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S
è
ſae
BIBLIOTECA

ENCICLOPEDICA
ITALIANA

MILANO
PER NICOLÒ BETTONI E COMP.

M.DCCC.XXXIV
}
OPERE

BENEDETTO VARCHI
CON LE LETTERE
-

VOLUME I

MILANO
PER NICOLÒ BETTONI E COMP.
M.DCCC.XXXIV
G L I E D IT O R I

li secolo decimosesto fu per l'Italia un secolo eminentemente


letterario nella più ristretta significazione della parola. Ne secoli pre
cedenti, a cominciare da quello così glorioso che segnò per noi l'e-
poca del risorgimento, e che chiamar si dovrebbe il secolo di Dante
a più giusto diritto che non si denomini da Papa Leone questo di
che imprendemmo a parlare, eransi pienamente dissipate in ogni
parte della penisola le tenebre della barbarie; già le lettere, le
scienze, le arti, sussidiate dal generoso patrocinio de'Principi e di
tutta la nazione, avevano qui piantata la sede loro per quinci spar
gersi, gentili e benefiche pellegrine, in tutta la rimanente Europa:
già disseppelliti i tesori del senno e del bello antico, e rinfocatasi
la smania di cercarli, di conoscerli, di vagheggiarli dalla presenza
de profughi Bizantini venuti fidatamente a rifugio in questa contrada
che un'altra volta avea dalla Grecia ricevuti i suoi maestri, s'erano
le menti italiche di nuovi spiriti accresciute; e sulla base delle tra
dizioni antiche, commesso e cementato con nuove leggi e con novelli
trovati, sorto era il magnifico edifizio della civiltà italiana, che pre
sto doveva diventare europea. E di vero che cosa mancava in Italia
a lume e conforto degli ingegni, allo splendore e all'incremento di
ogni bella ed utile disciplina, dappoichè la poetica inspirazione
aveva messo un linguaggio così nuovo, così moltiforme ed efficace sulle
labbra di Dante, del Petrarca, dell'Ariosto; e tutte l'arti belle e
con esso loro pur le meccaniche aveano avuto un traduttore così
fedele d'ogni più squisita lor forma, d'ogni più scorta loro indu
stria in quell'ingegno universale di Leonardo; dappoichè l'erudi
ione antica avea dischiuse le sue maggiori ricchezze al Poliziano,
al Filelfo, al Valla, e mercè le costoro fatiche e quella maravi
gliosa invenzione della stampa, che fu proprio quasi un nuovo senso
VIII

largito all'umanità, s'erano in Italia, più presto che altrove, dif


fusi i classici esemplari della Grecia e del Lazio; dappoichè la sto
ria, la politica e l'altre scienze civili avevano trovato un inter
prete così profondo ed acuto, ed ahi! troppo profondo ed acuto,
nel Machiavelli; e Firenze avea veduto rinnovellarsi le selve d'A-
cademo, e rifiorir la filosofia di Platone per consolare di nuova luce
gl'indagatori del vero? Il calle del rinnovamento civile era già stato
dagli Italiani intieramente percorso; ed essi potevano stamparvi
orme più luminose, e cogliervi più splendidi allori: potevano gli
aperti sentieri appianare e rabbellire: potevano sugli addentellati
del già costrutto edificio erger novelle moli a crescerlo d'ampiezza
e di maestà ; ma schiudersi nuovo cammino, ma fondare nuovo
tempio alla patria civiltà più non potevano.
Tuttavolta una grande e nobile opera lor rimaneva, in cui avreb
bero potuto e dovuto occupare l'esuberante forza dei loro ingegni,
e quella copia di mezzi d'ogni specie che avevano raccolta. Restava
loro di rivolgere in profitto del progresso politico e morale le con
quiste fatte nella carriera della civiltà: restava di ritrarre una pra
tica utilità in beneficio di tutta la nazione da tanto lusso di scienze,
di lettere, d'arti: restava d'applicare al miglioramento degli ordini
civili, al rassodamento della nazionale possanza tanti nobili pensieri,
tante feconde idee, tanti grandiosi concepimenti: restava in somma,
dopo aver rinnovato gl'ingegni, di riformar gli animi; dopo aver
rintegrate le scienze, le lettere e le arti nazionali, di rintegrar la
nazione. E certo a quest'unico scopo avevano inteso i primi au
tori dell'italico risorgimento: quest' era sullo scorcio del secolo
decimoquinto, quest'era il voto di tutti quel generosi che si tra
vagliavano con tanto fervore a promuovere la patria cultura; ma,
colpa dei fati e nostra, un sì magnanimo voto rimase inadempiuto.
Le nostre intestine discordie, le triste gare dei nostri Principi,
il cozzo fatale di tanti interessi, di tante passioni e di tanti rancori,
che si trascelsero ad arena l'Italia, trassero sulla nostra patria quel
fiero turbine di guerra, che mise ogni cosa sossopra, ed impedì che
attender si potesse all'opera del nazionale ristauramento. -

Quindi avvenne che gl'ingegni italici, alcuni sconfortati dallo


spettacolo delle patrie calamità, altri tratti da natural vaghezza di
tranquilli studi, i più costretti dalla prepotente forza delle cose,
abbandonarono le severe discipline, si ristrinsero all'amenità delle
IX

lettere e dell'arti, e più le forme pur di esse che l'intima sostanza ſe


cero soggetto delle loro speculazioni. Così limitato l'arringo degli inge
gni, non si venne però scemando la loro naturale versatilità e vigoria,
che applicatasi quasi intieramente alle lettere ed alle arti, le con
dusse alla cima della perfezione: intendo di quella perfezione che
principalmente consiste nella splendidezza ed eleganza delle forme,
e che piuttosto a precise norme di gusto s'appoggia, che alle libere
inspirazioni del genio. Si videro perciò nel secolo decimo sesto sor
gere in gran numero accademie e scuole d'ogni maniera, le quali
se da un canto giovarono alla più facile e generale diffusione dei
canoni fondamentali delle lettere e delle arti, alla cognizione dei
grandi esemplari ed all'incremento dell'arte critica, nocquero dal
l'altro per lo studio di setta che promossero, per le vane questioni
che suscitarono, pei vincoli soverchi, onde incepparono e mortifi
carono la spontanea manifestazione del genio. Alle accademie ed alle
scuole tenner dietro i maestri e i critici di professione, che degni di
molte lodi pel generoso fervore con che attesero a rintegrare il culto
dei classici modelli, e per l'acuto criterio che chiarirono nello sve
larne le eterne bellezze, non ponno però assolversi dalla taccia di
avere in ciò trascorso all'idolatria, e per tal guisa sconosciuta l'in
dole propria de'nuovi tempi, ed il verace ufficio delle lettere e delle
atti. Coi maestri e coi critici s'accompagnarono gli eruditi, che
giustamente compresi d'una profonda ammirazione per la dotta an
tichità, vi spesero intorno indagini così pazienti ed indefesse, ma
nel tempo stesso contribuirono a far porre in non cale i tempi mo
derni, ad incurvare le menti sotto il giogo di quel pregiudizio, che
solo nelle classiche età cercar si dovessero i dettami del vero e gli
esempi del bello, a diffondere tutti quel giudizi così esclusivi sovra
ogni maniera di cose antiche, che così a lungo traviarono gli intel
letti più lucidi e più veggenti. Io dirò cosa che potrà suonar troppo
ardita, ma che a me sembra potersi con validi argomenti confor
tare; ed è, che quell'età così decantata di Leone, quello splendido
Cinquecento così fecondo di chiari ingegni, non che segnare il pe
riodo più luminoso nella storia dell'italiana letteratura, segna pur
in quest'ordine di cose il principio delle italiche miserie, dovendosi a
parer mio ritenere, che la falsa direzione impressa in questo secolo
agli ingegni, fu una delle cause principali di quel corrompimento,
che sulla fine di esso e in quasi tutto il secolo successivo mise
b
x

ramente contaminò la nostra letteratura. Ed infatti, ove si prescinda


dalla protezione, onerosa anch'essa più presto che generosa, onde i
Principi italiani furono larghi in questo secolo a dotti, a letterati,
agli artisti, che cosa mai di tanto splendido in esso ci si presenta
nel particolare delle lettere e degli altri più gravi studi? A me pare
potersi dire a buon dritto, che come i Principi italiani dopo le
tante lunghissime guerre, conservarono il nome, non la dignità
e la potenza del grado, così gli scrittori vissuti alle lor Corti,
ed ivi festeggiati e protetti, furono in generale più eleganti che
profondi, più studiosi dell'estrinseco ornamento, che dell'in
trinseco pregio delle cose, e le lettere diventarono per essi frivole
e cortigiane. Gli storici privi della libertà necessaria, o si diedero,
tranne pochissimi, ad adulare i vincitori, o ad altro non attesero,
che a studiare gli artifici della composizione, sacrificando la vera
dignità dell'istoria a miserabili canoni dei retori. I poeti poi in
ispecie, quali trascesero ad una servile imitazione del Petrarca, quali
con infinito studio e valore, ma con poco savio consiglio, si diedero
a dettar versi nella lingua di Virgilio e d'Orazio, quasi volessero tor
nar la nazione alla favella de Latini, o fosse nell'arbitrio degli uo
mini risuscitare uno spento idioma: i più fecer suddita, non dirò
la loro ispirazione, ma la facile lor vena alle arguzie de'maestri, e
spesso con servitù peggiore a capricci de mecenati: nessuno, se ne
togli l'infelice Torquato e il buon Guidiccioni, costretti eglino pure
a piaggiare il genio rettorico e cortigianesco dell'età, nessuno fece
rivivere la vera poesia dell'Alighieri: quella poesia che trae sua
materia dalla patria, dalla religione, dagli affetti più intimi dell'u-
man cuore, e si propone un alto scopo di sociale miglioramento.
Alle arti, egli è vero, arrise una più lieta fortuna e la sacra scin
tilla che scaldata aveva la fantasia di Leonardo si trasfuse in Raf
faello, in Michelangiolo, in Gaudenzio, in Tiziano, e da essi gelosa
mente nodrita, mantennesi viva per lunghi anni nelle fiorenti loro
scuole. Ma ella è sentenza volgare, che le arti del disegno tanto
non seguono, quanto le arti della parola, le condizioni civili, e pos
sano ornare così i trionfi, come i funerali di una nazione, senza che
scemino punto del loro splendore, o ne vada alterata la loro nativa
sembianza. Al che vuolsi aggiungere, che esse, reggendosi a poche
norme, e queste assai semplici ed in gran parte soggette al giudizio
de sensi, che di leggieri non può essere corrotto, minor rischio cor
XI

rono d'esser ammiserite dall'erudizione farragginosa e dalla gretta


pedanteria de'cattedranti.
Ma se l'arti in questo secolo vissero d'una vita lor propria, e creb
bero rigogliose, le lettere in vece s'andarono nudrendo, a così
esprimermi, di succhi stranieri, e solo mantennersi in certa appa
renza di vigoria per la virtù del presidi, con che attesero a confortare
la loro fiacchezza. Fra i quali voglionsi contare come i più efficaci
l'imitazione degli antichi, raccomandata in tutte le scuole e con il
lustri esempi convalidata, e la scrupolosa osservanza delle regole,
che i cattedranti e i critici di professione vennero imponendo
ad ogni specie di letteratura. Nè già potevano siffatti presidi
uscir del tutto vuoti di buoni effetti; chè i fiori di Grecia e del La
zio trapiantati nel giardino italico non potevano perdere tutta la
loro freschezza e fragranza, e le regole, se le più volte impastojarono
gli alti ingegni, potevano tornare di qualche ajuto a mezzani, e in
generale contribuire a diffondere le norme d' un gusto corretto. Se
non che a lungo discorrere le menti nella servitù dell'imitazione
si svigorirono; si nausearono d'una letteratura artificiale, povera
di sostanza, gretta e monotona nelle forme; fra la moltiplicità dei
precetti smarrirono la traccia delle vere leggi del gusto; ed all'ul
timo non avendo forza di tornare alla natura ed al vero, nè osando
scuotere il freno delle regole, trascesero ad ogni stravaganza, e il
freno scossero della ragione. Di qui l'invasione di quel pessimo gu
sto che prese il nome dal Seicento, in cui deplorabilmente guastò
quasi intiera l'Italia, ma che vuolsi dire per le accennate cause
nato e cresciuto nel Cinquecento. Intorno a che è da notare essersi
la maggior corruzione manifestata nel particolare dello stile, per
questo che avevano i maestri introdotto nell'universale l'opinione,
che le maggiori diligenze dovevano spendersi intorno alle forme del
comporre, e in queste sole cercarsi pregio di peregrinità e d'ar
dimento.
Dopo tutte le cose fin qui discorse, tengo di fermo, che ognuno
intenderà di leggieri con qual mente e con quali limitazioni io di
cessi sul principio essere stato in Italia secolo eminentemente lette
rario il decimosesto, nè dubito punto che mi s'apponga carico
d'incoerenza, se verrò soggiungendo, ch'esso va contato fra i più
distinti della nostra letteraria istoria. E di vero, se esso non pro
dusse alcun ingegno veramente creatore, fu però, massime nei suoi
xII

primordj, fecondo di nobili intelletti, educati alla più squisita elegan


za: se non ci lasciò se non due o tre opere veramente atte ad accre
scere il capitale delle nostre letterarie ricchezze, moltissime opere
ne trasmise riguardevoli per diverso genere di merito, nelle quali
tutta risplende la temperata lucidezza delle menti italiane; se non
diè nuovo impulso alla patria letteratura, ne mantenne non per
tanto il decoro e le gloriose tradizioni. Singolar lode ella è poi di
questo secolo, che i più svegliati ingegni abbiano atteso a porre
in onoranza lo studio della nazionale favella, ed a cercare con
ogni maniera di cure d' accrescerla e serbarla ad un tratto nella
sua purezza. Alla quale opera, quant'altra mai, utile e bella si ap
plicarono con infinita pazienza e con vera saggezza di dottrine
molti illustri Toscani, e tra essi in ispecie quel BENEDETTo VARCHI,
a cui è ben tempo che si rivolgano le mie parole.
Questo preclaro scrittore va tra più fecondi dell'età sua, così pel
numero come per la varietà delle opere in cui spese il suo versatile
ingegno. Egli è carattere dell'epoche, in cui le lettere volgono al di
chino, l'incontrarsi frequente in molti quest'attitudine di rivolgere
l'intelletto agli studi più svariati, dacchè avviene per consueto, che
nel campo dell'universale cultura si guadagni in estensione quello che
si perde in profondità. A molte diverse e quasi opposte discipline ap
plicossi il VARCHI, essendo egli stato oratore e poeta, filosofo e critico,
autor di commedie e di storie; e se in tutte si lasciò addietro di gran
tratto la perfezione, emerse in molte assai distinto, e si tolse dalla
turba volgare de'mediocri. Quanto poi allo scriver purgato e lon
tano da ogni corruzione straniera fu dei primi del suo secolo, sic
come pure non rimase secondo a nessuno nel generoso fervore di
promuovere ogni maniera di studi.
Nacque egli in Firenze nel 15o2: studiò in Pisa le leggi e vi fu
addottorato: indi per secondare la volontà del padre, esercitò alcun
tempo nella patria la professione di notaio. In progresso divenuto
padrone di sè, attese a quegli studi che gli erano più accetti, e dal
famoso Pier Vettori imparò la lingua greca, da Francesco Verino
la filosofia. Nelle turbolenze civili che agitarono la sua patria, egli
segui la parte contraria ai Medici; onde fu mandato a confino, e
costretto a cercare rifugio in varie parti d'Italia. A Venezia, a Bo
logna ed a Padova, egli ebbe opportunità di continuare i suoi studi
sotto la scorta del migliori maestri,º e di stringere amicizia coi più
- XIII

valorosi ingegni di quel tempo. Indi per opera dell'amico suo Luca
Martini, segretario al Gran Duca Cosimo I, fu richiamato a Firenze
per essere uno dei sostegni della rintegrata Accademia Fiorentina.
Tutti sanno che quella cima di furbo, intento a rassodare la sua
nuova Signoria, non fel risparmio d'alcuna industria ad ottener
grido d'accomodante, ed a mostrarsi munifico protettore delle scienze,
delle lettere e dell'arti. Quindi non è da far le meraviglie se fu li
berale al Varchi, antico avversario de' Medici, di tanto favore, sino ad
assegnargli uno stipendio, affinchè scrivesse la storia di quel tempi;
ciò ch'egli fece cominciando la sua narrazione dal 1527, e conti
nuandola sino all'anno 1538. Il Tiraboschi, e più recentemente il
Rosini lo accusarono d' aver venduta a Cosimo la sua penna; ma
il Ginguené, l'Ambrosoli ed altri portano più mite opinione, e il
libro per sè medesimo a noi pare che nel discolpi. Infatti, sebbene
si possa dire che il VARCHI non osò proclamar sempre il vero, può
nel tempo stesso affermarsi che adulazione o timore non lo strasci
narono mai a dire il falso, ad esaltare il vizio, a deprimere la virtù.
Nondimeno scrivendo in tempi tanto tumultuosi, in mezzo ai par
tigiani delle contrarie fazioni, non evitò que pericoli che andavano
uniti alla sua impresa; e quando fu conosciuto il primo libro della
sua storia, v'ebbe chi tentò d'ucciderlo con pugnalate. Di che egli,
quantunque ne fosse tratto a pericolo della vita, non s'udì mai parlare
in appresso; nè mai con rara moderazione volle palesare gli autori
del misfatto, comecchè gli fossero ben noti. Il Pontefice Paolo III
cercò d'averlo a Roma; ma egli sapendo che ciò sarebbe spiaciuto
a Cosimo, ne ricusò le offerte. In età di anni sessantadue si rendè
prete, e fu dal Duca eletto Prevosto della Pieve di Montevarchi,
d'onde era la sua famiglia; ma mentre stava per trasferirsi colà,
sorpreso da apoplessia, finì di vivere nel 1565. Egli fu di costumi
severi, parco del desideri, riserbato in ogni atto e discorso. Visse in
grande dimestichezza coi più colti ingegni d'Italia, fra i quali vo
glionsi distinguere il gran Buonarroti, monsignor Lorenzo Lenzi Ve
scovo di Fermo, che sotto il nome di Lauro egli celebrò nelle sue
Rime, il Cardinal Bembo, Gian Batista Busini di cui diremo più
sotto, ed il Commendatore Annibal Caro, con cui scrive egli stesso
d aver avuto piuttosto fratellanza che amistà, e ch' egli perciò
prese a difendere contro le acerbe censure del Castelvetro.
Quasi senza novero sono le opere di questo illustre scrittore,
XIV

delle quali noi abbiamo trascelte le più pregiate a formare i Volu


mi XXXVIII e XXXIX di questa BIBLIOTECA ENciclopedicA ITA
LIANA. Prime abbiamo poste le Lezioni sopra diverse materie let
terarie e filosofiche, nelle quali il VARCHI si mostra sempre uomo
erudito ed elegante nello scrivere, benchè troppo diffuso e verboso,
e da cui puossi derivare gran lume intorno allo stato della critica e al
modo con cui erano ventilate le più gravi controversie nel secolo de
cimosesto. Nel riprodurle, noi abbiamo seguita l'edizione Fiorentina
dei Giunti del 159o, oltre ogni credere scorrettissima, e ci siamo
presa ogni cura di disporle secondo l'ordine dei tempi, di purgarle
dai molti errori, e d'accompagnarle di parche noterelle a schiari
mento de luoghi oscuri e ad illustrazione di vari punti di critica
e di biografia letteraria. Segue l'Ercolano, ossia il Dialogo delle
lingue, che va fra le più vaghe opere del nostro Autore, e che fu
reputato in ogni tempo come un'ampia e doviziosa conserva delle
ricchezze del nostro linguaggio. Per esso noi ci siamo attenuti al
l'accuratissima Edizione procuratane in Padova dal chiaro filologo
Anton Maria Seghezzi, coi tipi del Comino nel 1744. Indi collocam
mo la commedia intitolata la Suocera, secondo l'Edizione che ne
diede in Firenze Bartolommeo Sermartelli nel 1569: commedia
scritta ad imitazione dell'Ecira di Terenzio, e tutta fiorita delle più
schiette grazie del nostro idioma. In appresso ponemmo i Sonetti
e le Poesie Pastorali, attenendoci per gli uni alle Edizioni del Tor
rentino e del Giunti, per le altre all'Edizione di Bologna del 1576:
con che si chiude questo primo Volume.
Nel secondo inserimmo la Storia Fiorentina, per la cui ristampa
ci attenemmo all'edizione che ne venne in luce nel 1721, colla
data di Colonia, non lasciando di consultare anche quella impressa
dalla Società dei Classici Italiani. Noi abbiamo creduto far cosa
grata ai nostri Associati, premettendovi le Lettere che GiovANNI
BATISTA BusINI scrisse al Varchi stesso, perchè gli servissero d'in
dirizzo nel tessere la sua Storia. Primo a far conoscere queste let
tere all'universalità dei letterati fu nel 1752 il canonico Bandini di
Firenze, il quale recando quel brano così bello della Lettera Undeci
ma, che al Machiavelli si riferisce, indusse molti a curiosità; ma esse
non furono pubblicate che nel 1822 in Pisa, coi tipi di Nicolò Capurro
sopra un codice della Biblioteca Palatina, concesso alla stampa dalla
benignità del regnante Gran Duca di Toscana. « Le lettere di Gian
XV

Batista Busini (scrive l'illustre Mazzucchelli) sono piene di no


zo
tizie singolari di Firenze e dettate con gran sincerità e libertà:
:
e quantunque il fiore di esse abbia servito al Varchi per tessere
so
la sua Storia Fiorentina, ciò non ostante, avendo il VARchi per
99
giusti riguardi, tralasciato d'inserire molte delle più recondite
» notizie e delle particolarità più curiose scritte dal Busini, non
» resta punto defraudato il pregio e l'importanza di esse ». –
Gian Batista Busini apparteneva a un illustre casato fiorentino, ma
pochissimo sappiamo di lui, poichè essendo egli stato della parte
contraria ai Medici, gli scrittori che vennero dopo, lo lasciarono
con molti altri in silenzio. Le poche circostanze della sua vita pub
blica si trovano qua e là sparse nelle sue Lettere, e nella Storia del
Varchi; il quale lo chiama giovine letterato, uomo leale e zelante della
salute della patria, seguitando poi a narrare come fu nel 153o confi
nato per tre anni a Benevento, e per non aver preso, non che osser
vato il confino, fatto poi rubello. Nel suo esiglio dal 1548 al 155o,
egli scrisse codeste lettere, le prime ventiquattro da Roma, da Fer
mo la vigesimaquinta, e senza data le due seguenti. Le ultime tre,
-
che al dire degli editori Pisani non si trovano nella più parte dei
manoscritti, non sono però le meno importanti, specialmente per
quello che si legge del Machiavelli, che nelle bestie di Circe aveva
figurato tutti gli amici dei Medici: novella prova e documento per
compiangere la versatilità di quel profondissimo ingegno.
Egli è il vero che scorgesi in queste Lettere del Busini un soverchio
spirito di parte, che mal si soffrirebbe in uno scrittore di storie; ma è
da riflettersi, che tutti gli scrittori, cronisti o annalisti di quei tempi,
tinti sono della medesima pece. I fautori de' Medici e quelli soprattutto
di Cosimo I circondarono di luce il soglio di quel fortunato, dissimulan
done i vizi e le enormità; e gli avversari invece gl'imputarono quanti
trasordini, quante libidini e crudeltà deturparono la vita dei primi
Cesari. Quindi, nell'intento di mettere in grado i lettori di recare
uno spassionato giudizio intorno agli avvenimenti principali discorsi
nella Storia del VARchi e nelle Lettere del Busini, stimammo oppor
tuno aggiungervi a modo d'appendice la Nota che sull'ordinamento
della Repubblica Fiorentina e sulla Casa dei Medici l'illustre conte
Pompeo Litta premise all'Albero Storico-Geneologico di questa famosa
famiglia, nella sua grand'Opera delle Famiglie celebri Italiane. Poche
pagine storiche si sono scritte a'dì nostri con tanta profondità, con
XVI

tanta imparzialità, con tanta energia, quanto se ne trova in questa


Nota del Litta, che certo tutti i nostri Associati gradiranno di ve
der posta a fregiare questo Volume.
Tale è l'ordine per noi tolto a seguire in questa edizione delle
Opere di BENEDETTo VARCHI, della quale una più completa non ne
fu mai pubblicata in nessuna parte d'Italia, e che noi, consapevoli
delle molte diligenze che v'abbiamo speso intorno, fidatamente pre
sentiamo a nostri Associati. Taluno per avventura ne potrà dar ca
rico d'avervi compreso alcune prose di poco rilievo, siccome sono
varie delle Lezioni, e molti versi che non fanno poesia, quali sono
i più de Sonetti del VARchi. Ma noi lo pregheremo a por mente,
che questa nostra BIBLIOTECA ENcicLoPEDICA fu destinata a rappre
sentare tutti quanti i secoli della nostra letteratura, e ad accogliere
perciò non solo le produzioni eccellenti, ma quelle ben anco che
per qual si voglia rispetto, ponno servire a far ritratto d'un'epoca,
qualunque ella sia, della nostra letteraria istoria. Che se egli ne pi
gliasse argomento di deplorare la misera condizione in cui ven
nero nel secolo decimosesto le lettere italiane, ben volontieri noi fa
remmo eco a suoi lamenti, anzi non ci ristaremmo dal rallegrarci
coll'età nostra, perchè vada dimenticando non pochi dei moltissimi
scrittori del tanto decantato Cinquecento.

ACHILLE MAURI.

ti
OPERE
DI

BENEDETTO VARCHI

L EZ I O N I
-

D ED ICA tissimo che siccome voi sete ottimo cono

DELLA EDIZIONE DEL GIUNTI


scitore delle materie le quali in esse si trat
tano (che sono non meno dotte che varie,
nè meno alte che leggiadre) sete altresì di
quelle sommamente meritevole. E come l'af
ALL'ILLUsTRIssIMo fetto non mi inganna e l'adulazione non mi
b e c cE L L E NT IS SI M o S i GN 0 R E
trasporta, così ingenuamente potrei rispon
dere a chi tinto di cortese invidia affer
masse voi essere vieppiù vago di militari
D. GIOVANNI DE' MEDICI
discipline, che di filosofiche scienze, che voi
- sete uno di quei signori più rari, il quale
ad imitazione del vostri maggiori avete per
\a civil duello che passò fra quei duoi ornamento le lettere, e per sicurezza l'armi.
Greci Personaggi, per conto dell'armi di Perchè se alla fortuna vostra fosse dicevole,
Achille, gran parte pare a me che abbia o la qualità del fatto comportasse, che voi
nella vittoria d'Ulisse, quell'argomento con esercitaste quelle in guisa che queste pub
che egli dimostrò che elleno ad Aiace per blicamente trattate, togato nella vostra fio
venire non potevano, atteso che ei non aria ritissima accademia, chi non sa, che voi vi
saputo intendere le figure che in quelle mostrereste dotto ed eloquente non meno
erano intagliate. E nel vero l'intendere, che armato nelle altrui contrade vi sete
tuttochè in ogni umana condizione si do mostrato prode e valoroso? Ma quando pure
tesse osservare grandemente, tuttavia nelle queste cose per non avere causa o dimo
persone, alle quali un qualche dono abbia strazione agli uomini vulgari dessero ca
no destinato, vieppiù considerare si dovreb gione di dubitarne, chi fia che mi nieghi,
be. Perchè quando ancora tutte le cose alla illustrissimo ed eccellentissimo signore, che
pualità e fortuna di tutti gli uomini fossero dove in esse si tratta di amore, di bellezza
in apparenza adeguate, ci sono di molte e di grazia non pure voi non ne abbiate
frtudi occulte (come per lo più veggiamo sovrana intelligenza, ma che cosa nissuna
elle pietre preziose) che tanto più o meno si sia potuta dire di bello o di buono, che
no altrui care, quanto più o meno da altrui da voi amabilissimo, bellissimo e graziosis
tengono ad essere intese. Di qui è, illustrissi simo signore, quasi ritratta non sia? Certo
ino ed eccellentissimo signore, che avendo (che io mi creda) niuno. E voglio a que
o di nuovo raccolto molte lezioni del dot sto proposito ricordarmi quando l'anno 79,
ssimo M. Benedetto Varchi, e messole in essendo io in Venezia, venni di brigata con
ieme con le altre stampate tutte in un gli altri di nostra nazione a far riverenza
ºlume, ho deliberato presentarlevi, risolu a voi, che a Venezia venivate imbasciadore l
vARCHI
2 LEZIONE

per lo serenissimo Gran Duca Francesco, -

vostro fratello, ove con mio grandissimo LEZIONE


contento, poneva mente, che ovunque vol s U L LA
tavate i passi, ivi creavate voi un improv
viso stupore in chi vi mirava; ed ogni per GENERAZIONE DEL CORPO UMANO
sona d'ogni qualità, d'ogni sesso e d'ogni
età correva per vedervi, si urtava e pre
meva per accostarvisi e calcate le strade, BENEDETTO VARCHI
altri dalle finestre, altri da tetti pendevano AI, MAGNIFICe

per meglio considerare la bellezza e la gra E suo MolTo oNoRANDISSIMO MESSER


zia che di voi destava un cortese e gra
zioso amore in chi vi vedeva, talchè tutti “CRISTOFANO RINIERI
ad una voce affermavano voi essere le de
lizie non pur di Firenze, ma di Toscana,
adunque voi
anzi d'Italia tutta. L'essere MOue cose sono state cagione principalmente,
tale, illustrissimo ed eccellentissimo signore, magnifico M. Cristofano, che io senza aver ri
mi ha fatto animo, che io vi presenti que guardo alle molte e grandissime faccende vo
ste lezioni con molta diligenza, fatica e spesa stre, così pubbliche, come private, ho voluto man
darvi forse con poca prudenza, ma certo con
raccolte, corrette e ridotte insieme nella grandissima sicurezza, tutto quello, che tratto di
guisa che vedete, immaginandomi, che nel molti e diversi autori, era stato posto insieme da
mandarle io fuora nel cospetto degli uomi me, e recato in iscrittura più con ordine e bre
ni, i quali grandemente le desiderano, voi vità, che con eloquenza e dottrina, sopra la ge
tanto meno vi sdegnerete, anzi tanto più nerazione e formazione del corpo umano, non
aggradirete, che dalla Eccellenza Vostra pi ad altro fine, che per potere con maggior chia
rezza degli ascottanti, e minor fatica di me, re
glino splendore, quanto più anderete con citarlo nell'Accademia nostra in una lezione: av
siderando che elleno son fatture del buon venga che poi nè in due mi venisse ciò fatto com
Varchi, accademico vostro, eletto e stipen piutamente. La prima il parermi d'aver cono
diato fra gli altri più degni rispetti, per sciuto più volte in molti e vari ragionamenti vo
stri, non solo quanto vi dilettate, ma tendete an
isvegliare le belle lettere in Toscana, dalla cora ne discorsi filosofici, e massimamente delle
gloriosissima memoria del gran padre vo cose naturali: il che può venirvi non meno da
.
stro (che viva beatissimo in cielo), il quale gli avoli e maggiori vostri, che dalla continua
" sa il mondo) tanto in abbracciare e pratica e stretta familiarità, la quale sempre
vorire i dotti, era nuovo mecenate, quanto avete tenuta, e tenete oggi più che mai, con tutte
quelle persone, le quali in qual si voglia o arte,
nel potere e volere sollevarli, fu veramente o scienza sono grandi ed eccellentissime riputate.
un nuovo Augusto. Piacciavi adunque, illu L'altra, perchè mi rendo certissimo, che voi, così
strissimo ed eccellentissimo signor mio, co per la vostra umanità, che usate generalmente
me verace figliuolo del gran Cosimo ed imi in verso ciascuno grandissima, come per l'affe
tatore de' suoi magnanimi fatti, che il buon zione che portate a me particolarmente più che
ordinaria, pigliarete questa mia, piuttosto utile
Varchi venga alla luce sotto lo splendore fatica, che pomposa, non solamente volentieri,
vostro illustrissimo, e da me accettate il ma in grado: benchè a me basta dimostrare in
picciolo dono di queste sue lezioni, col gran quel picciol modo che posso, non a voi, che la
de affetto che vi vengon pòrte, assicuran vi sapete benissimo, ma agli altri, parte di quella
dovi (come esso Varchi soleva dire) che, osservanza e gratitudine che vi debbo.
-
– Se povero è il don, riceo è il desio,
Con che, inchinandomivi e quanto più posso
ricordandomivi devotissimo servidore, resto DICHIARAZIoNE DI M. BENEDETTo vARCHI, soprA IL
VENTICINQUEsIMO CANTO DEL PURGAToRIO DI DAN
pregandovi da Dio benedette altrettanta fe ºrE, LETTA DA LUI PUBBLICAMENTE NELLA FELI
licità, quanta comporta il merito vostro in cissiMA ACCADEMIA FIoRENTINA, IL GIoRno dopo
finito. -

s. GIovANNI DELL'ANNO 1543.


Di Firenze, alli 8 di febbraio, 1589.
Di V. E. Illustrissima
Taus 1'Ente, cioè tutte le cose che sono
qualunque e dovunque siano, sono e si com
Umilissimo Servidore prendono
cademici,
(magnifico Consolo, virtuosissimi Ac
e voi tutti uditori nobilissimi) tra la
Filippo GIUNTI. materia prima e lo primo motore. E siccome
SULLA GENERAZIONE DEL CORPO 3

egli non si può nè pensare, non che altro, cosa ciole o piuttosto niente. E se i cieli (come te.
nessuna nè più bassa, nè più vile, nè più im stimonia il profeta) narrano là suso la gloria
perfetta nella materia prima, essendo ella tutta del Fattore loro, certissima cosa è, che dell'o-
quanta pura e semplice potenza, senza atto pere e lavori di quaggiù niuno se ne trova, il
alcuno, così all'incontro niuno se ne può, quale o più largamente manifesti, o più chia
immaginare ancora nè più alta, nè più nobile, ramente dimostri l'ineffabile maestà di Dio e
ne più perfetta di Dio, essendo egli tutto quanto l'incredibile onnipotenza della natura, che il
semplice e puro atto senza veruna potenza. compimento dell'uomo: conciossiacosachè in
Ora tutto quello che si racchiude, e che si esso si congiungano unitissimamente due na
intraprende fra la prima materia, nella quale ture diversissime, l'una divina ed immortale,
sono le forme di tutte le cose in potenza, e l'altra terrena e corruttibile. È ben vero che
in virtù è lo primo motore, nel quale sono siccome tanto alta materia e tanto sottile e non
tutte le medesime forme, in atto ed in essere meno utile a sapere che gioconda ad udire;
molto migliore e più vero, che in loro stesse così il trattarne e volerla insegnare è non
non sono, si divide principalmente in due parti, meno pericoloso che malagevole: perciocchè,
in cose corporali e sensibili, e queste sono ter l'intelletto nostro è nelle cose oscurissime a
restri e caduche; e in cose spirituali ed intel noi e chiarissime alla natura, non altramente,
ligibili, e queste sono celesti e sempiterne. E come dice Aristotile nella prima filosofia, che
siccome le cose incorporali, che menti divine l'occhio del pipistrello a raggi del sole. Ma
e sostanze separate, ovvero intelligenze si chia perchè (come afferma il medesimo filosofo nel
mano, sono mezze tra Dio e le cose corporali, libro medesimo) il conoscere ancora che po
così le cose corporali sono mezze nè più nè chissimo delle cosc alte ed eccellenti è molto
meno fra le sostanze separate e la materia. migliore e più da stimarsi che l'intera scien
0nde, come tra le sostanze separate quella è za di moltissime, le quali siano basse e volgari;
più nobile e più perfetta dell'altre, la quale io per ubbidire a chi si deve eseguitare il lo
più rimovendosi, e più discostandosi da'corpi, i devolissimo ordine e l'utilissima usanza di que
più s'appressa al primo principio ed ultimo sta fioritissima ed onoratissima Accademia, ho
fine nostro, e di tutte le cose, cioè a Dio ot preso, per le ragioni che di sotto intenderete,
timo e grandissimo; così tra corpi quello è de a sporre oggi e dichiarare il venticinquesimo
gli altri più perfetto e più nobile, il quale più Canto del Purgatorio, nel quale Dante (che
lontano dalla materia, più all'intelligenze s'ac dicendo Dante, mi pare insieme con questo no
costaes'avvicina; e più s'avvicina alle intelligenze me dire ogni cosa) tratta compiutamente del
e più s'accosta senza comparazione una cosa ani l'una e dell'altra di queste due cose, cioè,
nata, qualunque si sia che qual si voglia di quelle così della generazione e formazione del corpo
che animate non sono. E qual filosofo neghe umano, come della infusione e natura dell' a
rebbe, se il cielo manca d'anima (come tengo nima con tale artificio e con tanta dottrina, che
º i teologi nostri cristiani) che lo più vile ben si vede che egli oltra l'essere stato eser
º imperfetto vermine che si trovi, non sia citatissimo nella vita attiva e civile, seppe
mºlto più degno senza proporzione e molto perfettamente tutte l'arti e scienze liberali.
più perfetto di lui ? Di questo breve discorso, E questo capitolo solo, il quale io giudico più
breve dico, rispetto a quello che dire a oc utile e più difficile che alcuno degli altri, lo
ºse, si può trarre agevolmente (s'io non può mostrare ampiamente ottimo medico, ed
º inganno) che l'uomo e quanto alla forma, ottimo filosofo ed ottimo teologo. Il che non
º quanto alla materia avanza di grandissima avviene forse in nessun altro poeta, nè de greci,
lunga e trapassa le cose che sono dal cielo nè de latini; ed io per me, non pure vi can
della luna in giù tutte quante: perciocchè l'ani fesso, ma giuro che tante volte, quante io l'ho
º razionale, propria forma di lui, è (come ne letto, che tra la notte e 'l dì son più di mille,
mºstrano i filosofi) l'ultima delle intelligenze, sempre m è cresciuto la maraviglia e lo stu
º essendo tra le intelligenze ultima, viene ad pore, parendomi di trovarvi nuove bellezze,
ºsere prima tra tutte l' altre cose, che intel nuove dottrine e conseguentemente nuove dif
"senze non sono. E perchè alla più nobile for ficoltà ogni volta. Onde tanto più mi pentiva
º e più perfetta si richiede la più nobile ma di mano in mano della folle e temeraria pro
tria e la più perfetta: quindi è, che il corpo messa mia, quanto m'accorgeva meglio come
ºano e di nobiltà e di perfezione vince d'as bonariamente sì e con molta ſede, ma incon
º ed eccede tutti gli altri. E veramente, in sideratamente nondimeno e con poca prudenza
stenosissimi uditori, nell'anima umana, consi fosse stata fatta da me. Perciocchè io non vo
º solo di per sè, e nel corpo umano, con glio che alcuno di voi, benignissimi uditori,
siderato solo di per sè, e in tutto quel perfet m'abbia, o per tanto imprudente, o per tanto
ºno e nobilissimo composto che risulta del prosuntuoso, che egli si creda che io avessi
l'uno e dell'altro insieme, e questo è l'uomo, scelto mai da me stesso un sì fatto capitolo a
º (come i saggi conoscono) tante e tanto di dichiarare, chente è questo. Anzi avendo io fer
º considerazioni, tante e così belle, e cosi mato (come sanno molti), che io veggio sedere
grandi, e così maravigliose operagioni e virtù, in questo luogo per onorarmi di sporne un'al
che tutte l'altre bellezze, tutte l'altre gran tro assai più chiaro e più agevole, ſui richie
º, tutte l'altre meraviglie, di tutte l'altre sto con istanza grandissima da alcuni amicis
º ed operagioni, verso quest'una sono pic simi miei, a quali non volli e non dovei man
4 LEZIONE

care di leggere questo, così come io sapessi. donna; poi, se ne basterà il tempo, favellare
La qual cosa ho voluto dirvi sì, acciò che vo minutissimamente dell'anima umana, e di tutte
gliate più agevolmente scusarmi in tutto quello,
in che io di materia sì alta e si nascosa ragio
nando, o errassi per poco sapere o per troppa
inavvertenza mancassi: e sì affine che più vo
le parti e potenze sue, secondo la dottrina Pe
ripatetica. Ma perchè a bene intendere qua
lunque cosa in qualunque scienza, bisogna pri
ma (come insegna Aristotile nel principio della
l
lentieri vi piaccia di perdonarmi, se in trattando Fisica) conoscere i primi principi e le prime
di cose si muove e quasi del tutto inusitate cagioni infino agli ultimi elementi d'essa; per
nella lingua nostra, userò necessariamente se chè dalla cognizione di questi si conoscono poi
guitando in questo, ed i greci ancora ed i la tutte l'altre cose, ed allora finalmente ci par
tini, alcune parole e vocaboli, i quali paresse di sapere alcuna cosa, quando i primi principi
ro alle vostre purgatissime orecchie, o più vili sapemo, e le prime cagioni sue; però noi vo
e plebei, o meno puri ed onesti che in questo lendo fare innanzi che venghiamo all'ordine e
castissimo esantissimo luogo tra persone tantomo sposizione delle parole, un discorso e ragiona
deste e tanto disciplinate non si conviene: ben mento universale sopra la formazione del corpo
chè le medesime cose (con i medesimi nomi si umano, a fine che meglio, e più agevolmente
può dire) si trovano scritte, non pur nelle leggi si possa imprendere e possedere questa tanto
civili e canoniche (come si vede per tutto il utile e difficile materia, dichiareremo prima
titolo degl'impotenti ed ammaliati) ma ezian alcuni nomi e principi, i quali sono necessaris
dio nella scrittura sacra e divina. E però noi simi, così a trattare del corpo umano, come a
(poste da parte tutte le scuse) verremo oggi generarlo. Ed innanzi che io faccia questo, non
mai, coll'aiuto e favore di Colui che tutto sa voglio mancare d'avvertirvi che la generazione
e tutto può, all'intenzione e proponimento no e formazione del corpo umano è cosa tanto ri
stro, pregandovi prima umilmente umanissimi posta e tanto nascosa, che di lei (come bene
e cortesissimi uditori, che vogliate prestarne disse Aristotile) non si può avere dimostrazione
oggi quella grata e benigna udienza, che sem e certezza, anzi in questa, come in molte al
pre solete. tre cose naturali, possono molte volte e so
gliono bene spesso intendere più e giudicare
meglio gli uomini idioti e volgari, che i dotti
Sangue perfetto, che poi (1) non si beve e scienziati. E però dovrebbero i filosofi in
Dalle assetate vene, e si rimane molte cose rapportarsi al giudizio di coloro i
Quasi alimento, che di mensa leve, quali sono esercitati coll'opcre tutto il tempo
Prende nel cuore a tutte membra umane della vita loro in quello esercizio, del quale
Virtute informativa, come quello, essi scrivono appena una volta colle parole.
Ch'a farsi quelle per le vene vàne. Ed io per me darei più fede in questo caso
Ancor digesto scende, ov'è più bello alle donne sperte, ed anco a qualche uomo
Tacer che dire, e quindi poscia geme pratico, che a filosofi: sì perchè la sperienza
Sovr altrui sangue in natural vasello. è in tutte le cose vera e certa maestra, e si
Ivi s'accoglie l'uno e l'altro insieme, perchè questa materia oltre l'essere incerta e
L'un disposto a patire e l'altro a fare, dubbia da sè, è stata trattata da tutti, in tante
Per lo perfetto loco, onde si preme. lingue, e tanto diversamente che se io volessi
E giunto lui, comincia ad operare, arrecare insieme, non dico tutto quello che si
Coagulando prima, e poi avviva potrebbe, perchè questo sarebbe quasi infinito,
Ciò che per sua materia fe' constare. ma tutto quello che n'è stato disputato, e pro
Anima fatta la virtute attiva e contro da più dotti e più approvati autori,
Qual d'una pianta, in tanto differente, sicuramente non basterebbero cento lezioni.
Che questa è in via, e quella è già a riva. Perciocchè non pure i filosofi e medici Greci,
Tant'ovra poi, che già si muove e sente come Aristotile e Galeno discordano da filo
Come fungo marino, ed indi imprende sofi e medici Arabi, come il grande Averrois
Ad organar le posse, onde è semente. ed Avicenna, e da Latini, come (oltre mille
Or si spiega, figliuolo, or si distende altri ed antichi e moderni) Scoto, Alberto Ma
La virtù, ch'è dal cor del generante gno, ed il dottissimo s. Tommaso; ma ancora
Dove natura a tutte membra intende. i Greci cosi medici, come filosofi discordano
Ma come d'animal divenga infante ecc. da' Greci medesimi gli Arabi dagl'Arabi, ed
(Con tutto quel che seguita.) i Latini da Latini, e quello che è più, alcuna
volta da sè stessi ciascuno. Onde io lasciate
L'intendimento nostro nella presente lezione indietro tutte le quistioni, che per lo più sono
è dichiarare primeramente con più agevolezza dannose, e che di certo v'offuscherebbero l'in
che sapremo, e maggior brevità che potremo, telletto: e riserbandomi in altro tempo a pro
la generazione, e formazione dell'uomo; quando vare le mie ragioni e confutare l'altrui, vi re
dico uomo, intendo ancora in questo luogo della citerò solamente in quel modo che giudicherò
migliore, tutti i primi capi e tutte le risolu
(1) Il Varchi legge poi e non mai, come trovasi in quasi zioni principali di quelle cose, che mi parranno
tutte le edizioni e dice in progresso, ch'egli ha accolta questa più necessarie e più vere, seguitando sempre
lezione perchè la è quella di tutti i buoni testi a penna da lui Aristotile, principe de' Peripatetici, ed il suo
consultati. (M.)
commentatore Averrois: i quali due senza dub
SULLA GENERAZIONE DEL CORPO 5

bio, seguitò in questo luogo, e quasi in tutti si può intendere perfettamente che cosa sia
gli altri della Commedia ed opera sua Dante sangue senza sapere che cosa sia digestione, e
medesimo, il quale fu grandissimo ed ottimo quante siano, però ne favelleremo brevemente.
Peripatetico, se non quanto dalla fede nostra e
santissima religione cristiana gli fu vietato. Mave DELLA DIGESTIone

nendo omai al fatto, dichiarerò prima che cosa


sia sangue, che sperma ovvero seme, che me La digestione, la quale è la terza operazione
struo. Delle quali tre cose si generano non so delle due qualità attive, cioè del caldo e del
lamente gli uomini, ma tutti gli altri animali freddo, si diffinisce dal filosofo nel quarto della
perfetti: dico perfetti per cagione degl'imper Meteora, una perfezione fatta dal caldo natu
fetti, cioè di quelli che si generano di mate rale e proprio delle passioni opposte. La qual
ria putrida, senza coito, come vermi, mosche, diffinizione è non meno scura che dubbia, ed
vespe, topi, ranocchi, anguille, ed altri somi a volere dichiararla non basterebbe un giorno
glianti, i quali non sono della medesima spe intero: e però diremo solamente per ora, che
zie, che gli altri perfetti, e non hanno i sessi le digestioni vere e principali sono tre. La pri
distinti, non si trovando fra loro nè maschio, ma digestione si fa nel ventricolo, il quale i
nè femmina, se non in quelli che nascono an Toscani seguitando i medici Latini, chiamano
cora di seme mediante il coito come i topi. stomaco: benchè stomaco significa propiamente
appo i Greci quella parte che essi medesimi
DEL SANGUE chiamano ancora esofago, cioè la gola. Ed in
questa prima digestione che si fa nel ventri
Dico dunque che il sangue, secondo che lo colo, ovvero stomaco a nostro modo (il quale
diffinisce Aristotile nel duodecimo Libro degli Dante chiamò – il tristo sacco, – Che merda
Animali, è l'ultimo cibo e nutrimento dell'anima fa di ciò che si trangugia) – si trasmuta il cibo
le. Negli animali che hanno sangue, ed in quelli | in sugo che i medici chiamano, pur con nome
che mancano di sangue, è una cosa somigliante Greco, chilo. Il superfluo di questa digestione
e proporzionata al sangue, e si chiama ultimo sono le fecce e lo sterco umano, il quale si
nutrimento; perchè tutte le membra, fatte le manda fuori per le budella, dove ancora piglia
debite digestioni, si nutriscono di sangue, ben la forma per lo sesso. La seconda si fa nel fe
che tale nutrimento si può chiamare piuttosto gato, dove il cibo si cuoce un'altra volta, e si
nutrimento in potenza, che in atto. Percioc muta in sangue; e la superfluità di questa se
che il sangue ha tre parti, chiamate da me conda digestione è un'acquosità, la quale esce
dici Latini Glutino, Rugiada e Cambio: perchè del sangue, che tirata dalle vene cola di quivi
si cambia e trasforma nelle membra. E di que nella vescica, e diventa orina. La terza dige
sti tre umori, ovvero umidità, le quali non sono stione, favellando sempre secondo Aristotile si
differenti dal sangue sostanzialmente, ma solo fa nel cuore, ed ha due superfluità, una come
per accidente, si nutriscono tutte le membra schiuma, la quale si chiama da noi collera, e
immediatamente; e così il sangue è l'ultimo da Latini bilis flava, perchè è gialla, e questa
cibo, non in atto, ma in potenza. È ben vero se ne va nella borsa e vescica del fiele: l'al
che questa è potenza propinqua e non rimota, tra è quasi feccia, e si chiama da noi manin
come quella del pane e di tutti gli altri cibi, conia, e da Latini bilis atra, cioè collera nera;
quando si pigliano. Ha il sangue il principio e questa se ne va alla milza. E questi duoi
e luogo suo nelle vene, e le vene hanno ori umori, cioè la collera e la maninconia, non
gine dal cuore, secondo Aristotile: ma secondo possono nutrire, secondo Aristotile. Il quarto
Galeno, il sangue si genera nel fegato, e per umore, cioè la flemma, non è altro che sangue
conseguente ancora le vene, essendo sempre il indigesto, e non bene e perfettamente può nu
continente e quello che è contenuto insieme. trire ad un bisogno. E così avemo veduto, che
Ma comunque si sia, certo è che il sangue se come la gola manda il cibo allo stomaco, così lo
condo Aristotile, piglia la perfezione ed ultima stomaco lo manda al fegato, ed il fegato al cuore,
virtù sua dal cuore: e dice nel terzo capitolo nel quale si fa la terza ed ultima digestione prin
del terzo libro delle parti degli animali, e nel cipale. Dico principale, perchè alcuni aggiun
decimonono capitolo del terzo libro della na gono una prima digestione, la quale si fa nella
tura degli animali, che il sangue non si trova bocca dai denti: ed alcuni n'aggiungono una
in membro nessuno fuori delle vene, eccetto quinta, la quale si fa nelle vene, le superfluità
che nel cuore: il che però si debbe intendere della quale sono i sudori: ed altri n'aggiun
ordinariamente e per lo più: conciossiacchè (co gono dell'altre, ma queste non sono proprie e
me afferma Galeno, e come si vede manifesta vere digestioni, non trasmutando il cibo, come
mente nelle notomie) si trova del sangue an le prime tre. Fassi ancora un'altra digestione
cora nell'ultima parte del cervello e della nuca, particolare in ciascun membro, quando il san
dove non sono vene. Nel sangue sta il calore gue si trasmuta e converte in lui. Queste tre
naturale, il quale non è altro che una sostanza digestioni principali sono proprie degli animali
vaporosa, la quale nasce dal sangue, perchè perfetti: nelle piante non si trovano, se non
quando il sangue si cuoce, egli sfuma e sva le due ultime; perchè la prima si fa nella terra,
pora; e quel tal fumo è vapore, il quale è cal non nella pianta, benchè alcuni Greci e La
do ed umido, come il sangue, onde nasce che tini dicano altramente, il che è contro Aristo
si chiama calore naturale. Ma perchè egli non tile. Le specie della digestione sono tre, ma a
6 - LEZIONE

noi basta sapere, che il fine e termine di cia distorte portano il sangue ne testicoli, i quali
scuna digestione è di far sì che l'umido si ra non sono necessari semplicemente alla genera
guni e si rappigli, e per questo tutte le cose, zione, secondo Aristotile. E così uno senza te
onde non si può separare l'umido, non nutri sticoli potrebbe generare: il che Galeno non
scono, come è l'oro puro; benchè certi me vuole per niente, anzi dice, che sono membro,
dici usino (non so perchè) di metterlo ne lat principale, necessarii alla generazione assoluta
tovari e nelle ricette loro. Ciascuna digestione mente, benchè con un solo si generi; nè gli
si fa meglio il verno che la state, stando fer pare ragionevole, che il sangue possa diven
mo che andando, e per conseguente la notte tare vero e perfetto sperma ne' vasi seminarii.
che il giorno. E per questo vuole Caleno, e Ma lasciando questo dubbio indeciso, notaremo
quelli che Galeno seguitano, che la cena sia che nello sperma, o piuttosto nella virtù ge
più piena e più abbondante che il disinare; nerativa o informativa, la quale è nello spirito
oltre l'altre tante e sì belle ragioni, le quali dello sperma, sono in potenza e si contengono
voi (mercè della virtù e liberalità dell'illustris virtualmente tutte le cosc, che sono in atto,
simo ed eccellentissimo Duca, signor nostro)(1) e che si contengono formalmente nel generan
avete potuto udire a giardini passati dalla viva te. E però disse Aristotile, il seme esser quello,
voce del maggiore e più eccellente medico che che ha virtù di far cosa tale, quale è quella,
oggi viva e che forse sia stato da Galeno in ond'egli esce. E perchè lo sperma opera vir
qua (2). E questo basta della digestione. tualmente (il che è più nobile e più perfetto,
che operare formalmente), cd opera in virtù
DELLo sPERMA DELL'UoMo del generante e come strumento del padre,
però Aristotile lo chiamò virtù separata e di
Lo sperma, ovvero seme genitale ed umano, vina, e Galeno dubitò se gli era creatore, o
il quale si chiama qualche volta genitura (ben creatura. Le quali cose per essere non meno
chè pare che Aristotile voglia fare alcuna dif difficili che belle, avrebbero bisogno di lun
ferenza tra sperma, seme, e genitura), non ghissima dichiarazione; ma la brevità del tempo
è altro che il superfluo del nutrimento, cioè non mi lascia: onde detto che io arò, che lo
quello che avanza dell'ultima e perfetta dige sperma è corpo omogeneo, e tutto nelle sue
stione. E benchè si chiami superfluo ed avan parti, cioè che ciascuna parte di sperma è sper
zaticcio, non è però superfluo, nè avanza asso ma, come ciascuna parte d'acqua è acqua, e
lutamente e semplicemente, ovvero del tutto, che egli esce per la medesima via dell'orina
come i sudori ed altri più brutti escrementi (benchè alcuni credono altramente), passerò
del tutto inutili; perciocchè lo sperma, seb allo sperma della donna.
bene è superfluo all'individuo ed a particolari, Ancora che la femmina abbia i vasi seminari
perchè come sperma non può nutrire nè con poco differenti da quelli dell'uomo, e massi
vertirsi in membra, non è però superfluo, anzi mamente nell' appiccatura e dove cominciano,
necessarissimo è alla spezie. Perciocchè non e così ancora i testicoli : tuttavia quell'umore
potendo la natura perpetuare gli individui, in che esce della matrice con movimento e con
generò in tutti gli animali un desiderio di ge dilettazione, quando ella si congiugne coll'uo
nerare cosa somigliante a sè, e così di perpe mo, il quale è una certa umidità tra acqua e
tuarsi almeno in ispezie e successivamente, seme, non si può chiamare sperma, secondo
mediante il congiugnimento del maschio e della Aristotile se non equivocamente, cioè col no
femmina, e mediante la generazione, la quale me solo, non altramente che un uomo morto
non si può fare senza lo sperma. La materia o dipinto si chiama uomo. E questo umore il
del quale è schiumosa e spugnosa; perchè vi quale è freddo e sottile rispetto a quello del
si rinchiude dentro assai spirito, come nella l'uomo non concorre secondo lui, nella ge
spugna assai acqua: onde spargendosi in terra nerazione, nè attivamente, cioè nè come agen
tosto diventa minuto e si secca prestamente: te o forma, nè passivamente, cioè nè come
perchè lo spirito si parte ed esala via; e l'altra paziente o materia, e in somma non vi con
parte viscosa si ristrigne e raccoglie insieme; corre di necessità di maniera che si può ge
e in quello spirito, il quale è corpo aereo, caldo nerare senza lui, sebbene le più volte vi con
e sottile, si racchiude la virtù generativa, ov corre, e v'apporta molte utilità e giovamen
vero informativa, secondo i medici. La quale ti, disponendo ed agevolando la materia. E
virtù gli è data principalmente dal cuore, se così si debbe intendere Aristotile nel nono
condo Aristotile, e non da testicoli, come vuole degli animali ed altrove, dove dice, che
Galeno. Perciocchè i testicoli, secondo Aristo quando i semi non concorrono amendue, la
tile, servono solamente per instrumento, e sono donna non ingravida. Il medesimo afferma Avi
secondo lui come due piombi o pesi che ten cenna, aggiungendo che quegli uomini i quali
gono aperti i vasi spermatici ovvero seminarii; essendo duri di schiena, tardano a gittare e
i quali sono due vene ed altrettante arterie, mandar fuori il seme, sono più generativi che
una da ogni parte, le quali per vie lunghe e gli altri: e questo perchè essendo le donne di
complessione fredda, penano ordinariamente
assai a compire e dar fine all'opera. E sebbene
(1) Parla qui ed altrove il Varchi del Duca Cosimo 1. il seme della donna è essenzialmente ed in so
Vedi la nostra prefazione. (M.)
(2) Credo Francesco da Monte Varchi, medico a tempi del stanza della medesima spezie che quello del
l' uomº secondo i medici, perchè secondo Ari
Varchi riputatissimo e suo compaesano. (M.)
SULLA GENERAZIONE DEL CORPO 7

stotile è differente di specie, per questo non così avviene nelle femmine quando cominciano
è generativo e utile, come quello dell'uomo, a purgarsi ed avere il tempo loro. E comin
perchè sono differenti secondo le disposizioni ciano innanzi ai maschi, cioè tosto che le mam
ed accidentalmente in quel modo medesimo, melle loro (come ne insegna Aristotile), sono
che sono differenti la femmina e 'l maschio, alte due dita, e forniscono il quarantesimo an
sebbene sono d'una spezie medesima. E bre no, e chi passa quel termine arriva infino al
vemente il seme della donna è non altramente sessagesimo. Alcune si purgano tre volte il mese:
quasi che quell'umore che senza movimento alcune si purgano ancora che siano grosse:
e senza dilettazione o poca esce talvolta e mas quelle che mancano di tali purgazioni, sono il
simamente ne fanciulli anzi il quattordicesimo più delle volte sterili. E perchè delle cose
anno de'vasi seminarii e del membro dell'uo naturali si debbe favellare liberamente ed aper
mo il quale è tra acqua e seme, e non è sper tamente, come hanno fatto tanti, non pur filo
matico, nè utile alla generazione nè come for sofi e medici, così Greci, come Latini ed
ma, nè come materia. E se uno dimandasse: Arabi, ma teologi ancora, ed uomini san
A che servono adunque i testicoli nelle fem tissimi, e nessuno debbe vergognarsi o avere a
mine? Risponde Averrois, il grande Arabo, di schivo di sapere quelle cose, di che egli fu
mandando: A che servono le poppe negli uo prima generato e poi nutrito; chi vuole sapere
mini? Ma perchè dare una istanza o allegare onde venga il mestruo bianco e perchè venga
un inconveniente, non e sciorre la questione, più alle giovani, che all'altre e quanto noccia,
si può dire, che i testicoli nelle donne hanno legga Aristotile nel settimo libro degli animali.
qualche altra utilità e giovamento, come le E chi cerca d'intendere cose mostruosissime
poppe negli uomini, sebbene non sono neces del mestruo, legga il quindicesimo capitolo del
sari semplicemente alla generazione nè quelli, settimo libro di Plinio. Ed io passando a più
nè queste. alta e più benigna materia, dichiarerò che cosa
è spirito, e quanti sono, il che è non meno
per Mestitufo utile e necessario, che le cose passate.
Del mestruo delle donne, sebbene si potreb DELLo spirito
bero dire molte cose, a noi basterà favellarne
tanto, quanto la materia presente richiede. Non meno difficoltà, nè minori controversie
Dico dunque, che l'avanzo del nutrimento è sono in trattare dello spirito, nè meno diverse
quello che rimane dell'ultima digestione, il opinioni tra filosofi ed i medici che nelle cose
quale negli uomini si chiama sperma, si chia dette di sopra; ma noi seguitando l'ordine no
ma nelle donne mestruo. E benchè l' uno e stro, ed accomodandoci più al tempo ed al
l'altro, cioè lo sperma ed il mestruo siano l'ul luogo, che alla materia diremo che lo spirito
timo del sangue, sono però differenti, perchè non è altro, che un corpo tenue sottile che
quello dell'uomo è perfetto e digesto e quello si genera dalla più sottil parte del sangue: ov
della donna crudo ed imperfetto. E questo an vero, per più brevità, lo spirito è un vapore
cora è di due maniere, uno impuro e putrido elevato del sangue; avvenga che (come vuole
molto, il quale come inutile del tutto anzi dan Galeno) egli si levi ancora dall'aere, da quello
noso e nocevole pure assai, si manda fuori aere dico, che noi tiriamo insieme coll'alito,
ogni mese e di qui ebbe il nome, così nella e non per altro (secondo lui) la carne e so
lingua Greca, come nella Latina. (Il volgo no stanza del polmone è spumosa, se non per pre
stro, non so io d'ondè, nè perchè lo chiama parare l'aria, della quale si faccia lo spirito. Ma
marchese; siami lecito usare i nostri nomi, co perchè in questa diffinizione non si compren
me a Greci ed a Latini i loro). E sebbene du devano, nè le piante, nè gli animali chiamati
rante cotal flusso e mentre che le donne si esangui, cioè che mancano di sangue e pareva
purgano (il che, benchè non abbia tempo de che fosse solamente dello spirito umano: però
terminato, accade però circa la fine del mese Alberto Magno nel libro della spirazione e re
per essere allora più freddo) si può generare; spirazione lo definisce generalmente così. » Lo
tuttavia questo interviene di rado: e la crea », spirito è un corpo generato dalla parte vapo
tura che si genera allora o s'affoga per l'ab » rosa più sottile del nutrimento, il quale con
bondanza della materia, o conducendosi a bene, » corre a tutte le operazioni di ciascuno viven
nasce inferma e cagionevole e bene spesso leb » te». e benchè lo spirito si levi dal vapore del
brosa, o altramente magagnata e di poca vita. sangue o dell'aria, secondo Galeno, o del nutri
Ma dopo tale purgazione è il tempo attissimo mento secondo Alberto, non dovemo però cre
ed ottimo a ingravidare: perchè allora cade dere che sia corpo semplice, ma composto dei
nella matrice da tutti i membri della donna quattro elementi, benchè sia caldo a predo
un'altro mestruo puro e netto, il quale è utile minio, cioè sia più caldo che altro. Onde Ga
alla generazione, e di questo si forma l'em leno disse, che se alcuno mettesse un dito nel
brione e il parto, ovvero corpo del bambino ventricolo sinistro del cuore, egli nol vi po
in quel modo, e per quelle cagioni, che al trebbe tenere per la gran caldezza, non ostante
luogo loro si diranno. Dice Aristotile che sic che Avicenna lo chiama ora umido, ora fred
come ne maschi ingrossa la voce, quando co do e talvolta temperato. E grandissima dubi
minciano a mandar fuori il seme (il che si fa tazione, se lo spirito abbia anima o no. Galeno
comunemente circa il quattordicesimo anno), par che tenga alcuna volta, che egli sia ani
8 LEZIONE
mato, alcuna volta ne dubiti: ma secondo Ari credevano alcuni; e gli spiriti nel cuore, e nel
stotile, ed il suo grandissimo commentatore, nè cervello si risolvono in acqua dopo la morte
il sangue, nè lo sperma (come credevano al dell'animale come s'è veduto spesse volte. E
cuni) nè ancora lo spirito è animato; perchè qui senza fare menzione degli spiriti innati, ov
in lui non si vede operazione alcuna d'anima vero appropriati e degli spiriti chiamati dai
ed egli non intende, non sente e non si nu medici, complantati, porrò fine a questa materia.
trisce veramente e propriamente. E se si muove Dichiarati questi cinque termini necessari, San
a diversi luoghi, o è mosso immediate dall'a- gue, Digestione Sperma, Mestruo e Spirito, verrò fi
nima (il che è di cosa, che abbia anima), egli nalmente alla formazione del feto ovvero parto,
non sa questo intrinsicamente, e da virtute chiamato un'altra volta il nome e favore di
interna e brevemente per sua natura, ma gli Colui, che solo sa il vero e la certezza di que
viene di fuori da una qualità che si diffonde ste cose e di tutte l'altre. E per procedere
dall'anima in un istante per tutte le membra. distintamente, dichiararemo questi cinque capi
E chi direbbe mai, che il ferro o la collera per ordine a uno a uno, senza citare altra
fossero animati? Sebbene questo si muove a mente ogni volta l'autore, ed allegare i libri
diversi siti tirato dalla calamita, e quest'altra e le carte, per non empiere la lezione di no
dal riobarbaro. Lo spirito umano è più perfetto mi e consumare il tempo indarno. I cinque
di quello di tutti gli altri animali ed è stru capi sono questi: Di che si genera, e forma il
mento dell'intelletto: onde chi ha migliore parto. Da chi. Dove ed in che modo. Quando,
spirito è più speculativo, e consiste questo (co cioè in quanto tempo, e perchè.
me dice Galeno) non nella qualità, e moltitu
dine, ma nella qualità. E quegli hanno lo spi CAPo I
rito migliore: e più sottile e più lucido, i quali
hanno il sangue più puro e più sincero: il che Tre sono l'opinioni più famose, di che si generi
viene dalla buona digestione, e questa si fa col e formi il parto, ovvero l'embrione; chiamato par
mangiare temperatamente e cibi ottimi ed ap to, ed embrione la creatura ovvero bambino, da
propriati. Quanta al novero, vogliono alcuni che si genera nella matrice, infino a che nasce:
che gli spiriti siano tre: Vitale, Naturale, Ani uella d'Aristotile: quella di Galeno; quella
male, dicendo, che essendo i membri princi i Avicenna. Noi cominciandoci dall'ultima,
pali tre: Cuore, Fegato e Cervello, e l'anime diciamo, che Avicenna vuole, che l'uno e l'al
ovvero parti dell'anime tre, Razionale nel cer tro scme, quello dell'uomo e quello della
vello, Nutritiva nel fegato, Irascibile nel cuore; donna, oltra il mestruo, concorra alla genera
pare ragionevole che anco gli spiriti siano tre: zione, e che l'uno e l'altro diventi sostanza
il vitale, che sta nel cuore, il naturale nel fe e materia del parto, ma diversamente però: per
gato e l'animale nel cervello. Ma secondo i ciocchè quello della donna diventa materia, la
migliori medici e più lodati filosofi, non sono quale manca di virtù attiva: e quello dell'uo
se non due, vitale nel cuore ed animale nel mo diviene materia, la quale ha virtù attiva;
ventricolo del cervello; il naturale è il me onde dice, che dell'uno e dell'altro, mediante
desimo che il vitale; e non si distingue da la caldezza della matrice, si fa un coprimento
lui. Voglio bene che sappiate, che secondo al parto come una crosta ovvero corteccia,
Aristotile, il principale membro, più nobile e nella quale si rinvolge il parto, ed è nè più
più perfetto, e nel quale sono tutte le virtù, nè meno (come dice egli) come quando si mette
e il cuore, il quale è primo a nascere, ed ul nel forno la pasta del pane. Ma questa opi
timo a morire; ed il cervello, secondolui non nione ha poche ragioni dal suo lato, e moltis
sente e non serve ad altro, che a temperare sime contra. La seconda opinione di Galeno
colla sua frigidità la caldezza del cuore e de vuole, che alla generazione degli animali per
gli spiriti, i quali altramente sarebbero inutili: fetti concorrano necessariamente tre umori, il
benchè Galeno sia di contraria opinione in ogni sangue mestruo, lo sperma dell'uomo ed il se
cosa, come (Dio permettente) dichiareremo me della donna: e questi tre principi (secon
un'altra volta: perchè queste sono cose tanto do lui) erano differenti in questo, che lo sper
dubbie, confuse ed intricate che ciascuna pa ma del maschio era agente e formante per sè,
rola quasi ricercarebbe un' esamina e ben lun e sostanzialmente: e questo per cagione del
ga; come sanno quelli che ha queste cose han molto spirito, il quale è in lui; lo sperma
no dato, o danno opera. Restarebbeci ora una della donna è anco egli agente e formante, non
dubitazione importantissima, e questa è come per sè, ma come strumento mosso ed eccitato
è possibile che lo spirito, il quale esce fuori dal seme del maschio. E però diceva, il seme
insieme collo sperma dell'uomo, e nel quale è della donna non aver forza e virtù formativa,
la virtù generativa, non essendo egli animato, essendo questo proprio del maschio, ma in vir
possa dare l'anima ad altri, ancora dopo la tù e forza sufformativa, o quasi formativa, cioè
morte del generante. Ma perchè questo si di formativa non per sè, ma in virtù e per bene
chiarerà più di sotto al suo luogo, dirò ora fizio del seme del maschio. Il terzo umore è
solamente, che tanto vive l'animale, quanto il mestruo, il quale è solamente come materia,
il cuore può somministrargli lo spirito ed è e così secondo Galeno, il sangue mestruo e co
necessario, che in ogni minima particella di me mosso e formato solamente; lo sperma del
carne, o d'osso, sia spirito; altramente quella l'uomo come movente e formante: ma lo sper
tal parte non viverebbe, contro quello, che ma della femmina abbraccia e contiene l'una
SULLA GENERAZIONE DEL CORPO
cosa e l'altra: perciocchè egli è come moven
te, come mosso, come formante e formato: CAeo III
perchè rispetto al mestruo egli è movente e
formante ed in una parola attivo; ma rispetto Il parto (come ognuno sa) si genera nella
al seme dell'uomo, egli è mosso e formato, matrice, la quale noi chiamiamo molte volte
cd in una parola passivo: e così il seme ma ventre, come fecero ancora i latini, avven
scolino sarà come forma, ed il mestruo come gachè ventre significhi propiamente quello,
materia; ed il seme femminino, come forma e che noi chiamiamo di sopra ventricolo, dove
come materia. La terza sentenza d'Aristotile è
si fa la prima digestione. Ha la matrice (se
che nel parto umano siano due umori solamen condo che racconta Averrois), una virtù pro
te, lo sperma dell'uomo, il quale è attivo, e pia e particolare della sua forma specifica, ov
dà la forma, e il mestruo della donna, il quale vero da tutta la spezie, e questa è di tirare
è passivo, e dà la materia: di maniera, che il a sè naturalmente lo sperma e seme dell'uo
seme della donna non concorre, nè come at mo: e dicono, che ella manda fuori e versa il
tivo, ovvero forma, nè come passivo, ovvero seme suo propio per tirare a sè quello del
materia, anzi può la donna (secondo lui) di l'uomo: benchè alcuni dicono altramente. Anzi
ventare gravida senza che sparga del suo seme, non solamente rimanda fuori (dicono) il seme
sebbene alcune se ne trovano di tal natura, propio, ma ancora quello dell'uomo, poi che
che mai non ingravidano senza spargere il se se n'è servita: ed è essa tanto ghiotta e tanto
me: e s' allegano molti esempi di donne, le ingorda dello sperma virile, o piuttosto la ma
quali si trovarono gravide, ancora che mal vo tura è tanto accorta e tanto sollecita della gene
lentieri e contra loro voglia si congiungessero razione, che ricevuto dentro il semc, si chiude
eon l'uomo: e si racconta di quelle, che sen subito ed in tal guisa, che (secondo affermano)
za perdere la virginità, il che pare cosa im non vi potrebbe entrare, nè ancora una punta
possibile, furono fatte gravide da mariti loro. d'ago. Benchè questo non accade ugualmente
Ed Averrois adduce l' esempio d'una buona in tutte, nè talmente, che non s'apra poi e
donna sua vicina, la quale gli giurò, che s'era riceva di nuovo lo sperma; onde si fa spesse
trovata pregna solamente per entrare in un ba volte quello, che i latini chiamano superfetatio,
gno, nel quale avevano sparso il seme certi ri superfetare ; e noi potremmo forse dire, non
baldi che vi s'erano bagnati poco innanzi. E avendo altro, ringravidamento e ringravidare, o
(come dice egli) se il seme della donna avesse pregnezza sopra pregnezza: e cosi giova la ma
virtù formativa ancora che debole, potrebbe trice al parto, come il luogo al locato. Come
una donna impregnare naturalmente da sè stes si formi ora il parto, è diſficilcosa a chiarirsi.
sa, e così l'uomo verrebbe ad essere superfluo. Dicono alcuni, che giunto il seme del maschio
Quale sia più vera di queste due opinioni non istà nella matrice, egli per la virtù sua attiva, tira
a me interporci il giudizio mio e darne sen a sè la più pura parte del mestruo della
tenza. Dico bene, che dove Galeno, che fu il donna, e ne forma il parto, o embrione, il
maggior medico che si ricordi, discorda dal quale da principio è come latte, ovvero burro,
maggior filosofo che fosse mai, è se non im poi come sangue, poi come una cosa coagulata
possibile, certamente malagevolissimo a trovare e rappresa, diventa quasi come carne; nella
la verità, e massimamente in quelle cose che quale si formano prima i tre membri princi
non hanno dimostrazione come questa. Ed in pali, come tre vesciche picciole, cioè il cuore,
fino qui basti del primo capo. secondo Aristotile (il quale mai non cessa dal
moto), poi il fegato, poi il cervello. Il pol
CAPo II mone non s' annovera tra membri principali,
perchè non respirando da principio il bambino,
Quanto al secondo capo, lasciando stare l'al non ne ha bisogno: il medesimo si dice de'testi
tre opinioni, e massimamente quelle degli astro coli. Tutti e tre questi membri principali si for
logi, diciamo con Aristotile: che il sole, e mano del sangue: il cuore della più sottil parte,
l'uomo generano l'uomo, il sole come cagio il fegato di quello che è grosso ed acceso, il
ne rimota ed universale, e l'uomo come pro cervello di quello che è flemmatico e freddo:
pinqua e particolare; e senza dubbio opera onde il fegato, e 'l cervello sono quasi super
più infinitamente la cagione universale e rimo fluità del nutrimento del cuore, cioè del san
ta, che la particolare e propinqua; anzi l'uo gue sottile e puro, onde si genera il cuore. E
mo non si chiama cagione, se non rispetto al per meglio dichiarare, diciamo che il parto, o
seme. Conciossiacchè, rispetto al cielo non è ca bambino nel ventre, è rivolto e circondato da
gione, ma strumento; e perchè opera in virtù tre tele. La prima è una certa tela sottile, non
del cielo e massimamente del sole, avviene, altramente quasi che quella, che noi veggiamo
che il seme, il quale opera in virtù del gene stare appiccata al guscio dell'uovo di dentro:
rante (morto lui) ha possanza di introdurre nel e chiamasi questa prima tela armadura, ovvero
parto, ancora che non sia animato egli, l'ani guardia, ed è fatta dalla natura per tre cagioni
ma vegetativa e sensitiva, e disporlo a riceve e giovamenti. Prima, acciocchè la virtù e lo
re l'intellettiva. spirito, che è nel seme del maschio non eva
pori ed esali; ed acciocchè le parti dello sperma
non si spargano ma stiamo raccolte insieme,
perche sempre la virtù unita e più forte. Lº
º
vant HI
Io LEZIONE

