delle definizioni, così come i semicerchi sono parti
del cerchio? Effettivamente non sono cose sensibili. O forse non importa? Ci saranno infatti alcune cose,
anche non sensibili, che avranno materia, perché c’è una qualche materia per ogni cosa che non sia l’essenza
sostanziale e la forma in sé e di per sé, ma che sia una qualche cosa particolare determinata. Queste cose non
saranno parti del cerchio in universale, ma lo saranno dei cerchi particolari, come si è detto prima. Infatti c’è
una materia sensibile e c’é una materia intelligibile».
4 Ivi, VIII 6, 1045a 33-35: «C’è una materia intelligibile ed una materia sensibile, e sempre nella definizione

una cosa è materia e una cosa è atto, per esempio il circolo è una figura piana».
5 PLOTINO, Enneadi, II 4, 4, 1-5; nella trad. it. di M. Casaglia, C. Guidelli, A. Linguiti, F. Moriani, pref. di F.

Adorno, Torino, 1997, vol. I, p. 179. Il tema della differenziazione materiale è legato all’individuazione, in due
forme storiche: una metafisica ed una logico-formale, la prima riconduce alle Quaestiones in Metaphysicam di
Avicenna, la seconda alle Summulae logicales Pietro Ispano. Cfr. AVICENNA, Quaestiones in Metaphysicam IX, 1;
trad. it. di O. Lizzini O., P. Porro, Metafisica, Bompiani 2002; PIETRO ISPANO, Summulae Logicales, II, 13, trad.
it. a cura di A. Ponzio, Trattato di logica, Milano, 2004, pp. 48-51.
Sulle differenze e le affinità, infine, tra la differenziazione materiale e l’haecceitas scotista, cfr. M.
HEIDEGGER, Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus, ora in GA, cit., Abt. I, Bd. 1, pp. 131- 353;
trad.it. di A. Babolin, Roma-Bari, Laterza, 1974.
6 PLOTINO, Enneadi, II, 5, 28 – 30, trad. it., cit., p. 281: «Infatti l’alterità intelligibile esiste sempre e produce la

materia intelligibile; perché questa è il principio della materia ed è il movimento primario. Anche per questo il
movimento fu chiamato alterità, perché il movimento e l’alterità sono nati insieme». Sul rapporto distintivo di
materia intelligibile ed alterità intelligibile, si veda F. ADORNO, La Storicità del pensiero di Plotino, in PLOTINO,
Enneadi, cit., pp. 56 – 57. Cfr. P. HADOT, Plotin ou la simplicité du regard, Paris, Vrin, 1963, sec. ed., Paris, Vrin,
1973; J.-F. COURTINE, Note complémentaire pur l'histoire du vocabulaire de l'etre. Les traduotions latines d 'ousia et la
compréhension romano-stoicienne de l'etre, in P. AUBENQUE (éd.), Concepts et catégories dans la pensée antique, Paris, Vrin,

203
Il Pathos della Forma

è essenzialmente piano della differenziazione, ovvero della formazione delle differenze, di quelle
nell’ambito intelligibile, in quanto non coincidenza delle particolarità delle forme ideali, in
quanto diade indefinita, e di quelle nell’ambito sensibile, ove ciascun corpo si distingue
dall’altro, e figura come un determinato corpo, in virtù della propria profondità 1 .
Nella lettura che Lask ne propone – a più riprese, pur senza mai assumere la struttura di
una considerazione o di un confronto sistematico, sia nella modalità dell’accenno, od in
quella dell’abbozzo storico od ancora in quella delle annotazioni su platonismo e
neoplatonismo, contenute nelle Platos-Vorlesungen – la materia intelligibile diviene
sinonimica dello spazio intelligibile, quale Vielheitsprinzip, principio della pluralità in quanto
plurificazione, Vervielfältigungsprinzip, principio dell’essere l’uno accanto all’altro,
Nebeneinander, degli oggetti formali e della loro enumerabilità, Aufzählbarkeit: quale Gedanke
der Abgestuftheit der Realitätsschichten 2 .

1980, pp. 33-87; F. REGEN, Formlose Formen: Plotins Philosophie als Versuch, die Regreßprobleme des Platonischen
Parmenides zu lösen, Göttingen, Vandenhoeck, 1988.
1 PLOTINO, Enneadi, II,, 5, 8; trad. it., cit., p. 280. Sulla nozione fenomenologica di profondità, cfr. E.

HUSSERL, Ding und Raum. Vorlesungen 1907, in Hua, cit., Bd. XVI, cit.; M. MERLAU-PONTY, Phénoménologie de la
perception, Paris, Gallimard, 1945; trad. it. di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Milano, Bompiani, 20032,
pp. 339-340: «Le concezioni classiche sono concordi nel negare che la profondità sia visibile. Berkeley
dimostra che essa non potrebbe essere data alla vista non essendo in condizione di essere registrata, giacché le
nostre retine ricevono solo una proiezione sensibilmente piana dello spettacolo. Se gli si obbiettasse che,
dopo la critica della «ipotesi di costanza», non possiamo giudicare di ciò che vediamo ricorrendo alle immagini
retiniche, Berkeley risponderebbe certo che, a prescindere dall’immagine retinica, la profondità non può
essere vista poiché non si dispiega sotto il nostro sguardo e non gli appare se non di scorcio. Per l’analisi
riflessiva la profondità non è visibile per una ragione di principio: anche se essa potesse inscriversi sotto i
nostri occhi, l’impressione sensoriale offrirebbe solo una molteplicità in sé da percorrere; pertanto, come tutte
le altre relazioni spaziali, la distanza non esiste se non per un soggetto che ne faccia la sintesi e che la pensi.
[…] In entrambi i casi, la profondità è tacitamente assimilata alla larghezza considerata di profilo, e ciò la rende
invisibile». Al contrario la considerazione merleau-pontyiana della profondità – nel caso esemplare, già
presente nelle Cartesianischen Meditationen di Husserl dell’osservazione di un cubo rimanendo fermi in una
posizione adombrativa, capace di vedere, ovvero di percepire direttamente, solo una delle facce del cubo,
ovvero una delle sue superfici fenomeniche, la cui definizione di faccia, costituisce già il nucleo della
questione in merito – intende «la presenza simultanea ad esperienze che nondimeno si escludono, l’implicarsi
dell’una nell’altra, la contrazione in un solo atto percettivo di tutto un processo possibile […]. La profondità è
la dimensione secondo la quale le cose o gli elementi delle cose si avvolgono vicendevolmente, mentre
larghezza e altezza sono le dimensioni secondo le quali si giustappongono». Ivi, p. 351.
2 E. LASK, Plato, in GS, cit., III, pp. 36-38. Interessante è il tentativo laskiano di porre a confronto il concetto

di materia intelligibile oltre che con la fonte aristotelica – «Aristotele infatti non distingue tra materia sensibile e
materia intelligibile e riconosce solo due principi, quello concettuale e quello materiale», ivi, p. 37 – anche con
la χώρα del Timeo platonico, coniugandola con il θάτερον, uno dei cinque μέγιστα γένη indicati nel Sofista, accanto
ad essere, stessità, quiete, movimento. Quanto alla liceità filologica di questo accostamento, legata alla
questione della generazione della materia intelligibile – cfr. PLOTINO, Enneadi, II 9, 3, 17-18 – e della
preesistenza, ed ingeneratività della χώρα platonica, si veda F. ADORNO, La Storicità del pensiero di Plotino, in
PLOTINO, Enneadi, cit., p. 57. Cfr. H. R. SCHWYZER, Zu Plotins Deutung der sogenannten platonischen Materie, in
Zetesis. Festschrift E. de Strijker, 1973, pp. 266-280; K. CORRIGAN, Is there more than one generation of matter in the
Enneads ?, in «Phronesis», XXXI, 1986, pp. 167-172.

204
Il Pathos della Forma

3.5. L’eccedenza del significato

Dunque, l’accenno alla nozione di materia intelligibile diviene utile, nel disegno laskiano, ad
indicare la figura di ciò che travalica l’assetto della forma logica, ovvero la breccia figurativa
sulla superficie formale. Il percorso lungo il quale le forme logiche si determinano,
costituendosi in virtù della dualità degli ambiti del pensabile, dell’originaria relazione funzionale
tra essente e valente, effettuale ed ineffettuale – assumendo per ambedue i termini
l’accezione più ristretta, ove al sigillo essere corrisponda solo l’effettualità sensibile posta
nello spazio e nel tempo – è quello della Bedeutungsüberschluß. «Il termine determinatezza di
significato» – scrive Lask – «si chiarisce partendo dal fatto che tutto, ciò che si trova nella
sfera del valore, ma va oltre la valorialità, cioè tutto ciò mediante cui si dà questo
determinato Qualcosa valente e non un altro, dovrebbe indicarsi come “significato”.
L’eccedenza del significato sulla mera valorialità si manifesta nella sfera del valore, si
aggiunge al valente come sintomo di un riferimento, ma non nasce dalla sfera del valore,
ma vi entra dall’esterno. Così il momento di significato è, per così dire, proprio della parte
costitutiva impura nella sfera del valore, in vero di ciò che ha il modo del valore, ma
contenendo già un riflesso che proviene da ciò, con cui il valente è in relazione, un ché di
medio tra la pura valorialità e quanto ne è esterno. Dal contenuto del significato proviene
ogni impronta di intorbidamento, di impenetrabilità, di non-intendibilità, che in ogni
singola forma, ad esempio logica, si aggiunge alla sua generale valorialità ed al suo generale
carattere logico, derivando dal materiale alogico» 1 . L’attenzione laskiana alla costitutività
delle forme logiche, al loro essere costituite, al loro disporsi quali oggetti logici formali,
precipita nell’istanza di rinvenire la modalità del loro caricamento di significato,
Bedeutungsbelastung: le forme logiche – costituite attraverso l’incompaginazione del proprio
materiale, il dimensionamento dello spazio che a loro stesse pertiene – devono cioè essere
intese come forme sostrato, come elementari complessi di senso, che nella loro
determinatezza scontano già l’insediamento di qualcosa ad esse estraneo, che però in esse
giunge a mostrarsi 2 . Gli oggetti formali, le forme sostrato, le categorie dunque nella loro

1 E. LASK, Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 60.


2 Ivi, pp. 62-63: «Le determinatezze delle singole forme sono invero logiche, ma non completamente logiche,
derivando dal materiale alogico un riflesso delle determinatezze, che da lì accennano, come ad esempio in
particolare le determinatezze delle categorie dell’essere provengono dalle singolarità del materiale estraneo al
significato. Pertanto il principio di differenziazione è un ché puramente “empiristico”. Le singole formazioni
logiche, in quanto differenziate alogicamente, nella loro determinatezza individuale, che eccede il logico
astratto in generale, non si devono intendere a partire dalla generale essenza del logico. Tra le singole
formazioni logiche non si stringono relazioni, che vanno qua e là, di una cosalità, comprensibile senza l’ausilio
dell’alogico. Le singole forme sono completamente determinate, nello loro particolarità, dal materiale esterno
al logos, e se ne può determinare il luogo, solo sulla strada che avvolge il materiale, nel continuo accenno ad
esso, nella considerazione del loro momento materiale [stofflich]».

205
Il Pathos della Forma

costituzione, definiscono il piano logico in cui il sostrato viene alla luce. Per rendere
comprensibile il vettore formale dell’apertura sulla materia, Lask richiama ancora il
principio della Verklärtheit, su cui ci siamo a lungo soffermati riguardo alla disposizione
dell’opera d’arte, facendone infine emergere il significato più profondo. «Che la chiarezza
[Klarheit]» – osserva – «si estenda su qualcosa, significa sempre che un Qualcosa è attinto
[berührt] dal momento categoriale della chiarezza, che è semplicemente avvolto dalla
chiarezza; non che sia attraversato [durchleuchtet] dalla chiarezza, ma che ne sia solo avvolto
[umleuchtet], non che ne sia trasfigurato [ver-klärt], ma solo figurato [um-klärt]» 1 . Tuttavia, in
queste righe, si annida ancora un’insidia: perché si intenda il modo in cui qualcosa figura,
compare, si fa presente nell’indicazione formale, sarà necessario distinguere tra il consueto
uso di Betroffensein – ovvero l’essere riguardato di un materiale mediante la forma, mediante
il riguardo, la pertinenza formale – e quello che ora si fa avanti, di Berührtsein, dell’essere
toccato, dell’essere attinto, dell’essere intaccato 2 . Ebbene, quale è la posizione di ciò che è
intaccato? In questa locuzione è incluso un riferimento ad un Bestand materiale, differente
da quella della costituzione, della Bewandtnis? Vi è cioè in questa espressione il ritorno ad un
margine metalogico, una inaudita μετάβασις εί̉ς ά̉λλο γένος, tale da non poter intendere più la

1 Ivi, p. 76.
2 L’utilizzo della locuzione Berührt-sein reca con sé indubbiamente un ingente problema terminologico, che
coinvolge uno delle più antiche, e complesse, parole filosofiche, τυγχάνω, nella sua differenziazione da ά̉πτω,
sin dalla sua occorrenza aristotelica in Metafisica, θ 10, 1051 b 23-25, all’inizio del paragrafo sui molteplici
modi di dire l’essere: «Ma come il vero non è più la stessa cosa, così non è più la stessa cosa l’essere, ma il
vero o falso è il toccare (τιγει̃ν) e il profferire il vero (e non sono la stessa cosa il pronunciare e l’affermare),
mentre l’ignorare è il non toccare». Cfr. ARISTOTELE, Metafisica, Λ, 1072 b, 19-21. A questo riguardo, si
vedano M. HEIDEGGER, Brief über den «Humanismus» (1946), Frankfurt a. M, 1949; poi in GA, cit., Abt. I, Bd.
9, Wegmarken (1919-1961), 20043; trad. it. a cura di F. Volpi, Lettera sull’«Umanismo», Milano, 1995, p. 58; H.-
G. GADAMER, Commento alla Metafisica, Λ , in ARISTOTELE, Metafisica Libro XII, trad. it. a cura di C. Angelino,
Genova, 1995, p. 70; J. DERRIDA, Le Toucher, Jean-Luc Nancy, Paris, Galilée, 2000, p. 138.
Perché non resti in sospeso una inevitabile circoscrizione semantica, indichiamo di seguito le valenze
differenti dei due verbi chiamati in causa. Τυγχάνω,[t. τυγ, dheigh, lt. fingo] ha il significato primario di tocco,
tratto, reggente l’oggetto in un caso indiretto, il genitivo. Da qui l’uso documentabile è per sfumature e
collocazione ed estensione differenziato. Da una lato nella lingua lirica di Pindaro, assume il carattere fievole
del contatto, a cui quasi la materialità della mano rinuncia, cede, con le corde di una cetra [Pitica, IV, v.295,
ησυχία τυγχεμεν, toccata la cetra in pace], e nella traslazione retorica, quello della trattazione di, ovvero del
riferimento a, come in Euripide, Fenicie, v. 408 [λόγου κακόυ γληόσση τίγγάνω, espongo (tratto) un discorso
malvagio]; dall’altro, ancora nel tragico [Ippolito, v. 885, , Ippolito hai osato violentare [τίγγέιν] mia moglie, v. 1044, ,
se fossi convinto che tu abbia toccato [τίγγέιν] mia moglie], ed altrove, il verbo ricorre nella traslazione di vulnerare, in
quanto attingere, aspirare, at-tentare: attingimento di un interdetto, ed allo stesso tempo di un non-oggetto,
avvolto dalla profondità del piacere, sottratto, questo sì rubato. Tuttavia, sembra conservare la significazione
di toccare, laddove però non venga esaurito il contatto, la conquista di un risultato, eludendo cioè la
designazione della capacità manuale dell’afferramento. Tanto che la derivazione latina, fingo, amplifica la
connessione tra l’accezione di figurare, formare, imitare, dunque fingere e di toccare, quale estensivamente
trattare, pensare-di, trattare. Ά̉πτω, [cfr. lat. apiscor, aptus], invece, significa, nel medio, specificamente tocco a
contatto, contattando, tocco qualcosa in quanto in contatto, legato, connesso, stretto a qualcosa; pertanto,
essendo in contatto con qualcosa, lo tocco [anche in questo occorrenza il caso dell‘oggetto è il genitivo, ma
per la diatesi media]. Le traslazioni figurate anche in questo caso variano dal raggiungere, all’attaccare, al violare ed
al mettere mano, ovvero intraprendere, dedicarsi a. Il riguardo proprio della declinazione dell’attività sensibile
del tatto, appartenente ad ά̉πτω, è quello non solo della adiacenza e della prossimità, ma della con-finarietà,
della condivisione o della medesimezza (o identificazione forzata) del confine, del contatto col medesimo
oggetto.

206
Il Pathos della Forma

dischiusura del piano logico, la disposizione della forma a qualcosa d’altro, che conserva la
propria alterità, ma piuttosto l’equiparazione, l’immedesimazione di quella che abbiamo
definito come dualità originaria, dunque la restituito ad integrum della materialità?

3.6. La figura della nudità.

Per sciogliere questo nodo gordiano che inquieta la riflessione sulla dimensione formale –
che è sempre dimensione formale del materiale – Lask richiama un brano che appare in
apertura della trattazione kantiana dell’idea di una logica trascendentale 1 . «Kant, in un celebre
passo, ha contrapposto le due parti costitutive isolate del senso, la mera forma ed il mero
materiale, come rispettivamente vuota e cieco. Queste due immagini si spiegano perché
Kant partiva dalla soggettività, cioè chiamava cieco il mero “intuire” senza concetto, in cui
per così dire non ci sono occhi per il logico che vale-per concettualmente. Riferendosi alla
medesima accezione, egli può indicare la mera forma come vuota. Invece il mero materiale,
nel suo non-essere-riguardato [Unbetroffenheit], nel suo non-essere-conchiuso
[Nichtumschlossenheit] mediante il Logico, nel suo non-essere-avvolto [Nichtumhülltheit] e nella
sua semplicità [Blöse] rispetto al Logico, dovrebbe essere indicato come non attinto
[unberührt] logicamente o come logicamente nudo [logisch nackt]. All’involucro vuoto
corrisponde anche nell’immagine il contenuto senza involucro [der hüllenlose Inhalt], alla
vuotezza corrisponde la nudità. L’analogo dell’affermazione kantiana sarebbe: la forma
senza contenuto è vuota, il contenuto senza forma è nudo. Il concetto di nudo logico è del
tutto autonomo rispetto al concetto di sensibile come rispetto a quello di alogico o di
irrazionale. Il concetto di sensibile e quello di irrazionale indicano un contenuto [Gehalt],
ma non una relazione, od una situazione rispetto al momento logico della forma. Anche
alogico od irrazionale significano solo l’alterità rispetto al logico, indicano ciò che sta al di
fuori del contenuto logico, l’estraneità al logos, l’”estraneità al pensiero”. Invece nudo

1 I. KANT, Critica della Ragion Pura; trad. it. cit., pp. 125-126: «Se vogliamo chiamare sensibilità la recettività del
nostro animo nel ricevere le rappresentazioni, in quanto ne venga in qualche modo colpito, daremo invece il
nome di intelletto alla capacità di produrre spontaneamente rappresentazioni, ossia alla spontaneità della
conoscenza. La nostra natura è tale che l’intuizione non può mai essere che sensibile, ossia tale da non
contenere che il modo in cui veniamo colpiti dagli oggetti. Per contro, la facoltà di pensare l’oggetto
dell’intuizione sensibile, è l’intelletto. Nessuna di queste due facoltà è da anteporsi all’altra. Senza sensibilità,
nessun oggetto ci verrebbe dato e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato. I nostri pensieri senza
contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche. È quindi egualmente necessario rendere
sensibili i propri concetti (ossia aggiungere loro l’oggetto nell’intuizione), e rendere intelligibili le proprie
intuizioni (ossia sottoporle a concetti). Queste due facoltà o capacità non possono scambiarsi l’un l’altra le
loro funzioni. L’intelletto non può intuire nulla, ed i sensi nulla pensare. Solo dalla loro unione può scaturire
la conoscenza. Ma non v’è per questo ragione di mescolare le parti che rispettivamente vi hanno; al contrario,
è di grande momento separarle accuratamente l’una dall’altra e conservarle distinte. Per questo scindiamo la
scienza delle regole della sensibilità in generale, cioè l’Estetica, dalla scienza delle regole dell’intelletto in
generale, cioè dalla Logica».

207
Il Pathos della Forma

logico significa una situazione, cioè l’accadere di una situazione, in cui un qualsiasi
Qualcosa è in rapporto alla forma logica. Nella posizione del non-essere-riguardato
logicamente si può trovare ciò che è conforme al significato come ciò che ne è estraneo,
dunque sia il Logico che l’Alogico» 1 .
In questione, non è una mera sostituzione linguistica, ma un delicato passaggio teoretico,
che riguarda la medesima disposizione della dualità forma/materia, e della sua traduzione in
distinzione di facoltà o di capacità 2 . La definizione infatti del principio della materialità, di
ciò che compete all’Anschaulichkeit, all’evidenza sensibile solo nel grado più basso della
formalizzazione, ed all’intera Inhaltlichkeit, a tutto ciò che ricorre come contenuto, come
nackt, come nudo logicamente, nudo dell’avvolgimento formale sancisce il compimento di una
revisione della dottrina trascendentale degli elementi. Se resta ferma la serratura nella coppia
forma-materiale, se resta fermo l’ambito di unificazione di cui fanno parte, quello della
conoscenza, dunque quello della realizzazione del contenuto di senso nella sua soddisfazione,
ciò che muta è la modalità in cui compare il nesso di dipendenza reciproca 3 .

1 E. LASK, Logik der Philosophie, in GS, cit., II, pp. 73-74.


2 La ripresa del brano kantiano su vuotezza e cecità è un luogo cruciale nella rilettura e nella ricomposizione
dell’idea di una logica trascendentale; a riguardo riportiamo un contributo in merito tratto da H. COHEN, La
teoria kantiana dell’esperienza, cit., p. 171: «Ma ora – scrive Cohen – si potrebbe obbiettare: a che scopo tutte
queste fonti del conoscere? Perché la categoria non può essere contenuta anche nella sensibilità, come unica
fonte del conoscere? Senza voler esaurire qui questo problema, si deve riconoscere soltanto questo: la
categoria è appunto il concetto di un oggetto in generale. Per ottenere una realtà obbiettiva, è necessario che la
categoria sia precedentemente connessa all’intuizione, con ciò alla sensibilità. Se ora si pone semplicemente la
categoria nella sensibilità, si rompono gli argini della Critica, si perde la pietra di paragone dell’esperienza e si
ricade nel fantasticare dell’ontologia! Questo è il motivo trascendentale per l’assunzione della percezione pura
accanto al senso interno. Il senso interno può dare, nella molteplicità delle sue percezioni, soltanto una
coscienza mutevole e, di conseguenza, solo giudizi soggettivi di percezione. L’unità trascendentale
dell’appercezione però realizza una obbiettiva unità dell’autocoscienza, in quanto mediante essa «tutto il
molteplice dato da un’intuizione è unito in un concetto di oggetto». Questa equivalenza delle sue condizioni per la
possibilità dell’esperienza deve essere provata in tutte le direzioni: che «il concetto senza intuizione è vuoto», e
che «l’intuizione senza concetto è cieca». Nella giustapposizione del senso interno e dell’appercezione
trascendentale viene spiegato nel modo più netto il rapporto tra le due condizioni formali dell’esperienza e
viene spiegato nel modo più chiaro». Cfr. J. COHN, Voraussetzungen und Ziele des Erkennens, cit., pp. 97- 119.
Cfr. inoltre, M. FERRARIS Il mondo esterno, Milano, Bompiani, 2001, pp. 129-130.
3 Sulla comprensione della posizione del logische Nackt come funzionale ad uno spostamento delle «categorie

dal soggetto all’apparire», dunque ad una considerazione della categorie come condizioni di manifestatività
dell’oggetto, a differenza della lettura di Nachtsheim, che vi scorge piuttosto un residuo irrazionale alla
concettualizzazione dell’oggettualità, si veda V. COSTA, La verità del mondo. Giudizio e teoria del significato in
Heidegger, Milano, Vita e Pensiero, 2003, pp. 34-sgg. L’interpretazione di Costa, incentrata sul tentativo di dare
un assetto compiuto alla leva logica del giovane Heidegger, giunge ad affermare che se il filosofo di Meßkirch
avesse interpretato la nozione laskiana di nudità logica come un mero margine materiale, «l’avrebbe trovata del
tutto priva di interesse ed indistinguibile da quella di Rickert. Bisogna del resto rammentare – conclude in
nota, ivi, p. 35 – che heidegger ha sempre interpretato il pensiero di Lask come una versione della teoria
dell’intuizione categoriale di ascendenza husserliana». Cfr. W. SZILASI, Das logische Nackt. Bemerkungen zu einem
Grundbegriffe des Philosophen Emil Lask, in Natur und Geschichte, Festschrift für Karl Löwith, Stuttgart-Berlin,
Kolhammer, 1967, pp. 333-341; C. STRUBE, Zur Vorgeschichte der hermeneutischen Phänomenologie, Würzburg,
Könighausen & Neumann, 1993; K. LEHMANN, Metaphysik, Traszendentalphilosophie und Phänomenologie in den
ersten Schriften Martin Heideggers (1912-16), «Philosophische Jahrbuch», Bd. 71, pp. 331-357; trad. it. Metafisica,
filosofia trascendentale e fenomenologia nel primo Heidegger (1912-1916), in S. POGGI, TOMASELLO (a cura di), Martin
Heidegger. Ontologia, fenomenologia, verità, Milano, Led, 1995.

208
Il Pathos della Forma

Abbiamo assistito, in precedenza, all’irruzione del concetto di nudità, quale α̉πλω̃της, nella
locuzione vita nuda, all’interno della determinazione del campo giuridico, sulla spinta della
crescente formalizzazione recata dallo jus civile nella Romanità. In quel caso, il ricorso alla
nudità valeva come mancanza di qualità giuridiche, ma non di una determinazione
normativa: la nudità della vita non si riferiva cioè all’arcana autenticità della semplice vita
naturale. Non è l’integrità originaria, ma già un legame, un vincolo, che ha originariamente la
forma di uno scioglimento o di un’eccezione 1 . La mera scissione dello spettro semantico della
nudità in a) dato in originale, dato come qualcosa è senza belletto, dato come veramente
è,nella sua purezza e b) privo, spoglio, indifeso, prostrato, elemento di una relazione o
insussistente o imperniata sulla soggezione 2 , depaupera vanamente il suo valore. Ora, è
invece evidente che Lask intende rendere con logiche nackt, piuttosto una situazione, un
essere situato, un concetto cioè funzionale, relazionale, ove resti impregiudicata estraneità
di ciò che pure mutuamente dipende dall’altro. Così, con la posizione del nudo logico si rende
semplicemente che «il materiale è riguardato dalla forma che vale-per, ma ne è solo
riguardato, orlato, non penetrato. Nel senso teoretico il nudo logico viene privato solo di
questo non-essere-riguardato logicamente, trovandosi in una nuova situazione, quella cioè
dell’essere-riguardato; ma rimane, ciò che era prima, non si altera quanto al suo contenuto
ed alla sua essenza, non viene modificato né stregato, da ciò da cui è cinto e convalidato:
non diventa della stessa essenza del contenuto categoriale, da cui è solo rivestito. Senza
alterarsi, si introduce nella posizione materiale rispetto al contenuto categoriale, trovandosi
in una “relazione” con la forma logica, rivestendosi di un momento di sigillo logico. La
modificazione, che subisce, consiste solo in tale conchiusura mediante il Logico, mentre la
differenza tra nudo logico e senso teoretico consiste solo nell’aggiunta del contenuto
categoriale. Il materiale sta là compreso categorialmente nella compagine del senso. Ogni

1 G. AGAMBEN, Homo sacer, cit., p. 101. Riflettendo poi sulla permanenza della figura della vita nuda nel mito
della fondazione della città moderna, Agamben nota come questo «si riferisce immediatamente alla vita (e non
alla libera volontà) dei cittadini che appare, così, come l’elemento politico originario, lo Urphänomenon della
politica: ma questa vita non è semplicemente la vita naturale riproduttiva, la zoè dei greci, né il bìos, una forma
di vita qualificata; è piuttosto, la nuda vita dell’homo sacer e del wargus, zona di indifferenza e di transito
continuo tra l’uomo e la belva, la natura e la cultura». Ivi, p. 121.
2 «La nudità oggi» – scrive J.-L. Nancy – «è un motivo ricorrente nel pensiero. Nietzsche è forse il primo dei

contemporanei a schernire l’Europeo «ridicolmente vestito di morale», che non può svestirsi senza vergogna.
O, forse, questo motivo ha origini molto più lontane, in quelle statue greche, la cui nudità pare essere stata la
divinità stessa. Nudità di cui l’arte del nudo conosceva un ricordo dove si confondono l’inquietudine cristiana
della carne ed il senso di un’esposizione, al tempo stesso, fragile e preziosa. Queste tre tonalità del nudo – il
divino, nudo, il peccato nudo e la pelle nuda – sono presenti sotto diverse forme nel pensiero
contemporaneo: L’Homme nu, titolo di Levì-Strauss, potrebbe esserne la cifra emblematica. Pur sviluppandosi
in diverse direzioni – dall’orrore dei corpi gettati nei carnai dei campi di concentramento fino al desiderio
travolgente di trasformare i corpi in icone – quest’attenzione per il nudo riconduce immancabilmente alla
vicinanza tra il gesto che denuda e l’indigenza, tra il dénudement ed il dénuement» J.-L. NANCY, F. FERRARI, La
pelle delle immagini, Torino, Bollati Boringhieri, 2003. Su come la questione della nudità sia dirimente nella
comprensione del rapporto tra Occidente ed Estremo Oriente, si veda del sinologo F. JULLIEN, Il nudo
impossibile, Roma, Sassella, 2004.

209
Il Pathos della Forma

“concettualità” di un qualsiasi Qualcosa consiste solo in una tale semplice immersione nel
contenuto logico formale. Una mera “comprensibilità” si trova allo stesso tempo
nell’impenetrabilità, dunque nell’inconcepibilità. Resta incancellabile l’abisso tra forma e
contenuto» 1 . La stessità, la medesimezza, che qui rende possibile pensare alla non
risolvibilità del materiale nella sua resa formale, non è affatto l’identità 2 a se stesso, la
permanenza sostanziale di qualcosa dato fuori ed allo stesso modo dentro la formazione; è
piuttosto l’inaccrescibilità del materiale in virtù della forma, è il mantenimento nella forma
della sua dipendenza. È la medesimezza dell’essere dell’ente, proprio in quanto differente
dall’ente e dalla sua entità. Dunque, stessità significa che l’essere dell’ente mantiene in se
stesso l’invalicabile differenza dal suo senso – quella contenuta in ciascuna predicazione su
qualcosa che sia, in ciascuna convalidazione proposizionale di ciò che è – e dall’ente – mai
suo – che mostra, a cui apre soltanto. La nudità è un concetto relazionale in quanto esprime
la differenza dell’essere dall’ente, ove l’ente è, si presenta, senza rendere nella propria
presentazione l’essere, e l’essere concede all’ente di presentarsi in quanto tale, recedendo
dalla sua entificazione. Ciò che Lask ritiene di dover evitare – il pericolo, cui talora grida,
quello del panlogismo – è la conversione dialettica dell’essere nell’ente, della forma nella

1 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 75.


2 A questo riguardo – che rappresenta uno dei nervi più scoperti della filosofia laskiana, proprio in quanto
torsione decisa, radicale della Geltungsphilosphie in Formphilosophie – nel Nachlaß si rinviene una lunga e spigolosa
nota, aggiunta alle pagine che iniziano la trattazione del carattere riflessivo delle categorie, nella Die Logik der
Philosophie, in GS, cit., II, p. 140, che riportiamo per la sua evidente valenza interrogativa. «Non si può
credere» – sostiene Lask – «che nella esperienza immediata di un chè di sensibile o di non-sensibile, questo si
possa raccogliere in un qualcosa [Irgendetwas], cosa che piuttosto avviene solo nella conoscenza; è infatti la
non-vitalità che deve rivolgersi all’intera compagine forma-materiale.
Forse si può esagerare nel credere che le categorie riflessive non siano categorie a sé stanti, ma sempre solo
qualcosa che si applica ad oggetti formati costitutivamente. Esse infatti si presentano sempre come applicate.
Certo – e questo è il senso più profondo della confusione – vi è sempre una prosecuzione del processo di
rifigurazione! Ma c’è anche qualcosa di nuovo! Si dovrebbe infatti assumere che nelle categorie riflessive vi è
di nuovo un rivolgimento agli oggetti à la Sachverhalt! Con l’applicazione ai contenuti specifici si combina infatti
questo rivolgimento. A questa considerazione conduce per forza maggiore, la riflessione che, se avviene la
riflessione, non può aver luogo la rifigurazione.
Ogni applicazione delle categorie riflessive sarebbe, per quanto detto, applicazione non ai contenuti vitali,
formati costitutivamente, ma a quei contenuti concettuali, già significanti. Ma così si presuppone che nella
regione rifigurativa il contenuto rosso e la situazione immanente della forma o la forma situazionale della
concettualità (non la forma strutturale) si distinguano dai contenuti, ovvero che il rosso, ad esempio, si
distingua dal significato di rosso! Il rosso identico sarebbe qualcosa d’altro dal significato identico di rosso!
L’identità a molti sembra risolversi solo in un senso polemico, come permanenza del senso rispetto alla
molteplicità. Ma questo è un senso ancora più immanente! Si presuppone infatti ancora una volta la mia più
semplice legittimazione!
Solo identico a me stesso!
a) Non identità della cosa rispetto alla pluralità delle indicazioni e dei segni di riconoscimento rappresentati:
identità come lamina [Folie]
b) Non «identità reale» à la Sigwart […].
Costanza dei significati.
c) Non permanenza, perché se fosse una categoria specifica dell’effettualità, non si potrebbe applicare a
tutto!
Nessuna relazione».

210
Il Pathos della Forma

materia formale 1 . L’unificazione, la totalizzazione, che pure avviene nella determinazione


della forma di significato – dunque nel contenuto della conoscenza – non coincide affatto
con la compiutezza, con l’indipendenza del pensiero; piuttosto, l’assetto formale, cui Lask
lavora, riportando di volta in volta la questione della posizione materiale, accenna alla
mancanza, alla dipendenza del pensiero.
Quindi, scrive Lask – nell’impresa di chiarificare il significato della nudità del materiale,
ovvero del materiale categoriale, della parte materiale che si serra nella categoria come forma
oggettuale – «si può designare l’impenetrabilità [Undurchdringlichkeit], la non-concettualità
[Unbegreiflichkeit] e la non-trasfigurabilità [Unverklärbarkeit], questa “datità” [“Gegebenheit”] ed
irrisolvibilità rispetto al Logico, anche come l’irrazionalità del materiale» 2 . Tuttavia, questa
definizione apre più equivocazioni, di quante ne chiuda: assumere come carattere della
materialità l’Irrationalität, significa in corrispondenza considerare la Gegenteil, la parte formale
come semplicemente razionale. Eppure a lungo Lask ha insistito nella distinzione tra logos e
ratio, tra dimensione costitutiva del logos e dimensione riflessiva della ratio, tra la forma logica
dell’oggetto, e la forma razionale della correlazione, della composizione delle oggettualità. A
logicità ed a razionalità corrispondono, cioè, la formalità trascendentale e la formalizzazione
proposizionale, apofantica, costitutività e riflessività. Dunque, perché il ritorno, proprio in
questo luogo, del concetto di irrazionalità?
La nostra ipotesi ermeneutica è che l’intenzione laskiana a riguardo sia di scomporre, di
decostruire questa nozione divenuta oramai ingombrante nella delineazione matura della
propria opera. Scorriamo le argomentazioni laskiane, per rinvenirvi giustificazioni alla
nostra lettura 3 . In primo luogo, Lask distingue tra non-razionalità, l’essere altrimenti che
razionalità, e non-razionalizzabilità, l’impossibilità di ridurre qualcosa alla razionalità. Nel
primo caso si intende la determinazione, dell’altro dal significato, dell’Inhalt quale differente
dal Gehalt, dunque non della sua posizione, ma di questo qualcosa in quanto posto. Nel
secondo caso, invece, si considera lo spazio relazionale in cui il contenuto si trova
riguardato dallo statuto valoriale: dunque, la posizione, l’essere-posto. «Irrazionale, nel

1 Ivi, p. 63.
2 Ivi, p. 76.
3 Sulla questione della polarità di razionalità ed irrazionalità nell’intera storia della filosofia, dal suo modello

pitagorico dell’alternarsi di πέρας ed ά̉πειρον, ovvero di misura e dismisura, fino alla sua versione matematica –
ad esempio nella teoria cantoriana dei numeri transfiniti, ed alla sua ripresa teoretica della conoscenza come
relazione tra logica e psicologia, si veda W. SESEMANN, Das Rationale und das Irrationale im System der Philosophie,
in «Logos», II, 1911-12, pp. 208- 241. In part. Sul concetto di irrazionale matematico, cfr. R. DEDEKIND,
Stetigkeit und irrationale Zahlen, Braunschweig, 19124; trad. it. Continuità e numeri irrazionali, in Scritti sui fondamenti
della matematica, Napoli, 1982, pp. 63-78; ID., Was sind und sollen die Zahlen, Braunschweig, 19184; trad. it. Che
cosa sono e a che cosa servono i numeri?, in Scritti sui fondamenti della matematica, cit., pp. 79-128; G. CANTOR, Beiträge
zur Gegründung der transfiniten Mengenlehre, in «Mathematischen Annalen», 46, 1895, pp. 481-512; 49(1897), 207-
246; poi in Gesammelte Abhandlungen, hrsg. von E. Zermelo, Berlin, 1932, pp. 282-311. Cfr. G. LOLLI, Filosofia
della matematica, cit., in part. pp. 131-143, 239-243.

211
Il Pathos della Forma

primo senso, quello dell’alogicità, è tutto tranne il contenuto logico stesso. Irrazionale,
invece, nel secondo senso, quello della non-razionalizzabilità è semplicemente tutto, incluso
il contenuto logico stesso» 1 . Evidentemente, qui, si tratta semplicemente dell’indicazione di
un concetto meno comprensivo, e di uno più comprensivo, ma di trovare nel Moloch
semantico dell’irrazionalità la sua pregnanza specifica. Sotto la coltre dell’irrazionalità
covano, dunque, tre concetti distinti: «[1] l’alogicità, come contrassegno di un contenuto
determinato nell’ambito del pensabile, [2] la nudità logica, come la situazione, lo stare di un
qualsivoglia Qualcosa fuori dal senso teoretico e [3] l’impenetrabilità logica, come l’essenza
funzionale del materiale categoriale, dunque di un qualsivoglia Qualcosa, nella misura in cui
forma [bildet] il materiale nel senso teoretico» 2 . Tuttavia, dipanata la matassa che restava
ancora avvolta attorno al concetto di irrazionalità, resta in vigore una questione: che cosa –
nonostante l’esibita plurivocità – serrava insieme significati così differenti? Ovvero, cosa
rivela Lask dietro il loro sfaldamento? Si intravede qui un doppio equivoco dietro l’oscura
sovrapposizione semantica, che il concetto di irrazionalità recava con sé – ancora nella
filosofia trascendentale dei valori, vale a dire nei progetti epistemologici, e metodologici, di
Windelband e Rickert –: l’identificazione del razionale con il generale, e dell’irrazionale con
il particolare. È possibile infatti sostenere la definizione del particolare, dell’individuale
come resto irrazionale, solo se si assume quale riferimento la razionalità come regolarità, ossia
come costanza generale nella variabilità delle specificazioni; insomma, si può identificare das
Besondere con das Übrig-bleibende, con ciò che rimane, con il margine irriducibile alla generalità
normativa, se e solo se si lasciano coincidere – come risulta dalla lettura laskiana di Platone
e da quella della Verquickung lotzeana – il concetto di valore e quello di generalità, das
Geltende e die gattungmäßige Allgemeinheit, il valente e la generalità generica. Altrimenti,
risulterebbe chiaro che «la relazione dell’individuale e del concreto al generale ed

1 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 77.


2 Ivi. La numerazione tra parentesi quadre è un’aggiunta esplicativa della nostra traduzione. In margine a
queste righe, Lask appone una complessa annotazione – ivi, pp. 275-276 – : «La relazione al non-partecipabile
[Nichtmitteilbaren] è semplicemente relazione all’alogico (= «intuizione», sensibile e non-sensibile). L’esperienza
immediata [unmittelbare] significa solo l’esperienza irriflessa del nudo logico. L’esperienza non immediata è
quella del rivestimento del logico. Laddove qualcosa si presenti come materiale, questo può anche trovarsi
come nudo logicamente dinanzi ad un’altra esperienza. Tutto ciò che è, così come è, può essere esperito
immediatamente, sia l’irrazionale che il razionale. Ma il razionale esperito immediatamente è altro
dall’irrazionale esperito immediatamente. Il suo carattere emergente è sempre la razionalità = univocità,
fissabilità, determinabilità concettuale. Questa è in verità è l’unico carattere che può essere applicato e
concepito in ogni cosa in generale! Ciò che viene riguardato è sempre restituito come irrazionale, pur essendo
riguardato dal razionale. Questo è tutto! Se diciamo: indescrivibile, ecc., diciamo o: questo non è logico, ma
alogico, oppure questo è impenetrabile al riguardo. Il secondo segue dal primo. Dunque: 1. Alogicità,
estraneità al logos, immediatezza = ciò che è chiuso in sé, che non è partecipabile; 2. Immediatezza = non
essere procurato [vermittelt] dal logico, ma logicamente nudo; 3. eventualmente si può dire solo esperito, non
penetrato; il rivestimento logico non sostituisce l’esperienza».

212
Il Pathos della Forma

all’astratto, dunque del materiale al materiale, del senso al senso, non ha niente a che fare
con la forma e con il materiale» 1 .
Qui dunque giunge a compimento la meditazione laskiana sul Formprinzip, quel laborioso
disegno che consisteva nello slacciare la valenza, nelle sue distinte modalità, dalla generalità,
l’inconsistenza, l’irrealtà della prima, dalla consistenza, dalla realtà, della seconda. Se –
ripetendo il paradigma mereologico, l’esemplarità del rapporto parte-tutto, a più riprese
utilizzato da Lask nel Fichtesbuch, proprio per illustrare il concetto trascendentale di
particolarità – la specie è nel genere, ne è parte, se l’unità di un genere, la generalità del
genere, è l’appartenenza del genere alla propria generalità, viceversa la forma è sul, am,
materiale, vi è attorno, ne è il contorno, la circoscrizione, così che la formalità di un
materiale, l’oggettualità, ad esempio, di un oggetto, la forma della sua unità, è una parte di
quella medesima unità, ed è una parte non-indipendente. Isolare un genere significa ottenere
l’ampiezza di un ambito, in cui ricadono le specificità efferenti, far presente una forma, ed
una forma nella sua purezza analitica vuol dire esporre un’indicazione, un bilico, un procinto,
un varco. Dunque, isolare un genere coincide con la sua costruzione, con la sua definizione
apofantica, al contrario la presentazione di una forma, ovvero l’ideazione formale, riguarda la
sua medesima formazione figurale.
A questo riguardo, Lask stende una delle Bemerkungen più puntuali, sentendo ormai
l’esigenza di lasciar seguire alle tracce appena tracciate sulla generalità, un discorso ben più
ampio e coerente, capace di toccare il cuore del problema della conoscenza, in quanto
atteggiamento, dedizione a ciò che è, per come è. «Quanto al problema del genere e della
generalità – osserva Lask – bisogna qui considerare che qui non si tratta solo della sfera
delle oggettualità riflessive, piuttosto nella sfera di ciò che è rifigurativo [abbildliche], non-
oggettuale. I contenuti generici infatti non sono esperibili in quanto tali originaliter, pur
derivando dalla pienezza contenutistica [Vollinhaltlichkeit]! Non bisogna mettere nella sfera
della rifigurazione, ciò che è un mero prodotto [Geschöpf] delle categorie? La sfera riflessiva
non conduce a quella rifigurativa?» 2 .
Il passaggio dall’oggettuale al non-oggettuale, dalla logica oggettuale a quella non-
oggettuale, dall’oggettualità formale nella sua costitutività – la cosalità – e nella sua
riflessività 3 – la rete di correlazioni, che consente di riguardare un qualcosa come questo

1 Ivi, p. 78. Più avanti – ivi, p. 79 – Lask precisa ancora: «Si osservi solo che: la piena effettualità concreta

vale così quanto poco valgono le sussistenze generiche. Dunque ambedue sono senso, in ambedue si
distingue forma e contenuto. Ambedue si possono considerare come tutto, cioè come senso totale, perciò né
come essere né come Valere. Piuttosto in ambedue il materiale appartiene all’essente, la forma al valente.
Ambedue contengono materiale dell’essere sensibile, dunque non-valente, anche il generico».
2 Ivi, p. 79.
3 Come è stato mostrato nell’esposizione della costituzione delle oggettualità categoriali, la determinazione di

un’unità – un oggetto – tuttavia non ancora identificata – un qualcosa – viene compiuta seguendo un ordine

213
Il Pathos della Forma

qualcosa identico a se stesso, e differente da altro – alla sua formulazione non-oggettuale, al


pronunciamento in merito, all’asserzione, all’assunzione, al giudizio, rappresenta il
problema che ancora ci si fa innanzi: quell’interrogativo cogente che già covava sulla
dottrina delle categorie come oggettualità formali, e che ora non può più essere
procrastinato.

§. 4. Dall’oggetto all’obbietto.

La rivoluzione copernicana coincide per Lask, come già abbiamo appurato, con
l’introduzione degli oggetti nell’ambito logico, ovvero nella considerazione dell’oggettualità
come un carattere logico: la determinazione anzi, oltre di un’idea trascendentale della logica,
anche di un distretto trascendentale in essa, corrisponde proprio all’assunzione di fenomeni
logici oggettuali. Tuttavia ciò non risolve affatto la sua estensione. «Introducendo» – nota
infatti Lask – «una tale teoria del logico-oggettuale, non vengono rimossi tutti quei vecchi
temi della logica, indicanti fenomeni, che non erano presenti nella regione oggettuale stessa,
ma si collocavano ad una certa distanza da questa. Tale allargamento della logica oltre i suoi
antichi confini reca con sé una struttura complessiva, completamente nuova. Pertanto,
come una singola scienza, essa adesso deve abbracciare l’ambito problematico della
significanza teoretica oggettuale e di quella non-oggettuale. La frattura, che prima separava
l’oggetto ed il Logico, si è ora trasformata in una distanza omnidominante all’interno del
Logico. Ciò che è raffigurativo [das Nachbildliche] e privo di significato oggettuale non
risolve più in sé il Teoretico, piuttosto ne diventa un modo. Quello che prima era la totalità
del Teoretico, è decaduto al rango di regione secondaria. L’intera logica deve scindersi,

di fondazione della parte non-indipendente su quella indipendente, ovvero della categoria riflessiva che si
riferisce alla forma di qualcosa, di qualsiasi qualcosa – nelle categorie della identità, della causalità, ecc. – sulla
categoria costitutiva che si riferisce alla determinatezza di un ambito oggettuale. In questo senso, egli sostiene
il primato delle categorie costitutive – che valgono dunque anche come costituenti – su quelle riflessive,
mantiene il piano che era stato definito dalla dottrina delle categorie windelbandiana, sull’indicazione diede di
questa differenza che diede Kant nell’Appendice alla dialettica trascendentale. Cfr. W. WINDELBAND, Logik, in Die
Philosophie im Beginn des zwanzigsten Jahrhunderts. Festschrift für Kuno Fischer, II. Ed. Heidelberg, 1907, Carl Winter's
Universitätsbuchhandlung, pp. 183-207; trad it., Logica, I, Napoli-Palermo, 1914, p. 28. Tuttavia Lask non
condivide che la suddivisione tra categorie costitutive e categorie riflessive coincida con quella tra essere e
valere, assegnando le prime alla logica trascendentale e le seconde a quella formale, considerando invece
l’intero ambito categoriale come valente, e la differenza, invece, tra essere e valere, tra regione dell’essente e
regione del valente, come la differenza costitutiva. Così anche la redazione delle tavole categoriali, fatta
dall’allievo appare diversa da quella del maestro: la identità e la causalità sono ad esempio costitutive per
Windelband, riflessive per Lask. Da ciò deriva una diversificazione della logica laskiana rispetto a quella di
Windelband, anticipando già ciò che avverrà nel suo riposizionamento della logica apofantica, nel
ripensamento compiuto del senso della relazione, della sintesi e della differenza. Cfr. WINDELBAND, Über
Gleichkeit und Identität, in «Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften», Stiftung Heinrich
Lanz Philosophisch-historische Klasse Jahrgang 1910, 14. Abhandlung, cit.