seconda cagione è aſſine che il bambino non cono de'cani: solo l'uomo non ha tempo dè
sia offeso dall'orina, sudori ed altre superfluità, terminato, nascendo ora nel settimo mese,
benchè nel ventre non mandi fuora le feccie. nel quale molti vivono, benchè siano debili
La terza, perchè non sia offeso dalla durezza per lo più e come volgarmente si dice di sette
e ruvidità della terza tela e della matrice, e mesi. Alcuni in otto, e di questi vivono po
questa prima tela circonda tutto il parto in chissimi, o più tosto niuno, secondo Aristo
torno intorno. La seconda tela non circonda tile: se non m Egitto, dove le donne sono
tutto il parto, ma solamente le parti inferiori più forti, e di miglior complessione: il che
o più basse, e fu fatta dalla natura per rice secondo che recita Avicenna, avveniva ancora
vere le superfluità; conciossiacchè il bambino in Ispagna, dove elle erano più robuste e più
mentre sta nel ventre, si nutrisce per lo bel generative. Alcuni, anzi la maggior parte, e
tico. Ora se l'acquosità e quasi orina, che egli quasi tutti nascono, chi bene il sapesse a fa
manda fuori s'adunasse e raccogliesse fra lui cesse il conto, nel nono mese. Alcuni nel de
e la prima tela, senza dubbio verrebbe il bam cimo, benchè questi chi potesse vedere il ve
bino ad essere offeso, e patire così dal sudore, ro, sariano nel nono. Alcuni secondo Avicenna
come dall'altre superfluità. La terza tela, la nell'undecimo, e qualcuno nel tredicesimo:
quale (secondo Avicenna) è composta di due benchè io credo, che le madri di questi tali,
tele sottili, si chiama secondina, e per questa come dice Aristotile, errino e si diano a cre
piglia il bambino il nutrimento: e per questa dere quello che non è; il che può intervenire
si congiunge mediante alcuni legamenti, i quali per molte cagioni (come altra volta diremo).
si fanno del mestruo mediante la virtù del seme ſe benchè in queste cose non si possa dar fer
del maschio alla matrice, e quindi piglia il nu ma, e certa regola ed ognuno creda a suo
trimento dal mestruo; il quale si divide in tre modo, non avendo ragioni infallibili, che con
arti. Della più sottile si nutrisce il bambino; vincano; ed essendo la natura tanto possente
'altra parte va alle mammelle ed imbiancando e tanto varia: niente di meno a me giova di
vi diventa latte; la terza parte è una certa credere, che sia naturalmente un tempo dif
superfluità che si posa nel ventre, e quivi ri finito e determinato, in minor del quale non
mane in fino al tempo del parto. Dicono al possa nascere parto alcuno che vitale sia; e
cuni, maravigliandosi della grandissima provi medesimamente sia un tempo determinato e dif.
denza della natura, che da principio della ge finito, in maggior del quale non si possa na
nerazione il cervello è picciolo, come quello scere e vivere. E così credo che debba tenere
che per allora non è molto necessario, ed il ogni buon filosofo, e questo per quella propo
fegato grande, le cui operagioni dovendo nn sizione universale che dice: Ogni agente na
trire, sono necessarissime sempre. Dicono an turale ha determinato il più e i meno, che egli
cora, che il capo in quel tempo, a proporzione possa naturalmente fare; altramente ne segui
degli altri membri, è molto grande, avendo ad tarebbero inconvenienti grandissimi (come san
uscire da lui molte cose, come naso, orecchie no i filosofi) e tutta la scienza naturale e la
cd altre tali. Sta il parto Irel ventre della ma medicina anderebbe per terra. Dico bene, che
dre chinato e curvo, quasi che cerchi la figura fra i minor numero (il quale è secondo Ippo
tonda, la quale è perfettissima. Tiene la faccia crate, nel principio del libro del parto, di sette
sopra le ginocchia, in guisa che il naso venga mesi, un mezzo anno appunto, cioè giorni cen
nel mezzo, e ciascuno occhio sopra ciascuno to ottantadue e mezzo, o piuttosto cinque ot
ginocchio: e benchè egli viva primieramente tavi, cioè quindici ore), ed il maggiore si dan
la vita vegetativa, come una pianta, tal che se no più gradi indeterminati: e di qui viene la
si pugnesse non sentirebbe, e poi la sensitiva, verità de nascimenti, e si possono concordare
come animale bruto, è però da notare que gli autori. E così, secondo questa regola d'Ip
ste cose esser dette metaforicamente, e per pocrate sarà vero quel che dice Aristotile, che
translazione: perciocchè nel vero l'anima ve niuno nasce che sia vitale, innanzi il settimo
getativa negli uomini è differente dall'anima mese; e sono i mesi d'Ippocrate mesi non so
vegetativa delle piante, e la sensitiva medesi lari, ma innari, cioè il tempo da una luna al
mamente. E questo basti del terzo capo. l' altra, che sono ventinove giorni e mezzo e
poco più: e questa credo che sia la verità, an
CAPo IV cora che sappia quello che m'ha scritto nella
mostra lingua leggiadrissimamente il dottissimo
Nel quarto capo, cioè quando e in quanto M. Sperone amicissimo mio, sopra il caso di
tempo si formi il bambino, sono tanti pareri, una fanciulla nata in cento sessantasei giorni
o più tosto dispareri, quanti sono quelli, che ed alquante ore: il che secondo questa regola
ne hanno scritto: ma noi non avendo tempo, non potrebbe essere. Colla quale si conviene,
e non ci parendo possibile non che necessario e si confà quello che scrive Ulpiano nella leg
raccontare l'opinioni d'una in una tutte quante ge che comincia: intestato, nel paragrafo finale
diremo le più generali, e quelle mediante le nel titolo de suis et legitimis; scrivendo che il
quali si possano concordare e verificarsi tante divo Pio, seguitando l'autorità d'Ippocrate,
discordie e varietà. Diciamo dunque con Ari sentenziò che uno che era nato in cento ot
stotile che tutti gli altri animali hanno un ter tantadue giorni fosse legittimo, dove scrive an
mine prefisso, chi più e chi meno di partorire; cora, che il parto dopo dieci mesi non si am
benchè alcuni qualche volta variino, conre di mette alla redità ; e similmente nell'autentica
SULLA GENERAZIONE DEL CORPO r i

della restituzione delle cose dotali, non si con non è umido com'è ella, ma secco, il nato non
cede la redità al figliuolo nato nel fine del campa: ma quelli che nascono nel nono mese,
l'undecimo mese. Ed affine che meglio si com nascono sotto il dominio di Giove, e però vi
prenda questa materia, diremo, che il parto si vono essendo Giove caldo ed umido, ne'quali,
forma ed organizza (per dire come Dante) nel due umori consiste la vita. Ma lasciando gli
ventre della madre al manco in trenta di, ed il astrologi e molte altre opinioni loro, che in
più in quarantacinque, ed in quel mezzo sono più tese semplicemente sono contra la filosofia e
gradi, ne'quali si può formare e massimamente la verità, benchè, per avventura, si potessero
nei trentacinque e quaranta. Noi pigliando il ridurre a buon senso (1), diciamo, che la ra
maggior numero, diremo come S. Agostino, che gione naturale e filosofica è perchè il bambi
l'embrione nei primi sei giorni ha somiglianza no sempre nel settimo mese cerca e si sforza
di latte; ne nove di seguenti si converte in co” piedi e colle mani d' uscire del ventre, e
sangue: in dodici poi diventa di carne, e ne se trova esito si salva e vive; ma se trova re
gli altri diciotto si formano tutti i membri: e sistenza, piglia qualche lesione e nocumento:
se torremo il minore numero, o qual si voglia onde se esce poi l'ottavo mese, perchè non
degli altri, sempre procederemo con questa è ancora ben sanato non può vivere: ma se
medesima proporzione, e così si potranno sal egli aspetta il nono mese, essendo di già gua
vare le contrarietà che sono non solamente tra rito affatto e fortificato, vive. Ma perchè que
l'uno scrittore e l'altro, ma in uno stesso au sta materia è non meno lunga che dubbiosa,
tere. Conciossiacchè Ippocrate dice in un luo ed il tempo passa, passeremo all'ultimo capo.
ga, che il parto si forma in trentadue dì, ed
in un altro in trentacinque: ma bisogna av CAPo V
vertire, che i raaschi si formano piuttosto
nel ventre, e pigliano prima ha perfezione che La cagione della generazione dell'uomo è
la femmina per molte ragioni che ora si tac primieramente come tutte l'altre, cioè per in
ciono; ed anco di questo si favella diversa trodurre la forma nella materia; il che è il
mente, non solamente da diversi, ma dai me fine propinquo di tutte le generazioni: secon
desimi: perciocchè Aristotile nel terzo capi dariamente possiamo dire che si generi per con
tolo del settimo della storia pone nei maschi servazione della specie, e così per compimento
quaranta di. Ed Avicenna nella seconda del e perfezione dell'universo. Parlando però filo
terzo pone nel maschio trenta di e nella fem soficamente e non secondo i teologi cristiani,
rina quaranta, ed aggiugne, che la femmina e brevemente il fine d'ogni generazione secondo
nde volte si forma in quarantacinque, come il i filosofi è l'introduzione della forma nella ma
raaschio rade volte in trentacinque. Favellano teria, ed il fine del generato contemplare le
ancora diversamente gli autori circa il movi sostanze astratte, e copulare l'intelletto possi
mento del parto. Ippocrate dice, che il bam bile coll'agente.
bino si muove tre mesi dopo la concezione e ---

la bambina quattro; cioè quando nascono i


capegli e l'ugne. Aristotile dice, che il ma Fornito questo ragionamento e discorso in
schio si muove in quaranta di e la femmina quel modo che s'è potuto, rispetto alla bre
in tre mesi, le quali contrarietà si potranno, vità del tempo ed alla difficoltà e lunghezza
per avventura, ridurre a concordia colla rego della materia, verrò con buona licenza vostra,
la che dette Ippocrate sopra questo: la quale graziosissimi uditori, alla dichiarazione del te
e che il tempo, nel quale si muove il parto, sto; dove ciascuno potrà per sè stesso cono
e il doppio più di quello, nel quale si forma: scere agevolissimamente quale fosse l'artifizio
ed il tempo quando nasce è la metà più di e quanta la dottrina di questo poeta veramente
quando si muove: onde formandosi il parto in divino. E per intelligenza più chiara di tutto
trentacinque di, si muove in settanta, che so il presente capitolo, dovemo sapere come Dante
no dalla generazione cento cinque e nasce in avendo di sopra nel canto vigesimo terzo, dove
centoquaranta, che vengono ad essere dugen nel sesto giro si purgano i golosi, veduta la
to quarantacinque, e con questa medesima pro strema magrezza di quelle ombre, molto forte
porzione si può procedere in tutti gli altri. E s'era maravigliato seco medesimo, e dubitava
da notare, che sebbene il maschio per essere nel suo cuore, come ciò potesse essere; sapen
più caldo si forma nel ventre piuttosto che la do egli e come fisico e come medico, che dove
femmina, la femmina nondimeno fuori del ven non è bisogno di cibo e di nutrimento, quivi
tre cresce più tosto, e viene a perfezione più non può essere magrezza. E come desideroso
tasto che il maschio, siccome anco invecchia, d'apparare e di sapere la verità, la quale è sola
e muore più tosto. La cagione perchè quelli obbietto adeguato della mente nostra, aveva
che nascono nell'ottavo mese non vivono, è desiderio ardentissimo di dimandarne Virgilio;
anco ella dubbia e diversa. Gli astrologi vo ma poi come modesto uomo e rispettoso sipe
gliono, che nel primo mese del parto signoreggi
Saturno, il secondo Giove, e così di mano in (1) Emerge da questo tratto e da molt'altri, che il Varchi
al paro de'più acuti e profondi ingegni dell'età sua andava
mano infino alla luna, la quale essendo la set perduto dietro le pazze fantasticherie dell'astrologia: della
tima e l'ultima, chi nasce allora vive: ma nel quale tutto è detto, quando col Bailly si ripeta, ch'ella fu
l'ottavo mese essendo ritornata la signoria a stolta figliuola di madre saggia, come quella che nacque dal
Saturno, il quale se e freddo come la luna, l'astronomia. (M)
I a LEZIONE
ritava, per non essergli forse troppo molesto; tamente adoperò Dante, e come non meno fu
ma confortato a dire da lui medesimo, che di accorto che saggio a fare che Virgilio commet
ciò accorto s'era, apri la bocca sicuramente: tesse a Stazio cotale ufficio, dovendo parlare
E cominciò: Come si può far magro dell'anima, e massimamente nel fine, non come
Là, dove l'uopo di nutrir non tocca ? filosofo e gentile, ma come teologo e cristiano;
il che poteva fare in questa parte molto più
Cioè, come può diventare magra una cosa che convenevolmente Stazio, e per essere egli stato,
non ha bisogno di nutrimento, come sono tutte non solamente amico e fautore de cristiani, ma
le spiritali, e delle corporali tutte quelle che cristiano (1), secondo che dice egli stesso nel
non hanno vita. Al qual dubbio gli rispose dodicesimo Canto di questa Cantica medesima.
Virgilio, come poeta con un esempio favoloso,
e da poeti dicendo: Se egli è possibile che E mentre che di là per me si stette
un tizzone ardendo nel fuoco e consumandosi, Io li sostenni, e i lor dritti costumi
sia cagione, che uno che sia lontano, e che di Fer dispregiare a me tutte altre sette.
questo non sappia cosa alcuna, si consumi ed E pria che i Greci conducessi a fiumi
arda tanto, che consumato tutto il tizzone, sia Di Tebe poetando, ebb io battesmo,
consumata tutta la vita di colui (come finge Ma per paura chiuso cristian fimi,
Ovidio, che intervenisse a Meleagro, la cui fa Onde Stazio dopo una dotta e gentile scusa
vola per essere notissima, benchè abbia sotto di non poter diniegare cosa alcuna a Virgilio,
mistero, come l'altre, non racconteremo); così ancora che sia cosa temeraria e prosuntuosa
è possibile che queste ombre diventino magre. favellare dove sia egli, cui per la dottrina ed
E questo esempio non si può intendere bene, eloquenza sua, doverebbe toccare a favellare,
se prima non sappiamo, come l'anima razio ed agli altri tacere; si rivolge amorevolissima
nale, dopo la morte del corpo piglia un corpo mente verso Dante, e facendoselo benevolo col
aereo, come si vedrà di sotto nel luogo suo: chiamarlo figliuolo, ed attento e docile col dir
benchè alcuni credono che Dante in questo gli, che se starà ad ascoltare le sue parole si
luogo voglia accennare le virtù specifiche e chiarirà del suo dubbio, cominciò:
proprietà occulte, delle quali favelleremo un'al
tra volta. Dopo questo esempio adduce Virgi Sangue perfetto, che poi non si beve
lio a Dante una similitudine naturale e mate Dall'assetate vene, e si rimane
matica, dicendo: Così possono parer magre e Quasi alimento, che di mensa leve.
grasse queste ombre, eioè questo corpo aereo, Ancora che per le cose dette di sopra que
secondo che vuole l'anima di dentro, che lo sti versi, e così tutti gli altri siano chiari e
dispone e governa, e da cui ella pende: non piani tanto, che ciascuno li potrebbe intendere
altrimenti che nello specchio si muove l'im da sè; tuttavia non mi parrà fatica di sporli,
magine, secondo che si muove la persona di e sponendoli confrontarli e concordarli colle
chi è l'immagine; mostrandosi ora trista ed ora cose dette. Ma prima non voglio mancare di
allegra, secondo che o allegra, o trista si mo dirvi, che io non perdonando nè a tempo, nè
stra la persona che si specchia. Ed è questa
similitudine appropiatissima, come meglio s'in
tenderà di sotto nella similitudine dell'arco
Ibaleno: perchè, come che Dante valesse in
- -

iutte le cose, e quasi oltre il corso umano ne.


|
a fatica, per fare parte del debito ed ufficio
mio, ho letto diligentemente e riscontrato cin
que testi di Dante, stampati in vari tempi e
luoghi ed altrettanti in penna, scritti simil
mente in diversi luoghi e tempi, e posso af
|
gli esempi e nelle comparazioni fu egli certis fermarvi con verità che pochi sono stati quei
simamente divino. Ma non contento Virgilio a versi, ne' quali io oltra molte altre trasposi
questi due esempi, e volendo dichiararli piena zioni e varietà, non abbia trovato qualche scor
mente e mostrare come l'anima intellettiva, rezione e molte volte d'importanza grandissi
morto il corpo, potesse or ridere ed ora pian ma, come potrete vedere in questa lezione sola
gere e soffrire tutte le passioni de viventi, di nella quale, oltra molte altre di qualche mo
mandando e rispondendo non altrimenti che i mento ne sono tre. L'una delle quali fa che
vivi; come s'è veduto per tutto l'Inferno e per non si possa intendere bene il sentimento del
tutto il Purgatorio infin qui e volendo vestirla Poeta; l'altra, che non si possa intender pun
d'un nuovo corpo aereo come di sotto vedre to; la terza, che sia falsissima la sentenza. E
mo, per maggiore intelligenza, gli parve prima benchè questi testi che ho veduti io scritti a
di mostrargli, come ella s'infondesse nel corpo mano siano assai antichi, ed uno fra gli altri
umano, e da chi e quando. Ed a voler far que molto più corretto e fedele che gli altri, scritto
sto gli fu necessario insegnar prima in che modo come si può conghietturare per molti segni poco
si generasse e formasse il corpo coll'anima ve dopo la morte di Dante; tuttavia niuno ve
getativa e sensitiva. Le quali si cavano (come n ha che mi paja del tutto senza errori e da
dicono i filosofi e come noi dichiareremo) dalla fidarsene sicuramente. Credo bene che fra que
Potenza della materia, e perciò sono incorrut sti e molti altri che sono in Firenze in più
tibili e morali: dove l'anima razionale, ovvero luoghi, se ne potrebbe acconciare uno da chi
l'intelletto umano, perchè viene di fuori è in
corruttibile ed immortale. E perchè noi ave (1) Non è provato con saldi argomenti, che Stazio fosse
queste cose particolar
mo a favellare di tutte
cristiano: ma pur v'ebbero molti scrittori, seguiti in questo
mente, non diremo altro ora, se non che cau tratto dell'Alighieri, che cristiano il credettero. (M.)
SULLA GENERAZIONE DEL CORPO 13

avese gran dottrina e buon giudizio che sa che il cibo. Chiamasi alimento, cioè nutrimento
rebbe perfetto. La qual cosa s'io non m'in da questo verbo latino, Alo, che vuol dire il
ganno del tutto, arrecarebbe non meno agevo medesimo che Nutrio ; dal quale viene anco
lena ed utilità a leggenti, che gloria alla pa ra questo vocabolo, Alma, che è proprio di
tra nostra e lode a chi ciò facesse: e sarebbe Cerere, per essere ella Dea delle biade. – che,
colle fatica e diligenza, impresa degnissima il qual nutrimento, nel quarto caso – leve, in
di questa tanto e tanto meritamente lodata vece di levi, nella seconda persona, cioè togli
Accademia; la quale un giorno potrebbe forse e porti via. Ed è usatissimo appresso i Latini
arrecare non picciola chiarezza al grandissimo questo modo di porre la seconda persona per
splendore dell'Illustrissimo Duca, principe e la terza, ed intendere generalmente; il che
padrun nostro. fanno ancora nella prima, come noi.
Ma venendo a Dante, dico che volendo egli Ora innanzi che io passi al secondo terzet
mostrare nel terzetto seguente, onde lo sperma to, non pare da lasciare indietro che io ho
dell'uomo pigliasse la virtù generativa, diffi letto e dichiarato poi, come hanno i testi a
isce prima in questo (come si debbe fare in penna buoni, e non mai, come si legge negli
tutte le cose) che cosa sia sperma, e quanto stampati. E così secondo che si può vedere
illa verità lo diffinisce come medico e filoso nel suo Commento, benchè non dichiari que
f, e quanto all'ornato come poeta ed orato sta parola, legge anco il nostro M. Cristofano
re. E di qui voglio che cominciate a conside Landini (1): al quale pare a me, ch'abbiano
me quanta sia la scienza, e quanta l'arte di obbligazione infinita gli studiosi di questo Poe
ſesto poeta e filosofo singolare. E perchè cia ta. Perciocchè oltra la bontà e dottrina sua,
tuna buona diffinizione debbe essere compo egli s'affaticò molto e fu diligentissimo in rac
sia del genere e delle sue differenze, egli pi corre con giudizio, e mettere insieme con or
ſia per genere il sangue, come è veramente dine molte cose che erano state dette e in
non essendo lo sperma altro che sangue), e latino ed in toscano da molti Commentatori
figlia il genere prossimo come si deve, e non di questo Poeta, i quali oggi non si ritrovano
il rimoto, come i quattro elementi di che è (che io sappia). E ben so che se ne ritrovano
composto il sangue o la prima materia, della alcuni; e quello che più mi piace, appresso di
ſale sono composti gli elementi: come chi tali che per la bontà e cortesia loro non li
volendo diffinire l'uomo, dicesse non animale, terranno mascosi.
te e il suo genere propinquo, ma corpo o Prende nel cuore a tutte membra umane
ºlanza che sono generi rimoti. E perchè non Virtute informativa, come quello,
bastava dire, sangue senz'altro, conciossiacchè Ch'a ſarsi quelle per le vene vane.
into il mestruo è sangue, v'aggiunse, perfetto,
tie digesto e smaltito, dopo l'ultima digestio Maravigliosa cosa è a pensare, come in si pic
ne. È così il genere vero e proprio di sper ciola quantità di seme umano sia virtù così
na, è segue perfetto se si potesse dire in una grande, che di lei si formino tante diversità,
parola, cioè smaltito: perchè insino che non come sono, ossa, nervi, vene, arterie, carne, e
i smaltisce nel cuore o nel fegato per virtù tante altre parti che sono nel corpo dell'ani
del cuore, egli non è vero e perfetto sangue. male. Ma picciola cosa è questa, benchè sia
Trovato il genere, pose in luogo della sua diffe grandissima, se consideraremo, come non es
ma ultima, tutte quelle parole: –che poi non sendo animato, introduce nella materia, cioè
filere, –Dall'assetate vene, che a dirlo in una nel mestruo della donna, prima l'anima vege
Pirolavuol dir superfluo,cioè che avanza del nu tativa e poi la sensitiva; e lo dispone e fa
timento: e così è compita perfettamente tutta tale che diventa atto a ricevere l'anima ra
h difinizione dello sperma – Che. Il qual san zionale. Della qual cosa volendo rendere il
ine-Poi, poichè, dacchè – non si beve. Non si poeta la ragione, disse tutto quello che si con
e succia dalle vene assetate, nelle quali tiene in questo terzetto; il che se è poco in
iſ, quella quarta digestione, le cui " quantità, è tanto in qualità, che io stupisco,
ºno i sudori, i peli e l'ugne. E questo disse, come in sì poche parole potesse significare
ºrche mediante le vene si sparge il nutrimento tante cose e tanto grandi. Il che a cagione che
ºutto il corpo: nè è altra differenza (si può meglio s'intenda, diremo prima che la virtù
º dalle vene all'arterie, se non che nelle informativa, ovvero generativa, la quale è nello
ºe sta più sangue che spirito, e nelle arterie spirito che esce insieme collo sperma dell'uo
lº spirito che sangue – e si rimane – Quasi mo, non opera formalmente, ma virtualmente,
dimento, che di mensa leve. Sono poste tutte come il sole, il quale non è caldo formalmen
ºte parole a ornamento, e per meglio spri te, ma virtualmente. E che questo sia vero,
º con questa similitudine, in che modo il lo sperma operando non assimiglia il paziente
ºste sia superfluo ed avanzi; perciocchè a sè, cioè non converte il mestruo in isperma,
fºndo le vene hanno succiato tanto di san ma lo forma ed organizza, introducendovi l'a-
sº che basti per nutrimento, ed a ristorare nima vegetativa e sensitiva e disponendolo al
le parti perdute, elleno non ne succiano più l'intellettiva; e questo perchè piglia 1a virtù
º altrimenti che un modesto uomo e tem dal cuore ed opera in vigore dell'anima del
ºto, preso il bisogno suo del cibo, lascia il
ºnente: e però disse: – e si rimane, cioè re (1) Autore, come è noto, d'uno de più sottili, copiosi ed
º º avanza – Quasi aliuano, non altramente cruuiti commenti della Divina Commedia.
I2 LEZIONE

ritava, per non essergli forse troppo molesto: tamente adoperò Dante, e come non meno fu
ma confortato a dire da lui medesimo, che di accorto che saggio a fare che Virgilio commet
ciò accorto s'era, apri la bocca sicuramente: tesse a Stazio cotale ufficio, dovendo parlare
E cominciò: Come si può far magro dell'anima, e massimamente nel fine, non come
Là, dove l'uopo di nutrir non tocca ? filosofo e gentile, ma come teologo e cristiano;
il che poteva fare in questa parte molto più
Cioè, come può diventare magra una cosa che convenevolmente Stazio, e per essere egli stato,
non ha bisogno di nutrimento, come sono tutte non solamente amico e fautore de cristiani, ma
le spiritali, e delle corporali tutte quelle che cristiano (1), secondo che dice egli stesso nel
non hanno vita. Al qual dubbio gli rispose dodicesimo Canto di questa Cantica medesima.
Virgilio, come poeta con un esempio favoloso,
e da poeti dicendo: Se egli è possibile che E mentre che di là per me si stette
un tizzone ardendo nel fuoco e consumandosi, Io li sostenni, e i lor dritti costumi
sia cagione, che uno che sia lontano, e che di Fer dispregiare a me tutte altre sette.
questo non sappia cosa alcuna, si consumi ed E pria che i Greci conducessi a fiumi
arda tanto, che consumato tutto il tizzone, sia Di Tebe poetando, ebb'io battesmo,
consumata tutta la vita di colui (come finge Ma per paura chiuso cristian fumi,
Ovidio, che intervenisse a Meleagro, la cui fa Onde Stazio dopo una dotta e gentile scusa
vola per essere notissima, benchè abbia sotto di non poter diniegare cosa alcuna a Virgilio,
mistero, come l'altre, non racconteremo); così ancora che sia cosa temeraria e prosuntuosa
è possibile che queste ombre diventino magre. favellare dove sia egli, cui per la dottrina ed
E questo esempio non si può intendere bene, eloquenza sua, doverebbe toccare a favellare,
se prima non sappiamo, come l'anima razio ed agli altri tacere, si rivolge amorevolissima
nale, dopo la morte del corpo piglia un corpo mente verso Dante, e facendoselo benevolo col
aereo, come si vedrà di sotto nel luogo suo: chiamarlo figliuolo, ed attento e docile col dir
benchè alcuni credono che Dante in questo gli, che se starà ad ascoltare le sue parole si
luogo voglia accennare le virtù specifiche e chiarirà del suo dubbio, cominciò:
proprietà occulte, delle quali favelleremo un'al
tra volta. Dopo questo esempio adduce Virgi Sangue perfetto, che poi non si beve
lio a Dante una similitudine naturale e mate
Dall'assetate vene; e si rimane
Quasi alimento, che di mensa leve.
matica, dicendo: Così possono parer magre e
grasse queste ombre, eioè questo corpo aereo, Ancora che per le cose dette di sopra que
secondo che vuole l'anima di dentro, che lo sti versi, e così tutti gli altri siano chiari e
dispone e governa, e da cui ella pende: non piani tanto, che ciascuno li potrebbe intendere
altrimenti che nello specchio si muove l'im da sè; tuttavia non mi parrà fatica di sporli,
magine, secondo che si muove la persona di e sponendoli confrontarli e concordarli colle
chi è l'immagine; mostrandosi ora trista ed ora cose dette. Ma prima non voglio mancare di º
allegra, secondo che o allegra, o trista si mo dirvi, che io non perdonando nè a tempo, nè
stra la persona che si specchia. Ed è questa a fatica, per fare parte del debito ed ufficio
similitudine appropiatissima, come meglio s'in mio, ho letto diligentemente e riscontrato cin
tenderà di sotto nella similitudine dell'arco que testi di Dante, stampati in vari tempi e
Ibaleno: perchè, come che Dante valesse in luoghi ed altrettanti in penna, scritti simil
tutte le cose, e quasi oltre il corso umano ne. mente in diversi luoghi e tempi, e posso af
gli esempi e nelle comparazioni fu egli certis fermarvi con verità che pochi sono stati quei
simamente divino. Ma non contento Virgilio a versi, ne' quali io oltra molte altre trasposi
questi due esempi, e volendo dichiararli piena zioni e varietà, non abbia trovato qualche scor
mente e mostrare come l'anima intellettiva, rezione e molte volte d'importanza grandissi
morto il corpo, potesse or ridere ed ora pian ma, come potrete vedere in questa lezione sola
gere e soffrire tutte le passioni de viventi, di nella quale, oltra molte altre di qualche mo
mandando e rispondendo non altrimenti che i mento ne sono tre. L'una delle quali fa che
vivi; come s'è veduto per tutto l'Inferno e per non si possa intendere bene il sentimento del
tutto il Purgatorio infin qui e volendo vestirla Poeta; l'altra, che non si possa intender pun
d'un nuovo corpo aereo come di sotto vedre to; la terza, che sia falsissima la sentenza. E
mo, per maggiore intelligenza, gli parve prima benchè questi testi che ho veduti io scritti a
di mostrargli, come ella s'infondesse nel corpo mano siano assai antichi, ed uno fra gli altri
umano, e da chi e quando. Ed a voler far que molto più corretto e fedele che gli altri, scritto
sto gli fu necessario insegnar prima in che modo come si può conghietturare per molti segni poco
si generasse e formasse il corpo coll'anima ve dopo la morte di Dante; tuttavia niuno ve
getativa e sensitiva. Le quali si cavano (come n ha che mi paja del tutto senza errori e da
dicono i filosofi e come noi dichiareremo) dalla fidarsene sicuramente. Credo bene che fra que
Potenza della materia, e perciò sono incorrut sti e molti altri che sono in Firenze in più
tibili e morali: dove l'anima razionale, ovvero luoghi, se ne potrebbe acconciare uno da chi
l'intelletto umano, perchè viene di fuori è in
corruttibile ed immortale. E perchè noi ave (1) Non è provato con saldi argomenti, che Stazio fosse
mo a favellare di tutte queste cose particolar cristiano: ma pur v'ebbero molti scrittori, seguiti in questo
mente, non diremo altro ora, se non che cau tratto dell'Alighieri, che cristiano il cielettero. (M.)
SULLA GENERAZIONE DEL CORPO 13

avesse gran dottrina e buon giudizio che sa che il cibo. Chiamasi alimento, cioè nutrimento
rebbe perfetto. La qual cosa s'io non m'in da questo verbo latino, Alo, che vuol dire il
ganno del tutto, arrecarebbe non meno agevo medesimo che Nutrio, dal quale viene anco
lezza ed utilità a leggenti, che gloria alla pa ra questo vocabolo, Alma, che è proprio di
tria nostra e lode a chi ciò facesse: e sarebbe Cerere, per essere ella Dea delle biade. – che,
cotale fatica e diligenza, impresa degnissima il qual nutrimento, nel quarto caso – leve, in
di questa tanto e tanto meritamente lodata vece di levi, nella seconda persona, cioè togli
Accademia; la quale un giorno potrebbe forse e porti via. Ed è usatissimo appresso i Latini
arrecare non picciola chiarezza al grandissimo questo modo di porre la seconda persona per
splendore dell'Illustrissimo Duca, principe e la terza, ed intendere generalmente; il che
padron mostro. fanno ancora nella prima, come noi.
Ma venendo a Dante, dico che volendo egli Ora innanzi che io passi al secondo terzet
mostrare nel terzetto seguente, onde lo sperma to, non pare da lasciare indietro che io ho
dell'uomo pigliasse la virtù generativa, diffi letto e dichiarato poi, come hanno i testi a
nisce prima in questo (come si debbe fare in penna buoni, e non mai, come si legge negli
tutte le cose) che cosa sia sperma, e quanto stampati. E così secondo che si può vedere
alla verità lo diffinisce come medico e filoso nel suo Commento, benchè non dichiari que
fo, e quanto all' ornato come poeta ed orato sta parola, legge anco il nostro M. Cristofano
re. E di qui voglio che cominciate a conside Landini (1): al quale pare a me, ch'abbiano
rare quanta sia la scienza, e quanta l'arte di obbligazione infinita gli studiosi di questo Poe
questo poeta e filosofo singolare. E perchè cia ta. Perciocchè oltra la bontà e dottrina sua,
scuna buona diffinizione debbe essere compo egli s'affaticò molto e fu diligentissimo in rac
sta del genere e delle sue differenze, egli pi corre con giudizio, e mettere insieme con or
glia per genere il sangue, come è veramente dine molte cose che erano state dette e in
(non essendo lo sperma altro che sangue), e latino ed in toscano da molti Commentatori
piglia il genere prossimo come si deve, e non di questo Poeta, i quali oggi non si ritrovano
il rimoto, come i quattro elementi di che è (che io sappia). E ben so che se ne ritrovano
composto il sangue o la prima materia, della alcuni; e quello che più mi piace, appresso di
quale sono composti gli elementi: come chi tali che per la bontà e cortesia loro non li
volendo diffinire l'uomo, dicesse non animale, terranno nascosi.
che è il suo genere propinquo, ma corpo o Prende nel cuore a tutte membra umane
sostanza che sono generi rimoti. E perchè non Virtute informativa, come quello,
bastava dire, sangue senz'altro, conciossiacchè Ch'a ſarsi quelle per le vene vane.
anco il mestruo è sangue, v'aggiunse, perfetto,
cioè digesto e smaltito, dopo l'ultima digestio Maravigliosa cosa è a pensare, come in si pic
ne. E così il genere vero e proprio di sper ciola quantità di seme umano sia virtù così
ma, è sangue perfetto se si potesse dire in una grande, che di lei si formino tante diversità,
parola, cioè smaltito: perchè insino che non come sono, ossa, nervi, vene, arterie, carne, e
si smaltisce nel cuore o nel fegato per virtù tante altre parti che sono nel corpo dell'ani
del cuore, egli non è vero e perfetto sangue. male. Ma picciola cosa è questa, benchè sia
Trovato il genere, pose in luogo della sua diffe grandissima, se consideraremo, come non es
renza ultima, tutte quelle parole: – che poi non sendo animato, introduce nella materia, cioè
si beve, –Dall'assetate vene; che a dirlo in una nel mestruo della donna, prima l'anima vege
parola vuol dir superfluo, cioè che avanza del nu tativa e poi la sensitiva; e lo dispone e fa
trimento: e così è compita perfettamente tutta tale che diventa atto a ricevere l'anima ra
la diffinizione dello sperma–Che. Il qual san zionale. Della qual cosa volendo rendere il
gue – Poi, poichè, dacchè – non si beve. Non si poeta la ragione, disse tutto quello che si con
bee e succia dalle vene assetate, nelle quali tiene in questo terzetto; il che se è poco in
"
si fa quella quarta digestione, le cui quantità, è tanto in qualità, che io stupisco,
sono i sudori, i peli e l'ugne. E questo disse, come in sì poche parole potesse significare
perchè mediante le vene si sparge il nutrimento tante cose e tanto grandi. Il che a cagione che
a tutto il corpo: nè è altra differenza (si può meglio s'intenda, diremo prima che la virtù
dire) dalle vene all'arterie, se non che nelle informativa, ovvero generativa, la quale è nello
vene sta più sangue che spirito, e nelle arterie spirito che esce insieme collo sperma dell'uo
più spirito che sangue – e si rimane – Quasi mo, non opera formalmente, ma virtualmente,
alimento, che di mensa leve. Sono poste tutte come il sole, il quale non è caldo formalmen
queste parole a ornamento, e per meglio spri te, ma virtualmente. E che questo sia vero,
mere con questa similitudine, in che modo il lo sperma operando non assimiglia il paziente
sangue sia superfluo ed avanzi; perciocchè a sè, cioè non converte il mestruo in isperma,
quando le vene hanno succiato tanto di san ma lo forma ed organizza, introducendovi l'a-
gue che basti per nutrimento, ed a ristorare nima vegetativa e sensitiva e disponendolo al
le parti perdute, elleno non ne succiano più l'intellettiva; e questo perchè piglia 1a virtù
non altrimenti che un modesto uomo e tem dal cuore ed opera in vigore dell'anima del
perato, preso il bisogno suo del cibo, lascia il
rimanente: e però disse: – e si rimane, cioè re (1) Autore, come è noto, d'uno de' più sottili, copiosi ed
sta ed avanza. – Quasi alimatico, non altramente cruuiti comuenti della Divina Commedia. (M
14 LEZIONE

generante. E però ciascuno sperma dispone la iscambio di: Io vo', ed altrove aggiungendo
materia, forma le membra cd introduce quel pur la particella. E disse nel quarto del Pur
l'anima, in virtù della quale (come dice Aver gatorio:
rois) i membri del leone, e quelli del cervo, Che non era lo calle, onde saline
non sono diversi, se non perchè è diversa l'a-
nima. E questo disse non meno dottamente Lo Duca mio ed io appresso soli,
che leggiadramente il Petrarca nella canzone Come da noi la schiera si partine.
grande: Ed in tanto fece quella figura, che alcuni chia
mano bisquizzo, e noi bisticcio, come fece anco,
E i piedi, in ch'io mi stetti, e mossi, e corsi
(Come ogni membro all'anima risponde) il Petrarca, benchè ad altro effetto, quando,
disse ne' Trionfi:
Diventar due radici sopra l'onde ! (1)
Quest'è colui, che'l mondo chiama Amore:
E perchè queste cose sono così belle a sapere, Amaro come vedi (1).
come difficili ad intendere, non mi parrà fa
tica, nè biasimo dichiararle con più parole e Ma lasciando le parole, delle quali in verità
replicarle. Dico dunque che lo sperma del Dante in molti luoghi non curò molto o per
l'uomo, pigliando tutta la virtù del cuore ed la gravità e altezza del subbietto o altra ca
operando in vigore dell'anima, della quale è gione che lo movesse, dico a maggior dichia
organo, o strumento, contiene in sè in potenza razione che il sangue si può considerare in più
e naturalmente tutto quello che contiene il ge modi, e considerato diversamente è ora attivo,
nerante in atto e formalmente. E però chiamò ed ora passivo. Quando è passivo, non può esser
Aristotile la virtù generativa cosa separata da tale, se non in un modo solo: ma quando è attivo,
materia o divina, come dichiareremo altra può esser tale in due modi; attivo formalmente,
volta, essendo cosa, dove nè Averrois in ed attivo virtualmente, onde considerato il san
tese le parole di Aristotile, nè i latini quelle gue come sangue, egli è solamente passivo e per
d'Averrois, se mi è lecito dire l'opinione mia conseguente solamente materia, e può CSSer ma
liberamente. E quinci disse Dante, come vero teria in due modi: nel primo, come materia di
Peripatetico, che lo sperma prendeva nel cuore due o più parti, e questo, quando di lui si cibano
virtù informativa e generativa a tutte le mem e nutriscono le membra: nel secondo, come
bra. Ho detto come vero Peripatetico, perchè, quando di lui si genera il parto; e così si veri
secondo Galeno, cotale virtù non si genera nel fica il detto d'Averrois che la materia della
cuore principalmente, ma nè testicoli. – co parte e del tutto è la medesima. Ora se il san
me quello, – Ch'a farsi quelle per le vene vane. gue si considera non come sangue semplice
Disse queste parole non riferendo quella pa mente, ma come sangue convertito in membra,
rola quello al sangue, del quale favellava, co allora mediante tale conversione, egli è attivo
me credono alcuni e per esprimere quel modo formalmente, perchè può assomigliare a sè me
di favellare, che i latini direbbero, utpote qui: desimo un altro, cioè convertire il nutrimento.
ma per meglio dichiarare la mente ed il con in sè stesso e fare che il sangue, suo cibo, di
cetto suo e quasi rispondere a una tacita di venti o osso o nervo o carne, secondo che sarà
manda e maraviglia che poteva fare il lettore, egli, perchè sempre l'agente somiglia il paziente
dicendo: Com'è possibile che un umor solo, a sè stesso. E non paia questo a nessuno im
cioè il sangue, pigli virtù da un membro solo, possibile, perchè dell'aria si fa ora acqua,
cioè dal cuore, di fare tante membra, e tanto quando l'acqua opera in lei: ed ora fuoco
diverse, essendone delle dure, come l'ossa e quando il fuoco è egli l'agente, e quello che
delle molli come la carne e di tante altre ra opera in lei. Ora se il sangue si considera, non
gioni? Al che volendo rispondere Dante sog come sangue, nè come convertito in membra,
giunse quelle parole; il sentimento delle quali ma come diventato sperma, mediante i vasi se
pare a me che sia: Come il sangue, il quale minari ed i testicoli, allora egli è attivo, non
non è diventato sperma, ha virtù dal cuore di già formalmente, ma virtualmente; perciocchè
diventare tutte le membra, come si vede nel la carne converte il nutrimento in carne for
nutrimento; perchè l'ossa convertono il san malmente, ma lo sperma non converte il me
gue in ossa, le vene in vene, la carne in car struo in isperma (chè allora sarebbe genera
ne, e di tutti gli altri nel medesimo modo; zione formale) ma lo converte nel parto ed
così, poichè è diventato sperma, ha virtù di embrione, e la generazione non è ſormale, ma
fare tutti i membri, operando in virtù dell'ani virtuale. E così, risumendo quello che s'è det
ma. E però disse per similitudine, – come quel to, quel medesimo sangue, il quale è in potenza
lo: cioè, non altramente, che quello, che – Va propinqua a diventare alcun membro, diven
ne per le vene a farsi quelle, a diventar quelle tato membro, ha forza e virtù di membro: quello
membra; che così debbe dire, e non quello, stesso convertito in sperma ha forza e virtù di
come si trova scritto in alcuni testi : Disse formare membra, non formalmente, ma virtual
Pane per licenza poetica, come si dice ancora mente; e così il sangue può diventare tutte
oggi da fanciulli o dai contadini: Io vone, in le membra e diventato membra può fare tutte
le membra formalmente: e diventato sperma
(1) Canzone I. Il Varchi la chiama Canzone grande, per può fare tutte le medesime membra virtual
º º fra le più lunghe e più belle del nostro gran poeta del
l'Amore. (M.) (1) Trionfo d'Amore. Capitolo 1.
SULLA GENERAZIONE DEL CORPO 15

mente. E così primieramente è passivo e ma mente dentro dalla matrice: ed insomma è tale
teria, diventando tutte le membra: secondaria quale è la sciliva al cibo. E però diceva Avi
mente è attivo formalmente, facendo tutte le cenna ed Aristotile ancora, che l'uno e l'altro
membra: nel terzo luogo è medesimamente at concorrevano alla generazione; ma questo si
tivo, ma virtualmente. E tutte queste cose e debbe intendere, come s'è detto di sopra,
forse molte più volle significar Dante in que quanto alla comodità, non quanto alla neces
sti tre versi. E se ad alcuno pare, che io le sità. - in natural vasello: nella matrice e ven
dica troppo lungamente o troppo scuramente tre della donna. Ma considerate quanto one
dia la colpa, parte a me che non so più, e parte stamente favelli, e se la lingua nostra può spri
alla grandezza della materia, ed anco si ricordi mere non solo acconciamente, ma agiatamente
che nè i Latini, nè i Greci le scrissero in modo ancora tutte le cose e propriamente e per tra
che si possano intendere da ognuno a udirle slazioni. E di qui si può vedere necessaria
d leggerle una volta solamente. mente che non si possa far senza, che se Dante
Ma passiamo omai a tali parti, nelle quali avesse voluto, avrebbe non solamente potuto,
sarò più breve, per non tenervi a disagio tanto ma saputo ancora schifare e fuggire quei vo
e massimamente, essendo oggi uno de maggiori caboli che egli usò alcuna volta o troppo spor
caldi che io mi ricordi forse mai. chi o lordi, o troppo impuri e disonesti, nei
quali egli è ripreso fieramente; e se vogliamo
Ancor digesto scende, ov'è più belle giudicare senza passione, non a torto. Ma ser
Tacer che dire, e quindi poscia geme bando questo giudizio ad un altro tempo, di
Sovr” altrui sangue in natural vasello. ciamo ora che il Petrarca avendo a significare
Gran dottrina s'asconde (s'io non erro) sotto questa cosa stessa, la spresse per un'altra tras
questi versi: perciocchè sebbene tutte le po lazione, non meno casta che gentile, quando
tenze piglino tutte le virtù loro dal cuore (se disse nella Canzone alla Vergine:
condo Aristotile) le pigliano però secondo di Ricordati che fece il peccar nostro
versi membri: come per atto d'esempio, la nu Prender Dio per scamparne
tritiva nel fegato e la sensitiva nel cervello. Umana carne al tuo virginal chiostro.
Così la generativa, sebben piglia la virtù sua
dal cuore principalmente, la piglia nondimèno
mediante i vasi spermatici e ne testicoli: dove Iei s'accoglie l'uno e l'altro insieme,
non la potrebbe pigliare, se non avesse prima L un disposto a patire e l'altro a fare,
avuto dal cuore virtù e potenza di pigliarla. Per lo perfetto loco, onde si preme.
Il che volendo Dante significare disse – Ancor Nel primo verso di questo ternario mostra
digesto: cioè, dopo l'ultima digestione: e qui il poeta come si genera il parto, congiun
intende di quella che si fa nelle vene, quasi gendosi insieme nella matrice lo sperma del
dica smaltito un'altra volta, dopo le tre prin l'uomo ed il mestruo della donna; nel se
cipali. – scende, verbo propiissimo. – ov'è più condo da chi si genera come attivo, e questo
bello-Tacer che dire: ne vasi seminari e ne te è lo sperma, e di che si genera come passivo,
sticoli. Il che egli non poteva dire più onesta e questo è il mestruo: nel terzo rende la ca
mente. E perchè una cosa significata con di gione perchè lo sperma è attivo, dicendo, per.
versi nomi, sia ora onesta, ora disonesta, non che viene e si sprime dal luogo perfetto, cioè
è picciola, nè indegna considerazione, ma la dal maschio, il quale è caldo, dove la femmina
riserberemo in tempo più comodo, dichiarando è fredda. E perchè tutte queste cose si sono
la pistola di Cicerone a Peto. – e quindi, cioè, dichiarate abbastanza di sopra, e forse di so
da vasi spermatici e per i testicoli. – geme, verchio, non ci distenderemo molto. – Ivi:
stilla, gocciola, come si dice oggi: nè poteva nella matrice, e ventre della donna. – l'uno
usare verbo più appropriato – Sovraltrui san e l'altro: il sangue dell'uomo che è lo sper
gue: sovra il mestruo della donna. E come ot ma, ed il sangue della donna che è il mestruo.
timo Peripatetico, mai non fa menzione del – s'accoglie insieme: si congiugne e s'aduna.
seme della donna, che ben sapeva che quello – L'un disposto a patire: questo è il mestruo
non è utile, nè come attivo, ovvero forma, nè della donna, il quale è materia propinqua del
come passivo, ovvero materia. E se ben con parto, e però non ha bisogno d'altro motore,
corre le più volte, concorre non all'essere, ma ovvero agente, che lo disponga, come vuol Ga
a ben essere, cioè agevola o dispone la ma leno, e che gli dia la forma, se non il seme
teria: e così non giova per sè, e principal del maschio. E così è vero quello che dice
mente, ma secondariamente e per accidente. Aristotile nella generazione, che la materia
E per dire qualcuno de' suoi giovamenti, oltre del nutrito è la medesima, che è quella onde
il diletto, ch'egli arreca alla donna grandis si genera. E chi dubita che noi non ci nutria
simo, senza il quale, considerati i dolori ed i mo di quello, di che nasciamo, cioè del san
pericoli che ne le debbono seguire, non vor gue? Perchè quello di che si fa la genera
rebbe, per avventura, congiungersi con l'uomo, zione, mediante la quale noi acquistiamo lo
e così verrebbe a mancare la spezie; egli con essere, è ancora materia della nutrizione, me
tempera il caldo del seme dell'uomo e quello diante la quale ci conserviamo nell'essere; mè
della matrice, quando fossero troppi; rammor v'è altra differenza, se non che il nutrimento
bida ancora il seme dell'uomo, il quale è vi risguarda la materia d'una parte e la genera
scoso, e fallo tale che si possa tirare agevol
-
zione del tutto. Ma in questa materia non man
16' LEZIONE

cherebbe che dire mai, e pero passeremo più oltre Il primo verso ci mostra e dichiara due cose
– e l'altro a fare: e questo è lo sperma del dette di sopra da noi: cioè che essendo tutto com
maschio, il quale è attivo e dà la forma. Per posto l'uomo di forma e di materia cioè d'anima
chè, come il mestruo per venire dalla donna e di corpo, il padre dà sola l'anima, senza punto
ha virtù e potenza passiva di diventare tutti i di materia o di corpo, e la madre dà la materia
membri, così lo sperma ha potenza e virtù at sola, ovvero il corpo senza punto di forma: l'altra
tiva di fare tutti i membri per venire dall'uo è, che l'uomo vive prima la vita delle piante,
mo: e questo è quello che vuol dire tutto que poi quella degli animali, poi la propia dell'uo
sto verso; – Per lo perfetto loco onde si preme. mo, che è la razionale. E questa sola ci vien
E giunto lui, comincia ad operare, di fuori, e non si cava dalla potenza della ma
Coagulando prima, e poi avviva teria, come diremo omai in un' altra lezione,
Ciò che per sua materia fe constare. essendo passata l'ora, ed avendo ancora che
dire pure assai. – la virtute attiva: la quale
Dichiara più particolarmente, come la virtù è quella del padre, che sebbene è composta
del seme del maschio formi prima del mestruo d'anima e di corpo, dà l'anima sola, mentre
della donna l'embrione; poi gli dia la vita e quella della madre, sebbene è anco ella com
lo faccia animato, dicendo: – E giunto lui: posta d'anima e di corpo, non dà se non il
lo sperma del maschio, ed è questo un'allativo corpo solo. – fatta anima: diventata animata
in conseguenza, come dicono i Gramatici. Al mediante l'anima vegetativa, come segue di
cuni vogliono leggere li, non lui. Ma disse così sotto. – Qual d'una pianta, in tanto differente,
per mostrare, che lo sperma era quello che – Che questa è 'n via, e quella è già a riva. Seb
era attivo e nel quale era tutta la virtù, onde bene pare, che Dante in queste parole non vo
soggiunse: – comincia ad operare: e s'intende glia, che tra l'anima vegetativa delle piante e
egli – Coagulando prima: non poteva più se quella degli uomini sia altra differenza, se non
gnalato vocabolo trovare, nè che meglio espri che quella delle piante è composta e fornita, non
messe la mente sua; perchè tale è proprio il aspettando altra anima, nè sensitiva, come i bruti,
seme dell'uomo al mestruo, quale è il coagulo nè razionale, come gli uomini, non dovemo però
che noi chiamiamo gaglio, ovvero presame al credere, che egli volesse dire questo solo, e
latte. Dichiara Aristotile nel quarto della Me che non sapesse che l'anima vegetativa delle
teora, che la coagulazione ovvero rappiglia piante e delle fiere, e degli uomini sono di
mento è una certa essicazione, e si fa in due verse di spezie; come si può cavare da Aristo
modi, e dal caldo e dal freddo; ed il fine suo tile nel sesto libro della Topica, essendo essi di
è fare che l'umido si rappigli e si rassodi, e versi di spezie.
non si vada spargendo come l'acqua. E se di Tanto ovra poi, che già si muove e sente,
cemmo di sopra, che il fine della digestione
Come fungo marino, ed indi imprende
era questo medesimo, non è che tra digestione Ad organar le posse, ond'è semente.
e coagulazione non sia, oltre l'altre, questa dif
ferenza, che la digestione non si fa se non dal Procedendo il poeta ordinatamente, come la
caldo naturale, e la coagulazione di tutti i cal natura, che sempre quando può comincia dalle
di – e poi avviva: cioè, dà la vita e l'anima, cose più agevoli e più imperfette, disse che la
che così hanno i buoni testi e non ravviva. virtù attiva diventava prima come una pianta,
– Ciò che per sua materia fe' constare: I testi cioè pigliava l'anima vegetativa: ora dice che
stampati hanno gestare; il che non so io per piglia la sensitiva, senza mettere tempo alcuno,
me quello che si possa voler significare in que parendogli forse per l'incertezza della cosa in
sto luogo: so bene che i testi in penna sono sè e per la varietà degli autori, questa esser
vari, e che i migliori hanno constare, e così cosa dubbia e pericolosa. – Tanto ovra poi:
senza dubbio debbe dire: perchè gli scrittori mostra pure, che ella è sempre agente. – che
Latini, onde lo tolse Dante, usano in questa già si muove e sente: disse già, perchè nel vero
materia questo verbo e dicono: Coagulatio est non è molto intervallo: disse si muove, non
constantia quaedam umidi, etc. Et coagulare perchè abbia la virtù progressiva, movendosi
est facere ut liquida constent. etc. E simili di luogo a luogo (il che non è se non negli
modi usati da filosofi: e brevemente signi animali perfetti), ma perchè stando il parto
ſica a noi fare che una cosa liquida che si appiccato al ventre con alcuni legamenti, ha
spargerebbe, si rappigli e si rassodi in modo quel moto, che i filosofi chiamano di costri
che stia e non si sparga; come si vede nel latte zione e dilatazione, cioè ch'egli si stringe ed
mediante il presame o il gaglio. Dante non dice allarga: disse ancora sente, non perfettamente,
in questo luogo in quanti di si rappigli, nè in ma come allora può, e si conviene. E per di
quanti abbia l'anima; e noi avendone favellato mostrare che non intendeva nè del moto vero
di sopra lungamente, anderemo seguitando locale, nè del sentimento perfetto, soggiunse. –
quanto più tosto e quanto più brevemente po Come fungo marino: esempio a ciò dimostrare
tremo. attissimo e maraviglioso. Perciocchè tra le cose
che vivono perfettamente, e quelle, che non
Anima fatta la virtute attiva hanno vita in modo nessuno, sono certi animali
Qual d'una pianta, in tanto differente, mezzi, i quali non si possono chiamare nè vi
Che questa è 'n via, e quella è già a riva. venti affatto, nè del tutto senza vita, come sono
l' ostriche, le conchiglie ed altri animali, che
sULLA GENERAZIONE DEL CORPO 17
i Greci chiamano Zoofiti, cioè piante animali mento del cuore nel nutrire, i testicoli nel ge
(per dir così), e tra questi sono le spugne, delle nerare, il cervello nel sentire: favello sempre
quali intende qui il poeta. E chi ne vuole sapere come ho già detto più volte, secondo l' opi
più oltra, legga Plinio nel quarantacinquesimo nione d'Aristotile. – Dove natura a tutte mem
capitolo del settimo libro, e nell'ultimo capi bra intende. Quel dove può essere avverbio di
tolo del trentunesimo. – ed indi: cioè di poi; luogo, ed allora significherà, che la virtù atti
l'avverbio di luogo in vece di quello di tempo: va si spiega e distende dove natura a tutte
e così debbe dire, come si vede ne' testi buoni membra intende, cioè, dovunque è di bisogno:
a penna, e non ivi. – Comincia: mette mano, può essere ancora di tempo, ed allora rispon
quello che i latini direbbero aggreditur. – a derà a quello. – Or di sopra. – intende: è in
organare: organizzare cioè formare. – le posse: tenta. E per fornire omai la sposizione di que
le potenze, che sono cinque, come è notissi sti versi, dove si fornisce la generazione e for
mo. – onde: delle quali potenze. – è semente: mazione del corpo umano: dico, che il parto
semenza e principio. E non è questa meno ac si fa del maschio e della femmina, come una
comodata similitudine che l'altre: perchè co cosa materiale della materia e dell'artefice;
me nel seme di ciascuna cosa è in virtù ed in esempigrazia uno scanno del legno e del le.
potenza il frutto, così nello sperma, o piuttosto gnaiuolo, o veramente secondo Aristotile nel
nello spirito dello sperma, nel quale è la virtù quindicesimo degli animali, come si fa la sanità
generativa, sono in potenza ed in virtù, oltra in uno infermo della scienza di medicina. Po
tutti i membri, l'anima vegetativa e sensitiva. trebbesi anco agguagliare il seme dell' uomo
ben vero che in una parte non è così a pro non solamente al legnaiuolo ed alla scienza
posito questa similitudine; perchè nel seme, della medicina che è nell'anima, ma ancora a
verbigrazia, in un granello di grano, non sono uno strumento, come per dir cosi, a una se
per sè distinti duoi corpi, l'attivo ed il passi ga; perchè considerando lo sperma in sè, s'as
vo, ma nel medesimo granello, una parte, cioè, somiglia a una sega. Perchè, come la sega ope
la cima e sommità, è come attiva, e quella del rando in virtù dell'arte induce la forma del
mezzo e più grossa, è come passiva. Onde le l' arte, così il seme del maschio operando in
formiche per istinto naturale ed insegnate da virtù dell'anima, induce l'anima. Ma se si con
chi non può errare, quando ripongono il grano sidera il padre, in virtù del quale egli opera,
nelle caverne e buche loro, rodono le punte, il seme è quasi padre, e sopperisce e fa l'uffi
acciocchè essendo spuntate e levata via la parte zio del padre, e così s'assomiglia al legnaiuolo,
attiva, non possa mettere e germogliare. Ma perchè forma il mestruo come legnaiuolo ille
nella generazione del parto umano, per essere gno. Ma se si considera secondo che opera in
distinti i corpi, uno agente e l'altro paziente, virtù della intelligenza che muove il cielo, si
un solo non può generare senza l' altro. assomiglia alla scienza che è nell'anima.
Ma perchè di questa materia, quanto si dice
Or si spiega, figliuolo, or si distende più, tanto più avanza che dire, dichiarerò so
La virtù ch'è dal cor del generante,
Dove natura a tutte membra intende. iamente come promisi, quel che vuol significa
re, cavar la forma dalla potenza della materia.
Prodotta nel parto l'anima vegetativa e la Fu opinione d'alcuni filosofi, che gli agenti
sensitiva in quel modo però, che s'è veduto propri e particolari non facessero altro chc
di sopra, si " compimento e perfezione a tutte disporre la materia, e l'agente superiore ed
le membra e dispone il parto a ricevere l'a- universale vi introducesse la forma; e di qui
nima razionale. – Or: cioè dopo le cose det sono chiamati i datori delle forme, in modo
te. – si spiega: spiega debbe dire, come han che il padre, o la virtù generativa non faceva
no i testi scritti a mano, e come legge ancora altro che disporre la materia, cioè il mestruo,
il Landino, e non piega: e questo dice, per e farla atta a ricevere le forme; ed il cielo
chè lo sperma del maschio per la sua virtù e poi o Dio, come agente superiore ed univer
colla sua sottilità penetra per tutto il mestruo, sale v' introduceva la forma così vegetativa,
per tutti i versi e colla sua caldezza l'altera – come sensitiva ed intellettiva: in modo, che
Or si stende: replica un'altra volta il mede secondo loro tutte le forme venivano di fuori
simo a maggiore spressione e per dinotare la Il che è falsissimo secondo Aristotile; percioc
penetrazione sua per tutti i versi e per cia chè tutte le forme naturali (eccetto l'ani
scuna dimensione. – La virtù che è dal cor ma intellettiva) la quale viene di fuori, si ca
del generante. Non poteva saziarsi Dante, come vano della potenza della materia; in modo,
grandissimo Peripatetico, di dire, come aveva che un motore medesimo dispone la materia
detto di sopra, che lo sperma del maschio ope e vi induce la forma; in guisa che il padre
rando in virtù del cuore e dell'anima del ge o la virtù informativa non fa altro che ridurre
nerante, era quello che formava tutti i mem in atto e cavare della materia quello che vi
bri, come attivo del mestruo della donna come era prima in potenza. E qui sia il fine della
passivo; sebbene al cuore in cotale operazio sposizione di questi versi di Dante.
ne servano i testicoli, come il fegato serve nel
Fornita la costruzione e sposizione del te -
l' operazione del seme della donna, quando pi sto, dichiareremo ora a maggior compimento
glia dal cuore, secondo che in lui è principal e perfezione di questa materia, cinque pro
mente la virtù nutritiva, virtù di poter diven blemi ovvero dubitazioni non meno belli che
tare tutte le membra. E cosi il fegato e stru utili. 3
VAR. CHI
18 LEZIONE

I. Perchè nascano maschi, e perchè femmine. gli attempati ; ed i vecchi similmente genera
II. Perchè ordinariamente uno, e perchè tal no piuttosto femmine; e rende la cagione, per
volta più. chè ne giovani il calore non è ancora perfet
III. Perchè il parto somiglia ora il padre, to, e ne vecchi è diminuito e quasi logoro.
ora la madre ed ora nessuno dei due. IV. Dicono, che il destro è molto più effi
IV. Perchè si generino gli ermafroditi. cace a generare maschi, ed il sinistro femmine;
V. Perchè si generino i mostri. ed allegano l'esempio de'pastori e de'pecorai,
che legano a tori ed a montoni il testicolo
pnoBLEMA PRIMO sinistro, quando vogliono generare maschi, e
quando vogliono femmine, il destro. -