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Il Pathos della Forma

secondo la sua più alta suddivisione, in una dottrina dei fenomeni logici oggettuali ed in una
di quelli non-oggettuali, in una logica “trascendentale”, “teoretica della conoscenza” e
“materiale”, da un lato, ed una logica “formale” dall’altro. Nella logica formale bisogna
includere tutti i fenomeni logici, che si trovano a distanza dagli oggetti e cioè sono privi di
significato oggettuale» 1 .
Lask recupera così l’interezza della distesa logica, attraverso un ulteriore significato di
forma: se, infatti, fino ad ora abbiamo inteso per forma la forma1 dell’oggetto, il modo in cui
qualcosa vale come oggetto, vale a dire la sua appartenenza al plesso categoriale – alle
oggettualità formali – in quanto composte di forma categoriale e materiale categoriale,
dunque una determinazione formale interna all’oggetto, una forma contenutistica, adesso si
comincia ad assumere per forma anche la forma2 della correlazione in cui l’oggetto si trova, in
cui l’oggetto si rinviene in quanto predicato, enunciato, asserito, riconosciuto come tale,
quindi una determinazione formale esterna all’oggetto, una forma strutturale 2 . In questa
seconda occorrenza, l’oggetto funge da polo materiale della forma2, corrispondendo alle
locuzioni forma del giudizio, forma della proposizione, forma dell’atteggiamento del
soggetto conoscente, forma della Bemächtigung logica, forma cioè del padroneggiamento logico
dell’oggetto. Argomento della logica formale sarà pertanto comprendere che ne è della
forma dell’oggetto – la forma contenutistica –, od, in altri termini, capire in che cosa consista il
passaggio dall’oggetto all’obbietto, come è possibile distinguere l’Objekt dal Gegenstand, come è
possibile rendere la distanza che vi insiste.
L’attestazione polemica da cui Lask muove – in coerenza con il proprio intendimento
della trascendentalità della logica, quale costitutività delle oggettualità formali nella logica,
costitutività, allo stesso tempo, teoretica ed antepredicativa, vorprädikatives 3 , non deducibile

1 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, cit., II, pp. 286-287.
2 Ivi, p. 385: «Storicamente è stata proprio la filosofia kantiana il teatro del doppio concetto di forma,
lasciando che, nell’epoca copernicana della logica, trovassero posto l’uno accanto all’altro il vecchio ed il
nuovo concetto di forma. Laddove Kant stabilisce il concetto di “logica formale”, contrapponendo
l’”oggetto” o l’”obbietto” alla “mera forma” non-oggettuale “del pensiero”, alla “forma intellettiva”, in
quanto “contenuto” o “materia”, anche i momenti di unità, in sé semplicemente analitici, vengono indicati
come “forme meramente logiche”, “funzioni logiche” “senza alcun contenuto”, cioè senza riferimento
all’oggetto, così da caratterizzare la logica formale come indifferente ad ogni differenza dell’obbietto ed alle
sue parti costitutive sia “empiriche” che “trascendentali”. Tuttavia Kant tende a ridurre questa “forma del
pensiero in generale”, la “mera forma della conoscenza”, “le leggi generali e formali dell’intelletto e della
ragione”, alla “forma della verità” od alla “verità formale”, alla “forma logica in vicendevole relazione con la
conoscenza”, cioè alla regione delle complessioni veritative, su cui, secondo questa visione, domina come
principio supremo, il principio di contraddizione; egli infatti è incline in generale a dissolvere la “forma”
raffigurativa del giudizio nelle relazioni “formali” reciproche tra i giudizi, dunque nell’”analitico”, in questo
senso ristretto dell’essere contenuto l’uno nell’altro».
3 Se è evidente oramai la considerazione non-predicativa dell’impianto categoriale, considerato piuttosto come

un ambito di oggettualità formali, a loro volta analiticamente riconducibili a forme sostrato – materia
categoriale – e forme sintattiche – le forme categoriali, che ecceterando il proprio riferimento determinano la
scala riflessiva in quanto forme di forme, la cui indicazione contenutistica viene sostituita dalla forma della
contenutezza – è tuttavia un hapax, nell’intera opera laskiana, la definizione dell’ambito oggettuale della logica

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Il Pathos della Forma

cioè dal giudizio – sancisce con massima chiarezza la posizione storico-filosofica raggiunta.
«Fino ad ora» – scrive, avendo dinanzi, disposta in bella mostra la propria ascendenza
scolastica, quelle riflessioni, di cui ritiene ancora di dover conservare l’orientamento, pur
essendo maturato un ineludibile allontanamento 1 – «veniva riconosciuto al giudizio una
posizione privilegiata all’interno della logica, o perché pre-copernicanamente l’oggetto, da
cui si riconosceva separato da una distanza [Distanz], non sembrava più posto nell’ambito
del logico, o perché, mediante la introduzione copernicana degli oggetti nella logica, si
scopriva la sporgenza [Abstand] del giudizio dal logico-oggettuale. Nonostante nella logica
generalmente influenzata da Kant si acceda alla relazione tra giudizio ed ambito
problematico trascendentale, tuttavia non si trovano considerati i limiti tra regione del
giudizio e quella delle categorie» 2 . Se cioè si considerasse per oggetto solo la consistenza
effettuale, l’arcana esteriorità su cui, per adeguazione, pronunciarsi, appellandosi alla sua
inevocabile testimonianza 3 , se – corrispondentemente – per logica si intendesse solo la sua
formalità apofantica, l’irrisolutezza del rapporto riguardante, dello Über-Verhaltnis, il piano
aristotelico dell’asserzione, della κατάφασις, del λέγειν τί κατά τινος, e per oggettualità solo ciò
che si dice a riguardo dell’oggetto, e di ogni oggetto – la generalità degli oggetti, il predicato
generale valido per l’estensione degli oggetti – l’assetto proposizionale non potrebbe che
risolvere in se stesso l’interezza della logica. Laddove, invece – e questa è la irremeabile
frattura copernicana – si include la significanza oggettuale nel logico, spalancando così
l’ambito della precedenza costitutiva, ove la forma dell’oggetto è oggettualità formale, ove
l’oggettualità è la forma in cui ciascun oggetto si costituisce, è la forma che consente
all’oggetto di balenare, vorschweben, di rendersi presente quale oggetto, e l’essere non è altro

come vorprädikatives, rinvenibile nel secondo capitolo della Lehre, all’interno del paragrafo dedicato alla logica
formale come logica dei fenomeni non-oggettuali. Nell’Urzustand, nello strato originario oggettuale della logica, forma
categoriale e materiale categoriale, scrive Lask – ivi, p. 378 –, «conducono un’esistenza pre-soggettiva ed ante-
predicativa [ein vorsubjektsartiges und vorprädikatives Dasein]».
1 Ancora nella prefazione alla Lehre, Lask dichiarava, con sincera nettezza, che «anche laddove il presente

studio, discutendo l’idea di valore, ed in particolare l’opposizione di valore, crede di dover andare oltre le già
esistenti dottrine del valore teoretico, lo fa sul terreno preparato alla logica, proprio dalla teoria del valore.
Windelband nei suoi «Preludi» e nel saggio, incluso nel Festschrift für Zeller, «Contributi alla dottrina del giudizio
negativo», è riuscito a compiere, mediante la dottrina del valore, un passo decisivo, per determinare la patria
effettivamente propria della logica, all’interno della totalità della filosofia. L’«Oggetto della conoscenza» di
Rickert, poi, è stato e rimane il libro fondamentale per ogni ricerca logica sulla teoria del valore». Ivi, p. 285.
2 Ivi, p. 289.
3 I. KANT, Logica, cit., pp. 43-44: «La verità, si dice, consiste nell’accordo della conoscenza con l’oggetto.

Secondo questa definizione meramente nominale, la mia conoscenza, per valere come vera, deve dunque
accordarsi con l’oggetto. Ma io non posso confrontare l’oggetto con la mia conoscenza in altro modo che
conoscendolo. La mia conoscenza, dunque, deve confermare se stessa, ma ciò è ben lungi dall’essere sufficiente
per la verità. Infatti, siccome l’oggetto è fuori di me e la conoscenza è in me, tutto quello che io posso
giudicare è sempre solo se la mia conoscenza dell’oggetto si accorda con la mia conoscenza dell’oggetto. Un
tale circolo nella definizione veniva chiamato dagli antichi diallele. E in effetti è proprio questo difetto che è
stato rimproverato ai logici da parte degli scettici: essi rimarcavano che con quella definizione della verità
succede come quando qualcuno fa una deposizione davanti al tribunale e, facendola, si appella a un testimone
che nessuno conosce, ma che si renderebbe credibile affermando che colui che l’ha invocato come testimone
è un uomo onesto».

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Il Pathos della Forma

che la mostrazione dell’ente, in quanto la sua traccia categoriale è l’indicazione e non la


predicazione od il pronunciamento, allora è inevitabile considerare la distanza, ancora una
volta logica, che si apre tra l’apofansis e ciò a cui si riferisce, o meglio tra il senso o
contenuto dell’enunciato giudicativo e l’oggetto. Cioè, la distanza, o meglio la correlazione a
distanza tra ontologia formale ed apofantica formale 1 .
Qui si concentra quel problema delle forme, che Heidegger riferiva alla Lehre laskiana, come
«problema eidetico di essenza, senso e contenuto» 2 , ossia quale domanda in merito alla
differenziazione formale tra l’oggettualità categoriale ed il senso o contenuto del giudizio.
Dunque, secondo Lask, «nell’epoca del kantismo, la questione essenziale che orienta la
logica non è, come il giudizio si correli al “concetto” od alla “conclusione”. Ma il problema
fondamentale resta contrassegnarne la distanza dall’ambito della logica trascendentale» 3 .
Vale a dire, riconoscere quale sia il luogo proprio, Ort, della regione del giudizio all’interno
del quadro complessivo della logica, im Gesamtzusammenhang der Logik. A tale scopo, si
introduce una descrizione topografica, ove si rendono le posizioni rispettive dei due ambiti
logici come se appartenessero al medesimo piano figurativo del pensiero. Quell’assunzione, che
Lask aveva guadagnato nel confronto serrato principalmente con la filosofia fichteana, per
quanto ripartiva, appunto, da come nella dottrina kantiana dello schematismo veniva
disposto il problema trascendentale dell’oggetto, emendando proprio in quel luogo testuale
l’identificazione tra Bilden e Bildungskraft, l’assunzione dirimente cioè secondo cui il pensiero
è figurazione, quell’assunzione, si diceva, è dare figura a qualcosa – ove il qualcosa è la mera
proiezione della figura – e l’interezza della logica, in quanto implesso di tutto il pensabile, è
figuratività, giunge ora alla sua prova decisiva. È necessario poter dare conto della distanza
tra ambito logico oggettuale, l’ambito delle oggettualità ideali – la dottrina delle categorie, in
altri termini – e quello non-oggettuale, includente il riferimento a quei medesimi oggetti – la
dottrina del giudizio – come di una differenza tra modalità di figurazione. È in questo senso

1 Sulla distinzione e correlazione su apofantica formale ed ontologia formale, Husserl scriveva nella Logica
formale e trascendentale, che «è appena necessario ricordare il fatto che giudicare non ha altro significato che.
Giudicare intorno ad oggetti, enunciare proprietà di essi, o determinazioni relative; così si deve notare che
ontologia formale ed apofantica formale, nonostante la loro tematica dichiaratamente diversa, debbono essere
assai unite, e forse sono inseparabili. Ma in definitiva tutte le forme di oggetti, tutte le forme di modificazione
del Qualcosa in generale, intervengono nell’apofantica formale stessa, così come in modo essenziale i fattori
costitutivi (proprietà e determinazioni relative), gli stati di cose, i collegamenti, le relazioni, le totalità e le parti,
gli insiemi, i numeri cardinali e quali altri modi dell’oggettualità si vogliano, esplicati in concreto ed
originariamente, esistono per noi veramente o sono possibili solo in quanto intervengano in giudizi. Perciò in
tutte le distinzioni formali di giudizi sono anche complicate le differenziazioni delle forme degli oggetti
(comunque questo «essere implicato» e questo «intervenire» debba ulteriormente chiarirsi)». E. HUSSERL,
Formale und Transzendentale Logik, in in Hua, cit., Bd. XVII, p. 69; trad. it., Logica formale e trascendentale, cit., p.
96.
2 M. HEIDEGGER, Zur Bestimmung der Philosophie, in GA, cit., Abt. II, Bd. 56/57; trad. it., Per la determinazione

della filosofia, cit., p. 123. Desta altrettanto interesse che Heidegger, continuando la nota, intessa la questione
enunciata al problema del mondo e dell’esperienza vissuta, indicando come esito il problema della significatività in generale.
3 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, cit.,II, p. 288.

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Il Pathos della Forma

che deve essere intesa la definizione che Lask dà delle due sfere logiche: l’una, quella
logico-oggettuale, come urbildlich, gegenständliche Urbild, l’altra, quella, quella logico non-
oggettuale, come nachbildlich, Nachbild. Ovviamente – ed è già stato notato nel corso
dell’Auseinandersetzung con Platone – tale utilizzo terminologico reca con sé ingenti problemi
concettuali. Cosa deve intendersi con Urbild e Nachbild? Quale è la funzione semantica della
ripetizione della radice Bild, quale quella della distinzione tra Ur- e Nach- 1 ? Nell’intenzione
di dissipare qualsiasi equivoco nominale su questi termini, Lask – in osservanza alla sua
brachiologia – chiarisce che la compagine del giudizio «non è una mera copia, che ripete
l’oggetto [ein bloßes wiederholendes Abbild des Gegestandes], ma una semplice “ri-figurazione”
[“Nachbild”], caricata di un fenomeno, che non ha originale [Original] nella figurazione
originaria [Urbild]» 2 . La Nach-bildlichkeit, o meglio il nachdem che caratterizza la figuratività
propria della complessione del giudizio, non ricade nella conformazione all’ostensione di
un modello, Vor-bild, che a parità di consistenza accede al suo primato in virtù di una
precedenza temporale. L’adeguazione è possibile tra elementi materialmente omogenei – ad
esempio è possibile riproporre, ripetere la figurazione di un dipinto in un’altra opera, che
può essere anche differente per morfologia, può appartenere cioè ad un altro dominio
artistico, può ricadere in un aspetto della riproducibilità tecnica, - può essere un ritratto
fotografico, una composizione plastica, un’elaborazione informatica e non un altro dipinto,
ma in ogni caso conserverà lo statuto effettuale di opera figurativa. La catena della
ripetizione figurativa rimanda, dunque, sempre ad un ché di omogeneamente comparabile:
il circolo vizioso dell’Abbildtheorie – che Lask, così nota, muovendo dal magistero
rickertiano 3 – consiste proprio nella regressiva retrocessione sempre al medesimo strato

1 Che la difficoltà di rendere un corretto significato all’Urbild sia strettamente legato alla determinazione della
coppia di cui fa parte è un importante suggerimento che traiamo dalla redazione del lemma Urbild ad opera di
T. Borsche, nell’ Historisches Wörterbuch der Philosophie, op. Cit., pp. 354-355. Il mantenimento infatti
dell’accezione, tratta dalla metafisica platonica, di α̉ρχέτυπος, archetipo, si riflette infatti nella permanenza del
concetto corrispondentemente contrario di Abbild, raffigurazione, copia, riducendo dunque il primo tarmine
alla stregua di Vorbild, Muster, ossia modello. Solo raramente – nota Borsche – è possibile rinvenirlo in
contrapposizione a Nachbild. La nostra intenzione ermeneutica sarà dunqe di far emergere la peculiarità della
coppia Urbild-Nachbild, accostandola esemplarmente all’utilizzo logico-linguistico a quella di παράδειγμα-
σύνταγμα, paradigma-sintagma, quindi presentazione, esposizione, e composizione. Un’accezione logico-
fenomenologica di sintagma, viene offerta da Husserl, in quanto concreta unità delle materie sintattiche nelle loro forme.
Il sintagma «non è dunque se non unità del membro nella proposizione, il quale è materia formata, avendo
presente la legge essenziale per cui memebri diversi possono avere la stessa forma ma materie diverse, e
forma diversa ma la stessa materia». E. HUSSERL, Formale und Transzendentale Logik, in Hua, cit., Bd. XVII, p.
268; trad. it., Logica formale e trascendentale, cit., p. 373.
2 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, cit., II, p. 363.
3 E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 42, p. 277. L’esempio di critica all’Abbildungstheorie – in H.

RICKERT, Gegestand der Erkentnis, cit., pp. 79-81 – illustra chiaramente ciò che è in gioco a questo riguardo tra
l’allievo ed il maestro. Rickert considera la Abbildungstheorie nelle due possibili varianti, quella metafisica, anche
nella sua versione schopenhaeriana del Welt als Vorstellung, e quella psicologistica, della soggettività empirica,
psicofisica. «Se assumo – nota Rickert – anche le mie rappresentazioni come una copia del mio ambiente, è
ovvio che veda il mio ambiente come un qualcosa di completamente indipendente dalle mie rappresentazioni.
Le rappresentazioni sono, come posso notare presso un soggetto estraneo, in me stesso, mentre le cose sono

218
Il Pathos della Forma

contenutistico. Perché le oggettualità formali, la valenza delle oggettualità formali potesse


fungere da Urbild in quanto Vorbild, sarebbe necessario tradurla in un deposito generale,
scambiare ancora una volta la forma del contenuto con il contento generale, la formalità
con la generalità. Viceversa, l’impossibilità di rendere l’Urbild come originale deriva proprio
dalla sua inconvertibilità in una gattungsmäßige Allgemeinheit, in una generalità generica.
Il disegno, dunque, del dominio logico come composto di una regione logico-oggettuale
ed una logico-non-oggettuale, indica la differenza insistente quale distanza, relazione
espressa tramite la distanza, l’Abstand, ove per distanza si intenda lo spazio della
commisurazione, l’ambito in cui è possibile misurare il grado di complicazione strutturale dei
fenomeni logici. «Una volta riconosciuta correttamente la posizione del giudizio» – scrive
Lask – «si chiariscono tutti i restanti gradi dei fenomeni logici» 1 , intendendo così l’intero
compito della ricerca logica come una misurazione degli indici strutturali. Il concetto di misura
che qui ricorre, è evidentemente un concetto funzionale; è cioè esso stesso portatore di una
correlazione tra almeno due membri, in cui soltanto rinviene la propria validità. In
quest’accezione, la misurazione corrisponde all’analisi di una funzione. «Ma non ci si può
fermare a questo postulato generale di un orientamento e di una commisurazione del
giudizio rispetto alla originaria regione logico-oggettuale. Il giudizio è allo stesso tempo
chiaramente rivolto in qualche modo all’oggetto, pur essendone separato da una distanza.
Bisognerà dunque assumerlo come un medio per la prensione raffigurativa dell’oggetto.
Nel giudizio si ha in qualche modo a che fare con gli elementi oggettuali, in quanto nella
formazione del giudizio viene in qualche modo elaborato l’oggetto. La rilevanza non-
oggettuale tributata nel passato al giudizio sarà in armonia con un siffatto incorporamento
dell’oggetto nella formazione del giudizio solo se l’essenza del giudizio si troverà ad una tale

fuori di me. Nasce così una duplicazione del mondo, una divisione dell’essere in una effettualità ed un mondo
di rappresentazioni come fosse la sua copia. Solo sotto questi presupposti può aver senso pensare che la
conoscenza consista in un accordarsi delle rappresentazioni alle cose esistenti in se stesse». Nel medesimo
errore della duplicazione – condizione medesima del regressus in infinitum verso il reperimento di un modello
ultimo – si cade già considerando, che si possano pensare rappresentazioni in un soggetto corporeo, dunque
separate spazialmente dagli oggetti». Di qui, tuttavia per Rickert discende la negazione della nozione stessa di
differenza, che recava con sé l’Abbildungstheorie, richiamando la filosofia trascendentale alla centralità teoretica
della soggettività giudicante, condizione dell’elaborazione concettuale delle forme dell’esperienza. La
questione dunque diviene se sia ammissibile l’inclusione della distanza, della Kluft, della frattura, meglio
dell’abisso, che Lask opera nell’intera sua scrittura logica, ed in particola nelle Lehre, pur pretendendo di rimanere
nei confini della Logos-immanenz, dell’immanenza logica. Come si ridispongono però rispettivamente
immanenza e trascendenza quando si indica pur sempre un Abstand, certo non tra originale e copia, ma tra
figurazione originaria e rifigurazione? L’esame dell’introduzione di una nozione di Transzendenz, non come
eccedenza, ma come indipendenza, dunque come la parte indipendente rispetto a quella non-indipendente,
nello schema mereologico husserliano, interna al Logos, rappresenterà nel corso di questo capitolo il foro
naturale in cui rispondere questa domanda essenziale, quanto al confronto tra Rickert e Lask.
1 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, cit., II, p. 290.

219
Il Pathos della Forma

lontananza dall’oggetto, da sfociare in una elaborazione, per così dire, deformante od in


una trasformazione dell’oggetto» 1 .
Per introdurre allo studio specifico dell’articolazione del giudizio – la disposizione delle
sue parti, la distinzione tra senso, obbietto, oggetto, da un lato, e decisione, affermazione, o
negazione, ed attività giudicante dall’altro – Lask traccia a grandi linee un quadro storico-
filosofico, in cui ritrovare le diverse modalità – essenzialmente prima e dopo la impresa
copernicana – di rendere la differenza, o la distanza, tra i due ambiti logici. «Per il punto di
vista precopernicano la distanza tra la regione del giudizio e gli oggetti deve risultare
semplicemente ovvia, essendo stata forzatamente ridotta a distanza tra Teoretico e Meta-
teoretico. Dunque il Teoretico in quanto tale si trova alla distanza della raffiguratività
rispetto agli oggetti. Il Teoretico si distingue dall’originaria figurazione oggettuale
[gegenständlichen Urbild] mediante l’esibizione di alcune complicazioni strutturali, mancanti
negli oggetti stessi, cioè prive di significato oggettuale, le quali, essendo composte da
elementi estratti dalla regione oggettuale, si aggiungono alla „materia“ oggettuale come
„forma“ specifica del Teoretico. Pertanto, anche nella filosofia prekantiana, si trovano l’una
di-contro all’altra le due scienze della metafisica e della logica, che indagano,
rispettivamente, l’originaria figurazione oggettuale e la raffigurazione teoretica» 2 .
Tuttavia, questo disegno obbliga a riportare la menzione dell’ampia e rilevante
controversia riguardo alla logica aristotelica in generale, o meglio riguardo al suo rapporto,
difficilmente determinabile, con la metafisica 3 . Lask restituisce cioè – e ciò verrà tematizzato più
distesamente affrontando la dottrina aristotelica della verità, i cui caratteri essenziali sono
tratti dalla trattazione brentaniana sui molteplici significati dell’essente, ove proprio il carattere
dell’essere vero viene estromesso dalla significatività ontologica, intendendo l’όν ως αληθές
sussistente solo nel pensiero, ε̉ν διάνοια 4 – una versione problematica della definizione

1 Ivi, pp. 290-291.


2 Ivi, p. 353.
3 Ivi, p. 231.
4 F. BRENTANO, Von der mannigfachen Bedeutung des Seienden nach Aristoteles, Freiburg, Herder, 1862; trad. it. di S.

Tognoli, Sui diversi significati dell’essente, intro. di G. Reale, Milano, 1995, p. 45. «Anche quando il soggetto della
proposizione» – scrive Brentano – «è un concetto reale, la copula essere e l’essere come vero si muovono
intorno al restante genere dell’essere […] senza portare a manifestazione alcuna particolare natura dell’essere
esistente al di fuori della mente». Al contrario – ivi, p. 78 – «Le categorie non sono semplicemente una
struttura per concetti, ma sono esse stesse concetti reali, esseri per sé al di fuori della mente (ό̉ντα καθ’αυτό
έ̉ξω τη̃ς διανοίας)». Tuttavia, nella lettura brentaniana di ARISTOTELE, Metafisica, Δ 7, 1017° 22 – ο̉σαχω̃ς γάρ
λέγεται τοσαυταχω̃ς τό ει̉ναι σημαίνει – quale «l’essere ha tanti significati quanti sono i modi in cui si esprime»,
cova – da un punto di vista copernicano – un’ambiguità, consistente nella sovrapposizione di categoria e
predicamentum. Egli scrive, infatti – ivi, pp. 120-121 –che le categorie possono essere intese sia come 1) «i
diversi significati dell’essere che si differenziano tra loro secondo i diversi modi dell’esistenza in quell’essere in
cui tutto è essente, nella sostanza prima», sia come 2) «predicati nei quali si raccoglie l’intera molteplicità dei
modi della predicazione; predicati che esauriscono i modi della predicazione per un intera somma di cose
predicabili». Tale ambiguità, se da un lato tradisce quanto scivolosa sia la superficie della dottrina aristotelica
delle categorie, assume un carattere specifico invece se passa per la sovrapposizione dei due termini –

220
Il Pathos della Forma

dell’impianto categoriale, in Aristotele, e della sua complessa articolazione, laddove si faccia


questione della sua determinazione logica e della sua correlazione con la proposizione, o
giudizio. Ciononostante, quello che accomuna, l’intera età precritica della logica, ma non la
distingue, è ancora una volta l’equivocazione della dimensione formale; infatti, «il fenomeno
strutturale teoretico assume il ruolo della „forma“, oltre che nel senso della messa-in-figura
[Umgestaltung] degli oggetti, anche in quello della generalità rispetto alla massa oggettuale
variabile. Dunque, il materiale oggettuale rappresenta la molteplicità sconfinata, ad esempio
della materia del giudizio, cioè di soggetto e predicato; invece, il fenomeno strutturale, ad
esempio la struttura del giudizio rappresenta il conio [Gepräge] sempre uguale, con il suo
carattere di valenza e di valore, con la sua qualità positiva e negativa e dunque con la sua
copula, con la duplicità del suo strato elementare. L’incommensurabilità [Unermeßlichkeit]
degli oggetti si piega così in alcune, poche forme» 1 .
Viceversa, assumendo l’oggettualità formale delle categorie all’interno dello Spielraum
logico, l’impianto complessivo di una transzendentale Logik non designa la distanza in
questione fuori, al di sotto – nelle bassure dell’esperienza – od al di sopra – come
ipostatizzazione metafisica – della teoresi, ma la considera ad essa interna. Il tema della
Nachbildlichkeit non viene perciò stesso eluso, come se potesse cadere insieme alla sua
traduzione nella teoria scolastica della conoscenza come raffigurazione, ma è situato
piuttosto nel medio dell’articolazione logica. «La posizione della raffiguratività» – scrive
Lask – «si nega cioè solo per il Teoretico in quanto tale ed in generale, ma non per la regione
del giudizio. Ciò che sta a distanza dagli oggetti, non è più d’ora in poi il Teoretico, ma un
Teoretico. E la funzione dell’originaria figurazione non viene assunta più da una ragione
metateoretica, ma da una altrettanto teoretica. Perciò rimane tutto quanto è stato asserito
dalla logica prekantiana sulla regione del giudizio, solo che non vi si trova più l’essenza del
Teoretico in generale. La regione, che figura originariamente [urbildlich] e quella raffigurativa
[nachbildlich] non sono più l’una rispetto all’altra come l’una oggettuale e l’altra teoretica, ma
come l’una teoretico-oggettuale o originariamente figurativa e l’altra teoretico-non-
oggettuale o raffigurativa. Non è la teoria della distanza e della concordanza in generale
caratteristica esclusiva del punto di vista „dogmatico“, non è essa ciò, che con questo vige e
cade, quanto piuttosto la sua attribuzione della metalogicità all’originaria figurazione
oggettuale» 2 .

correlativi, uguagliabili logicamente, ma non identificabili – che Aristotele utilizza ai due capi della sua
comparazione: λεγέιν e σημάινει. È proprio dalla loro separazione – senso e significazione – che muove
l’indagine logica che stiamo conducendo al seguito di Lask.
1 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, cit. II, , p. 355.
2 Ivi, p. 356.

221
Il Pathos della Forma

Dunque, la riproposizione della relazione Urbild-Nachbild, figurazione originaria


dell’oggettualità formale delle categorie e rifigurazione delle medesime oggettualità nella
forma degli obbietti, la ripresentazione della figurazione degli oggetti, inclusa la loro
oggettualità, quali obbietti, compresa la loro obbiettività, si converte nella posizione del
problema della Über-Verhaltnis, che espulsa dall’ambito logico-oggettuale, trova in quello
logico-formale la sua vera dimora. La correlazione del riguardo – che si stende appunto su
quella distanza, su quella differenza, su quella frattura, in quanto mezzo di prensione degli
oggetti – impone uno studio del giudizio, che sia capace di scomporlo nelle sue parti
elementari, perché venga compreso il modo proprio del riferimento, del rivolgimento, della
Meinung, dell’intenzione 1 . Per ottemperare a questo compito analitico, Lask ricorre alla
considerazione degli studi di Brentano sulla psicologia da un punto di vista empirico –
raccogliendo però attorno a questo polo il ginepraio delle critiche per così dire empiriste alla
dottrina del giudizio, segnatamente quelle contenute nella Neue Kritik der Vernuft di Fries 2 –,
quelli di Windelband sulla dottrina dei giudizi negativi e quelli di Rickert sull’oggetto della
conoscenza.
Resti chiaro che la rassegna di queste ricerche afferisce sulla convinzione laskiana – che
già è stata evidenziata in precedenza – che la formulazione più compiuta ed avanzata del
giudizio nel corpus, quella cioè che riesce a rendere pienamente conto della posizione delle
nozioni trascendentali di contenuto e di obbietto, si debba ritrovare nella Kritik der
Urteilskraft, nella disposizione della riflessività, appunto, della formalità, del giudizio. Ciò,

1 Husserl, con toni ed argomentazioni senz’altro differenti, che conseguono dal rilievo concesso,
differentemente da Lask, alla trattazione pregnante di un’estetica trascendentale, riflettendo tuttavia della medesima
correlazione, scrive nella sua Logica formale e trascendentale, avendo consolidato il suo campo di indagine logica
distinguendo tra apofantica formale ed ontologia formale. Infatti «ca t e g or ia d e l l ’ o g g e t t u a l it à e c a t e g or ia
d e l l’ e v id e n za – osserva – s o n o c or r e la t i . A o g ni t i po f o nda m e nt a le d i og g e t t u a l it à – nel
senso di unità intenzionali che devono essere trattenute nella sintesi intenzionale, e in definitiva a ogni tipo
fondamentale di unità di «esperienza possibile», a pp art ien e u n t ip o fo nda me nta le
de ll’«e s perienza», de ll’evidenza, e altresì dello stile dell’evidenza, indicato intenzionalmente
nell’accrescimento eventuale della perfezione del possesso delle cose stesse.
Sorge così il grande c om p ito di studiare a fondo tutti questi modi dell’evidenza, di rendere comprensibili
quelli della massima complessità che concorrono verso una univocità sintetica e verso operazioni sempre
nuove di svelamento; dell’evidenza cioè in cui l’oggettualità corrispondente mostra se stessa, ora
imperfettamente, ora perfettamente». E. HUSSERL, Formale und Transzendentale Logik, in in Hua, cit., Bd. XVII,
p. 144; trad. it., Logica formale e trascendentale, cit., p. 200.
2 Lask dedica una lunga, seppur strozzata nota al merito critico di Fries riguardo alla dottrina del giudizio. «Si

accenni – scrive – soltanto al fatto che Fries riconosce nella maniera più chiara il carattere secondario,
raffigurativo, meramente “ripetitivo” del giudizio, che egli trae, insieme al concetto ed alla conclusione, dalla
regione logico-trascendentale, originariamente figurativa della “conoscenza immediata”, della “ragione”,
considerando la “conoscenza mediata”, la semplice “riflessione riconsiderante”, come “una mera formula
della rispesa di una conoscenza originaria”; vedi ad esempio, Neue Kritik der Vernunft, 1807, I, p. 188, pp. 198-
sgg., p. 202, p. 206, p. 210, p. 240, p. 266». Ivi, p. 405. Sul ruolo di Fries, e sul suo essenziale confronto con
Maimon, nella copiosa rinascita degli studi su logica e psicologia dopo Kant, si veda S. POGGI, I sistemi
dell’esperienza, cit., pp. 143-183. In particolare Poggi evidenzia nel piano complessivo della Nuova critica la
centralità di due nozioni, che ritroviamo nella riflessione laskiana: l’immaginazione come riunione figurale,
ovvero come costituzione figurale degli oggetti, ed il giudizio come struttura teoretica meramente riflessiva,
mediata, riproduttiva.

222
Il Pathos della Forma

come vedremo, ha tutt’altro che una rilevanza marginale, soprattutto per la determinazione
della Nachbildlichkeit des Urteils, ove l’accoglimento – seppure nella funzione di strumenti
polemici – di alcune osservazioni, o meglio, riserve psicologistiche, sembrerebbe altrimenti del
tutto incomprensibile.

4.1. Valutazione, giudizio e decisione giudicante.

1. Avendo distinto tra attività psichiche ed attività fisiche – in sostituzione della


suddivisione kantiana in atti interni ed atti interni – ed avendo assunto a principio
differenziante l’immanenza dell’oggetto nelle prime e la sua trascendenza nelle seconde,
laddove il πρός τί della relazione psichica si compie internamente all’essere cosciente, alla
Bewußt-sein 1 , Brentano considera come discriminante nella Klassifikation der psychischen
Phänomene, il modo specifico del riferimento all’oggetto. In virtù di ciò, i fenomeni psichici si
distinguono in tre specie: 1) la rappresentazione, 2) il giudizio, 3) la relazione affettiva –
interesse o amore – orientata alla diade buono/cattivo. «Parliamo di un rappresentarci –
scrive Brentano – quando ci appare qualcosa», così che «è impossibile che l’attività psichica
si riferisca in qualche modo a qualcosa che non sia rappresentata» 2 . Questo significa
considerare la Vorstellung l’atto più elementare nel rivolgimento intenzionale all’oggetto, lo
strato in qualche modo più basso, su cui inevitabilmente afferisce l’intera stratificazione
psichica. La rappresentazione di qualcosa, o meglio il qualcosa rappresentato funge da
elemento costitutivo dei contenuti degli altri atti psichici. Infatti, «quando l’oggetto di una
rappresentazione diventa oggetto di un giudizio affermativo o negativo, la coscienza si
riferisce ad esso in una specie di relazione completamente nuova. L’oggetto è allora
doppiamente presente nella coscienza – come rappresentato e come accettato o negato» 3 .
Se per giudizio intendiamo «un accettare (come vero) od un respingere (come falso)», è
necessario – nell’analisi brentaniana – assumere la posizione di un contenuto, già fatto
presente nella coscienza – che si possa accettare o rifiutare. Tuttavia, l’esibizione del
contenuto rappresentativo non soddisfa l’intera contenutezza del giudizio: contenuto del

1 F. BRENTANO, Von der Klassifikation der psychischen Phänomene, Leipzig, Duncker & Humblot, 1911; poi in
«Archiv für die gesamte Psychologie», Bd. 33, Leipzig-Berlin, Wilhelm Engelmann; trad. it di R. Bontempo,
La classificazione delle attività psichiche, Lanciano, Carabba, 1922, p. 26; Appendice, p. 108. Sulla dottrina del
giudizio in Brentano, sulle sue strette relazioni con quella aristotelica e sul suo possibile confronto con quella
laskiana, si veda l’ampia e doviziosa opera di S. BESOLI, Esistenza, verità e giudizio. Percorsi di critica e fenomenologia
della conoscenza, Macerata, Quodlibet, 2002, in part. i tre saggi su Esistenza e giudizio. Un confronto tra Brentano e
Leibniz – ivi, pp. 99-133 – , Fechner e Brentano: due modelli di psicologia en philosophe – ivi, pp. 135-160 –, La
psicologia descrittiva e il primato dell’esperienza. Sulle diverse impostazioni gnoseologiche di Brentano e Dilthey – ivi, pp. 161-
200.
2 Ivi, p. 26; cfr. F. BRENTANO, Psychologie vom empirischen Standpunkte, 1, Leipzig, Duncker & Humblot, 1874,

lib. 2, cap. 1, §. 3.
3 F. BRENTANO, La classificazione delle attività psichiche, cit., p. 30.

223
Il Pathos della Forma

giudizio non è semplicemente la relazione di quei contenuti, che isolatamente comparivano


nella rappresentazione 1 . «Non è vero infatti – rimarca Brentano – che in ogni giudicare
abbia luogo una riunione od una separazione di segni rappresentati» 2 . Tra giudizio e
rappresentazione sussiste piuttosto una differenza di intensità, di perfezione della presentazione;
ossia, nei due distinti atti psichici presi in esame, vi è una distinzione che risale alle modalità
di presentazione dell’oggetto. «Quando alla rappresentazione sopravviene il giudizio» – nota
Brentano – «si trova una specie di contrari del tutto nuova» 3 . Se è vero cioè che già nelle
rappresentazioni vi sono delle differenze sensibili, delle διαφορά – come sostiene Aristotele nel
Περί ψυχη̃ς – che descrivono l’ambito di sensibilità dei sensi, il caldo ed il freddo, il basso e
l’acuto, il dolce e l’agro, è solo nei giudizi, così come nelle relazioni affettive, che sottentra
l’ambito delle opposizioni, appunto tra vero e falso, o tra affermazione e negazione 4 .
Questo significa che «nei giudizi, sebbene essi non si mostrino in nessun modo
indipendenti dalle leggi generali del corso delle rappresentazioni, sopravvengono ancora
altre leggi particolari, che non possono essere derivate da esse» 5 . Insomma, a differenza dei
fenomeni appetitivi, il giudizio si riferisce alla relazione obbiettiva, e non semplicemente
all’oggetto 6 , ove l’obbiettività è data proprio dalla polarità tra accoglimento e ripulsa,
accettazione e rifiuto.
Proprio, dunque, in virtù della definizione del giudizio come posizione come vero (o
deposizione come falso), Brentano ritiene che la forma originaria del giudizio non sia quella
della determinazione categorica kantiana – ove la determinazione del contenuto è proprio la
complessione sussistente tra le note rappresentative – ma quella esistenziale, quella
dell’Existenz-Satz. «Le proposizioni veramente affermative categoriche – sostiene Brentano
– contengono inclusivamente il riconoscimento del soggetto. […] Quelle veramente
affermative, infatti, sono le cosiddette particolari affermative e le cosiddette particolari

1 Brentano quanto alla definizione della rappresentazione e del suo rapporto al giudizio, considera –
nell’Appendice a La classificazione delle attività psichiche, cit., pp. 122-123 – considera accettabile l’eccezione del
suo allievo Marty, secondo cui per esprimere il tenere ferma la rappresentazione in attesa del giudizio – dunque,
soprattutto nel caso di specie della interrogazione – si può utlizzare un’ulteriore classe di atti psichici, quella
dell’assumere, dell’Annehmen. Cfr. A. MARTY, Untersuchungen zur Grundlegung der allgemeinen Gramatik und
Sprachphilosophie, Halle a S., Niemeyer, 1908, pp. 244-sgg.
2 F. BRENTANO, La classificazione delle attività psichiche, cit.,, p. 39.
3 Ivi, p. 87.
4 Che il contenuto del giudizio sia definibile logicamente come ciò che può essere vero o falso, ovvero che il giudizio è ciò

che è passibile di affermazione o di negazione, deriva dalla definizione aristotelica – contenuta in Περί η̉ρμενεα, 4, 17 a
1-3, ripetuta nella forma α̉ληθής ού̉τε ψευδής, ivi, 17 a 4 – secondo cui la proposizione enunciativa, l’apofansis
consiste nel τό α̉λεθεύειν ή̉ ψεύδεσθαι, nel poter essere vero o falso. La distinzione, qui in qualche modo
presente, tra vero e falso e affermazione e negazione non è tematizzata in Brentano, che seguendo con
coerenza la sua lettura di Aristotele, considera la prima coppia come lo spettro contenutistico della seconda.
Su ciò si veda in seguito la riflessione laskiana sulla duplicità delle coppie oppositive nella regione del giudizio.
5 Ivi, p. 89.
6 Ivi, p. 93; cfr. F. BRENTANO, Psychologie vom empirischen Standpunkte, 1, cit., p. 241.

224
Il Pathos della Forma

negative» 1 . Vale a dire, ciascun giudizio espresso nella forma un A è B corrisponde – come
risulta, tra l’altro, nell’uso ideografico del quantificatore Э – ad uno reso invece con esiste un
A, per cui vale che A è B, ovvero esiste un A che è B, esiste un A, che ha l’essere-B. Ad esempio,
il giudizio alcuni cavalli sono bianchi è convertibile in esistono alcuni cavalli, per cui vale – come
vero – che siano bianchi, esistono alcuni cavalli, che hanno l’essere-bianco 2 . Dunque, ciascun
giudizio consiste nella posizione tetica del contenuto rappresentativo, all’interno
dell’alternativa tra essere (vero) e non-essere (vero) 3 : questo coincide con la curvatura
aristotelica dell’ε̉ν παρέργω, con la secondarietà degli atti psichici non pro-posizionali 4 .
2. Differente, è la dedizione windelbandiana alla morfologia del giudizio. Muovendo la
sua posizione dall’indicazione di quello che egli chiama il tallone d’Achille della filosofia
kantiana, il suo pregiudizio logico nel considerare la logica formale solo come scienza
analitica, da cui discendeva «il disegno di una pura logica teoretica della conoscenza, in cui
poter orientare il sistema delle forme categoriali al fondamento [Grundlage] trascendentale.
La dottrina della scienza di Fichte, la logica di Hegel, la dialettica di Schleiermacher
includono in questo modo la logica formale in quella trascendentale e si adoperano per
determinare le modalità del giudizio attraverso i diversi compiti della conoscenza
contenutistica» 5 .
Per rinvenire il corretto principium individuationis delle Urteilsarten, Windelband si rivolge,
allora, all’analisi di un problema particolare – in cui però ritiene di poter far emerge con
maggiore nettezza considerazioni generali – quello del giudizio negativo. Facendo leva sugli
studi a riguardo, contenuti nella Logik di Sigwart, nella Große Logik di Lotze e nel
Compendium der Logik di Ulrici, egli delucida che proprio nelle forme più primitive del
giudizio negativo, «nei semplici giudizi di differenza (blu non è verde), si offra la più chiara

1 F. BRENTANO, La classificazione delle attività psichiche, cit., p. 47. «le affermazioni permanete negative – continua
Bolzano, nella nota corrispondente – alle quali appartengono anche le universali affermative, non
contengono evidentemente il riconoscimento del soggetto, che esse non affermano, ma negano». La
riconduzione di tutti i giudizi a giudizi esistenziali, ed il rifiuto della sussunzione herbartiana dei giudizi
categorici sotto quelli ipotetici, consente a Brentano una critica radicale alla tavola kantiana. Cfr., ivi, pp. 48-
49.
2 Perché si possa sostenere che i giudizi categorici siano trasformabili in giudizi esistenziali, vale la seguente

tavola di conversione: l’universale affermativo è convertibile nel particolare negativo – tutti gli A sono B,
significa che nessun A non è B, ovvero che non esiste alcun A che sia B, che non vale come vero che alcun A
sia B – … Sulla convertibilità dei giudizi categorici in esistenziali vi è una indubbia corrispondenza con J. S.
Mill, che lo stesso Brentano annota; cfr. ivi, pp. 49-51.
3 «Se qualcuno pensa qualcosa – osserva Brentano, ivi, p. 109 – il pensante deve esistere, ma non è necessario

che esista l’oggetto del suo pensiero, anzi, se qualcuno nega qualcosa, in tutti i casi in cui la negazione è giusta,
è addirittura escluso che quella tal cosa esista».
4 A proposito del suo disegno complessivo, sul finire dell’Appendice alla classificazione della attività psichiche – ivi,

p. 149 –, Brentano osserva che spesso la sua teoria della conoscenza «è stata accusata di psicologismo, una
parola venuta in uso recentemente, a udir la quale qualche pio filosofo, come qualche cattolico ortodosso al
nome modernismo, si fa il segno della croce, come se questo nome contenesse Satana in persona».
5 W. WINDELBAND, Beiträge zur Lehre vom negativen Urteil, in «Strassburger Abhandlungen zur Philosophie»,

Festschrift zu E. Zeller, 1884; poi Tübingen, Mohr, 1921, p. 168.

225
Il Pathos della Forma

prova di quanto sia sbagliato assumere il giudizio negativo come espressione di una
relazione reale o di una divisione». Infatti, «anche riguardo all’essenza delle forme di
correlazione si estende un accordo: si inizia a cercare l’autentico significato della negazione
nel rifiuto del corrispondente giudizio positivo» 1 . In questo tipo di considerazione, il
giudizio negativo – A non è B – contiene in realtà un doppio giudizio – quello che Lotze
definisce come Nebenurteil, giudizio secondario sulla validità o sull’invalidità – che reso
esplicitamente suona: il giudizio (positivo) che A è B, è falso. Ovvero, il giudizio affermativo,
assunto a tema, viene respinto come mancante del valore di verità, non valido, non valente
come vero. Tuttavia, questo zweite “Urteil” – secondo Windelband – non può intendersi
come un ulteriore giudizio teoretico, altrimenti si risalirebbe all’infinito, in cerca di un
ulteriore Nebenurteil, che ne sancisca la validità o l’invalidità. «Il secondo giudizio è piuttosto
un giudizio pratico, una valutazione, il cui risultato in questo caso è il rifiuto: è l’espressione
non più di una mera correlazione delle rappresentazioni, ma di un atteggiamento
disapprovante della coscienza in merito a ciò. Non è un giudizio, in cui si presenti un altro
giudizio come un soggetto logico “invalido” per un predicato, ma è un giudizio su un
giudizio, sul valore di verità di un giudizio – questa è la valutazione di un giudizio» 2 .
Al fine di comprendere ancora più dappresso la differenza sussistente tra Urteil e
Beurteilung, Windelband riflette sul modo in cui si congiungono rappresentazione e
valutazione: se infatti nella forma affermativa il loro Zusammensein è immediato ed
originario, nella forma negativa, la valutazione, non coincide temporalmente con la
presentazione della complessione proposizionale, ma vi succede. Si richiama così
l’attenzione sull’interrogazione, o giudizio problematico 3 . Se è vero che alla valutazione,

1 Ivi, p. 169.
2 Ivi, p. 170. Cfr. W. WINDELBAND, Präludien, I, cit., pp. 29-30: «Tutte le proposizioni, in cui esprimiamo i
nostri modi di vedere, si distinguono, nonostante l’apparente uguaglianza grammaticale, in due classi molto
differenti tra di loro: i giudizi e le valutazioni. Nella prima classe si esprime la coappartenenza di due contenuti
rappresentativi, nella seconda una relazione della coscienza valutante all’oggetto rappresentato. C’è una
differenza fondamentale tra le proposizioni: “questa cosa è bianca” e “questa cosa è buona”, nonostante la
comune forma grammaticale. Ad un soggetto, in ambedue i casi, viene riferito un predicato: ma questo
predicato, in un caso – come predicato del giudizio – è la determinazione in sé compiuta, tratta dal contenuto
di ciò che è rappresentato obbiettivamente; nell’altro – come predicato della valutazione – è un riferimento
alla coscienza finalistica [zwecksetzendes]. In un giudizio si esprime che una determinata rappresentazione (il
soggetto del giudizio) viene pensata in una relazione, distinta secondo le diverse forme del giudizio, ad
un’altra determinata rappresentazione (il predicato del giudizio). In una valutazione invece ad un oggetto, che
si rappresenta compiuto, che si presuppone conosciuto (il soggetto della proposizione valutativa), viene
aggiunto il predicato della valutazione, attraverso cui la conoscenza del soggetto riguardante non si estende in
alcun modo, ma si esprime il sentimento [Gefühl] dell’approvazione o della disapprovazione, con cui la
coscienza giudicante si rivolge all’oggetto rappresentato».
3 W. WINDELBAND, Beiträge zur Lehre vom negativen Urteil, cit., p. 177: «Un giudizio negative non si presenta

altrimenti che nella forma di una valutazione negative di una domanda o di una complessione rappresentativa
ipotetica. Ciò che deve essere negato, non è mai dato immediatamente, ma deve almeno essere domandato, se
non addirittura affermato in precedenza. Tutte le negazioni sono risposte: ma molte affermazioni non lo
sono. Da ciò consegue che la suddivisione del giudizio secondo la qualità e la coordinazione di giudizio
affermativo e negativo non solo sono giustificate, ma sono obbligate se ci si rivolge alle caratteristiche

226
Il Pathos della Forma

come tutte le funzioni dell’approvazione o del rifiuto, corrispondono delle differenziazioni


graduali su una scala segnalante l’intensità della certezza – o del Überzeugungsgefühl –, da cui
discende lo stesso ambito descrivibile e quantificabile della verosimiglianza come
probabilità, Wahrscheinlichkeit 1 , allora bisogna indicare un punto zero nella scala valutativa, un
punto di indifferenza tra affermazione e negazione. Tuttavia, «l’indifferenza tra reazione
positiva e reazione negativa può essere o totale o critica. Quella totale si presenta, laddove
non si giudichi affatto, quella critica, invece, quando, perché sia compiuta la ponderazione,
si trattenga l’affermazione o la negazione. […] Nell’ambito della ricerca logica, che
presuppone sempre un riferimento della connessione rappresentativa [Vorstellungsverbindung]
alla valutazione sul (valore di) verità, si trova tale indifferenza totale solo nella domanda. In
questa la connessione rappresentativa non solo è cercata, ma è compiuta; la domanda è posta
in relazione con la valutazione del valore di verità, ma è appunto questa valutazione a non
giungere a compimento» 2 .
In tale ottica, la domanda non è altro che un Vorstufe del giudizio, non coordinabile
modalmente con affermazione e negazione. Viceversa, l’indifferenza critica, l’espressa
sospensione della valutazione, il sollevamento di un’ipotesi, è pensabile in coordinazione
con le restanti tipologie del giudizio, quella negativa e quella positiva. «Il cosciente
“atteggiamento problematico”» – aggiunge Windelband – «in quanto espressione di un
punto zero nella scala della valutazione è una decisione sussistente della posizione, che
colui che giudica assume rispetto alla connessione rappresentativa, compiuta nella
domanda, ed il giudizio problematico è coordinabile a quello affermativo o negativo, nella
suddivisione secondo qualità» 3 .
L’analisi di Windelband – attraverso cui abbiamo guadagnato la differenziazione in
giudizio, contenuto del giudizio – relazione rappresentativa – e valutazione, quale
avvalorazione della validità, verifica del valore di verità – consegna ai suoi margini una
considerazione ben più generale sul metodo di indagine logica. La possibilità di rassegnare
le doviziose suddivisioni, cui sottopone la dottrina del giudizio, è data dall’emancipazione dai
vincoli della composizione grammaticale delle proposizioni. «Come già a suoi inizi la logica
sembrava legata alla grammatica, così in ogni tempo, in cui si cerchi una riforma della
logica, si ripete l’intenzione di cercarne i principi nella grammatica. Nessuno può
disconosce che l’ingente lavoro logico si depositi nel linguaggio: ma con la stessa saggezza

essenziali nella definizione del giudizio, o si pronuncia un’asserzione sul valore di verità delle rappresentazioni
o della connessione proposizionale».
1 Ivi, p. 186.
2 Ivi, p. 187. Sulla nozione della Frage come Kundgabe, annuncio della correlazione rappresentativa, fungente da

contenuto, si veda J. COHN, Vorassetzungen und Ziele des Erkennens, cit., pp. 66-sgg.
3 W. WINDELBAND, Beiträge zur Lehre vom negativen Urteil, cit., p. 190. Sulla critica rickertiana alla nozione

contraddittoria di “indifferenza critica”, si veda H. RICKERT, Der Gegenstand der Erkentnis, cit., p. 100.