Innanzi che rendiamo la cagione del primo dub V. La donna è fredda e molle, il maschio
bio, cioè onde venga che il parto sia ora maschio e caldo e secco; onde quando il mestruo sarà
quando femmina: diremo che il maschio in ogni molle e flussibile, il parto sarà femmina: quan
specie è quello che quando genera, genera in do caldo e secco, maschio.
un altro; cioè il maschio è quello che ha po VI. Nella parte destra ordinariamente si ge
tenza e facoltà attiva di generare in un altro, nera il maschio, nella sinistra la femmina. On
e la femmina quella ch' ha facoltà e potenza de Aristotile disse pur nel diciottesimo degli
passiva di generare in sè stessa. Diremo anco Animali: Il maschio e nella parte destra, la
ra, che ogni agente cerca sempre, ed intende femmina nella sinistra.
d' assomigliare il paziente a sè: e però sem VII. Non essendo così il seme dell'uomo
pre si genererebbe maschio, se non fosse im come quello della donna altro che il superfluo
pedito, essendo maschio l'agente: e perchè dell' ultimo nutrimento, manifesta cosa è, che
ogni effetto debbe somigliare quanto può la i cibi gioveranno ; i caldi a generare i maschi,
cagione sua quando si genera femmina, è con ed i freddi le femmine. Ed Aristotile nel quar
tra l'intendimento dell'agente almeno parti to della generazione dice, che l'acque crude
colare se non universale. E senza dubbio se e fredde fanno generare femmine.
la materia fosse sempre disposta ed ubbidiente, VIII. La qualità e condizione dell'aria e de
sempre il parto sarebbe maschio e non mai gli elementi circostanti arreca gran giovamen
femmina: onde la femmina non è altro che to, perchè, variati gli elementi, si varia la con
un maschio diminuito ed imperfetto: sebbene dizione del corpo che dipende da loro: varia
la generazione si fa del simile, tuttavia non si to il corpo, si variano le superfluità sue, es
fa sempre in un medesimo modo per l'indi sendo o più digeste o manco. Onde lo sperma
sposizione della materia. Onde un asino sebbe ed il sangue mestruo che sono le superfluità
ne intende di generare un asino, non però il dell'ultimo cibo, verranno anch'esse a variar
consegue, perchè il mestruo della cavalla non si, e se sarà bene smaltito, genererà maschio,
è disposto a ricevere la forma dell'asino; e e se altramente, femmina. Onde Aristotile nel
però genera cosa più simile a se che può; e medesimo luogo di sopra assegnò la cagione del
questo è il mulo. Ora venendo al problema, maschio e della femmina colla digestione ed
dico, che la soluzione secondo Galeno, è age indigestione delle superfluità.
vole; perchè volendo egli che nella generazio IX. Perchè come dice Aristotile nel quarto
ne concorra il seme dell'uomo e quello della della generazione, i venti meridionali cioè Au
donna: dice, che se lo sperma dell' uomo è stro genera femmine perchè è umido; i Set
più forte e potente che quello della donna, il tentrionali cioè Borea ed Aquilone, chiamato -
parto è maschio e così all'incontro. Ma molti da noi Tramontana, genera i maschi, perchè
seguitando l'autorità e sentenza d'Aristotile è freddo; anzi dice in un luogo favellando
rendono molte e diverse cagioni, le quali si delle pecore e delle capre che i parti loro
riducono a dieci, e sono queste: I. La qualità sono maschi e femmine, secondo a che parte
del seme del maschio. II. La quantità. III. L'età. del cielo erano volte quando furono montate.
IV. La virtù del testicoli. V. La complessione X. Dicono gli astrologi che l'influenza del
del mestruo. VI. Il ricettacolo ovvero serba cielo (benchè Aristotile nieghi tali influenze)
toio della matrice. VII. La varietà de' cibi. sono cagione della generazione del maschio e
VIII. La condizione dell'aria. IX. La diversità della femmina: onde dicono essi che alcuni
de' venti. X. L'influenza del cielo. segni sono mascolini, e questi fanno alla ge
I. Il seme virile, se è caldo e forte genera nerazione de'maschi ed alcuni femminini e
maschio; se debile e men caldo, femmina. E questi servono alle femmine. Alcuni vogliono
però disse Aristotile nel decimo della metafi che i maschi e medesimamente le femmine si
sica: Del medesimo seme si genera il maschio generino per virtù proprie ed occulte che sono
e la femmina secondo che sarà disposto. ne'padri e nelle madri: onde uno o una sarà
II. Se sarà molto, perchè crescendo il cor di generare sempre maschi, un altro tutte fem
po e la grandezza, cresce ancora la virtù, avrà mine, i più ora maschi ed ora femmine; e come
più vigore e così più dominio e potere sopra è notissimo si trova alcuno che genera con una
il paziente, e però genera maschio. È ben da donna sì, e con un'altra no. Alcuni generano
avvertire che non basta la quantità, ma biso da giovani e non da vecchi, alcuni al contra
gna la qualità. rio: alcuni sono sterili di natura: alcuni per
III. Dice Aristotile nel diciottesimo degli ani una qualche infermità : alcuni ch'erano sterili
mali, che i giovani generano più femmine che prima, diventarono poi ſecondi: e così per lo
SULLA GENERAZIONE DEL CORPO 19

rovescio; e tutto quello che dico dell'uomo, un solo (e questo è quasi sempre essendo tale
dico ancora della donna. E la cagione di tutte di sua natura) or due, or tre, or quattro, or
queste cose s'attribuisce da molti alle cose cinque: e tal volta secondo alcuni sette. Ari
dette di sopra: e perchè nessuna di quelle stotile racconta d'una donna, che in quattro
può essere sufficiente per sè stessa, dicono che di ne partori venticinque per volta. E Paolo
secondo che ne concorrono più o meno, più e Giureconsulto nel titolo: Si pars haereditatis
meno seguitano gli effetti: e che da quelle pro petatur, dice che una donna chiamata Pene
cede ancora che alcuni uomini sono effemmi lope, partori cinque volte quattro per volta.
nati ed hanno costumi di donne, come alcune Onde tanto più era possibile il caso della legge
donne sono virili ed hanno costumi da uomi Arecusa: De statu hominum ; e molto più quello
ni, e non solamente i costumi ma ancora l'al della legge seguente avendo a partorire due
tre cose come gli atti e la voce. Onde come in due parti, cioè uno per volta e poi due a
alcuni uomini non mettono mai la barba, co un tratto in un parto medesimo che i latini
sì si ritrovano delle donne barbute. Ma chi chiamano gemini e noi binati. È bene mara
vorrà bene considerare, vedrà che tutte quelle viglioso molto e quasi incredibile quello che
dieci cagioni si possono ridurre alla caldezza racconta Giovanfrancesco Pico, conte della
dello sperma, e questa genera maschi, ed alla Mirandola, che una donna chiamata Dorotea
freddezza, e questa genera femmine. Perchè che stava in sull'Alpi e non in Egitto, ne par
quando lo sperma è caldo e forte, egli ha do tori in due volte venti, una volta undici, e
minio sopra il mestruo e genera simile a sè; l'altra nove. Le cagioni delle quali cose sono
quando freddo e debile, egli trova resistenza molte e diverse, secondo la moltitudine e di
nella materia, e non potendo introdurvi simile versità degli scrittori. Alcuni dicono che la
a sè, v'introduce il contrario cioè la femmi matrice, e questa fu opinione degli Stoici, ha
na. E chi leggerà diligentemente il primo Ca più celle, nelle quali cadendo il seme si genera
pitolo del quarto libro della generazione degli uno o più secondo il numero delle celle che
animali, troverà che Aristotile vuole che la ca s'empiono. Ma questo non può essere la pro
gione vera e propinqua di generare maschi o pria e vera cagione: perchè oltra il non es
femmine sia il cuore, nel quale è il principio sere vero che la matrice si divida in celle, se
del calor naturale, e tutte le cose dette di bene è tutta crespa e grinzosa, Aristotile rac
sopra sono cagioni rimote e che aiutano. E conta di una che si sconciò in dodici; ed Avi
perchè meglio s'intenda questa verità tanto cenna in settanta, ed Alberto Magno dice, che
bramata da molti, diciamo che il cuore è nel un medico suo amico fu chiamato alla cura
l'animale come il fondamento in una casa o d'una gentildonna che s'era sconcia in cento
come quei legni curvi sopra i quali si fonda cinquanta; e pensava fossero lombrici, e che
la nave, i quali non so se l'ignudo o l'ossame aperte le tele li trovò figurati e di grandezza
della nave sono chiamati. Onde è necessario d'un dito mignolo. Altri dicono la cagione
che ogni cosa risponda al cuore: e s'egli sarà essere perchè il seme esce sempre del membro
di complessione femminina semplicemente, tutte umano con vento e però cade a battute e in
l'altre parti risponderanno a femmina; se di più volte, onde ne può cadendo in più volte
mascolina a maschio: ma se sarà mascolino generare più. Ma nè anco questa può essere
con parte di femminino o femminino con parte la vera e propria cagione; perchè non può ca
di mascolino, tali ancora saranno l'altre mem dere in tante volte. Altri perchè le donne,
bra, e nel medesimo modo si potranno salvare come dice Avicenna, possono muovere il seme
e concordare tutte l'altre cose dette di sopra. nella matrice di luogo a luogo pigliandone
E questo basti se non è troppo circa il primo piacere: onde secondo che il seme si divide
Problema. in più parti, nascono più figliuoli: il che an
cora non è bastevole per non potersi dividere
PROBLEMA SECONDo in tante parti. Nè mancano di quelli che vo
gliono che la cagione sia il ringravidamento:
Quanto al secondo problema, cioè perchè perchè una donna grossa può ringravidare di
in un parto medesimo si generino più figliuoli, nuovo, usando di nuovo coll'uomo; ed Ari
dovremo prima sapere, come dice Aristotile stotile racconta d'una femmina meretrice, la
nel quarto capitolo del quarto libro della quale essendo gravida del marito, si congiunse
generazione, che degli animali bruti alcuni sono con un altro ed ingrossò, onde poi generò due
unipari, cioè che generano sempre un solo; e figliuoli, uno che somigliava il marito, e l'al
questi per lo più sono quelli che hanno i piè tro poi che somigliava l'adultero. E in quel
piani, chiamati da lui solipedi: alcuni sono luogo medesimo racconta che quella che si
Pauciferi, cioè che ne generano più d'uno ma sconciò in dodici, era ringravidata successiva
non però molti: e questi per lo più sono quelli mente dodici volte, una dopo l'altra. Ma pare
che hanno i piedi biforcuti, chiamati da lui gran cosa, anzi impossibile che si possa rin
bifulci: alcuni sono multipari, cioè che ne par gravidare settanta volte alla fila, non che cen
toriscono assai, e questi per lo più sono quelli tocinquanta. E però diciamo che ciascuna di
che hanno il piè fesso in molte parti, chia queste ragioni di per sè è debole e può poco;
mati da lui multifidi. Ora l'uomo solo è come ma tutte insieme o più di esse potrebbero bene
tutti gli animali insieme, cioè uniparo, pauci aiutare e giovare qual cosa. Ma la cagione
fero e moltiparo; conciossiacchè ora partorisca principale viene secondo Aristotile non dalla
ºato
LEZIONE

forma ma dalla materia; perciocchè quando tutto il contrario, somigliando le figliuole i pa


la materia abbonda, avendo tutte le cose ma dri ed i figliuoli le madri. E quello che è maz
turali il termine della grandezza e picciolezza gior cosa, alcuna volta somigliano non i padri,
loro determinato, ed il seme parimente la virtù o le madri, ma gli avoli e l'avole, e così i bi
sua determinativa, tutto quello che avanza a savoli ed arcavoli; chè non si passa (dicono)
formarne un altro o più secondo che v'è ma la quarta generazione; ed alcuna volta alcuno
teria serve a formare siffatti altri corpi, e de' parenti per linea trasversale; e tal volta
quando v'è più materia che per uno ma non ancora non somigliano alcuno de parenti. E
tanta che basta a due, allora si fanno i mo questo si può chiamare quasi mostro, come dice
stri come diremo poco di sotto. Voglio be Aristotile, benchè, come dice egli medesima
ne che notiate che quando la donna è grossa mente, il primo mostro è che si generi la fem
di due a un tratto e ne partorisce due a un mina, dovendosi sempre generare cosa simile a
corpo, se saranno amendue maschi o ammen sè: ma è però questo mostro necessario alla
due femmine, ella molte volte scampa e vive generazione e natura universale. La cagione di
insieme con loro. E questo perchè i maschi si queste meraviglie è agevole secondo Galeno,
generano, per lo più in una medesima parte perchè egli la riferiva, come s'è detto di so
cioè nella destra; e le femmine per lo più pra, nello sperma dell'uomo ed in quello della
nella sinistra: ma se uno sarà un maschio e donna. Alcuni volevano che così nel maschio,
l'altro femmina, nè eglino nè la madre scam come nella femmina, uscisse da tutti i mem
pano, se non di rado, perchè sono ordinaria bri una umidità, la quale servisse alla genera
mente in diverse parti. zione; e se questa era più del maschio che
E poi che avemo fatto menzione del rin della femmina, il parto somigliava il maschio,
gravidare, dovete sapere che tutti gli altri ani e così al rovescio. E perchè il figliuolo somi
mali fuggono il maschio tosto che si sentono glia molte volte parte il padre, parte la na
gravidi; eccetto alcuni che possono ringravidare dre, e molte volte ha un neo o una margine
come le lepri. Solo la donna e la cavalla poi o altro segno del padre o della madre; ed an
chè sono pregne desiderano il maschio, e molte eora qualche volta un cieco genera un cieco,
volte molto più che prima, e massimamente se e così un roppo, come si vede ancora nelle
è pregna di femmine se bene la cavalla non malattie che vengono ne discendenti per ere
ringravida come la donna: benchè ancora in dità, come le gotte, volevano che se cotale
lei avvenga di rado. E questo perchè se la se umidità fosse venuta maggiore da un membro
conda volta quando ella ringravida non è molto solo del maschio, verbigrazia dagli occhi, e
lontano dalla prima, l' un parto e l'altro si dalla donna maggiore da un altro membro, ver
può condurre a bene e vivere; come si favo bigrazia dal naso, il parto allora somigliava ne
ieggia d'Ercole e Ificle. Ma se la seconda gra gli occhi il padre e nel naso la madre, e così
videzza sarà fatta molto tempo dopo la prima, in tutti gli altri. Altri dicevano che la cagione
non solamente non si condurrà a bene ella, ma di questi effetti era il dominio e la podestà
sarà cagione ancora spesse fiate della morte della mistione: perchè volevano che alla ge
del primo, non ostante che Alberto Magno nerazione del parto concorresse l'umidità di
racconti d' una donna, che essendo grossa di tutti i membri, così del padre, come della ma
due a un tratto ringravidò e nel primo parto dre, così dell'avolo come dell'avola, e così di
binò ovvero partorì due a un corpo sani e sal tutti gli altri; e di tutte queste si faceva un
vi, poi in capo a cinque mesi partorì il terzo, miscuglio nel quale signoreggiava quella umi
il quale morì subito. Un'altra dice Aristotile dità, la quale era maggiore dell'altre e più po
partori nel settimo mese un bambino sano e tente, e secondo quella si formava il parto:
salvo; poi nel nono mese ne partorì due a un onde se v'era più di quella del padre che
tratto, de quali uno visse e l'altro mori. Ed della madre, dell'avolo che del bisavolo, e cosi
io ho inteso da uomo degno di fede d'una di tutti gli altri, somigliavano quello e non gli
mobile donna, la quale partorì a bene e rimasa altri: e se ve n'era di più egualmente, somi
grossa medesimamente ripartori, e pure a bene gliava quegli egualmente, e così a proporzione
al tempo debito, tanto è varia la natura e quasi in tutti gli altri casi ed effetti. Ed è questo
onnipotente. Questo è ben certissimo, secondo modo differente da quello di sopra; perchè
Alberto, che molte donne si sconciano ed in in quello non si faceva la mistione, ovvero me
grossano in un tempo medesimo; in modo che scolanza dell'umidità, come in questo. Alcuni
in un coito solo uno esce mediante la scon dicevano che la somiglianza era di due ma
ciatura, ed uno entra mediante la concezione. niere, una nelle cose sostanziali ed una nelle
Ma perchè sempre ci sarebbe che dire, passe accidentali: onde i generanti, ovvero padri, si
remo alla terza dubitazione. possono considerare come sostanza, e come
quelli che hanno in loro degli accidenti; nei
PRoBLEMA TERZo sostanziali è sempre la somiglianza; e così l'a-
gente assomiglia sempre a sè il paziente; onde
Circa il terzo problema, non sono minori l'uomo genera sempre uomo, o almeno anima
controversie e difficoltà che negli altri, concios le, e così tutti gli altri. Quando poi il maschio
siacchè i figliuoli dovrebbero ragionevolmente e la femmina sono della medesima specie, nelle
somigliare il padre e le figliuole la madre. Ora cose accidentali s'ha a distinguere, perchè al
si vede tutto il dì ch'egli avviene alcuna volta cune sono naturali, e seguitando la comples
SULLA GENERAZIONE DEL CORPO º i

sione del generante, come è la quantità e qua riori, lo somigliava ne' membri principali ed
lità del corpo; ed in questi, se il seme sarà interiori, come di sopra s'e veduto; onde quel
forte e possente, si farà sempre la somiglianza. l'altra poi somigliò l'avolo materno e non il
Onde un padre grande o bianco, o bello, ge padre.
nera i figliuoli sempre, quando non vi sia im
pedimento, grandi, bianchi e belli: e così si Pnorr.EMA QUARTo
dice in tutti gli altri accidenti simili; e nella
madre quando può più la materia che la for Sebbene gli ermafroditi sono mostri, niente
ma. Alcuni altri accidenti non sono naturali, dimeno a me è paruto di favellarne separata
e non seguitano la complessione, ma s'acqui mente, a fine che meglio e più agevolmente
stano con industria e col tempo, operandovisi li possiamo intendere (1). Dico dunque che
arte ed ingegno; ed in questi non s'assomi questo nome Ermafrodito è composto di duoi
gliano i figliuoli ai padri, onde un musico o nomi Greci d'F'Pans, che significa Mercurio, e
un letterato, non genera i figliuoli musici o d'A'ppo Sians, che vuol dir Venere, e così fu chia
letterati; perchè queste sono qualità ed acci. mato primieramente un figliuolo di Mercurio
denti che stanno nall'anima e non nel corpo. e di Venere; poi si chiamarono Ermafroditi
Ma perchè tutte queste ragioni sono parte di tutti quelli i quali avevano l'un sesso e l'al
fettive e manchevoli, parte false e bugiarde, di tro, che i Greci chiamano Androgini, cioè uo
remo secondo Aristotile che la cagione vera e mo e donna, ovvero maschio e femmina. Na
principale di tutti questi effetti è lo sperma scono gli ermafroditi, quando le cagioni che
dell'uomo, il quale opera in virtù dell'anima, generano maschi e quelle che generano fem
ed ha in sè virtualmente tutto quello che ha mine, concorrono mescolatamente ed in modo
il generante formalmente, ed in lui sono na che queste non superano quelle, nè quelle que
scose molte virtù: perchè le virtù degli avoli ste; e se pure superano o queste o quelle, su
e bisavoli sono nelle membra de' nipoti e di perano di tanto poco, che non bastano a ge
scendenti insino alla quarta generazione e tal nerare nè semplicemente maschio, nè sempli
volta più: onde se lo sperma sarà possente e cemente femmina. E schbene l' ermafrodito è
forte genererà maschio simile al padre: se al in un certo modo maschio e femmina; tutta
trimenti, declinerà, come dice Aristotile, al suo via quando le cagioni che fanno per la gene
contrario ed opposto, e così genererà femmina razione del maschio, saranno più forti che
e simile ali a madre. Perchè come è opposto quelle che fanno per la generazione delle fem
il maschio alla femmina, così è il padre alla mine, egli terrà più del maschio che della fem
madre, e sempre si faranno tali somiglianze, mina; e quando il contrario, il contrario. E
secondo che lo sperma dell'uomo sarà più o secondo questa opinione rispose prudentissima
meno forte; e per conseguente secondo che mente Vulpiano nella legge Quaeritur. ff de
più o meno gli resisterà la materia, cioè il me statu hominum : e così medesimamente osser
struo. E questo può essere in tre modi, o nel vano le leggi canoniche. Benchè Alberto Ma
membro principale solamente, cioè nel cuore, gno dice che la figura dell'un membro e del
o nei membri sceondari solamente, o nei mem l'altro è tale, e sta in modo molte volte che
bri secondari e principali insieme. E quinci non si può conoscere, nè a vedere, nè col toc
viene che i figliuoli somigliano alcuna volta i care, qual sesso prevaglia e sia principale; e
padri o le madri, ne costumi e nelle fattezze, soggiugne, che non è inconveniente che tal
alcuna volta nelle fattezze e non ne costumi; parto abbia due vesciche e mandi fuora l'orina
alcuna volta nell'una cosa e nell'altra; e quan per tutte due, e che egli nel coito sia ora
do non somigliano nè l'uno nè l'altra in ninna agente, ora paziente; e non crede già che egli
di queste due cose, nè alcuno del parentado, generi nè attivamente come agente, nè passi
ma s'assomigliano ad uno strano, ecrtamente è vamente come paziente: delle quali cose non
cosa maravigliosa e strana, e come dice Ari posso non maravigliarmi: conciossiacchè Aristo
stotile, quasi nostro, e viene a caso, o da una tile dice chiaramente, nel quarto capitolo del
forte in una ginazione, come si racconta di Ia quarto libro della generazione, queste parole
cob nelia Bibbia, quando gittava quelle ver formali: Quibus autem gemina habere genitalia
ghe sbucciate nell'acqua; e come dicono di accidit, alterum maris, alterum foeminae, iis sem
colei, la quale avendo un moro dipinto in ca per alterum ratum, alterum irritum redditur.
mera, partori poi anch'ella un moro: onde chi Cioè tutti quelli i quali hanno due membri
avesse spesso d'intorno o tenesse dipinti nella genitali, uno di maschio e l'altro di femmina,
sua camera o nani, o gobbi, o altre persone ne hanno uno utile e l'altro disutile: e sog
così fatte, non sarebbe, dicono, gran fatto che giugne la ragione, perchè uno ve n'è fuori di
generasse così fatte persone ancor ella. natura, non altrimenti che le nascenze che
Ma qual maggior cosa in questi easi, che vengono nel corpo; se non che le nascenze
quella che racconta Aristotile nel nono degli nascono dal superfluo dell'umido nutrimentale,
animali, d'una donna, la quale avendo pratica e questi tali membri dal superfluo dell'umido
con un moro, generò una figliuola bianca, e
quella figliuola usando con un uomo bianco,
generò una figliuola ghezza? Il che potette ac (1) Si ricordi chi legge del tempo in che il Varchi scri
cadere, perche sebbene quella figlinola non so veva, e troverà come scusarlo de grossi granchi che prende
migliava il padre ne membri secondari ed este qui ed altrove in cose naturali e fisiologiche. (M.)
-a a LEZIONE
naturale. E chi vuol vedere non esser favola mandorle, quando sono binate. Trovansi an
quello che dice Virgilio nel sesto: cora, dice Aristotile delle serpi con due capi;
benchè questo è rado rispetto alla loro matri
Et comes, et juvenis quondam, nunc foemina ce, la quale è lunga e stretta, e l'uova vi stan
Coeneus,
Rursus et in veterem fato revoluta figuram. no dentro a uno a uno, onde non possono age
volmente mescolarsi e fare mostri.
legga Plinio nel quarto capitolo del settimo Mostri si chiamano ogni volta che hanno o
libro, dove egli non solo allega chi dice, che più membra o manco membra o membra non
le femmine diventano alcuna volta maschi, ma proporzionate e convenevoli. Quasi mostri si
racconta d'aver veduto egli nell'Africa uno che chiamano le femmine, dice Aristotile, benchè
il dì delle nozze di donna novella diventò nel vero sono mostri necessari e così anco quelli
sposo. Ed il medesimo Plinio, autore gravissi che non somigliano nè il padre nè la madre, o
mo, afferma, che Nerone faceva tirare la sua alcuno altro del parentado, nè per linea drit
carretta a cavalle ermafrodite, talchè pareva ta, nè per linea trasversale. E non può essere,
strano arnese a vedere un mostro sì grande secondo Aristotile, che uno nasca col capo di
tirato da duoi altri mostri. montone o di bue e coll'altre membra d'uo
mo; pare bene così ed hanno una cotale so
PRoBLEMA QUINTo miglianza, ma in verità non sono. E cosi forse
si debbono avere ad intendere quelli che di
Mostro e mostruose si chiamano come dice cono che un vitello nasce talvolta con capo di
Aristotile, tutte quelle cose, le quali sono fuori uomo; e se pure fossero, non potrebbero vivere
della natura, non della natura universale e che questi tali mostri per le ragioni, che dice leg
è sempre così (perchè contra, nè fuori di que giadrissimamente Lucrezio nel quinto libro:
sta non si fa mai cosa alcuna) ma fuori di
quella natura, la quale è le più volte così, ben Sed neque Centauri fierunt, nec tempore in ullo
chè alcuna volta sia altramente, e questo si Esse queunt duplici natura et corpore bino.
chiama mostro e cosa mostruosa. Qual sia la Negli animali che partoriscono assai, si tro
cagione efficiente di questi mostri è malagevole vano spesso de'mostri, come ne porci, pecore
a sapere: perciocchè alcuni la riferiscono nel e capre, o con avere più membra che l'ordi
seme del maschio e ne principi moventi, al nario o meno o averli mutati o trasposti o
cuni ne' corpi celesti: alcuni credevano che si d'altra figura che non devono essere. Ed è da
confondessero e mescolassero insieme più sper sapere che i mostri si fanno così ne membri
mi di diverse spezie, il che non può essere, interiori, come negli esteriori. Onde si è tro
perchè si corromperebbero l'uno l'altro. De vato animali che non hanno avuto milza, e tale
mocrito credeva che venisse, perchè due semi che nelle rene non ha avuta milza, e tale che
cadessero nella matrice successivamente, cioè delle rene non ha avuta se non una, e di quelli
l'uno dopo l'altro o d'una medesima spezie che avrebbero da avere il fiele e non l'hanno
o di diverse, ed avendo cominciato il primo avuto. Èssi trovato ancora il fegato nella parte
ad operare e formare i membri, l'altro si me sinistra e la milza nel lato destro: non s'è già
scolava con esso lui e cominciava ancor egli ad trovato mai animale senza cuore e senza tutto
operare e così si raddoppiavano le membra : il fegato: essi bene trovati di quelli che n'a-
altri dicevano altramente. Ma perchè questa è vevano due.

quistione difficile ed il luogo suo è nel secondo Chiamansi ancora mostri quelli, i quali han
della Fisica, ne favelleremo un'altra volta. Di no dal nascimento loro turati quei luoghi e
remo ora solamente che l'opinione d'Aristotile quelle vie che dovrebbero essere aperte, co
è che la cagione di tutti questi mostri sia nella me s'è veduto molte volte e negli uomini e
materia cioè nel mestruo e non nella forma, nelle donne, le quali vie alcuna volta si
cioè nel seme dell'uomo. E questo può essere aprono da per sè, mediante la forza della na
in tre modi o per soprabbondanza di materia, tura; alcuna volta per l'aiuto de'cerusici; ed
come quando si fanno più dita o più membri alcuna volta se ne muoiono. E a tempi nostri
o nelle mani o ne'piedi o per mancamento di si sono trovati molti e vari e strani mostri, ed
materia, come quando si fanno manco dita e a Ravenna ed in Firenze ed a Roma e per tutto:
manco membri: o per la qualità della materia, ma perchè sono notissimi, non ho voluto raccon
la quale non sia atta a ricevere la forma che tarli, e ne dirò uno che mette Alberto Magno,
vorrebbe introdurvi la virtù generativa, come non di avere veduto, ma per udito. Questo era
si vede in uno specchio, il quale rende sem due uomini appiccati insieme colle rene; l'uno
pre figura e simulacro somigliante, se non quan dei quali era impetuoso ed iracondo, l'altro
do ha qualche difetto che cagioni il contrario. mansueto e benigno, e vissero più di venti anni
È ben vero che insieme colla materia s'ag e morto uno di loro, l'altro sopravvisse tanto,
giugne anco il modo della gravidezza e di quello che il puzzo del fratello l'ammazzò (1).
che si genera. Onde rade volte nascono mostri A volere conoscere in questi mostri quando
in quegli animali che generano uno solamente sono uno o più, Aristotile dà la regola che si
ed in quelli che generano assai, si trovano
spesso mostri, come nelle galline e ne'colombi, (1) Molti si sovverrauno de'due Siamesi appiccati insie
l'uova delle quali hanno molte volte due tuor me per le cosce, che, or fa qualche anni, vennero condotti
li, come si vede anco nei frutti, come nelle intorno per l'Europa. (M.)
SULLA GENERAZIONE DEL CORPO 23

guardi al membro principale, cioè al cuore; e si dice comunemente i figliuoli cssere generati
se ha uno cuore è uno solo, e se più, sono più. dalla sostanza del padre e della madre? Forse
Questi mostri anticamente nella superstizione perchè molte volte concorre nella generazione
della religione de Romani, erano molto osser tale superfluo che sarebbe stato nutrimento e
vati, come si vede nelle storie ed in Tito Li diventato membra; e di qui viene ancora che
vio a ogni carta, e li pigliavano per cattivo gli uomini per lo troppo coito diventano de
segno ed in tristo augurio e di qui li chiama bili e magri ed invecchiano piuttosto; o vera
vano mostri, quasi che dimostrassero alcun mente perchè i figliuoli hanno dal padre l'a-
male e però gli Aruspici ed indovini loro li nima che è la forma e dalla madre il corpo
facevano spesso ammazzare o gittare nei fiumi. che è la materia. E questo nome sostanza si
Paolo giureconsulto nella legge: Non sunt li predica e dice della forma e della materia ed
beri, della cogdizione degli uomini, fa una di ancora di tutto il composto; benchè la forma
stinzione, perchè quelli che sono prodigiosi, sia più nobile non pure della materia sola, ma
cioè che non hanno forma umana, non vuole ancora della forma e materia insieme, cioè del
che siano liberi: ma quelli che hanno qualche composto, secondo la più vera sentenza dei
membro più, essendo buoni a qual cosa, s'an migliori filosofi.
noverano fra i libri. Oggi è determinato per le Onde è, che generalmente tutti gli animali
leggi canoniche, quali si debbano battezzare e hanno il tempo determinato, quando portino i
quali no. E qui farò fine al quinto ed ultimo figliuoli nel ventre e solo la donna non l'ha º
problema. Forse perchè gli altri animali hanno il modo
Forniti questi cinque problemi, avvenga che del vivere loro più uniforme e per questo sono
moltissimi altri quesiti e dubitazioni si potes più uniformi nella complessione: ma gli uomini
sero arrecare sopra questa materia; noi però avendo vari gusti e diversi generano seme va
addurremo solamente quelli che giudicheremo rio e diverso l'uno dall'altro, e così le donne
più utili e più necessari alla perfetta cognizione mestruo diverso e vario l'una dall'altra. E
delle cose dette; e qui non osserveremo altro quinci vicne, secondo alcuni che certi generano
ordine che di raccontare di mano in mano più giovani e certi più vecchi e certi non mai,
quelle cose che cavate di diversi autori, ci ver secondo le diverse e varie complessioni. E
ranno alla memoria. quinci medesimamente, secondo i medesimi,
Onde è, che le donne che danno il latte e vengono le tante diversità che dicemmo di so
la poppa a bambini, non hanno la debita pur pra nel generare.
gazione loro o molto poca? Perchè il sangue Onde è, che portando le madri ordinaria
corre nelle mammelle, e quivi imbiancato di mente il parto in corpo nove mesi, e Virgilio
venta latte, e così hanno il latte in luogo del disse: -

mestruo.
Onde è, che molte balie non ingravidano mai Matri longa decem tulerunt fastidia menses.
o di rado? Perchè il sangue corre loro alle e Terenzio ancora disse: Questo è il decimo
poppe e non nella matrice, e perciò manca la mese? Forse perchè quando il parto fosse de
materia da fare il parto. bile e la madre di buon pasto, si potrebbe
Quando comincia il sangue a salire nelle prolungare infino al decimo mese e più. O
mammelle e diventa latte ? Tosto che l' em piuttosto è da dire che il parto è di dicci mesi
brione o parto comincia a muoversi nel ventre. sempre, cioè di nove interi e perfetti e d'un
Onde è, che l'enbrione è da prima bianco? mezzo imperfetto, cioè secondo i dieci primi
Forse perchè stilla e cade così nella matrice di del mese decimo, e però dicendosi dieci
o piuttosto, perchè essendo da principio poco mesi, sono in verità nove forniti e toccano del
lo sperma dell' uomo, lo fa somigliare a sè im decimo.
biancandolo; ma poi crescendo la quantità di Se il padre dà solamente l'anima al figliuolo
cotal mestruo, non può il sangue virile farlo e la madre il corpo solamente; onde è che la
più bianco, e però diventa rosso. madre ama più i figliuoli che non fanno i pa
Onde è che gli uomini non hanno mestruo, dri, come dice Aristotile nell' Etica, dovendo
nè puro, nè impuro? Dalla bontà della loro cssere tutto il contrario, essendo tanto più no
complessione, essendo caldi e secchi e le donne bile l'anima del corpo, quanto la materia è
fredde ed umide: ma hanno in quella vece lo più utile che la forma? Forse perchè la ma
sperma, cosa molto più nobile e migliore: ancora dre v'ha durato più fatica e portati più peri
che Temistio, grandissimo Peripatetico e di mol coli che il padre. E forse perchè la madre sa
to grande autorità, affermi, che nel comento so di certo che sono i suoi, il che non può sapere
pra il libro d'Aristotile de'sogni, che ancora il padre e mostra questo che le madri concor
gli uomini hanno il loro mestruo, come si ve rano anch'elleno attivamente (come vuole Ga
de in molti che ogni mese mandano fuori leno), conciossiacchè molti credendo essere pa
sangue per quelle vene, che i Greci chiamano dri amano i figliuoli d'altri come propri, o più
da questo effetto ermoroide ed il nostro volgo tosto non è vero che le madri gli amano più,
nuorice. sebbene gli amano più teneramente, essendo
Se nella generazione non concorre se non di natura più piacevoli e più benigne.
la forma e la materia, cioè lo sperma dell'uo Onde è quello che dicono i filosofi ed i
mo ed il mestruo della donna e ciascuno di medici che, poichè la gallina ha generato
questi è il superflo del nutrimento: onde è che l'uovo in corpo, ancora che cgli abbia il gu
24 LEZIONE
scio, se il gallo si congiugne con esso lei, l'uo sano ad altro; ove gli uomini hanno molte
vo che nasce è gallato, cioè atto ed utile a volte mille altre cure e pensieri diversi; e
generare e che da lui nasce il pulcino? Viene, però devono guardarsi i mariti di congiungersi
perchè, come si è già detto più volte, il seme con le mogli, quando ovvero l'uno o l'altro
del maschio non concorre materialmente, ma sono adirati o inalenconici, ed altramente ap
virtualmente: onde raccontano ancora d'una
passionati e mal disposti, per qualunque ca
certa sorte di pesci, la femmina de'quali fa gione; e finalmente di non avere troppo grande
l'uova nell'acqua, ed allora il maschio vi sparge o voglia, o fretta. E perchè gli adulteri per
su il seme e così diventano buone e utili alla
lo più stanno con timore e con sospetto, quinci
generazione. viene, che i figliuoli naturali sono molte volte
Se il maschio in ciascuna spezie perfetta è peggiori e più vili degli altri: benchè la na
quello che quando genera, genera in altri, e tura non fa differenza nessuna tra bastardi e
la femmina quella che genera da un altro: i legittimi, ma le leggi solamente.
onde è che nelle piante alcuna si chiama ma Che vuol dire, che noi chiamiamo i nostri
scolina ed alcuna altra femminima, non facendo l figliuoli, i quali sono generati dello sperma e
questo esse? Gli albori non sono veramente nè semc nostro, il quale non è altro che uno scre
mascolini, nè femminini, ed il medesimo si dice mento e superfluità; e non chiamiamo nostre
dell'erbe: ma si chiamano così coluivocamente: l'altre cose, che si generano dell' altre nostre
e per modo di dire, secondo che sono o più superfluità e scrementi, come dell' orina e di
caldi, o più umidi; quando nella medesima tanti altri, che si generano non tanto fuori di
spezie un arbore, o un'erba è sterile, ed uno noi, ma ancora di dentro, come sono i ver
fecondo, come si vede ne cipressi, lo sterile è mini cd i bachi, che si generano negli inte
il maschio ed il ſecondo la femmina. stini? Aristotile risponde a questo problema
Onde è, che non da poeti solamente, ma dai lungamente: a noi basterà dire prima che quello,
filosofi ancora, la terra si chiama madre uni che nuoce ed è cattivo, non si può chiamare
versale di tutte le cose? Perchè come il sole propio di persona, e tali sono simili scrementi
è padre di tutte le cose, dando colla virtù sua e superfluità. Poichè le cose che vengono fuori
la forma a tutte, così la terra è madre di tutte, di natura non si possono chiamare nostre, seb
dando a tutte la materia. bene sono nel nostro, o del nostro corpo come
In che modo dec g.acere la moglie col ma le nascenze ed altre cose cotali; e finalmente
rito per generare figliuoli maschi? In sul lato tutte le cose che si generano del nostro seme,
destro, e poi medesimamente riposarsi in sul ma corrotto, non si debbono chiamare nostre:
lato destro. onde nè i mostri ancora si devono chiamare no
A che si conosce quando la donna è fatta stri, essendo generati di seme corrotto. Il che
gravida? Sono molti segni, e fra questi, se i è manifesto, perchè se non fosse stato corrotto,
capezzoli delle poppe gonfiano, o si mutano di arebbe generato cosa simile al generante, in
colore; se gli occhi le diventano concavi ed virtù del quale egli opera. Potremo, per av
in dentro; se il viso se le aguzza; se la pupilla ventura, dire ancora che il figliuolo è la somi
dell'occhio diventa lucida e trasparente; se il i glianza di tutto il padre, ed il seme, secondo
bianco dell'occhio si fa denso e pieno; e se il alcuni viene e si tira da tutte le membra, o
corpo indebolisce. almeno da quattro principali, e così da tutta
Come si può conoscere, se la donna grossa la sostanza. Il che non avvicne nell'altre su
debba partorire maschio o femmina? Se il ven perfluità, le quali la natura, come al tutto di
tre sarà ritondo; se i capezzoli delle poppe ! sutili, scaccia fuori.
rossigni; se la donna arà buon colore; se il i Onde viene, che alcuni sono grandi di sta
latte sarà denso e rappreso in modo, che git tura, alcuni piccioli ed alcuni di mezza taglia?
tandosi al sole sopra uno specchio si rassodi Gli astrologi attribuirebbero per ventura la
e rappallozzoli a guisa di una perla, il parto cagione di questo allo ascendente o al pianeta
sarà maschio. Ma quando il ventre sarà lungo padrone del segno ascendente, come fanno delle
o lunghetto, e non bello, ma macchiato; e se somiglianze de' figliuoli a padri o alle madri,
i capezzoli saranno neri; e se il latte sarà li o alle diversità degli aspetti, come fanno ne'parti
quido e flussibile, sarà femmina. Dicono anco mostruosi. Ma la spericnza mostra, che l'essere
ra, quando che il parto arà una corona di ca di breve statura viene quando la materia del
pelli in capo, nascerà un altro maschio, e se seme è poca, o il nutrimento non è stato ab
due duoi. E medesimamente se nella lunghezza bastanza, o il luogo della matrice stretto: e per
del bellico dalla parte della matrice si trove le cagioni contrarie nascono i parti di statura
ranno nodi, tanti maschi nasceranno, quanti grande, e così di mezzana a proporzione, e que
nodi si troveranno. sto s'intende mentre che sono nel ventre: perchè
Quale è la cagione, che i parti di iutti gli come sono fuori del corpo, fa assai la qualità dei
altri animali somigliano più i padri loro, ovvero cibi e dell'aria. Onde dicono, che gli uomini
hanno natura più simile, che quelli dell'uomo? sono maggiori ne' luoghi umidi e freddi, come
Perchè i parti sono tali, e così si variano, quali a settentrione, che ne caldi e secchi, come a
sono gli animi de'padri e delle madri, mentre mezzodi. E per questo ancora diremo, che gli
che si congiungono. Ora tutti gli altri animali animali acquatici sono maggiori de terrestri ed
o almeno la maggior parte, quando si congiun i terrestri degli aerei: e più fa crescere i corpi
gono, sono tutti intenti a quello e non pen il bere, senza dubbio, che il mangiare.
SULLA GENERAZIONE DEL CORPO 25
Perchè appetisoono e mangiano molte volte altro luogo e tempo. Hassi pure da avvertire
le donne pregne carboni, calcinacci, matton il mestruo di che si forma, e questo si può
pesto e cotali cose nimiche della natura? Per considerare in due modi; e quanto alla qualità,
chè il mestruo si divide in tre parti, come perchè quello onde si forma la femmina è più
si disse di sopra. Della più pura si nutrisce il umido e più liquido, e quanto alla quantità
parto: l'altra diventa latte: la terza, che è, dell'impurità: perchè quello del quale si for
come dire una feccia ed una superfluità inu ma la femmina è più impuro, e per tutte que
tile, rimane nelle vene della madre infino al ste cagioni il maschio si forma piuttosto. Per
tempo del partorire; perchè fuori d' esse si chè quanto al luogo, il maschio si forma per
corromperebbe e nocerebbe alla creatura. E da lo più nella parte destra del ventre, la quale
questa parte corrotta vengono alle donne grosse è più calda, ed il caldo opera più e più ma
cotali appetiti fuori di natura, a chi più ed a tura la materia, e la materia più maturata e
chi meno, secondo che più o meno hanno di più digesta piglia più tostamente l'impressione
questa parte corrotta: ed ordinariamente le dell'operante. La femmina si forma nella parte
femmine fanno più cattivo parto, ed arrecano sinistra, la quale è più fredda, e così fa con
più tristi accidenti e maggior pericoli per le trario effetto: onde quando la donna sentirà
ragioni dette di sopra. E chiamasi questo ap muoversi nella parte destra ed il latte andare
petito strano di cibi fuori di natura ed insoliti, alla mammella destra, è segno per la maggior
e massimamente di cose acerbe ed agre, dai parte che sarà maschio, e così per lo contra
greci xirra e da' latini Pica, cioè Gazza, e dura rio. La seconda cagione è dell'agente, perchè
infino al secondo o terzo mese; nel quarto for se lo sperma è ben caldo e forte genera il ma
misce e viene, come insegna Galeno sopra il schio; e perchè l'agente più gagliardo opera
sesto aforismo della quinta particola, dalla bocca più prestamente, il maschio si genera prima
del ventricolo ovvero stomaco, quando è offesa. che la femmina. La terza cagione che si pi
Alcuni chiamano questa infirmità malacia; ma glia dalla materia è, che il mestruo onde si
non propiamente, come altrove si dirà più a genera la femmina è più umido e più flus
lungo e più distesamente nel luogo suo. sibile; e la materia più flussibile e più umi
Per qual cagione nascono qualche volta i da non può così bene ritenere la forma e
parti con alcuni segni e note in alcuno mem l'impressione dell'agente; ma quella onde si
bro, o di vino, o di carne, o di frutte, o d'al genera il maschio è più densa, e più soda e
tre cose da mangiare, che noi fiorentinamente rappresa. La quarta ed ultima cagione è che
chiamiamo voglie? Queste non sono altro, come la femmina si genera di materia più impura
ne dichiara il nome, che voglie e desideri della che il maschio: onde le donne gravide di
madre; e vengono perchè la virtù fantastica fanciulli maschi sono di miglior calore, e più
ovvero immaginativa seguitano quattro affetti agevolmente si muovono che quelle che so
o perturbazioni, appetito, piacere, paura e do no gravide di femmine. Ora quanto la ma
lore. E questi sono alcuna volta tanto grandi teria è più impura, tanto ubbidisce meno al
e possenti, che muovono e dispongono non so l'agente, ed a quello che cerca introdurvi en
lamente il corpo propio di colui che gli ha, tro la forma.
ma alcuna volta l'altrui; e da questa immagi Veduto per quattro cagioni, perchè il ma
nazione e fantasia vengono il più delle volte schio si generi in maneo tempo nel ventre che
le malie e incantesimi, come altrove si vedrà la femmina, vedremo ora per quattro altre,
più chiaramente. perchè fuori del ventre la femmina cresca pri
Quale è la cagione che il maschio si forma ma del maschio. La prima delle quali è per
nel ventre in minor tempo che la femmina; chè avendo la femmina a dare la materia nella
la femmina fuori del corpo cresce più tosto e generazione, ella è più umida che il maschio;
più prestamente viene a perfezione che il ma e però infino che non ha il tempo suo, e le
schio? Che il maschio si formi nel corpo della purgazioni debite, abbonda di materia, e que
madre prima che la femmina, si vede come sta materia non diventando ancora mestruo, si
dice Aristotile, nelle sconciature ricevute e po converte in sostanza del corpo. La seconda,
ste nell'acqua fredda, perchè il freddo cestri perchè l'umido è flussibile; e sebbene non è
gne. Perciocchè se maschio, la figura si vede atto a ritenere la forma come il denso e sodo,
e si conosce in quaranta di: ma se fosse fem tuttavia poi che ha cominciato a strignersi in
mina, non si potrebbe in detto tempo distin sieme e rassodarsi, si figura agevolmente, per
guere e conoscere; e la cagione di questo è per chè è più ubbidiente all'operante che il secco,
che si ponno considerare nella formazione del e più si distende. La terza è, che curandosi,
patto più cose, come il luogo dove si forma, come dicono, la natura meno della femmina
cioè la matrice, l'agente che lo forma, cioè il vhe del maschio (essendo, come s'è detto più
calore mandato fuori collo sperma del maschio. volte, la femmina un maschio diminuito ed im
E qui è da sapere che il calore è di tre ma perfetto) ella se ne piglia minor briga e pen
niere: celeste, elementare e naturale; benche siero. Ed ogni volta che un agente non è sol
nel vero siano tutti tre un medesimo; ma qui lecitato intorno l'ordinazione d'una qualche
non si può dichiarare ogni cosa, anzi basta ac cosa, quello effetto, purchè vi sia materia, si
cennarle, che, come ho detto più volte, qual fa e compie più presto, cercando la natura di
si voglia di queste cose ricercherebbe una le spedirsene quanto prima: come si può vedere
zione e ben lunga; e però la riserbiamo ad nelle ferite mal curate. La quarta ed ultima è
ARCial
-

26 LEZIONE
perche la donna invecchiando più tosto che | torno intorno di panno, come sarebbe una fai
l'uomo, e prima morendosi (per le ragioni che diglia, in guisa che il fumo non vi possa pas
altra volta si diranno, per non mescolare qui sare; e poi falle accendere di sotto qualche
tante cose insieme), debbe venire prima all'età profumo o cosa odorifera; talmente che il fu
giovanile e perfezione sua. Ma se ad alcuno mo passi per la bocca della matrice: e se la
paresse che io fossi stato lungo in rendere la donna sentirà che tal fumo ed odore le per
eagione di questo problema, tolga, e contentisi venga al naso ed alla bocca, sappi di certo.
della risposta d'Accursio, che volendo rendere che tal donna non è sterile da sé e di sua
la ragione di questa cosa medesima, cioè per natura.
chè la donna di dodici anni, secondo le leggi E qui per essere io non meno stanco e meno
civili, è da marito, e l'uomo non è da moglie fastidito di voi, ringraziando prima Dio del
se non nel quattordicesimo anno, disse in po l'aiuto suo, e poi le cortesi umanità vostre
che parole: Quia mala herba cito crescit. della grata udienza loro, porrò fine a questa
Onde nasce, che alcune donne sono sterili tanto lunga materia e tanto difficile.
e non generano mai ? Alcuna volta dalla donna
sola. Alcuna volta dall'uno e dall'aitro insie
me. Dalla donna sola può venire per più ca
gioni; o per essere la matrice troppo rara, o
troppo dura, o per avere turato le vie ed i L EZ IO N E UN A
meati, o troppo carnosi, o troppo deboli, o di
cattiva complessione, o per essere troppo pic D E LL' ANIMA
eiola, troppo bassa, o troppo distorta, in modo
che non riceva il seme dirittamente. E bre
vemente quattro sono le cagioni generali che
la denna non genera, come si cava dall'Afo BENEDETTO VARCHI
rismo sessantaduesimo, nella quinta particola;
la troppa freddezza, e questa fa il ventre spesso AL MOLTO MA e,NIFICO E MOLTo neVERENno
e denso, la troppa umidezza, la troppa sec
chezza, la troppa caldezza. E di qui si può MESS. FRANCESCO CAMPANO
vedere, perchè alcuni uomini non generano:
oltre che viene alcuna volta dal membro che SIONOIA SUO OSSERVANDISSIMO,
si cela, o per esser torto, o troppo corto, o
troppo lungo, e per questo vogliono alcuni che r

i muli non generino; il che è falso, secondo L anima razionale propria e vera forma del
Aristotile. Viene dall'uno e dall'altro, quando l'uomo è non solamente la più nobile sostanza
ammendue il maschio e la femmina sono o fred e la più perfetta che si ritrovi fra tutte le cose
di, o caldi soverchiamente, o quando sono mol mondane, essendo queste generate e corruttibili,
to grassi: perchè come gli uomini grassi non e quella immortale e sempiterna: ma vince an
hanno seme, così le donne grasse non han cora e trapassa così di nobiltà come di perfe
no mestruo ; perchè l'uno e l'altro se ne va zione esso cielo, se è vero che i cieli (come vo -
nel nutrimento del corpo. Viene ancora tal gliono molti teologi contra l'opinione di tutti
volta dall'essere l'uno e l'altro troppo giovini: i Peripatetici e di S. Tommaso medesimo) nora
perciocchè sebbene il maschio si può congiu siano animati. Onde quanto l'altezza e la de
gnere di quattordici anni e la donna di dodici, gnità del soggetto mi confortavano da una par
non generano però, o con gran difficoltà e pe. te, e quasi spingevano ad indirizzare a V. S. Rev.
ricolo infino al ventunesimo : e durano chi tutto quello che di materia sì ampia e si eccel
più e chi meno secondo la complessione e l'or lente era stato ragionato da me nella nostra Ac
dine del vivere, come si dirà altrove partico cademia: tanto dall' altro lato mi sconfortava e
larmente ne problemi del coito, per non con ritraeva da ciò fare il parermi d'averne e troppo
fondere l'una materia coll'altra, trattati da Ari più bassamente, che per ventura, non si doveva ri
stotile nella decima particola. spetto al luogo, ed assai meno certamente di quello
Puossi conoscere in modo alcuno se la ste che si poteva, rispetto al tempo favellato. Ma poi
rilità viene dalla donna solamente? Alcune considerando (oltra il non avere altro modo da
donne per fare questa prova, usano cotale spe potere dimostrarlemi se non grato, almeno non
rimento. Elle pigliano del zafferano, e messolo isconoscente), che niuno avrebbe nè meglio po
nell'acqua rosa si ungono con esso gli angoli e tuto di lei per la somma dottrina e perfetto giu
canti degli occhi; e se il di seguente la sciliva li dizio suo non pur conoscere, ma ammendare, nè
e sputo loro è tinta di quel colore gialliccio, più agevolmente per la sua bontà e benignità in
dicono d'essere feconde. La quale sperienza credibile, voluto non solo perdonare, ma scusare
non è fuori di ragione; perchè in tal modo ancora tutto quello dove io avessi o per negli
conoscono che le vie ed i meati che si ter genza mancato o errato per ignoranza, feci buona
minano agli occhi sono aperte e monde, e di animo, e mi disposi a doverle mandare almeno
quindi giudicano che tutto il corpo sia così. la prima e la seconda delle lezioni mie sopra
Ma Ippocrate nell'Aforismo cinquantanovesimo l'anima, tali quali fossero, eleggendo di voler
nella quinta particola insegna un modo più piuttosto che Ella m'avesse per poco dotto che
certo e vero, ed è questo. Cingi la donna in per troppo ingrato. E qui (per sapere quanto ed
DELL'ANIMA
27
in quali cose ella è sempre occupata tutta) umil parte e molto imperfettamente ed impropia
mente offerendomele e raccomandandomele, farò mente; e per questa cagione non le furono dati
fine, pregando Dio, che la conservi lungamente mezzi e strumenti a ciò fare, se non pochis
sana e felice. simi e debili. L'angelica dall'altra parte è
tanto suprema e tanto perfetta, che ella con
segue della bontà e perfezione di Dio perfet
tamente, ed a ciò fare non ha mestiero di stru
nicimAnazioNE DI BENEDETTo vAacmi, sopnA LA menti e mezzi, se non pochissimi ed ottimi.
seconda PARTE DEL veNTICINQUEsiMo cANTo DEL Ma la natura umana mezza tra queste due, può
PURGAToRio; NELLA QUALE SI TRATTA DELLA conseguire della bontà, e perfezione di Dio
cREAzioNE ED INFUsione DELL'ANIMA RAzioNALE; molto più perfettamente che la corporale, me
LETTA DA LUI NELLA FELICISSIMA ACCADEMIA FIO no però dell'angelica. E perchè ella fu ordi
RENTINA LA PRIMA DoMENICA DI DICEMBRE 1543. nata a un bene medesimo ed a uno stesso fine
che gli angeli, cioè a contemplare e fruire Dio,
però le fu di bisogno di molto più mezzi e
Tutte le bontà e tutte le perfezioni di qua strumenti ovvero virtù ed operazioni, che non
lunque maniera, non pur quelle che sono co fu né agli angeli (essendo essi perfettissimi di
munquemente ed in qualunque luogo si siano: loro natura) nè alle cose inanimate, essendo
ma eziandio quelle che furono ab eterno, e elle non di loro natura imperfettissime, e non
che saranno per lo innanzi: furono, sono e sa avendo se non un fine solo, ed un solo bcne
ranno sempre unitissimamente, magnifico Con particolare.
solo, nobilissimi Accademici e voi tutti uditori E questi mezzi e strumenti da conseguire co
benignissimi, in Dio ottimo e grandissimo: anzi tal fine, ed acquistare cotanto bene, chente
(per meglio dire), Egli solo è essa bontà e la e quale è l'ultima felicità e suprema beatitu
perfezione stessa, perciocchè da lui solo e non dine umana, non sono altro, che l'anima no
da niuno altro come da cagione principalissi stra insieme colle sue parti e spezie, o piutto
ma ed universalissima di tutte le cose, proce sto potenze, le quali da alcuni virtù, da alcu
dono senza dubbio alcuno o immediate o me ni forze, e da alcuni sono chiamate facoltà.
diantemente tutte le bontà e tutte le perfe E di tutte queste partitamente (per ubbidire
zioni, che per tutto l'universo in tutte le cose a chi si deve e seguitare la lodevole usanza di
si trovano. Conciossiacchè niuna cosa si ritrovi questa Accademia fioritissima) dovemmo oggi, in
in luogo nessuno, quantunque vile ed abbietta, gegnosissimi uditori, (piacendo a Dio e all'u-
la quale della bontà di Dio e della perfezione manissime cortesie vostre) con più brevità ra
non partecipi, ma qual più e qual meno secon gionare e con più piacevolezza che sapremo,
do che meno o più alla natura di ciascuna si seguitando di sporre quella parte del venticin
conviene. E questo (penso io) volevano i poeti, quesimo Canto del Purgatorio, che per la bre
che non sono altro che i filosofi morali, signi vità del tempo e lunghezza della materia, non
ficare quando dicevano, che tutte quante le potemmo pur cominciare a leggere, non che
cose erano piene di Giove, cioè Dio. Il che, fornire di dichiarare l'altra volta. Nella quale
affine che meglio e più agevolmente s'intenda, si tratta della creazione ed infusione dell' a
dovemo sapere, che delle cose che sono, al nima razionale con tanta profondità e varietà
cune sono tutto corpo e materia senza anima di dottrina con tale eccellenza e piuttosto di
o spirito veruno, e queste sono tutte quelle, vinità d'ingegno che non sapendo io, che dir
le quali per la molta loro imperfezione man mi cosa maggiore e non avendo nè più ampia,
cano di vita, e quinci inanimate si chiamano nè più vera lode da dargli, dirò, che Dante
e materiali come i legni ed i sassi. Alcune al in trattare così alta e così oscura materia, c
l'incontro sono tutta anima ovvero spirito sen quasi porlaci innanzi agli occhi, fu veramente
za punto di materia, e queste sono tutte quelle Dante, e somigliantissimo a sè medesimo.
le quali per la molta perfezione loro non han Bene voglio avvertirvi o piuttosto ridurvi
no bisogno di corpo, e però si chiamano spi nella memoria, uditori graziosissimi, che del
rituali, come le intelligenze ovvero angeli. Al l'anima razionale si può favellare in due gui
cune poi non sono nè tutto corpo e tanto im se, secondo la ragione umana ed il discorso
perfette quanto le prime, nè tutto spirito e naturale, come fecero i filosofi gentili: c se
tanto perfette quanto le seconde, ma sono par condo il lume soprannaturale ed inspirazione
te corpo e materia, e parte spirito ed anima, divina, come hanno fatto i teologi nostri cri
e di qui furono chiamate animali. Tra le quali stiani, e come fa Dante in questo ed in altri
non è dubbio, che l'uomo per avere la ragione luoghi della sua maravigliosissima e divina Com
e l'intelletto, dono veramente divino, di che media. Ma noi, sì per non occupare indegna
gli altri sono tutti privati, è di grandissima mente le professioni altrui, e si perciocchè ab
lunga il più nobile ente ed il più perfetto. bastanza se n'è favellato cristianamente in que
Ora di queste tre nature, angelica ovvero sto luogo altre volte, ne tratteremo secondo i
intellettuale, umana ovvero razionale, corporea filosofi, se non quanto nell'addurre o confu
ovvero materiale ed inanimata, la corporale è tare l' altrui opinioni, e nel dichiarare poi i
tanto infima e tanto imperfetta che non può sentimenti delle parole del nostro poeta dirò,
conseguire della perfezione e bontà divina, ed o filosofo? o piuttosto teologo º saremo neces
assomigliarsi a Dio, se non se in menomissima sitati d'allegare ancora, e riferire le santissimº
28 LEZIONE
determinazioni de teologi così antichi come finita, illustrare l'infinita oscurità ed ignoranza
moderni. E perchè i filosofi medesimi tanto i del tenebroso ingegno e pochissimo intelletto
mlo,
Greci, quanto gli Arabi ed i Latini, come ne
sentirono variamente, così diversamente ne scris
sero, il proponimento nostro è di voler segui
tare in tutto e per tutto la dottrina d'Aristo Ma come d'animal divenga infante
tile e de' suoi commentatori, e specialmente Non vedi tu ancor, questo è tal punto,
tra Greci il diligentissimo Giovanni Grama Che più savio di te già fece errante.
tico (1), e tra gli Arabi il dottissimo Averrois, Sì, chè per sua dottrina fe' disgiunto
e tra i Latini il veracissimo S. Tommaso, per Dall'anima il possibile intelletto,
ciocchè, come in molte altre cose, così in que Perchè da lui non vide organo assunto.
sta hanno i Peripatetici (secondo ch'io stimo) Apri alla verità, che viene, il petto ;
avanzato l'altre sette degli altri filosofi tutte E sappi che si tosto come al feto
quante. L'articular del cerebro è perfetto,
Non credo già, virtuosissimi uditori, che egli Lo Motor primo a lui si volge lieto,
sia di mestiero il ricordarvi, che la scienza Sovra tanta arte di natura, e spira
dell'anima è tanto difficile da sè, e si intri Spirito nuovo di virtù repleto;
cata poi ed oscurata da altri, che il saperne Che ciò che truova attivo quivi, tira
la verità dimostramente è piuttosto impossibile In sua sustanzia, e fassi un'alma sola,
che malagevole. Nè perciò dovemo noi, come Che vive e sente, e sè in sè rigira.
infingardi e pusillanimi sbigottirei vilmente, e E perchè meno ammiri la parola,
restare di cercarne, anzi piuttosto, come solle Guarda 'l calor del Sol che si fa vino,
citi e generosi inanimirci a più acremente in Giunto a l'umor che dalla vite cola.
vestigarla e con istudio maggiore. Conciossiaco Quando Lachesi non ha più del line,
sachè niuna cognizione di qual si voglia scienza Solvesi dalla carne, ed in virtute
(eccettuata sempre la metafisica, ovvero scien Seco ne porta e l'umarro e 'l divino
za divina) è tanto non solamente utile, ma gio L'altre potenze tutte quasi mute,
conda ancora e maravigliosa, quanto quella del Memoria, intelligenzia, e volontade,
l'anima, come ne prova largamente il Filo In atto molto più che prima acute.
sofo nel suo proemio. E di vero chi è quegli Senza ristarsi, per sè stessa cade
il quale, considerando le tante e sì belle e sì Mirabilmente a l'una delle rive ;
diverse operazioni ed utilità di questa sostanza Quivi conosce prima le sue strade
perfettissima, e conoscendo la differenza che è Tosto che luogo ll la circonscrive,
senza proporzione alcuna tra le cose, le quali man La virtù informativa raggia intorno
cando di vita non crescono, non sentono, non si Così e quanto nelle membra vive
muovono e non intendono, e quelle le quali per E come l'aere, quand'è ben piorno
benefizio dell'anima vivendo, crescono, sentono, Per l'altrui raggio che 'n sè si riflette,
muovonsi ed intendono, non abbia insieme con Di diversi color si mostra adorno:
un sommo ed incredibile piacere, una grandis Cosi l'aer vicin quivi si mette
sima ed ineffabile meraviglia? Certo io credo, In quella forma che in lui suggella
e tengo, che voi crediate, discretissimi udito Virtualmente l'alma che ristette.
ri, che altro non volesse intendere l'oracolo E simigliante poi a la fiammella,
ovvero motto scritto nelle porte del sapientis Che segue il fuoco là 'vunque si muta,
simo Apollo, cioè: Conosci te stesso: se non Segue allo spirto suo forma novella
la notizia e contemplazione dell'anima princi Però che quindi ha poscia sua paruta,
palmente; dalla quale, come da un fonte per chiamata ombra, e quindi organa poi
petuo di tutti i beni e mali nostri, derivano Ciascun sentire infino a la veduta.
senza fallo niuno, insieme con tutte le scienze Quindi parliamo, e quindi ridiam noi;
e virtù, tutte le bontà e perfezioni, e final Quindi facciam le lagrime e sospiri
mente tutte le felicità e beatitudini umane. Che per lo monte aver sentiti puoi.
Laonde caramente vi prego, gratissimi e cor Secondo che c'affiggono i disiri,
tesissimi uditori, che conoscendo voi quale e E gli altri affetti, l'ombra si figura,
quanta sia la nobiltà, quanto varia e grande E questa è la cagion di che tu amiri.
l'utilità, quanto diversa e malagevole la dif
ficoltà della scienza e speculazione dell'anima, Innanzi che io venga alla sposizione parti
vogliate non solamente ascoltarmi con grata e colare di questi versi, i quali non sono meno
cortese udienza, come per vostra benignità fate scuri e dotti, che begli ed ornati, giudico che
sempre; ma pregare ancora umilmente insie sia non solamente utile, ma ancora necessario
me con esso meco Colui, il quale fece il tutto, fare un discorso e ragionamento universale so
ed il tutto regge, che gli piaccia, alla chiarez pra tutta l'anima, e sopra ciascuna delle sue
za d'un raggio solo della sua luce e bontà in spezie e potenze. Ma perchè questa materia
come utile e dilettevole soprammodo, così è
(1) Credo sia quel Giovanni, eclettico alessandrino, ch'ebbe ancora lunga e difficile oltra misura, però noi
soprannome di Filopone. Fiori nel secolo VII: scrisse copiosi (per essere più ordinati e più distinti) divide
commenti intorno all'opera d'Aristotile, e ne seguì quasi intie remo tutto questo trattato in più lezioni; e
ramente le dottrine. (M.) la presente prima lezione, la quale sarà più
DELL'ANIMA 29

breve e più agevole divideremo in quattro parti cette, pure e snelle che i filosofi ora intelli
principali. genze chiamano, e quando sostanze astratte e
Nella prima parte, si dichiarerà quanto sia separate, è più nobile della filosofia naturale
la eccellenza e maggioranza della scienza del che considera le sostanze composte e corrut
l'anima sopra l'altre scienze. E prima si dirà tibili. Anzi, come niuna cosa nè più perfetta
in che modo ed a che si conosca, quando una si ritrova, nè più nobile di quegli immortali
scienza è più o meno nobile d'un'altra. spiriti e beatissimi, così tutte l'altre scienze
Nella seconda, racconteremo le molte e va sono inferiori e cedono alla metafisica. La se
rie opinioni, che ebbero i filosofi antichi cir conda cosa è la certezza; onde quella scienza
ea la quidità ovvero sostanza e natura del è sempre più eccellente la quale è più certa,
l'anima. cioè che usa migliori prove ed ha dimostra
Nella terza, porremo la diffinizione dell'ani zioni più ferme e più certe, onde le scienze
ma secondo Aristotile, e la dichiareremo tutta matematiche per essere certissime, avanzano
parola per parola. in questo, cioè in quanto alla certezza delle di
Nella quarta ed ultima, divideremo l'anima mostrazioni, tutte l'altre scienze. E cosi con
in tutte le sue parti e potenze. chiudiamo, che essendo tutte quante le scienze
buone ed onorabili, quella si deve chiamare
PARTE PRIMA migliore e più onorabile, la quale o tratta di
cosc migliori e più onorabili, od ha prove e
Della nobiltà della scienza dell'anima. dimostrazioni più conte e più manifeste.
Bene è vero che di queste due cose s'at
Venendo alla prima parte, cioè a mostrare tende più la nobiltà del soggetto che la cer
quanto sia nobile e degna la scienza dell'ani tezza delle dimostrazioni; onde, quando alcuna
ma, mi pare da dichiararvi prima brevemente scienza ha il subbietto più nobile e le dimo
in che modo s'abbia a conoscere la degnità e strazioni più certe d'un'altra, ella si chiama
nobiltà di qualunque scienza, ed a che si possa ed è più nobile di lei semplicemente ed asso
giudicare quando una scienza è più degna e lutamente: come per atto d'esempio l'aritme
più nobile d'un'altra. Dico dunque (come ne tica rispetto alla musica; conciossiacchè l'a-
insegna il Filosofo nel principio del primo li ritmetica e quanto al subbietto e quanto alla
bro dell'anima) che ogni scienza qualunque certezza è più nobile della musica: perchè
sia è buona e onorabile: e la cagione di questo l'aritmetica considera il numero astratto e se
è perchè ogni scienza è perfezione dell'intellet parato dalla materia e la musica concreto e
to, onde ancora le scienze delle cose vili e cat congiunto. Ma quando sono due scienze, le
tive sono buone e onorabili, in quanto scienze, quali vicino l'una l'altra in una sola di que
perchè anch'esse come tali fanno perfetta l'a- ste cose e nell'altra siano vinte, quella che
nima ed intelletto nostro, l'obbietto del quale ha il subbietto più eccellente è più degna:
è la verità e la verità s'acquista mediante la onde l'astrologia è più degna della geometria,
scienza. E così avemo veduto come e perchè perchè, sebbene non ha le sue dimostrazioni cosi
ogni sapere, in quanto sapere è cosa buona e certe e così chiare, come la geometria, ha però
degna d'onore. Ora avemo a vedere come si il subbietto più nobile, perciocchè la geometria
conosca quando alcuna scienza è più degna e si maneggia intorno alle cose terrestri e cadm
più perfetta d'un'altra. Onde presupponendo che e l'astrologia intorno alle celesti, sempiter
che voi sappiate che le scienze reali, cioè che ne. E sempre la nobiltà del subbietto s'at
trattano di cose, sono più perfette e più nobili tende più che la certezza delle dimostrazioni
delle scienze razionali, cioè che trattano di in qualunque scienza. Anzi dirò più oltre che
parole come la gramatica, la rettorica e la lo non pure la scienza, ma l'opinione ancora di
gica: e similmente che le scienze speculative, alcuna cosa alta e pregiata, è più da stimarsi
cioè quelle il cui fine non è fare ma contem e tener cara che la certezza d'una bassa e
-plare, sono più nobili e più perfette dell'at vile, come ne mostra Aristotile nella prima fi
tive, cioè di quelle il fine delle quali non è losofia. E ninno è, ch'io creda, di sì poco e
speculare ma operare come l'etica, l'econo perverso giudizio o tanto amatore di queste
mica e la politica, dico che in due modi ed a cose mondane, il quale non eleggesse piuttosto
due cose potemo conoscere quando una scienza una qualche cognizione e breve notizia delle
è migliore e più onorata d'un'altra. La prima cose celesti ed eterne, che la scienza e certezza
è il subbietto suo, cioè la materia di che ella delle terrene e mortali.
tratta ed intorno alla quale si maneggia. Onde , Ma per ridurre ormai questo ragionamento
quella scienza è sempre più nobile, il cui sub al proposito nostro, dico, che la scienza del
bietto è più nobile; e la cagione è perchè tutte l'anima in amendue queste cose, cioè e qnan
le scienze si specificano come dicono i filosofi to alla nobiltà del subbietto e quanto alla
dagli obbietti loro, cioè pigliano la dignità e certezza delle dimostrazioni, vince ed avanza,
perfezione loro dal subbietto. E così ciascuna dalla metafisica o teologia in fuori, l'altre scien
scienza è più o meno degna, secondo che più ze tutte quante. Ma qui nascono subitamente
o meno degna è la materia della quale ella due dubitazioni contro le cose dette pmr testè
tratta. Onde la metafisica ovvero prima filoso da noi. La prima è che se le matematiche sono
fia, perchè considera quelle menti divine e (come io ho detto poco fa) più certe di tutte
sempiterne, e quelle creaturc candide, sempli l'altre scienze essendo (come afferma Aristo
3o LEZIONE
.tile) nel primo grado della certezza, egli non in questo luogo, se non i capi principali delle
pare nè vero nè possibile che la scienza del cose e quelli risolvere e (come volgarmente si
l'anima sia più certa di tutte le altre, cava dice) smaltire, per quanto però si stenderanno
tane ancora la metafisica ovvero scienza so le forze mie, le quali quanto più le conosco
prannaturale. La seconda è che seppure la essere e poche ed inferme, tanto mi sforzerò
scienza dell'anima è sì certa, che ella trapassi maggiormente che dove mancano l'ingegno mio
tutte le altre di certezza, non è dunque vero ed il giudizio, quivi sopperiscano l'industria e
quello che io ho detto di sopra nel proemio, la diligenza, e dove la dottrina non aggiugne ,
anzi quello che dice esso Aristotile che ella arrivi lo studio. Ma per cominciare a mante
sia tanto dubbiosa e tanto malagevole. Ad nere co fatti quello che io ho promesso colle
amenduni questi dubbi si soddisfa agevolmente parole, verrò alla seconda parte.
con una risposta sola; conciossiacchè una cosa
si dice esser certa in due maniere, una in PARTE SECONDA
quanto a noi e l'altra in sè stessa e quanto
alla natura. Ora le matematiche sono certe nel Delle molte e varie opinioni degli Antichi in
primo modo, cioè in quanto a noi, benchè esse torno alla quidità ed essenza dell'anima.
sono anco certe nel secondo, cioè in sè stesse
e quanto alla natura. Ma l'anima è certa so Prima che io entri nella seconda parte e vi
lamente nel secondo modo, cioè in quanto alla racconti le molte e varie opinioni degli anti
natura ed in sè stessa; il che si vede chiara chi intorno alla quidità ed essenza, ovvero na
mente per le sue molte e manifestissime opera tura e sostanza dell'anima, non mi pare fuori
zioni: ma non è già certa nel primo modo, cioè in di proposito dirvi, come Aristotile aveva in
quanto a noi, anzi dubitevole molto e pienis costume, sempre che egli voleva insegnare al
sima di difficoltà, come vedremo nel luogo suo. cuna cosa, checchè ella si fosse, raccontare
Onde quando noi diciamo che l'anima è cer primieramente tutto quello, che di cotal cosa
tissimra, intendiamo non in quanto a noi, ma avevano lasciato scritto tutti quelli, i quali era
in quanto alla natura: quando poi diciamo che no stati innanzi a lui. E questo faceva per due
ella è incerta e dubitosa, intendiamo non in cagioni (come testimonia egli stesso): la prima
quanto alla natura, ma rispetto a noi; perchè era per cavare da loro e servirsi di tutto quello
(come si prova nella posteriore) quella scienza in che eglino avevano detto bene: la seconda
si chiama più certa, la quale tratta di cose più per fuggire e guardarsi da tutto quello in che
perfette e che siano prime di natura, e tale è essi avessero errato. La qual cosa fu da lui fatta
l'anima verso l'altre scienze. E tuttocchè qui sì negli altri suoi libri, e si massimamente per
si potessero addurre molte altre dubitazioni, e tutto il primo dell'anima; ma noi seguitando
queste sciorre più lungamente, nondimeno l'in il diligentissimo e dotto Giovanni Grammatico
tendimento nostro non è di volere entrare in nel suo lungo e bellissimo proemio, ridurremo
quistioni, se non quando e quanto ne sforzerà tutte quelle opinioni in una somma brevemente,
la materia: perciocchè, se noi volessimo ad senza addurre le ragioni loro o confutarle al
durre tutte le disputazioni che si potrebbero tramente, essendo elleno falsissime tutte non
con tutti i fondamenti loro, e quelli o confer solo secondo la santissima legge cristiana, ma
mare o riprovare, come sarebbe necessario, secondo Aristotile ancora, il quale le riprova
non che io, che uno sono e debolissimo, in sì con ragioni efficacissime.
poco tempo, ma molti uomini in molti mesi Ma venendo al fatto, dico che i filosofi an
quantunque valenti sicuramente non baste tichi sono divisi principalmente in due parti;
rebbero. Oltra che non se ne caverebbe per perciocchè alcuni dissero che l'anima era cor
ventura quel frutto che io vo cercando che se po, ovvero cosa corporale, ed alcuni altri che
ne tragga; per non dir nulla, che secondo che ella non era corpo, nè cosa corporale. Quelli
a me pare, altramente si debbe interpretare che dicono che l'anima è cosa corporale, sono
per gli studi tra filosofi nelle scuole e altra divisi medesimamente in due parti, perchè al
mente leggere nell'accademia in Firenze. E tanto cuni dicono che ella è corpo misto, ovvero me
più ora che il virtuosissimo e sempre felicissi scolato, ed alcuni che clla è corpo semplice.
mo Duca Signor nostro, non contento d'essere Quelli che tengono che ella sia corpo misto si
stato il primo fra principi, il quale abbia non dividono anch'essi in due: perchè alcuni pon
solamente con giudizio conosciuta, ma quello gono che tale corpo sia mescolato d'elementi
che è più, con favore ancora e con liberalità ovvero principi discontinui e separati l'uno
accresciuta e innalzata la sua e nostra lingua dall'altro, come Democrito e Leucippo: i quali
materna, ha con infinita utilità di noi e lode volevano che tutte le cose celesti, come ter
immortale di S. E. operato in guisa, quando rene (perchè appo loro ogni cosa era mortale)
altri meno il credeva, che chiunque vuole, può si generassero a caso di certi corpicini sodi,
agiatissimamente udire in Pisa da uomini eccel indivisibili, finiti di figure cd infiniti di numero,
lentissimi tutte le scienze in tutte le lingue (1). i quali essi chiamavano grecamente atomi cioè
Onde io per me sono fermo di non arrecare insecabili, perchè non si potevano per la pic
colezza loro segare e dividere in parti. La quale
(1) Cosimo I fe” riaprire lo studio di Pisa, e per que fini opinione fu poi accettata ed accresciuta mara
che detti abbiamo nella prefazione, assai lo favori, come in vigliosamente da Epicuro, uomo nel vero d'ot
generale le lettere e l'arti. (M.) tima vita ed interissimi costumi; checchè se
DELL'ANIMA 3I
ne dicano Cicerone, Lattanzio Firmiano e molti ed una d'acqua. Altri dissero che ella era ar
altri i quali seguitando (come molte volte av monia, come Anassagora. Platone diceva che
viene) una fama ed un grido volgare, sebbene l' anima era numero, che moveva sè stesso, il
pubblico ed antico, falso nondimeno e bugiar che (come s'è detto altrove) si debbe inten
do, gli hanno dato biasimo e mala voce a gran dere metaforicamente. Aristotile finalmente, il
torto, essendo egli stato sobrio e castissimo quale noi seguitiamo, vuole che l'anima sia
uomo, come testimonia divinamente non dico sostanza e non accidente, incorporale e non
Lucrezio, a cui molti non darebbero fede, ma incorporea, inseparabile ed immortale, non in
oltra molti altri, San Tommaso medesimo. Al separabile e mortale, come noi diremo al luogo
cuni altri pongono che tal corpo sia mescolato suo; non ostante che Alessandro Peripatetico
di principi ed elementi continui e congiunti nobilissimo, e molti altri filosofi, così antichi
insieme; come fu Crizia, il quale affermava come moderni, tengano che ella sia mortale.
l'anima non essere altro che quel sangue, il E quello che è più da maravigliarsi, dicono
quale è intorno al cuore e per questo man che Aristotile (per tirarlo da loro), tiene la
cando il sangue manca subitamente la vita. medesima opinione; il che, secondo io credo,
Cnde Virgilio non minor medico e filosofo che certo è falsissimo, come vedremo più di sotto,
poeta, disse dottamente sopra questa opinione: chè ora è tempo di venire alla terza parte,
– E col sangue versò la vita insieme (1). Quelli avendo veduto dalle tante e tanto contrarie
che credettero che l'anima fosse corpo sem opinioni di tanti e tali uomini, quanto sia ma
plice sono divisi come gli altri in più parti; lagevole ritrovare la verità dell'essenza del
perciocchè alcuni dissero, ch'ella era quello, l'anima; e perchè, come dice il divino Pla
che i Greci chiamano htep, cioè corpo celeste tone, delle cose nelle quali i più saggi discor
ovvero quintaessenza, come Critolao. Alcuni dano tra loro, non può essere giudice, se non
dissero che ella era fuoco per la prontezza e Iddio, sappimo dove avemo a ricorrere, per non
velocità del suo movimento come fu Eraclito ingannarci. Ma noi seguitando al presente Ari
e Ipparco. Alcuni, che ella era corpo aereo stotile, verremo alla diſfinizione dell'anima.
come Anassimene e Diogene. Altri corpo d'a-
cqua come Talete, che diceva anco che la ca PARTE TERZA
lamita aveva anima, perchè moveva e tirava
il ferro a sè. Ed Ippone ancora diceva che Della diffinizione dell'anima secondo Aristotile.
l'anima era acqua, mosso da questo che il se
me di tutte le cose era umido e però voleva Ciascuna disputa di qual si voglia cosa debbe
che tutte le cose si generassero d'acqua, non incominciare dalla diſfinizione, acciocchè si
potendosi fare la generazione senza l'umido. E sappia, che sia quello di che si disputa; e per
così tutti gli elementi trovarono chi li favori e ciò noi in questa terza parte diffiniremo l'anima
nobilitò, facendoli principi ed anima delle secondo Aristotile. Ma perchè cotale diſfinizione,
cose, eccetto la terra che non ebbe chi fosse e importantissima e molto difficile, però ci in
per lei, se non quelli che dissero o che l'a- gegneremo d'agevolarla quanto potremo il più
nima era composta di tutti quattro gli elementi E perchè a far questo è necessario ora d'allar
come fu Empedocle, o che ella era ogni cosa, garsi ed ora d' allungarsi, non potendo stare
conoscendo e intendendo tutte le cose. E que la brevità insieme colla chiarezza, però prego
ste sono brevemente le opinioni di tutti coloro, tutti coloro i quali sanno, che mi vogliano per
i quali facevano l'anima corporale. donare; perciocchè io non dico queste cose per
Quelli poi che la tenevano incorporea, si quelli, i quali o l'hanno studiate, o le posso
divisero anche eglino in due parti principal no studiare per loro medesimi negli autori o
mente, perchè alcuni dicevano, che ella era greci o latini, ma per coloro solamente, i quali
separabile dal corpo, e conseguentemente im non avendo altra lingua che la fiorentina, vor
mortale; alcuni, che ella era inseparabile e per rebbero bene, ma non possono studiarle e sa
conseguente mortale. Di quelli che dissero l'a- perle da sè stessi. E questi, se non intende
nima non si poter separare dal corpo ed essere ranno così ogni cosa, non debbono nè mara
mortale, alcuni dissero ch'ella era qualità e vigliarsi nè dolersi, conciossiacosachè in tutte
temperatura ovvero complessione, come fu ol le lingue avvenga il medesimo, a tutti quelli,
tra Alessandro, Galeno, il gran medico. E così che non sono esercitati nella loica e non sanno
la tiene accidente e non sostanza, mortale e i termini di quella scienza, della quale si ra
non immortale, benchè altrove disse col gran giona. Senza che la presente materia (oltra
dissimo Ippocrate suo duce, che ella era il ca l'essere dubbiosa e malagevolissima di sua na
lore innato, ovvero naturale, il quale alcuna tura) è stata trattata da tanti tanto scura
volta Aristotile chiama fuoco imitando Platone mente e diversamente, che nè anco quelli che
suo maestro; ed altrove dubitò quello che ella sono stati molti anni per molti Studii osano di
si fosse: altrove confessò non solo d'esserne ir favellare sicuramente: anzi questa è quella cosa,
resoluto, ma di non saperla. Alcuni dissero che della quale chi più sa, meno ardisce di ra
l'anima era una certa proposizione, come se gionarne.
si pigliassero, verbigrazia, due parti di fuoco Ma posto fine a proemi ed alle scuse, dico che
Aristotile nel secondo libro dell'anima la dif
(1) . . . . vitam cun sanguine fudit. finisce così : L'anima è l'atto primo del corpo
Virg. Lib. II, naturale, organico, avente la vita in potenza. Fd
32 LEZIONE
affine che meglio la tenghiate a mente, la ri gnervi primo: e brevemente atto primo non
dirò un'altra volta. L'anima è l'atto primo vuol dire altro che principio d' operare, ma
del corpo naturale, organico, avente la vita in non già essa operazione, perchè l'operazione
potenza. Queste sono tutte le parole appunto è l'atto secondo. E disse primo non semplice
che usa Aristotile, le quali per essere (come mente, ma a rispetto dell'atto secondo e delle
vedete), scurissime e meno chiare, che non è sue operazioni. E così avemo veduto che il ge
esso diffinito, le anderemo dichiarando tutte nere dell'anima è atto primo, cioè forma so
quante ad una ad una. Ma prima notaremo, stanziale ovvero principio d'operare, che i greci
che questa non è vera e propia diffinizione, chiamano entelechia, cioè perfezione. Del corpo
non essendo univoca, cioè, non comprendendo naturale: disse naturale, perchè si trovano (co
tutte le sue spezie in un medesimo tempo e me ciascuno sa) di due ragioni corpi, uno na
ad un tratto, come debbono fare i propi e veri turale, il quale è quello che ha in sè il prin
generi; ma è analoga, cioè comprende prima cipio del movimento, e di questo intendeva il
una delle sue spezie, e poi, mediante quella, filosofo: l'altro artificiale ovvero fatto a ma
l'altre. E però questa si debbe chiamare piut no, il quale non ha in sè e da natura il prin
tosto descrizione che diffinizione, come è noto ai cipio del movimento; e di questo non essendo
loici: perchè questi termini i quali usiamo nei animato non favella il filosofo qui. E però v'ag
cessariamente così, non avendone di migliori e giunse naturale, a differenza del corpo artifi
più noti che sappia io, non si possono ora nè ciato organico. Organico appo i greci si chiama
si debbono dichiarare più lungamente, e tanto quello che ha i suoi organi ovvero strumenti
meno essendosi dichiarati altrove abbastanza. per mezzo de'quali esercita le sue operazioni:
Secondariamente notaremo, che questa diffini i latini dicono dissimilare, ed è propio quello,
zione e piuttosto descrizione è comune ed uni il quale è composto di parti diverse, le quali
versale; perciocchè ella comprende ed abbrac parti sono differenti di spezie; e tutti i corpi
cia tutte l'anime di tutti gli animali o piutto viventi che hanno anima, sono organici ovvero
sto animanti per comprendere ancora le piante. dissimilari; perciocchè se le piante sono dissi
Intendiamo però degli animali generabili e cor milari ed organiche, tanto più gli animali. E
ruttibili, perchè trattare dell'anima, del mondo che le piante sono tali, non è dubbio, sebbene
e de'cieli non appartiene al filosofo naturale, sono dissimilari più imperfettamente e più oc
ma al metafisico, essendo elleno in tutto e per cultamente che gli animali. E di qui si può
tutto, ed in quanto al subbietto ed in quanto cavare manifestamente, che secondo la via pe
all'obbietto, ovvero secondo l'essere e secondo ripatetica non si danno i demonj; conciossiacchè
la diffinizione astratte e separate da ogni ma il corpo aereo e spiritoso che ponevano i pla
teria tanto sensibile quanto intelligibile. E Ari tonici, non è organico ma similare, cioè della
stotile fu il primo, che sapesse trovare una medesima spezie: ma di questo altrove. Avente
diffinizione generale e comune a tutte l'altre; la vita in potenza; Temistio dottissimo filosofo
e però meritamente riprende tutti quelli che e di grandissima autorità, vuole che queste pa
n'avevano scritto anzi a lui; conciossiacchè le role significhino il medesimo che organico ov
diffinizioni loro non comprendevano tutte l'ani vero dissimilare; e così tanto vaglia una di que
me, ma una sola, cioè l'umana, onde egli, per ste parole, quanto l'altra. Il che certamente
comprenderle tutte, fu costretto a far la dif non pare verisimile in una cotale diffinizione
finizione non univoca come si dovea, ma ana ed in un filosofo così fatto, il quale non suole
loga come si poteva. E in questo mostrò il usare e massimamente nelle scienze dimostra
medesimo ingegno e giudizio, che nell' altre tive e tanto meno nelle diffinizioni, parole e
cose tutte, il quale fu veramente divino. Ora voci sinonime, che così chiamano i gramatici,
venendo alle parole dico, ch'egli disse: L'anima benchè impropiamente, quelle voci e parole
è l'atto primo: e chiama qui atto quello che che significano il medesimo. E la cagione è per
di sopra aveva chiamato forma, e s'intende che i filosofi vanno sempre imitando la natura
sostanziale, perchè l'anima è forma sostan quanto possono, e la natura come non manca
ziale (come vedremo) e non accidentale. Ed nelle cose necessarie, così non abbonda nelle
usò Aristotile per assegnare il genere all'ani superflue, e non solamente fa sempre il meglio
ma, una voce e vocabolo nuovo trovato e che si possa, ma ancora più brevemente e nel
fatto da lui, e questo fu Entelechia, cioè per miglior modo. Onde noi diremo, che egli disse
fezione, ovvero atto primo ed in somma forma avente la vita in potenza per disgiugnere e se
sostanziale. Il quale vocabolo dicono, e così pare parare il corpo animato da quelli che non
in verità, ancor che alcuni si sforzino di di hanno anima; perciocchè anco la forma del
fenderlo, che Cicerone non intendesse, aven fuoco e d'altre cose somiglianti è l'atto primo
dolo tradotto nel primo libro delle sue Di del corpo naturale, nè è però animato. E quando
sputazioni Tusculane, un certo movimento con | noi diciamo d'uno che va o canta, che egli
tinuato e perpetuo, come se fosse stato scritto l può andare o cantare, questo è un parlare im
endelechia per d e non entelechia per tg ma proprio; ed alcuni vogliono che queste parole
questo non fa ora a proposito. Disse primo a fossero aggiunte per cagione ed a differenza dei
differenza dell'atto secondo, il quale è essa corpi morti, i quali non sono corpi, se non
operazione. Ora l'anima o operi come nel ve equivocamente, come i dipinti. La vita. Prese
gliare, o non operi come nel dormire, sempre in questo luogo vita in vece dell' operazione
è atto del corpo, e però fu necessario aggiun vitale. In potenza, cioè in virtù e non in atto;
DELL'ANIMA 33

e s'intende in potenza propinqua e non rimota, fezione alcuna alla forma, e la forma ha la
perchè anco il sangue ha la vita in potenza medesima perfezione da sè sola che tutto il
rimota. E così avemo veduto, che l'anima diffi composto insieme; ma l'ha in un modo più
nita generalmente, sì che contenga l'anima ve eccellente e più perfetto. Perciocchè ella ha
getativa delle piante, la sensitiva degli animali tutta la sua perfezione da se stessa, senza di
bruti e la razionale degli uomini, non è altro pendenza da altri, ed il composto ha tutta la
che l'atto primo, ovvero forma sostanziale del medesima perfezione non da sè stesso e senza
corpo naturale organico, avente la vita in po dipendenza, ma dalla forma; onde viene ad
tenza. Dalla quale diffinizione seguita (come averla in modo più ignobile e più imperfetto.
conoscono gli intendenti) che l'animale, cioè E per questo non è dubbio nessuno appresso
tutto il composto di materia e di forma, sia i migliori filosofi, che la forma sola da sè, cioè
uno solo principalmente e per sè. E di questo l'anima è più nobile e più perfetta che tutto
e cagione l'anima massimamente, perciocche il composto insieme, cioè l'anima ed il corpo.
l'atto e la potenza s'uniscono insieme senza E per farlo più chiaro con un esempio più
alcuno mezzo, onde benchè l'uomo sia com manifesto chi mi dimandasse: quale è più per
posto d'atto e di potenza, ovvero di forma fetto, o Dio solo senza il mondo, o Dio con tutto
che è l'atto, e di materia che è la potenza, il mondo insieme? gli risponderei egualmente
non è però nè si può chiamare due cose, ma e nel medesimo modo; perciocchè tanto è per
una sola; la quale risulta di quelle due, cioè fetto Dio da se solo, quanto insieme con tutto
dell'anima, che è la forma, e del corpo che il mondo, perchè il mondo non aggiugne per
è la materia. E risulta tanto perfettamente ed fezione alcuna a Dio, e Dio ha in sè tutte le
unitamente, che niuna cosa è più una in se perfezioni che si possono immaginare. Ora ci
stessa e più unita e perfetta, che tutto il com resterebbe a disaminare d'una in una tutte le
posto insieme. E per questo diceva il filosofo, parole di questa diffinizione, ma perchè sopra
che gli affetti ovvero passioni non erano nè ciascuna si potrebbero fare mille dubitazioni e
dell'anima sola, nè del corpo solo, nè di tutto i movere infinite quistioni, noi non parendoci
il composto cioè dell'uno e dell'altro insieme; che ne il tempo nè il luogo lo patisca, non che ri
onde tanto è a dire (diceva egli nel primo del cerchi, lasciatele tutte da un canto, verremo,
l'anima), che l'anima si dolga o si rallegri, | coll'aiuto di Dio, alla quarta ed ultima parte,
quanto a dire, che ella fili o che ella tessa. dove si trattano cose non men belle e più utili
E sebbene in tutte le lingue s'usano simili di queste.
modi di favellare, attribuendo l'operazioni ora
all'anima sola, come quando il Petrarca disse: PARTE QUARTA
– Alma che fai, che pensi? E Dante: – 0
mente, che scrivesti ciò ch'io vidi ; ed ora al Della divisione dell'anima nelle sue parti,
corpo solo come: – Pie miei, vostra ragion la ovvero potenze ed operazioni.
non si stende, sono nondimeno impropi questi
parlari, e più secondo l'uso, che secondo la Perchè il genere dell'anima (come s'è ve
verità. duto di sopra) non è univoco ma equivoco ana
Ma per tornare all'unità del composto, logo, però non può l'anima avere una diffini
niuno, ch'io creda, dimanderà mai perchè una zione sola veramente; ma è necessarie ricer
palla di legno o di qualunque altra materia, care ad una per una tutte le parti e spezie
sia una cosa sola, essendovi la forma, cioè la sue. Perciocchè a voler avere la scienza d'al
tondezza e la materia, cioè il legno, che sono cuno genere perfettamente, non basta la sua
due cose; perciocchè (come s'è detto di sopra) diffinizione sola, ma bisogna avere ancora le
l'atto e la potenza, ovvero la forma e la ma diffinizioni di tutte quante le sue spezie. Il
teria, non hanno bisogno di mezzo ad unirsi e che essendo vero in un genere univoco, molte
congiugnersi insieme; onde la tondezza, che è più per l'argomento che i Latini chiamano dal
la forma ovvero l'atto s'unisce col legno, che maggiore ovvero dal più forte (1), sarà vero
è la potenza e la materia, ovvero il subbietto in un genere equivoco, come avemo veduto
senza mezzo nessuno, e così nell'uomo ed in che è quello dell'anima, tra le cui spezie si ritrova
tutti gli altri composti. E di questo non po ordine, e vi si dà il prima ed il poi, essendo
teva rendere la cagione Platone e gli altri che prima di natura la vegetativa che la sensitiva,
dividevano l'anima in tre parti, secondo i tre e la sensitiva prima che l'intellettiva. Onde
membri principali del corpo. Seguita ancora avendo diffinito Aristotile l'anima secondaria
da questa diffinizione, che la forma sola sia più mente in questo modo: L'anima è il principio,
vero ente, cioè sia più veramente che non è mediante il quale noi viviamo, sentiamo, ci mo:
tutto il composto, cioè l'anima ed il corpo in iviamo ed intendiamo, ovvero discorriamo i noi
sieme. E se alcuno dubitasse e dicesse, come innanzi che passiamo più oltra, divideremº per
e questo possibile, conciossiacosachè il composto maggior chiarezza in questa quarta ed ultima
contenga e racchiuda in sè la forma, cioè l'a- parte tutte le potenze e virtù dell'anima se
nima e di più la materia, cioè il corpo (onde guitando Giovanni Grammatico, non già nel suo
par che seguiti di necessità che almeno tanto proemio, ove egli dice molte cose fuori e molte
sia nobile il composto tutto insieme, quanto contro la dottrina Peripatetica, ma nel terzo
la forma sola da sè) dico, che la materia e
tanto imperfetta, che ella non aggiugne per (1) L'argomento a fortiori. (M.)
VARCHI
34 LEZIONE
dell'anima, dove egli dice (lasciate indietro le zia de' termini, cioè del predicato, e del sub
potenze vegetative e le appetitive, e trattando bietto; ancora che Giovanni Grammatico dichia
solamente delle comprensive e cognoscitive, cioe ri questo luogo in due modi: argomento assai
di quelle che apprendono e conoscono) che chiaro, che non gli soddisfaceva nè l'uno, nè
queste tali virtù e potenze, o elleno sono e si l'altro, essendo la verità una sola. E questo
maneggiano intorno alle cose esteriori e sono intelletto semplice del quale noi ragioniamo è
fuori dell'anima: o intorno alle cose interiori sempre ed in ogni luogo verissimo e mai non
e sono dentro l'anima. Se nel primo modo, si può ingannare, il che appare manifestamente
cioè intorno alle cose esteriori, questa tal po in tutte quelle proposizioni universali, che i
tenza e virtù che le comprende e conosce, per Greci chiamano principi ed assiomi, i Latini
dir così, si chiama senso; perciocchè il senso proloqui e degnità, e noi volgarmente massime:
comprende e conosce le cose di fuori solamente. e Dante le chiamò prime notizie dell'intelletto,
Se nel secondo modo e circa le cose interiori, eome quella di sopra: Il tutto è maggiore della
allora questa tal virtù e potenza che l'apprende partc; e quell'altra: D' ogni cosa è vera la
e conosce si chiama intelletto, pigliando qui negazione o l'affermazione; cioè, che d'ogni
intelletto largamente e comunemente: percioc cosa si può dir veramente o che ella è o che
chè solo l'intelletto apprende e conosce le cose ella non è.
di dentro, e che sono nell'anima. Ma lasciando queste cose che si sono dichia
Ora questa operazione dell'intelietto nelle rate nella loica, torno a dire che se quella ope
cose di dentro può essere in due modi, o circa razione è nel secondo modo e circa il sillogi
le cose singolari e particolari, come sono tutte smo, cioè, che usi nell' intendere le cose e si
le cose, che caggiono sotto il senso, cioè che serva del sillogismo, allora cotale virtù si chia
si possono o vedere o udire o fiutare o gu ma appresso i Greci Aixvoia: i Latini non
stare o toccare, ed allora si chiama fantasia, hanno nome che io sappia da significarla: i
ovvero immaginazione: o ella è circa gli uni Toscani la sprimono felicissimamente e la chia
versali i quali non caggiono sotto il senso, ma mano discorso. E da loro l'hanno tolta i filo
si trovano ed hanno l'essere solamente nell'a- sofi moderni chiamandola ora discorso, ed ora
nima, quale è esso uomo, come diceva Platone, virtù discorsiva, e questa compone e divide; e
ed esso animale, cioè la forma, ovvero specie non è senza meraviglia che mai Aristotile non ne
dell'uomo e dell'animale, che egli chiamava faccia menzione in luogo alcuno, non usando mai
idea, ed allora si chiama intelletto non comu di questo nome Asd vota cioè discorso, sebbene
nemente (come di sopra) ma propiamente. Di usi questo verbo ºravasoua, cioè discorrere. Se
nuovo questa operazione dell'intelletto, la quale tale operazione e nel terzo ed ultimo modo ed
è nell'anima e circa le cose universali può es è più imperfetta del sillogismo, allora si può
sere in tre modi; perciocchè o ella è più per considerare in due modi: perciocchè, o ella
fetta del sillogismo, o ella è intorno al sillo è intorno alle cose speculative, o intorno alle
gismo, o ella è più imperfetta del sillogismo. cose operabili da noi. Se nel primo modo e
Se ella è nel primo modo e più perfetta del circa le cose speculative, allora cotale virtù si
sillogismo, cioè tanto alta, nobile e perfetta, chiama scienza; perchè la scienza non è altro
che ella non abbia di bisogno nell'intendere che un abito speculativo acquistato con ra
le cose del sillogismo, cioè del discorso, ma gione. E se ella e nel secondo modo, cioè circa
l'intenda nella prima vista subito e ad un trat le cose operabili da noi, anco, allora è di due
to tosto che se le appresentano senza dis maniere: perchè o ella è circa le cose che noi
corrervi sopra, allora questa virtù si chia operiamo senza consiglio, e questa si chiama
ma intelletto, e qui si piglia intelletto non arte, perciocchè l'artefice non consulta, ma
comunemente come nel primo modo, nè pro mediante i propi principi inferisce le propie
piamente, come nel secondo, ma propiissima conclusioni; o ella è circa le cose ehe noi
mente, cioè intelletto semplice, e si chiama operiamo con consiglio, e questa si chiama pru
semplice, perchè egli non divide e non com denza: la quale, sebbene non è virtù mortale,
pone, non avendo bisogno per la sua per per essere (come abbiamo detto) nell'intellet
fezione di composizione, nè di divisione. Il to, è però come capo e quasi regina di tutte
che non avviene negli altri e nella fantasia, le virtù mortali.
la quale divide e compone, come diremo al Ma perchè questa divisione ancora che sia
luogo suo nella seguente lezionc. E non è altro verissima non è perfetta, non comprendendo
questo intelletto semplice, se non l'apprensione tutte le potenze dell'anima, e perchè pare a
ovvero comprendimento dei termini, e delle pa molti piuttosto Platonica che Aristotelica, pe
role semplici ed incomplesse, come, esempligra rò noi, desiderando di soddisfare a tutti, ve
zia, questa proposizione: Ogni tutto e maggiore dremo di ridurre in più brevità e maggiore
della sua parte; la quale ciascuno conosce essere agevolezza, che potremo quella che fa Aristotile
verissima tosto che egli l'ode, senza altro discorso, medesimo nel sesto libro dell'Etica, e diremo,
solo che egli sappia ed intenda i termini, cioè che che le potenze dell'anima sono e si possono
cosa sia tutto, e che cosa sia parte. E questo considerare in due modi. Perciocchè, o elleno
voleva dire Aristotile nel primo della Poste si travagliano circa le cose singolari, o circa
riore, quando disse: Noi conosciamo i principi le cose universali. Se circa le cose singolari,
come conosciamo i termini: cioè la notizia dei allora tale potenza ed operazione si chiama
principi si genera in noi dalla semplice noti senso: se circa le cose universali, allora tale
DELL'ANIMA 35
operazione e potenza, si chiama intelletto. Da to, ovvero considerazione, non altramente che
capo: se ella è circa i singolari, anco questo è in un cerchio medesimo il concavo ed il con
in due modi: perchè o ella è in presenza dei vesso, ed in una stessa via l'erta e la china: op
sensibili, cioe, piglia e riceve le cose che le pure vi sia differenza reale ed essenziale, cioè,
sono presenti; ed allora cotale potenza si chia che siano diverse e differenti veramente e real
ma i sensi esteriori, i quali (come sa ciascuno) mente; perchè è quistione lunga molto e molto
sono cinque: viso, udito, odorato, gusto e tat difficile tra Scoto, e S. Tommaso e gli altri
to: o ella è in assenza e lontananza de'sensi dottori latini, si dirà pienamente nella seconda
bili, ed allora si chiama senso interiore: e per lezione, dove tratteremo particolarmente di
che il senso interiore si divide in più parti, tutte quante queste potenze. Ho detto fra tutti
(come diremo lungamente nella seconda lezio i dottori latini, in fuori però che Giovanni
ne) intendiamo qui principalmente della fanta Gandavense, perchè tra Greci migliori non cadde
sia. Ma se questa virtù è circa gli universali, questa dubitazione e difficoltà; conciossiacosa
anco allora può essere in più modi, perchè che essi tengono per fermo, che secondo Ari
o ella e indifferentemente circa il vero ed il stotile, nell'uomo siano due anime distinte e
falso, cioè, tanto può essere vera quanto falsa, separate realmente, una razionale, e l'altra ir
ed allora si chiama opinione: o ella e sempre razionale, eccetto Giovanni Grammatico che ne
circa il vero solamente, in guisa che non può pone tre, e Simplicio che ne pone una sola
essere falsa in modo nessuno, e questo può mente, come fanno anco i teologi cristiani. Ed
essere in due modi medesimamente. Perchè o a così tenere e fermamente credere, non solo
ella è l'apprendimento dei principi e termini ci persuade la verità della santissima religione
incomplessi e semplici, e questo si chiama in nostra, ma ci sforza ancora l'autorità dei sacri
telletto semplice, il quale non è altro che l' a canoni; perciocchè avendo questa opinione, di
bito dei principi, cioè, di quelle proposizioni sputata lungo tempo, suscitato anticamente di
grandissime che sono notissime incontamente a molti scandoli ed eresie nella Chiesa, fu fatta
chiunque le ode senza avere altra cognizione una costituzione, per la quale si scomunicano
che de termini, chiamate da noi massime, co tutti quelli che credessero che nel corpo umano
me dicemmo poco fa. O ella è l'abito d'al fosse più d'un'anima sola. E così dovemo cre
cuna conclusione dimostrata per li suoi propi, dere e tenere noi, ancora che Aristotile le fac
veri ed immediati principi; e questo ancora è cia due, come vedremo diffusamente nel luo
in due modi, perchè o ella e circa le cose con go suo.
templative ed allora si chiama scienza, o ella Per ora basti sapere, che queste potenze del
è circa le cose operabili da noi; e questo è l'anima sono di due ragioni. Alcune sono cºi
medesimamente in due modi, perciocchè o le chiamano organiche ovvero strumentali. E que
operiamo con consiglio, e questa si chiama pru ste sono tutte quelle che nell' azioni ed opera
derea, o le operiamo senza consiglio, e questa zioni loro hanno bisogno e si scrvono d'alcu
si chiama arte. E così aggiuntaci la sapienza, no organo, ovvero strumento corporale, come
che non è altro che l'abito o la scienza delle sono tutte le potenze dell'anima vegetativa e
cose nobilissime e perfettissime, avemo veduto sensitiva; perciocche queste non possono eser
i cinque abiti dell'intelletto: arte, prudenza, citare l'operazioni ed azioni loro senza qual
scienza, sapienza, ed intelletto, i quali sono sem che strumento corporale. Perchè come la po
pre veri e mai non s'ingannano. tenza visiva ha bisogno e si serve nelle sue
Ma perche questa divisione (oltra il non es- | operazioni dell'occhio, così si serve ed ha bi
sere anch'ella perfetta del tutto non compren- | sogno l'uditiva dell'orecchia: e nel medesimo
dendo tutte le parti e potenze dell' anina) è modo di tutte l' altre. Alcune si chiamano e
molto sottile e malagevole, noi, per essere in sono inorganiche, e queste sono tutte quelle,
tesi ancora da quelli che non hanno studiato, le quali nelle loro operazioni non hanno biso
diremo più grossamente e più agevolmente, che gno d' alcuno strumento corporale, come sono
l'anime in genere sono tre appunto: l'intelletto e la volontà: perciocche noi pos
I. Vegetativa. II. Sensitiva ovvero irrazionale. siamo intendere e vedere senza adoperare al
III. Razionale ovvero intellettiva. cuno strumento, come si dirà più chiaramente
E che i modi ovvero gradi del vivere sono quando favellaremo di loro e dell'immortalità
quattro: - dell'anima intellettiva nelle lezioni che ver
I. Vegetativo. II. Sensitivo. III. Motivo di ranno, nelle quali, oltra l'altre cose, dichiare
luogo a luogo. IV. Intellettivo. remo quattro dubbi importantissimi e disidera
E che le potenze ovvero virtù dell'anima tissimi da ognuno (1). Primo: se l'anima e º
sono cinque: tale o immortale. Secondo: se l'anima e mºl
- l vegetativa. II. Sensitiva. III. Appetitiva. tiplicata di numero a guisa che ciascunº n'ab
º IV. Motiva di luogo a luogo. V. Intellettiva. bia una, oppure sia una sola in tutti gli no
Orase queste, o parti, o spezie, o forze o virtù, mini. Terzo: se l'anima e la forma sostanziale
o facoltà, o uffici, o potenze che le dobbiamo dell'uomo, e gli dà l' essere e l'ºperazioni, º
chiamare, siano una cosa medesima coll'anima, no, ma sia solo assistente come il nocchiero,
-
in guisa che tra loro non sia altra differenza,
che razionale, e mediante l'operazione dell'in (1) Il Varchi o mai non liberò la promessa qui fatta, di
telletto (come dicono i loici), cioe, che non trattare queste quistioni, ovvero si sonº perdute, o giacciono
siano differenti se non d'abitudine e di rispet tuttora inedite le Lezioni, che ne discorrevano. (M.)
36 LEZIONE

ovvero piloto alla nave. Quarto: se nell'uo tra sè non tanto gravissime autorità quanto ra
mo sono una o più anime distinte realmente, gioni efficacissime così di filosofi come di medici
E qui essendo fornite quelle quattro parti eccellentissimi. Al che avendo risposto Sua Ec
che io proposi nel principio di voler dichia cellenza Illustrissima non meno giudiziosamente
rare, farò fine alla presente lezione, rendendo (come fa sempre) che con verità, che questo ap
umilmente prima a Dio del suo aiuto, e poi a presso lei non aveva dubbio nessuno,facendo tutti
voi della vostra attenzione, immortali grazie ed i calori gli effetti medesimi, ed avendone raccon
infinite. tati molti esempi parte veduti da lei propia, e
parte uditi da altri, io soggiunsi che in confer
mamento dell'opinione di Sua Eccellenza, e per
maggior certezza della quistione dell'Alchimia,
disputerei ancor questa se i calori fossero tutti
LEZIONE UNA della medesima spezie o no, essendo cotale ma
teria, così a filosofi comune come a medici. Il
SUI CAL ORI
che avendo fatto in questi pochi di (per tosta
- mente disobbligarmi) con quel modo che ho sa
puto migliore, mi sarebbe paruto di fare ingiu
ria a me stesso ed all'antichissima amistà no
BENEDETTO VARCHI
stra, se l'avessi ad altra persona indiritta e de
AL MAGNIFICO dicata che a V. S. medesima. La quale, oltre
l'esserne stata cagione principale, più (sono cer
e suo Molto onoraANDO MESSER to) per veder quello che io ne diceva, che per
dubbio che ella n'avesse, potrà per la sua dot
ANDREA PASQUALI trina e vorrà per la sua cortesia, non pur leg
gerla, ma correggerla ancora, del che non solo
mEDIco DELL'ILLUsTRIssIMo ED EccELLENTIssIMo io le arò obbligo, ma tutti quelli che, alcun
sIGnoR cosIMo MEDICI, DUCA DI FIRENZE. tempo leggendola, ne trarranno o frutto alcuno o
piacere. Ed a questo fine mi sono allargato in
molte cose, delle quali parte non erano necessa
Sun. i modi dell'insegnare e trattare al rie, e parte si potevano dire brevissimamente,
cuna difficoltà in qualunque scienza, sono ſati avendo avuto maggior riguardo all'utilità dei
cosi e malagevoli tutti in ciascuna lingua per leggenti che o a me o all'opera stessa od a
le molte e diverse ragioni raccontate altrove lun V. S. alla quale offerendomi tutto e raccoman
gamente: tuttavia a me pare che il fare delle dandomi, prego Dio che la conservi sana e felice.
quistioni sia malagevolissimo e faticosissimo so Di Firenze, la vigilia della Pasqua di Cep
pra gli altri. Perciocchè (oltra molte altre ra po (1), nel 1544.
gioni) egli avviene spessissime volte, che nel dispu
tare un dubbio solo ne nascono molti non punto
meno, anzi bene spesso vieppiù ed utili e diffi
cili che quello stesso non è, del quale si qui QUISTIONE SE I CALoni soNo DIFFERENTI TRA SE,
stiona principalmente: onde è necessario o di o PURE soNo TUTTI D' UNA MEDESIMA spEzIE
chiararli tutti quanti (il che è non meno lungo SPEZIALISSIMA.

che sconvenevole, anzi piuttosto impossibile), o che


chi legge non n intenda perfettamente niuno, e
resti nella medesima dubitazione ed incertezza di Fu anticamente ed è ancora oggi contesa
prima se non maggiore. Ed è possibile che i poeti non picciola, non solo tra i medici ed i filosofi,
antichi, i quali coprirono tutte le dottrine sotto ma ancora tra i medici stessi ed i filosofi mede
il velame de versi loro, volessero significare an simi, se tutti i calori fossero un medesimo, o
cor questo per lo ritrovamento della favola del pure diversi fra loro. Perciocchè furono alcuni
l'Idra, a cui tagliato un capo ne rinascevano i quali dissero, che i calori non solamente erano
sette altri subitamente più vivi di quello di pri differenti l'uno dall'altro di numero e di spe
ma e più spaventosi. La qual cosa ho ritrovata cie, ma ancora di genere. Alcuni altri per lo
verissima sì in molte altre quistioni, e sì in quella contrario affermarono, che i calori non sola
fatta ultimamente da me sopra l'Alchimia, la mente non erano differenti l'uno dall'altro nè
quale leggendo io in presenza di V. S. all'Ec di genere, nè di spezie, ma nè anco di numero:
cellenza dell'Illustrissimo Duca Signor nostro in guisa che come la prima opinione teneva,
c padrone osservandissimo: ed avendo detto per che qualunque calore fosse diverso e differente
provarla vera, che tutti i calori, come calori da qualunque altro calore, di maniera che niuno
erano d'una spezie medesima, V. S. come quella fosse il medesimo: così teneva la seconda che
che ben conobbe che sopra questa proposizione niuno calore fosse differente e diverso da niuno
si fondava tutta la verità o falsità della qui altro calore di maniera che fossero un mede
stione, disse incontamente non già affermativa simo tutti quanti. E ciascuna di queste due
mente, ma per modo di dubitare, non essendo
meno modesta che dotta, come non le pareva che (1) Pasqua di Ceppo dicesi la Solennità del Natale di ci
quella proposizione fosse così vera assolutamente sto dall'uso di darsi in casa i ceppi, cioè le mance º do
come l'area che io la presupponessi, avendo con nativi. (M.)
SUI CALORI 37
opinioni, ancorache dirittamente contrarie l'una confusa, divideremo tutta questa quistione in
all'altra, fonda l'intenzione sua non meno sopra tre parti principali.
ragioni che sopra antorità, allegando molte cose Nella prima delle quali porremo distinta
non tanto in pro'e favore della parte sua, quanto mente tutte le migliori ragioni e più forti au
contra e in disfavore della parte avversa. E quin torità che sapremo in favore della prima opi
di è, che molti a questa appigliandosi e molti a nione, la quale noi stimiamo falsa.
quella, siccome diversamente credono, così varia Nella seconda dichiareremo ampiamente tutte
mente favellano. E molti ancora non ben risoluti le parole ed i termini della quistione: massi
non sapendo a chi più credersi stanno sospesi mamente che sia calore, quanti siano, onde
e dubitevoli; il che non pure avviene in que nascano, e come si chiamino.
sta dubitazione sola, ma in altre quasi infinite, Nella terza ed ultima porremo le ragioni
con non minore danno e dispiacere degli impa cd autorità della seconda opinione, la quale
ranti, che colpa e vergogna di quelli che insegna crediamo verissima, e risponderemo alle ra
no. Ma volesse Dio che così fosse agevole il ri gioni ed autorità allegate incontro. E tutto fa
trovare la verità in molte altre disputazioni, remo con quella agevolezza di parole e distin
come in questa non sarà difficile il mostrare zione di cose, che da Dio, datore di tutti i
l'errore e la falsità di coloro che pensano, che beni, ci saranno concedute maggiori e più chia
i calori come ed in quanto calori, non siano re. Dico dunque venendo alla prima parte, che
tutti un medesimo, ma diversi. La quale opi le più vive ragioni di quelli che tengono i ca
nione è proceduta senza alcun dubbio (come lori non essere un medesimo, ma diversi, sono
moltissime altre) dalla equivocazione, cioè dal queste. -

pigliare un nome per un altro, scambiando le


significazioni de vocaboli, per lo non sapere PARTE PRIMA
nè distinguere i termini, nè intenderli. La qual
cosa, tuttocchè oggidì si stimi pochissimo, è RAesIoNI

però di grandissima importanza: conciossiacosa


chè buona parte delle dubitazioni e dispute Ragione prima. La diversità del nascimento
moderne nascono dalla dubbiezza e confusione diversifica le specie, cioè ogni volta che due,
delle voci e de vari significati delle parole pi o più cose nascono diversamente, elle sono an
gliate diversamente, la propietà delle quali cor diverse di specie. E che questo sia vero,
pare in questi nostri tempi non tanto fatica cioè che il modo diverso della generazione ar
a maestri d'insegnarla, quanto vergogna a di guisca e mostri diversità specifica nella cosa
scepoli d'impararla. Nè s'accorgono che chiun generata, si prova dal Commentatore nell'ul
que non intende bene le parole, non può bene timo libro della Fisica al testo del commento
intendere i sentimenti d'esse, e per conse quarantesimosesto, e nel primo libro della Ge
guenza le cose, le quali mediante le parole si nerazione al capitolo secondo. Or chi non sa,
significano. Per la qual cagione la prima cosa che il calore del sole nasce diversamente ed
che fece il maestro di tutte le scienze, fu l'in in altro modo che il calore del fuoco? Ed il
segnare l'equivocazione, cioè la distinzione dei medesimo diciamo del calore che nasce dai
nomi che significano più cose; perciocchè se movimento locale e di tutti gli altri calori;
uno intendendo del cane segno celeste, chia onde seguita che i calori siano diversi tutti e
mato Sirio dicesse (come fanno i poeti): Il non d'una specie medesima.
cane abbrucia e fende la terra, ed un altro Seconda. Ogni volta che l'agente che fa al
intendendo del cane terrestre che abbaja, glielo cuna cosa, e la materia della quale si fa quella
negasse, amendue direbbero vero, ma sareb tal cosa sono diversi e differenti di specie,
bero in equivoco; talchè mai non converreb anco quello che nasce e risulta di loro è dif
bero; e quanto più ragioni ed autorità allegas ferente e diverso di specie, come ne insegna il
sero ciascuno per la parte sua, ancora che ve Filosofo nel duodecimo libro della Scienza Di
rissime tutte, tanto più confonderebbero sè ed vina al testo undecimo. Ora il calore del sole
altrui, intricandosi sempre maggiormente in si produce e genera mediante la riflessione e
fino a tanto che non venissero alla distinzio ripercotimento dei raggi solari: il calore del
ne, e scoprissero la fallacia e l'inganno ca moto locale si genera e produce mediante la
gione della loro discordia. Così è avvenuto (si disgregazione ed assottigliamento dell'aria: il
può dire) nella presente disputa come potrà calore del fuoco elementare si genera in altro
giudicare per sè stesso ciascuno. Onde, benchè modo che il naturale, come si vedrà di sotto;
io potessi mostrare brevemente che tutti i ca dunque non sono della medesima specie e na
lori, come calori, sono della medesima spezie tura tutti quanti, anzi diversi e differenti, aven
spezialissima, mi piace nondimeno, in benefizio do gli agenti diversi,
di quelli che non sono esercitati, distendermi Terza. Nessuna specie medesima si può ge
alquanto si per essere meglio inteso, avendo nerare equivocamente, cioè a caso, come dal
a favellare di cose, non tanto difficili da sè cielo, ed univocamente, cioè dalla natura, co
quanto intricate da altri; e sì perchè la pre me dagli individui della medesima specie, sc
sente materia è non meno utile a filosofi che condo l'opinione del dottissimo s. Tommaso e
necessaria a medici, ed a tutti gli altri gene di molti altri filosofi: dunque il calore gene
ralmente così grata come piacevole. Laonde rato da raggi del sole e quello generato dal
per procedere ordinatamente in materia tanto nostro fuoco non sono della medesima specie,
38 LEZIONE
ed il medesimo s'intende del calore generato | razionale, dove il calor nostro elementare con
dal moto locale e di tutti gli altri. suma e distrugge tutte le cose a cui s'appiglia.
Quarta. Tutte le cose che si generano, si Dunque essendo le operazioni diverse più che
generano da un univoco, cioè da una cosa della di genere, non potranno le sostanze essere
medesima specie, come dice Aristotile nel do della medesima specie; e così il calore del cielo
dicesimo della prima Filosofia. I calori si ge e quello del fuoco saranno calori equivoci, e
nerano da cose differentissime, generandosi dal non univoci, cioè avranno il medesimo nome
cielo, dal fuoco e dal movimento locale, co solamente, ma non già la medesima diffinizio
me s'è mostro di sopra, e meglio si mostrerà ne. Ed il medesimo potremo dire del calore
di sotto. Dunque non sono d'una medesima appropiato e nativo, e dello strano ed avven
specie. E per queste ragioni principalmente tizio; conciossiachè uno come naturale conservi
dicono che i topi e gli altri animali generati e vivifichi, l'altro come innaturale distrugga
di materie putride e corrotte, non sono della ed ammazzi. E chi potrebbe creder mai, che
medesima natura e spezie che i topi ed altri il calore del sole che imbruna e fa neri gli
animali generati di seme; la qual cosa noi cre uomini (come testimoniano i Mori) fosse il me
diamo essere vera come proveremo lungamente desimo, che quello del fuoco che non cagiona
e chiaramente (Dio concedente) nella quistione cotali effetti? O chi dubita che il calore del
propia. Nella quale ci serviremo di tutti que fuoco mai non potrebbe maturar l'uve come fa
sti medesimi argomenti: ed a questo effetto quel del sole? Dal che seguita manifestamente
ancora mi sono disteso e distenderò in que che i calori non siano i medesimi, nè d'una
sto luogo, così nel provarli ora, come poi nel stessa specie tra loro, ma diversi.
riprovarli, affine che uno stesso tempo ed una Settima. Come le specie del fuoco sono di
fatica sola serva ed a questa quistione ed a verse, perciocchè altro è il fuoco senza fiamma,
quella, per non avere a ridir sempre le cose come nei carboni accesi, ed altro è la fiamma,
medesime. Altramente bastava qui mostrare la la quale non è altro che fuoco acceso; così
diversità del significato di questo termine e debbono essere diverse le specie nascenti da
voce calore, benchè molti (non essendo eser essi fuochi. Ma che più ? Non è altro il fuoco
citati) parte non m'avrebbero inteso, parte sa puro nella spera ed elemento suo propio, il
rebbero rimasi dubitosi e non meno incerti quale non cuoce e non risplende, o pochissi
che prima, avendo sempre paura di questi stessi mo, ed altro il fuoco nostro terrestre mesco
o d'altri argomenti simili, i quali medianti que lato e non puro, il quale risplende e cuoce?
sti si scioglieranno agevolissimamente. E però Così dunque altro sarà il calore che nasce in
passeremo alla quinta ragione. un modo e da uno agente, ed altro quello che
Quinta. Il fuoco è caldo e secco, o piutto nasce in un altro e da un altro agente. E che
sto caldissimo e secchissimo: l'aria è calda ed il fuoco come si spegne, così ancora nasca e si
umida; l'umidità e la siccità sono differenti di produca in più diversi modi agevolmente, è ma
specie: così dunque devono essere differenti nifestissimo a ciascuno: perciocchè (oltre che
di specie il calore del fuoco ed il calore del un lume solo ne può accendere infiniti) rac
l'aria: perciocchè il calore del fuoco ricerca conta Lucrezio, poeta leggiadrissimo e filosofo, s
ed ha bisogno della secchezza, ed il calore del che nel principio del mondo si trovò il fuoco
l'aria ha bisogno e ricerca l'umidezza, ed il ca a caso, uscendo dei rami degli alberi piegati i
da venti, e strofinandosi l'uno all'altro cotali º
lore dell'aria ha bisogno della secchezza, ed
il calore dell'aria ha bisogno e ricerca l'umi favilluzze accese. Nè è dubbio (come ne mo
dezza. Ed il medesimo diremo del calore pro stra il dottissimo e coltissimo Sannazzaro nella
a,
pio ed interno, il quale ha bisogno dell'umido sua coltissima e dottissima Arcadia) che fre
a
radicale onde si pasca, non altramente che la gando insieme per buona pezza alloro ed edera
fiamma dell'olio, o d'altro simile nutrimento, si caccia fuori del fuoco. E chi non ha veduto
senza il quale non viverebbe; e così vengono alcuna volta accendersi il fuoco dagli specchi º
ad essere di specie e materia diversa l'uno concavi, rivolti verso la spera del sole per li
dall'altro tutti quanti. raggi che si congiungono ed uniscono ad un º
Sesta.Le sostanze che sono le medesime, hanno punto solo? Accendesi ancora il fuoco dal mo
necessariamente le medesime operazioni, e fan vimento locale, mediante la rarefazione e il dis
no i medesimi effetti. Onde noi (procedendo gregamento dell'aria quando si spezza, e trita
sempre ciascuna cognizione nostra dai senti come si vede nelle pietre focaie battute dal
menti e non mai d'altronde) non avemo mi fucile e negli strali che hanno il verrettone (1)
glior via a conoscere qualunque cosa che con e la punta di piombo, o altre cose somiglianti,
siderare l'operazioni e gli effetti d'essa; e quelle che tratte per l'aria velocemente si riscaldano
cose, le operazioni delle quali sono diverse e ed alcuna volta si struggono in quel modo,
differenti, sono anch'esse differenti e diverse e per quelle ragioni che avemo dichiarato al
tra loro. Ora chi non vede che gli effetti del trove bastevolmente. Pare adunque necessario
calore solare sono diversissimi da quelli del non che ragionevole che i calori, i quali na
calore nostro elementare? Conciossiacosachè il scono da tanti e tanto diversi fuochi, non pos
calore celeste è perfettivo e salutevole a ma
raviglia, dando alle piante la vita vegetativa, (1) Specie di freccia grossa che lanciavasi colla balestra;
agli animali bruti la vegetativa e la sensitiva, onde Giovanni Villani: Cominciarono a saettare con loro ver
ed agli uomini la vegetativa, la sensitiva e la rettoni, cu)
SUI CALORI 39
sano essere nè i medesimi, nè d'una medesima essere contrari, poichè scacciano ed ancidono
specie. Oltre questo chi potrebbe mai farsi a l'uno l'altro; ed i contrari, non che siano i
credere che il calore del sole, il quale è vir medesimi o della spezie medesima, non possono
tuale e non formale (conciossiacosachè il sole stare insieme in un luogo medesimo. Nè si ma
non sia nè caldo nè freddo) sia il medesimo ravigli o sbigottisca alcuno, se non intende che
col calore elementare, il quale è caldissimo, cosa sia calore naturale o calore strano, per
sebbene non riscalda? Il che gli avviene per chè questi termini e tutti gli altri si dichiare
la grandissima radezza sua, e conseguentemente ranno nella seconda parte lungamente, senza
per la pochissima materia, essendo il più rado la quale non si può intendere nè questa pri
corpo che si trovi tra tutti i corpi naturali, ma, nè l'ultima, se non da quelli, che non
ed il più leggiero, come la terra suo contrario sono al tutto nuovi e rozzi nelle cose della
è il più denso ed il più grave; ancora che al filosofia e della medicina.
cuni, e tra questi il dottissimo Zimara. e M. Dice ancora il medesimo Arabo nel secondo
Vincenzo Maggio (1) suo discepolo e mio pre capitolo della sostanza del mondo, cioè della
cettore, credevano che il piombo e l'oro sia materia del cielo queste stesse parole in sen
più grave della terra pura. La quale opinione tenza:
(s'io non sono al tutto alieno da ogni buona » Questa voce calore si dice equivocamente
filosofia) è non meno inintelligibile che impos se dal calore del fuoco e dal calore celeste; per
sibile, come può vedere apertamente ciascuno » ciocchè il calore del fuoco corrompe, ed il
che creda che la terra (della pura favello sem » calore de corpi celesti dona la vita vegeta
pre) sia grave semplicemente, e sappia che » bile, sensibile ed animale ». Disse queste
cosa voglia dire semplicemente grave. Ma tor parole e massimamente del fuoco illuminante,
nando alla materia nostra dico, che come i perchè intendessimo del nostro fuoco, il quale
calori di sopra raccontati sono tutti diversi da riluce ed illumina, per lo essere egli in umido
tutti gli altri, così il calore innato e complan denso, dove il fuoco puro nell'elemento e nella
tato essendo secondo natura, è diverso dal ca spera sua non risplende o molto poco per le ra
lore alieno ed acquistato, il quale è contro na gioni dette di sopra. Ora se il calore nostro è
tura. E così di tutti gli altri, i quali dichiare equivoco a quel del cielo, tra l'uno e l'altro è
remo di sotto abbondevolmente, per quanto si la medesima differenza che tra una cosa viva
aspetta all'intelligenza della presente quistione, ed una dipinta, avendo solo il nome comune,
non ci curando in benefizio di quelli che sanno ma la sostanza e la natura diversa.
manco di noi, esser tenuti lunghi e forse stuc Il medesimo autore in quel suo libro, dove
chevoli da quelli che sanno più e massima trattò la medicina, il quale si chiama comu
mente in questa materia. La difficoltà della nemente Collecta, cioè raccolti e ragunamenti,
quale è nata (come ho detto di sopra) dalla nel secondo libro al diciottesimo capitolo la
confusione de' nomi; ed a me non pareva che sciò scritte queste parole medesime nella nostra
gli uomini senza lettere, a quali soli scriviamo, lingua:
avessero potuto riportarne utilità o diletto al i » Il calore naturale è differente di propie
cuno, se non avessimo dichiarato molte cose » differenze in ciascun membro, secondo le
particolarmente. Ed ho voluto non tanto per » operazioni, alle quali egli s'appropia e mas
seguir l'ordine degli altri, quanto per tenere » simamente nelle operazioni del nutrimen
i lettori più attenti, mostrare prima le diffi » to, ed in questo non è alcuno che discordi ».
coltà che sciorle, o dichiarare i vocaboli del Per le quali parole si vede manifestamente che
titolo della quistione, seguendo quell'ordine, il calore naturale ed appropiato è differente
il quale ho giudicato migliore in questa mate non pure da tutti gli altri calori, ma ancora
ria. E però avendo poste infin qui le ra da sè stesso in diversi membri. E benchè si
gioni che potevano in alcun modo traviarci potessero allegare a questo istesso proposito
dal buon sentiero, addurremo ora le autorità che molte altre autorità del medesimo Averrois,
ne potrebbero torcere dal vero. nulladimeno a noi pare che queste debbano
bastare, se per ventura non sono troppe; con
AUToRITA' ciossiachè la sola distinzione dei calori scio
glierà queste e tutte le altre agevolissimamente.
Dice Averrois, il grande Arabo, nel primo com Oltre l'autorità d'Averrois, grandissimo e fi
mento del quarto libro della Meteora queste losofo e medico, sono stati altri così antichi
parole formali nella nostra lingua Fiorentina: come moderni, e tra questi Ugo da Siena (1) di
» Il calore è di due maniere, naturale e non picciola stima e riputazione, i quali hanno
» strano; il naturale opera la generazione, lo creduto e scritto che i calori sieno distinti di
º strano la corruzione ». Di poi soggiugne: spezie; e Gentile da Fuligno (2), medico eccel
sº che l'usanza del calore strano è di spegnere lentissimo, afferma il medesimo nella quistione
se il naturale e risolvere le umidità che gli sono
º per subbietto ». Ora ciascuno sa che la ge
nerazione e la corruzione sono contrarie, on (1) Ugo Benzi, detto sovente Ugo da Siena, celebre me
dico, fiori nel secolo XV, e fu professore in Pavia e in altri
de il calore naturale e lo strano vengono ad Studi d'Italia. Vedi la Storia della Letteratura Italiana del
Tiraboschi, t. III, p. 9 della nostra Edizione. (M.)
(1) Vincenzo Maggi fu in Padova maestro di filosofia del (2) Gentile da Fuligno, chiamato il divino medico, fiori
Varchi. (M.) nel secolo XIV. Vedi il Tiraboschi, t. II, p. 326. (M.)
4o LEZIONE