227
Il Pathos della Forma

bisogna riconoscere che essa non si trova nelle lettere, ma nello spirito. Perciò la
grammatica deve essere intesa a partire dalla logica, e non viceversa; variando un antico
detto, si potrebbe dire: Logica, cave grammaticam!» 1 .
3. Passiamo ora alle riflessioni rickertiane sulla determinazione del giudizio – e sulla sua
differenziazione dai restanti fenomeni intenzionali – il cui perno ruota attorno alla
questione, fondamentale per la Erkenntnistheorie, circa der Gegenstand des Urteils. Bisogna
tuttavia premettere che ciò non significa, per Rickert, elevare l’esigenza di una «realtà
effettuale trascendente, in quanto oggetto della conoscenza, come fanno coloro che
intendono i giudizi consistenti solo nel collegamento o nella recisione delle
rappresentazioni, attribuendo dunque loro carattere rappresentativo. Pertanto nella
conoscenza si giungerebbe sempre a delle rappresentazioni […]. Il problema quindi
diventa: i giudizi raffigurano, secondo certezza le rappresentazioni. Ma allora non ci
potremmo accontentare di ciò, perché verrebbe da chiedersi: cosa dà alle rappresentazioni
raffigurate il loro carattere di conoscenza? Anche i giudizi – così sembrerebbe –
dovrebbero almeno indirettamente essere rivolti [richten nach] ad un senso trascendente, per
offrire conoscenza» 2 . Porsi il problema dell’oggetto del giudizio – questione centrale nel
dirimere quale sia l’oggetto della conoscenza, in quanto ciascuna conoscenza ha la forma di un
giudizio: essa inizia, continua o semplicemente sussiste solo con il giudizio 3 – non significa affatto per
una filosofia trascendentale fissare una vana dualità dei mondi, nemmeno nella forma della
designazione di un senso trascendente. Rickert infatti rifiuta l’ipotesi di poter dividere le
asserzioni – diciamo pure i contenuti logici – in specie: una in cui si asserisce qualcosa sulla
realtà effettiva, le rappresentazioni, l’altra, in cui semplicemente ci si rivolge ai precedenti
portati assertivi, al precedente strato rappresentativo, i giudizi, sia nella versione humeana,
relation of ideas e matter of fact, sia in quella di Riehl, begriffliche Sätze e eigentliche Urteile, sia in
quella formulata da Kries, Beziehungs- e Realurteilen 4 . Egli capovolge, alla maniera copernicana,
così il verso della correlazione. Certo, la teoria della conoscenza, infatti, è orientata a
discernere ed a comprendere come ha valore la conoscenza – come, cioè, qualcosa ha, o può
avere, valore di conoscenza, quali sono le condizioni di validità della conoscenza – ma
questa non può cercare nell’oggetti il suo proprio valore, deve piuttosto cercare nella valenza
il suo proprio oggetto. Dunque, la pertinenza logica, teoretica della conoscenza, sulla
dottrina del giudizio consiste nello studio del suo valore, ed a ciò sono rivolte le
considerazioni rickertiane. In primo luogo, «ovunque si tratti di vero e falso, non abbiamo a

1 W. WINDELBAND, Beiträge zur Lehre vom negativen Urteil, cit., p. 195.


2 H. RICKERT, Der Gegenstand der Erkentnis, cit., p. 85.
3 Ivi, p. 103.
4 Ivi, p. 87.

228
Il Pathos della Forma

che fare solo con un mero riferire, includere, collegare delle rappresentazioni, ma nel
giudizio, alle rappresentazioni o alle relazioni rappresentative, si aggiunge anche un altro
elemento, che non può essere ridotto a rappresentazione» 1 .
Per fornire un esempio di come si possa notare quell’elemento, completamente proprio
che subentra nel giudizio, Rickert richiama l’esperimento psicologico – già definito
lucidamente da Stumpf 2 , in una ben altra visione, e così ripreso dall’Husserl delle Ricerche
Logiche 3 , che qui appare in un chiaro, e vicendevole, confronto polemico – della composizione
figurale nell’ascolto di un suono. Nell’udire una pièce musicale, seppure si considerasse la
separazione tra il mero udire un suono, o meglio una successione di suoni, ed il giudizio,
sulla sequenza sonora, tuttavia «quando giudico che due suoni si susseguono, posso
rappresentare i medesimi suoni e la medesima relazione intercorrente, che ho percepito,
udendo i suoni l’uno dopo l’altro, senza giudicare» 4 . Pertanto lo sguardo rickertiano si
dirige altrove, cercando di restituire l’essenza dell’ideale logico del giudizio, attraverso il rimando
alla tipologia interrogativa. Se è vero che, nell’effettualità psicologica non tutti i giudizi sono
risposte a domande, tuttavia la proiezione insita nella struttura stessa della Frage, come Frage
nach, assume un significato dirimente per la teoria della conoscenza. «Logicamente il
problema cede il passo alla risoluzione del problema; cioè se si ricerca la conoscenza di per
sé, allora bisogna considerarla come risposta ad una domanda […]. La domanda cioè
contiene sempre, se è univoca, già le parti rappresentative del giudizio, e non le manca altro
che la decisione esatta dal giudizio [die vom Urteil geforderte Entscheidung]» 5 . Dunque, ciò che
Rickert intende per Urteilsentscheidung è una presa di posizione, una Stellungnahme zu einem
Werte, che viene espressa nella conoscenza teoretica – ma sempre come “praktisches”
Verhalten, sempre come atteggiamento pratico – nell’affermazione e nella negazione,
nell’accettazione o nel rifiuto.
«L’atto di conoscenza può consistere solo nel riconoscimento [Anerkennung] del valore
[…]: conoscere è riconoscere o rifiutare» 6 . Il giudizio cioè consiste nell’affermare o negare
la validità di una complessione o di una dissezione di rappresentazioni, consiste nel
prendere posizione rispetto al suo valore. La tenuta dell’impianto teoretico è data, pertanto,
dalla necessità del pensiero, o Urteilsnotwendigkeit, dalla necessità che un imperativo, che una

1 Ivi, p. 89.
2 K. STUMPF, Tonpsychologie, II, §. 17, Leipzig, Hirzel, 1883-1890; poi, rist. a cura di F. A. M. Knuf e
E.J.Bonset, Amsterdamm, Hilversum, 1965, pp. 39-86.
3 E. HUSSERL, Logische Untersuchungen, II, in Hua, cit., XIX, pp. 231-235; trad. it., Ricerche Logiche, II, cit., pp. 23-

26: Terza Ricerca Logica su la teoria degli interi e delle parti, §. 6. Analisi di esempi secondo Stumpf. Ma già anche ID.,
Philosophie der Arithmetik, Psychologische und logische Untersuchungen, Erster Band, Halle-Saale, C. E. M. Pfefferin,
1891; poi in Hua, cit., XII [mit ergänzenden Texten (1890-1901)], p. 231, n. 1.
4 H. RICKERT, Der Gegenstand der Erkentnis, cit., p. 91.
5 Ivi, p. 95.
6 Ivi, p. 108.

229
Il Pathos della Forma

norma, che il valore riceva riconoscimento: la verità, come valore per il giudizio, coincide
con l’esposizione riconosciuta di questo logiche Grund, è Anerkennung des Sollens,
riconoscimento del dover essere 1 .

4.2. Dalla relazione rappresentativa al frammento di significato.

Per redigere il suo studio sulla collocazione trascendentale del giudizio, ovvero della
regione non-oggettuale del giudizio, Lask – quasi per sottoporre le proprie considerazioni
ad un esame preliminare – esamina la dottrina della relazione rappresentativa come sostrato
materiale del giudizio, come contenuto del giudizio, sostenuta, con le differenze che
abbiamo rassegnato, anche nelle opere degli autori che abbiamo esaminato. L’ambizione di
ritrovare quale sia, non l’oggetto, Gegenstand – termine che conosciamo nel suo univoco
utilizzo a definire le oggettualità formali o categorie – ma l’obbietto, Objekt del giudizio come
Urteilsentscheidung, non sembra però esserne soddisfatta. «Per obbietti [den Objekten] della
decisione giudicante o per compagini vere o difformi dal vero non si può pertanto
intendere ciò che viene chiamato da Mehmel e Gerlach giudizio e proposizione „in senso
obbiettivo“ [„im objektiven Sinne"], da Bolzano „proposizione in sé“, da Herbart e J.
Bergmann il „pensato“ distinto dagli atti del pensiero, da Husserl „senso“ del giudizio o
„significato ideale dell’asserzione“, da Rickert „senso trascendentale“, da Brentano, Marty,
Husserl „contenuto del giudizio“ [„Urteilsinhalt“], da Meinong „obbiettivo“ od „oggetto del
giudizio“, da Stumpf „stato di cose“, da Gomperz „pensiero in senso obbiettivo“ [im
objektiven Sinne], „contenuto dell’asserzione“ e „stato di fatto“ [„Aussageinhalt" und
„Tatbestand"]. In questi casi si rivolge sempre il pensiero al senso isolabile dalle proposizioni
e dai giudizi, a quanto nella decisione giudicante è complessivamente inteso, balenando
obiettivamente» 2 .

1 Ivi, p. 124. Da qui discende il primato del Sollen sullo Sein, del dover essere sull’essere, che Lask contesta
esplicitamente – oltre che nella forma di un primato della ragion pratica, nella conferenza Gibt es ein Primat
der praktischen Vernuft in der Logik? del 1908, già precedentemente citata – sia nella Logik der Philosophie – in GS,
cit., II, p. 119, n. 84 – sia nella lettera a Rickert, del 27.XI.1910 – in GS, cit., II, pp. 272-275.
2E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, cit., II, p. 304. Le citazioni corrispondenti di Lask comprendono: B.

BOLZANO, Wissenschaftslehre I, cit., pp. 176-sgg., pp.85, 98-sgg., E. HUSSERL, Logische Untersuchungen, cit., ad es.
I, pp. 174-sgg., II, cap. I e passim; J. BERGMANN, Allgemeine Logik, Erster Teil, Reine Logik, Berlin, Mittler,
1879, pp.10-sgg., H. RICKERT, Zwei Wege der Erkenntnistheorie, in «Kantstudien» 1909, pp. 27-sgg., A. MARTY,
Untersuchungen zur Grundlegung der allgemeinen Gramatik und Sprachphilosophie, Halle a S., Niemeyer, 1908, pp. 291-
sgg., A. MEINONG, Ueber Annahmen 2 , cit., pp.42-sgg.; K. STUMPF, Erscheinungen und psychische Funktionen,
«Abhandlungen der Königlichen Preussischen Akademie der Wissenschaften», Phil.-Hist. Kl., 4, 1907, p. 30;
H. GOMPERZ, Weltanschauungslehre, II, 1, 1908, Diederichs Verlag, Jena, pp. 2 –sgg., pp. 61-sgg., p.75, pp. 85-
sgg. Tuttavia, riguardo a Meinong, Lask aggiunge una riserva in quanto «Meinong, in Ueber Annahmen 2, cit.
pp. 44, distingue tra l’“oggetto, che è giudicato“ [dem „Gegenstand, der geurteilt wird”], e l’“oggetto, su cui si
giudica o che è valutato“ [dem „Gegenstand, ü b e r den geurteilt oder der beurteilt wird”]. Tuttavia l’oggetto in ultima
istanza non coincide con l’obbietto [dem Objekt] della decisione del giudizio, nel senso qui sostenuto».

230
Il Pathos della Forma

Ora, nella comune definizione di senso isolabile, Lask intende far convergere tutte le
dottrine in cui si consideri contenuto del giudizio un sostrato materiale privo di qualità,
impregiudicata quanto alla qualità. «Si può facilmente comprendere» – osserva – «come la
dottrina del giudizio sia giunta al concetto di „materia“ indifferente. Cioè, prima della
decisione del giudizio, la qualità valoriale oppositiva manca ancora negli obbietti sottoposti
alla decisione, balenando dinanzi all’atteggiamento conoscitivo. Così si perviene solo alla
connessione degli elementi, alla reciproca relazione di „soggetto“ e „predicato“, in una
qualità lasciata ancora indistinta» 1 . I termini, gli ό̉ροι di questa compagine obbiettiva –
obbiettata cioè dal giudizio – finiscono per essere quelli definiti dal loro deposito
grammaticale: «nella logica è consueta la suddivisione degli obbietti della decisione in
elementi relazionali, indifferenti all’opposizione, ed in una relazione, non differenziata
oppositivamente, ma indifferente e neutrale. Gli elementi ultimi (όροι, termini) della
relazione sono soggetto e predicato, mentre la loro correlazione indifferente, il legame, che
intesse gli elementi, è la copula. Così la logica doveva sempre e solo giungere ad articolare
lo strato indifferente qualitativamente, che resta dalla sottrazione della qualità oppositiva, in
soggetto, predicato e copula. Pertanto anche la copula, secondo questa visione, ricadrebbe
nell’ambito delle parti costitutive indifferenti» 2 . Se, dunque, la dottrina degli elementi del
giudizio, che compongono lo strato contenutistico, è conformata sulla struttura del
deposito grafico, linguistico, designata dalla grammatica – nonostante l’avvertimento di
Windelband – allora, l’unica strada che conduce alla comprensione della significanza
propriamente logica dell’obbietto del giudizio, passa per una revisione meta-grammaticale
della coppia soggetto-predicato. Lask giunge a sostenere – detto con le parole già scritte da
Frege nel suo abbozzo di Logik – che «le categorie grammaticali di soggetto e predicato non
possono rivestire alcuna importanza per la logica» 3 ; la sua ricerca è orientata infatti a
considerare l’articolazione del contenuto proposizionale nel suo significato sachliche und
logiche, effettivamente logico, logico quanto alla cosa, die Sache, in questione.
«Nei termini soggetto e predicato (υ̉ποκείμενον, κατηγορου̃μενον)» – scrive Lask – «si esprime
l’univocità del senso [Einsinnigkeit], la direzione determinata di una relazione, cioè che
ambedue i membri all’interno della compagine devono svolgere funzioni completamente
determinate, incommutabili. Un elemento viene preso come fondante [zugrundeliegende],
l’altro come sopraggiungente [hinzutretende], attribuito [hingestellt] all’altro solo nell’enunciato.
Emerge così la questione decisiva, se questa univocità della direzione relazionale, la
caratteristica distinzione nella posizione dei due elementi, abbia un senso grammaticale od

1 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, cit., II, p. 313.


2 Ivi, pp. 314-315.
3 G. FREGE, Logica (1897), cit., p. 132.

231
Il Pathos della Forma

uno metagrammaticale» 1 . Ora, nella lettura grammaticale della compagine soggetto-


predicato, di cui consisterebbe il sostrato enunciativo del giudizio, si segue esclusivamente
la catena temporale del rivolgimento conoscitivo, ove una urteilende Subjektivität disponga
dinanzi a sé un materiale – eine Stoff – indifferente quanto alla sua composizione.
La trasposizione grammaticale, cioè, identificando il contenuto logico con il deposito
linguistico, da un lato condiziona la determinazione del senso del giudizio ad un
orientamento del soggetto che obbietta un’oggettualità in se stessa amorfa, dall’altro cela
questo stato di cose nella sua formalizzazione elementare 2 . Si intenda dunque: il vizio della
teoria grammaticale di soggetto e predicato non è di comprendere il riferimento del
contenuto giudicativo alla soggettività teoretica – all’atteggiamento soggettivo della
conoscenza – piuttosto di occultarlo, obliterandone la condizione. Ciò è evidente nella
definizione della copula, ovvero nell’isolamento nella proposizione del nesso predicativo è
come copula, in quanto formazione astrattiva autonoma [Abstaktionagebilde], particella di una
correlazione in generale, residuo senza colore [farblose Residuum] della concatenazione degli elementi. La
determinazione della copula nasconde nel suo isolamento di essere stata generata «come
opera [Geschöpf] propria della soggettività, che nasconde ancora la decisione qualitativa ed
isola così artificiosamente la qualità dalle compagini intere» 3 .
Se assumiamo infatti la compagine enunciativa, predicativa, nella forma in cui la
restituisce la comprensione grammaticale, ad esempio, nell’asserzione «a è differente da b»,
oppure «a è causa di b», si considera a come soggetto e differente-da-b oppure causa-di-b come
predicato, restando intatta la posizione mediana e correlativa della composizione
copulativa, è. La lettura che Lask propone, invece, – fedelmente alle sue osservazioni sulla

1 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, cit., II, pp. 322-323. Per un’accurata trattazione dello strato
grammaticale da un punto di vista filologico, rimandiamo al saggio di K. VOSSLER, Gramatik und Sprachgeschichte
oder das Verhaltnis von “richtig” und “wahr” in der Sprachwissenschaft, in «Logos», III, 1912, pp. 83-94. Sul confronto
dei principi linguistici ed estetici di Vossler con quelli di Croce, che fortemente segnarono il dibattito loro
contemporaneo, è denso lo scambio epistolare B.CROCE-K.VOSSLER, Briefwechsel, Frankfurt a.M, Suhrkamp
Verlag, 1955.
2 Sulla disposizione soggetto-oggetto nella configurazione del giudizio uno sguardo lucido – del tutto pregno

di letture fichteane – è quello di Hölderlin in Urteil und Sein (1795): «Giudizio è nel senso più alto e più
rigoroso l’originaria separazione dell’oggetto dal soggetto intimamente unificati nell’intuizione intellettuale,
quella separazione mediante la quale soltanto diventa possibile oggetto e soggetto, la loro originaria partizione
[Ur-theilung]. Nel concetto di partizione è già contenuto il concetto di rapporto reciproco di oggetto e di
soggetto l’uno all’altro, e il necessario presupposto di un intero di cui oggetto e soggetto sono parti. “Io sono
io” è l’esempio più pertinente di questo concetto di originaria partizione, in quanto partizione teoretica, poiché
nella originaria partizione pratica esso [l’io] si oppone al Non-io, non a se stesso». F. HÖLDERLIN, Urteil und Sein,
in Aufsätze, in Sämtliche Werke, IV, hrsg. von F. Beisner, Stuttgart, Hering, 1943, pp. 216-217; trad. it. di R.
Bodei, Giudizio, possibilità, essere, in Sul Tragico, Milano, Feltrinelli, 1994, p. 75. Cfr. R. BODEI, Hölderlin: la
filosofia e il tragico, in F. HÖLDERLIN, Sul Tragico, cit., pp. 13- sgg.; ID., Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno,
Torino, Einaudi, 1987 (in part. pp. 85-105); D. HENRICH, Hölderlin über Urteil und Sein. Eine Studie zur
Etwiklungsgeschichte des Idealismus, in «Hölderlin-Jahrbuch», XIV (1965-1966), pp. 73-96; M. FRANZ, Hölderlins
Logik. Zum Grundriss von “Seyn Urtheil Möglichkeit”, in «Hölderlin-Jahrbuch», XXV (1986-1987), pp. 93-124.
3 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, cit., II, p. 315. A ciò, Lask aggiunge in nota – ivi – , che in questo senso,

l’è come copula, è il «prodotto di un’ulteriore artificiosità, del non-sapere che si trasferisce ad altro».

232
Il Pathos della Forma

dimensione duale, forma-materiale, propria dell’ambito oggettuale delle categorie – è il


raccoglimento del materiale, a e b, da un lato, e della forma categoriale, – in questo caso
riflessiva – differenza e causalità, come essere-differente ed essere-causa, dall’altro 1 . «
Secondo il senso logico – nascosto nella formulazione linguistica – si enuncia del materiale
categoriale, a, b lo stare nella forma categoriale, nella „relazione“ diversità o causalità, in
quanto ad esso „conveniente“ [“zukommend”]» 2 . Dunque, posto che Lask considera la
categoria come oggettualità categoriale, come un’oggettualità che dentro di sé reca già la
correlazione tra forma categoriale e materiale categoriale, dunque non come una relazione tra
elementi dati, ma come la datità di un oggetto relazionale, l’ipotesi che la correlazione
copulativa tra soggetto e predicato coincida in qualche modo con una correlatività
categoriale, che il rapporto così espresso tra i termini dell’enunciato rispecchi l’indicazione
categoriale, risulta assolutamente insostenibile. Perché ciò risulti evidente egli esibisce il caso
delle Existenzial-Sätze, come a è – a esiste, anche nelle espressioni, “es gibt rot (= rot existiert)”, è
rosso, oppure un tuono accade (= Donnern geschieht) 3 – vale a dire nel caso in cui il materiale
categoriale appaia come eingliedrig, monotetico, e non zweigliedrig, polittico, e la forma
categoriale corrisponda ad una forma costitutiva, ad una categoria d’ambito, e non ad una
riflessiva, come negli esempi precedenti. «Proprio i giudizi esistenziali, tanto discussi,
devono essere interpretati nel modo più semplice, secondo la vera teoria della predicazione.
Certo, bisogna considerare che qui è in questione la coappartenenza [Zusammengehören], il
„convenire“- l’un l’altro [Einander-“Zukommen”] di un soggetto materiale e di un predicato
categoriale. Perciò è necessario, in primo luogo, riconoscere l’“esistere“ come categoria
oggettuale oltre-oppositiva e non confonderlo con l’“essere“ che ammette un opposizione,

1 La medesima riflessione sulla dottrina della forma-è come copula, viene raccolta da Husserl, quando afferma
che «il modo di «collegamento» che costituisce appunto la specifica forma unitaria di una proposizione è ciò
che in termini tradizionali si definisce la forma della copula. Avremmo dunque, per così dire, la forma unitaria
copulativa; essa è quella che porta all’unità i membri della predicazione; per cominciare, di una predicazione
semplice. È la forma-è nelle sue diverse forme, in quella del giudizio categorico in quanto determinante, ma
anche in altre configurazioni, dato che essa si trova palesemente nella configurazione unitaria del giudizio
ipotetico e causale, così come in ogni collegamento identificante. Essa è la forma funzionale, che,
configurando i membri come membri, li rende membri di un tutto proposizionale, in modo tale che la forma
totale va posta astrattivamente in rilievo come la loro forma di collegamento». E. HUSSERL, Formale und
Transzendentale Logik, in Hua, cit., Bd. XVII, p. 264; trad. it., Logica formale e trascendentale, cit., p. 368.
2 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, op. cit, II, p. 338. «Essa non considera – scrive Lask continuando

l’esposizione della teoria grammaticale – , come sarebbe necessario, tutto il materiale categoriale (ad esempio:
a,b), ma solo uno dei membri della relazione categoriale (a), come il soggetto, come uno degli elementi della
sintesi copulativa. L’altro membro della relazione categoriale (b) si amalgama con questa medesima categoria
(nell’esempio: distinzione, causa) trasformandosi nel secondo membro relazionale della copulazione, nel
predicato. L’errore, qui riscontrato, non consiste perciò in un semplice scambio, ma in una parziale
sovrapposizione della relazione categoriale e di quella copulativa».
3 Ivi, p. 341. A questo riguardo, Lask aggiunge, in nota, che «giacché nel giudizio le impressioni sensibili non si

trovano così semplicemente, ma già in quanto “significati”, in quanto significati di parole! Il rovesciamento
lotzeano dell’impressione in rappresentazione!
Se si considera solo la sussistenza di concetti raffigurativi, ci si imbatte in grandi difficoltà per intendere i
“concetti originari” come compagini raffigurative con elementi separati! Altrimenti si sostiene che i concetti nel
giudizio o sono affermati o sono frammenti di senso!».

233
Il Pathos della Forma

ovvero con il correlato obbiettivo dell’affermazione giusta, con la positività oppositiva del
valore, con la copula positiva» 1 . Pertanto la conversione, che Brentano sostiene, di ciascun
giudizio categoriale in un giudizio esistenziale, consisterebbe, secondo Lask, esclusivamente
in un passaggio dal più complesso al più semplice, tutto ancora interno però all’ambito
proposizionale, alla competenza apofantica della logica, senza riuscire a scorgerne le
condizioni trascendentali. Che ciascuna correlazione, insomma, sia riducibile ad una
posizione, seppure complessa, multiradiale, non corrisponde ad un’osservazione
sull’isolamento del piano del giudizio, da cui conseguirebbe il rifiuto di qualsiasi teoria
ammetta il contenuto assertivo come unione o disunione, come συμπλοκή, declinabile in
διάιρεσις o σύνθεσις. Che l’assetto correlativo di un’asserzione sia trasformabile in quello
tetico, monoradiale, consegue piuttosto dalla medesima struttura trascendentale delle
oggettualità categoriali 2 : come in quel caso, la gerarchia categoriale, ovvero il verso della
fondazione categoriale, impone una riconduzione costitutiva delle categorie riflessive a
quelle di ambito, così che ciascuna categoria riflessiva è sempre l’ecceterazione di un
rimando alla forma della costitutivita, così, in questo caso – pur prendendo in debita
considerazione la differenza data dalla distanza delle due regioni logiche considerate, quella
oggettuale e quella non-oggettuale, quella delle forme-sostrato e delle forme sintattiche, e
quella dell’apophansis, quella ontologico-formale e quella apofantica – è possibile ricondurre
qualsiasi predicazione all’afferenza sulla forma costitutiva essere. «Poiché» – osserva Lask,
riferendosi alla dottrina brentaniana del giudizio – «egli, nelle cosiddette proposizioni
„esistenziali“, considera per „esistenza“ l’“essere“ pensato copulativamente, ed invero
1 Ivi, pp. 347-348. «Nel giudizio esistenziale affermativo» – aggiunge significativamente Lask – «non si

asserisce semplicemente l’esistenza, ma l’intero apparato categoriale depositato nel soggetto! Tuttavia la
caratteristica propria dei giudizi esistenziali è che sono singole compagini concettuali ad essere obbietto da
affermare o da negare nella decisione del giudizio. Eppure solo il concetto di soggetto viene affermato o
negato – dacché in esso ritrova l’esistenza categoriale. Chi, soddisfatto di questo concetto di “concetto”, non
vi scorge già una connessione di categoria e materiale categoriale, può pensare – come Brentano – di
distruggere la millenaria teoria della συμπλοκή semplicemente accennando ai giudizi esistenziali. Invece, perché
alle proposizioni esistenziali sia riconosciuto il loro significato proprio, si deve chiarire che questa teoria della
συμπλοκή può restare in piedi solo in virtù della nostra vera teoria degli elementi strutturali. L’esistenza si tiene,
solo se la si considera come una categoria ovvero come un elemento da copulare. Così l’esistenza varrebbe
sempre come un’abbreviazione per l’intero apparato categoriale del materiale soggettivo, per la cosalità, etc.».
Lask in questo modo ritiene vieppiù di difendere il principio kantiano secondo cui l’essere non è un predicato reale,
che campeggia nella sua dottrina delle categorie, come già abbiamo appurato, come irrealtà e come non-
indipendenza, o detto nei termini consueti alla logica tardo-scolastica, come sincategorematicità della forma oggettuale,
dell’oggettualità, dell’essere dell’ente. «La categoria esistenza o realtà – conclude Lask – non esiste essa stessa,
cioè non appartiene ai contenuti sensibili-intuitivi, ma “vale” ed infatti essa non è, come nota Kant, alcunché
di “reale”, di esistente, ma un Qualcosa meramente logico, valente. Ma proprio perciò forma il prototipo
[Prototyp] di un predicato».
2 «La commutabilità di tutti i giudizi in proposizioni esistenziali» – sostiene Lask, ivi, pp. 348-349 – «che

Brentano considera valida, non prova nulla per lui. Significa solo una commutabilità di tutti i giudizi, in
qualsiasi modo siano stati formulati, in quelle proposizioni – in conformità alla vera teoria della predicazione
– in cui la categoria appare chiaramente come uno degli elementi nella compagine, passibile di affermazione o
di negazione anche nelle formulazioni linguistiche. Che invece, tra le categorie, proprio l’esistenza senza
eccezione possa avere questo ruolo, dipende dal fatto che può assurgere alla più elevata tra le categorie, a
categoria complessiva, a categoria di ambito per tutte le altre».