che egli fece della febbre; dove s'ingegna di questo ordine e modo di provare il numero
provare che la febbre consiste di due calori, l degli elementi fu veramente divino. Il quale si
naturale e strano, non essendo altro che un ca mandi alla memoria diligentemente, perchè (co
lore strano aggiunto sopra il naturale. La qual me si vedrà di sotto) è argomento fortissimo
cosa è riprovata con grandissima e manifesta e dimostrativo a provare che tutti i calori siamo
ragione; conciossiachè la febbre è il medesi un medesimo.
mo calore naturale, ma acceso e mutato in Ora venendo alla sposizione dei termini, non
fuoco, cioè divenuto improporzionato ed igneo, mi parrà nè faticoso, nè disonorevole in pro'
ovvero focoso. Fece ancora il medesimo dot di coloro, che non sono esercitati, discendere
tore una lunghissima disputa, se il calore pro alla dichiarazione di molte cose, ancora che
dotto dal sole, e quello prodotto dal fuoco sono basse e notissime a quelli che sanno. Dico
di diverse spezie, e conchiude risolutamente che dunque che qualunque cosa, la quale è dif.
si, allegando per prova di questa sua opinione ferente da un'altra, è differente in uno di que
Averrois nel fine del secondo capitolo della so sti tre modi, o di numero o di spezie o di ge
stanza del mondo ovvero materia del cielo. E nere, come si è detto altra volta. Differenti di
qui porremo fine alle autorità per non essere numero si chiamano tutte quelle cose che sono
lunghi ancora dove non fa di bisogno; e ver d'una medesima spezie e conseguentemente di
remo alla seconda parte principale, nella quale un genere medesimo; come, esempligrazia, So
consiste il tutto. crate e Platone, i quali convengono nella spe
zie, perchè amenduni sono uomini: conven
PARTE SECONDA gono ancor nel genere, perchè amenduni sono
animali, cioè sostanza animata, sensitiva; ma
Prima che io venga a dichiarare il titolo della discordano in numero solamente, perchè sono
quistione particolarmente secondo quell'ordine due e non uno; e questa è la minor differen
che ne parrà più confacevole al proponimento za, che possa essere tra una cosa ed un'altra,
nostro, noteremo per più chiara intelligenza perchè le cose che non discordano in numero
di tutta questa materia, che quelle qualità che sono una medesima a punto e non più. Diffe
si chiamano da filosofi qualità prime, onde renti di spezie si dicono tutte quelle cose, le
nascono tutte le altre, sono quattro senza più: quali sono sotto un genere medesimo, ma non
il calore, ovvero la caldezza (per farle tutte sotto la medesima spezie, come l'uomo ed il
femminime, e d'una terminazione medesima), la cavallo: i quali convengono in genere, perchè
freddezza, la secchezza e l'umidezza. Delle quali l'uno e l'altro si chiama ed è animale; ma di
le prime due cioè la caldezza e la freddezza scordano nella spezie, perchè l'uomo è razio
sono attive, cioè fanno ed operano; e le altre nale ed il cavallo no. E sempre le cose, che
due, la secchezza e l'umidezza, sono passive, sono diverse di spezie, sono ancora necessa
cioè patiscono. E si chiamano così, non perchè riamente diverse di numero, come è chiarissi
anco le prime non patiscano o le seconde non mo. Differenti di genere si nominano tutte
facciano ed operino, ma perchè nel mescolarsi quelle cose le quali non sono sotto un genere
insieme e generare i misti, quelle hanno ragione medesimo, ma diverso, come un uomo o altro
di forma, e queste di materia, benchè diver animale ed una pietra; i quali non si compren
samente ciascuna in quel modo che s'è detto dono sotto uno stesso genere, conciossiachè
altrove lungamente. E di queste qualità sono gli animali vivono e sentono e la pietra no. E
composti gli elementi. - sempre le cose che discordano di genere di
E perchè esse non sono, se non quattro, però scordano anco di necessità di spezie e di nu
sono quattro gli elementi, non più; perchè mero; e questa è la maggior differenza che possa
secondo la regola de matematici, di quattro essere tra due cose, benchè alcune si dicono
qualità non si può fare più di sei combinazio esser differenti più che di genere, come disse
ni, due delle quali non consistono (come dicono il filosofo di corruttibile ed incorruttibile. E
i filosofi) cioè sono inutili ed impossibili; e qui intendiamo del genere fisico cioè naturale,
queste sono il caldo ed il freddo ed il secco e non del genere loico; conciossiache nella
e l'umido, i quali per lo essere totalmente con loica tutte le sostanze sono sotto il medesimo
trari non possono trovarsi nè stare insieme. predicamento; e così animale e pietra, loicamente
Dell'altre quattro possibili ed utili, il caldo parlando, sarebbero sotto un genere medesimo,
e secco costituiscono il fuoco, il caldo ed umido cioè nel predicamento della sostanza. E perchè
l'aria, il freddo ed umido l'acqua, il freddo chi non intende che cosa sia genere e che spezie,
e secco la terra; e così ciascuno elemento ha non può bene intendere questa divisione e dif
due di queste prime qualità. È ben dubbio, se ferenza, però dovemo sapere che il genere è
amendue sono in sommo cioè intensissime, uello (come s'è dichiarato nelle cinque voci
in guisa che il fuoco sia caldissimo e secchis i Porfirio) il quale si predica in che, cioè si
simo e così degli altri tre; oppure una ve ne dice di più cose; le quali cose sono differenti
sia, una intensissima e l'altra rimessa, di ma tra loro non solamente di numero, ma ancora
niera che la terra sia freddissima, ma non già di spezie, come questa voce animale, la quale
umidissima e cosi degli altri. Ma perchè questo si dice in che e predica, siccome degli uomi
non serve a noi in questo luogo lasceremo (sen ni, così di tutti gli altri animali parimente,
za disputarne ora altramente) che ogni uomo i quali sono differenti tra loro, non solo di
creda quello che gli piace più; e diremo che numero, ma di spezie. La spezie è quella, la
SUI CALORI 41
mute
quale si dice e predica in che di più cose; le Nel terzo luogo di materia, e non di forma
ſulle quali cose sono differenti solamente di numero, come un anello d'oro ed uno d'argento o di
thea piombo; e questa differenza è menomissima,
ma non già gli spezie, come questa voce uomo;
e cosi lione e cavallo ed altri tali, perchè tutti e però si chiama per accidente, come si può
in conoscere nel decimo della Metafisica al testo
gli uomini sono d'una spezie medesima, perchè
tutti sono razionali, e così tutti i lioni, perchè del commento ventesimoquarto. Onde è da sa
iniº tutti ruggiscono, come tutti i cavalli rignano ed pere, che come alcuna differenza è generica,
annitriscono. Ma è ben vero che come si trovano e alcuna specifica, e alcuna numerale, secondo
caº
generi di due maniere, genere generalissimo e che le cose sono differenti o di genere, o di
bra a
genere subalterno, così si trovano di due sorti spezie, o di numero; così alcuna si chiama
spezie, spezie subalterna e spezie spezialissima. differenza essenziale, o vero sostanziale e que
e ſi
Del genere generalissimo, il quale è sempre sta è vera, e propia differenza; ed alcuna si
l . genere e non mai spezie e del genere subalter chiama differenza per accidente, o vero acci
ni; no, il quale è ora genere e quando spezie, non dentale, e questa non è propia, e vera differen
tri
occorre favellare in questo luogo più distesa za, perchè non è differenza intrinseca, o vero
shes
mente. La spezie subalterna si chiama quella interna, come la prima, ma estrinseca ed ester
spezie la quale può essere e genere e spezie, na. E però quelle cose, le quali non sono dif
taº rispetto però a diverse cose. E considerata va ferenti nella sostanza ed essenza, o vero natura
ills riamente chiamasi genere, quando s'ha risguar loro, ma negli accidenti, si chiamano esseri
do alle cose inferiori e che le sono sotto: chia differenti estrinsecamente e non intrinsecamen
gia te, e cotali differenze sono improprie e di pic
masi spezie quando si considerano le cose su
ri; -
periori, e che le sono sopra. Come (per cagion ciolissimo momento.
d'esempio) questa voce uccello è spezie su E perchè gli esempi dichiarano le cose me
balterna, cioè può essere ora genere ed ora glio che le parole, dovemo sapere, che il
spezie, perciocchè uccello considerato verso le latte ed il sangue non sono differenti essen
cose che gli sono di sopra, cioè rispetto ad zialmente, ma accidentalmente, come n'inse
animale, non è genere ma spezie, conciossia gna Aristotile nel quarto libro della Generazio
chè tutti gli uccelli sono animali; ma se si con ne degli animali, nel quarto e quinto capitolo;
sidera l'uccello verso le cose che gli sono di perciocchè il latte è sangue non corrotto, ma
sotto, cioè rispetto o al tordo o al beccafico, più digesto e meglio smaltito. Similmente il
non è spezie ma genere, perchè li comprende mosto ed il vino sono differenti accidentalmente,
tutti, essendo tutti i tordi e tutti i beccafichi e non essenzialmente, perchè la mutazione,
uccelli e così degli altri. Spezie spezialissima che si fa dal mosto al vino nel bollire e cuo
si chiama quella spezie, la quale è sempre spe cersi, è accidentale, e non muta la spezie se
zie e non mai genere, come uomo, cane, lupo condo i filosofi. Dico secondo i filosofi, perchè
ed altri innumerabili; perciocchè tutti gli uo i teologi tengono il contrario tutti quanti, onde
mini non sono differenti d'altro che di nu disputano se si può, ed è lecito consacrare nel
mero, e così tutti i cani e tutti i lupi ed altri mosto, come col vino, e rispondono di no; per
tali quasi infiniti. E benchè queste cose non ciocchè il vino ed il mosto sono differenti
meno lunghe che fastidiose si siano dichiarate di spezie secondo loro. E così dovemo osser
abbondantissimamente ne'luoghi propi, tuttavia vare noi cristiani, quantunque i filosofi dicano
è stato necessario il ripigliarle brevemente, per altramente; e non solo in questa, ma in tutte
che in altro modo non avremmo inteso mai che le cose, che concernono la fede ed apparten
cosa volesse dire i calori essere d'una mede gono alla santissima religione cristiana ed al vero
sima spezie spezialissima. Nè m'è nascoso, che culto divino, semo obbligati a credere più a
quelli, che non hanno studiato mai loica, non una sola autorità di qual si voglia teologo cri
intenderanno molte cose, del che si deve por stiano, che a tutte le ragioni di tutti i filosofi
tar la colpa non a me, od alla povertà della lin gentili, per le cagioni che altrove si sono dette.
gua toscana, ma alla durezza ed oscurità della Ma tornando a nostri esempi, l'uomo e la
materia; del che è segno manifestissimo, che nè donna, sebbene sono differenti in molte cose,
anco i letterati l'intenderanno, se non saranno sono però d'una spezie medesima, secondo i
esercitati prima nelle scienze e spezialmente più veri filosofi ; perciocchè quelle differenze
nella loica, senza la quale non s'intende ve: non sono intrinseche ed essenziali, ma acciden
ramente cosa alcuna o non si conosce d'inten tali ed estrinseche, come altra volta provere
derla. E brevemente senza la dimostrazione, si mo. Ora, benchè quanto alla differenza delle
può avere opinione vera di molte cose, ma non differenze, si potessero dire infinite cose, trovan
già scienza e certezza di nessuna. dosene delle separabili, e di quelle che non si
Notaremo ancora che una cosa può essere diffe possono separare dalle divisive e dalle costitu
rente da un'altra in tre modi. Primieramente di tive, nondimeno al proponimento nostro ba
forma e di materia, come sarebbero una statua di stano queste che si sono dette; le quali si
bronzo, ed una fonte di marmo; e questa diffe tengano bene a mente, perchè senza esse non
renza è grandissima. Secondariamente di forma, potremmo intendere in che modo tutti i calori
e non di materia, come un tegolo ed un embri siano e diversi tra loro e simili, anzi un me
ce, o una credenziera ed uno scannello, perchè desimo tutti quanti. Il che affine che meglio si
hanno amenduni la medesima materia, ma la conosca, divideremo e dichiareremo a uno a uno
forma diversa; e questa differenza è mezzana. tutti i calori.
VARCHI 6
LEZIONE
42
altra in molti modi, tra i quali più calda si
DEI CAL0n1 chiama quella, la quale ha più gradi di caldo;
onde un'erba, la quale è calda in terzo o in
Come appresso i Latini questo nome calidum, quarto grado, è più calda d'una, che sia calda
significa ora l'astratto, cioè il calore ovvero la in primo o in secondo, e così di tutti gli altri
calidità ed ora il concreto, cioè una cosa calda somiglianti. Chiamasi ancora più caldo quello,
(il che fa ancora questa parola Seppuòs appo il quale sebbene non ha più gradi di caldezza,
i Greci), così nella lingua toscana questo nome ha però in un certo modo maggior caldo e più
caldo significa medesimamente ora qualità, cioè intenso, per lo essere egli in materia più densa;
il calore stesso, ovvero la caldezza, ed ora so perchè quanto ciascuna cosa è più densa, tanto
stanza, cioè un corpo caldo. Onde tanto viene ha in sè più di materia e dove è più di materia
a noi a dire caldo in sostanza, quanto calore, è anco più di forma, perchè sempre in maggior
ovvero caldezza, e caldo in aggettivo, quanto quantità è maggior virtù, onde un ferro ro
appo i Latini calidum, ovvero Sepads appoi vente e bene affocato si dice esser più caldo;
Greci, benchè nella nostra lingua per lo avere ed in vero cuoce più che il fuoco stesso, non
anch'ella gli articoli come la greca, è più che in verità sia più caldo in quanto a gradi,
agevole lo sprimerlo ed il conoscerlo, che non ma perchè è più riscaldante, essendo più denso
è nella latina, la quale manca degli articoli. e più sodo. E questo è il maggior argomento
Perciocchè quando è sostantivo, e significa l'a- ed esempio, che alleghino quelli che si cre
stratto, cioè l'accidente, se gli pone comune dono e vogliono, che l'oro sia più grave della
mente l'articolo dinanzi, e dicesi il caldo; ma terra pura; il quale quanto sia vero e possi
quando è aggettivo, e significa il concreto, cioè bile in quel caso, conosce benissimo ciascuno
la sostanza, si dice caldo senza articolo. Nè si che sa che la terra vera è freddissima e sec
meravigli alcuno, che un vocabolo stesso si chissima, e per conseguente densissima. E chi
gnifichi due cose tanto diverse, quanto sono la dubita che tutte le cose tanto sono più o
sostanza e l'accidente, perchè oltre che i nomi meno gravi, quanto elleno più o meno par
son pochi, rispetto al grandissimo numero delle tecipano dell'elemento della terra? Chiamasi
cose, l'uso o piuttosto l'abuso ha, come testi ancora più caldo quello il quale, per lo es
monia Galeno in questo proposito medesimo, sere più secco, riscalda più; perciocchè la
forza maravigliosa in tutte le lingue. E M.Tullio secchezza aguzza il calore e lo fa più intenso.
usava dire, che s'aveva a favellare come il E in questo modo diciamo che un giovine è
volgo ed intendere come i pochi, e mai non si più caldo d'un fanciullo, perchè è più secco,
debbe quistionare de' nomi, quando le cose avendo manco umido; sebbene nel vero tanto
son chiare. caldo è in un fanciullo, rispetto a gradi, quanto
E però lasciati i nomi, diremo che una cosa in un giovane; intendendo del caldo in astrat
può essere calda in due modi in atto, come è to, cioè quando è qualità semplice, e così ac
il fuoco, ed in potenza. E questo può essere cidente e non sostanza. Chiamasi ancora più
in due modi medesimamente; perciocchè il ferro caldo quello, il quale, avvenga che non si ri
e tutte l'altre cose che si possono scaldare di scaldi più, ha però in sè e contiene più ab
fuori, cioè da uno agente estrinseco, si chia bondanza e maggior quantità di corpo caldo.
mano calde in potenza. Alcune altre cose si Chiamasi ancora più caldo quello il quale, o
chiamano anche elle calde in potenza, non piuttosto e agevolmente si riscalda, o più tardi
perchè abbiano bisogno del caldo di fuori, e malagevolmente si raffredda. E chi non sa
ma perchè hanno bisogno d'alcuna cosa, che che l'acqua bollita cuoce più che la fiamma,
le riduca dalla potenza all'atto, come è il e la fiamma dall'altra parte abbrucia e strugge
pepe e molte erbe e altre cose, le quali a toc molte cose, il che non può far l'acqua, ancora
carle ci paiono fredde, ma masticate ed in che caldissima?
gojate da noi ci riscaldano maravigliosamente, Ma basti infin qui aver detto del caldo preso
essendo state attuate, cioè ridotte dalla potenza denominativamente ed in voce aggettiva. Ven
all'atto dal calore naturale, come si dice delle ghiamo omai a trattare del caldo preso sostan
medicine calde. E questo avviene per quella tivamente, e raccontiamo tutte le spezie sue,
proposizione grandissima del filosofo che dice, le quali sono tre principalmente; caldo solare,
che niuna cosa si può ridurre dalla potenza caldo elementare e caldo naturale, de'quali tutti
all'atto, se non da una qualche cosa, la quale favelleremo particolarmente con più chiarezza
sia tale in atto. È ancora da avvertire, che una che sapremo.
cosa si chiama calda in due modi, virtualmente
come il sole il quale non è caldo, nè in atto DEL CALORE SOLARE

nè in potenza, sebbene è cagione col movi


mento e lume suo di generare il caldo, e for In due modi produce il sole e genera caldo in
malmente come il fuoco il quale è caldo in queste cose basse e corruttibili, col movimento
atto per la sua propria forma e natura. E per suo e col suo lume, ed in amendue questi
non lasciare in dietro cosa alcuna, che ne possa modi riscalda, non per sè ma per accidente;
apportare in nessun modo frutto veruno, di tuttocchè non solamente S. Tommaso, ma
remo insieme con Aristotile nel secondo capi Averrois ancora par che vogliano che il moto
tolo del secondo libro delle parti degli animali, riscaldi per sè e di sua natura e non acciden
che una cosa si può chiamare più calda di un' talmente, come si può vederc nel secondo li
SUI CALORI 43
bro del Cielo al testo del commento quaranta che i raggi riflessi solamente cagionino il caldo,
due. E perchè altrove s'è dichiarato qual moto ma i riflessi con i diritti: e così ambedue insieme
riscaldi, e per che ragioni, e con quante condi generano il caldo e non separatamente gli uni
zioni, diremo qui solamente che non solo il senza gli altri. E perchè il lume non riscalda per
moto del sole è quello che riscalda, ma quello sè, e naturalmente, cioè come lume ma acciden
del sole insieme con quello degli altri pianeti talmente, cioè come riflesso, quinci è che la state
e dell'ottava spera, e così di tutto l'aggre è maggior caldo che non è il verno, a mezzo
gato, cioè di tutto il cielo, perciocchè il moto di che la mattina, di buon'ora o la sera al
che riscalda non è il moto propio dei piane tardi. Perciocchè quanto gli angoli sono più
ti, il quale è da Occidente a Oriente, ma il acuti, tanto producono il caldo maggiore, come
moto diurno, il quale è da Oriente a Occiden si vede la state e di fitto meriggio; e quanto
te. E così non il moto del sole è quello che sono più ottusi, tanto generano minore il caldo,
riscalda ma quello del firmamento ed ultimo come si vede d'inverno, e la mattina per tempo
cielo, il quale muove tutti i pianeti, onde è o la sera. E chi non conosce che quanto gli
chiamato dagli astrologi moto violento, se bene angoli sono meno ottusi, ovvero più acuti, tanto
è naturalissimo, non essendo in tutte le cose meno d'aria si racchiude e intraprende tra il
celesti violenza nessuna, onde il moto del pri raggio retto ed il riflesso e per questo più to
mo mobile è quello che genera il caldo, non sto e più agevolmente si riscalda? Questa me
quello del sole. Ma si chiama caldo solare, desima ragione fa che i monti altissimi, i quali
perchè, come dice Aristotile medesimo nel pri ragionevolmente dovrebbero essere molto caldi,
mo libro della Meteora e nel secondo del Cie essendo più propinqui al sole ed al movimento
lo, il sole è principalissima cagione del caldo, del cielo, sono nientedimeno freschissimi; per
sì per essere non solamente più sodo e più chè l'angolo della riflessione o non v'arriva,
denso, ma eziandio più lucido, più veloce e o, se v'aggiugne, v'arriva meno acuto, allargan
maggiore di molti pianeti. Ma perchè queste dosi sempre di mano in mano e comprendendo
parole sono piene di dubbi e difficoltà gran maggiore spazio, onde non è così possente come
dissime non dichiarate da nessuno autore che presso a terra, e però sono più caldi i luoghi
io sappia, ci serberemo a favellarne un'altra piani e bassi che gli alti e rilevati non sono.
volta più risolutamente. E ci basterà sapere E se alcuno dubitasse perchè le notti di state
qui che il moto del sole o piuttosto del cielo sono calde, se il caldo viene dalla riflessione
non arriva più giù che al principio della se e dal riverberamento de'raggi del sole o per
conda regione dell'aria, cioè fornisce nella chè sentono ancora caldo quelli che sono al
sommità de' più alti monti dove fornisce la se rezzo, sebbene lo sentono minore di quelli che
conda regione, e comincia la terza, come ave stanno al sole, essendo l'ombra privamento di
mo dichiarato ampiamente nei principi della Me lume; si risponde al primo, che l'aria notturna
teora al benignissimo e serenissimo Duca di ritiene del caldo del giorno, onde si va sem
Firenze, signor nostro e padrone sempre osser pre più rinfrescando continuamente, oltra che
vandissimo (1). il lume delle stelle riscalda ancor esso, come
E questo basti del primo caldo che si ge si dirà di sotto. E però, diceva il Filosofo, che
nera mediante il movimento del sole in que le notti erano più calde quando la luna era
sto mondo inferiore. piena, come si vede non solamente nella quin
Il secondo caldo si genera mediante la ri tadecima ma ancora nei quarteroni: della
flessione e ribattimento de'raggi solari, ed ho qual cosa fanno in dubitatissima fede non pur
detto segnalatamente mediante la riflessione, gli animali, ma le piante che sono allora più
perciocchè il lume è qualità spirituale e non sugose e di maggior vigore che a luna secon
passione corporale in guisa che il lume come da, perchè quel caldo lunare eccita e vivifica
lume, cioè per sè, e di sua propria natura non il caldo naturale, tanto nelle piante, quanto
può esser cagione di riscaldare, ma riscalda per negli animali; e così la luna ha più che fare
accidente, cioè come riflesso e ripiegato, cioe co granchi, che la gente volgare non si pen
ribattuto e ripercosso dalla terra; onde i raggi sa. Al secondo dubbio si risponde, che l'ombra
diritti non riscaldano, perchè altramente la re (oltracchè l'aria circonvicina riscalda) non è
gione mezza dell'aria sarebbe calda ove ella privazione del lume semplicemente, ma del
è fredda. E chi mi dimandasse quale è la ca primo, o secondo, o terzo lume; le tenebre
gione che il lume non riscaldi se non si ri poi ovvero il buio s'oppongono privativamente
batte e ripiega, conciossiachè i raggi diritti al lume. Il che acciò s'intenda meglio, dovemo
siano più forti e di maggior possanza che i ri sapere che tra lume e luce è differenza, per
flessi, gli risponderei questo avvenirgli per la chè la luce è una qualità che si ritrova nel sole
propria natura sua cosi fatta, non altramente ed in tutte altre cose lucide, come nel fuoco
che l'uomo è risibile per sua natura propia e nostro; ed è quella che cagiona e produce il
non per altra ragione. Nè dovemo però credere lume, il quale è una qualità speziale, cioè la
spezie ed il simulacro d'essa luce (benchè San
Tommaso e molti altri dicano altramente), onde
(1) È certo, che il Varchi compose un'opera sotto il titolo
di – Principi della Meteora, all'Eccellentissimo cd Illustris il simulacro e la spezie della luce si chiama
simo Signor Cosimo de' Medici, Duca di Firenze; – ma lume primo: il simulacro poi del primo lume
essa non fu mai pubblicata, e anco il MS. ne andò perduto. si chiama lume secondo: il simulacro del secondo
(M.) si chiama lume terzo. Nè però si procede in
44 LEZIONE

infinito, perchè ciascun lume indebolisce sem per l'avere poco di materia, onde si spegne e
pre e si fa minore tanto che manca del tutto ; manca in molti modi agevolissimamente. E per
e così l'ombra non è privazione d'ogni lume, questo la natura, la quale sebbene non conosce
ma il buio ovvero le tenebre sono quelle che nulla, è però indiritta da Chi conosce tutte le
s'oppongono privativamente a tutti i lumi. E cose, ordinò prudentissimamente che egli si po
così avemo veduto che la luce genera il lume, tesse generare per molte vie, come si disse di
la qual generazione si fa in istante, e senza sopra. E se alcuno dubitando dimandasse, onde
tempo alcuno, perchè l'illuminazione è forma noi sappiamo che questo quaggiù sia fuoco,
spiritale senza resistenza, e dove non è resi come quello di lassù, essendo questo nostro
stenza non è successione di tempo, onde il sole nato di fiaccole e di facelline (come diceva
illumina dal Levante al Ponente in un mo Lucrezio) gli risponderei, che questo non ha
mento. Il che si vede ancora nell'illuminazione dubbio nessuno, perchè ha la medesima forma
delle fiamme e fuochi nostri, i lumi delle quali ed il medesimo movimento; le quali cose lo
non si confondono nel mezzo, cioè nell'aria mostrano indubitatamente della medesima spe
(come diceva S. Tommaso), ma rimangono spez zie, come meglio si proverà nella terza parte.
zati, sebbene s'accavallano; il che dimostrano E se egli replicasse: questo cuoce, e quello no,
l'ombre loro, come altrove s'è fatto chiaro. E direi che quello non cuoce: non che non sia
infin qui basti aver detto come il sole produce caldissimo e secchissimo, come questo, ma
due caldi, uno col movimento e l'altro col perchè essendo nel suo luogo propio, è radis
lume, benchè nè il movimento, nè il lume ri simo per la pochezza della materia e subbietto,
scaldino per sè e per natura loro, ma per ac in che si trova, come s'è detto due volte di
cidente, non ostante che molti affermino che sopra. E se egli di nuovo dicesse quello non
il lume riscalda ancora per sua natura pro risplende, e questo sì; risponderei colle cose
pia. Il che disputeremo un'altra volta, perchè dette, che la luce ed il risplendere non con
se volessimo risolvere tutti i dubbi che nascono vengono al fuoco, come a corpo semplice ed
di mano in mano a ogni verso (per non dire elementare, ma come a fuoco che sia mesco
a ogni parola) saremmo forzati d'entrare in una lato coll'umido, in quel medesimo modo che
disputa nuova. Non voglio già lasciare indietro l'acqua non ghiaccia mai pura, ma mescolata
che molti chiamano questo calore del sole ca con un qualche corpo. E senza fallo come il
lore celeste, facendolo un medesimo che il ca ghiaccio non è altro che uno eccesso e soprab
lore del cielo e delle stelle, il quale è cagione bondanza di freddezza (come si prova nel se
di tutte le generazioni di tutte le cose. E que condo libro della Generazione, al testo del com
sti tali pare a me che siano in equivoco ed mento vigesimoprimo), così il fuoco nostro non
errore grandissimo, non distinguendo tra il ca è altro che una soprabbondanza ed eccesso di
lore del sole, e quella divinissima qualità chia caldezza, e questo riscalda non virtualmente
mata calor celeste, o piuttosto tepore etereo; come il sole, ma formalmente, cioè mediante
del quale, per non confondere l'ordine ed la forma e natura sua. Onde i Platonici (come
oscurare questa materia più che ella sia da sè racconta il dottissimo Pico) dicono, che il ca
stessa, indugieremo a favellare nell'ultimo di lore ha nel sole essere casuale, nel fuoco es
questa quistione. sere formale, nel legno acceso o altra materia
somigliante essere participato. E così avemo
DEL CALORE ELEMENTARE veduto che sia il calore elementare che si chia
ma alcuna volta calore igneo, cioè focoso, il
Il caldo elementare è anch'egli di due ma quale sebbene corrompe e distrugge il sub
niere, puro ed impuro. Puro chiamiamo quello bietto suo, cioè la materia dove si trova, è
del fuoco elementare nella spera e propio ele nulla dimeno regolato dall'arte, utilissimo e
mento suo, dove (come s'è detto più volte) necessarissimo alla vita umana; ed ha infiniti
egli non cuoce e non risplende, o assai poco esercizi e non corrompe il subbietto suo ef
per la grandissima radezza del suo subbietto: fettivamente, ma dispositivamente, cioè dispone
onde essendo perspicuo e trasparente, non ci e rende atto il subbietto alla corruzione, e nulla
toglie la veduta delle stelle; e per essere il luogo corrompe, perchè nessuna qualità corrompe il
suo, non ha bisogno d'alcun nutrimento; e di suo subbietto, altramente una cosa potrebbe
questo non diremo altro, avendone parlato lun corrompere sè stessa. Il che è del tutto im
gamente nel libro della Meteora allegato di so possibile per sè, ma non già per accidente,
pra da me. Impuro chiamiamo quello del fuoco perchè sempre l'agente, cioè quello che cor
nostro, il quale è mescolato con altri corpi, ed rompe debbe essere distinto dal paziente, cioè
imporrato (per dir così) d'altre qualità, onde que da quello che si corrompe. Ma venghiamo
sto nostro fuoco inferiore e terrestre essendo in omai al caldo naturale cagione di tutte l'ope
materia densa, non è perspicuo e trasparente co razioni della vita ed anima nostra.
me il puro elementare, ed ha bisogno di conti
nuo nutrimento onde possa continuamente ge DEL CALORE NATURALE

nerarsi e quasi rinascere: altramente si spegne,


e muore subito corrotto dall'aere circonstante; Il caldo naturale è una sostanza aerea, acquea,
perchè egli, come è potentissimo ed efficacis vaporosa, calda, la quale è in tutti gli animali,
simo ad operare, per l'avere assai di forma, o per meglio dire animanti, e si genera della
così è debolissimo ed intentissimo a resistere più pura e più sottile parte del sangue in que
SUI CALORI 45
gli animali i quali hanno sangue ; ma nelle sumato tanto dalle cagioni di dentro, quanto
piante, ed in quegli animali che mancano di da quelle di fuori, così mediante il bere si ri
sangue, si genera da una cosa equivalente e stora e rifà l'umido consumato e logoro per le
proporzionata al sangue, cioè dalla più sottile medesime cagioni. E se l'umido che si ristora, si
e pura parte del nutrimento. E brevemente, potesse ristorare delle medesime bontà, che il per
caldo naturale non è altro, che quel fumo o duto, o piuttosto nel medesimo luogo (perchè
vapore che svapora e sfuma dal sangue, men della medesima bontà secondo me non sarebbe
tre che egli si cuoce. Dalla quale diffinizione impossibile) si potrebbe viver sempre, come si
si cava apertissimamente, che il caldo non si può cavare dalla diffinizione che dette Aristo
piglia in questo luogo semplicemente, cioè, come tile della vita. Bene è vero che i filosofi non
accidente, ovvero qualità, ma come caldo natu chiamarebbero vita il caldo naturale, ma piut
rale, essendo una sostanza vaporosa, calda ed tosto vincolo e legame della vita, essendo quello
umida e composta di tutti e quattro gli elementi. che lega, e congiunge l'anima insieme col cor
Perciocchè per caldo naturale s'intende se po. Chiamasi ancora il caldo naturale da Ga
condo Ippocrate, padre e dio della medicina, leno anima, non che sia anima secondo la dif
non solamente lo spirito, ma ancora il sangue, finizione d'Aristotile: ma forse perchè gli Stoici
e quel vapore aereo che è contenuto nelle con pensavano, che il caldo naturale fosse la so
cavità delle membra, il quale non è vero spi. stanza ed essenza dell'anima, la qual cosa è
rito ma vicino a diventar tale. E perchè tutte falsissima, come dimostrammo lungamente nella
queste tre cose concorrono ed aiutano le ope nostra prima Lezione dell'Anima. Ma Gale
razioni naturali, però si possono chiamare, e no il quale mai non si risolve, se l'anima sia
si comprendono sotto il nome di calor natu corporea o incorporea, mortale o immortale,
rale, nè tra loro è altra differenza se non che seguitò varie opinioni in vari luoghi; onde disse,
una è più perfetta dell'altra; conciossiachè, che se il caldo naturale non è pura essenza e
lo spirito è corpo perfettissimo, il vapore ae sostanza dell'anima, egli è il suo propio e prin
reo non è tanto perfetto, ma ha bisogno di cipale strumento.
poca mutazione ed alterazione a farsi anch'e- E così avemo veduto come, e perchè que
gli perfettissimo; il sangue poi è lontano ed sto caldo ha tre eccellentissimi nomi: natura,
ha bisogno di maggiore alterazione, e muta vita ed anima; onde si dice caldo naturale,
zione a divenire spirito. E questo caldo natu animale e vitale. E perchè a questo caldo si
rale ottimamente temperato, è autore di tutte aggiungono diversi epiteti e soprannomi, e cia
le operazioni naturali, perciocchè egli solo ge scuno di loro significa alcuna cosa della natu
nera, accresce e nutrisce l' animale continua ra e proprietà sua, però gli andremo dichia
mente infino all'ultimo punto della vita; egli rando brevemente di mano in mano. E prima
solo non pur digerisce e fa smaltire, ma cura diremo, che egli si chiama caldo or insito, or
ancora e provvede, che il corpo si netti e ren ingenito, ora innato, ovvero nativo, cioè natio,
da mondo da tutte le superfluità e brutture per perchè tutti questi nomi furono usati da La
diverse vie, e con vari modi secondo la varie tini, per esprimere quello che i Greci dicono,
tà e diversità degli escrementi. èu puros, cioè ingenerato ed in somma natu
E per ridurre in brevi parole le moltissime, rale. E chiamasi così, perchè questo caldo s'in
e quasi infinite lodi e virtù, che se gli potreb genera e nasce dal principio del nascimento
bero attribuire meritamente da chi volesse ce di ciascuno del seme paterno e del mestruo
lebrarlo, egli solo fa sempre cose ottime ed della madre, e come il primo dì è caldissimo,
utilissime, e non mai alcuna nè cattiva, nè così l' ultimo è meno caldo, che in tutti gli
dannosa. La cui eccellenza si può ancora dai altri tempi, perchè continuamente si va raf
molti ed orrevolissimi nomi conoscere, che gli freddando e consumando l' umido sostantifico
sono dati, non da medici solamente, ma an continuamente; e quanto il caldo è in materia
cora da filosofi. Primieramente Ippocrate e Ga più densa e più secca, tanto è maggiore, o, per
leno ed Aristotile medesimo lo chiamano al meglio dire, più veemente ed intenso; onde
cuna volta natura, non perchè in verità se gli ne fanciulli il caldo naturale è maggiore, ma
convenga propiamente la diffinizione, che dette ne giovani più acuto, perchè la secchezza aguz
Aristotile della natura nel secondo della Fisica: za il calore. Chiamasi ancora per la medesima
ma si chiama così, perchè è strumento della ragione complantato, quasi che si pianti e na
natura, facendo egli tutte le operazioni natu sca insieme coll'uomo. Chiamasi intrinseco ov
rali, come si disse poco fa. Fu ancora chia vero interno, cioè di dentro, a rispetto e dif
mato da molti vita, forse perchè tanto dura ferenza dello estrinseco ed esterno, il quale è
la vita di ciascuno, e non più, quanto dura quello che viene di fuori, onde è detto calore
il suo caldo naturale; e tanto dura il caldo strano, acquistato ed avventizio. Chiamasi pro
naturale quanto dura l'umido radicale, di che pio, perchè è temperato e commisuratº, e per
egli si pasce e nutre continuamente, non al questo vivifico e salutevole, dove lo strano e
tramente che la fiamma dell'olio, od il fuoco impropio, perchè è stemperato e smisurato, e per
delle legne. E quelli senza dubbio hanno più questo mortifero e nocevole. Onde come quello
lunga vita, i quali hanno più caldo e più umi si chiama appropiato e proporzionato per l'es
do meglio proporzionati, e temperati insieme sere appropiato a ciascun membro e propor
l'un coll'altro. E come mediante il mangiare zionato al suo umido sostanziale, così questo
si rifà e ristora il caldo naturale logoro e con si chiama alieno e sproporzionato, essendo quel
Arº
4, o LEZIONE
lo secondo la natura, e questo contra, ovvero Aristotile nel libro del senso) e sensibile; onde
fuori di natura, onde si chiama ancora inna si vede ancora, secondo Galeno, che il calore
turale e contrannaturale, ed alcuna volta igneo, naturale non è distinto e differente dallo spi
ovvero focoso, benchè non solamente Platone, rito realmente, ma accidentalmente, ed è ben dif.
ma eziandio Aristotile chiamò fuoco il caldo ferente e distinto dal calore influente, che così
propio naturale. Il che fu ripreso e biasimato si chiama quel caldo che viene e corre in guisa
da Galeno: perchè il caldo naturale è umido, di fiume, onde piglia cotal nome, dal fegato e
ed il caldo del fuoco è secco, ed è molto più tem dal cuore mediante il sangue per tutte le mem
perato. Ben è vero, che essendo composto dei bra; il qual caldo non è il medesimo dal prin
quattro elementi, contiene nondimeno più aria cipio della vita al fine, se non come un fiume
e fuoco, che acqua e terra; e per questa ca si chiama il medesimo, sebben sempre corra
gione forse fu chiamato fuoco dai due primi acqua nuova. E però diceva Aristotile nell'ul
iumi della filosofia. È ben da avvertire, che il timo libro della Fisica, che la sanità non è
caldo naturale non opera come il caldo del quella medesima la sera che la mattina, va
fuoco, perchè così sarebbe indeterminato, po riandosi continuamente le parti naturali, ed un
tendo crescere il fuoco quasi in infinito; e da uomo medesimamente non è mai veramente il
una cosa indeterminata non può mai procedere medesimo. E sebbene la forma, cioè l'anima
cosa alcuna determinata, e così non è cagione intellettiva, è sempre la medesima, e per que
del nutrire, crescere e generare per sè, ma co sto si potrebbe dire il medesimo; tuttavia, con
me istrumento dell'anima. E questa è la ca siderato, che l'uomo non è la forma sola, ma
gione perchè essendo egli un solo, opera non la forma e la materia insieme, si potrebbe di
dimeno molte operazioni e molto diverse, per re, essendo variata la materia, che non fosse
chè il medesimo caldo fa smaltire e putrefare, veramente e totalmente il medesimo, benchè
benchè secondo diversi rispetti. E chi non sa, la forma, a mio parere, la quale è quella che
che da uno strumento medesimo si possono dà l'essere, si debba considerare principal
fare molte cose e diversissime? Ma non già da mente. E perchè molti dicono, che il caldo
una medesima cagione, se non per accidente, naturale è nell' umido, dovemo intendere che
come è notissimo; e non pure non è fuoco il non v'è come in subbietto, perchè è sostanza
calore naturale, ma quando diventa fuoco, non (e niuna sostanza può essere in subbietto al
è più calore naturale e proporzionato, ma in cuno), ma v'è come in materia, nella quale si
naturale e sproporzionato, come il caldo della conserva e della quale si pasce continuamente,
febbre. Conciossiachè la febbre non sia altro, E per non lasciare indietro termine alcuno
come si disse di sopra, che il calore naturale mu di quelli che ci sovvengono intorno a calori,
tato in fuoco, cioè diventato igneo, cioè cresciuto dovemo sapere che molte volte i medici ed i
oltra la dovuta misura e convenevole tempera filosofi usano questi vocaboli il calore del
mento; il che può avvenire in più modi come n'in l'ambiente ovvero circondante, ed il calore
segnano i medici. E questo caldo il quale ha la del continente ovvero circonstante. Le quali
sede sua e stanza principale nel cuore, come parole non vogliono significare altro, se non
fonte di tutte le virtù naturali, come si può il caldo del corpo che ne contiene e circonda,
alterare in più modi, così in due si può spe cioè del luogo, e questo è sempre o aria o
gnere del tutto, e corrompere mancando, cioè, acqua ordinariamente; e tutti i calori strani e
per putrefazione: e questa si chiama corruzio che vengono di fuori, sono di questa maniera,
ne violenta, perchè si fa dal suo contrario, onde diciamo che non è caldezza nell'ambien
cioè dal freddo. E però ha bisogno di continuo te, ovvero circondante, cioè nell'aria; e di
nutrimento ed eventazione (per dir così), altra state non è freddezza nel continente o circon
mente diventerebbe tutto fuoco e consumereb stante, cioè nell'aria; e così d'un che fosse nel
be tutto l'umido e nutrimento suo in un trat l'acqua, diremmo che il continente, ovvero cir
to, innanzi che se ne potesse rigenerare del constante è freddo ed umido. E sebben queste
nuovo, e così si corromperebbe e spegnerebbe sono cose basse ed agevolissime, tuttavia sono
da sè stesso, ma per accidente, cioè, mancato necessarie, ed a chi non sa, non par nulla nè age
gli l'umido; conciossiachè niuna cosa possa vole, nè basso; ed io posso fare interissima fe
corrompere sè medesima, se non accidental de che il non averle sapute, fu già cagione che
mente. Ed a questo effetto mandiamo fuori, e io perdessi di molto tempo e durassi molta fa
ritiriamo l'alito a noi continuamente; il qual tica senza frutto nessuno, o mia o d'altrui che
moto è naturale, onde secondo Aristotile non si fosse la colpa. Ma avendo dichiarato in que
è possibile che uno ritenga tanto l'alito, che sta seconda parte tutti i termini della quistio
egli muoia, non essendo questo moto volonta ne e detto che cosa sia calor solare, che ele
rio, ma naturale; benchè Galeno dica di sì, mentare, che naturale, ed in quanti modi si
ed alleghi la sperienza d'uno schiavo, il quale, chiami, e perchè, è tempo di venire omai alla
battuto dal padrone, stette tanto senza alitare, terza ed ultima parte, la quale sarà men lunga
che egli si morì. Vuole ben Galeno, che l'aere e forse men fastidiosa che non sono state que
ricevuto dentro da noi, mediante l'ispirazio ste due prime, ancorchè contenga tutta la con
ne si trasmuti in ispirito, e conseguentemen clusione e sostanza della presente dubitazione.
te si converta in calore naturale, come di
chiara lungamente nel libro dell'uso della re
spirazione (il che è tutto contra la sentenza di
SUI CALORI 47
riamente d'una medesima spezie spezialissima,
PARTE TERZA e questa ragione pare a me che sia efficacis
sima e che dimostri secondo la via peripate
I calori come calori essere tutti un medesimo. tica la qual seguitiamo.
Seconda. La natura come giustissima madre
In tre modi può provarsi alcuna cosa essere di tutte le cose ha ordinato che un contrario
o vera o falsa, per ragioni, per isperienza e non abbia mai più che un contrario solo, in
per autorità. Con tutte queste tre cose prove tendendo dei contrari veri e massimamente di
remo in questa ultima parte, non meno chia stanti e secondo un modo solo, come si prova
ramente che con brevità (se il giudizio nostro nel decimo libro della Scienza Divina al testo
-
non ci inganna) tutti i calori, quantunque e quattordicesimo, come la bianchezza non ha al
qualunque si siano essere della medesima spe tro contrario vero, che un solo, cioè la nerezza.
zie spezialissima, anzi, per più veramente dire, Ora il freddo è contrario al caldo positivamente
essere un medesimo tutti quanti. E prima por e non è se non uno; dunque anco il caldo non
remo le ragioni. è se non uno: dunque i calori sono della me
Ragione Prima. Se i calori non fossero tutti desima spezie, anzi sono un medesimo tutti
d'una medesima spezie spezialissima, ma qua quanti.
lunque di loro fosse diverso e differente di spe Terza. Se si trovassero più caldezze distinte
zie da qualunque altro, ne seguitarebbe che e diverse di spezie, ne seguiterebbe che tutte
gli elementi non fossero quattro, come sono, quante o s'accrescessero parimente, o parimente
ma otto; il che è falso ed impossibile. Dun si diminuissero da un agente medesimo, di mo
que è impossibile e falso che alcun calore sia do che ogni volta che una s'accrescesse e diven
distinto di spezie da qualunque altro. E che tasse maggiore, anco l'altra diventasse mag
la conseguenza sia vera, cioè che gli elementi giore e s'accrescesse e così per lo contrario,
sarebbero otto e non quattro, si prova così. cioè scemando una , scemasse l'altra, o vera
Se alcun caldo fosse diverso di spezie da qua mente che quando una crescesse, scemasse l'al
lunque altro caldo, allora sarebbero due qua tra e così per l'opposito. Ora il primo non si
lità prime nel calore, cioè si troverebbero di può dire, perchè essendo distinte di spezie, non
due ragioni calori; e se fossero due qualità pri è necessario che cresciuta l'una, cresca anco
me nel caldo, sarebbero ancora necessariamente l'altra: il secondo anco non si può dire, per
due qualità prime; nel freddo, cioè si trove chè ne verrebbe, che un medesimo corpo po
rebbero due freddezze diverse; ed il medesi tesse riscaldarsi e raffreddarsi in un tempo me
mo accadrebbe nelle altre due qualità passive, desimo, perchè la caldezza non diminuisce se
- -

cioè si troverebbero due secchezze e due umi non mediante la freddezza, quando si mesco
dezze, e così le qualità prime sarebbero otto e lano insieme, ma questo non è possibile; dun
non quattro distinte di spezie, onde seguirebbe que non è possibile che sia più d'una caldez
che gli elementi fossero anch'essi otto e non za. E così s'è provato per efficacissime ragioni
quattro distinti di spezie. E perchè in tutti e fortissime che i calori tutti sono d'una spezie
sono tutti quanti gli elementi, ciascuno di loro spezialissima, anzi un medesimo. E però ver
sarebbe caldo di due calori, freddo di due freddi, remo alla sperienza a cui tutte cedono le al
e parimente secco ed umido di due secchi e di tre prove e sono di gran lunga inferiori.
due umidi, e così sarebbero manifestamente otto
SPERIENZA
qualità prime, otto complessioni semplici ed otto
umori. Ma, come si disse di sopra, Aristotile
nel secondo libro della generazione, provò che Non solamente i medici procedono mediante
gli elementi erano quattro senza più, e lo provò il senso, onde si chiamano artefici sensitivi, ma
dal numero e dalla combinazione delle quattro i filosofi ancora e chi ha il senso del suo con
qualità prime come nel libro del Cielo l'aveva quelle condizioni che si ricercano dette da noi
provato da movimenti semplici; onde è più nelle lezioni dell'Anima, non ha bisogno di
che manifesto, specificandosi gli elementi dal altre o ragioni o autorità. Stante questo pre
numero delle qualità prime, che se si trovasse supposto verissimo, dice Galeno, nel secondo
un altro calore distinto di spezie, sarebbe neces capitolo del secondo libro delle Complessioni,
sario che si trovasse un altro elemento diverso che non si può trovare alcuno miglior giudice
di spezie da quel del fuoco, nel quale elemento delle qualità tangibili, che il tatto, e non discer
detta spezie di calore distinto fosse primiera ne tra un caldo ed un altro, ma li giudica tutti
mente e per se, come intendono gli esercita d'una medesima spezie, e natura. Dunque non
ti ; chè gli altri non possono capire queste sono diversi e chi negasse questa ragione, o
ragioni, se non con grande studio e difficoltà. prova, negherebbe il senso; e chi nega il senso,
E se si trovasse un altro elemento di fuoco, non pur non è filosofo, ma nè uomo; il perchè
si troverebbe anco di necessità un altro ele è o da non favellare seco o da concedergli ogni
mento d'aria e così d'acqua e di terra, e così cosa. E certo egli non si può fare niuna cosa
sarebbero otto. Ma questo è falso: dunque an nè più vana, nè più ridicola, che disputare con
co quello, d'onde questo seguita, è necessario chi non sa, o nega i principi: il che viene, o
che sia falso, cioè che si trovino due caldi di dalla poca dottrina e sperienza, o dalla molta
versi e distinti di spezie: dunque conchiuden perfidia e persuasione di sè stesso. E quanti
do omai dico, che tutti i calori sono necessa sono coloro i quali non credono che cosa al
48 LEZIONE

cuna sia o vera o possibile, la quale essi o non dunque sapere che la gran moltitudine delle
sappiano o non abbiano veduta ? E però non cose ed il poco numero de vocaboli esse cose
sono tutti gli uomini atti a filosofare come ave significanti è molte volte cagione che un no
mo discorso altrove con più ragioni lungamen me solo significhi diverse cose, le quali hanno
te. E questo non ho replicato in questo luogo comune solamente il nome, ma non già la so
senza proposito, conciossiacosachè molti mie stanza e la natura loro. E questa equivocazione
gano ancora le cose certissime, negando che è moltissime volte di moltissimi e grandissimi
tutti i caldi come caldi non facciano i medesi errori e difficoltà cagione, come si vede in
mi effetti e così siano d'una medesima spezie, molte altre quistioni ed in questa massima
e non credendo che il caldo del sole accenda mente. Perciocchè calore significa alcuna volta
il fuoco. Il che è manifestissimo, non solamente sostanza ed alcuna volta accidente: e sostanza
negli specchi concavi, ma ancora in una gua ed accidente sono due cose tanto differenti,
stada piena d'acqua, volta a dirittura verso i quanto conoscono coloro che sanno che la
raggi del Sole, e si potrebbero mediante que sostanza è nobilissima e perfettissima, come
sti specchi fare effetti mirabili ed a molti in quella che può stare da sè, come ne dimostra
credibili, ma veri nondimeno. E chi non l'ha il nome suo (sebbene non si trova mai senza al
veduto, non crederebbe o malagevolmente che cuno accidente), e l'accidente dall'altra parte
un pezzo di cristallo ardesse tutti gli altri co è imperfettissimo ed ignobilissimo, come quello
lori dal bianco in fuora. Ma qual segno più che in niun modo può stare da sè solo, ma
eerto che vedere, non pure i bachi, che fanno sempre ha bisogno della sostanza, nella qual
la seta, i quali, posti al caldo e nel seno delle sia e s'appoggi. Ora ogni volta che questo no
donne, nascono e ripigliano la vita, ma eziandio me significa corpo ovvero sostanza, ed ogni
le uova, le quali, messe nel forno, o in altri luo volta che significa accidente ovvero qualità,
ghi temperatamente caldi, nascono non altramen egli non solamente non è univoco, cioè non
te, che sotto la chioccia; sebbene molti, non pur significa cose medesime, ma è equivoco, cioè
idioti ed illetterati ma dotti e filosofi, non solo significa cose diverse, non solo di spezie, ma
non lo credono, ma se ne fanno beffe, burlandosi ancora di genere. E questa distinzione fa Ga
di chi lo dice. Ma questo è vizio antico di leno medesimo nel suo Commento sopra il
tutte le lingue, nè si può o debbe volere in quattordicesimo aforismo d'Ippocrate: dicen
segnare a quelli che non vogliono e non sono do che questo nome caldo, significa alcuna
atti ad apparare. A noi basta comunicare libe volta essa qualità semplice, ed alcuna vol
ramente tutto quel poco che sappiamo, lascian ta esso subbietto e corpo caldo. E così l'han
do a ciascuno che creda, dica e giudichi a mo no pigliato tutti quelli che hanno detto che i
do suo, prestissimi ad emendarci e mutare opi calori sono diversi tra loro. Presi in questo si
nione qualunque volta ci sia dimostrata la ve gnificato sono diversi di numero e di spezie e
rità da qualunque persona. E con questo pro di genere, ed il calore d'un uomo è conside
ponimento passeremo alle autorità, delle quali rato come sostanza diverso dal calore d'un
brevissimamente ci spediremo. leone, d'un bue e da tutti i calori di tutti gli
animali, anzi il caldo in un uomo stesso è di
AUToRITA' verso in ciascun membro, facendo diverse ope
razioni: onde il caldo d'un uomo medesimo,
Quanto alle autorità, per non istare a fare che è nello stomaco, è differente di spezie dal
un catalogo di nomi e d'allegazioni senza frutto caldo che è nel fegato. E così sono quasi in
alcuno, dirò solamente che oltra molti teologi, finiti calori, perchè altro è il caldo dello spi
tutti i migliori medici e maggiori filosofi, co rito, ed altro quello del sangue, ed altro
me fra gli altri il Turriano ed il Peretto, e di quello della carne, dico di uno individuo
quelli che ho udito io, il Corte, il Cassano ed ed animale medesimo. Ma preso e conside
il Bocca di Ferro tengono indubitatamente che rato il calore come ed in quanto calore,
tutti i calori come calori, siano d'una spezie cioè come qualità pura, tutti i calori sono
medesima. Ma affine che meglio s'intenda che non pur d' una medesima spezie spezialissi
vuol dire i calori come calori e si veggia aper ma, ma sono tutti uno ed il medesimo, non
tamente, onde è nato l'inganno e l'errore di essendo altra differenza tra loro, che acciden
quelli che li credevano diversi, e come sono tale e nel modo di considerarli. Perchè il me
tutti il medesimo, presi e considerati variamen desimo caldo, se si considera come istromento
te, dichiareremo i significati di questo nome del cielo, si chiama caldo celeste; se come
calore; nella distinzione del quale consiste (co strumento della natura, naturale; se si consi
me dissi nel principio) tutta la difficoltà e lo dera come qualità semplice del fuoco, si chia
scioglimento di questo dubbio, essendo non ma elementare; se come strumento dell'arte
univoco ma equivoco. e regolato da lei, si chiama caldo artifiziale:
e così tutti realmente ed in effetto sono un
IL CALoRE EssER EQUIvoco medesimo, ma si diversificano, secondo che sono
strumenti di diversi agenti ed operanti. Onde
Perchè questo nome calore o caldezza o caldo conchiudendo diciamo, che tutti i caldi sono
che vogliamo dire, è nome equivoco, cioè si un medesimo, considerati e presi nel modo che
gnifica più cose diverse, è necessario narrar avemo detto. Ed a questo fine si disse nel titolo
brevemente che cosa equivoco sia. Dovemo della quistione i calori come calori, cioè in
- SUI CALORI 49
quanto calori e presi per qualità semplice, cioè ciossiachè una pianta della medesima spezie
come accidente e non come sostanza. E così si genera e di seme e di materia corrotta, come
avendo veduto come i calori, come calori se è manifestissimo a ciascuno. Non è vero ancora
condo un significato son tutti diversi e secondo nelle sostanze animate sensitive, cioè negli ani
l'altro tratti un medesimo, il che crediamo es mali bruti, conciossiachè molti animali non tanto
sere verissimo, non ci resta altro che rispon imperfetti, ma ancora dei più perfetti nascono
dere alle ragioni ed alle autorità allegate di di materia putrida e di seme parimente, e non
sopra nella prima parte, affine che a nessuno sono delle medesime spezie, come mostra Ari
resti cagione alcuna di dubitare. stotile nel secondo, decima particola de Pro
blemi, nel problema decimoquinto (credo) e nel
ansPosTE ALLE RAGlori sessantesimo quarto. E benchè molti credono
che i topi ed altri animali generati univoca
Alla Prima. Si niega l'argomento, cioè si ri mente ed equivocamente siano di diverse spe
sponde che non è vero che la diversità del na zie, e che non generino, tuttavia l'opinione dei
scimento diversifichi la spezie; il che si prova migliori è in contrario, come mostreremo nel
per induzione a questo modo. Primieramente luogo suo. E così avemo veduto, che la varietà
segli non è vero nelle qualità prime; concios della generazione non varia la spezie. All'au
siache la medesima caldezza si genera varia torità d'Aristotile diciamo, che ella si debbe
mente e da diversi agenti (come s'è provato intendere negli animali perfettissimi solamente,
di sopra), essendo il medesimo caldo quello, come l'uomo , il cavallo ed in simili altri, i
che si genera dal sole, dal fuoco e dal movi quali non possono generarsi, se non da une uni
mento locale. E sebbene questo è quello di che voco, cioè da un agente della spezie medesima.
principalmente si disputa, tuttavia (avendo pro Sciolto il primo argomento, il quale era for
vato di sopra per ragioni, per esempi e per tissimo, passeremo a sciorre gli altri, che quasi
autorità esser così) c'è lecito di servircene e dipendono da questo. -

necessario il porto e raccontarlo in questo luo Alla Seconda. Si concede che gli effetti e le
go per prova. Secondariamente egli non è vero operazioni de'calori siano diverse, cioè, che il
nelle qualità seconde, perchè una medesima sa calor del sole fa altre operazioni che quelle
nità si può generare dalla natura, dall'arte ed del fuoco, e che il calore naturale fa operazioni
a caso; come si prova nel decimo della Me contrarie a quelle del calore strano. Ma si ri
tafisica; e così è certissimo che quella regola sponde che essi fanno queste operazioni, non
non vale negli accidenti; il che a noi baste come calori semplicemente, ma come calori
rebbe che consideriamo il caldo come acciden tali; cioè il calore naturale non fa tante e tante
te. Ma proviamo ancora seguendo la comin salutevoli operazioni come calore, ma come ca
viata induzione, che elia non vale in tutte le lore naturale; e così il calore strano non di
sostanze. Primieramente ella non vale nelle so strugge e corrompe, come calore, ma come ca
stanze semplici ed elementari, perciocchè il lore strano, cioè come sostanza e non come
medesimo fuoco di spezie si genera univoca qualità; e noi intendiamo de' calori semplice
mente ed equivocamente; univocamente, co mente, cioè come qualità ed accidenti, e non
me da un altro fuoco; equivocamente, come come corpi e sostanze. Dovemo ancora sapere
dal sole e dal movimento locale, come si prova che non tutte le diversità degli effetti argui
nel terzo libro del Cielo. E perchè hanno le scono necessariamente le diversità delle cause,
medesime qualità ed i medesimi accidenti per perchè possono procedere da diverse propor
sè tutti quanti i fuochi ed il medesimo moto; zioni e temperamenti e da diverse materie; on
dunque sono d'una medesima spezie spezia de un medesimo sole o fuoco rassoda il fango,
lissima, perchè l'identità (come dicono i filo ed intenerisce la cera. Quanto al maturamente
sofi) ovvero la medesimità specifica del moto dell'uve, dovemo sapere che il calde del sole
arguisce e mostra la medesimità della spezie. non matura l'uve mediatamente, ma immedia
È che le cose, le quali hanno il medesimo tamente, perchè egli genera in esse certi corpi
moto specifico, siano della medesima spezie cini caldi, i quali a poco a poco mescolano l'u-
spezialissima, provò il Filosofo (1) nel primo mido ed il secco, e così maturano. E quinci è che
del Cielo al testo del commento ottavo. Secon pigiate l'uve e fatto il vino, egli bolle, perchè
dariamente egli non è vero nelle sostanze mi quei corpicini si ragumane e uniscono insieme,
ste inanimate, perchè i metalli si possono fare ma il caldo del fuoco non matura l'uve, per
della medesima spezie dalla natura e dall'arte, chè egli non genera quei corpicini. Quanto ai
come affermano i più approvati filosofi, e noi ghezzi (1), il caldo del fuoco non incuoce, e non
n'avemo trattato lungamente nella quistione fa le carni nere arrostendole come fa il caldo
dell'Alchimia (2). Non è vero ancora nelle so del sole, perchè egli è in sostanza e materia
stanze miste animate d'anima vegetativa; con molto più crassa: onde il suo caldo o l'aria
riscaldata da lui non penetra ne'pori delle co
(1) Intendi qui e più sopra e in altri luoghi Aristotile, tenne, che sono sottilissime come fa quel del
così detto, a parlare co' retori, per antonomasia. . (M.)
(2) Scrisse il Varchi un Trattato d'Alchimia o Archimia,
sole, il quale risoluti quei pori e seccate le
e lo dedicò a M. Bartolommeo Bettini, ricco mercatante, in cotenne, v'induce la nerezza ed arrostimento
casa di cui dimorò, mentre stette a Roma. Quest'operetta si
conserva manoscritta in Firenze, nella libreria de'Signori Gua (1) Ghezzi chiamansi certi corvi bastardi delle montagne
dagni dell' Opera. (M.) di Toscana, che hanno le penne nerissime. (M.)
vARent 7
5o .EZIONE
che noi vediamo spesse volte in quelli che cam teria. E che il nascimento diverso non varii la
minano al sole, o che si bagnano. spezie, s'è mostro di sopra.
Alla Terza. Che questa ragione sia falsa, e Alla Settima. Quella proposizione che tutte le
che una medesima spezie si possa generare uni cose che si generano, si generano da uno uni
vocamente ed equivocamente, s'è dimostrato voco, intesa semplicemente, non è vera, anzi
poco di sopra apertamente, così nelle sostanze falsissima, come s'è detto e provato di sopra,
come negli accidenti e però non replicheremo tanto nelle sostanze, quanto negli accidenti. E
altro. però Alessandro, il gran Peripatetico, diceva,
Alla Quarta. La quarta ragione, quando bene che a voler verificare questa proposizione,
fosse tutta verissima semplicemente ; il che non erano necessarie tre condizioni: prima, che si
è, perchè si debbe intendere della materia intenda dell'agente principale; seconda che si
prossima ed immortale (come dichiareremo pigli non solo l'agente principale, ma il pros
nella quistione propia), o piuttosto essendo vera simo e vicinissimo: terza, che l'agente, oltra
solamente negli animali perfettissimi come di l'essere principale e prossimo, sia anco per sé
chiara il Conciliatore della decima particola, al e non per accidente. Ma ancora osservate que
Problema sessantesimosesto, non sarebbe a pro ste tre condizioni, non è sempre vera. Però
posito, perchè favelliamo de'calori, come ca gli Scotisti dicono che quella proposizione si
lori e qualità, e non come sostanza e corpo, debbe intendere largamente, cioè, o virtual
come s'è detto già più volte. mente, o formalmente. Averrois medesimamente
Alla Quinta. Si concede che la secchezza ed aggiugne a questa proposizione: primo, che
umidezza siano diverse di spezie non altramente ella s'intenda delle generazioni nelle sostanze
che la gravezza della terra e la gravezza del e non negli accidenti; secondo, nelle genera
l'aria; ma si dice che il calore, come calore, zioni che non cessano mai; terzo, che la ge
ricerca sempre la secchezza e non mai l'umi nerazione non sia simile alla generazione cau
dezza. Se il calore dell'aria ricerca l'umidezza, sale. E tutte queste cose arebbero bisogno.
non la ricerca come calore, ma come calore di lunga dichiarazione e vari esempi ed in
dell'aria; e così il caldo naturale ricerca l'u- somma d'un'altra quistione a voler risol
mido sostantifico e nutrimentale, non come ca verle perfettamente. Ma noi per non molti
lore solamente, ma come calore naturale. E che plicare in infinito, le serberemo a un altro
il caldo del fuoco sia della medesima spezie di tempo, e ci basterà dire qui, che questa
quello dell'aria, si conosce manifestamente, per proposizione è vera negli animali perfettissimi
chè il caldo del fuoco accresce e genera il e non nei perfetti e imperfetti. Perchè come
caldo dell'aria come si vede il verno; e la terra si disse nell'Alchimia, alcuni animali per la
bagnata accostata al fuoco, si rasciuga e torna grandissima perfezione loro non si possono in
alla prima secchezza, mediante la secchezza generare, se non in un modo solo, cioè di se
del fuoco. Oltra questo Aristotile nella gene me, e questi si chiamano perfettissimi come l'uo
razione prova, che di duoi elementi, ancora mo. Alcuni per la grandissima imperfezione lo
che manchino di simbolo, cioè che non con ro, non si possono generare anche essi, se non
vengano in qualità nessuna, come del fuoco e in un modo, ma vilissimo, cioè di materie cor
dell'acqua, che hanno tutte le qualità con rotte e putride, e questi sono quei che non
trarie, se ne genera un terzo, come l'aria in generano come i lendini. Alcuni sono più no
esto modo. Quando il caldo del fuoco vince bili di questi ultimi e meno perfetti di quei
il freddo dell'acqua, e l'umidità dell'acqua primi, e questi si possono generare in due mo
avanza il secco del fuoco, rimangono le qua di, di materie corrotte e di seme, come i topi
lità dell'aria vincenti, cioè la caldezza e l'u- e questi chiamiamo noi perfetti, e diciamo che
midezza. E così si è fatto aria d'acqua e di quella proposizione non è vera, nè negli im
fuoco; ma queste due qualità erano prima qua perfetti, nè ne'perfetti, ma ne perfettissimi so
lità del fuoco e d' acqua, ed or sono dell'aria; lamente. E così avemo risposto a tutte le ragioni
dunque non sono differenti di spezie. Ancora della parte contraria; il perchè verremo alle au
se la freddezza dell'acqua avanza il caldo del torità, benchè ciascuno le può intendere e con
fuoco e la secchezza del fuoco vince l'umidità futare da sè stesso, avendo intesa la distinzione
dell'acqua, allora si genera terra e sono le me fatta di sopra del nome e del calore; e però
desime qualità di prima; dunque non sono le passeremo brevissimamente.
differenti di spezie. E perchè queste cose sono
chiarissime, non ne dirò altro. RISPosTA ALLE AUToRiTA'
Alla Sesta. Si niega che le spezie del fuoco
siano diverse, anzi tutti i fuochi sono della Tutte le autorità d'Averrois e molte altre
medesima spezie spezialissima, come provò Ari del medesimo e d'altri, che si potrebbero al
stotile nel Cielo. E sebbene sono differenti, sono legare, si sciogliono agevolmente, perciocchè
differenti materialmente e per accidente, non favellano del calore come sostanza, e non co
essenzialmente, perchè il fuoco, se è in mate me accidente; e però non fanno a proposito.
ria terrestre, si chiama carbone; se nell'aria, si Ora come il caldo, come caldo, non è diffe
chiama fiamma, la quale non è altro che fuoco rente, nè di genere, né di spezie, nè di nu
acceso; senza che qui si considerano i calori i mero, essendo un medesimo ed una sola qua
come qualità e non come corpi; e questo scio lità ; così i caldi non come caldi, ma come
glie infiniti dubbi ed argomenti in questa ma corpi sono diversi non solo di numero e di
SUI CALORI 5I

spezie, ma ancora di genere, e sono infiniti, e s'influisca, per così dire, celeste e continua
come si mostrò di sopra. Quanto all'autorità virtù in queste cose inferiori, le quali essendo
d'Ugo e di Gentile, diciamo che essi furono imperfettissime e corruttibili, hanno quella so
di quella opinione, e senza dubbio sono contra miglianza e proporzione verso quelle di lassù,
tutti i migliori medici e filosofi, non solo in le quali sono perfettissime ed incorruttibili, che
questa opinione, ma in quella della febbre e ha la materia alla forma e la parte al suo tutto.
molte altre. E all'autorità che Gentile allega E quella virtù quasi infinita ed incomprensibile
in favor suo d'Averrois, diciamo che fu in penetrando tutti gli elementi e per tutto me
equivoco, e non prese bene la sentenza delle scolandosi, genera tutte le cose e tutte le ge
parole d'Averrois in quel luogo, dove favella nerate conserva: laonde manifestamente non
molto scuramente, e più secondo l'altrui opi- | può essere nè corpo, nè cosa corporale (come
inione che la sua, e nondimeno egli intende pensavano i Platonici), perchè nessun corpo,
qui del calore, il quale è nel calore subbietti- | nè i matematici ancora possono penetrare un
vamente ed in virtù, e non del calore pro altro corpo. E perchè come il primo incffabile
dotto dal sole come intende Gentile. E que motore non opera senza mezzo (parlando sem
sta non è sospizione mia, ma di maestro Piero pre secondo i filosofi), ma ha il cielo per suo
da Mantova, chiamato il Peretto, uomo ottimo strumento, mediante lo quale opera tutte le
e filosofo dottissimo (1), a cui siamo infinitamente cose; così il cielo non opera immediatamente,
obbligati, si per le opere scritte e lasciate da ma con mezzo. E gli strumenti suoi (secondo
1ui, e si per lo aver fatti tanti e si grandi uo i Peripatetici), sono il moto ed il lume, me
mini, tra quali fu il reverendissimo cardinale diante i quali opera ed esercita gli effetti e
dontarino (2), del quale si può dire molto più azioni sue tutte quante, come testimonia il Filo
veramente che non disse Lucrezio d'Epicuro: sofo, nel secondo libro del cielo al testo del
Questi d'ingegno e d'opre sante e belle commento quarantadue, allegato tante volte,
vinse tutti altri e coprio, come 'l Sole Ma perchè il movimento del cielo non passa
copre nascendo il ciel tutto e le stelle. la prima regione dell'aria ed il lume non pro
duce se non calore, ne può essere cagione di
F qui sarebbe il fine di questo trattato; se freddo, se non per accidente, come anco di
non che mi ricordo d'aver promesso nella prima buio, mediante l'assenza e lontananza sua, giu
parte di voler dire nel fine di questa ultima dicarono alcuni che questi duoi strumenti soli
alcuna cosa di quel calore celeste che si chiama posti da Aristotile non bastassero a produrre
tepore etereo, il qual solo è in tutto e per quaggiù e mantenere le cose mortali tutte
tutto diverso, distinto e differente da tutti quante. E certo dura cosa pare a credere che
gli altri; anzi tutti gli altri senza lui sarebbero il caldo del sole possa penetrare e produrre i
nulla, facendo tutto quello che fanno in virtù metalli infino nelle viscere della terra, riscal
e come strumenti di quello, come si vedrà. dando una parte dopo l'altra (come essi di
cono), ed impossibile a pensare che il mede
DEL CALoRe CeLESTe ovvero reporte eteneo simo caldo prodotto dalla riflessione e river
peramento dei raggi, prima trapassi e poi ri
Egli non è dubbio nessuno appresso i filosofi tenga tanta virtù che egli possa generare l'oro,
che questo mondo inferiore, cioè l'aggregato le pietre e molte altre cose, non pur sotto la
di tutti e quattro gli elementi, e oltre tutti rena de profondi e correnti fiumi, ma ne bas
gli elementi quello che si contiene dalla luna sissimi fondi de' più alti ed orgogliosi mari.
in giù, sia retto e governato dal mondo supe Senza che (per tacere infinite altre cose) se il
riore, cioè dall'aggregato di tutti i cieli che sole e l'uomo generano l'uomo come è cer
sono dalla luna in su, contando essa luna, in tissimo, perchè si genera anco egli di notte e
guisa che se le operazioni del cielo cessas quando è nugolo? Onde per queste e moltissime
sero ancora un punto solo, tutto l'universo altre cagioni di grandissima efficacia hanno
subitamente, senza alcun dubbio, si disfareb detto alcuni, e, secondo il poco sapere e giu
ibe e corromperebbe. Conciossiachè tutte le dizio mio, non senza potentissima cagione, che
cose, qualunque e dovunque siano, dipendano essendo non solamente le stelle, ma ancora
così nello essere, come nello conservarsi da tutto quanto il cielo lucido di sua natura e
esso cielo, e da quelle pure e santissime menti risplendente, dal cielo e da tutte le stelle
celesti che intelligenze si chiamano. Onde è cade continuamente in questo nostro mondo,
necessario che dal cielo piova continuamente insieme col lume, di cui ella è compagna e
seguace, una virtù spiritale, la quale alcuni
(1) Intende qui il Varchi parlare del celebre Pietro Pom chiamano calor celeste ed alcuni tepore etereo.
ponazzi, che per la piccolezza della sua statura fu detto il Pe E questa qualità, la quale è (come diceva Pla
setto. Naeque in Mantova nel 1462, e morì in Bologna tone) il semenzaio di tutte le cose, generando
nel 1524. Fu devotissimo ad Aristotile, ed ebbe carico d'aver e conservando ogni cosa, non è nè tangibile,
negata l'immortalità dell'anima. – Vedi la Storia del Tira nè visibile, non si potendo nè toccare, nè ve
boschi, t. III, p. 469. - (ni, dere, ma celeste e divina. E opera diversamente
(2) Il Cardinale Gasparo Contarini, a buon diritto anno
verato fra gli uomini più chiari per ingegno e per virtù, che ed in modo senza alcuna comparazione più
siano fioriti nel secolo XVI, fu scolare del Pomponazzi. Di possente e migliore di tutti gli altri calori; e
lui si veggano le notizie nella Storia del Tiraboschi, t. Il I, mediante questa, di cui tutti gli altri caldi sono
p. 423. (M.) imitatori o piuttosto ministri, tutti gli elementi,
52 LEZIONI

dalla terra infuora (1), la quale essendo come


centro, è immobile; ed imitano il moto circolare
del cielo girandosi intorno intorno, quanto pos LEZIONI O TTO
sono il più, come si vede nel flusso e riflusso
del mare; la cagione del quale, ancora che sia SULLE TRE CANZONI DEGLI OCCHI
incertissima e s'attribuisca da diversi a diverse
cose, tuttavia si può riferire meglio che in altro
(come altrove s'è detto), a questa divinissima
qualità. La quale tutti gli uomini con tutte le LEZIONE PRIMA
lodi, in tutti i tempi, non potrebbero lodare
bastevolmente; e di questa credono alcuni che Letta privatamente nello Studio Fiorentino
intendesse Aristotile nel secondo libro della il quarto giovedì d'aprile 1545
Generazione degli animali al terzo capo. Ma per
che quel luogo ha diverse interpretazioni, ci
serberemo a dirne il parer nostro un'altra Fra tutte le maniere degli scrittori di qua
volta, e massimamente avendo in animo (Dio lunque o lingua o tempo, a me pare, nobilis
concedendolmi) di trattare un giorno degli in simi accademici, che non solamente i più ric
flussi celesti, i quali sono negati da Peripate chi e più ornati, ma ancora i più utili e più
tici e conceduti anzi affermati da medici. E dilettevoli siano i poeti: quelli poeti dico, i
Galeno poco meno che ad ogni carta, fa men quali per acutezza d'ingegno, grandezza di
zione dell'influenza del cielo e delle sue pro dottrina, eccellenza di giudizio non sono in
pietà occulte, e promette di voler comporne degni di tanto nome. Perciocchè, essendo cia
un libro; il che egli o non fece, o se pur il scun parlare in tutte le lingue o per insegna
fece, non è pervenuto a nostri tempi, siccome re, o per muovere, o per dilettare ritrovato,
molte altre opere e sue e d'altri, o per l'in soli i poeti, o almeno senza alcun dubbio più
felicità de'secoli, o per la negligenza de'prin spesso eglino, e meglio di tutti gli altri, mie
cipi. E ben so che in credendo questa qualità, scolando con mirabile artifizio c congiugnendo
discordo non solamente dal mio onoratissimo insieme queste tre cose, arrecano incredibile
precettore, ma generalmente da tutti i Peripa utilità, ineffabile diletto, inestimabile maravi
tetici, ancora che Averrois e molti altri ne fac glia alla vita umana. Conciossiache essi inse
ciano qualche volta spinti dal vero (siccome io gnando, insegnano di maniera che ancora di
stimo) alcuna menzione, chiamandola ora calor lettano e novono parimente, e movendo e di
celeste ed ora stellare, e quando altramente, lettando, movono e dilettano in guisa che an
come si può vedere nelle autorità allegate di cora insegnano. Onde non senza cagione fu
sopra e nel primo libro della sostanza e ma detto da molti autori e di grandissima riputa
teria del mondo. E di qui pende tutta la ve zione, la poesia non essere cosa mortale, ma
rità o falsità dell'Astrologia giudicatoria, la quale divina; non trovata dagli uomini, ma dagli Id
non è così falsa e biasimevole, come molti la dii, non nata nel mondo, ma discesa dal Cie
credono, in quel modo e per quelle ragioni, lo. La qual cosa non saria difficile a credere
che si dichiareranno allora. In questo luogo a chiunque vorrà bene o l'antichità di cotale
basta sapere, che tutti gli altri calori sono tra loro arte, o la maggioranza sopra l'altre conside
univoci e con questo equivoci, il quale non rare. Ma l'intendimento nostro non è di vo
è propio calore, ma piuttosto tepore, o s'altro lere al presente celebrare la Poetica, per
nome più dolce, più temperato e più vero se ciocchè nè io sono tale che debba pigliare si
gli potesse trovare, il quale fosse più vero e fatta impresa, o, pigliatala, possa degnamente
più appropiato a suoi tanti e tanto incredibili, e come si converrebbe trattarla: nè voi avete
anzi veramente divinissimi effetti. E qui ren punto bisogno de' miei ricordi o conforti, es
dendo infinite e grazie e lodi a Colui, il qual sendo per voi medesimi, come ne dimostrano
solo tutto vede e tutto può, daremo fine a que la frequenza ed attenzione vostra, infiamma
sta presente quistione. tissimi allo studio di sì bell'arte. Del che non
posso prima con esso voi, poscia meco stesso
(1) A tempi del Varchi non era ancora diffusa la notizia non rallegrarmi. Onde vi dirò brevemente quello
del sistema Copernicano; del quale serbavasi al nostro Galilei che non solo posso, ma debbo ancora rispetto
di dare la più completa ed evidente dimostrazione. (M.) al grado che tengo sinceramente dirvi e con
verità, e questo è che io assai volte ho non
minor frutto dalla lezione de poeti che dalla
eguale de filosofi riportato. Nè vi paia ciò mc
raviglia, accademici ingegnosissimi: conciossia
chè i poeti ed i filosofi sono nel vero una cosa
medesima, nè alcuna differenza è tra loro se
non di nomi. Perciocchè la poesia non è altro
che una filosofia numerosa cd ornata, la quale
aprendosi dolcemente per l'orecchie la via al
cuore, e quivi bene e dentro sentir facendosi,
ne alletta maravigliosamente anzi rapisce gli
animi, e massimamente dei più gentili e più
SULLE CANZONI DEGLI OCCHI 5
º
generosi. E i poeti altro non sono che filosofi, trattate con diligenza. Sei dunque sono i capi
i quali non meno con gravi e dotte sentenze, che volemo piuttosto annunerare che dichia
che con parole belle e leggiadre e con dol rare, i quali sono questi: I. In che genere siano
cissimi concerti n'insegnano ora apertamente queste tre canzoni. II. In che stile. III. In
ed ora sotto fingimenti di favole (oltra i più che spezie e sorta di poesia. IV. Quale sia il
bei fiori di tutte l'arti e discipline liberali) non soggetto e fine loro. V. In che siano simili, e
solo a odiare e fuggire i vizi, ma seguire ed in che dissimili. VI. Se dipendano di sopra o no
amare le virtù.
Ora se alcuno fu mai, il quale e di dolcezze, CAPo I
di concetti, e di leggiadria di parole, e di gra
vità di sentenze fosse piuttosto divino che In che genere.
mortale, il vostro Messer Francesco Petrarca
fu quello egli, essendo stato oltra ogni credere Quanto al primo capo dovemo sapcrc, che
e quasi umano potere numerosissimo, leggia le parti ovvero spezie della rettorica che si
drissimo, sentenziosissimo. E se de componi chiamano comunemente generi sono tre, di
menti stessi del vostro Messer Francesco Pe mostrativo ovvero lodativo, deliberativo ovvero
trarca medesimo fu mai alcuno, il quale e di consultativo, e giudiziale dimostrativo. Dimo
vaghezza e di grazia, e di meraviglia vincesse strativo è quando, o si loda alcuna cosa, o si
gli altri, e trapassasse tutti quanti; queste tre biasima; ed in questo genere senza alcun dub
Canzoni degli Occhi sono quelle desse, essendo bio sono queste tre camaoni lodando i begli
sopra ogni vaghezza, sopra ogni grazia, sopra occhi della castissima Madonna Laura. E per
ogni maraviglia vaghissime, graziosissime, ma chè ciascuno di questi generi può essere o
ravigliosissime. Onde dicono molti, che egli in onesto, lodando cose buone; o brutto, lodando
queste tanto fu maggiore di sè stesso, quanto cose cattive; o dubbio, lodando cose parte
in tutte l'altre a tutti era stato superiore. buone e parte cattive; o umile, lodando cose
E io porto ferma opinione, che nessun poeta basse, diremo che queste canzoni sono nel ge
in nessuna lingua facesse mai sopra un sog nere umile, lodando una parte o piuttosto par
getto cotale nè più varia composizione di que ticella, e non un tutto. E se alcuno volesse
sta, nè più bella; e tengo per certo che que che fossero nel genere onesto, non potremmo
sta sola basti largamente a mostrare che non confutarlo, nè vorremmo, ancora che a noi piac
solo la copia, ma ancora gli ornamenti della cia più la prima sentenza per le ragioni che
favella toscana sono tali e tanti che molte vedremo nel proemio
volte in molte cose s'appressano più alla ric
chezza della lingua greca, che non si disco CAPo II
stano dall'eloquenza della latina. E se alcuno
non sente, in leggendo queste tre sorelle, mo In che stile.
versi dentro al cuore una quasi infinita indi
susata dolcezza, vede risolutamente o di non Tre sono gli stili, come s'è detto altra volta:
intenderle o d'essere lontanissimo da ogni gra alto, mezzano, basso. A noi pare che queste
zia ed armonia. Benchè chi non ha provato canzoni non siano in istile nè alto del tutto, nè
mai le castissime fiamme del santissimo amo del tutto basso; ma nel mezzano come pareva
re, non può nè conoscere a pieno, nè gustare che ricercasse la materia a chi ben considera
perfettamente pur la millesima parte della di E perchè ciascuno di questi stili si divide in
vinità (non mi sovvenendo ora vocabolo mag tre parti, esempligrazia in altamente alto, in
giore per isprimere cosa sì grande), la quale mezzanamente alto, ed in bassamente alto;
abbondantissimamente per tutti i versi versa, giudichiamo che la prima sia in istile bassa
e trabocca da tutte le parti di ciascuna di mente mezzano, la seconda in mediocremente
queste tre più che celesti e più che divine can mezzano, la terza in altamente mezzano; an
zoni. Le quali noi seguitando il lodevole ordine cora che in tutte siano di tutti gli stili e modi
dei nobilissimi e dottissimi antecessori nostri, d'essi ; chè ben sappiamo che queste cose non
anderemo interpretando di mano in mano ogni consistono in un punto, ma hanno larghezza, e
giovedì, dichiarando non solamente le parole ed ciascuno può tirarle a suo modo e crederle o
i sentimenti che dalle parole si cavano, come non crederle come più gli piace. A noi basta
hanno fatto molti altri avanti noi con non mi per soddisfare all'obbligo mostro dire libera
nor dottrina che diligenza, ma eziandio l'artifizio mente e sinceramente se non doltamente e ve
come delle parole, così delle sentenze. E tutto vamente quanto sentiamo
faremo, prestandone voi cheta e riposata udien
za, in quel modo che da Dio ottimo e gran CAPo III
dissimo he sarà e più breve e più agevole con
ceduto. In che spezie di poesia.
Prima che venghiamo alla sposizione parti
colare delle parole, dovemo notare alcune cose Questo terzo capo può avere più e diversi
non meno utili che necessarie; il che faremo sentimenti. Cominciando dal più alto e più ge
brevemente ricordando i capi senza altra lunga nerale, diciamo che le spezie delle poesie sono
dichiarazione, bastando in questo luogo accen molte, e molto varie; conciossiache oltre i fa
nare solamente quelle cose che altrove si sono citori delle tragedie e quelli delle commedie,
54 LEZIONI

si trovano dei poeti eroici, come Omero e Vir stanze e le sestine, perchè sempre osservano le
gilio, degli elegiaci come Callimaco e Tibullo, medesime regole: libere, come sono quasi tutti
degli epigrammatici, dei quali se ne trovavano i madrigali, perchè non hanno alcuna legge, o
molti appo i Greci e pochissimi fra Latini e se nel numero de'versi, o nella maniera del ri
condo alcuni niuno. E per non andare raccon marli, ma ciascuno siccome ad esso piace, così
tandoli tutti, non bisognando dei lirici (detti le forma: mescolate cioè in parte regolate e
così per lo cantarsi i versi loro al suono della in parte libere che sono quelle rime che in
lira) come fu tra Greci massimamente Pindaro parte legge hanno, e parte sono licenziose
ed Orazio fra i Latini, così in questo novero come i sonetti e le ballate. E di questa guisa
è riposto il nostro leggiadrissimo e dottissimo son le canzoni, perciocchè in esse puossi pren
Messer Francesco. Il che non si può negare e dere quale numero e guisa di versi e di rime
massimamente in quanto alle Canzoni; perchè, a ciascuno è più a grado, e comporre di loro
come dice Orazio nella Poetica: le prime stanze. Ma presi che essi sono è di
Musa dedit fidibus divis puerisque Deorum mestier seguirli nell'altre con quelle leggi che
E juvenum curas et libera vina referre. il componitore medesimo licenziosamente com
ponendo s'ha presa. E questo basti del terzo
Ma in quanto a sonetti si potrebbe per ven capo.
tura piuttosto annoverare tra i poeti d' epi
grammi; benchè essendo le lingue diverse, e C A P o IV
le maniere dei versi diversissime, non si pos
sono fare queste congiunzioni così a punto, ed
assegnare tutte quelle proporzioni e somiglianze Soggetto.
che tra i Latini ed i Greci si vedono essere.
Però nessuno può (che io creda) ritrovare in Per meglio intendere questa quarta parte,
molte cose somiglianti la verità e dire affer dobbiamo notare che la materia ovvero sog
matamente: ella sta così. getto, cioè quella cosa, della quale si scrive o
Dividonsi oltre a questo i poemi in tre spe favella, ne può essere data, come ne mostrò
zie; perciocchè alcuni sono ne' quali il poeta dottamente il letteratissimo Messer Giulio Ca
non favella mai, ma sempre persone intro millo, da tre cose senza più : o dalla natura
dotte da lui, come si vede nelle tragedie e e queste son tutte le cose naturali, o dal ca
nelle commedie, e nel secondo e terzo libro so e queste sono tutte le casuali, o dall'arte
di Virgilio della vita e fatti d'Enea. E questa e queste sono tutte le cose artifiziali, e sotto
sorte si chiama da Latini grecamente dramma il nome di arte si comprendono tutte le arti
tica ovvero attiva. In alcuni per lo contrario così liberali e degne come meccaniche e vili
non s'introduce persona nessuna, ma sempre Ora trattando il poeta in tutte e tre queste
favella il poeta come si vede in tutti i libri Canzoni degli Occhi di Madonna Laura, ed es
di Lucrezio, e in tutta la Georgica di Virgi sendo gli occhi una particella ed articolo del
lio, e questo si chiama exegetico ovvero mar suo soggetto, cioè di Madonna Laura, nessun
rativo; e in questo genere sono queste tre può dubitare che il soggetto e materia sua
canzoni come è più che manifesto. La terza non sia naturale e dalla natura portagli; sic
ed ultima spezie si chiama comune, perchè in come quando egli parla del viso, delle treccie,
essa parte favella il poeta, e parte le persone della mano o d'altre membra in particolare
introdotte da lui, come si vede nell'Iliade e Nè è senza maraviglia de' più intendenti che
nell'Odissea d'Omero, e nell'Eneide di Vir egli, favellando sempre d'una sola particella
gilio e nella Canzone (1) del pianto del Pe della sua donna, in tre e si lunghe canzoni
trarca e in tutta l'opera di Dante. egli l'andasse variando in così maravigliosi mo
Possiamo nel terzo luogo dividere i poemi di, che quanto più si legge di loro e si rileg
in continui o congiunti come Omero, Virgilio ge, tanto altri più di leggerle e di rileggerle
e Dante, ed in discontinui o disgiunti, come divien vago.
le elegie e gli epigrammi latini, e le elegie e Quanto al fine io per me penso che egli fa
sonetti ed altri tali componimenti toscani, e cesse non tanto per acquistare fama ed onore
di questa sorta sono le canzoni. a sè, quanto lode e grido a Madonna Laura,
Nella lingua toscana sono di tre sorta rime; oltre il grandissimo piacere, che egli mostrava
come n'insegna il maggior poeta ed oratore di pigliare nel raccontare le tante e si diverse
de tempi nostri nelle sue dottissime e leggia lodi dei leggiadri occhi di lei. Senza che egli
drissime prose: (2) regolate come i terzetti, le così facendo poteva sperare o d'entrarle in
(1) Il Varchi dà questo titolo alla Canzone VII della parte così sono da reputarsi dettate in buona parte dall'ira, dalla
scoonda – Quell'antiquo mio dolce, empio signore. – (M.) smania di farsi singolare ed anche dal pregiudizio le sentenze
(2) Credo intender voglia del Cardinal Bembo, del quale del Baretti. Fosse egli il solo fra gli scrittori del secolo scorso,
più sotto parla con parole di piena lode. Chi rammenta le cui si dovesse apporre una vera intemperanza di critica: ma
amarissime censure, onde questo eminentissimo fu bersa purtroppo, tranne poche eccezioni, i critici di quella età in
giato dal Baretti, non potrà non meravigliarsi di sentirlo ac clinarono a sentenziare senza cognizione di causa e con una
clamato il maggior poeta ed oratore dei suoi tempi da un uo asprezza irragionevole i nostri più pregiabili scrittori, mentre
mo di si fino criterio, quale fu senz'alcun dubbio il no lasciavansi trascinare ad una cieca imitazione delle cose fore
stro Varchi. Ma come è da credersi per alcuna parte in stiere. Prova ne siano principalmente i giudizi dell'Algarotti,
spirale dell'amicizia il giudizio troppo parziale del Varchi, del Bettinelli e del Cesarotti. (M.)
SULLE CANZONI DEGLI OCCHI 55

grazia o di mantenervisi, benchè egli stesso sa che ad ogni sonetto ed a ogni altra compo
dicesse:
sizione è fornita l'opera, e non ci occorre al
Pianger cercai, non già del pianto onore (1); tra continuazione? Più dirò che Messer Fran

perchè altrove disse ancora: cesco medesimo, quando bene avesse voluto
porli in quell' ordine che gli avea fatti se
Ch'i'veggio nel pensier, dolce mio foco, condo i tempi, non arebbe nè saputo, nè po
Fredda una lingua, e due begli occhi chiusi tuto. Perchè quanti si dee pensare che egli ne
Rimaner dopo noi pien di faville (2)- stracciasse? quanti che egli non fornisse? quanti
che cominciati in un tempo si fornirono in
CAPo V un altro dopo molti mesi ed anni, e forse lui
stri? Quanti vogliamo credere che ne facesse
In che siano simili, e in che dissimili. dopo la morte di Madonna Laura di quelli che
sono in vita, ricordandosi di qualche atto o
Sono simili queste tre sorelle, perchè tutte parola, o fatto, o detto da lei mentre vivea?
sono d'un medesimo autore, tutte trattano d'un E finalmente il volerli continuare l'un dal
soggetto medesimo, tutte hanno i medesimi versi l'altro è non solamente, per mio avviso, im
ed una stessa misura. Sono dissimili, perchè possibile e falso ma ridicolo; e ben so che al
la prima è indirizzata agli Occhi, la seconda a euni vanno insieme di necessità, come sono
Madonna Laura, la terza ad Amore. Sono an quelli tre sonetti della partita di Madonna Lau
eora dissimili, perchè sebbene tutte sono nello ra:– Quando dal proprio sito si rimove (1), e quei
stile mezzano, tuttavia la prima è men alta duoi: – Amor piangeva e Più di me lieta (2): ed
della seconda, e la seconda della terza, come alcuni altri e queste tre canzoni stesse. E que
si disse di sopra. Sono ancora dissimili per sto mostra che gli altri non si debbono con
questo, perchè essendo tutti i poemi general tinuare. A quelli che vogliono che queste tre
mente o piacevoli, o gravi, benchè quasi sem canzoni in particolare pendano di sopra dalla
pre si mescoli la gravità colla piacevolezza, e canzone,

la piacevolezza colla gravità (nella qualcosa Lasso me, che non so in qual parte pieghi,
il Petrarca fu maestro grandissimo in maniera,
che scegliere non si può in quale delle due ancora che siano di grande autorità, nondimeno
egli fosse maggiore), la prima di queste canzoni rispondo, che non mi pare necessario nè ancora
pare più piacevole che grave, la seconda più verisimile; nè mi muove punto la lor ragione.
grave che piacevole, la terza e grave e piace Pure questo non è di troppo momento, e però
vole egualmente; tanto che di loro si può dire me ne rimetto a più dotti e più giudiziosi di me;
come diceva con Ovidio il dolcissimo e santissi ed avendo in ſin qui ragionato in universale di
mo Messer Trifone ogni volta che le leggeva: tutte e tre queste canzoni, verrò ora a favel
lare alquanto della prima in particolare, dove
- - - -
. . Facies non omnibus una, che aremo alcune cose generalmente da av
Non diversa tamen qualem decet esse sororum. vertire.

CAP o VI DELL'ARTIFIzIo

Se dipendano di sopra o no. A fine che meglio s'intenda, e più agevol


mente conosca la grandissima arte e maravi
Sono alcuni i quali hanno creduto che non gliosa leggiadria di questo poeta, mandaremo
solamente queste tre canzoni, ma tutte l'altre alla memoria che qualunque soggetto o mate
e generalmente tutti i sonetti e componimenti ria si debbe trattare, o sia naturale, o sia ca
del Petrarca dipendano l'uno dall'altro; e suale, o sia artifiziale, si può trattare in due
così li continuano con quella diligenza e an modi semplicemente e senza affetto o passione
sietà che fanno i legisti i titoli. La quale opi alcuna, come farebbe il filosofo, o ornatamente
nione mi pare poco meno ridicola di quella di con passioni o affetti, come fanno i retori e
coloro, i quali non pur credono così, ma vor molto più ancora i poeti. La materia che si
rebbon far ancora che gli altri credessero che debbe trattare in questo secondo modo, ha bi
Madonna Laura non fosse stata da vero amata sogno di duoi aiuti, cioè dell'artifizio e delle
dal Petrarca, ma finta per la poesia; nè s'ac parole. L'artifizio, il quale si può chiamare
corgono che il Petrarca medesimo li diede una seconda materia ed è unico strumento del
fuora e pubblicò in quell'ordine che ordina l'eloquenza, viene anch'egli o dalla natura, o
riamente si trovano, e che egli scelse quelli dal caso, o dall'arte benchè ancora d'altronde,
soli che a lui parevano degni d'essere veduti, ed in altri modi che la materia e massimamente
lasciandone molti altri indietro e forse in mag dai fonti topici, come dichiareremo nella espo
gior numero di quelli che si leggono. E nel sizione particolare, essendo materia non meno
metterli insieme non servò l'ordine dei tem difficile e lunga che utile e bella. Da lui rice
pi, perchè (come dice Plinio delle sue pistole), vono i componimenti dignità, dilettazione, mi
egli non componeva una storia. Poi chi non
(1) son. XXVI e i seguenti XXVII e XXVIII,
(1) Son. XXV, Parte II. Parte I.
(2) Son. CLI, Parte I. (2) Son. IV e V, Parte IV.
56 LEZIONI
serazione ed altri tali moti ornamenti, e mas mare, mutare, trasporre o da principio o da
simamente quelli dei poeti, i quali vogliono fine o nel mezzo.
esser più dolci, più affettuosi degli oratori, e
non solamente muovere e persuadere, ma an DELLA DIGNITA'
cora generare maraviglia e stupore negli animi
di chi legge. E questo basti per luce della La dignità consiste sì negli ornamenti delle
materia di cui si scrive, chè a dirne abbastanza, parole, che sono: ripetizione, conversione, tra
non basterieno i giorni interi, nè i mesi, nè duzione, interrogazione ed altre molte, delle
forse gli anni. quali si deve trattare lungamente dando gli
esempli a tutte; come delle sentenze che se
oELLE PAROLE no: distribuzione, licenza, frequentazione, si
militudine e l'altre delle quali medesimamen
Quanto alla forma o apparenza che si dà te si deve parlare più distesamente e chiara
alla materia, cioè alle scritture, e similmente mente.
alle parole che i Latini chiamano elocuzione,
ella vuole avere tre parti: eleganza ovvero DELL'ARTIFIzIo DELLE PAROLE IN QUEsTA CANzoNE
leggiadria (poichè questo vocabolo galanteria
non è usato ancora da buoni scrittori), compo Ma venendo ormai a questa prima Canzone
sizione ovvero ordine, e dignità. particolarmente dico, che l'artifizio suo e nelle
L'eleganza consiste nella purità e chiarezza parole, e nelle sentenze, è meraviglioso. E per
delle parole; e le parole sono o propie o tra considerare un poco in genere, dico in una
slate, cioè tolte d'altronde, o fatte da noi. Le parte sola in quanto all'artifizio delle parole,
parole, che si debbono usare nello stile alto che avendo egli a parlare agli occhi di Ma
devono essere: alte, gravi, grandi, sonanti, ap donna Laura e lodarli primieramente li chiamò:
parenti, luminose, rotonde, severe, magnifi Occhi leggiadri dove Amor fa nido.
che, ec.
E nello stile umile devono essere: umili, E di nuovo a lor rivolgendosi dice :
basse, picciole, lievi, piene, dimesse, popolari, Principio del mio dolce stato rio,
chete, usate. Quando agl' ardenti rai neve divegno :
Nello stile mezzano devono essere mezzana
mente temperate tra l' altezza e l'umiltà, e agguagliandoli al Sole. E nella quarta stanza
generalmente si devono usare sempre parole: chiamandoli più per nome propio:
pure, monde, chiare, belle, grate, dolci, soavi, Occhi sopra 'l mortal corso sereni e
piacevoli, morbide, vaghe, graziose, oneste, gen
tili, delicate. e poco di poi:
E fuggire sempre le brutte, vili, dure, aspre, ru Luci beate, e liete.
vide, dense, ristrette, dispettose, disunenti, roz e nella medesima stanza
ze, immonde, e le troppo vecchie, nuove, sdruc
ciolose, mutili, strepitanti, tarde, veloci, scel Lumi del Ciel, ec.
te, languide, pingui, aride. e finalmente nel terzetto della canzone inten
E guardarsi in tutto di non pigliare nello
stile alto le ridicole in luogo delle gravi, nel dendo pur degli occhi disse:
basso le imbellettate per le vaghe, le insipide in A dir di quel che a me stesso m'invola.
vece delle dolci, le stridevoli in iscambio delle
soavi, e similmente le dissolute credendole pia soELL' ARtm 12Io DELLE SENTENZE
cevoli, come altra volta s'è trattato e si trat DI QUEsTA CANzoNE.
terà diffusamente.
Quanto allo artifizio delle sentenze, lascian
oreLLA COMPOSIZIONE do stare che egli avendo la materia datagli
dalla natura, per non fare come il filosofo o
La composizione, cioè l'ordine delle parole, il medico, che sarebbe stato in sulla propia
è di grandissima fatica ed utilità, e riceve eser natura degli occhi diffinendoli, e dichiarando
citazione lunghissima, ed in questa parte fa le parti e forme e colori loro; egli come ar
mestieri di moltissimi avvertimenti, dove non tifizioso e vero poeta non trattò nulla di que
ibasterebbero le opere intere; pure in univer ste cose: ma gli agguagliò alle più belle cose
sale ha tre parti. che fossero nella natura, cioè al Sole, nè po
La prima, si deve considerare qual parola o teva cercare comparazione nè più bella, nè
muova o vecchia od altro che si sia, torni me più a proposito. E perchè le cose si possone
glio, e se migliore e più atta suona alla mate lodare da beni dell'animo, da quelli del cor
ria proposta. po, e da quelli della fortuna, egli non poteva
La seconda, in qual guisa torni meglio o per lodarli se non della seconda parte. E perchè
diritto, o per lo lungo, o per lo traverso, cioè, tutte le cose sopra la natura si possono lodare
che genere, in che numero, in che caso i no dalle cose che procedono, o che accompagna
mi; ed i verbi in che modo, in che tempo, in no le cose, o che seguitano dopo, egli non po
che persona, se attivamente o passivamente. teva lodarli dalla prima parte, come è noto,
La terza, consiste nell'aggiungere, o sce nè dalla seconda e dalla terza; e però in que
SULLE CANZONI DEGLI OCCHI
sta canzone li loda più volte ed in più modi stenza, che dir dobbiamo, non essendo altro,
dagli effetti, come, per non contare se non i che atto puro senza potenza veruna. E quinci
più principali, quando disse: è, che tutte le cose per assomigliarsi a lui in
tutti quei modi che possono, desiderano natu
Quando agli ardenti rai neve divegno (1); ralmente sopra ogni cosa l'essere: il che si
e più di sotto: vede non pure nelle cose animate e viventi,
Beato venir men ! che in lor presenza ma in quelle ancora, che mancano d'anima e
M'è più caro il morir che 'l viver senza (2); di vita. Perciocchè non dovemo credere, che
il primo e principale intendimento dell'acqua,
eleggendo di più tosto voler morir con essi che quando spegne il fuoco, sia per corromperlo
viverne lontano. Poi accrescendo disse: e distruggerlo, essendo ogni corrompimento e
distruzione contra essa natura, la quale per sè
Ma, se maggior paura
Non m'affrenasse, via corta e spedita non intende mai corruzione alcuna, nè distrug
Trarrebbe a fin quest'aspra pena e dura (3); gimento; ma ella ciò fare, per mantenere e
conservare sè medesima, la qual cosa non può
mostrando che si sarebbe morto per non vive conseguire altramente, che i" per
re senza loro; del quale non sa immaginare le contrarie qualità che in essa ed in lui si ri
maggiore effetto. E disse ancora: trovano. Similmente il fuoco non arde e non

Già di voi non mi doglio (4). consuma tutte le cose dove s'appiglia per al
tra cagione, che per conservare principalmen
Gran cosa essere in tanti dolori e non volere
te ed accrescere sè stesso. E sebbene queste
dolersi ! Il perchè altrove disse: cose come naturali operano (secondo i migliori
Mille piacer non vagliono un tormento (5); filosofi) senza conoscere d'operare, non però
si dee credere che operino senza ragione, es
e altrove:
sendo rette e guidate da quelle intelligenze che
Togliendo anzi per lei sempre trar guai (6). mai non errano. E noi medesimi senza saper
ne altra cagione sporgiamo sempre innanzi, e
Disse ancora un altro vario effetto per mostrar. pariamo naturalmente il braccio a tutti quei
le il suo dolore:
colpi che potessero o la testa, o altra più no
Pedete ben quanti color dipigne bile e più perigliosa parte offenderne, che le
Amor sovente in mezzo del mio volto (7); braccia non sono. Ma che più? Non deve cre
poi per mostrare la felicità sua insieme col do dere ogni buon filosofo, che se l'aria per mo
lore e la grandezza loro disse: do alcuno, possibile o impossibile che sia, si
corrompesse, o sparisse e diventasse niente, non
Felice l'alma che per voi sospira, debbe credere, dico, ogni buon filosofo, che
Lumi del ciel, per li quali io ringrazio il fuoco in sì fatto caso contra la natura sua
La vita, che per altro non m'è a grado. (la quale è di salire sempre) discenderebbe su
Oimè! perchè sl rado bitamente ed occuparebbe il luogo dell'aria?
Mi date quel d'ond'io mai non son sazio (8)? E l'acqua medesimamente contra la sua natu
ra propria (la quale è di sempre scendere) sa
lirebbe affine che nelle cose della natura e
nel mondo stesso non si desse alcun vuoto? E
(manca il fine della lezione)
questo non per altro secondo che io stimo, no
bilissimi Accademici, se non perchè non si di
struggesse e corrompesse l'universo; concios
1,EZIONE SECONDA siachè mancando l'universo, tutte le cose ver
rebbero di necessità a mancare, e così perde
rebbero l'essere tanto da tutte desiderato. E
Fra tutte quante le cose di tutto quanto a questo medesimo fine senza alcun dubbio
l' universo, l'essere è non solo la prima che tutti gli uomini, tutti gli animali, tutte le pian
sia, nobilissimi Accademici, ma ancora la più te (e per dirlo in una parola) tutti gli animati
perfetta e la più desiderabile; perciocchè in desiderano grandissimamente, e cercano più
nanzi ad esso non è cosa alcuna, e tutte le d'altro di generare cosa a loro somigliante per
cose che sono, sono per lui. Onde in esso Dio, conservarsi almeno nella spezie, dacchè non
il quale è perfettissimo, o, per meglio dire, la possono nell'individuo. E da questo procede
stessa perfezione, dalla quale procedono l'altre ancora che non solo i padri amano così affet
perfezioni tutte quante, è naturalissimo il vo tuosamente i figliuoli e discendenti loro, ma
lere essere, anzi è la propria o essenza o esi eziandio gli scrittori di qualunque maniera e
gli artefici medesimi, quanto sono più degni e
(1) Canz. VI, 8tanza II, Parte I. più eccellenti, tanto si rallegrano maggiormen
(2) Canz. VI, Stanza II, Parte I. te gli uni e gli altri dell' egregie opere fatte
(3) Canz. Vl, Stanza II. da loro come quelli che sperano di dover vi
(4) Canz. VI, Stanza i V.
(5) Son. CXXXVI, Parte I. vere lungo tempo, e quasi perpetuarsi con clle
(6) Son. XXVIII, Parte II. almeno nelle memorie e per le bocche degli
(7) Canz. VI, Stanza IV. uomini, o più virtuosi degli altri, o più pre
(8) Canz. VI, Stanza V. 8 iati. 8
V ARCHI
58 LEZIONI
Da questo ragionamento e discorso potremo le cose che la precedono, come sarebbe l'ori
assai leggiermente conoscere, nobilissimi Acca gine c principio suo. Dal presente, quando si
demici, quanto siano grandi le forze, e come considerano le cose che l'accompagnano e sono
ampia e miracolosa la potenza di quel giova insieme con esso lei, come la bontà, la bellezza
missimo ed antichissimo Dio chiamato per nome ed altre tali. Dal futuro, quando si considerano
convenientissimo Amore; poscia che egli non le cose che la seguitano e le vengono dopo,
solo i più gentili spiriti cd i più cortesi, ma i come tutti gli avvenimenti ovvero effetti. E
più saggi ancora e più temperati cuori, anzi i generalmente si lodano tutte quelle cose, le
più forti e possenti uomini non pure incende quali sono o giuste, o legittime, o utili, o one
e ferisce, ma conduce a tale molte volte colle ste, o gioconde. o agevoli come n'insegna Ari
sue ardentissime e pungentissime fiamme e qua stotile nella Rettorica. E tutte queste cose si
drella che eglino, e benc spesso per leggeris ritrovano in questa Canzone in tutti quei modi
sime cagioni, vaghi di tutti i lor mali, eleggono che si poteva; perciocchè lodando gli occhi
volontariamente la più orribile cosa e la più della sua castissima donna, loda una cosa sen
spaventevole che si possa immaginare, non che sibile e non intelligibile, certa e non incerta,
trovare, cioè essa morte; e tolgono a sè stessi presente e non futura: e la loda, come onesta,
colle mani propie quello che più d'altro de utile e gioconda, sì dalle cose che accompa
siderano naturalmente, cioè essa vita, amando gnano gli occhi, e si da quelle che li seguita
meglio il non essere che essere scmza la presenza no, cioè dagli effetti che producono. E perchè
o senza la grazia delle lor donne. Cosa vera tutte e tre queste canzoni sono continuate, e
mente maravigliosa e del tutto incredibile, se quasi una sola, egli fa un principio, ovvero proe
non che (oltre la propia sperienza di ciascuno, mio comune a tutte, dove egli fa artifiziosamente
dove si sia destato amore qualche volta) tutti attenti, docili e benevoli gli uditori secondo
i libri di tutti gli scrittori così antichi come gli ammaestramenti rettorici, come vedremo
moderni, e tanto greci e latini, quanto toscani, di mano in mano nella sposizione delle parole
ne fanno ſcde pienissimamente, e più che gli di ciascuna Stanza,
altri il nostro non meno gentile e cortese che
saggio e temperato messer Francesco Petrarca, 8TANZA PRIMA
si in molti altri luoghi del suo vaghissimo ed
ornatissimo canzoniere, e sì massimamente in Perchè la vita è breve,
tutto quel dotto e grave sonotto che comincia: E l'ingegno paventa all'alta impresa,
S'io credessi per morte cssere scarco (1), Nè di lui nè di lei molto mi fido,
Ma spero, che sia intesa
e nella fine della seconda stanza e della terza Là dov'io bramo, e là dove esser deve
di questa prima così colta, così leggiadra e così La doglia mia, la qual tacendo i grido;
graziosa sorella. La quale noi seguitando il bel Occhi leggiadri, dov'Amor fa nido,
lissimo costume di questa onoratissima Accade A voi rivolgo il mio debile stile,
mia, cominciaremo oggi a dichiarare secondo Pigro da sè; ma 'l gran piacer lo sprona:
l'ordine nostro, chiedendo prima umilmente e E chi di voi ragiona,
sperando non meno il solito favore da Dio ot Tien dal suggetto un abito gentile,
timo e grandissimo, che la consueta udienza Che con l'ale amorose
dall'umanissime e benignissime cortesie vostre. Levando, il parte d'ogni pensier vile:
Tutte le cose qualunque siano, sono o sen Con queste alzato vengo a dire or cose,
sibili o intelligibili. Sensibili chiamiamo quelle Ch'ho portate nel cor gran tempo ascose.
che si possono apprendere e conoscere da al
cuno dei cinque sensi, come sono tutte le cose In questa prima artifiziosissima stanza pro
naturali e che hanno corpo. Intelligibili sono pone il poeta quelle cose, delle quali intende
quelle che non si possono conoscere ed appren di favellare; ma prima mostra la grandezza del
dere se non coll'intelletto come la fortezza, la l'impresa essere tale che egli se ne sbigottisce.
giustizia e tutte l'altre virtù, e brevemente tutte Di poi sperando d'avere a essere inteso da
le cose incorporali come le divine. E tutte Madonna Laura, rivolge il parlare agli occhi di
queste cadono sotto il genere dimostrativo, per lei, di cui parlando confessa di sentirsi disporre
ciocchè tutte si possono o lodare o biasimare. gentilmente ed innalzarsi, come vedremo meglio
E sempre che si loda, o biasima alcuna oper nelle parole. – Perchè: perciocchè. – La vita:
sona o cosa, quella tal cosa o persona deve lo spazio del vivere umano. – E breve: cioè
essere certa ed indubitata; perchè le cose corta. – E l'ingegno: mio. – Paventa: pave e
dubbie ed incerte non si possono affermata teme.–All'alta impresa: considerando l'altezza
mente nè lodare, nè biasimare; e ciascuna cosa del soggetto, e quanto sia malagevole volere
si può lodare o biasimare, o passata o pre lodare la leggiadria di sì begli occhi. Chiamasi
sente che ella sia, perchè le future essendo in impresa toscanamente quello che i Latini di
certe non si possono lodare; e si lodano tutte cono incoeptum, cioè ogni cosa che s'imprende
le cose o biasimano secondo i Platonici, o dal e piglia o a fare o a dire, dove è da notare
passato, o dal presente, o dal futuro. Dal pas quella particella al s che pare significhi in que
sato si loda alcuna cosa, quando si considerano sto luogo la causa efficiente, e quello che i
Latini direbbero propter, come diciamo tutto il
(1) Son. XXIII, Parte I. giorno: Io tremo a ricordarmene, ed altri nodi
SULLE CANZONI DEGLI OCCIII 59
somiglianti. – Ne di lui: ingegno, ripigliando strare, che molto più si deve credere ai fatti
prima quello che pose dopo. – Nè di lei: vita. che alle parole: e nel medesimo sentimento
– Molto mi fido, dove quello avverbio molto, disse altrove nella canzone difficile (1):
pare che sia posto in questo luogo quasi per
ironia in quel modo che diciamo tutto il di, E vo contando gli anni e taccio e grido.
volendo mostrare di non curarci punto d'al E di questi contrari usa spessissime volte con
cuna cosa: Egli la stima molto; io me ne curo grandissimo artifizio il Petrarca, e ne mise forse
assai, ed altri cotali. Noteremo ancora, che fido i più in quel sonetto: Pace non trovo e non ho da
è di quei verbi che non può stare senza il mi far guerra (2), che tutti i poeti latini in tutte le
innanzi, come m'è tempo, m'allegro, mi paseo opere loro. Il quale non so se debbo dire imitan
e molti altri, trovandosi di quelli che possono do, o pareggiando il reverendiss. cardinale Bem
stare con ello e senza, significando il medesi bo fece quell'artifiziosissimo sonetto, il quale,
mo, come mi rido, mi rimango ed altri assai perchè giudichiate voi stessi, se io ho detto vero,
come s'è dichiarato altrove. – Ma spero: pure o no, vi reciterò tutto quanto:
ho speranza. – Che sia intesa: che debba essere » Lasso me che ad un tempo e taccio e grido,
intesa, cioè conosciuta e compresa, quello che i » E temo e spero, e mi rallegro e doglio;
Latini direbbero exaudita; perciocchè siccome » Me stesso ad un signor dono e ritoglio;
intendere significa due cose diverse, udire (per » De'miei danni egualmente piango e rido
dir cosi) ed essere intento, come là nel sonetto Volo senz'ale e la mia scorta guido:
2,9

sopra la morte di M. Cino (1): » Non ho venti contrari, e rompo in scoglio:


Poi che morto è colui, che tutto intese » Nemico d'umiltà non amo orgoglio:
In farvi mentre visse al mondo onore, » Nè d'altrui, nè di me molto mi fido.
così intesa significa medesimamente queste due Cerco fermar il sole, arder la neve;
2.2.

» E bramo libertade, e corro al giogo:


cose, cioè conosciuta ed intenta, come nel
» Di fuor mi copro, e son dentro percosso.
sonetto: Cantai, or piango (2): » Caggio quand'io non ho chi mi rileve:
Ch'a la cagion, non all'effetto intesi 23 º" non giova le mie doglie sfogo:
Sono i miei sensi vaghi pur d'altezza. » E per più non poter foguant'io posso ».
Là dove io bramo e là dov'esser deve- La doglia Occhi leggiadri, dove Amor fa nido. Rivolgesi
mia: cioè da Madonna Laura, usando la circonlo agli occhi, usando la figura chiamata apostro
cuzione, cioè dicendo poeticamente con più pa fe, cioè conversione, invocandoli secondo
role per maggior ornamento quello che poteva alcuni invece delle Muse e d'Apollo, come
dire con una sola, benchè alcuni dividono fccc ingegnosamente Lodovico Martelli nelle
questo verso e vogliono la sentenza s'intenda sue bellissime stanze:
cosi e la costruzione sia tale: Ma spero che
sia'ntesa: ed intendono per nominativo l'alta'm- » Srimi i begli occhi vostri Euterpe e Clio:
presa. – Là dove io bramo: cioè da Madonna » Febo quei di Madonna, onde allorchieggo
Laura. – E là dove esser deve la doglia mia. » Memorie da compir l'alto desio ».
Ed alcuni leggono in vece della doglia mia, E quel che viene. Chiamali leggiadri, come
la voglia mia: il che, per mio avviso, è non altrove nel sonetto: – Io sentia dentro al cor
solo contra tutti i testi, ma fuori d'ogni buon già venir meno (3)
giudizio. Nè si meravigli alcuno che il poeta E mi condusse vergognoso e tardo
dicesse altrove il contrario, come là:
A riveder gli occhi leggiadri, ond'io
Lasso, ch'i' ardo, ed altri non mel crede: Per non esser lor grave assai mi guardo.
Si crede ogni uom, se non sola colei, La qual parola usa in molti altri luoghi, ag
Che sovra ogn'altra e ch'i sola vorrei:
Ella non par che 'l creda, e si sel vede (3). giugnendola ora ai pensieri, ora ai rami, ora
ai modi, ora agli sdegni ed ora ad altre cose
Perciocchè, oltra l'essere in ciascuno componi dicendo:
mento (come si disse di sopra) fornita l'opera, Amor, che solo i cor leggiadri invesca (4).
egli medesimo se ne scusò nel primo sonetto e
ne rende la cagione quando disse: Ed altrove ne' Trionfi :

Del vario stile in ch'io piango e ragiono . . . . . E i bei visi leggiadri,


Fra le vane speranze, e 'l van dolore (4). Che impallidirfe 'l Tempo e Morte amara (5).
La qual voce credo io per me, che sia de
Indi prosegue: La qual tacendo io grido. bel
rivata da questa parola legge, e significhi tutte
lissima contrarietà e tanto più che non dis
se: parlo o favello, che sono i propi con
trari di taccio; ma disse grido, quasi volesse mo (1) Canz. IX, Parte 1, Slanza VI – il Varchi la chia
ma la Canzone difficile, perchè fu variamente interpretata, spe
cialmente nella Stanza Seconda. (M
(1) Son. IX, Parte IV. (2) Son. XC, Parte I.
(2) Son. CLXXIV, Parte I. (3) Son. XXXII, Parte I.
(3) Son. CLI, Parte I. (4) Son. CXIV, Parte I.
(4) Son. I, Parte I. l (5) Trionfo della Divinità.
Go LEZIONI

quelle cose che servano quella legge, che loro | l'abito e una disposizione ferma e stabile, e la
si conviene; onde disse il Petrarca : disposizione e un abito instabile ed infermo. E
Con leggiadro dolor par ch'ella spiri (1). aver l'abito d'una qualche cosa non vuol dire
altro, se non poterla fare agevolmente ed a sua
E nella Canzone: Io vo pensando (2): voglia; onde per cagione d'esempio, un musico
E sento ad or ad or venirmi al core quando dorme, o non canta si dice aver l'abito
di cantare, perchè può se vuole, e quando canta,
Un leggiadro disdegno aspro e severo. si dice essere in atto, come s'è dichiarato altro
E che altro vuol significare il leggiadro por ve-Che con l'ale amorose: allude all'opinione di
tamento ed il leggiadro abito e lo stile leggia Platone, che l'anime degli innamorati racciuisti
dro ed altri così fatti motti, se non convene no più tosto l'ali che quelle degli altri uomini,
vole, e quello che i Latini direbbero decens, o i
o forse disse così perche Amore si dipinge alato,
decorum? Benchè gli antichi schiſino d'usare interpretrandolo altramente, che non fece Pro
queste parole: onde il nome leggiadria potreb perzio quando disse:
be, per avventura, esprimere appo noi quello, Idem non frustra ventosas ad lidit alas
che i Latini dicono decorum, ed i Toscani con Fecit, et humano corde volare Deum.
venevolezza. E ben so, che leggiadria, leggia Scilicet alterna quoniam jactamur in unda,
dro, e 'l suo diminutivo leggiadretto si pigliano Nostra non ultis pernanet aura locis.
or per bello, ed ora per quello, che noi Fiorentini
diciamo volgarmente galante e galanteria, tolti Poteva dire ali con i : ma è più dolce suono
credo dai Latini che dicono elegans ed elegantia, e cozzando coll' a. – Levando, il parte d'ogni
ed ora in altri modi come fa ciascuno. Basta, pensier vite: modo leggiadro di favellare figu
che secondo quello che a me pare, tutte quelle rato, volendo dire, lo leva e parte. – Da ogni
cose, che o hanno quello che hanno ad avere, pensier vile: da ogni basso pensiero e concet
o fanno quello che deono fare, si possono chia to. – Con queste alzato: sta in sulla traslazione
mare leggiadre. dell'ale, cioè spinto dal gran disio e piacere
Dove Amor fa nido: dove Amore s'annida di lodarvi. – Vengo a diror cose: mostra gran
ed alberga, onde altrove disse, pur degli occhi de preparamento e dice or, cioè mentre che
parlando i sono alzato dall'ali d'amore. – Ch'ho por
tate nel cor gran tempo ascose, le quali ho por
Che presso a quei d'Amor leggiadri nidi (3). tate; poteva ancor dire portato gramaticalmen
Quelli che albergano in alcuno luogo, v'hanno te. – Ascose gran tempo nel core: poteva ancor
come padroni grandissima possanza ed autori dire ascoste ed allude a quello, che dice Pita
tà ; e però disse altrove. gora appresso Ovidio: Quacque diu latuere ca
Plan 2,

Là onde ancor come 'n suo albergo viene (4). Quanto all'arte dovemo notare, che avendo
A voi rivolgo: il composto per lo semplice, come egli la causa umile, ovvero materia bassa, vo
diciamo ancora ridare ed altri simili – Il mio lendo lodare non un tutto, ma una sola par
debile stile: dà allo stile per figura, quello che ticclla e questa non dei beni dell'animo, che
era d'esso poeta, come fa ancora seguitando. – sono gli ottimi, ma di quelli del corpo, ſa gli
Pigro da sè: cioè di sua natura per traslazione, uditori attenti mirabilmente nel primo comin
uno dagli infermi e l'altro dagli infingardi. – ciamento, mostrando d'avere a dir cose tali e
Ma il gran piacer lo sprona: risponde a una tante, che nè la vita gli bastava, nè si fidava
tacita obbiezione, perchè scrive avendo lo stile dello ingegno, il quale conoscendo la grandezza
debile e pigro: e disse sprona per traslazione da dell'impresa non solo dubitava ma temeva. Ed
cavalcatori, cioè spinge e sforza, avendo detto è questo modo di fare attento, lasciando l'u-
pigro e debile. E nella stanza seguente disse a ditore sospeso, più artifizioso, che se avesse
questo effetto medesimo: proposto di voler dire cose nuove, o grandi,
o inusitate, o utili, o l'altre che si usano co
Ma contrastar non posso al gran disio. munemente per fare attenti gli uditori. Gli fa
E chi di voi ragiona: e qualunque favella e ancora attenti nel fine della stanza, posciachè
scrive di voi. – Tien dal soggetto un abito gen egli alzato dall'ali d'Amore viene a dir cose gran
tile: cioè piglia qualità da voi diventando tale tempo pensate da lui, lasciando medesimamente
quale voi sete. Questo nome abito in questo sospeso l'uditore. Ed accatta ancora benevolenza
luogo è vocabolo filosofico, o piuttosto dei loici sì dagli occhi di cui favella chiamandoli leg
i quali dicono che l'abito è una qualità ferma, giadri, e dicendo che Amore alberga in essi
e che si può difficilmente rimovere; e la di come in suo nido e si dalla persona di lui me
sposizione è una qualità, che agevolmente si desimo chiamando il suo stile e debile e pigro.
rimove. Onde ogni abito è disposizione neces E il fa ancora docile dicendo: – A voi rivolgo
sariamente; ma non è già necessario che ogni il mio debile stile, accennando di voler favellare
disposizione sia abito; onde potemo dire, che degli occhi; e perchè miuno si sbigottisse, o
lasciasse di leggere, per aver chiamato il suo
(1) Son. CVII, Parte I. stile debile, e pigro soggiunse: – E chi di voi
(2) Canz. XVII, Stanza VI, Parte I. ragiona, con tutto quello che seguita, dove ancora
(3) Son. CCII, Parte I. si fa benevola Madonna Laura. E certo chi vorra
(4) Son. LV, Parte I. dirittamente considerare vedia che questo proc
SULLE CANZONI DEGLI OCCHI 6i

mio ha tutte le sue parti compiutamente, le quali certo non è più brutto ma bene più breve. Ne
noi, bastandoci d'averle accennate in parte, non vuol dire altro ingiurioso se non pieno d'in
dichiareremo altramente; e riserbandoci a dif giuria, perchè ancora in latino quasi tutti
finire altrove lungamente che cosa sia ingegno i nomi che finiscono in oso, significano pienez
e mostrare che quel modo di parlare: Dove Amor za: come amoroso, pensoso, ed altri tali. – Ma
-fa nido, è locuzione topica propia del Petrarca contrastar non posso al gran disio: rende la ca
e degna di grandissima lode, passeremo alla se gione per iscusarsi, onde è che egli ne favelli.
conda stanza. Ed avendo confessato l'errore, lo difende rimo
vendo da se non il peccato, ma la colpa, e lo
8TANZA SECONDA
trasferisce in Amore, ovvero nel desiderio, che
egli aveva avuto sempre di lodare quegli oc
Non perch'io non m'avveggia chi dal primo di che li vide. Trasferisce an
Quanto mia laude è ingiuriosa a voi: cora la colpa in loro medesimi, i quali sono
Ma contrastar non posso al gran desio, di maniera, che non vi si può aggiugnere col
Lo quale è in me, da poi -
pensiero di nessuno, non che o egli, o altri
Ch' io vidi quel che pensier non pareggia, potesse, parlando, dirne a pieno. Epperò disse
Non che l'agguagli altrui parlar, o mio. altrove pure scusandosi di questo medesimo:
Principio del mio dolce stato rio,
Altri che voi, so ben che non m'intende, E le mie colpe a sè stessa perdoni (i).
Quando a gl'ardenti rai neve divegno , Ed altrove medesimamente
Vostro gentile sdegno
Forse ch'allor mia indignitate offende, Colpa d'Amor non già, difetto d'arte (2);
O, se questa temenza chè così si debbe e leggere e puntare secondo
Non temprasse l'arsura che m'incende il mio avviso, e non come puntano e leggono
Beato venir men ! che 'n lor presenza gli altri:
M'è più caro il morir, che 'l viver senza.
Colpa d'Amor, non già difetto d'arte.
Aveva il Poeta nei primi sei versi della pri
ma stanza fatto un proemio comune a tutte e Ma contrastar: cioè ripugnare; ed era neces
tre le canzoni e generale a ogni persona: poi sario il così dire perchè altramente la difesa
rivoltosi agli occhi, fatto un proemio partico non sarebbe stata valida, essendo questa la terza
lare a questa prima Canzone: ora in questa parte della causa assuntiva nella costituzione,
seconda stanza inſino a quel verso, che co ovvero stato conjetturale. E però disse anco
mincia: – Principio del mio dolce stato rio, si ra: disio grande e non posso, a dimostrare,
scusa con essi occhi, e rende la cagione per che per lui non era restato. – Lo quale è in
chè li lodi, ancorachè conosca, che il suo lo me: disse lo qual disio, e non il qual per ca
darli è un biasimarli e far loro ingiuria. Dice gione di maggior suono, come dice ancora spesse
dunque: – Non perch'io non m'avveggia, cioè volte lo cor, lo mio, lo cui ed altri tali senza
non perchè io non m'accorga e non sappia molto altra necessità che lo stringa. – Da poi ch'io
bene. – Quanto mia laude, cioè quanto il volervi vidi: cioè sempre dal di che li vidi e mi in
lodare io; dove noteremo che quel pronome mia namorai quasi come Virgilio nella Buccolica: –
e posto in questo luogo attivamente e non pas Ut vidi, ut perii: ed altrove disse in un modo
simile:
sivamente, significando la mia laude non quella,
che si dà a me, ma quella, che do io ad altri, Quel che veder vorrei poi ch' io nol vidi (3).
E disse laude, e non lode per essere quello più
pieno per cagione di quel dittongo au. Disse Quel che pensier non pareggia, – Non che l'ag
laude per e e non per a, come poteva rispetto guagli altrui parlare, o mio: cioè, i begli occhi
al suono, che è più dolce così cozzando in di Madonna Laura. Nè poteva usare circonlo
cuzione più divina, nè con più belle voci e
quell'e, e seguitando poi ingiuriosa, che for meglio accomodate parole, rispondendo parlar
nisce per a. – È ingiuriosa a voi: perciocchè che è verbo, a pensier che è nome; ed aggua
quando si loda alcuna cosa, o meno, che non si
dovrebbe, o in altra guisa, che non si conviene, gli presente del soggiuntivo, a pareggia presente
dell'indicativo, e mio ad altrui. Il che a fine
se le fa torto, ed ingiuria grande, non onore.
E però disse, il gran Tito Livio Padovano di che meglio s'intenda, dovemo sapere, che pri
Cartagine: È meglio tacersene, che dirne poco. mieramente sono le cose, di poi i concetti, ov
vero pensieri, che non sono altro che l'imma
E pare che togliesse questo luogo dal Petrarca gini, ovvero similitudini d'esse cose riserbate
Latino, cioè da Orazio quando egli parlando
nella fantasia: nel terzo luogo sono le voci, ov
ad Agrippa disse: vero le parole, le quali mediante quelle simi
Imbellisque brrae Musa potens vetat litudini ed immagini, che noi chiamiamo con
Laudes egregii Caesaris, et tuas cetti ci significano e rappresentano le cose: ul
Culpa deterere ingent (1). timamente è la scrittura, la quale ci rappre
togliendolo però di maniera che lo fece suo. E senta le cose, ma mediante le parole ed i
se non è meglio detto e più bello di quello,
(1) Son CLXXX, Parte I.
(2) Son XLVI, Parte I.
(1) Hor, Lib. I, Od. VI. (3) Son. XII, Parte II.
62 LEZIONI

concetti e di mano in mano si va digradando. La qual cosa egli ripete nen per carestia ne
Perciocchè le cose sono più e più veramente, di sentenze, nè di parole, ma pocticamente a
che i concetti; i concetti più che le parole, le maggiore spressione, e non solo per muovere
parole più che le scritture. Onde sono alcune di sè compassione in altrui, ma generare an
cose, le quali non si possono immaginare, alcune cora misericordia. Dice dunque variando le pa
s'immaginano che non si possono favellare; al role, le metafore, ed i modi del favellare. –
cune si favellano, che non si possono scrivere; Dunque, ch'i' non mi sfaccia: cioè, ch'io non
e per questo diceva S. Agostino: Deus verius mi distrugga, e venga meno. – Sì frale ogget
excogitatur, quam exprimitur, et verius est quam to a sl possente foco: essendo di frale oggetto,
cogitetur –Non pareggia: siccome pari ed eguale cioè neve, secondo alcuni. – A sì possente
significano una cosa medesima, così pareggiare foco, cioè, agli ardenti rai: e così tutto que
ed agguagliare, hanno il medesimo significato – sto verso dirà in sentenza colla medesima tra
Altrui parlar: questo pronome altrui è in tutti slazione quello, che disse di sopra tutto quel
i casi, così nel numero del meno, come in quello Verso :
del più, eccetto però, che non mi ricorda averlo Quando agli ardenti rai neve divegno.
trovato mai nel nominativo, nè del singolare,
nè del plurale, ma sempre altri, e così nelle Ma a me piacerebbe più, che questo fosse
prose come nel verso si pone e significa quello uno artifizio nuovo, e che comeLaura di sopra ag
al sole
stesso, che in latino alienum , onde quello che guagliò gli occhi di Madonna
essi direbbero aliena pericula, noi diciamo gli e sè alla neve, così qui agguagliasse i mede
altrui pericoli, o i pericoli altrui. E quando simi occhi a un fuoco possente e grande e se
diciamo, i pericoli d'altri sebbene i" a uno oggetto frale e debole; come sarebbe,
il medesimo, non è però la medesima locuzione, esempligrazia, il solfo, come egli stesso disse
ma quello, che essi direbbero pericula aliorum. a questo proposito medesimo, o la cera:
E significa questo pronome altrui alcuna volta Solfò ed esca son tutto.
la persona certa; come là – L'uno a me nuo Ed altrove nella canzone: – Ben mi credea
ce, e l'altro-Altrui, ch'io non lo scaltro, ec.(1),
cioè a Madonna Laura, ed alcuna volta incerta passar mio tempo omai (1):
come là – Dove è viva colei, ch'altrui par Ed io, che son di cera al foco torno.
morta (2). E tanto è dire altrui quanto ad altrui, Non è propio valor: non è mio nè sapere
cosi nel singolare come nel plurale, e non me nè virtù. – Che me ne scampi: il quale mi
no nella prosa che nel verso. difenda e liberi, ch'io non arda e venga me
-
no. – Ma la paura: quella temenza di non
offendere e far disdegnare Madonna Laura. –
Che. La qual paura. – Agghiaccia un poco:
LEZIONE TERZA cioè raffredda, dove pare a me che fosse po
sto quello avverbio un poco, ec., cioè alquanto
per temperare la forza e veemenza di quel ver
Dunque, ch'i' non mi faccia, bo agghiaccia, e non significa altro agghiacciare
Sì frale oggetto a sì possente foco, un poco, che raffreddare molto. Alcuni voglio
Non è propio valor, che me ne scampi: no che significhi tempo, dicendo un poco,
Ma la paura un poco, cioè per alquanto spazio; alcuni lo congiun
Che 'l sangue vago per le vene agghiaccia, gono non con agghiaccia, ma con risalda. – Il
Risalda 'l cor, perchè più tempo avvampi. sangue vago per le vene: disse vago, cioè va
O poggi, o valli, o fiumi, o selve, o campi, gabondo ed errante, perchè il sangue median
O testimon della mia grave vita, te le vene che si distendono per tutto il cor
Quante volte m'udiste chiamar Morte !
Ahi dolorosa sorte !
po, dà nutrimento a tutte le parti di ciascun
membro, non aliramente che vedeno negli
Lo star mi strugge, e 'l fuggir non m'aita. arbori. Onde ancora Dante a un simil propo
Ma, se maggior paura sito disse nella canzone: – Così nel mio Par
Non m'affrenasse, via corta, e spedita
Trarrebbe a fin questa aspra pena e dura, lar voglio esser aspro (2):
E la colpa è di tal, che non n'ha cura. » E il sangue, ch'è per le vene disperso,
» Correndo fugge verso
In questiprimi sei versi di questa terza stanza » Locor che'l chiama; ond'io rimango bianco».
riduce il poeta e replica di nuovo quella me Risalda 'l cor, cioè risana, come là:
-
desima sentenza e concetto, che egli aveva detto
nel fine della seconda; cioè, che se egli non Una man sola mi risana e punge (3).
veniva meno e non si disfaceva nel rimirare Perchè: acciocchè. – Avvampi: arda, e si
gli occhi di Madonna Laura non veniva que consumi. – Più tempo: maggiore spazio e più
sto per virtù e sapere di lui; ma perchè il lungamente. – Sfaccia: cioe, disfaccia e di
timore, che egli aveva di non offenderla mi strugga, stando in sulla traslazione, o della ne
rando, temperava l'ardore, che l'incendeva.
(1) Canz. XVI, Stanza III, Parte I.
(1) Canz. X, Stanza II, Parte I. (2) Rime di Dante, Libro III, Canz. I,
(2) Canz. I, Stania VII, Parte 11. (3) Son. CX111, Parte 1.
SULLE CANZONI DEGLI OCCHI 63
ve al sole, o della cera al fuoco. Dove è da che l'uomo si propone come suo ſine, onde
notare, che questa lettera s, posta dinanzi ai l'oggetto degli innamorati sono le donne loro.
verbi, ha quella stessa forza che la preposizio E però diceva il Petrarca:
ne dis in latino; onde tanto è dire sfaccio,
Ch'io non veggio 'l bel viso, e non conosco
quanto disfaccio, slego, dislego, scoloro, disco Attro sol, nè questi occhi hanno altro obbietto(1).
loro ed altri simili. E sempre in cotal caso si
gnifica il contrario del verbo a cui è posta di E nel sonetto: – In quel bel viso, ch' io so
nanzi, come volere e disvolere: stempro, dis spiro e bramo (2):
tempro, torno, distorno, ovvero frastorno, cioè, Ma la vista privata del suo obbietto.
far tornare indietro. È ben vero che alcuna
volta non significa contrarietà, ma accresce il E nella mestissima Canzone (3): – Amor se
significato del suo verbo come distringo, cioè, vuoi, ch'io torni al gioco antico:
legare strettamente, e distillo, cioè stillare ab Rendiagli occhi e agli orecchi ilpropio obbietto.
bondantemente; ed in diverse parti alcuna volta
non fa altro che mutare la significazione al suo E così nel sonetto: – Soleano i miei pensier
verbo, come distinguo. Alcuna volta si trova là soavemente (4):
sola, come smorzare, sbrancare, scaricare, sca Di loro obbietto ragionare insieme.
pestrare, formati da questi nomi morso, bran Onde l'oggetto del fuoco sono tutte le cose
ca, carico, capestro, come da fronda ovver fron
combustibili, per dirlo come i filosofi, cioè
de, sfrondare. – Sì frale: parola propio to
scana e molto usata dal Petrarca, tratta per che possono ardere; e quanto una cosa è più
combustibile ed atta ad abbruciare, tanto è
quanto stimo da questa parola latina fragile,
levata del mezzo la sillaba gi, per la figura più frale oggetto, perchè il fuoco vi s'appicca
chiamata sincope da Greci, cioè mozzamento : più tosto e più agevolmente la consuma. E
però disse il Petrarca:
onde tanto significa frale sincopato quanto fra
gile intero, cioè cosa debile, e che agevolmen E se non fosse esperienza molta
te si spezzi: chè tanto significa il verbo fran Dei primi affanni, io sarei preso ed arso
gere, onde è derivato. E però disse propia Tanto più, quanto son men verde legno (5).
mente il Petrarca:
Ed il secondo Petrarca, ma Viniziano (6), disse
La frale vita, che ancor meco alberga (1). a questo proposito medesimo nel sonetto: – Se
Ed altrove: tutti i miei primi anni a parte a parte:
» Arsi al tuo foco, e dissi altro non chero,
Fra sì contrari venti in frale barca (2). » Mentre fui verde e forte: or non pur ardo
Ed altrove: » Secco già e fral, ma 'ncenerisco e pero».
Questo nostro caduco e fragil bene, A sì possente foco: risponde con quelle pa
Ch'è vento ed ombra, ed ha nome beltate (3). role a sl possente, a quelle sì frale, come fece
il reverendissimo Bembo con non minor gra
E quel che disse di sopra fiale barca chia zia, il quale avendo detto verde e forte, sog
mò altrove fragil legno, cioè, frangibile (per giunse secco, e frale; dove noteremo, che il
dir cosi). – Oggetto. Come si dice toscana Petrarca (per quanto mi ricordo) non usa mai
mente subbietto e soggetto nella medesima si potente nè potendo, come fa il Boccaccio, ma
gnificazione tanto in prosa quanto in versi, possente e possendo, come forse di maggior suo
così si dice medesimamente obbietto ed og
no: onde disse nell'ultima di queste tre so
getto; la qual parola è propia dei filosofi, e relle:
benchè appo loro si pigli alcuna volta per lo
medesimo, che subbietto, tutta via parlando Si possente è 'l voler, che mi trasporta.
propiamente, obbietto non è altro, come ne di Ed altrove dandogli il caso dopo, e pur dei
mostra il suo nome, che quello che s'affaccia, begli occhi parlando di Madonna Laura, disse:
ovvero rappresenta dinanzi. E quello si chia E que begli occhi, che i cor fanno smalti,
ma l'obbietto d'alcuna arte o scienza, circa
Possenti a rischiarar abisso e notti,
il quale s'indirizza tutta l'intenzione di co E tórre l'alme a corpi, e darle altrui (7).
tale scienza ed arte. Nel primo modo diciamo,
che l'obbietto degli occhi sono i colori, del Non è propio valor. Questa parola valore, on
l' udito i suoni, dell'odorato gli odori, ed i de viene valoroso, sebbene significa propia
sapori del gusto, i quali si chiamano da filo mente la valuta di ciascuna cosa, si piglia però
sofi sensibili, che tanto viene a dire quanto in tanti significati e sì begli, che io non cre
gli obbietti de sensi, come dichiarammo nelle do, che chi cercasse tutta la lingua latina, po
Lezioni dell'Anima. Nel secondo modo dicia tesse ritrovar mai una voce di tanto valore
mo, che l'obbietto della medicina, cioè l'in
tendimento e fine suo è la sanità, e breve (1) Son. CLXXI, Parte I.
mente oggetto si piglia per tutte quelle cose, (2) Son. CXC1X, Parte I.
(3) Canz. I1, stanza il I, Parte II.
(4) Son. XXVII, Parte II.
(1) Ball. V, Parte I. (5) Son. III, Parte II.
(2) Son. LXXXvili, Parte I. (6) Intende il Cardinale Pietro Bembo. (M.)
(3) Soa. LXill, Parte II. (7) Soa. CL1X, Parte I.
(si LEZIONI

quanto è questa, e che sprimesse quello stesso mente ed in diversi significati: qui vuol signi
nella lor lingua, che in questa favella nostra. ſicare da questa cosa; come là:
Nè si possono dichiarar bene i significati suoi, Quand'io fui preso e non me ne guardai (1).
se non con gli esempi quali sono poco meno,
che infiniti; e però ne raccontaremo tre o Alcuna volta significa e non, come nella can
" solamente E prinicramente, per non zone grande:
iscostarci dagli occhi, di cui si ragiona, alle Morte mi s'era intorno al core avvolta
garemo l'esempio nella difficile canzone: –
l’erdi panni (1): Nè tacendo polea di sua man trurlo (2).
Alcuna volta significa noi, come là :
Chi gli occhi mira d'ogni valor segno.
Ed altrove : Che vendetta è di lui, ch'a ciò ne mena (3).
Alcuna volta in :
Fu per mostrar quanto è spinoso calle
E quanto alpestre, e dura la salita Per fare ivi e negli occhi sue difese (4).
Onde al vero valor convien, ch'uom poggi (2).
Alcuna volta negli:
Ed altrove :
E'l viso scolorir, che ne miei danni (5).
Spento'l primo valor, qual sia 'l secondo (3)? Alcuna volta si pone in vece di ovvero:
E nel sonetto: – O passi sparsi (4), intendendo Anzi la voce al suo nome rischiari
delle lettere e dell'armi, disse : Se gli occhi ti fur dolci nè cari (6).
O fronde, onor delle famose frondi
Ed è tolto dalla lingua Provenzale come in
O sola insegna al gemino valore,
finite altre parole e modi di favellare notati
E nei Trionfi: altrove da noi.