234
Il Pathos della Forma

positivamente, l’espressione della passibilità di riconoscimento e di affermazione


[Anerkennungs- und Bejahungswürdigkeit], l’όν ως αληθές, e per esistenza e non-esistenza i
„correlati“ dei „giudizi affermativi e negativi” – ma non ciò che egli chiama l’“essere“ „nel
senso della realtà“, l’”όν nel senso del cosale (essenziale)” – gli si cela il vero stato di cose:
cioè che la passibilità di affermazione si costituisce su una dualità di elementi, poggia su una
coappartenenza, cioè sulla coappartenenza della categoria esistenza (nella terminologia di
Brentano „realtà“) e del materiale, che le è proprio, a cui cioè conviene l’esistenza. Ciò che
viene affermato non è l’esistenza né ciò a cui dovrebbe convenire l’esistenza, ma il
convenire dell’esistenza o della realtà. L’esistenza rappresenta il momento inoppositivo, che
diventa un elemento strutturale in una compagine valevole o non valevole, armonica o
disarmonica, contenente l’όν ως αληθές oppure il μή όν ως ψευ̃δος. L’“essere“ od il „non-
essere“ della copula si aggiungono [hinzutreten] sempre all’esistenza o alla realtà» 1 .
La questione, pertanto, torna ad essere quella di una corretta definizione di quanto viene
usualmente definito come contenuto proposizionale del giudizio, distinto sino ad ora solo
in virtù della passibilità di affermazione e negazione, solo dal carattere di sostrato di una
decisione alternativa, in cui vige il principio di contraddittorietà. Seppure la determinazione
della relazione rappresentativa risulta insufficiente quanto alla fallacia grammaticale che vi
grava, questo non esime affatto dall’indagare quella disposizione dell’enunciato gegenüber der
Erlebtheit, di contro all’essere esperito: «quanto viene inteso ed esperito [gemeint und erlebt] in
questo strato, che si presenta [vorliegenden] come immanente, è solo una formazione ancora
priva del carattere di valore e di non-valore, perché la qualità di valore, non essendo stata
ancora intesa, resta indecisa, senza poter accedere all’esperienza [Erlebtheit]» 2 . Seppure
restasse ferma la distinzione in atto del giudizio, decisione giudicante e contenuto indifferente
della decisione – in quanto caratterizzante l’atteggiamento esperito della conoscenza, qui
preso in considerazione – seppure cioè si rimanesse nello stato in cui was, darüber geurteilt
wird, ciò su cui si giudica, e non was, das geurteilt wird, ciò che si giudica, si conforma come
obbietto rispetto ad un soggetto giudicante, tuttavia questo was, darüber non potrebbe definirsi
come relazione rappresentativa, ma piuttosto come Sinnfragment, frammento di senso. «Questo
frammento di senso» – scrive Lask – «è “la medesima cosa” [“dasselbe”], su cui decidere
affermando o negando, cioè la medesima cosa che viene considerata conforme alla o
difforme dalla verità, o rispetto a cui soddisfare il desiderio di decisione, a parte quanto
rimane indeciso. Nella domanda: «è a la causa di b?», infatti, proprio come nell’affermazione
o nella negazione, si è già pervenuti alla prima tappa dell’atteggiamento soggettivo, alla

1 Ivi, p. 348.
2 Ivi, 429-430.

235
Il Pathos della Forma

copulazione degli elementi estratti, alla fissazione del frammento di senso. Solo che manca
ancora la decisione» 1 .
L’immanenza in cui il frammento di senso si presenta, vorliegt, alla coscienza deriva tuttavia
dal suo essere opera di una frammentazione, che è allo stesso tempo distacco e
disconoscenza 2 . Il Sinnfragment, infatti, da un lato si dispiega nella condizione preliminare
dell’impresa conoscitiva, nel momento della non compiuta conoscenza, dall’altro segue già
una scomposizione – quella negli elementi proposizionali – ed una ricomposizione – quella
dello strato materiale dell’asserzione. È evidente che la cadenza della frammentazione derivi
al senso – così come in tutte le modalità differenziali che abbiamo sino ad ora esaminato: le
dimensioni del fenomeno giuridico, la rimandatività del segno, il trattenimento del simbolo,
la traccia dell’annuncio – sempre ancora in virtù della sua posizione, collocazione, della sua
situazione. Così come nella determinazione di significato, nella sua eccedenza, anche nella
frantumazione del senso, ricorre l’accenno a qualcosa altro da sé. La costituzione del
frammento di senso è possibile solo a condizione della sua inclusione, dunque, nel rapporto
soggetto-oggetto, dell’«esperibilità dell’oggetto e del senso, del loro essere esiliati
[hineigebanntsein] nella soggettività, che concede loro un teatro [Schauspiel]» 3 .

1 Ivi, p. 431. In virtù di ciò, Lask prende in considerazione l’ipotesi, dunque, dell’imparzialità – alter ego
dell’obbiettività scientifica – in quanto rivolgimento dell’attenzione giudicativa all’oggetto rappresentativo
impregiudicato. «In quanto la teoria del giudizio» – osserva Lask, ivi, p. 432 – «aggiunge l’atteggiamento come
“imparziale” ed “equivalente”, allo strato “conforme alla rappresentazione”, cioè a tutto ciò che resta dalla
sottrazione della qualità di valore, quale indifferente per valore, riducendo tutte le parti costitutive categoriali e
materiali al medesimo grado di “conformità alla rappresentazione”, qui si mostrano di nuovo le conseguenze,
che conducono alla neutralizzazione delle categorie. Per la teoria del giudizio si dà una mera
“rappresentazione” del contenuto categoriale, ad esempio della causalità, come un elemento della relazione
rappresentativa o come il momento stesso della relazione conforme alla rappresentazione. Infatti, anche nella
domanda, la categoria “rappresenta”. Ma poiché d’altro canto – ed anche per questo ci sono abbastanza indizi
– proprio le categorie vengono riconosciute come validità aprioriche, come norme e valori, si presentano qui
chiaramente squilibri insuperati. Assunto che le categorie, ad esempio la causalità, siano della modalità della
valenza, del valore, della norma, allora la semplice rappresentazione di un tale contenuto categoriale, come
parte costitutiva indifferente per valore, contiene una deprivazione ed uno svuotamento artificiosi. Chi invece
ritiene di poter rifiutare la dottrina, intessuta in questo studio, di una artificiosità dominante nella regione del
giudizio, deve a questo punto esitare, non potendosi sottrarre all’evidenza che qui, nella “rappresentazione” e
mediante la rappresentazione, un ché in sé valoriale è stato ridotto a qualcosa indifferente per valore, che qui
del tutto all’unisono con i principi della teoria dell’immanenza fatti presenti in questo studio, vi è una
riduzione di cui è cagione la soggettività».
2 Ivi, p. 426:«La regione oggettuale stessa, originariamente figurativa, è l’ultima e più alta mira della

conoscenza. Ma per la conoscenza, che passa attraverso la misconoscenza [Unkenntnis] del mero intreccio
degli elementi strutturali trascendenti, la regione originariamente figurativa è diventata un paradiso perduto.
Nel frammezzo [Dazwischen] si è spinta la regione immanente del senso oppositivo, in quanto mira più
prossima ed immediata. Dopo il peccato originale della conoscenza, non si può più afferrare il senso
trascendente, ma solo quello immanente oppositivo». Su ciò, cfr. S. BESOLI, La verità sottratta alla conoscenza:
l’esito tragico-mistico della dottrina del giudizio di Lask, in ID., Esistenza, verità e giudizio. Percorsi di critica e fenomenologia
della conoscenza, Macerata, Quodlibet, pp. 239- 340.
3 Ivi, p. 414. In questo brano, compaiono due nozioni essenziali per la comprensione laskiana della

soggettività: l’essere-esiliato del senso nella soggettività e la sua propria dimensione locale dello Scahuspiel.
Quanto alla prima, è interessante notare la comune radice giuridica della nudità e dell’esilio, nell’analisi di
Agamben sull’esiliabilità dell’homo sacer, in quanto nuda vita, vita uccidibile – cfr. G. Agamben, Homo sacer, cit.,
pp. 116-124 – ; quanto alla seconda è possibile rinvenire in Hume la paternità della determinazione teatrale
della soggettività; cfr. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., Libro I, Parte quarta, Sezione sesta, L’identità

236
Il Pathos della Forma

4.3. Immanenza, quasi-trascendenza, trascendenza.

Con ogni evidenza Lask definisce in senso funzionale le due determinazioni


dell’immanenza e della trascendenza, come collocazione immanente e collocazione
trascendente del senso. In tal senso, egli osserva che «la situazione dell’essere trovato già
prima [die Situation der Vorgefundeheit] negli atti del soggetto, del balenare [Vorschweben]
all’esperienza, della conchiusura [Eingeschlossenheit] nell’esperienza, può essere indicata tanto
come essere-divenuto-obbietto [Objekt-gewordenheit] quanto come essere-divenuto-
immanente [Immanentgeworden-heit], mentre lo stato [Zustand] indipendente da questa
situazione dell’essere-esperito può essere indicato come trascendenza» 1 .
Dunque se per condizione trascendente si intende l’indipendenza, vale a dire la relazione di
indipendenza, si concepisce pur sempre un rapporto di dislocazione di contro alla
soggettività, di cui ciò che ne è indipendente fa parte, in quanto indipendente 2 . Allo stesso
modo, l’espressione correlata, Immanentgewordenheit, essere divenuto immanente, ovvero
essere posto come obbietto, reca in se stessa il riferimento significativo a ciò da cui viene
tratta. «Il divenire immanente del trascendente, in questo senso, non contiene alcuna
contraddizione. Si intende soltanto il trapasso [Hinübergeraten] ad un’altra situazione» 3 . La
costituzione stessa del frammento di senso è il passaggio, cui accenna Lask, è la
differenziazione della complessiva interezza del senso – vale a dire il senso in quanto
figurazione di significato, in quanto contenuto significativo, correlazione di forma categoriale e
materiale categoriale, in quanto, dunque oggettualità – nel contatto con la soggettività
dell’esperienza, erlebende Subjektivität, che funge da sostrato. La struttura funzionale delle

personale, pp. 264-265: «I nostri occhi non possono girare nelle loro orbite senza variare le nostre percezioni. Il
nostro pensiero è ancora più variabile della nostra vista, e tutti gli altri sensi e facoltà contribuiscono a questo
cambiamento; né esiste forse un solo potere dell’anima che resti identico, senza alterazione, un momento. La
mente è una specie di teatro, dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano,
scivolano e si mescolano con un’infinita varietà di atteggiamenti e di situazioni. Né c’è, propriamente, in essa
nessuna semplicità in un dato tempo, né identità in tempi differenti, qualunque sia l’inclinazione naturale che
abbiamo ad immaginare quella semplicità ed identità. E non si fraintenda il paragone del teatro: a costituire la
mente non c’è altro che le percezioni successive: noi non abbiamo la più lontana nozione del posto dove
queste scene vengono rappresentate, o del materiale di cui è composta».
1 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, cit., II, p. 414.
2 Questo è evidentemente un punto dirimente per il foro filosofico in cui Lask si trova: come abbiamo già

potuto notare la questione della trascendenza, o meglio il suo sradicamento coincide per larga parte con
l’intento critico, ed anti-metafisico, di cui si armava la filosofia trascendentale dei valori. Pertanto, Lask precisa – ivi
– che «l’espressione “trascendenza” viene qui utilizzata non nel senso dell’eccedenza, ma nel senso
dell’indipendenza dalla soggettività, ovvero nel significato che si è elaborato nella discussione sulla filosofia
dell’immanenza nel XIX secolo e che trova fondamento in particolare anche nel «Gegenstand der Erkenntnis» di
Rickert. […]Per l’espressione “oggetto trascendente” vale lo stesso, cioè: il trascendente è pensato già come
contro-stante alla soggettività, dunque già nella sua posizione obbiettiva […].È un’indicazione breve per
designare che il trascendente conserva la sua struttura trascendente nella situazione dell’essere-divenuto
immanente».
3 Ivi, p. 414.

237
Il Pathos della Forma

differenziazione è analoga sia nella determinazione di significato sia nella costituzione di un


suo frammento: in ambedue le evenienze, il latore del senso lo incide.
Questa è insieme la prima tappa della comprensione laskiana del luogo trascendentale del
giudizio, cioè il primo carattere specifico nella delimitazione dell’ambito logico della
Nachbildlichkeit, ma anche la prima indicazione sulla Ortschaft dell’esperienza, sulla località
dell’esperienza soggettiva. Il modo in cui si delineano i tratti dell’esperienza che dà luogo al
senso, fa rifuggire dall’intenderla come una geduldigen Empfängerin, come una paziente
destinataria, immagine che fa da specchio alla maschera filosofica dell’osservatrice imparziale 1 .
«Il presupposto per un atto intaccante [antastende Betätigung] della soggettività» – precisa
Lask – «viene chiaramente dato solo dall’imprescindibile dato di fatto che nell’esperienza
del senso trascendente, ovvero dell’originaria figurazione oggettuale, se ne devia, o meglio,
che il senso trascendente o l’oggetto, indipendente sotto ogni riguardo dalla soggettività,
non perviene all’esperienza, senza difficoltà né modificazioni; o ancora, che l’esperienza,
invece di ricevere l’oggetto nella sua presa [Gewalt], deve accontentarsi di un senso
modificato, in qualche modo, nella sua consistenza [Bestande]» 2 . L’atteggiamento apofantico,
che aspira alla prensione, alla cattura, al padroneggiamento dell’oggetto, impegnandosi nelle
deviazioni, nelle modificazioni del significato, ha, agli occhi di Lask, chiaramente tutti i
caratteri di una correlazione tecnica, di un rivolgimento attraverso la τεχνή, la cura, la
Bekummerung per la costruzione. Conserva la silouette della Urteilskraft.
Eppure, «di cosa potrebbe occuparsi questa attività fatale [diese fatale Aktivität]
dell’esperienza? Cosa significa in generale che la soggettività diventa autrice [Urheberin] di un
nuovo ambito di senso, accanto alla regione oggettuale? Forse che le formazioni di valore
del senso non sono sottratte al sorgere ed al trascorrere, alla generabilità [Erschaffbarkeit] ed
alla distruttibilità [Zerstörbarkeit]? In una così grande eterogeneità tra formazioni di senso e
realtà dell’esperienza, la soggettività può dare altro se non il semplice luogo della
realizzazione, ed il senso può essere, rispetto a questa, in una relazione diversa da quella
della dislocabilità [Loslösbarkeit]? » 3 . Il fascio di dubbi, di interrogativi che qui Lask
compone esprimono nella maniera più ampia e distesa lo svolgimento della questione circa

1 In questa nota sulla concezione laskiana della soggettività dell’esperienza consta la ragione della critica alla
rescissione husserliana, espressa nell’articolo su la filosofia come scienza rigorosa, tra filosofia e Weisheit, non nella
difesa di retroguardia di una posizione di scuola, che non sembrava condividesse, stando a quanto sostenuto
nella confutazione di un primato della ragion pratica nella logica, o nel sostenere l’inconcepibilità di una precedenza
del valere sull’essere, del dover essere sull’essere. Piuttosto in conto pare essere il sommovimento, non ancora
pratico o teoretico, che il rivolgimento dell’esperienza compie nel ridurre a zolle il terreno del senso. Anche
se, infatti, il significato è tutt’altro dall’esperienza, e l’esperienza essenzialmente estranea al significato, tuttavia il
significato è bandito nell’esperienza, e non vi può essere altra esperienza di significato che quella della sua
frantumazione, differenziazione. Questo è il piano attinto dalla decisione filosofica.
2 Ivi, p. 416.
3 Ivi, p. 417.

238
Il Pathos della Forma

l’esperienza soggettiva apofantica, cioè l’esperienza che una soggettività, nella conoscenza,
fa dell’asserzione, o, per esprimerci diversamente, in queste domande è contenuta la
questione circa la predicatività nella logica.
Ciò che più alimenta il problema è palesemente l’accezione propria da tributare alla
Schaffung di questa regione del senso, in quanto significato. «Mediante l’esperienza isolante,
dal senso trascendente si costituiscono nuovi elementi, per così dire nuove pietre di
costruzione [cioè costituite, mediante un dissodamento, per essere dislocabili [verschiebbare]],
di cui si incompagina [Zusammengefügt] una regione artificiale di senso. Solo con una tale
limitazione si può parlare di una produzione [Erzeugung] della soggettività. Il senso stesso è
sempre qualcosa di increabile [Unerschaffbares] [anche nella rifiguratività]. Sono veramente
producibili soltanto le pietre di costruzione, fatte ad arte mediante isolamento, per
l’edificazione di un nuovo senso. Con la loro costituzione si esaurisce la produttività
dell’esperienza. Invece che di un senso formato [geschaffenen] si deve parlare, più
correttamente, di un senso, che si dà su un terreno dissodato dalla soggettività, che si
costruisce degli elementi smossi o [resi dislocabili,] isolati dalla soggettività» 1 .
In primo luogo, Lask distingue tra Erschaffen – nel sintagma dell’ Unerschaffbarkeit del
senso – , e Schaffen, pur conseguendo un risultato ancora insoddisfacente, da cui far ripartire
l’interrogazione: tuttavia, in questa distinzione cova un indizio non trascurabile nella
definizione dell’apofantica. Se infatti erschaffen significa univocamente creare, hervorbringen,
portare alla luce qualcosa che prima non c’era, schaffen dispone di uno spettro semantico
molto più vasto: può indicare facere, efficere, agere, imperare, ma anche formare, fingere, curare,
quindi etwas ins dasein treten, portare qualcosa all’esistenza, ma anche vorhaben, avere qualcosa
in mente, od ancora beschaffen, l’esser fatto così. La superficie apofantica è sì in qualche
modo portata innanzi, disposta ad arte dinanzi alla decisione del giudizio, all’affermazione
od alla negazione, ma non lo è perché creata, messa in opera da un qualche efficiente, dalla
soggettività come causa efficiente, piuttosto in quanto formazione, messa in figura, costruzione 2 .
Lo Schaffen si rivolge, pur restituendolo intaccato, a ciò che è beschaffen, che è fatto così, che
ist so, che mostra un determinato Sosein. «Sul terreno preparato comunque solo dalla
soggettività, si fa di nuovo incontro alla soggettività qualcosa che, per sua dignità e validità,
è indipendente dalla soggettività. È vero: sotto certi aspetti, la soggettività è produttrice
[Erzeugerin] di tutta questa regione. Ma dopo che l’operatore recede, la sua opera parla per

1 Ivi, pp. 419-420. Le interpolazioni tra parentesi quadre riportano delle annotazioni laskiane sulla copia
personale dell’opera.
2 Ivi, p. 424: «Per giungere al concetto di senso immanente è necessaria piuttosto la comprensione evidente

[Einsicht] di un’attività dell’esperienza, che non è un atteggiamento rispetto ad un senso indipendente dalla
soggettività, in quanto reca con sé una nuova struttura del senso od in breve la costituisce [schafft] soltanto».

239
Il Pathos della Forma

se stessa [cfr. una dottrina della differenziazione del significato completamente


immanente!]» 1 .
Dunque, in altri termini, Lask distingue 1) il divenire immanente del senso, del contenuto di
senso, la cui costituzione è indipendente dalla dedizione conoscitiva della soggettività, ossia
il divenire obbietto dell’oggetto, che tuttavia conserva la propria innere Beschaffenheit; 2) la
composizione quasi-trascendente della compagine proposizionale, passibile di affermazione o
di negazione, che pur essendo posta nell’esperienza vissuta dell’enunciazione, esorbita dal
piano effettuale, temporale, in virtù del suo carattere di valore, della sua validità; e 3) il senso
immanente, ovvero ciò che proprio per l’intaccamento della propria consistenza, può
presentarsi soltanto come obbietto, come balenante alla soggettività 2 .
«La dottrina del senso immanente è una dottrina del senso, che però non consiste solo di
parti costitutive teoretiche del senso od aletheiologiche; in essa, piuttosto, la dottrina della
verità si può ergere solo su fondamenta gnoseologiche, considerando il farsi-avanti [Vor-
halten] e l’intervento della soggettività. In questo intreccio, del tutto peculiare di gnoseologia
ed aletheiologia sta il segno distintivo della dottrina del senso intaccato. È una dottrina del
senso e tuttavia ha bisogno della soggettività per la struttura di senso. È una dottrina della
soggettività, eppure finisce per essere proprio una dottrina del senso trans-soggettivo. In
quanto valoriale, infatti, anche il senso intaccato è trans-soggettivo. Ogni valorialità
[Geltungsartigkeit], pur essendo così fortemente caricata di significato, pur rimandando così
chiaramente alla soggettività, è estranea all’essere e, dacché ogni esperienza ha la modalità
dell’essere [seinsartig], essa è estranea al soggetto, è trans-soggettiva» 3 .
Dunque, 1) il divenire immanente dell’oggetto, dell’indicazione formale dell’oggettualità,
corrisponde alla sua scomposizione, alla sua trasformazione in obbietto, alla determinazione
di una frattura obbiettiva: questo strato corrisponde a quello analitico degli elementi della
compagine proposizionale; 2) nella composizione di un enunciato, di una formazione
complessa, ove si ritrovino gli obbietti primari collegati o separati, in quanto reciprocamente
convenienti o non-convenienti, si rinviene la quasi-trascendenza del senso del giudizio: questo

1 Ivi, p. 420. Qualcosa di molto simile affermerà Husserl, in riferimento all’immanenza delle formazioni

logiche: «le formazioni logiche provengono esclusivamente dall’interno, procedono esclusivamente dalle
attività spontanee, e si svolgono in esse. D’altra parte è certo che esse, dopo essere state prodotte di fatto,
vengono ancora avvicinate come esistenti; si «ritorna ad esse», e quante volte piaccia, come sulle medesime; le
si impiega in un tipo di prassi, le si connette (p. es. come premesse), se ne produce l’elemento nuovo,
conclusioni, prove, ecc. Dunque si procede con esse come con cose reali, benché qui non si possa affatto
parlare di realtà [Realitäten]. Così esse ondeggiano in modo oscuro tra soggettività ed oggettività. Ma quanto a
concedere loro seriamente una validità come oggetti irreali, quanto a rendere ragione alle evidenze bilaterali,
che forse scorrettamente vengono rivolte l’una contro l’altra, e a considerare seriamente proprio quello che
costituisce sul serio questo problema, questo non lo si osa, resi ciechi dalla paura ereditaria del platonismo e
incapaci di afferrare il suo puro senso e il suo autentico problema». E. HUSSERL, Formale und Transzendentale
Logik, in Hua, cit., Bd. XVII, p. 71; trad. it., Logica formale e trascendentale, cit., p. 99.
2 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, op. cit, II, p. 416.
3 Ivi, p. 424.

240
Il Pathos della Forma

è l’ambito di costituzione di ciò che è passibile di affermazione o di negazione; 3) il


compimento, infine, dell’asserzione giudicativa, la realizzazione del giudizio in quanto
decisione, costituisce il piano del senso immanente: tuttavia conservando – seppure nella
dimenticanza e nella disconoscenza, propria della Nachbildlichekeit predicativa – la traccia
della distanza metrica rispetto al divenire immanente dell’oggettualità di senso, l’immanenza
del senso immanente non è mai conchiusa in se stessa, ma resta piuttosto come
un’immanenza dimidiata, incompleta. Tale immanenza 1 , ancora una volta, come qualsiasi
altro rivolgimento, mostra la propria indigenza.

§. 5. Le figure della verità

5.1. Verità, conformità alla verità, correttezza.

Dovrebbero essere oramai chiare quali siano le più lontane ascendenze storico-filosofiche
della dottrina del giudizio laskiana – a parte il confronto già reso esplicito con la tradizione
kantiana e con le ricerche, che gli erano contemporanee: da un lato, infatti, campeggia la

1 Riguardo alla nozione di immanenza – e correlativamente anche di trascendenza e di quasi-trascendenza –

Lask stende una lunga nota, integrata da alcune osservazioni, appuntate sul margine della copia personale
della Lehre, che riportiamo di seguito per la loro pregnanza, per quanto riesce a rendere la fatica del
ripensamento a questo riguardo. «La distinzione» – osserva Lask, ivi, p. 426 – «del senso trascendente da
quello immanente, che qui è stata condotta, non coincide terminologicamente con quella sostenuta da Rickert.
Anche in Rickert si tratta solo della differenza tra separatezza del senso e connessione con gli atti del
soggetto, cfr. Zwei Wege der Erkenntnis. Transzendentalpsychologie und Transzendentallogik , in «Kantstudien» Bd. 14,
1909, pp. 54-sgg., Vom Begriff der Philosophie, in «Logos», 1910, pp. 22-sgg. In luogo del senso trascendente, in
Rickert, come in Bolzano ed in Husserl, vi è l’oggetto, senza tenere conto dell’artificiosità che indica fuori di
sé, di ogni senso differente dall’oggetto.
[Aggiunta: si deve ammettere solo la netta separazione tra il valore ed il senso, che non hanno la modalità
dell’essere, e l’esperienza essente, ed inoltre la complessità di ambedue, cioè l’essere rivolto, l’”intenzione”
verso qualcosa, il venir concepito ed obbiettivato di qualcosa, il balenare, l’esser posto, l’essere esiliato dinanzi
all’esperienza, l’essere uniti, l’essere connessi di ambedue gli elementi, da cui sorgono le compagini complesse.
Dualismo deve restare l’ultima parola. Questo si conserva anche nel senso intaccato. Perchè tutto sta nel
mantenere la relazione soggetto-obietto, la distanza ed il rapporto tra soggetto ed oggetto. Oltre queste due
sfere distinte, c’è solo l’unificazione, l’accoppiamento, la commistione di ciò che è posto insieme in una
compagine complessa. Compagini valoriali connesse sono esiliate in un luogo dell’esperienza essente. Ci si
rivolge ad un senso valoriale, perché un senso valoriale è posto dinanzi all’esperienza.
Ciò che Rickert chiama senso immanente è l’essere toccato dal senso, è ciò che è posto di contro al senso; è
cioè il senso, un qualche senso, che viene concepito, trovandosi nello stato dell’essere obbiettivato. Non c’è
bisogno di alcun “regno di mezzo del senso”; basta l’essere-rivolto! Non vi è una distruzione dell’unità
originaria, dovuta alla “riflessione”; non cerchiamo un “minimo” di scissione, un equivalente, quanto mai
compiuto, dell’unità originaria.
Il “terzo regno” rickertiano può essere inteso solo come una compagine complessa! Ciò che è più originario
non è l’unità, non è qualcosa che sta al di là della dualità, che si ritiene cagionata solo dalla riflessione! Seppure
si ipotizzasse una tale unità al di là della dualità, essa non avrebbe a che fare – cosa che ora non ha alcuna
importanza – con il pre-scientifico, con il pre-concettuale; seppure la si ipotizzasse, non potrebbe essere
accostata nella logica. Dunque bisognerà considerarla senza scrupoli come un campo di contesa e di scontro,
a cui non bisogna tentare neanche di avvicinarsi. Perché proprio qui?]».

241
Il Pathos della Forma

critica alla nozione lockeana di giudizio, come percezione della connessione e dell’accordo, o del
disaccordo e del contrasto tra le nostre idee 1 , dall’altro la dottrina aristotelica dell’α̉πόφανσις.
La sua ricerca si orienta, infatti, alla comprensione di quale sia il riferimento proprio
dell’affermazione e della negazione, di ciò che solo può essere verificato o falsificato, α̉λεθεύειν ή̉
ψεύδεσθαι, in quanto α̉ληθής ού̉τε ψευδής, se questa è la dualità oppositiva, che nel giudizio
concresce.
Ciò premesso facciamo proseguire il cammino dell’indagine, mettendo in mostra e
provando ad analizzare tale duplicità di elementi valoriali, in cui l’uno contraddice la
simultanea presenza dell’altro. Ora, se la forma oppositiva a noi più prossima, πρότερον πρός
ημας, è quella caratteristica della decisione del giudizio, ovvero affermazione e negazione,
«tuttavia» – osserva Lask – «al suo interno bisogna ancora distinguere due ambiti.
Innanzitutto l’opposizione di valore della medesima presa di posizione del giudizio, il
valore dell’accordarsi [Treffen] ed il disvalore dello sbagliare [Verfelens] e dell’errare, cioè
l’opposizione della concordanza [Zutreffendheit] (in mancanza di un’espressione appropriata) e
dell’erranza [Irrigkeit] o dell’errore. Da ciò bisogna distinguere l’opposizione di quello che è
giudicato, dunque l’opposizione di quello che è “pensato”, “inteso”, “asserito” nel giudizio,
cioè l’opposizione impressa nel senso del giudizio. Questa opposizione del senso, isolabile
dal giudizio, può essere indicata come quella di correttezza e falsità [Richtigkeit und
Falschheit]» 2 .
Sotto il titolo vago della dottrina della verità – ovvero della logica come dottrina della
verità – Lask scorge differenti livelli di composizione di senso, dunque di compagini
valoriali: egli distingue, sin da subito, 1) la duplicità di atteggiamenti propria della decisione
del giudizio, composta dal nesso alternativo tra il Bejahen ed il Verneinen, tra il dire di sì ed il
dire di no, e 2) la contrapposizione tra Treffen e Verfelens, tra σκοπου̃ τυχε̃ιν e σκοπου̃
α̉πότυγχανειν 3 , tra colpire il bersaglio e fallire il bersaglio, situate ambedue nell’ambito del
senso immanente del giudizio, ed infine 3) la differenza insistente tra correttezza e falsità riferite

1 J. LOCKE, Saggio sull’intelletto umano, IV, 1, 2, trad. it. a cura di N. Abbagnano, Torino, p. 607. Sulla critica
laskiana alla dottrina lokeana del giudizio, cfr. E. LASK, Die Logik der Philosophie, in GS, cit., II, p. 28. Quanto
alla rilevanza della mancata elaborazione critica delle ricerche lokeane nella teoria della conoscenza kantiana,
come ragione della sua insufficienza, si vedano E. HUSSERL, Erste Philosophie (1923/24). Erster Teil: Kritische
Ideengeschichte, Hua, cit., VII; trad. it., Hume e Kant. Obiezioni contro il problema kantiano dei giudizi sintetici a priori e
contro lo schema della sua risoluzione, in ID., Kant e l’idea della filosofia trascendentale, cit., pp. 11-12; E. HUSSERL, Die
Krisis der europäischen Wissenschaften und die traszendentale Phänomenologie, in Hua, cit., Bd. VI, 1954; trad. it. di E.
Filippini, a cura di E. Paci, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, Il Saggiatore, 1961;
poi, Milano, Est, 1997, pp. 112 – 114.
2 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, op. cit, II, pp. 296-297.
3 L’utilizzo dei termini Treffen e Verfelens recano senza alcun dubbio un conio greco-classico. Il luogo classico

in cui questa disposizione giunge alla luce, è PLATONE, Teeteto, 194a. Sulla coordinazione, o meglio sulla
secondarietà di α̉μαρτάνω, erro, mi inganno, in quanto ho fallito il bersaglio, restando appeso
contemporaneamente, α̉μα, a due punti, si veda successivamente riguardo alla dottrina dello ψευ̃δος.

242
Il Pathos della Forma

a das, was geurteilt wird, a ciò che è giudicato – e non a ciò su cui, das, worüber, si giudica,
dunque inerente al senso quasi-trascendente del giudizio.
Lask ritrova il modello esemplare di una riflessione sul sichkreuzen tra una delle coppie
oppositive del senso immanente, quella di affermazione e negazione, e quella del senso
quasi-trascendente, in cui ricorre correttezza e falsità, proprio nella dottrina del giudizio
aristotelica. Tuttavia, «Aristotele piuttosto considera l’opposizione di affermazione e
negazione e quella di correttezza e falsità in modo tale da collocare la misura per la
correttezza e la falsità del giudizio affermativo o negativo, dunque il correlato obbiettivo
dell’ affermazione e della negazione corrette, di gran lunga oltre ogni regione non-
oggettuale, divisa oppositivamente, cioè immediatamente negli oggetti stessi [in die
Gegenstände selbst]» 1 .
La lettura che qui viene fornita della distinzione aristotelica tra le due coppie oppositive,
affermazione e negazione, correttezza e falsità, rimanda con ogni evidenza al magistero di
Brentano, laddove chiarisce la differenza tra il κύριος όν, tra l’essente vero e proprio, l’essente
senza aggettivazioni, di cui declinano i modi significativi le categorie, e l’essere-vero (ed
non-essere-vero) come sussistente solo sul terreno del pensiero, εν τη διάνοια. In altri
termini, la realtà del predicato essere, l’irrealtà, l’idealità, del predicato essere-vero. Ora, questi
due poli si contrapporrebbero così come un ambito, viceversa, non-irreale, non valente,
non logico, ma metalogico, ed un altro irreale, valente, logico, rivolto al precedente. In tal
guisa, la correttezza consisterebbe «nel prendere ciò che è unito per unito (συγκείμενον) e ciò
che è diviso per diviso (διαρημένον), la falsità invece nell’atteggiamento contrario. Sembra
dunque che non si assuma una coppia oppositiva primaria come misura della correttezza e
della falsità e come correlato obbiettivo dell’affermazione e della negazione, ma un
differente stato di cose oggettuale, così che l’opposizione di affermazione e negazione si
radichi negli oggetti stessi, ricevendo una significanza ontologico-metafisica» 2 .
A partire da questo assunto – derivante dalla visione secondo cui la forma metafisica della
dottrina dei due mondi coinvolga pienamente almeno l’intera storia della filosofia prima di
Kant – emendare la dottrina aristotelica del giudizio significa trovare alla stratificazione, alla
differenziazione del senso proposizionale la sua autentica dimora. Il tentativo si rivolge,
attraversando lo Stagirita, a se stesso, alla saldezza della propria elaborazione. «Si potrebbe
sciogliere questa contraddizione, ancora mai risolta, presente nella dottrina di Aristotele» –
osserva Lask – «solo se fosse possibile intendere il correlato obbiettivo, da lui istituito per
affermazione e negazione, non come metro metafisico-oggettuale, ma nel senso di una

1 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, op. cit, II, p. 317.
2 Ivi.

243
Il Pathos della Forma

norma di validità ed invalidità, distinta per opposizione, dunque di una coappartenenza e di


una non-coappartenenza, di un convenire e non-convenire, in quanto metro della
correttezza e della falsità, indipendentemente dalla decisione in merito; se, cioè, in ultima
analisi fosse possibile ravvisare in ciò solo l’espressione di una validità obbiettiva che si
pone come punto di riferimento di contro alla discrezione soggettiva» 1 . Dunque, perché
nella logica, non venga fissato alcun presupposto che non sia iuxta principia propria, il
correlato obbiettivo, cioè la compagine che funge da contenuto obbiettivo della decisione
giudicante, deve essere considerata come una complessione data dalla coappartenenza,
Zusammengehörigkeit, o dalla non-coappartenenza, Nicht-Zusammengehörigkeit, degli elementi in
quanto obbietti primari. Tali correlati συγκειμένα e διηρεμένα, rappresentano, altresì, un
metro di validità (o di invalidità), sono Maßstabsgebilde, formazioni che valgono come metro,
a cui corrispondono le indicazioni di correttezza e falsità rispetto ad un asserto giudicativo.
D’altronde, «ciò che si giudica essere unito e ciò che si giudica essere separato non
dovrebbero in fondo significare compagini divise per opposizione valoriale e più
precisamente non dovrebbero occupare la posizione mediana, che conviene alle compagini
vere ed a quelle difformi dal vero?» 2 . I caratteri dell’obbietto del giudizio sembrano arricchirsi e
chiarirsi: a costituire il primo livello della regione dell’evidenza, della ri-figurazione, sono le
scomposizioni, le fratture, i frammenti dell’oggettualità, ovvero gli elementi degli obbietti
primari, quelli che Lask considera come κατά μή δε μίαν συμπλοκήν λεγόμενα, parti non
composte, ma parti non-indipendenti, la cui non-indipendenza indica la valenza del completamento.
A loro volta, gli obbietti primari, le Objektsgefuge, ovvero ciò su cui si giudica, ciò su cui si
afferma o si nega, ciò rispetto a cui si discrimina tra correttezza e falsità, possono essere o
Wahrheitmäßige o Wahrheitwidrige, o conformi o difformi dal vero, ove la correlazione della
conformità o difformità è correlazione logica tra oggettualità ed obbiettività, è l’obbiettivazione
dell’oggetto dinanzi ad un soggetto. Su un piano orizzontale di relazioni – come sempre
orizzontale e concentrico è il legame tra qualsiasi forma di oggettualità od obbiettività,
perché sempre all’interno del logos – gli obbietti primari occupano una posizione mediana
tra oggettualità categoriali e decisione del giudizio. La modalità di tale correlazione è data
dalla funzione metrica, dal fatto che ciascuna di queste formazioni funge da metro a quella
successiva, seguendo l’ordine che va dalla minore alla maggiore distanza rispetto alla
costituzione categoriale 3 .

1 Ivi, p. 318.
2 Ivi, p. 319.
3 Ivi, p. 311: «Come correttezza e falsità del senso del giudizio, secondo gli accenni dell’introduzione, trovano

la loro misura nella valorialità degli obbietti primari, così l’oggetto rappresenta per questi ancora la misura
ultima. Questi obbietti della decisione del giudizio sono primari, rispetto al senso del giudizio, ma secondari,
rispetto all’oggetto. Mediante questa doppia distanza di metro e di accordo, si fissa la loro posizione verso

244
Il Pathos della Forma

Tuttavia, assunta la mappa strutturale, resta da comprendere in che modo funziona la


correlazione metrica, perché «l’oggetto è il metro per individuare quali elementi si „addicano“
[zukommen] o non si addicano a quali altri elementi, in sé, indipendentemente dalla decisione a riguardo» 1 .
Per oggetti, Gegenständen, Lask intende la proto-figurazione delle oggettualità categoriali,
ovvero delle categorie, in quanto composte di forma categoriale e materiale categoriale; per
oggetti di senso, dunque intende le differenze categoriali, la differenziazione di significato
della forma categoriale rispetto ad un materiale categoriale. La posizione obbiettiva degli
oggetti, in quest’accezione, la loro Gegenüber-Stellung, la loro posizione di contro alla
soggettività dell’esperienza, nell’atteggiamento del giudizio, li sommuove, dissoda il loro
terreno riducendolo in zolle. Si realizza così un’ulteriore differenziazione di significato –
completamente immanente, vale a dire una differenziazione del senso immanente – questa volta
però come un frammento di significato rispetto al rivolgimento, all’intenzione, all’accenno
dell’esperienza vissuta nell’espressione del giudizio. Ciò che era serrato nell’oggettualità
categoriale si ritrova scomposto nell’obbiettività predicativa: forma categoriale e materiale
categoriale finiscono per figurare come gli elementi degli obbietti primari.
Eppure, anche se ridotti a termini, a parti, conservano traccia dell’oggettualità, in virtù
della loro non-indipendenza. La forma dell’oggettualità è indicazione di un’indigenza, di un
bisogno di riempimento, il materiale che ne determina il significato, è momento della
materialità nel materiale, è sempre già dimensione della forma, cono visivo in cui la forma
mostra qualcosa. Il modo in cui le oggettualità categoriali si costituiscono (categorie
costitutive) ed il modo in cui si correlano vicendevolmente (categorie riflessive) mantiene
invariata l’encliticità rispetto al contenuto od alla contenutezza – alla forma del contenuto,
nella riflessività. Dunque, ancorché nella loro situazione obbiettiva, gli elementi
dell’enunciato giudicativo, recano i legami spezzati delle loro rispettive valenze, così come
un elemento chimico – nella sua costruzione grafica – mostra, nella sua elementarità, la
possibilità, o l’impossibilità di collegarsi, di sintetizzarsi con un altro, e con quanti altri 2 .
«Cosa significano» – domanda Lask – «le compagini di giudizio, che contengono una
relazione categoriale? Che cosa significa dire che nell’obbietto sottoposto alla presa di
posizione giudicante, a e c non si coappartengono causalmente, e dunque che cosa significa
dire che si presenta una compagine causale difforme dal vero? Non che la non-
coappartenenza in generale debba trovarsi tra i due contenuti [Inhalte], ma semplicemente
che i due non debbano coappartenersi appunto causalmente. Questo non significa altro che

l’alto e verso il basso, e viene almeno designata più chiaramente la loro posizione mediana, preconizzata
nell’introduzione, tra oggetto e regione della decisione del giudizio».
1 Ivi.
2 Cfr. Infra cap. I, Digressione su l’incompletezza della valenza, pp. 60-65.

245
Il Pathos della Forma

la causalità, da un lato, è inconciliabile con il materiale a, c, dall’altro, che la causalità si trova


in una posizione rovesciata, difforme dal vero.[…] Non si può affatto parlare qui di una
non-coappartenenza tra a e c.[…] Che i due contenuti [Inhalte], a e b, si coappartengono
causalmente, è un’espressione abbreviata, per dire che tra causalità ed a, b, sussiste
coappartenenza» 1 . Dalla scomposizione infatti delle oggettualità categoriali costitutive
derivano gli elementi dei contenuti delle proposizioni monotetiche, monoradiali – come le
Existentialsäte –, dunque: sia «a è (esistente)», che «b vale»; da quella delle oggettualità
categoriali riflessive i contenuti delle proposizioni politetiche, pluriradiali: come «a è causa
di b», oppure «a è identico ad a», «a è diverso da b».
Ora, mentre nell’ambito oggettuale era la forma categoriale ad esprimere già in se stessa –
cioè anche nella sua purezza – la correlazione, senza necessitare di alcuna composizione
successiva del collegamento al proprio riferimento materiale, mentre cioè la forma
oggettuale è già relazione – è indice – e quindi non vi è alcun bisogno di un elemento terzo
– la relazione, un’ulteriore Zwischen, Tra –, nell’ambito non-oggettuale, invece, gli elementi
obbiettivi, dunque separatamente forma categoriale e materiale categoriale, rinviano ad una
composizione, ad una correlazione, quella della coappartenenza e della non-
coappartenenza, di cui sono rispettivamente Glieder, membri. Pertanto, la relazione
categoriale non coincide affatto con la Zusammengehörigkeit 2 .
«Da ciò emerge» – prosegue Lask – «in che cosa consistano armonizzare e
disarmonizzare [was es mit dem Harmonieren und Disarmonieren für eine Bewandtnis] e perché non
possono aver luogo negli oggetti stessi. Una coappartenenza e non-coappartenenza, ad
esempio, tra relazione causale ed i due contenuti [Inhalte], presuppone la dislocabilità
[Verschiebbarkeit] e la removibilità della relazione causale rispetto ai suoi membri, lo
strapparsi vicendevole della relazione causale e dei membri causali, lo sradicamento della
relazione causale» 3 .
Se gli obbietti primari indicano lo strato contenutistico del giudizio essendo, per quanto è
stato illustrato, passibili di affermazione e di negazione, dunque o conformi alla verità o
difformi dalla verità, cosa si intende per la posizione metrica della Mäßigkeit/Widrigkeit, cosa
si intende per verità?
«La verità diventa una parola vuota – Lask, ne è del tutto consapevole –, se non la si
comprende come senso logico articolato» 4 . In fondo, è proprio dalla vaghezza

1 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, op. cit, II, p. 359.
2 Cfr. sulla nozione di Zusammengehörigkeit e su quella di Grund der Zusammengehörigkeit, di fondamento
dell’inerenza reciproca, si veda S. BESOLI, Il valore della verità. Studio sulla „logica della validità“ nel pensiero di Lotze,
cit., pp. 61-63.
3 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, op. cit, II, pp. 361-362.
4 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, cit., III, p. 141.

246
Il Pathos della Forma

dell’enunciazione del suo problema, che è sorto il processo laskiano di differenziazione, e di


distinzione terminologica, è dalla necessità di risolvere l’equivocità del suo nome, che
prende le mosse l’intenzione di restituire al giudizio il suo luogo proprio trascendentale 1 .
Muovendo dall’identificazione, variamente ribadita, tra logica come problema del senso e
problema della verità, Lask ravvisa nella definizione dell’oggettualità come senso, degli
oggetti categoriali come oggetti di senso, l’avvio terminologico della sua risposta. «Sembra
opportuno attribuire il termine “senso” alle formazioni della regione raffigurativa del
giudizio. Queste – come è stato già spiegato – si trovano sul terreno della soggettività.
Perciò in questi casi sembra appropriata l’espressione “senso”, laddove senso significa
sempre “senso di”, cioè un qualcosa divisibile da un sostrato, in particolare dagli atti
soggettivi, un qualcosa che si può invenire nella soggettività» 2 . Allo stesso modo, che
nell’espressione senso di, cioè significato, frammento di significato nella sua composizione
obbiettiva, ricorre anche quella di verità di, per intendere verità del giudizio, verità della
proposizione; e come il senso di, è un senso riguardante qualcosa, da cui può essere isolato, il
sostrato, così la verità di è una verità su qualcosa, eine «Wahrheit über» - nel caso del giudizio, è
verità del giudizio, sul suo obbietto. Dunque, come la regione teoretica rifigurativa non è la
logica, ma una sua parte, come il senso di non è il, ma un senso, così la ”Wahrheit über” non
è il modo, ma un modo della verità. Perché non vi fossero sovrapposizioni Lask l’ha
definita conformità alla verità o difformità dalla verità.
La verità, invece, è semplicemente la figurazione originaria dell’oggetto. «Secondo la
nuova terminologia» – scrive Lask – «nel termine “difformità dalla verità”, la parola “verità”
significa l’originaria figurazione inoppositiva, e non la verità positiva; vale a dire, ciò
rispetto a cui la difformità dalla verità si trova a distanza, e non ciò rispetto a cui è in
opposizione. “Difformità” esprimerà d’ora innanzi non l’opposizione, ma, allo stesso modo
della conformità, la relazione della distanza» 3 .
La verità è Bild, è nel λόγος, è senso, è λεκτόν, è ciò che resta da dirsi, non coincidendo mai
con ciò che è stato detto, λεγόμενον.

1 Ivi, p. 137: « La dottrina generale della verità comprende tutto quello che riguarda il Senso logico ed il
contenuto logico di significato in generale, indipendente cioè dalla differenziazione delle singole Forme
logiche. Essa è in primo luogo dottrina di quali elementi, unitariamente e senza differenze – nonostante tutte
le differenziazioni delle singole Forme logiche e del Materiale, che vi si trovano, - compongano la compagine
del Senso teoretico, la Verità, ed, in secondo luogo, è la dottrina generale del contenuto di significato della
Forma logica».
2 E. Lask, Die Lehre vom Urteil, in GS, op. cit, II, p. 394.
3 Ivi, p. 395: «L’intera esposizione precedente – annota Lask – offre così la struttura per la considerazione

dominante nella Logica della Filosofia, cioè che senso teoretico o “verità” sono conchiusi nella semplice
compagine forma-materiale, finendo per coincidere con l’oggetto, e quindi che la conoscenza appare come
mera prensione oggettuale [Gegenstandsbemächtigung].».

247
Il Pathos della Forma

Ma non è verità, il nome più semplice e più ambiguo, per ciò che siamo andati chiamando
Urbildlichkeit? Non è ai modi di figurazione della verità che sempre ci siamo riferiti,
ripetendo ogni volta, ad ogni stadio, le cadenze del bilden, nella teoria della significazione
come nella pluralità di dimensioni del fenomeno giuridico, nella composizione, nella
deviazione artistica o nell’incisione grafica, ogni volta cioè che sia stato formulato il problema
trascendentale dell’oggetto? Verità, senso, oggetto 1 sono i modi di dire il valere-per, l’Hin-Gelten.
Tuttavia, avendo das Wesen der Wahrheit la forma dell’indicazione 2 , sotto quel titolo vago di
Wahrheit si raccolgono tutte le modificazioni della sua figurazione, ossia dell’evidenza.
Conformità alla verità e difformità dalla verità, correttezza e falsità, cogliere nel segno e
fallirlo, non sono certo la verità, ma tutti sono nella verità 3 .
La verità è la mostrazione dell’oggetto, è l’oggetto mostrato, è l’esibizione originaria
dell’oggetto da se stesso. Manca pertanto del carattere dell’oppositività non in quanto vi
indifferente o neutrale, ma perché è altro: l’evidenza del giudizio – in cui ha luogo la non-
contraddicibilità 4 degli asserti proposizionali – non è la verità.
La verità non è, neanche, astrazione dai fenomeni contraddittori, ritrazione dal loro
vicendevole opporsi, non è una gattungsmäßige Allgemeinheit, una generalità generica, non è «il
medio indeterminato, la medietà di un valore e di un senso in generale, che forma un
concetto superiore [Oberbegriff] nel senso di vox media» 5 . Né è verità quale verità positiva, quale
normatività, come nel caso della contrapposizione kantiana, espressa nel paragrafo 19 della
Kritik der Reinen Vernuft, tra la validità obbiettiva della sintesi e quella soggettiva 6 .

1 E. LASK, Zum System der Logik, in GS, cit., III, p. 139: «All’espressione «Verità» è ancora legata una pluralità
di significati [Vieldeutigkeit]. Verità può essere cioè intesa come valore, come senso e come significato».
2 Ivi, p. 137: «La dottrina logica della verità può così in primo luogo ricercare l’«essenza della verità» in

generale, dunque il Senso logico in generale e cioè la dualità F.[orma]-M.[ateriale] in ambito teoretico, ed in
secondo luogo può rivolgersi al modo proprio dello stesso contenuto della Forma logica, così come può
fondare sistematicamente le singole forme, in cui si differenzia. Così essa si divide in una dottrina generale
della verità ed una dottrina sistematica del contenuto formale categoriale (L’una è una dottrina del Senso
logico, l’altra del contenuto logico di significato)».
3 Ivi, p. 138: «Nonostante la frattura, che si rivela proprio qui per la prima volta, tra il senso trascendente e

quello immanente, la dottrina generale della Verità si compone come qualcosa di unitario». Sulla differenza tra
evidenza e verità, cfr. E. HUSSERL, Logische Untersuchungen, II, in Hua, cit., XIX, pp. 115-127; trad. it. Ricerche
Logiche, cit., II, Sesta Ricerca. Elementi di una chiarificazione fenomenologica della conoscenza, V, p. 416-428. È senza
dubbio in relazione a queste argomentazioni laskiane, che Heidegger considerò la Lehre vom Urteil tanto
influenzata da una comprensione profonda, ma ad esteriore, della già citata esposizione husserliana della
differenza tra evidenza e verità, quanto invece la Logik lo era da quella sulle intuizioni sensibili ed intuizioni
intellettuali. Cfr. M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, in GA, cit., Abt. I, Bd. 2, 1977; trad. it., Essere e Tempo, cit., p.
529.
4 Sul principio di contraddizione come principio della logica apofantica, cfr. E. HUSSERL, Logica formale e

trascendentale, cit., pp. 65-sgg.


5 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, op. cit, II, p. 403.
6 Ivi, p. 406: «[In Kant] non si fa mai menzione di una valorialità oltre-oppositiva. Piuttosto la presentazione

kantiana induce continuamente ad intendere la validità, ovunque giochi il suo ruolo, nel senso di validità
positiva. Laddove Kant pensa all’unità “valida obbiettivamente” ed alla sintesi, contrappone loro la sintesi
“valida soggettivamente”, in quanto indotta per associazione, dunque arbitraria e relativa, non-valevole e
negativa». Il riferimento è a I. KANT, Critica della ragion Pura, trad. it., cit. pp. 200-203. A fare da esempio,
all’identificazione tra verità e verità positiva, non resta affatto solo la dottrina kantiana dell’opposizione tra

248
Il Pathos della Forma

«A prima vista, a favore di un’interpretazione dell’intera dottrina kantiana della coscienza


in generale nel senso della oltre-oppositività, si potrebbe rimandare al fatto che la coscienza
in generale viene chiaramente pensata come un ché di supremo ed unitario, non divisa per
opposizione, e perciò anche capace solo di affermazione, non essendo sottoposta
all’alternativa di affermazione e negazione. A questa esclusività dell’affermazione
corrisponde un dominio assoluto della verità positiva. Così tuttavia una positività indivisa
sarebbe elevata del tutto oltre quella regione, in cui si dà la dualità di positività e negatività.
A ciò bisogna ribattere: con una tale semplice eccedenza della positività rispetto
all’opposizione di positività e negatività non è ancora stata data garanzia che sia stata evitata
quell’assolutizzazione dell’opposizione, sempre legata ad una preferenza per la positività.
Perciò non è affatto sufficiente una tesi che statuisca in qualche modo un superamento
[Aufgehobenheit] dell’opposizione, poggiando sopra la divisione in opposti. In tal guisa,
l’opposizione potrebbe essere pensata come fenomeno concomitante di uno dei due, tra
l’andare a segno e lo sbagliare, mentre la mancanza di opposizione potrebbe essere pensata
solo come un correlato obbiettivo dell’infallibilità [Unfehlbarkeit] di un atteggiamento
soggettivo» 1 .

verità e falsità, o quella appena citata tra validità obbiettiva e validità soggettiva. Lask richiama a questo
riguardo piuttosto anche le nozione ristrette di stato di cose o di proposizione in sé indicanti la posizione di
certezze in sé (o falsità in sé), e non semplicemente il loro ambito di posizione, l’orizzonte in cui soltanto
possono essere poste. Cfr. E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, op. cit, II, p. 391-392: «Un altro documento
della plurisignificanza di essere, realtà, oggetto e “cosa” [“Sache”] lo fornisce il concetto di “stato di cose”
[“Sacheverhalt”]. In primo luogo, sembra che il criterio decisivo per l’opposizione dello stato di cose positivo a
quello negativo, dell’essere al non-essere, del riferirsi al non riferirsi, del “fatto che” al “fatto che non”,
appartenga completamente alla regione del senso ed invero all’intero senso del giudizio, a ciò che è inteso nel
giudizio. Ma questo non si trova ad una distanza così chiara dall’oggetto come, invece, il senso del giudizio e
della proposizione. Piuttosto rappresenta una formazione di mezzo [cioè originale + ri-figurazione.], a questo
riguardo almeno non ben distinta, tra oggetto e senso: un’introduzione dell’articolazione del senso oppositivo
negli oggetti, un’interpretazione degli oggetti secondo la positività e la negatività del senso, gli oggetti già nella
rielaborazione della struttura oppositiva del senso . A partire da questo cangiante concetto di stato di cose
diventa comprensibile nella maniera più chiara come si scivoli nell’assolutizzazione del positivo e del
negativo». Quanto all’arrestarsi nello stadio della quasi-trascendenza, nell’indicazioni logico-formali di
Bolzano o di Husserl circa l’in-sé della verità (e della falsità), cfr. ivi, p. 425.
1 Ivi, p. 408. Quanto ai gradi di certezza, ed alla differenza tra certezza ed evidenza come correlato soggettivo

dell’obbiettività del senso, cioè come rivolgimento dell’obbiettività all’esperienza soggettiva, si veda E. LASK,
Die Lehre vom Urteil, in GS, op. cit, II, pp. 449-452 : «La considerazione dei differenti ruoli, che la soggettività
può giocare di contro al senso, rende ora possibile uno sguardo complessivo sulla totalità dell’atteggiamento
conoscitivo. Riguardo alla dottrina del senso immanente è subito evidente che non è sufficiente la divisione
nelle distinzioni dell’atteggiamento soggettivo, determinate dal senso, ed in quelle prodotte dalla stessa
soggettività. Si è reso evidente che vi sono differenze dell’atteggiamento soggettivo tali, da non essere altro
che meri correlati di un senso indipendente dalla soggettività, sorgendo piuttosto, per così dire, per iniziativa
della soggettività, e rispetto a queste, tuttavia, l’attività soggettiva costituisce [schaffen] solo il presupposto,
perchè diventino a loro volta un mero correlato soggettivo rispetto alla regione del senso, causa sui. Di questo
tipo sembrano essere le differenze della qualità di valore, dell’affermare e del negare, e le differenze di cogliere
nel segno e fallire.
Infine vi sono anche quelle distinzioni dell’atteggiamento soggettivo, cui non corrispondono affatto
differenze di senso, rappresentando una pluralità dell’atteggiamento soggettivo, pur nella medesimezza del
senso. Qui il principium individuationis deve esclusivamente trovarsi dal lato della soggettività, perché il senso, in
questo caso, rappresenta appunto una costante. Tale differenziazione fa ora in modo che uno strato
esperienziale variabile si trovi dinanzi ad un medesimo senso. Anche riguardo a queste differenze soggettive,

249
Il Pathos della Forma

Frutto della identificazione tra verità e positività, cioè tra la verità ed una formazione
oppositiva conforme alla verità, tra la verità e la correttezza del senso espresso, della
compagine obbiettiva, dunque, della coincidenza tra verità e certezza, è il principio –
sostenuto anche nella Logik kantiana – secondo cui «il contrario della verità è la falsità» 1 .

5.2. Fallibilità: la durata della prassi.

Per comprendere la dirimente dottrina della falsità in Lask, ovvero della differenza tra
l’errore ed il falso, e della disidentificazione tra il non-erroneo e non-falso e la verità,
consideriamo un gradino della Nachbildelichkeit, rispetto a quello degli obbietti primari. Ora,
ciò su cui si giudica può essere concordante o discordante, conforme o difforme dal vero,
ma non contiene nella sua composizione alcun correlato obbiettivo dell’affermazione o
della negazione. Ciò che si giudica, il senso immanente, la compagine complessa composta dal
frammento di senso e dalla ulteriore determinazione di valore, attribuitagli nella decisione
giudicante, invece, figurano come compagini di senso provviste del si o del non, der mit dem Ja
und dem Nicht versehene Sinn 2 .
Lask giunge qui forse al suo più estremo tentativo di formalizzazione, quando cerca di
rendere linguisticamente espliciti i correlati obbiettivi, perciò le morfologie di senso proprie
di affermazione e negazione, di poterli tracciare in una forma quasi ideografica.
«Affermazione e negazione, sì e no, sono le espressioni linguistiche capaci di attribuire al
frammento di senso la conformità alla o la difformità dalla verità. Sono modi per esprimere
l’atteggiamento soggettivo, dedito al senso. Se ci si rivolge invece al senso del giudizio, di
cui quelle rappresentano solo il correlato soggettivo, allora per designare la difformità dalla
verità, considerata conveniente, è a nostra disposizione l’espressione linguistica “non”
[“nicht”]. “Non” è cioè l’indicazione non per la difformità dalla verità in genere, ma per
quella difformità dalla verità, che compare nel senso compiutamente inteso, isolata accanto
al frammento di senso, e considerata ad esso appropriata. “Non” è il correlato obbiettivo di

dovute soltanto alla variabilità dell’esperienza, la logica si occupa non di un mero molteplice strato fisico,
estraneo al significato, ma di questo strato nel suo rivolgimento al senso e nella sua cura per il senso [in seiner
Zugekehrtheit zu und Bekümmertheit um Sinn]. […]È comunque chiaro che con certezza non si intende uno strato
esperienziale, che si cura del senso, semplicemente in quanto tale, ma un “sentimento” [“Gefühl”] dedicato alla
qualità teoretica di valore. Si può pertanto concludere che conformità alla e difformità dalla verità pretendono
affermazione e negazione e richiedono certezza. Inoltre tra certezza e decisione del giudizio insistono
indubbiamente relazioni. La decisione del giudizio è legata alla certezza, mentre questa difetta nella non-
decisione. Ciò nonostante, la certezza è in una prospettiva della soggettività del tutto diversa da quella dei due
correlati soggettivi, affermazione e negazione. Ne risulta chiaramente che rispetto ad una medesima compagine
di senso intesa-immanente e balenante, cui corrispondono solo le semplici affermazione e negazione non
graduabili, si dà un’infinita articolazione dei piani della certezza».
1 I. KANT, Logica, cit., p. 47; cit. in E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, op. cit, II, p. 297.
2 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, op. cit, II, p. 434.

250
Il Pathos della Forma

No [Nein], della negazione. Non è, come il no, un modo per esprimere la dedizione
soggettiva al senso, ma è un’espressione obbiettiva per una parte costitutiva del senso
stesso, cioè per un elemento del senso compiuto immanente» 1 . Dunque il no, l’enunciato
negativo, è espressione del non, del non-convenire, del non-coappartenersi, del non sussistere.
Il no detto, la negazione immanente, non risolve in se stessa il non di cui si dice, il non quasi-
trascendente 2 . Ma tale distinzione, tra enunciato e correlato, non è possibile quanto alla
Aussageform, restando nel linguaggio naturale, nonostante gli espedienti arditi di alcuni come
Julius Bergmann, che nei suoi Principi fondamentali di filosofia, aveva escogitato la forma icht –
per sottrazione da n-icht – che tuttavia sarebbe suonata pressoché come aliquid, etwas 3 .
L’ambito tematico a cui è corretto ricondurre il tema del correlativo obbiettivo della
negazione è ancora una volta quello della Lehre vom negativen Urteil. «La negazione, come
l’affermazione, è una decisione sulla “stessa cosa”, cioè sul frammento di senso. Perciò, al

1 Ivi, 434-435.
2 M. HEIDEGGER, Was ist die Metaphysik Bonn, F. Cohen, 1929; poi in GA, cit., Abt. I, Bd. 9, Wegmarken
(1919-1961), 20043; trad. it. di A. Carlini, Che cos’è la metafisica?, Firenze, 199515, pp. 12-13: «La supremazia
della «Logica» si può mettere in dubbio? Non è l’intelletto realmente l’arbitro supremo in questa questione
intorno al niente? È ben col suo aiuto che noi riusciamo a determinare il niente in generale, e a porlo come un
problema, sia pure come un problema che annulla se stesso. Perché il niente è la negazione di tutto l’essente,
l’assoluto non-essente, noi portiamo così, il niente sotto la superiore determinazione di ciò che è affetto di
nullità, e però è negato. Ma il negare è, secondo la dominante e non mai messa in dubbio teoria della «Logica»,
una specifica operazione dell’intelletto. Come possiamo, dunque, noi volere, nella questione del niente, anzi
nella questione della sua questionabilità stessa, mettere da parte l’intelletto? Eppure è proprio sicuro ciò che
qui presupponiamo? Il non, la negatività, e però la negazione, rappresenta la determinazione superiore, sotto la
quale cade il niente come modo particolare del negato? C’è il niente soltanto perché c’è il non, ossia la negazione? O
viceversa: c’è la negazione ed il non, soltanto perché c’è il niente? Questo non è stato ancora deciso, anzi non s’è mai
espressamente sollevata la questione. Noi affermiamo: il niente è più originario del non e della negazione».
3 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, op. cit, II, p., p. 439: «La polemica, che si trascina fino ai giorni nostri,

su cosa si intenda per negazione, su cosa sia colpito dal “non”, non presenta alcuna difficoltà nel complesso
della nostra esposizione. Con il “non” si imprime sul frammento di senso il marchio della falsità. Possiamo
anche esprimerci così: la categoria viene contrassegnata come disarmonica rispetto al suo materiale. C’è un
non solo laddove c’è senso, cioè categoria e materiale categoriale.
Così come un contenuto isolato non può essere obietto teoretico, così un contenuto isolato non può essere
ciò a cui si applica il “non”. Certo, dall’espressione linguistica non è sempre facile intendere di quale categoria
e di quale materiale categoriale si discuta. Ma, non si può dare l’impressione, mediante l’espressione
linguistica, che il non si applichi ad una a isolata, facendone nascere non-a. Significherebbe non prestare
attenzione all’unica cosa importante nella logica, cioè al “senso”. Sotto modalità espressive abbreviate si
nascondono sensi e categorie molto differenti. Sono facili da intendere espressioni come: qualcosa di non-
rosso. Perché possiamo trasformarla linguisticamente in: un qualcosa non è rosso. Abbiamo dinanzi un
materiale – lasciato linguisticamente indeterminato ed accennato solo debolmente nel “qualcosa” -; questo
materiale ha le sole proprietà consistenti nella coappartenenza categoriale alla categoria di cosa. Queste
proprietà, insieme al rosso, formano l’intero materiale presente. L’intero materiale, compresa la categoria di
cosa, è il frammento di senso. Questa relazione, dunque, tra il materiale, incluso il rosso, e la categoria di cosa
viene considerata disarmonica, lo stare di tutto questo materiale nella categoria di cosa viene considerata una
falsità. Asseriamo che a tutto questo materiale non compete la cosalità. Può sembrare a prima vista artificioso
interpretare l’espressione «un qualcosa non è rosso» come: a qualcosa non si accorda il rosso. Ma se si volesse
scoprire il senso logico di questa proposizione, facendo affidamento sulla formulazione linguistica, avremmo
già smarrito ciò che importa nella logica. Per fondare il “senso” logico, lo strappo per noi deve sempre essere
quello tra categoria e materiale, dobbiamo sempre porre tutto il materiale da un lato e la categoria dall’altro, e
non un singolo contenuto materiale da un lato e un altro, dall’altro. Giungeremo all’unica relazione artificiale
tra categoria e materiale – che sarà compito del prossimo paragrafo esporre nel dettaglio – se, considerando
affermazione e negazione, comprendiamo che essa, e null’altro, è ciò che si definisce armonica o disarmonica.
Perciò possiamo intendere il “non a” come senso negato. Del caso più proprio e difficile dell’espressione
“non a” parleremo più avanti in questo paragrafo». Sulle espressioni aforistiche come non-a, cfr. ivi, p. 437.

251
Il Pathos della Forma

contrario di quanto vorrebbero Sigwart e B. Erdmann, essa non è un giudizio su un


giudizio esaminato o compiuto positivamente, un giudizio su un giudizio, un giudizio sulla
falsità del giudizio affermativo corrispondente» 1 . Un giudizio, quello negativo come quello
positivo, è orientato, sich richtet, si trova, sich befindet, non dinanzi ad un altro giudizio,
reiterando l’arco del riferimento nell’infinità possibile di Nebenurteilen; è piuttosto la
posizione medesima rispetto ad un frammento di significato, al senso frammentato in
significati. Giudizio positivo e giudizio negativo sono alla medesima distanza dall’oggetto,
ed in virtù di questa distanza sono passibili ancora della discriminazione tra correttezza e
falsità.
«Nel senso del giudizio correttezza e falsità non sono co-intese, sono solo compresenti.
Piuttosto sono intese solo conformità alla e difformità dalla verità come convenienti ad un
frammento di senso. Nel senso del giudizio, accanto al senso balenante [vorschwebend], a
quello positivo caricato del sì, ed a quello negativo caricato del non, dunque accanto al
modo in cui [als was] è inteso il senso, ed accanto alla conformità alla verità, ed alla
difformità dalla verità, immanenti, sono presenti anche la correttezza o falsità. Bisogna
distinguere non solo tra ciò che è presente immanentemente e ciò si presenta in quanto
inteso, ma anche tra ciò che, tra questi ultimi, si presenta in quanto inteso, e ciò che in essi
è semplicemente presente, pur non essendo inteso» 2 . Correttezza e falsità sono dunque
un’ulteriore determinazione di strato, di grado: all’obbietto primario (senso divenuto
immanente) si aggiunge, nell’affermazione o nella negazione, la qualità di valore del si o del
non, in virtù della coappartenenza o non coappartenenza degli elementi obbiettivi,
formando ciò che il giudizio giudica, il suo senso immanente. Ora, questo deposito di senso è
ancora sottoponibile ad una separazione, quella tra correttezza e falsità, questa volta nella
forma di una valutazione della validità. Ciononostante ambedue sono presenti dinanzi al
senso quasi-trascendente – quello della conformità e della non-conformità – da cui traggono la
propria correlazione metrica.
Questo intreccio tra senso immanente e senso quasi-trascendente nell’alternativa tra
correttezza e falsità ricorre nell’analisi laskiana attraverso la considerazione dei diversi
significati di ψευ̃δος, come cosa falsa o come discorso falso, in Aristotele 3 .Come la
possibilità del Treffen, del colpire nel segno, del riconoscimento cioè di ciò che è conforme
alla verità come tale (o della difformità dalla verità come difformità), è data dalla
scomposizione del piano oggettuale – di cui tuttavia restano le tracce della valenza

1 Ivi, p. 438. cfr. C. SIGWART, Logik, Freiburg i. B., Mohr, 1874-78, I 4 , § 20, B. ERDMANN, Logik, Halle,
Niemeyer, 1892, §§. 392-sgg.
2 E. LASK, Die Lehre vom Urteil, in GS, op. cit, II, p. 440.
3 ARISTOTELE, Metafisica, V, 29, 1024b.

252
Il Pathos della Forma

incompleta degli elementi – così, allo stesso modo, quella del Verfelen, del mancare,
dell’elusione, è data dalla sostituibilità, dalla commutabilità, dalla dislocabilità delle parti
frammentate del terreno apofantico. È dunque la medesima determinazione della distanza
ad inaugurare la condizione della correttezza così come dell’errore. L’errore non è solo già
la composizione dell’enunciato scorretto – quello che comunemente si definisce falso
rispetto a ciò che non è falso, il corretto, il veritiero –; l’errore, come Irrigkeit, lo ψευ̃δος , nella
prima accezione, è l’eventualità di restare sospesi contemporaneamente a due punti, α̉μαρτάω, α̉μά-
α̉ρτάω; è l’eventualità dello scivolamento, concessa dalla scomposizione non-oggettuale1 . È
nella comprensione della dualità propria dello ψευ̃δος che cova la liceità di rendere conto
dell’ambito apofantico e della specifica modalità di esperienza soggettiva che vi si svolge.
Ma dinanzi alla soggettività dell’esperienza – oramai è chiaro – il valere, il senso si
differenzia ulteriormente, assumendo la maschera della norma.
«Nella norma o nella pretesa» – annota Lask – «anche l’accenno ad un destinatario della
norma, cioè ad un atteggiamento che si diriga alla norma, si trova fuori dal significato di
metro. Norma è ciò che è diretto all’indirizzo della soggettività, è il punto di orientamento
per la soggettività. Alla pretesa ed alla norma, corrisponde l’ubbidire, l’adempiere, che nella
regione dell’oppositività può essere un attenersi od un trasgredire. Poiché ogni conoscere
fattuale è un attraversamento della misconoscenza e del dissodamento dell’originaria
figurazione trascendente, essendo pertanto diviso per opposizione, solitamente al carattere
di pretesa si collega direttamente la correlazione alla presa di posizione oppositiva, che
investe [zuteil werden] la norma, al cogliere nel segno od al fallire. […] Non la trasgredibilità
[Übertretbarkeit], cioè la possibilità che ci è dinanzi di un atteggiamento opposto, ma la
realizzabilità in generale, non la correlazione all’oppositività, ma all’estraneità
dell’esperienza fattuale, suscita il carattere della norma nel senso trascendente» 2 .

Sul limite della dottrina della verità, e della logica, come dottrina della verità in quanto
senso, si ergono insieme l’Unkenntnis e la Übertretbarkeit, la disconoscenza e la trasgredibilità.
Ma l’Unkenntnis e la Übertretbarkeit non sono già più teoresi. Correggendo instancabilmente i
fogli scompaginati delle sue opere, Lask ritrova la lacuna, dal cui richiamo forse ha già da
sempre mosso. «Forse – scrive, quando oramai è inoltrato l’anno 1913 – tutta questa

1 Su Falsch, Falsum, σήμα/ψευ̃δος/σφάλλω, si veda M. HEIDEGGER, Parmenides (Wintersemester 1942-43), in Hua,


cit., Abt. II, 54, cit.; trad. it., Parmenide, cit., pp. 84-98. Sul nesso insistente tra significazione, mediante segni, e
menzogna, tanto da poter definire la semiotica come «la disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mentire»,
si veda U. ECO, Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani, 20033, p. 17.
2 Ivi, 447. In un’annotazione – ivi, p. 462 – Lask aggiunge che «la trasgredibilità è semplicemente diagnostica,

ma derivata»

253
Il Pathos della Forma

posizione è insostenibile rispetto all’etico, ove la norma si riferisce alla fallibilità


[Fehlbarkeit]» 1 .
Dalla Zufalligkeit alla Fehlbarkeit, dall’accidentalità alla fallibilità, dal Fichtesbuch alla
ossessiva riscrittura della sua idea di logica trascendentale nel System der Logik, Lask torna al
carattere più proprio della temporalità, al tracciato di un Erleben, esperienza vissuta, ancora
non indirizzata né all’atteggiamento teoretico né a quello pratico. Torna alla stazione da cui
abbiamo preso le mosse, torna all’Entscheidung, a quella decisione che inaugura la filosofia, a
quell’Entfernung, a quel distanziamento esperito che la rende possibile. Ma il luogo proprio
dell’Entscheidung ne reca il carattere essenziale: l’invalicabilità. Non è dato di retrocedervi.
Questo è il ceppo cui rimane sospeso il pensiero di Emil Lask.

1 Ivi, p. 463. Al riguardo, scrive ancora Lask – nel System der Logik, in GS, cit., III, p. 102 – «Quando
«vogliamo» qualcosa per il suo valore, questo non può essere il contenuto di verità, ma tutt’al più la
conoscenza. La personalità in noi non ha a che fare mai con semplici contenuti di verità, al massimo con la
conoscenza. La dedizione affermante al contenuto di valore è sempre affermazione del contenuto di valore
come di un contenuto [Inhalt] della vita, dunque la dedizione a qualcosa di realizzabile nella vita, ad un
riempimento della vita con un contenuto di valore, ad una vita nell’essere-realizzata; dunque la volontà di
dedicarsi al contenuto di valore non è una dedizione al semplice contenuto di valore, ma un volersi riempire di
ciò, farlo penetrare in sé stessi, volerlo lasciare dominare sopra di sé stessi, laddove cioè non è voluto il
semplice contenuto di valore, ma la concessione [Gewährung] di un luogo di realizzazione. In breve, gli obbietti
etici non sono semplici contenuti di senso, obbietti ultimi, obbietti in senso assoluto, che non rappresentano
in nessun modo per il loro carattere trans-soggettivo formazioni soggettive, (qui del resto si riconosce un
terzo significato di obbiettivo, cioè obbiettivo (in senso assoluto) in opposizione a soggettivo, la trans-
soggettività dell’obbietto ultimo), ma obbietti solo in senso relativo e funzionale, formazioni soggettive
secondo il loro contenuto [Gehalt], né realizzazioni complesse del senso trans-personale, oppure formazioni di
valore. Ciò che è una formazione soggettiva nell’originaria compagine soggetto-obbietto, può essere obbietto
dinanzi all’atteggiamento etico. Diventare soggetto teoretico, può essere obbietto etico per la vita scientifica,
per la personalità scientifica. Dobbiamo cioè distinguere il divenire obbietto nelle originarie formazioni
complesse ed il divenire obbietto dinanzi all’atteggiamento etico. Come il semplice contenuto di senso, che
accenna alla mera esperienza, riporta la nota «obbietto», «senso di», norma o pretesa, così tutte le realizzazioni
e le formazioni personali del valore ricevono, per così dire dall’atteggiamento etico della comprensione, il
sapore del «bene», del «fine», della «mira», della «norma» o della «pretesa» in senso propriamente etico». E
continuando in nota la sua interrogazione, finisce per porsi una domanda radicale proprio quanto
all’opposizione specifica nell’ambito del volere personale; si chiede infatti: non è che questa opposizione sia
quella che insiste tra «il volere vincente - trionfante [siegen-triumphierendend] e quello che ne è vinto?».

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