Gente di ferro e di valore armata (5). Ma la paura. La paura non è altro che una
contrazione, ovvero ristringimento dell'animo
Che me ne scampi: come i Latini hanno alcuni per cagione d'alcuna cosa, o che sia veramente
verbi, i quali sono ora neutri ed ora attivi, o che ci paia cattiva, la quale giudichiamo
come ruo, e molti altri, così ne hanno i To che ne debba apportare, o di presente o non
scani medesimamente ; onde scampare alcuna dopo molto tempo, alcuno danno o male gran
volta è attivo come qui, e significa difendere de. Dico ristringimento: perché mediante cotale
e liberare come là: perturbazione l'animo si contrae e ristringe e
-
-

Più non mi può scampar l'aura nè 'l rezzo (6). quinci seguita che il sangue correndo al cuore,
come a rocca per difenderla parte più nobile,
Ed è alcuna volta neutro come nella divotis lascia le membra esteriori, onde seguita la bian
sima canzone alla nostra Donna: chezza ed il freddo, e dal freddo il tremito.
O saldo scudo dell'afflitte genti Che sia, o che ci paia: perchè molti temono
Souo il qual si t ioſa, non pur scampa (7). di quello che non si deve temere, e molti per
contrario non hanno paura di quello di che si
E nella canzone: Qual più diversa e nuova: doverebbe tremare come è d'essere tenuti o
Fuor tutti i nostri lidi ignoranti, o maligni e d'altre cose infinite, che
Nell' Isole famose di Fortuna possono offenderne non meno l'animo che il
Due fonti ha, chi dell'una corpo: onde Dante
Bee, muorridendo, e chi dell'altra scampa (8). » Temer si dee di sole quelle cose
» Ch'hanno potenza di fare altrui male
Così poco di sotto quel verbo agghiaccia è » Dell'altre no, chè non son paurose» (7).
posto attivamente. E nel sonetto: Quest' umil
ſera un cor di tigre o d'orsa (9), è posto atti O di presente, o dopo non molto tempo: per
vamente come in molti altri luoghi: chè quando le cose sono lungi quantunque
grandi ed orribili non ci fanno paura ancora
Non può più la virtù fragile e stanca che certissime, come la vecchiaia e la morte.
Tante varietati omai soffrire Danno, o male grande: perchè se fosse leggiero
che'n un punto arde, agghiaccia, arrossa e im o picciolo, o stimato da noi per tale, non c'ar.
bianca, recherebbe paura. Vulpiano la diffinì breve
Me ne: Questa particella ne si pone varia mente in questo modo: La paura è una trepi
dazione, o vogliamo dire spavento della mente
per cagione d'alcun pericolo, o presente o fu
(1) Canz. II, Stanza VIII, Parte I.
(2) Son. I V, Parte IV.
(3) Son. LXVI, Parte II. (1) Son. lII, Parte I.
(4) Son. CX, Parte I. (2) Canz. I, Stanza V, Parte I.
(5) Trionfo della Fama. (3) Son. Vi 1, Parte I.
(6) Son. Ll, Parte I. (4) Son. II, Parte I.
(7) Canz. VIII, Stanza II, Parte II. (5) Son. IX, Parte I.
(8) Canz. XIV, Stanza V1, Parte I. (6) Cauz. I, Stanza VII, Parte II.
(9) Son. CI, Parte I (7) Inferno, Canto II.
SULLE CANZONI DEGLI OCCHI
turo. Cicerone nel quarto delle disputazioni E di sopra:
Tusculane disse: La paura è una opinione d'al
cun male che ne soprastia, il quale ci paia Non perch'io non m' avveggia.
intollerabile.
E quello è da notare che mai non si dice
Risalda 'l cor: risaldare pare tolto per tra da buoni autori per il che, ma sempre perchè,
slazione delle cose rotte o fesse ed in somma
o per lo che i conciossiachè dopo la preposi
che non sono intere, onde noi diciamo saldo zione per non seguita l'articolo il, ma sem
quello che i Latini dicono solidum. Ed altrove pre lo.
il Petrarca:
Più tempo: più in questo luogo non è sostan
Prima porla per tempo venir meno tivo come nel principio del Paradiso:
Un'immagine salda di diamante (1). » Nel ciel che più della sua luce prende» (1);
E diciamo medesimamente saldare le ragioni, ma aggettivo, e significa maggiore; come là:
quello che Cicerone disse: consolidare rationes.
Ed il Petrarca: Che più gloria è nel regno degli eletti (2).
E per saldarle ragion nostre antiche (a). Quando è avverbio significa magis:
E s'usa propiamente delle ferite. Così an E mansueto più Giove che Marte (3).
cora il Petrarca:
Pigliasi ancora aggettivamente in luogo di
I begl'occhi ond i fui percosso in guisa molto:
Ch'ei medesimi porlan saldar la piaga (3): Onde più cose nella mente scritte (4):
benchè generalmente si pigli di tutte le maga
gne. Così ancora il Petrarca:
cioè assai, ovvero plures, latinamente.
Avvampa. Vampa, onde par composto questo
E tutto quel, ch una ruina involve verbo, significa quello, che volgarmente diciamo
Per le spera saldare ogni suo vizio (4). vampo, cioè calore che esca da fiamma: onde
avvanpare significa quello che diciamo abbron
E qui è posto il composto per lo semplice. zare, ed in somma scaldare fortemente ed in
Perchè: questa particella significa nella no cendere; onde Dante per traslazione disse la
stra lingua quello che nella latina quare e quia,
ora rendendo la cagione come fa quia, ed ora vampa, cioè l'ardore e gran desiderio, che lo
dimandandone come fa quare. Alcuna volta si coceva dentro nel decimosettimo canto dell'a-
radiso:
gnifica benchè, come là:
» Perchè, mia donna, manda fuor la vampa
Chi 'l crederà perchè giurando il dica (5)? » Del tuo disio, mi disse, si ch'ell'esca
Alcuna volta perciocchè, o conciossiachè, onde » Segnata bene dell'interna stampa ».
il Petrarca :
E noi volgarmente diciamo un panno, o altra
Chè perch'io non sapca dove nè quando (6). cosa essere avvampata, quando, mediante il
Alcuna volta acciocchè o a fine, come qui ed caldo, è in modo disposta, che poco manca
altrove: ad appigliarvisi il fuoco e levare le fiamme. E
questo è il suo propio significato benchè ge
E fal perchè 'l peccar più si pavente (7). neralmente si piglior per ardere in voce neutra,
Alcuna volta per qual cagione, come nel so ed ora per incendere ed abbruciare in attiva.
netto a Sennuccio: Così il Petrarca nell'ultima canzone:
Qui son securo: e vovvi dir perch'io o refrigerio al cieco ardor ch'avvampa (5).
Non, come soglio, il folgorar pavento (8).
E procede la canzone nostra:
Alcuna volta per la qual cosa, onde:
O poggi, o valli, o fiumi, o selve, o campi,
Perch'io di lor parlando non mi stanco (9). O testimon della mia grave vita,
Alcuna volta per cui, ovvero per la quale: Quante volte m'udiste chiamar morte!
Ahi dolorosa sorte !
Così colei perch' io sono in prigione (Io). - - -

Lo star mi strugge e 'l fuggir non m'aita.


-

Alcuna volta significa quanto che:


Credono alcuni che questa parte dipenda di
Non perch'io sia securo ancor del porto (11). sopra da quelle parole: perchè più tempo a
vampi, per dimostrare che non in suo pro e
(1) Son. LXXII, Parte I.
(2) Son. XXXV, Parte II. benefizio, ma perchè ardesse più lungo tempº
(3) Son. XLVII, Parte I. se gli risaldava il cuore, desiderando egli di
(4) Cauz. II, Stanza 111, Parte IV. morire; il che voglia provare ora colle parole
(5) Soa. XLVI 11, Parte I. che seguitano. – O poggi, º valli, fiumi, ec.
o

(6) Canz. l, Stanza ll 1, Parte I. Ma a me piace più che questo sia un artifizio
(7) Canz. I, Stanza VII.
(8) Son. LXXVII, Parte I. (1) Paradiso, Canto 1.
(9) Son. XLVII, Parte 1. (2) Son. V, Parte 1 V.
(1o) Canz. IV, Stanza ill, Parte II. (3) Soa. 1 V, Parte 1.
(11) Non è questo un verso del Petrarca, ue a inesovviene (4) Can. 1, Staura V, Parte I.
di qual poeta sia. cl.) (5) Canz. Vill, Stanza 11, Parte II,
VARCHI
66 LEZIONI
e concetto nuovo, e voglia mostrare come dice crescere la cagione del suo dolore, usa uno ar
in mille luoghi, e come soggiunge poco di sotto, gomento topico; perciocchè lo stare ed il fug
che se vedeva Madonna Laura si struggeva per gire sono contrari, ed i contrari come si vede
la troppa arsura, e se non la vedeva, si strug in tutta la medicina si guariscono coi contra
geva della voglia e del desiderio di vederla , ri. E però pareva strano al Petrarca che se lo
onde, per uscire di tanto dolore, andava chia stare lo struggeva, il fuggire che è suo con
mando la morte. E così viene a lodare gli oc trario non lo aiutasse ; e però si duole quasi
chi di Madonna Laura da un altro effetto gran che questo sia oltra ogni dovere dicendo:-Ahi
dissimo, stimando tanto il vederli, che trovando sorte dolorosa: dove dolorosa si piglia in signi
sene lontano, desiderava di morire, ed usa in ficazione attiva e non passiva; come quando i
questo luogo in un tempo medesimo due co Latini chiamano la morte pallida, perchè fa
lori, ovvero ornamenti rettorici: quello che si pallido altrui. E certamente sarebbe stato strano
chiama esclamazione, e quello che si chiama che da duoi contrari fosse proceduto uno ef
interrogazione, ovvero dimanda, aggiungendovi fetto medesimo. Se non che procedevano per
quell'altra figura, che dà il senso e la vita diversi rispetti. E chi non sa che da una ca
alle cose senza vita e senza senso. Il che gione medesima possono procedere diversi ef
sebbene è conceduto agli oratori, è però molto fetti secondo diversi rispetti, come da diverse
più dicevole ai poeti, e massimamente in que cagioni possono procedere i medesimi effetti
sto modo, che l'usa qui il Petrarca dicendo i nelle cose però che sono di diverse nature ?
– O poggi, o valli, o fiumi, o selve, o campi – Perciocchè gli angeli che si congiungono al fine
O testimon: invece di testimoni. – Della mia loro senza movimento alcuno, tanto sono nobili
grave vita: cioè noiosa e molesta per trasla e perfetti; e la terra si congiugne anch'ella al
zione dai pesi. – Quante volte: quasi dica più suo fine senza muoversi, il che le avviene però
di mille, anzi infinite. – M'udiste: mi senti per diversacagione, cioè per la imperfezione sua.
ste. – Chiamar morte: mentre che io chiamava
la morte. E che questo fosse vero, cioè che Ma se maggior paura
egli andasse chiamando morte per più ermi e Non m'affrenasse, via corta e spedita
disabitati paesi, ne fa fede in mille luoghi per Trarrebbe a fin quest'aspra pena e dura,
tutto il suo Canzoniere, or dicendo: E la colpa è di tal che non n'ha cura.
Risponde in questi ultimi versi, o a sè mc
Cercato ho sempre solitaria vita,
desimo, o ad uno che lo domandasse, onde è
Le rive il sanno, e le campagne e i boschi (1). che non avendo egli scampo nessuno al suo
Ed ora gran male, non uccide sè stesso per uscire di
Passer mai solitario in alcun tetto tanti affanni, e dice che il farebbe pur trop
po; se non che una maggior paura caccia l' al
Non fu quant'io, nè fera in alcun bosco (2).
ira. E questa maggior paura si può intendere
E nella sestina. – Non ha tanti animali il mar in due modi, siccome anco là dove dice nel
fra l'onde (3): sonetto: –S'io credessi per morte essere scarco(1):
Le città son nemiche, amici i boschi. Ma perch'io temo che sarebbe un varco
E in tutto il sonetto –Solo e pensoso i più de Di pianto in pianto, e d'una in altra guerra,
serti campi (4): anzi pure in tutta quella bellis cioè che l'amore non finirebbe, amandosi an
sima canzone: Di pensier in pensier, di monte cora dopo morte, come accenna nell' artifi
in monte (5): ziosissima canzone che comincia :-Nella stagion
Ogni segnato calle che 'l ciel rapido inchina (2):
Provo contrario alla tranquilla vita. onde mai nè per forza, nè per arte
Prosegue la nostra canzone: Ahi dolorosa sor Mosso sarà, fin ch'io sia dato in preda
te! - Lo star mi strugge e 'l fuggir non m'aita. A chi tutto diparte, -

Pensano alcuni che il Poeta voglia dire in Ne so ben anco che di lei mi creda.
questo luogo usando lo stare e i fuggire quello Alludendo, per avventura, a quello che dice
stesso che egli disse nella tornata della can
Virgilio nel sesto libro dei campi lagrimosi:
zone:- Ben mi credea passar mio tempo omai (6):
Hic quos durus Amor crudeli tabe peremit
Canzon mia, fermo in campo Secreti celant calles, et mirtea circum
Starò, che gl'è disnor morir fuggendo, Sylva tegit: curae non ipsa in morte relinqunt.
E me stesso riprendo
Di tai lamenti, sì dolce è mia sorte. Puossi intendere ancora che questa maggior
paura fosse la tema di non perder l'anima
Ma egli per mio avviso è molto lontano da uccidendosi da sè stesso, e questo pare più
cotal sentenza, anzi per ben mostrare ed ac verisimile alla condizione e matura del poeta,
il quale era non solamente cristiano e sacer
(1) Son. CCI, Parte I. dote, ma buon sacerdote e buon cristiano. E
(2) Son. CLXXI, Parte I. che questo sentimento sia più tosto vero che
(3) Sest. VIII, Parte I.
(4) Son. XXII, Parte 1.
(5) Canz. XI I1, Stanza 1, Parte I. (1) son. XXIII, Parte I.
(6) Cauz, XVI, Starza Vi 11, Parte I. (2) Canz. IV, Stanze V, Patº I. -
SULLE C. NZONI DEGLI OCCHI 6
-

verisimile, udiamo il Poeta medesimo quando Dolor, perchè mi meni


dice nella pietosa e lamentevole canzone: – Che Fuor di cammin a dir quel ch'io non voglio?
debbo io far (1)? Sostien ch'io vada ove 'l piacer mi spinge.
Tal che sº altri mi serra
Accortosi il Poeta che egli d'una in altra
Lungo tempo il cammin da seguitarla, cosa era uscito del suo proponimento primo,
Quel ch Amor meco parla, il quale era di lodare gli occhi di Madonna
Sol mi ritien, ch'io non recida il nodo; Laura, ed entrato nel dolersi e nel raccontare
Ma e' ragiona dentro in cotal modo: le sventure sue, vuole ora in questi primi versi
Pon freno al gran dolor che ti trasporta di questa quarta stanza per ritornare onde
Che per soverchie voglie s'era partito, scusare sè medesimo e trasferire
Si perde 'l Cielo, ove 'l tuo core aspira. la colpa nel dolore. Onde facendo una trasla
Dice dunque: – Ma se maggior paura, dove zione da viandanti, quando sono stati guidati
dicendo maggior notaremo, che la lingua to fuori della strada diritta, dice volgendo il par
scana siccome ancora l'ebrea non ha compa lare al dolore per la figura apostrofe: – Do
rativo nessuno, eccetto questi quattro che sono lor, perchè mi meni? per qual cagione mi
conduci e mi travii. – Fuor di cammin: fuori
latini: maggiore, minore, migliore e peggio
re; e cosi latinamente gli usiamo, benchè di di strada. – A dir quel ch'io non voglio: cioè
ciamo ancora più grande, più picciolo e più a dolermi. E qui lascia la traslazione, dovendo
dire se avesse voluto seguitarla: A gir dov'io
buono, e più cattivo in luogo di peggiore. –
Non m'affrenasse, non mi ritenesse, e lo mi non voglio. – Sostien ch'io vada : qui ritorna
proibisse per traslazione da cavalli che si ri nella traslazione, il che è usitatissimo da poe
tengono col freno. – Via corta e spedita: o ti. – Ove 'l piacer mi spinge: a lodare gli oc
via o modo breve e non impedito non essendo chi e raccontare gli effetti che operavano in
piu agevol cosa che il morire, onde disse al lui. E disse spinge: a dimostrare quella me
trove: desima forza di sopra quando disse: – Ma'l gran
piacer lo sprona, e poco di sotto;–Ma contra
Che ben può nulla, chi non può morire (2). star non posso al gran disio. E perchè in que
sto poeta si fa menzione del dolore moltissime
volte, e niuno che io mi ricordi, dichiara che
E certamente par gran fatto che non si po
tendo nascere se non in un modo solo, si possa cosa egli sia, non sarà se non buono farne
morire per infiniti, e massimamente che la na alcune parole; e massimamente che questa pas
tura come giustissima non ha dato mai a una sione si comprende meglio coi sentimenti che
cosa più d'un contrario, come dice il Filosofo non si dichiara colle parole, cioè è conosciuta
nel decimo della Metafisica. E però dovemo più colla sperienza che colla ragione. È adun
sapere che la vita e la morte non sono con que il dolore di due maniere: corporale ed
trari positivi come il bianco ed il nero, o il intellettuale. Del dolor corporale considerano
freddo e'l caldo, ma privativi, come il moto e i medici e Galeno, principe loro, lo diffinisce
la quiete, e il lume e l'ombra. Oltra che l'acqui in questa maniera: Il dolore è un sentimento
stare l'essere è cosa buona e desiderabile, e spiacevole, cioè che n'arreca tristizia, e questa
però voluta dalla natura, e 'l perderlo come è propio l'essenza sua. Alcuni aggiugnendovi
cosa rea e da fuggirsi non è propiamente opera la cagione lo diffiniscono così : Il dolore è un
della natura ma seguita dalla necessità della sentimento spiacevole d'uno obbietto che s'im
materia; cioè essendo noi composti di cose prima subito e con violenza. Perciocchè non
contrarie non è possibile durar lungo tempo, ma è propio dolore, se alcuno obbietto non viene
di fuora subitamente e con violenza. E se bene
è necessario che ci corrompiamo; e andare verso
il non essere è agevolissimo, e si può fare in si chiama dolor corporale, dovemo però inten
mille modi, essendo incerto ed infinito, come dere, che non si può cagionare, se il senso
interiore non concorre anch'egli coll'esteriore.
un colpo può còrre nel bersaglio una volta e
mille fuori. E ancora che questo nome dolore sia comune
Trarrebbe a fin: fornirebbe. – Questa pena a qualunque noia, molestia e dispiacere che può
aspra: per traslazione dal gusto. – E dura: per avvenire a tutti i sensi, come al viso dal troppo
traslazione dal tatto. – E la colpa è di tal, che lume, all'udito dal suono sproporzionato, al
non n'ha cura; cioè di Madonna Laura: il che gusto dal sapore ingrato, come agro o amaro,
fu detto da lui tanto per accusare lei, quanto all'odorato dagli odori troppo potenti; nondi
per fare più compassionevole la doglia sua. meno il dolore è propiamente dell'ultimo senso
cioè del tatto. E si fa secondo Galeno dalla'
Perciocchè i miseri e gli afflitti si sdegnano
grandissimamente ed accrescono la pena, quando soluzione del continuo; cioè quando quello
ch'è uno c continuato si divide, e brevemente
veggano, che altri e massimamente quelli onde
patiscono, o da quali speravano, non solamente si disunisce l'unità della parti, come si vede
non si dolgono dei mali loro negli ajutano, ma nelle ferite. Il che è ripreso dal grande Aver
rois che vuole che il dolore si cagioni sola
ancora non vi pongono cura.
mente dalla stemperanza, ovvero distempera
mento nel terzo libro delle sue Collecta. E non
(1) Canz. I, Slanza VI, Parte I. è dubbio nessuno che il dolore nasce ancora
(2) Son. Cl, Parte I. dall'alterazione delle qualità, cioè del caldo e
G8 LEZIONI
del freddo, ma di questo non s'ha a favella E medesimamente:
re qui.
Il dolore che noi chiamiamo intellettuale non Pur mi consola che languir per lei
è altro secondo i filosofi che un ristringimento Meglio è, che gioir d'altra: e tu mel giura
dell'animo per cagione d'alcun male presente Per l'orato tuo strale, ed io te 'l credo (1).
o molto vicino; e questo nasce ancora molte Quel già ha in questo luogo forza da fermare
volte non solo per lo aver noi perduto alcuna e non di tempo, e si può meglio esprimere cogli
cosa che ci fosse cara, ma ancora per lo non esempi che colle parole, come là:
poter conseguire quelle che desideriamo, come
si vede tutto'l giorno negli amanti, e in que L'alma ch'è sol da Dio fatta gentile
sto Poeta massimamente, e più in queste tre Che già d'altrui non può venir tal grazia (2).
canzoni che altrove. E crescono i dolori o Ed altrove:
più o meno secondo che più o meno grandi
sono i desideri: ed i desideri sono o minori Ingrata lingua già però non m'hai (3).
o maggiori secondo che le cose desiderate sono E così, per avventura, o in un simil modo si po
o ci paiono più belle e migliori. E perchè que trebbe pigliare nel sonetto: O d'ardente vir
sto affetto o passione è fredda e secca, però tute ornata e calda (4):
s'accresce dai tempi e dai luoghi, perchè come O sol già d'onestate integro albergo,
il sole rischiara non solamente l'aere, ma an
cora gli animi nostri rallegrandoci, così le te. non mi parendo che si possa riferire il tempo
nebre gli offuscano contristandoci. E però di convenevolmente, nè trovando altro senso che
ceva il Petrarca: del tutto mi soddisfaccia. – Occhi sereni sovra
Non ha tanti animali il mar fra l' onde il corso mortale: cioè più che non consente or
Quanto ha 'l mio corpensier ciascuna sera (1). dinariamente la natura, ed in somma vuol dire
occhi divini, lodandoli dalle cose presenti, cioè
E altrove (2): dalla bellezza loro, chiamandoli sereni per tras
Tutto 'l di piango; e poi la notte, quando lazione dal cielo e per lo proprio nome; per
che come avemo detto qui è un nuovo comin
Prendon riposo i miseri mortali,
Trovomi in pianto, e raddoppiansi i mali: ciamento e però li si fa benevoli. – Nè di
Così spendo 'l mio tempo lacrimando. lui: cioè di colui. – Che il quale. – Mi di
strigne: mi lega strettamente, come là:
Il medesimo avviene dei luoghi, i quali, come
dimostra tante volte il Petrarca, nº accrescono O bella man, che mi distringi il core (5).
più o meno il dolore, secondo che più o meno E in somma circonscrive Amore. – A tal no
sono solitari o frequentati. E però disse egli do: cioè ad amare cosa sì bella, e si perfetta:
non meno da dotto, che da innamorato, onde disse nella canzone del pianto:
Ogni loco m'attrista ove io non veggio E a costui di mille
Quei begl'occhi soavi (3). Donne elette eccellenti n elessi una
E quell'altro diceva per questo fine medesi Qual non si vedrà mai sotto la luna (6).
mo: – In solis tu mihi turba locis. E questo
sia detto in fin qui del dolore. E quel che segue; ed altrove disse:
Già di voi non mi doglio Gli animi, ch'al tuo regno il Cielo inchina,
Occhi, sovra 'l mortal corso sereni, Leghi ora in uno ed ora in altro modo,
Ma me solo ad un nodo
Nè di lui, ch'a tal nodo mi distringe.
Legar potei, che'l Ciel di più non volse (7).
Qui rientra nella materia cominciata conti
nuando coi tre versi di sopra; benchè potremo B però disse nel fine d'una sua Ballata: -

secondo alcuni dire, che la digressione non for Per morte nè per doglia
nisse in fino al verso: Vedete ben quanti co Non vo' che da tal nodo amor mi scioglia (8).
lor dipinge. – Già di voi mi doglio: non vuol
La canzone nostra così procede:
dire come credono alcuni quello che scrisse nel
Trionfo della Divinità: Pedete ben quanti color dipinge
Amor sovente in mezzo del mio volto,
Che la colpa è pur mia, che più per tempo E potrete pensar qual dentro fammi
Dovea aprir gl'occhi e non tardare alfine Là 've dl e notte stammi
Ch' a dire il vero omai troppo m'attempo, Adosso col poder, c'ha in voi raccolto,
ma loda gli occhi da un altro effetto dicendo Luci beate e liete:
come là : Se non che'l veder voi stesse v'è tolto:

Togliendo anzi per lei sempre trar guai (1) Son. CXXII, Parte I.
Che cantar per qualunque, e di tal piaga (2) Canz. 1, Stanza VII, Parte I.
Morir contento e viver in tal nodo (4). (3) Son. XXXIV, Parte I.
(4) Son. XCVI, Parte I.
(1) Sest. VII, Parte I. (5) Son. CXLVII, Parte I.
(2) Son. CLXI, Parte I. (6) Canz. VII, Stanza VII, Parte I.
(3) Cauz. Ill, Stanza Ill, Parte I. (7) Canz. II, Stanza VII, Parte I 1.
(4) Son. XXVI 11, Parte II. (8) Ball. IV, Parte I.
SUI.LE CANZONI DEGLI OCCIII 6)
Ma quante volte a me vi rivolgete ne la sua operazione cioè la visione; ed in
Conoscete in altrui quel che voi sete. somma non conosce il viso di vedere, nè l'u-
dito d' udire. E il medesimo dico di tutti gli
Tutte le cose (come dicono i filosofi) si oo altri sensi, e le ragioni sono almeno tre. La
noscono mediante le loro operazioni. Volendo prima è che ogni sentimento, in quanto senti
dunque lodare gli occhi da quello che in lui
operavano, e perchè le cose interiori si mento, è passione, perchè egli riceve i sensibili,
dimos ed ogni ricevimento è con moto, ed ogni moto
trano per le esteriori, dimostrare quale egli è passione. Ora ogni passione si fa da una cosa
fosse di dentro, dice pure agli occhi parlan dissomigliante a sè: nessuna cosa è dissomi
do: – Vedete, cioè mirate e ponete mente – gliante a sè medesima : dunque il senso non
Quanti color dipigne Amore sovente, parola pro può apprendere sè medesimo. La seconda è
venzale che significa molte volte com'è no perchè ogni senso ha bisogno nella sensazio
tissimo. – In mezzo del mio volto, nel mio ne, cioè operazione sua d'alcun mezzo, o in
viso, che così solemo dire, ancora che non in trinseco come il tatto ed il gusto, o estrinseco
tendiamo così a punto del mezzo come là: come gli altri tre, i quali hanno bisogno del
Talor m'assale in mezzo a tristi pianti (1): l'acqua, o dell'aria illuminata, e però non può
la vista vedere l'occhio, non vi sendo tra l'u-
e là ancora:
no e l'altro mezzo alcuno, che porti le spezie
Ma io, perchè s'attuffi in mezzo l'onde (2): del visibile al viso. La terza ed ultima ragione
è perchè i sentimenti sono immersi nella ma
e in somma non vuol dir altro in questi versi teria e nel corpo da cui dipendono e nell'es
se non
sere e nell'operare. Ora nessun corpo si può
Che 'n un punto arde, agghiaccia, arrossa e im rivolgere sopra sè stesso come è più che noto
bianca (3): appresso i filosofi ; altramente non sarebbe
corpo: e però nessun sentimento può conoscere
segni manifestissimi di grandissimo e potentis se medesimo. Anzi nè ancora l'intelletto umano,
simo amore. – E potrete pensar: e vi sia leg tutto che sia immateriale, non può rivolgersi
giero il conoscere e considerare. – Qual den sopra sè stesso, se non per accidente; e così
tro.fammi: come mi conci e governi il cuo non si conosce se non accidentalmente; e que
re. – Là ove, nel qual luogo. – Mi sta a sto gli avviene, perchè sebbene è separato di
dosso: a dimostrare la possanza e vittoria d'A- sua natura e secondo l'essenza sua da ogni
more sopra lui, come disse ancora Dante nella materia, tuttavia dipende dai sensi, e senza loro
canzone allegata di sopra: non può essere, nè operare secondo i Peripa
s, Ch'ella m'ha messo in terra e stammi sopra tetici. E questo basti quanto alla quarta stanza
e terza lezione.
» Con quella spada ond'egli uccise Dido».
Il che s'accresce dicendo: – Dì e notte col po
tere che ha in voi raccolto. – Luci beate e lie
: intendendo pur degli occhi, o più tosto delle
pupille degli occhi perchè in esse vi sia la vi LEZIONE QUARTA
sione, cioè l'atto e l'operazione del vedere; e
le chiama beate e liete. – Se non che: eccetto
Se a voi fosse si nota
solamente in questa parte, che non possono ve La divina incredibile bellezza
dere loro stesse. – Ma quante volte a me vi
Di ch'io ragiono, come a chi la mira;
rivolgete: cioè ogni volta, che mirate nel volto
mio. – Conoscete in altrui, cioè in me, e nel Misurata allegrezza
mio viso. – Quel che voi siete: cioè quanto sia Non avrà 'l cor: però forse è remota
grande la bellezza vostra veggendomi di tanti Dal vigor natural, che v'apre e gira.
colori e si cupidamente guardarvi, come testi Felice l'alma, che per voi sospira
monia in mille luoghi: e però disse (4): Lumi del Ciel; per li quali io ringrazio
La vita, che per altro m'è a grado,
Volgendo gl'occhi al mio nuovo colore, Oimè, perchè si rado
Che fa di morte rimembrar la gente, Mi date quel, d'ond'io mai non son sazio?
Pietà vi mosse, onde benignamente Perchè non più sovente
Salutando, teneste in vita il core. Mirate, quale Amor di me fa strazio ?
E perchè mi spogliate immantinente
E perchè niuno dichiara in questo luogo (che Del ben, ch' ad or ad or l'anima sente?
io sappia) perchè gli occhi non possono vedere Avendo detto di sopra che gli occhi di Ma
sè stessi, diremo come nella lezione dei senti
donna Laura erano beati in ogni cosa, salvo
menti in universo, che niun senso può appren
dere sè medesimo nel suo organo, ovvero stru che non potevano vedere sè medesimi, v'ag
mento, nè la sua operazione; onde il vedere giunse subito quasi un rimedio dicendo:
non vede se, nè il suo strumento cioè l'occhio, Ma quante volte a me vi rivolgete,
Conoscete in altrui quel che voi sete.
(1) Son. XI, Parte I.
(2) Canz. IV, Stanza IV, Parte I. Ora vuol mostrare, che il non poter ve
(3) Son. Cl, Parte I. dere sè stessi, è non in danno, ma in utile
(4) Ball. V, Pate 1. loro grandissimo; perciocchè se si vedessero,
LEZIONI
7o
conoscerebbero la loro bellezza, e conosciutala cità ovvero vivezza delle sentimenta, la quale
se ne allegrerebbero tanto fuori di misura, che il Petrarca chiamò dottamente vigor naturale,
o passerebbero il dovuto termine; (il che è e questa vivezza risponde alla prudenza; per
biasimevole in tutte le cose, perchè come disse chè come l'anima, mediante la prudenza, co
Orazio non meno filosofo morale, che poeta: nosce e comprende le cose agibili, cioè quel
lo che si debba o fare, o non fare, così l' a
Est modus in rebus, sunt certi denique fines nima medesima, mediante la bontà dei sensi,
Quos ultra, citraque nequit consistere rectum) comprende e conosce le cose sensibili. E non
o, per avventura, se ne morrebbero. Dice dun è dubbio nessuno, nè appresso i medici, nè ap
que, sempre agli occhi parlando. – Se... La presso i filosofi, che quelli che hanno i senti
divina incredibile bellezza: perchè molte cose menti migliori, hanno ancora migliore ingegno
sono divine, che non sono incredibili. – Di e giudizio. Perchè i sentimenti sono gli stru
ch' io ragiono: della quale bellezza (che non è menti dell'anima, la quale senza loro non può
altro che lo splendore e grazia loro) io favel nè sapere cosa alcuna, nè operare; e quelli
lo, cioè la vostra. – Fosse si nota a voi: tanto hanno i sentimenti migliori i quali sono più
manifesta a voi stessi. – Come a chi la mira: temperatamente complessionati, perchè gene
quanto a chiunque la risguarda. – Il core: di rano miglior sangue, e 'l sangue migliore ge
Madonna Laura. – Non avria: non avrebbe – nera gli spiriti più sottili e più lucidi, onde
Allegrezza misurata: ma smisurata, e così se vengono tutte le cognizioni ed azioni nostre,
ne potrebbe morire. Il che non è cosa nuova; La seconda dote del corpo è la gagliardia, la
conciossiachè uno Spartano chiamato Chilone quale risponde alla fortezza, perchè come quella
abbracciando il figliuolo, il quale era stato co sostiene gli affanni dell'animo, così regge que
ronato nei giuochi e combattimenti olimpici, sta quelli del corpo. La terza è la bellezza, la
si morì d' allegrezza. E Sofocle, grandissimo quale corrisponde alla temperanza, perchè co
tragico, udito che la sua tragedia era stata giu me quella nasce dagli umori proporzionata
dicata la più bella, e così essere rimaso vin mente temperati, così nasce questa dalle parti
citore, ne prese così fatta allegrezza, che egli del corpo debitamente disposte. La quarta ed
se ne mori. Il medesimo intervenne per la me ultima è la sanità, che corrisponde alla giusti
desima cagione a Filippide, poeta comico, ed zia, la quale nasce da una certa complessione
a molti altri, che per la troppa allegrezza cad convenevole e debita quantità d'umori. – Che
dero morti subitamente, come racconta Vale v'apre e gira: due cose, nelle quali consiste
rio Massimo nell' ultimo libro, nel capitolo buona parte della grazia e bellezza degli oc
delle morti non ordinarie. Non si legge già che chi: onde nel sonetto. – In qual parte del
si muoia così agevolmente del dolore, e però Cielo, in quale idea (1): egli disse:
disse il Petrarca:
Per divina bellezza indarno mira,
L'ardente nodo, ov io fui, d'ora in ora Chi gli occhi di costei giammai non vide :
Contando anni ventuno interi, preso, Come soavemente ella li gira: -

Morte disciolse, nè giammai tal peso


Provai, nè credo ch'uom di dolor mora (1). Ed altrove:

Benchè altrove dicesse quasi di contrario pa E 'l bel viso vedrei cangiar sovente,
rere:
E bagnar gli occhi, e più pietosi giri -

Nè di Lucrezia mi maravigliai, Far, come suol chi degli altrui martiri,


Se non come al morir le bisognasse E del suo error, quando non val, si pente (2).
Ferro, e non le bastasse il dolor solo (2): Felice l'alma, che per voi sospira: seguita
imitando, per avventura, Lucano, che disse: pure di lodare i begli occhi, ma con nuovi ar
Turpe mori post te solo non posse dolore:
tifizi sempre più belli; perciocchè come si può
lodare una cosa maggiormente, che chiamare
in persona di Cornelia moglie di Pompeo, le ca felice uno che sospiri per lei? E come può
gioni delle quali cose diremo un'altra volta. – essere felice uno che sospira ? Se non che gli
Però forse è remota: per questa cagione, per amanti sono fuori delle leggi degli altri uomini;
avventura, è remota, ovvero rimossa; ch è l'uno il che conoscendo Tibullo disse leggiadrissi
e l'altro è toscanamente usato così ne prosa mamente come sempre:
tori, come ne poeti. – Dal vigor natural, che
v'apre e gira. Per bene intendere il sentimento Quisquis amore tenetur, eat tutusque sacerque
di questo verso, dovemo sapere, che come nel Qualibet: insidias non timuisse decet.
l'anima umana sono quattro virtù: prudenza, Ed il Petrarca medesimo rende altrove la
fortezza, temperanza e giustizia chiamate car
dinali, le quali la fanno perfetta; così nel cor cagione di quello che dice in questo verso
eleggendo di languire più tosto per Madonna
po sono quattro doti supreme, le quali corri Laura che gioire per qualunque altra. E di
spondono alle quattro virtù dell'anima, e lo
fanno perfetto. E queste sono una certa viva
qui possiamo cavare per l'argomento dal mi

(1) Son. III, Parte II. (1) Son. CVIII, Parte I. -

(2) Son. CCIV, Parte I. (2) Son. LXXXVII, Parte I.


SULLE CANZONI DEGLI OCCHI -
l
-

nore, quanto sarebbe stato felice, se gli fosse straziare e scempiare nella nostra lingua, ancora
stata pietosa, e come i Latini dicono: che Dante a maggiore espressione dicesse:
Quod si forte alios jam nunc suspirat amores: » Ond'io a lui: Lo strazio e il grande scempio
» Che fece l'Arbia colorata in rosso,
cosi dicono i Toscani alcuna volta: – In quel » Tal orazion fa far nel nostro tempio (1)».
bel viso, ch'io sospiro e bramo: dandogli l'ac
cusativo figuratamente. – Lumi del Ciel: non Amor fa di me: ed artifiziosamente disse,
gli bastò chiamarli lumi semplicemente, come Amore e non voi, per non fare contra quel di
altrove: sopra. - Già di voi non mi doglio –Occhi so
era 'l mortal corso sereni: volendo più tosto at
E mentre i miei due lumi indarno cheggio (1); tenere la promessa a loro, che ad Amore. Ed
artifiziosamente ancora disse: – Mirate qual
ma ancora v'aggiunse del ciel per lodarli mag Amor di me fa strazio; e non me, sì per muo
giormente, e farsegli più amichevoli. – Per li vere compassione di sè, e sì per non essere
quali io ringrazio la vita: è questa un'altra immodesto. Nè mi piace come ad alcuni che
lode grandissima, posciachè un tale uomo rin si dica – Mirate quale Amor, cioè di che sorte,
grazia Dio di vivere, nè ha cara la vita per o quanto grande. – E perchè mi spogliate im
altro, se non per mirare quei begli occhi; on mantinente – Del ben ch 'ad ora ad or l'anima
de nella seguente stanza dice; sente? Di sopra s'era doluto, che Madonna
Laura gli concedeva pochissime volte la vista
Quel tanto a me, non più, del viver giova: de' suoi begli occhi cercata da lui e desiderata
ed altrove disse: mai sempre: ora si duole, che anche quelle
poche volte duravano corto tempo; onde di
Per quanto non vorreste, o poscia, od ante ce: – E perchè: e quale è la cagione, che
Esser giunti al cammin, che si mal tiensi voi, occhi sovra 'l mortal corso sereni. – Mi
Per non trovarvi i duo bei lumi accensi spogliate: mi private; ed usò questo verbo spo
Nè l'orme impresse dell'amate piante (2). gliate con arte ed ingegno grande, volendo mo
ed altrove: strare, che ella gli faceva torto, essendo tolto
per traslazione dai masnadieri e rubatori di
Gli occhi soavi, ond'io soglio aver vita, strada. Nè paja ad alcuno che sia troppo que
Delle divine loro alte bellezze sto, perchè la chiama molte fiate or sua ne
Furmi 'n sul cominciar tanto cortesi (3). mica, or sua guerrera ed ora altramente. E
Dante disse della sua Bice:
Ma troppo sarei lungo se volessi addurre in
testimonianza di quello, che non è dubbio tutti » Questa schierana micidiale ed atra».
i luoghi che si potrebbero. – Oimè, perchè si Immantinente: incontamente, cioè, subito.-Del
rado. – Mi date quel, dond'io mai non son sa ben: del piacere ed infinita gioia. – Che: il qual
zio! Pare, come dicono alcuni, che avendo chia bene.-L'anima sente ad ora ad or, cioè, alcuna
mato felice chi sospira per Madonna Laura, volta: e questo è il propio significato di que
cioè sè medesimo, egli lo metta ora in opera sto avverbio come si vede manifestamente in
col dire quasi sospirando: oimè, e si duole di questo luogo, e là : -

avere si poche volte quello, che egli vorrebbe


tuttavia; ed è bellissima contrapposizione, e Ma chi vuol si rallegri ad ora ad ora;
dimostra avere grandissima cagione di dolersi. – Ch'io pur non ebbi mai non dirò lieta,
Donde, cioè del quale: l'avverbio per lo no Ma riposata un'ora,
me, come s'usa infinite volte. – Io mai non Nè per volger di ciel, nè di pianeta (2).
son sazio: duolsi che quello, onde non si sareb ancorchè molti lo piglino in luogo di spesse
be sazio mai, gli sia concesso sì rado, cioè si volte, il che è radissimo. Noteremo ancora, che
rade volte, come altrove: sebbene egli dice: l'anima sente, si deve però
E per altrui si rado si disserra (4). intendere come avemo avvertito altre volte,
dell' anima e del corpo insieme. Perciocche,
E perchè gli amanti non si saziano mai di tutto il composto è quello, che opera e non
vedere cose amate, avemo detto e diremo al l'anima o il corpo separatamente l'uno senza
trove. – Perchè non più sovente. – Mirate l'altro, perchè della forma, cioè dell'anima,
quale amor di me fa strazio: parte si duole e e della materia, cioè del corpo, risulta una cosa
parte si meraviglia; e quasi li priega ripren sola, la quale è una perfettissimamente, essen
dendoli che essi non si rivolgano verso lui, se do l'anima l'atto, cioè la perfezione del corpo
non radissime volte, dicendo: – Perchè: per e quella che gli dà l' essere. E sebbene Ari
qual cagione. – Non mirate più sovente: non stotile dice nel primo libro, che tanto e a dire
guardate più spesso. – Quale strazio: quanto l'anima sente, quanto l'anima fila, o edifica;
grande scempio, perchè il medesimo significa | tuttavia non solo i poeti e gli oratori, ma i
filosofi ancora, ed egli stesso, come si vede
nel terzo dell'anima, usano simili favellari.
(1) Son. CCVII, Parte I.
(2) Son. CLII, Parte I.
(3) Canz XVI, Stanza II, Parte I. (1) Inf., Canto X.
(4) Son. XXXll, Parte 1 l. (2) Cauz. iV, Stanza 11, Parte I.
- o
- LEZIONI

Dico ch'ad ora ad ora, le cose dolci ordinariamente sono amiche della
Vostra mercede io sento in mezzo l'alma natura, e piacciono al gusto. Di qui viene che
Una dolcezza inusitata e nuova, trasferendosi all'anima si chiamano dolci tutte
La quale ogn'altra salma quelle cose che ne dilettano; onde dolcezza in
Di nojosi pensier disgombra allora, questo luogo si piglia per gioia e piacere, co
Sì che di mille un sol vi si ritrova: me in infiniti altri luoghi. – Inusitata e nuo
Quel tanto a me, non più, del viver giova. va. Alcuni riferiscono inusitata, al Poeta, il
E se questo mio ben durasse alquanto quale non era usato di sentirla troppe volte;
Nullo stato agguagliarse al mio potrebbe: e nuova, cioè era grande e meravigliosa, come
Ma forse altrui farebbe Virgilio: – Pollio et ipse facit nova carmina.
Invido, e me superbo l'onor tanto: Ma a nuc pare che come la lingua latina ha
Però, lasso, conviensi, alcune parole, le quali, benchè significhino il
Che l'estremo del riso assaglia il pianto, medesimo, si pongono però quasi sempre in
E'nterrompendo quelli spirti accensi sieme dagli scrittori, cosi abbia la toscana, e
A me ritorni, e di me stesso pensi. tra queste sono casso e privo, ignudo e casso,
Il Poeta continuando e dichiarando sè me inusitato e nuovo, onde disse nel primo capi
tolo del Trionfo d'Amore:
desimo dice più apertamente qual fosse quel
bene che sentiva la sua anima alcuna volta, il L'abito altero inusitato e nuovo:
quale replicamento ha grandissima forza. Dice ed altrove
dunque. – Dico: cioè voglio dirc. – Che io
sento ad ora ad ora: cioè qualche volta; che Amor della sua luce ignudo e casso (i).
gli antichi nostri dicevano a otta a otta. – In – La qual: dolcezza. – Allora: mentre che vi e
mezzo l'alma: nel mezzo del cuore, perchè in miro – Disgombra: scaccia, e toglie via –
questo luogo come in molti altri alma, che è – Ogni altra salma: ogni altra soma, parola
vocabolo provenzale e significa l'anima, si pi provenzale; e quello ogn'altra non è relativo,
glia invece del cuore, dove si sente l'allegrez ma è modo nostro di parlare, cioè qualunque
za. Perciocchè l'anima non è in nessuna parte sia; come là
del corpo particolarmente, ma tutta in tutte Sì che s'altro accidente
le parti; perchè ella non è nel corpo come in nol distorna (2).
luogo; onde ancora che il corpo si muova, ella– Di pensier noiosi: di molesti e spiacevoli
non si muove, non si movendo nè per sè, nè pensamenti. – Sì che: di maniera. – Di mille:
per accidente; come sanno gli esercitati, che d'infiniti pensieri. – Un sol vi si mostra: e
gli altri non possono intendere queste cose.- questo è il contemplare e fruire la dolcezza di
In mezzo l'alma, poteva dire ancora in mezzo quei begli occhi – Quel tanto a me, non più,
a l'alma, come nel sonetto: Io mi rivolgo in del viver giova. Spongono alcuni quel tanto del
;
dietro a ciascun passo (1): vivere, e non più mi diletta, cioè niuna altra
Talor m'assale in mezzo ai tristi pianti; cosa mi piace in questa vita, se non mirare i
begli occhi; ed alcuni dicono, quel tanto, cioè
Poteva ancor dire in mezzo dell'alma, come solamente quel poco di tempo ch'io li miro, mi
disse di sopra: giova del vivere, e non più; perché tutto il
Vedete ben quanti color dipinge restante, come vuole inferire, si cousuina in
Amor sovente in mezzo del mio volto. affanni e pianti: e questo pare il vero senti
mento, come dice altrove in mille luoghi. –
E similmente nel mezzo dell'alma, come al E se questo mio ben: usa un altra volta questo
trove:
nome generale bene, che comprende tutti i
Sento nel mezzo delle fiamme un gelo (2). piaceri e tutti gli utili, perchè bene significa
Indi prosegue: – Vostra mercede: disse al ogni cosa buona. – Durasse alquanto: bastasse
trove: un poco più; e mostra grandissima modestia
sua, con grandissima lode di loro. – Nullo stato:
Benignamente sua mercede ascolta (3). niuno grado e condizione quantunque felice. –
Dicesi ancora, per quella figura chiamata apo Potrebbe agguagliarsi: si potrebbe comparare e
cope, cioè tagliamento dei fine della parola, paragonare al mio stato. E così mostra che la
mercè; e significa quello che volgarmente si vita e piacere suo eccederebbe e trapasserebbe
dice per grazia vostra, o per cortesia, ed i La tutti gli altri piaceri e vite infinitamente, po
tini direbbero: quae tua est pietas vel benigni sciache tra loro non cadrebbe comparazione,
tas. Dicesi ancora alcuna volta ironicamente o proporzione alcuna. – Ma forse altrui fa
come nella canzone: – Italia mia benchè il par rebbe – Invido e me superbo l'onor tarato: per
lar sia indarno (4): chè d'ogni male si può trarre alcun bene, ed
Vostra mercè, cui tanto si commise:
i saggi ripigliano ogni cosa in buona parte
però quasi esortando sè stesso il Poeta dice
cioè per vostra colpa. – Una dolcezza, perchè – Ma forse l'onor tanto: quanto sarebbe s'i
potessi contemplare un poco più lungamento
(1) Son. X1, Parte I. i begli occhi – Farebbe forse altrui: cioè Ma
(2) Son. LXXXI 11, Parte I.
(3) Son. l V, Parte 1 V. (1) Son. XXVI, Parte II.
Q4, Cana. l V, Stanza tv, P.tte l V. (2) Son. V1, PautelV.
SULLE CANZONI DEGLI OCCHI 73
donna Laura, secondo alcuni, il che non mi lui esser freddo. Il che è vero sì in tutte l'altre
piace in questo luogo, sebbene altrove, e mas cose, e sì massimamente nel contemplare e spe
simamente nel sonetto: O invidia, nemica di colare le cagioni delle cose; onde Virgilio non
virtute (1), dimostra che ella gli fosse invidiosa men buon medico che dotto filosofo ed eccel
delle sue bellezze. Ma perchè altrove avemo lentissimo poeta disse per questa cagione nella
a parlare lungamente di questo rabbioso mo Georgica:
stro e venenosissima peste, non diremo qui al
tro, se non che altrui si deve intendere in que Quod si has ne possim, naturae attingere partes,
sto luogo generalmente, perchè questa sentenza Frigidus obstiterit circa praecordia sanguis.
è cavata da S. Bernardo, come notano tutti gli A me ritorni e del mio stato pensi. Tutti
spositori, il quale disse in una sua operetta quelli che amano, ordinariamente non vivo
della Contemplazione, favellando dello stare in no in sè medesimi ma in altrui, come testi
estasi, cioè dell'essere fuori di sè e rapito monia tante volte questo Poeta medesimo e
dallo spirito: Illi qui in estasim incidunt, sta tutti gli altri; onde Monsignor Reverendissimo
tim reverentur et ajunt: Si diutius in ea ma Bembo disse nella fine d'una delle sue stanze
neremus, nimium superbi homines efficeremur, et miracolose:
maximam nobis invidiam concitaremur.
Invido, invidioso, come altrove: Nè sa coll'alma nella fronte espressa
Cercare altrui e ritrovar sè stessa.
Invide Parche, sì repente il fuso (2).
E tanto più poi quando pensano intentamente
Però: per questa cagione. – Conviensi: si con alle donne loro, e tanto più ancora quando le
viene ed è ragionevole. – Lasso: ha interposto mirano e contemplano fisamente. E però disse:
questa interiezione di dolore per dimostrare – A me ritorni: perchè prima era in altrui. –
non tanto la sventura sua di non poter conti E di me stesso pensi: perchè prima pensava ad
nuare in così disiata gioia, quanto l'infelicità ogn'altra cosa. E questo affetto medesimo di
della vita umana, dove pigne quasi dichiarando questo luogo egli stesso
- - -s” altri è lieto alquanto
- -
divinamente in quel sonetto divino:
Immantinente poi l'assale il pianto. Siccome eterna vita è veder Dio,
Che il pianto assaglia: occupi. – L'estremo del Nè più si brama, nè bramar più lice:
riso: perchè come dice S. Girolamo: Extrema Così me, Donna, il voi veder felice
gaudii luctus occupat. E di vero non avemo Fa 'n questo breve e frale viver mio (1).
mai piacere niuno, che dopo non seguiti altret E di poi soggiugne:
tanto, o più di dispiacere, e però Omero, in
cui, come in un fonte perpetuo, anzi mare, si E se non fosse il suo fuggir si ratto (2).
sono bagnati tutti gli ingegni di tutti i poeti Ed altrove :
buoni, finse prudentissimamente nell'ultimo
libro della guerra Trojana, che Giove padre Lasso! ma troppo è più quel che io n involo
degli Dii aveva dinanzi la porta due vasi, l'uno Orquinci, or quindi, come Amor m'informa,
de'quali era pieno di tutti i beni, e l'altro di Che quel, che vien da grazioso dono (3).
tutti i mali: e sempre che egli voleva man Passiamo all'altra stanza:
dare in terra alcun bene o alcun male, met
teva le mani in ambedue i vasi, e tolto una L'amoroso pensiero,
manciata dell'uno ed una dell'altro, le gittava Ch'alberga dentro, in voi mi si discopre,
e spargeva insieme, onde come non veniva mai Tal, che mi trae del cor ogn'altra gioia:
alcun bene senza male, così non veniva alcun Onde parole ed opre
male senza bene. Ed a questo, per avventura, Escon di mesi fatte allor, ch'iº spero
volle alludere il Petrarca in questo luogo. – Farmi immortal, perchè la carne moja.
E'nterrompendo quegli spirti accensi. Stava il Fugge al vostro apparire angoscia e noia,
Poeta mirando Madonna Laura in dolcissima E nel vostro partir tornano insieme:
contemplazione fuori di sè stesso; ma ella tor Ma perchè la memoria innamorata
cendo gli occhi altrove gliela interrompeva. – Chiude lor poi l'entrata,
Quegli spirti accensi: in luogo d'accesi, come Di là non vanno da le parti estreme:
disse ancora altrove, per la figura epentesi, cioè Onde s'alcun bel frutto
interposizione; la quale è quando nel mezzo Nasce di me, da voi vien prima il seme:
Io per me son quasi un terreno asciutto
d'alcuna parola s'aggiunge alcuna lettera, o
sillaba, e disse spirti accensi, per mostrare il Colto da voi; e 'l pregio è vostro in tutto.
fervore della contemplazione. Perciocchè gli Quanto più si considera l'ingegno di questº
spiriti sono quelli che operano il tutto, e quanto Poeta, non punto minore dell'arte, tanto più
più sono caldi e sottili, tanto sono migliori e n'arreca a chi più intende non so se meravi
più atti alla contemplazione. Onde ancora vol glia o stupore, ne tanti modi e così diversi, coi
garmente quando vogliamo significare alcuno quali non meno ingegnosamente, che con arte
pigro ed inabile a operare checchessia, diciamo
(1) Son. CXXXIX, Parte I.
(1) Son. CXX, Parte I. (2) Son. CXXXIX, Parte I.
(2) Son. XXVIII, Parte 11. (3) Caua VII 1, Stausa l'V, l'arte -
VAla Clll
74 LEZIONI

loda ed innalza da vari effetti la leggiadria ed E nella canzone: Tacer non posso: disse:
eccellenza de' bellissimi occhi della sua castis
Dinanzi una colonna
sima donna. Onde volendo mostrare in questa
settima ed ultima stanza, che tutto quello che Cristallina, ed ivi entro ogni pensiero
egli è, tutto quello ch'egli opera, tutto quello Scritto ; e fuor tralucea si chiaramente,
ch'egli pensa, gli viene da loro soli e non da Che mi fea lieto, e sospirar sovente (1).
altri, piglia una traslazione e similitudine na Talchè : in guisa che. – Mi trae del core: mi
turale. Perciocchè come un terreno magro non leva e toglie dell'animo. – Ogn'altra gioia:
produrrebbe cosa alcuna, se prima non vi si ogni altro piacere, volendo inferire che tutti
gittasse il seme, e poscia si coltivasse, così il gli altri di questo erano minori e men belli;
Poeta agguagliando sè a quel terreno sterile, onde nell'ultimo verso della canzone grande,
ed i begli occhi al coltivatore d'esso, dice che disse:
tutto il pregio e tutta la lode, di quello che
egli fa, si debbe attribuire non a sè, ma a lo chè pur la sua dolce ombra,
ro. E cosi grandissimo obbligo hanno tutti gli Ogni men bel piacer dal cor mi sgombra (2).
uomini e massimamente i più gentili come più E qual gioia, anzi felicità, o più tosto beati
innamorati agli occhi di Madonna Laura ca tudine può immaginarsi non che essere o mag
gioni di tanti e così leggiadri componimenti e giore, o più desiderevole, che amare ed essere
di queste tre tanto e tanto meritamente lodate amato? E così la vista di quegli occhi non so
canzoni. Dice dunque nel principio, per la lamente gli sgombravano tutti i pensieri noiosi,
sciar andare l' altre sposizioni, che non mi come disse di sopra, ma ancora tutte le gioie
paiono né vere, nè belle come questa, che egli da una infuori, la quale avanzava sola tutte
rimirando in quegli occhi, discopriva e vedeva quante le altre insieme. – Onde: per la qual
in essi gli amorosi pensieri che abitavano den cosa. – Escon di me allora: cioè mentre che
tro il cuore di Madonna Laura, e questo gli ar io vi miro, e scopro in voi i pensieri dell'ani
recava tanto piacere, che lo faceva sdimenti mo. – Parole ed opre: nelle quali due cose
care tutte le altre dolcezze. E per questo veg consiste tutta la vita umana. – Sì fatte: di
gendosi in grazia di Madonna Laura faceva e tale maniera. – Che io spero: che io ho spe
diceva cose, che egli sperava di dover rima ranza. – Farmi immortal: d'avermi a fare im
nere vivo dopo la morte. Il che se gli riusci, e mortale, pigliando l'infinito del tempo presente
fu verissimo, può ciascuno giudicare per sè stes per quello del futuro, come usano i Toscani
so. Dice dunque: – Il pensiero amoroso: usan spessissime volte. E s'intende per fama, la quale
do il numero del meno per quello del più. – è un'altra vita se non più vera, certo più
Che: il qual pensiero. – Alberga dentro: abita lunga di questa, e che s'acquista altramente
nel cuore di Madonna Laura. – Mi si discopre: cioè colle virtù e fatiche; e molti molto più
mi si lascia vedere, ed in somma apparisce in la stimano che non fanno questa, come si può
voi, luci beate e liete. E che Madonna Laura vedere largamente in mille storie. Ed il Poeta
amasse il Petrarca, si vede spressamente nel medesimo disse:
secondo capitolo della Morte, dove ella mede
sima glielo dice ed afferma per molti versi con Chiamasi fama ed è morir secondo (3).
chiudendo:
Perchè: benchè. – La carne: il corpo, che es
Fur quasi eguali in noi fiamme amorose sendo terra si rimane in terra. – Moja: in
Almen poi ch'io m'accorsi del tuo fuoco; luogo di muoia, cioè mora, perchè l'o e l' u
Ma l'un le appalesò, l'altro le ascose. hanno gran somiglianza insieme, e si pongono
spesso l'uno per l'altro; onde Dante fece, che
E che egli, vivendo ella, se ne fosse accorto e lume rimò a come scrivendo lome:
lo credesse, testimonia egli stesso, quando dice:
» Di subito drizzato disse : Come
Era ben forte la nemica mia,
Dicesti: egli ebbe ? non vive egli ancora?
E lei vid' io ferita in mezzo'l core (1).
» Non fiere gli occhi suoi il dolce lomc (4) ?
Ed il Reverendissimo Bembo:
Fugge al vostro apparire angoscia e noia. – E
» Se a lui, che l'onorò la state e'l vermo, nel vostro partir tornano insieme. Come il sole
» Come fu dolce, fosse stata acerba s. rallegra apparendo tutte le cose, e tutte par
Nè è dubbio, che gli occhi sono lo specchio, per tendo le contrista, così dice il Petrarca, che
dir così, e quasi la finestra dell'animo; perchè in gli occhi di Madonna Laura, i quali erano il
essi si manifestano se non più chiaramente, alme suo sole, facevano a lui. E ripiglia in questi
no con più certa verità tutti gli affetti dell'ani due versi, secondo che a me pare, tutte le co
mo. E però disse Plinio: L'animo senza fallo al se dette di sopra; le quali sono in somma, che
berga negli occhi. E il Petrarca medesimo in come veggendo i begli occhi gustava tutte le
quella gravissima e moralissima canzone: Io vo dolcezze, così lontano da loro provava tutte le
pensando e nel pensier m'assale, disse: amaritudini, e forse si ricordò di Cicerone, il
Ch ogni occulto pensiero
Tiri in mezzo la fronte, ove altri il vele (2). (1) Canz. IV, Stanza II, Parte II.
(2) Canz. I, Stanza 1X, Parte I.
(1) Sor. LIX, Parte I. (3) Trionfo del Tempo.
(2) Canz, XVII, Stanza VI, Parte I. ( ) Iuf, Canto X.
SULLE CANZONI DEGLI OCCHI 55
quale disse nelle lettere scritte ad Attico (della gono, per la figura chiamata zeuma, ovvero
quale opera certamente divina devono gli stu congiugnimento, e pose partire e tornano a can
diosi delle buone lettere averne grado al Pe to; perchè essendo contrari apparissero meglio
trarca, che come diligentissimo la ritrovò, e e facessero più grazia: disse insieme, per di
come liberalissimo la diede in luce, ed ancora mostrare, che siccome subitamente si partiva
si ritrovano scritte tutte di sua mano): Ut me no amendue, così amendue subitamente torna
levarat tuus adventus, ita discessus afflixerat. vano. – Ma perchè la memoria innamorata.
Non è già vero quello che dicono alcuni, che Pare che egli risponda a una tacita obbiezio
il piacere e il dolore siano di quei contra ne, come è, che egli possa rimanendo dopo
ri, che, tolto l'uno, necessariamente seguiti la partita loro tutto angoscioso e pieno di noia
l'altro, come tolta la luce seguitano necessaria produrre quei bei frutti, cioè comporre le si
mente le tenebre, e chi non è sano di necessità leggiadre cose, che egli dice: e risponde, che
è malato, parlando secondo i medici, perchè se l'angoscia e la noia non passano nella memo
condo Aristotile la bisogna sta altramente. Per ria, perciocchè ella, piena delle immagini e dei
ciocchè i contrari sono di quattro maniere come simulacri dei piaceri ricevuti nel contemplare
sanno i loici; e quelli solamente, che sono pri quegli occhi, non accetta e non riceve dentro
vativi come il buio e la luce, la vita e la morte i simulacri e le immagini dell'angoscia e della
seguitano necessariamente l'un l'altro. Ma quel noja. E brevemente vuol dire, che si ricor
li che sono veri contrari, e che s'oppongono da dei piaceri e non dei dispiaceri, i quali,
positivamente, come il bianco ed il nero, il per essere stati i primi e grandissimi, hanno
piacere ed il dolore, non fanno questo: per ripiena ed occupata la memoria di tal sorte
ciocche non seguita: una cosa non è bianca, (come pare che voglia dire egli) che non han
dunque è nera: alcuno non ha piacere, dun no lasciato luogo a dispiaceri, e così dice. –
que ha dispiacere. Ma seguita bene: qui non Ma perchè: conciossiachè. – La memoria: cioè
è luce, adunque ci è buio; alcuno non è vivo, la potenza memorativa. – Innamorata: piena
dunque è morto. Seguitarebbe bene ancora nei d'amore e di dolcezza. – Chiude l'entrata: ser
contrari positivi, cioè che si trovano amen ra l'uscio, come noi diremmo, e non lascia
due realmente, se essi fossero di quelli, che entrare. – Lor: a loro, all'angoscia ed alla
si chiamano immediati, cioè che non hanno noja. – Poi: dopo il partire de' begli occhi –
mezzo; come, esempligrazia, nei numeri, dove Non vanno: non possono entrare e s' intende
il pari ed il caffo sono contrari immediati; l' angoscia e la noia. – Di là dalle parti estre
onde seguita necessariamente, che ogni nume me: cioè là ed in quella parte dove sta la me
ro che non è pari, sia caffo. Ma di queste co moria, la quale come dicemmo nelle lezioni
se s'è favellato ne' luoghi loro abbastanza; nè pubbliche, allegando questo luogo, si pone dai
io ci sarei entrato in questo luogo, se non per medici in alcuni ventricoli ovvero celle, secon
che dubito, che non sia stato per colpa degli do che pare le volesse chiamare il Petrarca,
stampatori quello che scrivono alcuni in que quando disse: –Qual cella è di memoria: che
sto luogo, che il piacere ed il dolore siano di sono nella parte di dietro presso la nuca, ov
quei contrari, che s'oppongono non positiva vero collottola. La qual parte si chiama fio
mente, ma come abito e privazione, di ma rentinamente la memoria; come quando dicia
niera che rimosso l'uno, subito l' altro appa mo: Egli ha dato della memoria in terra, ov
risca. La qual cosa non è vera, come è notis vero percosso la memoria. E questo avverbio,
simo a ciascuno per la sperienza stessa oltra di là non significa in questo luogo (come al
le ragioni, se già non l' intendessero; come cun crede) quello che i Latini dicono ulterius,
disse non meno leggiadramente, che veramen ma quello che dicono illuc, o veramente eo.
te il reverendissimo e dottissimo monsignor Ed è proprio fiorentino come quando diciamo:
Bembo: Va di là dai libri, in altro sentimento, che
» È gran parte di gioia uscir d'affanno». quando si dice di là d'Arno, cioè translativa
mente. – Onde: perchè, per la qual cosa. -
Disse dunque: – Angoscia e noja: cioè qualun .Se alcun bel frutto: parla modestamente di
que molestia e dispiacere. – Fugge: sparisce cendo sè ed alcuno. – Nasce di me: sta sem
e si dilegua, – A l'apparir vostro: tosto che pre nella metafora dicendo, frutto, nasce, se
apparite stando nella traslazione del sole; on me, terreno e colto. – Da voi vien prima il
de disse: seme: cioè primieramente da voi, ed è modo
Che spesso in un momento aprono allora nostro di favellare, come quando egli disse:
L'un sole e l'altro, quasi due levanti, Ricorre al tempo ch'io vi vidi prima (1).
Di beltate e di lume sì sembianti, Ed altrove:
Ch'anco ”l Ciel della terra s'innamora (1).
Dal di ch'Adamo aperse gli occhi (2).
E nel vostro partir: quando poi vi partite e
quasi tramontate ; e non disse al, ma nel, per E s'intende qui per lo seme, i pensieri e con
variare la locuzione. – Tornano insieme: l'an cetti d'Amore; come mostra egli stesso nel so
goscia e la noia s'intende, e disse tornano, netto: Quando'l pianeta che distingue l'ore (3):
dove di sopra aveva detto fugge, e non fug (1) Son. XVI, Parte I.
(2) Son. CXXIX, Parte I.
(1) Son. CXCVII, Parte I. (3) Son. VIII, Parte I.
76 LEZIONI
Cosi costei, ch'è tra le donne un sole, zio anzi più che mai infiammato al volerli Io
In me movendo dei begli occhi i rai dare; e così continua questa canzone colla sc
Cria d'Amor pensieri, atti e parole: guente, dove notaremo, che quasi sempre nella
con quello che seguita, che pare contrario a fine di tutte le canzoni, i poeti si rivolgono e
parlano ad esse. E questa ultima parte, come
quanto si dice qui. – Io per me: io com'io, e
n'insegna Dante nel suo amoroso Convivio, si
considerato da per me senza l'aiuto e coltura chiama generalmente in ciascuna canzone, tor
di voi. – Sono quasi un terreno: disse quasi
per temperare la metafora –Asciutto: secco e nata: perocchè i dicitori, che in prima usaro
per conseguente magro –Colto: coll'o chiuso, di farla, la fenno perchè, cantata quella, la
cioè coltivato e lavorato. – E il pregio è vo canzone con certa parte del canto ad essa si
stro in tutto: perchè gli agenti che fanno le ritornasse. Ma io, per seguitare le parole for
mali di Dante, rade volte a quella intenzione
cose, e non gli strumenti con che si fanno, o la feci, ed acciò che altri s' accorgesse, rade
i luoghi dove si fanno, devono lodarsi e me
ritare il pregio. Ed è più che vero, che l'amo volte la posi coll'ordine della canzone, quanto
re non solamente aguzza gli ingegni buoni, ma al numero che alla nota è necessario; ma fe
cila quando alcuna cosa in adornamento della
ancora risveglia i pigri e tardi, anzi di stolti li canzone era mestiero a dire fuori della sua
fa prudentissimi e di ignoranti letteratissimi,
come ne volle mostrare il Boccaccio nella ne sentenza: il che hanno seguitato poi dopo Dante
gli altri poeti tutti quanti. E qui, per non vi
vella di Cimone: e Properzio diceva:
essere più lungamente molesto, porrò fine a
Ingenium nobis ipsa puella facit questa prima Canzone.
E questo stesso Poeta a questo medesimo pro
posito:
Ch'a parte a parte entrº i begli occhi leggo LEZIONE QUINTA
Quant'io parlo d'amore e quant'io scrivo (1).
Segue il commiato della canzone:
Canzon tu non m'acqueti: anzi m'infiammi, Fra tutte le perturbazioni ovvero passioni
A dir di quel, ch'a me stesso m'invola: umane, chiamate latinamente affetti, niuna è,
Però sii certa di non esser sola. nobilissimi Accademici Fiorentini, la quale sia
nè più possente, nè più meravigliosa che l'a-
Chi non avrebbe creduto, che il Poeta, aven more. Anzi da questa sola come dal mare i
do lodato da tanti maravigliosi effetti, in tante fiumi, nascono si può dire e derivano l'altre
diverse guise, con tanta eloquenza la grazia e tutte quante: gli effetti della quale sono tanti
bellezza degli oochi di Madonna Laura, non e tanto diversi, che egli non pare a me nè ra
avesse non che quetato alquanto il gran disio gionevole, nè possibile che una stessa cagione
ch' era in lui, ed il gran piacere che lo spro li produca tutti. Onde hanno molti molte volte
nava a ragionare di loro, ma ancora fosse se dubitato quali siano e più e maggiori o i beni
non stanco, almeno sazio ? E nondimeno egli e giovamenti che ella n'apporta, o inocumenti
rivolgendosi alla canzone, secondo l'usanza le e mali di cui è cagione. Il qual dubbio è im
dice: Canzone, tu non solamente non m'acque possibile che si scioglia, se non s'intende pri
ti, ma ancora m'infiammi. – A dir a ragio mieramente, e quello che sia, ed in quante
mare. – Di quel che a me stesso m'invola: cioè spezie si divida l'amore. La qual cosa per lo
degli occhi, dai quali soli gli poteva venire essere non meno lunga e difficile, che bella e
ogni sua salute, come testimonia nella canzo dilettevole, indugieremo a dichiararla nel prin
ne seguente: cipio della terza ed ultima delle tre sorelle
Cerco 'l fin de' miei pianti che seguita dopo questa. Ed ora diremo sola
Che non altronde il cordoglioso chiama, mente che tutte le cose quantunque buone e
Vien dai begli occhi alfin dolci tremanti, giovevoli possono, secondo non pure il subbietto
dove si trovano, ma il modo ancora come sono
Ultima speme de cortesi amanti.
usate ed il tempo, diventare nocevoli e ree. E
E forse imitò il Lirico Latino, come suole spesse per dare uno esempio manifesto, e quello stesso
volte, il quale disse: che a questo proposito medesimo n'addusse il
Quae me surpuerat mihi (2)? Boccaccio, chi non sa, che il vino, preziosis
simo di tutti i liquori ed ottimo di sua natura,
E di vero così gli amanti come quelli, che sono non solamente fa effetti diversissimi (come ne
in contemplazione non sono più di loro stes racconta Aristotile ne' problemi), secondo la di
si; e descrive gli occhi con bellissima cir versità delle complessioni di quelli che lo beo
conlocuzione –Però: per questa cagione dun no, ma ancora usato, o come non si deve, o
que. – Sii certa (chè così si debbe scrivere quanto non è conveniente, o in quantità mag
e non sia, essendo la seconda persona del pre giore che non si ricerca, nuoce tanto, quanto
sente del soggiuntivo) di non esser sola: di egli preso debitamente a tempo e con misura
non avere a esser sola, non essendo ancor sa gioverebbe? E il medesimo di tutte l'altre cose
non solo possiamo dire, ma dobbiamo. Onde
(1) Son. CI, Parte I. Tibullo, leggiadrissimo poeta, volendo provare
(2) Hor, Lib. IV, Od. XIII, questa medesima sentenza tolse l'esempio da
SULLE CANZONI DEGLI OCCHI 77

quelli che prima fabbricarono le spade, e disse si poteva interpretare, almeno quanto si do
non meno veramente che con dottrina: vea onorare così facondo, così leggiadro, cosi
eccellente oratore, poeta e filosofo. Ma perchè
Quis fuit horrendos primus qui protulitenses, si possa conoscere da ciascuno con i fatti, es
Quam ferus, et vere ferreus ille.fi.it? sere verissimo quello che io ho detto colle pa
Tunc caedes hominum generi, tunc prelia nata,
Tunc brevior dirae mortis aperta via est. role, verrò alla sposizione particolare, pregando
An nihil ille miser meruit ? Nos ad mala nostra umilmente prima Dio ottimo e grandissimo, e
poscia voi tutti che ne porgiate, Egli quello
Vertimus, in saevas quod dedit ille feras.
aiuto e favore che può, e voi quella udienza
Ed il Poeta nostro medesimo, il quale non cede e gratitudine che solete.
a niuno altro di leggiadria, disse a questo stesso
proponimento non meno dottamente che con Gentil mia donna, i veggio
verità: Nel muover de vostrº occhi un dolce lume,
Che mi mostra la via ch'al ciel conduce :
Tutte le cose di che 'l mondo è adorno, E per lungo costume
Uscir buone di man del Mastro eterno, Dentro là dove sol con Amor seggio,
Ma me, che sì a dentro non discerno Quasi visibilmente il cor traluce.
Abbaglia il bel, che mi si mostra intorno: Quest'è la vista, ch'a ben far m'induce,
E s” al vero valor giammai ritorno E che mi scorge al glorioso fine:
L'occhio non può star fermo; Questa sola dal volgo m'allontana:
Così l'ha fatto infermo Nè giammai lingua umana
Pur la sua propria colpa, e non quel giorno Contar poria quel che le due divine
Ch'i volsi ver l'angelica beltade, Luci sentir mi fanno ;
Nel dolce tempo della prima etade (1). E quando 'l verno sparge le pruine ;
Ora se in alcuna cosa è vero questo che è E quando poi ringiovenisce l'anno,
verissimo in tutte, nell'amore, e più spesso che Quale era al tempo del mio primo affanno.
altrove e più manifesto si vede senza compa Continua il Poeta questa seconda canzone
razione quasi veruna, come (oltra le propie colla prima; onde senza fare altramente proe
sperienze di ciascuno che abbia gustate mai le mio, comincia, rivolgendo il parlare a Madonna
dolcissime amarezze di questo Dio) ne dimo Laura stessa, a raccontar pur le lodi de'bel
strano amplissimamente tutti i poeti di tutte lissimi occhi di lei; e lodandoli medesima
lingue, e non meno di niuno degli altri, anzi mente dagli effetti, dice in questa prima stanza
forse più di tutti, il nostro amoroso e gentilis (dopo aversi fatto Madonna Laura benevola
simo Messer Francesco Petrarca, sì in tutto il col chiamarla gentile e sua donna), che egli
suo vago e dolcissimo Canzoniere, e sì in tutte vede quando ella muove e gira gli occhi verso
queste tre leggiadrissime e senza fallo divinis lui uno splendore sì dolce, e un così fatto
sime canzoni degli occhi, e massimamente in lume che mediante quello, scorge la strada
questa seconda che noi oggi comincieremo a diritta, che ne guida al cielo, e per lungo uso
dichiarare. Le quali io per me non seppi mai conosce ne' suoi begli occhi i pensieri del cuo
leggere tante volte e rileggerle, che di leggerle re. Il che gli è cagione di darsi a bene ope
di nuovo e di rileggerle dell'altre volte non rare e rivolgersi tutto al cielo, allontanandosi
mi crescesse il desio. E credo certo che se tra dalla gente volgare. E in somma, dice che la
gli scrittori o Greci, o Latini si trovasse una divinità di quelle luci gli sono d'ogni tempo
composizione tale nella lingua loro, chente è così di verno come di state cagione di tanti
questa nella nostra, l'autore d'essa sarebbe beni, e tali pensieri, atti e parole creano in
non riputato mortale, ma tenuto divino, non lui, che lingua mortale nol potrebbe raccontar
come uomo ma quasi dio celebrato e tenuto mai. Dice dunque – Gentil mia donna: donna
caro. Ed ella a ogn' ora mille volte in mille propiamente significa nella nostra lingua quello
luoghi, da mille lingue, per mille modi, a mille che nella latina, onde è derivato, significa do
propositi, s'udirebbe risonare infino alle stelle, mina, cioè signora e padrona. E come i Latini
lodandola ed esaltandola tutti a prova, quanto chiamavano quelle di cui erano innamorati do
sapesse ciascuno e potesse il più senza veder minas, così Toscani le chiamano donne, ben
sene mai ne stanchi nè sazi, come di vero me chè alcuna volta donna si piglia per la mo
ritarebbe. Nè però dovemo dubitare noi, nobi glie, e molte volte diciamo donna quello che
lissimi Accademici, che se non questo almeno, i Latini dicono foemina, come là:
i secoli che verranno, e se non noi Fiorentini,
E se di lui forse altra donna spera (1):
almeno l'altre nazioni, gli renderanno quando
che sia i dovuti onori, e ne faranno tutti ge e più chiaramente ancora nel sonetto: Se il
neralmente quella stima e in quel pregio lo dolce sguardo di costei m'ancide (2) :
terranno che ne fanno oggi, e nel quale lo Femmina è cosa mobil per natura:
tengono i pochi. E allora si conoscerà che quanto Ond'io so ben ch'uno amoroso stato
erano picciole e debili le forze, tanto erano
grandi e gagliarde le voglie mie; e a me sarà In cor di donna picciol tempo dura.
pur troppo d'avere conosciuto, se non come
(1) Son. XVII, Parte I.
(1) Canz. V, Stanza V, Parte I. (2) Son. CXXXI, Parte I.
78 LEZIONI
avemo parlato altre volte, si riferisce così alla
E il Petrarca spesse volte chiama Madonna femmina come al maschio, così al corpo come
Laura ora donna semplicemente, come là : all'anima, così alle cose viventi come a quelle
Che i bei vostrº occhi, donna, mi legaro (1); che mancano di vita; ed in somma il propio
significato suo è nobile, onde si dice gentilezza
ora v'aggiugne mia, come in questo luogo, ed di sangue e ringentilire e gentilotti, come disse
altrove:
il Boccaccio. – Io veggio. Questi verbi: veggio,
Benedette le voci tante ch'io seggio, deggio, chieggio, e altri somiglianti non
Chiamando il nome di mia donna ho sparse (2)! sono propiamente toscani, ma provenzali;
onde i Toscani cavarono senza alcun dubbio la
Alcuna volta v'aggiugne nostra: maggior parte del loro vocaboli: perciocchè noi
Canzon, s'al dolce loco, diciamo ordinariamente, veggo, seggo, debbo,
La donna nostra vedi (3). chieggo ; e molte volte, nello scrivere massi
Alcuna volta bella:
mamente, vedo, sedo, devo, chiedo. E questi
tali verbi non si trovano se non nei tempi pre
Dormito hai, bella donna, un breve sonno. senti e non in tutte le persone; come veggio,
E come si dice donna, così ancora si dice don
veggiamo, veggiono, e nel presente del soggiun
tivo veggia nella prima e nella terza persona:
no, cioè signore e padrone, come nella canzone: veggiamo, veggiate, veggiano. E così degli altri;
Quell'antico mio dolce empio signore (4): nè è però che ancora i buoni poeti non dicano
Per inganno e per forza è fatto donno ancora veggo, come noi favelliamo; onde il Pe
Sovra i miei spirti. trarca:

E credo io che il diminutivo di questi nomi Cieco non già, ma faretrato il veggo (1).
siano donzella e donzello, mutata la n in z, per Nel mover de vostri occhi: quando voi mo
fuggire la bassezza e l'asprezza del suono. E vete e girate gli occhi, perciocchè il movi
quello che egli disse qui mia donna, disse al mento pare che dia loro un non so che più
trove in più luoghi madonna, come là: di grazia e di leggiadria. – Un dolce lume:
Ove 'l bel viso di Madonna luce (5). disse lume propiamente, e non luce, perchè
lume non è altro che l'immagine ed il simu
ed altrove:
lacro, cioè la specie della luce. Ma se le spe
Nel mezzo del mio cor Madonna siede (6). cie sono spirituali ed incorporee, come dicemmo
nella lezione pubblica passata, e le cose incor
E in altri luoghi infiniti, ove notaremo che poree spiritali non si possono vedere; come
ordinariamente non dovemo dire, madonna mia, dice dunque il Petrarca di vederlo? Si rispon
ancora che Dante l'usasse una volta: percioc de, che il lume si può considerare in due mo
chè questa particella ma (tolta da Provenza di: prima come immagine e somiglianza della
Ii, di che si servono ancora oggi i Franzesi) luce, ed a questo modo non si può vedere,
non significa altro che mia; onde Madonna perchè le specie, ovvero forme delle cose sono
non vuol dire altro che donna mia, come mes invisibili. Secondariamente si può considerare
sere non vuol dire altro che mio sire, ovvero non come specie della luce, ma come una cosa
signor mio. Come quello che si trova nel Boc per sè medesima, la quale produca la forma e
caccio, e che usano ancora le donne parlando somiglianza sua, e questo è il lume seconda
fiorentinamente: Naffe io non so, ed in altri rio. E che il lume non sia corpo è manife
simili modi, credo io che sia detto in luogo stissimo, perchè altramente, oltre molte ragio
di Maſe, cioè per mia fe, lasciato indietro la mi, seguitarebbe, che quando traesse un gran
preposizione per come facevano anche le donne vento, si farebbe bujo; senza che l'aria illumi
romane quando giuravano per lo Dio Castore nata sarebbe più grossa e più densa di quella
e gli uomini per lo Dio Polluce, dicendo so che non fosse illuminata, il che è tutto il con
lamente Ecastor, Edepol. E come i Latini aggiu trario – Dolce: non disse dolce a caso come
gnevano alcuna volta la g a lor nomi dicendo credono alcuni, e per riempiere il verso. Anzi
gnatus e gnaeus, in luogo di natus e navus, se in niuna cosa debbono porre cura ed usare
così i Toscani, anzi i Fiorentini, essendo questa diligenza i Poeti, in questi tali epiteti o agget
lor voce propia, chiamano gnaffè le berghinel tivi la devono porre ed usare grandissima, co
le, cioè donne vili ed infami; perchè queste me fa sopra tutti gli altri il Petrarca, e dopo
sono quelle che hanno in bocca naffe, ed altri lui quegli che a noi pare, e così usiamo di
simili giuramenti, che le gentili donne non usa chiamarlo, il Petrarca secondo (2). Diciamo
rebbero, come le romane patrizie non usavano dunque che gli spiriti si generano, come avemo
Ecastor, nè per ventura altri giuramenti. – detto più volte, dal calore naturale della più
Gentil: questa parola gentile, del cui significato
(1) Son. C, Parte I.
(1) Son. III, Parte I. (2) Intende il Cardinal Bembo; ma più cose, come abbiamo
(2) Son. XXXIX, Parte I. già accennato, ci sarebbero da apporre a questo giudizio del
(3) Canz. III, Stanza VIII, Parte I. Varchi. Non so, se m'inganni: ma ove fossi chiamato a dire,
(4) Canz. VI1, Stanza V, Parte II. quale fra cinquecentisti io creda che più s'accosti alla maniera
(5) Son. XIV, Parte I. del Petrarca, e meglio la ritragga in ciò che ha di più lodevole,
(6) Ball., Parte II. nominarei Giovanni Della Casa. (M.)
SULLE CANZONI DEGLI OCCHI 79
Ed il reverendissimo Bembo disse nelle sue di
pura parte del sangue, onde tanto sono più vine stanze:
puri, più sottili, più lucidi e più caldi gli spi
riti, quanto è più digesto e migliore il sangue
di che si generano. Ora nella giovinezza il san » . . . Nè v'hanno in mar tante acque
gue essendo tenue e rado viene ad essere an » Quant'Amor dai bei cigli alta e diversa
cora e puro e lucido, e perchè la vita consi » Gioia, pace, dolcezza e grazia versa.
ste tutta nel caldo naturale e nell'umido, però » Cosa dinanzi a voi non può fermarsi
il sangue viene ad essere dolce essendo caldo » Che d'ogni indignità non sia lontana,
ed umido, perchè la dolcezza nasce quando si » Che al primo incontro vostro suol destarsi
» Virtù che fa gentile alma villana;
mescolano il caldo ed umido insieme. E que
sti spiriti si diffondono per tutte le membra, » E se potesse in voi fiso mirarsi,
» Sormonteriasi oltre l'usanza umana.
e massimamente per gli occhi, per lo essere
essi ed altri e trasparenti, e gli spiriti leg » Tutto quel che gli amanti arde e trastulla,
» Ai raggi sol d'un vostro sguardo è nulla e.
gieri e lucidi. E questi sono i raggi tanto grati
agli amanti e tanto celebrati da poeti: que Ma chi volesse allegare pur la millesima parte
sti sono gli strali che avventa Cupido. E quinci di quello che hanno detto i poeti toscani de
viene che tutti gli amori cominciano dal ve gli occhi delle loro donne, non ne verrebbe
dere. Nè è lontano dalla verità, che come il a capo così tosto; e quelle sole che dice il
lume del sole e del cielo con virtù a noi oc Petrarca in queste tre canzoni:
culta genera tutte le cose, così il lume dei rag
gi che escono dagli occhi delle cose amate, ge Son opra da stancare Atene, Arpino,
nerino negli amanti infinita dolcezza e virtù,
Mantova, Smirna, e l'una e l'altra lira (1).
e massimamente traendo seco alcun vapore, E per lungo costume: e per uso antico, nato
nel quale sia racchiusa alcuna parte di sangue in me da lunga osservazione – Il cor vostro
come si può vedere negli specchi dove si siano – Traluce: si vede ed apparisce – Dentro là:
specchiate donne o vecchie, o che abbiano il cioè là dentro per trasposizione: ed insomma
tempo loro, e nei mali ancora che s'appiccano. vuol dire negli occhi di Madonna Laura, cir
Ed al Petrarca medesimo intervenne questo caso, coscrivendogli leggiadrissimamente col dire. –
come racconta egli stesso in tutto quel bellis Dove: cioè ne quali occhi. –Seggio io solo con
simo ed artifizioso sonetto: Amore: e che Amore sedesse negli occhi di
Qual ventura mi fu quando da l'uno Madonna Laura si vide nella canzone passata:
De' duoi più begl'occhi che mai furo, Occhi leggiadri, dove Amor fa nido; ed al
trove:
Mirandol di dolor turbato e scuro,
Mosse virtù che fe 'l mio infermo e bruno ! Io temo sì de' begli occhi l'assalto,
Send'io tornato a solver il digiuno Ne'quali Amore e la mia morte alberga (2).
Di veder lei, che sola al mondo curo ; E che il Petrarca vi sedesse ed abitasse ancor
Fummi'l Ciel ed Amor men che mai duro,
egli lo dimostra nel sonetto: – Almo Sol, quella
Se tutte altre mie grazie insieme aduno: fronde ch'io sola amo (3), dove dice nella fine:
Chè dal destro occhio, anzi dal destro sole
Della mia Donna, al mio destrocchio venne Crescendo, mentr'io parlo a gli occhi tolle
Il mal che mi diletta e non mi dole. La dolce vista del beato loco
E pur, come intelletto avesse e penne, Ove 'l mio cor con la sua donna alberga.
Passò, quasi una stella che 'n ciel vole ; e sì più chiaramente quando disse nel sonet
E Natura e Pietate il corso tenne (1). to: O dolci sguardi, o parolette accorte (4):
Che: il qual dolce lume. – Mi mostra la E se talor da begli occhi soavi
via: mi scorge il sentiero, stando in sulla tra Ove mia vita, e 'l mio pensier alberga.
slazione del lume. – Che: la qual via. – Con Quasi visibilmente. Vedeva il Poeta il core,
duce al cielo: e questo non è altro che la via
delle virtù; o per occulta virtù che avessero cioè i pensieri di Madonna Laura e quello che
quegli occhi di così fare, o per la ragione che egli voleva che ella facesse tralucere negli oc
egli soggiugne come vedremo. E quante cose vessechi suoi, quasi visibilmente, cioè come se l'a-
s'imparassero in mirar fisso gli occhi di Ma veduto in verità, ed è quasi come quello
donna Laura dichiara egli stesso in tutto il nella passata canzone: – L'amoroso pensiero,
sonetto che comincia: Qual donna attende a – Ch'alberga dentro in voi mi si discopre. Nè
gloriosa fama (2). Ed altrove disse: poteva usare più propio e più bel verbo; nè
credo io che i Latini n'abbiano un così fatto;
Da lei ti vien l'amoroso pensiero, ed il significato suo non si può dichiarare me
Che, mentre 'l segui, al sommo Ben t'invia glio che faccia egli stesso in più luoghi come là:
Poco prezzando quel ch'ogn'uom disia:
Da lei vien l'animosa leggiadria, Come raggio di sol traluce in vetro (5).
Ch'al Ciel ti scorge per destro sentiero;
Si ch'io vo già della speranza altero (3). (1) Son. CLXXXIX, Parte I.
(2) Son. XXV, Parte I.
(1) Son. CLXXVII, Parte I. (3) Son. CXXXVI, Parte I.
(2) Son. CCIII, Parte I. (4) Son. CXCV, Parte I.
(3) Son. X, Parte I. (5) Son. LXIV, Parte I.
8o LEZIONI
Ed altrove: Ne lingua umana: nè voce mortale. – Poria
Dell'alma che traluce come un vetro (1). contar giammai: ridire in tempo alcuno. – Quel
che mi fanno sentire: gli effetti che producono
E più chiaramente: in me. – Le due luci divine: volendo inferire

Già traluceva a begli occhi il mio core (2). per queste parole quello, che dice apertamente
nella canzone che segue:
Questa è la vista ch'a ben far m'induce.
Vedeva il Petrarca negli occhi di Madonna Io non poria giammai
Laura, i quali sono, come dice Cicerone, quasi Immaginar, non che narrar gli effetti,
le finestre dell'animo, per li quali tutti i mo Che nel mio cor gli occhi soavi fanno.
vimenti e pensieri dell'anima appariscono di E quando 'l verno sparge le pruine – E quando
fuori più che per altra parte; vedeva, dico, e poi ringiovanisce l'anno: descrive poeticamente
conosceva il Petrarca quanta fosse la purità il verno e la primavera; e poeticamente piglia
e la grandezza dell'animo suo, e quanto biso queste due stagioni per tutte e quattro; e pur
gnava essere buono e virtuoso a piacerle. E poeticamente dice, che l'anno ringiovanisce
però s'ingegnava d'uscir per lei dalla volgare quasi volesse dire come Catullo:
schiera; chè mai per alcun patto a lui piacer
non potè cosa vile. – E che mi scorge al glo Soles occidere, et redire possunt,
Nobis cum semel occidit brevis lux:
rioso fine: al fine della gloria mediante i suoi Nox est perpetua una dormienda.
componimenti, come dice in molti luoghi, co
me là: Dante disse ancora nel ventesimo quarto canto
dell'Inferno:
Ed alzava il mio stile
Sovra di sè, dove or non poria gire (3). » In quella parte del giovinetto anno ».
ed altrove:
benchè non intenda in quel luogo la prima
Quella che al mondo sì famosa e chiara vera, ma il verno, come dimostra il verso se
Fe la sua gran virtute e il furor mio (4): guente:
Ed altrove:
» Che'l sole i crin sotto l'aquario tempo»:
Oh leggiadre arti e loro effetti degni! ed ancora il seguente:
L'un colla lingua oprar, l' altra col ciglio:
Io gloria in lei ed ella in me virtute (5). » E già le notti al mezzo di sen vanno ».
O forse al glorioso fine, cioè a Dio vero ed ul Ma il Petrarca ebbe risguardo o al nascimento
timo fine di tutte le cose, onde disse: del mondo, che fu secondo gli astrologi, ed i
Quel Sol che mi mostrava il cammin destro teologi, essendo il sole in Ariete, cioè nel prin
Di gire al Ciel con gloriosi passi (6). cipio della primavera, o alle piante ed a tutte
le altre cose che di primavera si rinnovellano
E in tutta quella stanza della canzone del Pianto e quasi ringiovaniscano; e Dante ebbe risguar
amOrOSO:
do al principio dell'anno, che, secondo i Ro
mani, cominciava al Gennaio. – Pruine: chia
Ancora (e questo è quel che tutto avanza)
Da volar sovra 'l Ciel gli avea date ali (7). ma pruine usando la voce latina come al
trove:
Questa sola dal volgo m'allontana: onde Amore
rimproverandogli nella medesima canzone di Non si vede altro che pruine e ghiaccio (1):
ceva:
quello che toscanamente diciamo brine. E
Dante:
Ch' or saria forse un roco
Mormorador di corti, un uom del vulgo » Quando la brina in sulla terra assempra
I'l'esalto, e divulgo » L'immagine di sua sorella bianca,
Per quel, che egl'imparò nella mia scola, » Ma poco dura alla sua penna tempra» (2).
E da colei che fu nel mondo sola (8).
E non è altro la brina, che un vapore, che si
Ed egli medesimo disse: leva dall'acqua, o più tosto dalla terra bagna
Gli occhi, di ch'io parlai sì caldamente, ta, picciolo, sottile e rado, benchè maggiore,
E le braccia e le mani, e i piedi e 'l viso più grosso, e più denso di quello onde si ge
Che m'avean sì da me stesso diviso nera la rugiada. E si congela dalla freddezza
E fatto singolar da l'altra gente (9). dell'aria in poco d'ora e si genera d'ogni tem
po fuori che di state e di di, e non si genera
molto alto da terra, non passando i tetti delle
(1) Son. XCVII, Parte I. più alte case. E in questo è differente come
(2) Son. XLIX, Parte II. in più altre cose dalla rugiada; ma non si con
(3) Canz. II, Stanza III, Parte II. viene in questo luogo dichiarare le meteore.
(4) Son. XXVII, Parte II. Nè io arei detto ancora questo poco se non
(5) Son. XXI, Parte I.
(6) Son. XXXVIII, Parte II. che alcuni, sopra quel luogo di Dante allegato
(7) Canz. VII, Stanza X, Parte II.
(3) Canz. VII, Stanza VIII. (1) Sest. III, Parte I.
(9) Sau. XXIV, Parte II. (2) laf, Canto XXIV.
SULLE CANZONI DEGLI OCCHI 8i
per testè da noi, dicono (forse per iscorrezione solo di quelli, che tutti gli altri beni, che des
del testo) che la rugiada e la brina sono il sero mai o Amore, o Fortuna a qualunque fos
medesimo, e quello che è più, dicono ancora, sero più favorevoli. Il quale concetto grandis
che l'una e l'altra si congela nella mezza re simo per se stesso è detto poi non meno arti
gione dell'aria ed allegano il testimonie d'A- fiziosamente che con leggiadria. Onde dovemo
ristotile. E però bisogna considerar bene quel sapere che gli uomini quasi tutti quanti pon
lo che si legge, e non credere ogni cosa ad gono il sommo bene e l'ultima felicità loro,
egnuno. Ed a fuggire cotali errori, ed infiniti o nei piaceri o nelle ricchezze; il perchè cer
altri inconvenienti e disordini non c'è la mi cano giorno e notte di conseguire o l'una o
glior via, che leggere e studiare gli autori stessi l'altra di queste due cose, e bene spesso amen
me luoghi propi, e non contentarsi di bere ai due, posponendo tutte l'altre cure e pensieri,
rigagnoli, come si dice, ma dal proprie fonte. il che si vede tutto il giorno. E perchè i pia
Quale era l tempo del mio primo affanno. ceri corporali come quelli che si provane in
Questo verso pare, e così è veramente, fuori amando felicemente, sono dai più più stimati
della proposta materia, ma è cosa usatissima degli altri (conciessiachè le ricchezze non s'a-
da tutti i Poeti aggiugnere alcuna cosa, che mano per se stesse, come i piaceri, ma più tosto
arrechi o grazia al componimento o piacere come strumenti per procurarseli), però disse il
ed utile a lettori. E che 'l primo affanno del Pe Petrarca, che niuno fu mai tanto felice in amo
trarca fosse di questo tempo, cioè che egli si re, o ebbe tanto prospera la fortuna dispensa
innamorasse di primavera, lo dimostra egli trice dei beni mondani, che egli non volesse
stesso e ne fa fede in mille luoghi come nel più tosto, che Madonna Laura lo rimirasse una
sonetto: Era 'l giorno, ch'al Sol si scolora volta sola, che tutti i piaceri e tutte le ric
ro (1): e nel principio del primo Trionfo, e là chezze d'ambe loro. Onde disse. – Nè mai:
dove dice: cioè per alcun tempe. – Amore: come Dio quasi
Che era del tempo e di mia etate aprile (2). dei piaceri. –O la Fortuna: come Dea delle ric
chezze, avendo i beni del Mondo tra le bran
E più chiaramente, che altrove, nel sonetto: che, come disse Dante. E disse votubile dandole
Voglia mi sprona: Amor mi guida e scorge (3): il suo proprio epiteto, come fece Ovidio, quando
dove raccontando l'anno, il mese, il giorno e disse: -

l'ora, dice:
Passibus ambiguis Fortuna volubilis errat:
Mille trecento ventisette appunto
Su l'ora prima, il di sesto d'Aprile perciocchè come quell'antico dice: – Nec quos
Nel laberinto entrai, nè veggio ond'esca. clarificat, perpetuo fovet, nec quos deseruit, per
petuo premit; anzi instabilissima, come dimostra
la palla sopra la quale si dipinge, ora dà ed
ora toglie senza legge alcuna o giudizio; onde
disse Orazio:
LEZIONE SESTA
Fortuna immeritos auget honoribus,
Fortuna innocuos cladibus afficit:
Nè mai stato gioioso Justos illa viros pauperie gravat,
Amore o la volubile Fortuna
Indignos eadem divitiis beat.
Dieder a chi più fur nel mondo amici,
Ch'io non cangiassi ad una E benchè rade volte s'usino nel verso le pa
IRivolta d'occhi, ond'ogni mio riposo role di quattro sillabe, non apocopate per dir
Vien, com'ogni arbor vien da sue radici. così, onde il Petrarca medesimo disse:
Vaghe faville, angeliche, beatrici -
Detto questo, alla sua volubil rota
De la mia vita, ove 'l piacer s'accende, Si volse, in ch'ella fila il nostro stame (1)
Che dolcemente mi consuma, e strugge;
Come sparisce e fugge ed altrove ancora:
Ogni altro lume, dove 'l vostro splende , O tempo, o ciel volubil, che fuggendo
Così dello mio core
Inganni i ciechi e miseri mortali (2):
Quando tanta dolcezza in lui discende,
; Ogni altra cosa, ogni pensier va fore,
E sol ivi con voi rimansi Amore.
tuttavia non si potrebbe dire quanto, secondo
il giudizio mio, stia meglio in questo lungo ro
lubile tutto intero, che volubil, parendomi, che
Usa questo eccellentissimo Poeta nostro non la parola stessa dimostri la volubilità ed incon
minore arte, che diligenza in continuare l'una stanza della Fortuna, come disse ancora Pacu
stanza dall'altra, la qual cosa rende non meno vio appresso Cicerone: Sarique ad instar glo
d'agevolezza, che d'ornamento; onde avendo bosi quia praedicant esse volubilem, quod sa un
detto di sopra di quanto bene gli era stato impuleri sors, eo cadere Fortunam autumant.
cagione l'amore di Madonna Laura, dice in Ma della fortuna favelleremo altrove lungamen
questa, seguitando pure a lodare i suoi begli te. – Diedero: concedettero usando la zeuma,
occhi dagli effetti, che stimava più uno sguardo e mostrando col verbo stesso più tosto l'ar
(1) Son. III, Parte I.
(2) Canz. IV, Stanza 1, Parte II. (1) Canz. IV, Stanza VIII, Parte II.
(3) Son. CLVII, Parte I. (2) Son. LXIV, Parte II.
vAn Cri,
82 LEZIONI -

bitrio loro, che il giudizio. – Stato gioioso: amo lendo il Petrarca significare il cuor suo disse:
re coi piaceri, e la fortuna colle ricchezze, an Quel core ond hanno i begli occhi la chiave.
cora che alcuni intendono dell'amor solo, di – Come ogn'arbor vien da sue radici: mostra
cendo amore, o la fortuna, cioè amor fortunato, con questo esempio, come in mille altri luoghi,
come fanno alcuna volta i poeti latini e i to che tutto il ben suo procedeva solamente dalla
scani medesimamente; ed il Petrarca stesso luce degli occhi di Madonna Laura. Voglio
disse: bene che notiamo che questo esempio è più
Onde vanno a gran rischio uomini ed arme (1), manifesto che vero, cioè mostra meglio quello
che voleva significare il Petrarca che la pnra
cioè nomini armati. Ma a me piace più la spo verità della cosa. Conciossiachè favellando ari
sizione prima, e massimamente avendo usato non stotelicamente l'uomo non viene dalla bocca
la congiunzione copulativa e ma la disgiuntiva o dal capo, sebben quindi si piglia il cibo, ma
o. – A chi: a quelli, ai quali. – Fur: furono, dal cuore; il quale è quello che mediante il
ovverfuro. – Più amici: più benigni e più favo calor naturale genera gli spiriti della più pura
revoli, cioè amore e la fortuna, perchè non mi parte del sangue, e li dispensa e distribuisce
piace che amici si riferisca a quel chi. – Ch'io: mediante le vene e l'arterie, per tutto il corpo.
il quale stato gioioso pigliandolo relativamente, Onde come tutte le virtù e la vita stessa negli
perciocchè potremo ancora dire, che quel che uomini dipendon dal cuore, il quale è in un
avesse in questo luogo quella forza che ha in lati certo modo nel mezzo, così nelle piante e la
no quino veramente quo minus. – Nolcangiassi: vita stessa e tutte le virtù loro dipendono non
non iscambiassi quello stato. – Ad una rivolta dal cuore propiamente, ma da una particella
d'occhi: eleggendo piuttosto un solo sguardo che somigliante e proporzionata al cuore, la quale
le altre gioie tutte quante. Dove avvertiremo, è nel mezzo del tronco ovvero pedale tra le
che egli disse mai stato gioioso ; amore; o For radici ed i marmi. E di quivi manda per tutto
tuna ; a chi fur nel mondo amici ; crescendo mediante le vene i suoi spiriti generati non di
sempre ed aggiugnendo quante cose poteva, per sangue, ma della più pura parte del nutrimento.
farle più e maggiori, poi soggiunse, una rivolta E quinci è, che ne rigori del verno si seccano
agguagliando, anzi preponendo una cosa sola a di molti frutti; perciocchè il caldo per temenza
tante. Del che non si meraviglierà nessuno, il del freddo suo mimico si ritira e fugge dentro
quale sappia, che egli avrebbe tolto a tragger unendosi insieme, onde mancando di cibo le
piuttosto guai per Madonna Laura, che gioire parti streme ed esteriori vengono a seccarsi di
di qualunque altra. E certo di lui si può dir mano in mano. Nè sia chi di questo si mera
veramente: vigli, perciocchè Aristotile che non fu poeta,
dei sette esempi che egli allega ne sono falsi
Ecco chi pianse sempre, e nel suo pianto almeno cinque. Onde si dice comunemente tra
Sopra 'l riso d'ogni altra fu beato (2). i filosofi, che degli esempi non si ricerca la ve
E perchè chiunque non ha provato, non solo rità ma la manifestazione: cioè che gli esempi
non crede queste cose ma le stima fole di ro si danno per manifestare quello che si dice, e
manzi, e sogni ed ombre; il che avvenne an non per insegnare con essi.
cora al Petrarca perchè egli disse nella can
zone grande: Vaghe faville, angeliche beatrici
Della mia vita, ove 'l piacer s'accende
Lagrima ancor non mi bagnava il petto Che dolcemente mi consuma e strugge.
Nè rompea il sonno e quel che in me non era,
Mi pareva un miracolo in altrui (3); Per dichiarazione non tanto di questo luogo,
quanto di moltissimi altri così del Petrarca
sappia, che Aristotile, disse nel libro delle parti come d'altri poeti amorosi, dovemo sapere,
degli animali questa sentenza medesima, come che gli spiriti, come s'è detto più volte, na
avemo detto altrove. – Ond ogni mio riposo: scono in tutti gli animali sanguigni della più
da quali occhi ogni mia quiete e trastullo. – pura parte del sangue; onde tali sono gli spi
Vien: procede o dipende, e tutto questo disse riti quale è il sangue onde eglino nascono, e
il Poeta per dichiarare di quali occhi inten tale è il sangue quale l'umore, del quale egli
deva, circonscrivendo quelli di Madonna Laura, si genera. Il perchè senza dubbio nessuno quelli
come fece nella fine della canzone precedente:
che hanno migliore complessione, hanno ancora
– A dir di quel ch'a me stesso m'invola: forse miglior sangue e conseguentemente migliori spi
ad imitazione di Dante, che disse nella tornata
riti; e quelli sono migliori spiriti i quali sono
della canzone: –Così nel mio parlar voglio esser più sottili, più chiari, più caldi e più lucidi.
aspro:
E perchè la bellezza di fuori mostra la bontà
» Canzon mia, vanne ritto a quella donna, di dentro, quinci è che le donne belle, ed il
» Che m'ha ferito il core, e che m'invola medesimo s'intende degli uomini, e massima
» Quello ond'io ho più gola ». mente nella giovinezza, quando il sangue è
tenue e rado, e conseguentemente puro e lu
cioè la vista degli occhi suoi. E di sopra vo cido, hanno gli spiriti chiari e sottili, i quali
mediante il movimento del cuore si diffondono
(1) Son. CXXIV, Parte I. per tutte le parti del corpo e massimamente
(2) Trionfo della Divinità. per gli occhi, per lo essere quelli trasparenti
(3) Canz. I, Stanza II, Parte I. e più lucidi di tutte l'altre, essendo essi non
SULLE CANZONI DEGLI OCCHI 83

altramente che uno specchio animato e vivo. º


Per gli occhi fiere un spirito sottile,
E perchè in loro apparisce più che in altra » Che fa in la mente spirito destare,
parte l'amore, l'odio, l'ira e tutte l'altre pas » Dal qual si muove spirito d'amare,
sioni dell'animo, di qui viene che tutti gli » Ch'ogni altro spiritel si fa gentile.
amanti desiderano più il vedere gli occhi delle º2
Sentir non può di lui spirito vile;
donne amate che alcuna dell'altre parti. Ed » Di cotanta vertà spirito appare:
è più che vero che tutti gli amori hanno l'o- » Questo è lo spiritel, che fa tremare
rigine e cominciamento loro dal vedere, e mas » Lo spiritel, che fa la donna umile.
simamente quando per altissima ventura si ri ºº
E poi da questo spirito si move
scontrano gli occhi insieme cioè gli spiriti, che » Uno altro dolce spirito soave,
mediante gli occhi vengono dal cuore: i quali » Che segue un spiritello di mercede;
spiriti per lo essere sottili, caldi e lucidi si º
Lo quale spiritel spiriti piove
chiamano molte volte dai poeti raggi, operando » C'ha di ciascuno spirito la chiave
quasi nel medesimo modo che quelli del sole, » Per forza d'uno spirito che 'l vede.
onde disse il Petrarca:
E questi spiriti, ovvero spiritelli, che così li
E'l bel guardo sereno, chiama ancora Dante, sono quelli che i poeti
Ove i raggi d'Amor sì caldi sono (1). chiamano per traslazione molte volte strali;
come il Petrarca :
ed altrove:

In me movendo de'begli occhi i rai (2). Io avrò sempre in odio la fenestra,


Ond'Amor m'avventò già mille strali (1).
ed altrove in mille luoghi e per la medesima
cagione si chiamano ora lume; come là: e più chiaramente la :
Nè mortal vista mai luce divina
Dei be' vostrº occhi il dolce lume adombra (3).
Vinse, come la mia, quel raggio altero
ed ora splendore, come là: Lel bel dolce soave bianco e nero

E'l Sol vagheggio sì, ch'egli ha già spento In che suoi strali Amor dora ed affina (2).
Col suo splendor la mia virtù visiva (4). E,molte volte dardi, come là:
ed altrove:
Ed oimè 'l dolce riso ond uscìo 'l dardo (3).
E da begli occhi mosse il freddo ghiaccio
Che mi passò nel core Nè meno spesso si chiamano per altra e più
Con la virtù d'un subito splendore (5). crudele traslazione ora quadrella, e quando
saette, come si vede apertamente nella doloro
chiamansi ancora faville come in questo luogo; sissima canzone: Amor, se vuoi, ch'io torni al
ed altrove:
giogo antico, quando favellando il Poeta ad
Questi son que begli occhi che mi stanno Amore gli dice:
Sempre nel cor con le faville accese (6).
L'arme tue furon gli occhi, onde l'accese
e più chiaramente là: Saette uscivan d'invisibil foco (4).
Lasso i quante fiate Amor m'assale, Ed altrove ancora chiamando cotali spiriti messi,
Che fra la notte e 'l dì son più di mille, disse:
Torno dove arder vidi le faville Indi i messi d'Amore armati usciro
Che 'l fuoco del mio corfanno immortale (7).
Di saette e di foco (5).
Chiamansi ancora spiriti d'Amore, come disse
gentilissimamente il dottissimo messer Guido E quinci ancora viene che gli occhi si chia
Cavalcanti in una sua leggiadrissima ballata in mano per varie traslazioni ora faci, ora lumi,
questo modo: ora stelle ed ora soli, onde si dicono rilucere,
risplendere, fiammeggiare, ovvero scintillare, ed
» Ella mi fiere sì, quand'io la guardo, abbarbagliare e mille altri verbi cotali. Ma per
» Ch'io sento lo sospir tremar nel core. non procedere in infinito verremo emai alla
2, Esce dagli occhi suoi, là d'onde io ardo, costruzione de versi proposti, dove egli dice
» Un gentiletto spirito d'amore; non meno veramente come filosofo, che leg
» Lo quale è pieno di tanto valore, giadramente come poeta. – O.ſeville vaghe:
» Che, quando giunge, l'anima va via, cioè o spiriti da fare invaghire ciascuno -
» Come colei, che soffrir nol poria. Beatrici della mia vita: che fate la mia vita
Ed alcuna volta spirito semplicemente, come beata, come là:
il medesimo messer Guido in quel suo sonetto Spirto beato quale
spiritosissimo: sei, quand'altrui fai tale (6)?
(1) Canz. III, Stanza VI, Parte I.
(2) Son. VIII, Parte I. (1) Son. LVII, Parte I.
(3) Ball. I, Parte I. (2) Son. C, Parte I.
(4) Son. CLVIII, Parte I. (3) Son. I, Parte II.
(5) Ball. IV, Parte I. (4) Can.. ii, Stanza VI, Parte II.
(6) Son. XLVII, Parte I. (5) Canz. IV, Stanza II, Parte I.
(7) Son. LXXIII, Parte I. (6) Canz. X, Stanza VI, Parte I.
84 LEZIONI

ove: nelle quali faville e spiritelli. – S'ac ma Laura sono più belli di tutti gli altri oc
cende il piacere: avendo detto faville merita chi, onde il loro splendore offusca e fa spa
mente disse s'accende, e disse piacere, per rire tutti gli altri splendori; così la dolcezza,
chè non può chi non ha provato immaginare, che sentiva il Petrarca nel rimirarli era mag
quale sia la gioia, quanta la dolcezza che ap giore di tutte l' altre dolcezze; onde faceva
portano al cuore degli amanti gli spiriti, che fuggire dal cuore di lui tutti gli altri piaceri.
escono degli occhi delle amate; e perciò sog Dice dunque. – Come: non altramente che –
giunse poco di sotto: Ogni altro lume: qualunque altro splendore –
Sparisce e fugge: perciocchè i lumi maggiori
Quando tanta dolcezza in lui discendes offuscano i minori; e per questa cagione non
si vedono le stelle di giorno, nè i piccioli lumi
con quello che seguita. E messer Guido, al appresso i grandi. Disse: sparisce e figge: do
legato di sopra da noi, grandissimo maestro vendo più tosto dire: fugge e sparisce, per
d'Amore, benchè maggior filosofo che poeta,
cominciò una sua ballata: quella figura, che si chiama isteron proteron:
la quale è quando quello, che si doveva dir
» Veggio negli occhi della donna mia prima, si dice poi, come Virgilio nel secondo:
» Un lume pien di spiriti d'Amore,
s. Che portano un piacer nuovo nel core; Eripui, fateor, leto me ac vincula rupi.
» Sì che vi desta d'allegrezza vita ». Dove: ovunque. – Il vostro: lume. – Splen
de: riluee, come egli ha detto in mille luoghi.-
Che dolcemente mi consuma e strugge. Essendo
Così: in quel modo appunto –Ogni altra cosa:
quel piacere nato di fuoco, ragionevolmente lo qualunque sia, e benchè cosa sia parola gene
consumava e struggeva, ma venendo da sì bella
cosa e si desiderata faceva ciò dolcemente; onde rale e significhi checchessia, soggiunse nondime
tra le molte diffinizioni date. Nè d'Amore per no il Poeta per maggiore spressione, e per mo
strare che non vi restava cosa niuna di niuna
diversi effetti, si può dire che egli sia una ama maniera se non Madonna Laura ed Amore:-
rezza dolce o una dolcezza amara. Nè si me
ravigli alcuno, che gli amanti desiderino tan Ogni pensier va fore – Quando tanta dolcezza:
to, nè si sazino mai di vedere le cose amate, quanta è quella, di che io parlo – Discende in
perchè, come dalla luce del Sole, mediante i lui: e piove nel cuore mediante le faville che
uscivano degli occhi di lei, come disse altrove:
suoi raggi, cade virtù che mantiene il mon
do e non pure lo rallegra; così dagli occhi Vive faville uscian de'duo bei lumi,
delle cose amate, mediante cotali raggi, piove Ver me sì dolcemente folgorando (1).
virtù, che non pur rallegra, ma tiene in vita
gli amanti. Il perchè diceva il Petrarca, che E quello che seguita. – E solo amore: cioè il
disse tutti i più belli e migliori concetti amo pensiero amoroso. – Rimansi: si rimane e non
rosi :
esce, o va fuori.-Ivi: quivi, cioè nel cuore. –
Con voi: insieme con esso voi. E qui è da sa
Io sentia dentrº al cor già venir meno pere, che gli amanti, mediante cotali spiriti e
Gli spirti che da noi ricevon vita (1). la forma della cosa amata, ovvero spezie rice
e quello che seguita. Ma perchè in questa ma vuta dentro, si formano nella fantasia, o voglia
teria non mancarebbe, che dir mai, ci serbe mo dire nella memoria l'immagine della cosa
remo a trattarne più lungamente nei problemi amata, nella quale riguardano sempre. E però
d'Amore, e forse nella sposizione di quella disse Virgilio nel quarto favellando di Dido:
vaghissima e dottissima canzonetta del reve
rendissimo e cortesissimo cardinal Bembo, che Sola domo moeret vacua, stratisque relictis
comincia: Incubat, illumabsens, absentem auditgue videtque.
E per questa medesima cagione diceva il Pe
» Preso al primo apparir del vostro raggio trarca: -

» Lo cor, che 'n fin quel di nulla mi tolse


» Da me partendo, a seguir voi si volse ». E vo cantando, oh pensier miei non saggi!
Lei, che 'l Ciel non porla lontana farme :
Nella quale si tratta divinamente tutto questo Ch'iº l'ho negli occhi, e veder seco parme
affetto ed effetto amoroso, del quale favellia Donne e donzelle, e sono abeti e faggi.
mo. E perchè alcuni mostrano di dubitare cir Parmi d'udirla udendo i rami e l'dre (2)-
ca a cotali spiriti, e massimamente se sono cor
porei, del che non è dubbio alcuno appresso con quello che seguita, ed altrove ancora par
nessuno, ne favelleremo alquanto più lunga lando di questa immagine secondo che io stimo:
mente nella fine della presente lezione, se il E solo ad una immagine m'attengo
tempo lo ci permetterà, nonostante, che n'ab Che fe' non Zeusi, o Prassitele, o Fidia,
biamo trattato altre volte e specialmente nella Ma miglior mastro e di più alto ingegno (3).
prima lezione del corpo.
Come sparisce e fugge: mostra per questa E perciò disse ancora nella bellissima e dispe
comparazione, che come gli occhi di Madon
(1) Son. CC, Parte I.
(2) Son. CXXIV, Parte I.
(1) Son, XXXII, Parte I. (3) Son. LXXXVI, Parte II.
SULLE CANZONI DEGLI OCCHI 85
rata canzone:-Di pensiero in pensier, dimonte non ci si può rappresentare in alcun modo,
in monte: e però non si può intendere. Quanto alla lin
- -
gua tanto significa nulla toscanamente, quanto
Ove porge ombra un pino alto, od un colle non nulla, perciocchè nella nostra lingua due
Talor m'arresto, e pur nel primo sasso negazioni non affermano, come fanno nella la
Disegno colla mente il suo bel viso (1). tina, onde tanto significa a noi nessuno, quanto
E in tutta la stanza che seguita, che comincia: non nessuno. Il che credono alcuni, che sia
P l'ho più volte (or chi fa che mel creda?) cosa biasimevole e barbara, pensando che in
una lingua regolata non si dovesse tollerare
Nell'acqua chiara, e sopra l'erba verde
Veduta viva, e nel troncon d'un faggio: una barbarie così fatta, parendo loro, che il
favellare in cotal forma sia un fare del sì no,
E nella stanza che seguita: e del no sì, e, brevemente, dire il contrario
Allor ch'i miro e penso di quel ch' altri vuole ed intende. Nè sanno
Quanta aria dal bel viso mi diparte questi tali, e non vogliono sapere che i To
Che sempre m'è sì presso e sì lontano. scani contraffanno in questo i Greci come in
molti altri modi di favellare onde è forza, o
E per questo ancora disse il reverendissimo che essi biasimino la lingua greca, il che non
Bembo: possono, o lodino la toscana, il che, per av
» Né sa con l'alma nella fronte espressa ventura, non vogliono. – A quel ch'io sento :
» Cercare altrui e ritrovar sè stessa ». verso quello, cioè agguagliato e comparato a
quella cosa, cioè a quelle dolcezze e piacere
Quanta dolcezza unquanco che sento io –Quando voi: parlando a Madonna
Fu in cor d'avventurosi amanti accolta Laura ovvero agli occhi.-Volgete alcuna volta:
Tutta in un loco, a quel che i sento, è nulla. perchè questo era di rado, come disse di so
Quando voi alcuna volta pra. – Soavemente: o per mostrare il modo,
Soavemente tra 'l bel nero e 'l bianco come li volgeva, come disse là:
Volgete il lume, in cui Amor si trastulla: I vidi Amor, che i begli occhi volgea
E credo, dalle fasce e dalla culla Soave sì, ch'ogni altra vista oscura
Al mio imperfetto, alla fortuna avversa
Da indi in qua mi cominciò a parere (1):
Questo rimedio provvedesse il Cielo.
Torto mi face il velo, o per mostrare la benignità di lei, onde disse:
E la man che si spesso s'attraversa Di tempo in tempo mi si fa men dura
Fra 'l mio sommo diletto
L angelica figura e 'l dolce riso,
E gli occhi, onde di e notte si rinversa E l'aria del bel viso
Il gran disio, per isfogar il petto, E degli occhi leggiadri meno oscura (2).
Che forma tien dal variato aspetto.
Tra 'l bel nero e 'l bianco: non poteva descri
Credono alcuni, che il Poeta avendo favel vere gli occhi, anzi dipignerli più leggiadra
lato nella stanza precedente degli amici, fa mente, che in questo modo; onde nei versi
velli ora in questa quarta degli amanti, il che allegati di sopra disse pur degli occhi par
non pare a proposito. Alcuni altri dicono, che lando:
di sopra si favella di due amanti solamente,
ed in questo luogo di tutti. A me piace più Del bel dolce soave nero e bianco (3).
che il Poeta, rispondendo quasi ad una tacita Ed altrove nella difficilissima canzone: Verdi
obbjezione, o volendo mostrare d'aver favel panni, disse:
lato di sopra con ragione, posponendo tutti
gli stati felici ad un guardo solo di Laura, dica, Ma l'ora e'l giorno ch'io le luci apersi
che se tutti i piaceri che infino a quel giorno Nel bel nero, e nel bianco
Che mi scacciar di là dove Amor corse (4).
avevano avuti tutti gli amanti, si fossero posti
insieme ed agguagliati a quel solo piacere che Nel che dovemo sapere, come altra volta s'è
aveva egli nel vedere pure una volta volgere detto, che Aristotile e Galeno, che in que
benignamente gli occhi di Madonna Laura, sa sto sono d'accordo, dicono, che negli occhi
rebbero stati nulla. E così vuol mostrare, che non è colore nessuno veramente, ma solo in
non vi sarebbe comparazione nessuna, perchè apparenza, come si vede nell'arco baleno; la
tra nulla, e qualche cosa non cade compara qual cosa è manifestissimamente falsa come ne
zione; ed è questa una nuova e più che gran mostrò, e negli occhi degli animali ed in quel
dissima lode dei medesimi occhi medesimamen li degli uomini apertissimamente l'eccellen
te dagli effetti. Onde dice. –Quanta dolcezza: tissimo Vesalio (5) nella notomia fatta da
quanta gioia e piacer. – Fu accolta unguanco:
fu mai ragunata in fin qui. – In cor d'avven (1) Son. XCIV, Parte I.
turosi amanti: nei cuori di quelli che felice (2) Ball. VI, Parte I.
mente amarono.–Tutta in un loco: se tutta si (3) Son. C, Parte I.
(4) Canz. II, Stanza IV, Parte I.
ragunasse e ponesse insieme. – E nulla: ed (5) Andrea Vesalio, di Brusselles, chiamato a buon diritto
essendo nulla non si può appena immaginare il gran lume della moderna anatomia, fiori nel secolo XVI; e
non che intendere, perchè quello che non è, fu professore a Montpellier, a Parigi, a Lovanio, a Padova,
a Ferrara, a Roma –Vedi la Storia del Tiraboschi, t. III,
(1) Canz. XXXI, Stanza 111, Parte I. p. 549. (M.)
86 LEZIONI

lui pubblicamente nello Studio di Pisa. – Il fasce e dalla culla insieme: onde disse il gran
lume: lo splendore. – In cui, nel quale splen dissimo Bembo parlando d'Amore:
dore.– Si trastulla Amore: piglia gioia e di
letto, perchè s'annidiava in quelli, come s'è » Che m'ebbe poco men fin dalle fasce ».
veduto di sopra, ed altrove disse: ed il Petrarca disse ne' Trionfi:

Miri ciò che'l cor chiude Lodando più 'l morir vecchio, che 'n culla (1).
Amore, e que begli occhi
Ove si siede all'ombra (1). dove soggiunse nel medesimo significato:
E che trastullare significhi dar giuoco e di Quanti son già felici morti in fasce.
letto e in somma trastullo, lo mostra il Petrarca Ed è culla propiamente toscano, benchè si
medesimo in altri luoghi, e Dante ancora che dica ancora cuna, come nel latino, così nel
nel decimosesto Canto del Purgatorio disse: verso, come nella prosa, e noi Fiorentini usia
mo spesse volte zana nel medesimo significato,
» L'anima semplicetta che sa nulla
» Salvo che mossa da lieto fattore la qual parola è di quelle che si possono usare
» Volentier torna a ciò che la trastulla». favellando, ma non già scrivendo per quanto
io credo, e massimamente in versi. – Questo
Onde il dottissimo Bembo, disse, non meno ad rimedio: cioè gli occhi di Madonna Laura, dai
imitazione di questo luogo che di quello nella quali mi viene ogni virtù, come testimonia tante
fine del sonetto: Quando Amor bagna in mar volte. – Al mio impefetto: cioè all'imperfezione
l'aurato carro (2): mia usando il concreto in luogo dell'astratto.
Il che è lecito usare alcuna volta, ma non sem
» Tutto quel che gli amanti arde e trastulla pre come fanno alcuni. Ed il nascere imperfetto
» Al piacer sol d'un vostro sguardo è nulla». si può intendere in due modi, o generalmente
E credo dalle fasce, e dalla culla –Al mio im come uomo, o particolarmente con qualche di
perfetto la fortuna avversa –Questo rimedio prov fetto, o almeno di complessione debile; perchè
vedesse il Cielo. Questa farebbe la seconda parte quelli che hanno gli umori più temperati, ge
di questa stanza quarta, se noi usassimo di di nerano miglior sangue: il sangue migliore ge
viderle come si potrebbe, e forse doverebbe, nera migliori spiriti, i quali sono gli strumenti
benchè sarebbe cosa lunga e fastidiosa molto, dell'anima, e non è dubbio alcuno che chi ha
tanto sono spessi i concetti di questo poeta, i migliori strumenti, opera ancora meglio e più
quali vanno crescendo ed innalzandosi tuttavia, agevolmente. Onde chi arà i sentimenti miglio
come si vede in questo. Nel quale il poeta non ri, sarà più atto a tutte le cose e massimamente
all' intendere: conciossiachè l'intelletto non
vuol dire altro, se non che il mirare gli occhi
di Madonna Laura, oltra il piacere che ne pren operi senza i sensi, come avemo detto altre
deva, creava in lui tali pensieri e così fatta virtù volte, e perchè, come dice Aristotile nel se
condo dell'Etica, noi non nasciamo nè colle
che egli, d'imperfetto ed infelice che era prima,
virtù, nè senza elle, cioè avemo da natura non
gli pareva essere diventato perfetto e felice; il
che egli attribuisce al cielo come astrologo, o esse virtù, ma la facoltà di poterle apparare
coll'esercizio, stando in noi il diventare vir
come cristiano a Dio, il quale lo ha genera tuosi e buoni. E così nascendo buoni e vir
to imperfetto, come sono tutti gli uomini; o
per maggior modestia, e per lodare più la virtù tuosi in potenza, potemo, volendo, ridurre in
dei begli occhi, mostra d'esser nato più imper atto cotale potenza, e così d'imperfetti farci
fetto degli altri, e di poi avendogli dato cat perfetti; e questo è quello che dice il Poeta
tiva sorte lo ristorò col farlo innamorare di in questo luogo; e ancora nella stanza che se
Madonna Laura, acciocchè egli mediante il va gue come vedremo.- Alla fortuna avversa. Che
lore che usciva della luce degli occhi suoi, po la fortuna ci sia o amica e favorevole, o av
versa e contraria non è in potestà nostra, ma
tesse sopperire all'una cosa ed all'altra, cioè
all'imperfezione della natura ed all'avversità è bene in nostra potestà il vincerla cioè sop
della fortuna, onde dice: – E credo: parlando portarla pazientemente, e questo è l'unico ri
medio. E che la fortuna fosse inimica al Pe
modestamente per non affermar del tutto l'astro
logia. – Il Cielo: e si intende la particella trarca, lo dimostra apertamente in molti luo
che–Provvedesse dalle fasce e dalla culla: quello ghi e nel sonetto: – Cercato ho sempre solitaria
che i Latini direbbero ab incunabulis, e non vita, più espressamente che altrove quando
dice :
vuol dire altro se non dal nascimento suo,
come là: Ma mia Fortuna a me sempre nemica (2).
Sua ventura ha ciascun dal dl che nasce (3). La qual cosa egli non solamente tollerò come
ed è questa locuzione topica cavata dai con prudente, ma ancora insegnò ad altri in che
seguenti, perché seguita dal nascere il fasciarsi modo si dovesse tollerare nel libro che egli scris
l
e l'esser cullato, e tanto significa dalle fasce se latinamente: De remedio utriusque fortunae,
di per sè, o dalla culla di per sè, quanto dalle imitando Seneca. Grandissimo dunque benefizio
e quasi incomparabile riceveva il Poeta dagli
«1) Canz. X, Stanza II, Parte I,
(2) Son. CLXVIII, Parte I. (1) Trionfo del Tempo.
(3) Son. XXXV, Parte II. (2) Son. CCI, Parte I.
SULLE CANZONI DEGLI OCCHI
87
occhi della sua donna, posciachè da loro gli la preposizione per comincia da due consonanti,
venir virtù di poter rimediare ad ambedue come sfogare, svegliare, sperare e simili sempre
queste cose; onde, sovvenendogli di sì alto così nel verso come nella prosa e tanto nei
ricompenso ed ampio ristoro, sclamò affettuo nomi quanto nei verbi, vi si pone dinanzi la vo
mente tutto quello, che seguita nella stan cale i ordinariamente, come in questo luogo
a presente dicendo: – Torto mi face il ve isfogare, ed altrove.
h-E la man: e la mano – Che: la quale. –
S attraversa sì spesso: s'interpone così soven Io venni sol per isvegliare altrui (1).
te-Fra'l mio sommo diletto: cioè fra gli oc E Dante medesimamente:
chi di Madonna Laura descrivendoli nuovamente
in nuovo modo – E gli occhi: s'intende miei; » Non isperate mai veder lo cielo (2) ».
cosi altrove:
E per questa cagione medesima (come n'av
Che dal destro occhio, anzi dal destro sole vertisce il maestro mio e degli altri migliori
Della mia donna, al mio destro occhio venne (1); che sanno nelle sue dottissime prose) si dice
Ispagna, istoria, ispirito ed altri infiniti. E ho
dove egli si ricorresse per non chiamare gli detto ordinariamente, perchè alcuna volta non
occhi di Madonna Laura ed i suoi con un nome
vi si pone, e questo è massimamente quando
medesimo. E grande ingiuria veramente gli fa la seconda consonante è liquida come si vede
tera così il velo adombrando, come si vede in in trovare, tristo, ed altri tali.
tutta la leggiadra ballata: Lasciare il velo (2),
come la mano facendogli scoglio, come dice nel
ºnetto dichiarato altra volta da noi in questo
lºgo medesimo: Orso, e non furon mai fiumi LEZIONE SETTIMA
º magni: quando dice
E d'una bianca mano anco mi doglio
Ci è stata sempre accorta a farmi noia Fra tutti gli animali, anzi, per meglio dire,
Econtra gli occhi miei s'è fatta scoglio (3). fra tutte le creature di tutto l'universo, niuna
ºde: per li quali occhi. –Si rinversa: si versa è, nobilissimi e dottissimi Accademici Fioren
trovescia, come noi diciamo –Dl e notte: sem tini, nè più varia nè più maravigliosa dell'uo
Pre-Il gran disio: l'intenso desiderio; e que mo; conciossiachè egli solo essendo compo
º non era altro che il pianto e sospiri suoi, sto parte di senso, il quale è mortale, e parte
come dice in mille luoghi. – Per isfogare il d'intelletto, il quale è immortale, può non meno
º; cioè il cuore pigliando il contenente per trasformarsi in angelo mediante l'intelletto, che
quello che è contenuto. E questo dice perchè diventare fiera mediante il senso. E perchè
piangendo e sospirando si sfoga in parte il do niuna potenza può ridursi all'atto senza alcun
ltre 0idio: mezzo, e la natura non manca mai nelle cose
necessarie, però fu conceduto, anzi quasi inge
ºre non casus est quaedam flere voluptas nerato l'amore negli uomini, del quale hanno
ºplaur lacrmis, egeriturque dolor. tanti e tanto non solo lungamente, ma alta
mente e dottamente favellato in tutte le lin
º il qual petto, cioè cuore – Tien forma: gne, diffinendolo e dividendolo minutissima
ºnbima e similitudine –Dal variato aspet
to: di Madonna Laura, perciocchè non l'anima mente, che il volerne arrecare nuove divisioni
ºlta il viso, ma il viso l'anima, come disse o distinzioni, pare piuttosto impossibile e te
ti stesso nella prima stanza della canzone: merario, che vano e superfluo. Nondimeno, per
li pensier in pensier, di monte in monte: chè la via del filosofare non deve essere pre
cisa a niuno, io, per attendervi la promessa, se
E'l volto che lei segue ove ella il mena, starete attenti, come solete, conferirò oggi li
º turba e rasserena (4). berissimamente con più brevi parole e più age
per questo disse ancora Tibullo: voli, che da Dio ottimo e grandissimo mi sa
ranno concedute, tutto quel poco che delle
º mihi difficile estinitari gaudia falsa. varie specie e diverse maniere d'amore pare a
fi0razio medesimamente nella Poetica: me, che si possa dire senza menzogna. Con
ciossiacosachè molti, secondo il poco giudizio
"ntenim natura prius, nos intus ad omnem mio, hanno piuttosto scritto parte quello che
ºunarum habitum. dovrebbe essere, e parte quello che a loro tor
Ed. questo sentimento sia il vero, lo dimostra nava meglio che fosse, che la pura verità. Dico
"ºtto: – La donna che il mio cor nel viso dunque venendo al fatto, che l'uomo si può
considerare in tre modi, come animale bruto,
º(5). Quanto alla lingua è da notare, che come animale razionale, e come animale divi
º volta che la parola la quale seguita dopo no; o veramente, il che è il medesimo, come
bestia, come uomo, e come angelo. E di qui
º CLXxvii, Parte I.
(*) Bill. I, Parte I. nasce che le specie dell'amore sono tre prin
cipalmente, bestiale, umano ed angelico; per
ºss xxiv, Parte I.
Ca. X, Stanza I, Parte
si I. (1) Canz. III, Stanza VIII, Parte II.
ºss. LXxv, Parte I. (2) lnferno, Canto III.
LEZIONI
88
ciocche quelli, i quali seguitando le sentimenta Ora chi mi dimandasse per venire alla du
solamente non amano altro che i corpi, senza bitazion principale de'molti e vari effetti che
aver cura o pensamento nessuno all'animo, fanno così gli uomini come le donne mediante
sono non altramente che le bestie; e però l'a- l'amore: Quali credi tu che siano in maggior
more loro, come è, così ancora si chiama be numero, o i buoni e giovevoli, o i rei e no
stiale. Quelli poi i quali, per lo contrario, se cevoli? gli risponderei per ora, serbandomi a
guitando la ragione solamente, non amano al trattarne altrove più lungamente, che come
tro che gli animi, senza aver pensamento o l'amore bestiale produce sempre cattivi effetti,
cura nessuna al corpo, sono non altramente se non se per accidente, così l'angelico li pro
che gli angeli, e però l'amor loro, come è, si duce sempre buoni; e come il giocondo è ca
chiama angelico. Ma quelli, i quali, mezzi tra gione di più mali che beni, così l'onesto è ca
questi due estremi, seguitando parte le senti gione di più beni che mali. Ed in questo modo
menta e parte la ragione, non amano nè i oltre il conservarsi le qualità dell'universo, pare
corpi soli, nè soli gli animi, ma parte gli uni, che sia in poter nostro il divenire così angeli
e parte gli altri, siccome sono uomini, così alzandoci al cielo, dietro l'intelletto, come be
l'amore loro si chiama umano. Ma perchè que stie, atterrandoci dietro il senso; e volendo
sto può avvenire in due modi, o amando pri pure rimanere uomini, avemo la libertà d'ap
ma il corpo e poi l'animo, o amando prima pigliarci e seguitare non meno l'amore onesto
l'animo e poi il corpo, quinci è, che l'amore che il giocondo. E se i più fanno per lo più
umano, secondo noi, è di due guise: la prima altramente, dovemo dar la colpa di ciò, parte
delle quali chiameremo amore giocondo, e la a noi stessi, parte all'usanza e corruzione di
seconda amore onesto. Onde tutti quelli, che, questo nostro o paese, o secolo. Perciocchè
mossi dalle bellezze esteriori, amano principal pare necessario, non pur verisimile, che in al
mente il corpo e secondariamente l'animo, tro o secolo o paese si faccia tutto il rovescio,
tratti più dal senso che dalla ragione, come dovendo il mondo, secondo i filosofi, non pur
fanno il più delle volte gli uomini dozzinali durar sempre, ma contenere tutte le cose.
ed ordinari, che noi chiameremo attivi, si di E perchè un uomo medesimo può in diversi
cono amare d'amore giocondo. E quelli, che, tempi amare diversamente, però nella fine di
mossi dalle bellezze interiori cioè dalle virtù, questa dolcissima, leggiadrissima ed ornatissima
amano principalmente l'animo e secondaria terza ed ultima sorella dichiareremo, di quanti
mente il corpo, tratti più dalla ragione che dal amori e di quali amasse il nostro dottissimo,
senso, come fanno il più delle volte gli uomini eloquentissimo e singolarissimo filosofo, oratore
egregi e virtuosi, i quali chiameremo contempla e poeta messer Francesco Petrarca.
tivi, si dicono amare d'amore onesto. E così Poi che per mio destino
avemo quattro specie, ovvero sorta d'amori: A dir mi sforza quella accesa voglia
bestiale, giocondo, onesto ed angelico. Ed an Che m'ha sforzato a sospirar mai sempre;
cora che il fine di tutti e quattro questi amo Amor ch'a ciò m'invoglia,
ri sia il dilettabile o non sia senza diletto, tut Sia la mia scorta, e insegnimi 'l cammino,
tavia essendo il dilettabile di due ragioni, sen E col disio le mie rime contempre:
sitivo ed intellettivo, ed alcuna volta mesco Ma non in guisa che lo cor si stempre
landosi insieme amendue, quinci viene che gli Di soverchia dolcezza, com'io temo
amori sono diversi tra loro; perciocchè il pri Per quel ch'i'sento, ove occhio altrui non giugne;
mo, cioè il bestiale, il quale or ferino, or la Che 'l dir m'infiamma e pugne
scivo ed ora altramente si chiama, è imperfet Nè per mio ingegno (ond'io pavento e tremo),
tissimo di tutti e biasimevolissimo negli uomini, Sì come talor sole,
non dilettando se non i sensi, e più quelli che Trovo 'l gran foco della mente scemo:
più sono materiali. Onde di questo non amano Anzi mi struggo al suon delle parole,
gran fatto se non se gli uomini volgari e ple Pur com'io fossi un uom di ghiaccio al sole.
bei del tutto. L'ultimo, cioè l'angelico il quale
or celeste ed or divino, ed ora altramente si Ancorachè queste canzoni tutte e tre di
chiama, è perfettissimo e lodevolissimo di tutti, pendano l'una dall'altra, e si possano chiamare
non dilettando se non l'intelletto; onde di que una sola, come ne mostra oltre il proemio della
sto non amano, se non gli uomini radi, anzi prima, lo quale è comune a tutte, la conti
singolari, o piuttosto dii. L'umano giocondo è nuazione che fa il poeta stesso, dicendo nella
più imperfetto che perfetto, dilettando prima fine della prima: – Però sii certa di non es
e più la parte imperfetta, cioè il corpo, che ser sola, ed in quella della seconda: – E l'al
la perfetta, cioè l'animo. L'umano onesto è più tra sento nel medesimo albergo – Apparecchiarsi,
perfetto che imperfetto, dilettando prima la ond'io più carta vergo; tuttavia piacque a mes
parte più perfetta, cioè l'anima, che la parte ser Francesco di fare il proemio ancora a que
più imperfetta, cioè il corpo. E come il gio sta terza, la quale come è l'ultima, così a mio
condo può, levata l'ultima parte, diventare be giudizio è ancora più grave alquanto, più alta
stiale, così l'onesto, tolta via pur l'ultima parte, e più ornata che non sono l'altre due. E fece
suole divenire angelico. E così avemo veduto il proemio, secondo ch'io stimo, non tanto
non pur quante siano le specie e le ragioni di per temenza, che l'uditore non fosse stanco,
amore, ma in che modo, e perchè siano dif ascoltando sempre una cosa medesima, quanto
ferenti l'una dall'altra. per iscusarsi con i begli occhi, conoscende i
SULLE CANZONI DEGLI OCCHI 89
quanto sua lode fosse ingiuriosa a loro. E ben del secondo ed ultimo capitolo del Trionfo
chè non indirizzi il parlare ad Amore, tutta della Morte, quando disse a Madonna Laura:
via l'invoca due volte obbliquamente nella pri
ma stanza e nella seconda, nelle quali si con Questo no, risposi io, perchè la rota
Terza del ciel, mi alzava a tanto onore
tiene il procmio. Dice dunque nella prima:
Posciachè quello Amore mi sforza a ragionare Ovunque fosse stabile ed immota.
de' begli occhi, il quale mi sforza anco a pia Amor ch'a ciò m'invoglia. Questo è il primo
gnere (quasi dica il che è maggior cosa) e pur luogo dove il Poeta chiama amore; e per mo:
non posso aiutarmene, almeno insegnimi esso strare, che lo chiama con ragione, e che egli
quello che io debba dire, ed agguagli il po debbe giustamente esaudirlo, dice, lui esser
tere alla voglia. Poi dubitando, se ciò fosse, quello che lo spigne a lodare i begli occhi. –
di non morire per la troppa dolcezza, come Sia la mia scorta: sia quegli che mi scorga e
ravvedutosi di questo, lo prega che ne lo guar guidi. – Insegnimi il cammino: è il medesimo
di; soggiugnendo che il parlare di quegli oc che sia la mia scorta per più adornezza e mag
chi non solamente non l'acqueta, ma ancora giore spressione come fanno i poeti cioè: mo
lo infiamma più di maniera che egli si strug strimi come io debba lodarli. – E contempre
geva cantando non altramente, che la neve al le mie rime col disio: cioè faccia che quale è
sole. E benchè io conosca che gli affetti e spi il desiderio che io ho di lodarli, tali siano i
riti di queste canzoni consistono nella leggia versi con che io li loderò; ed in somma diami
dria delle parole, nella dolcezza dei numeri e tale aiuto, che volendo io, e cercando di lodar
nella consonanza delle rime, che insieme con Madonna Laura non la biasimi, come nella
i concetti fanno una melodia tanto soave che canzone:

non si può in modo alcuno dare ad intendere


a chi non lo sente e conosce da sè, nondi Tacer non posso, e temo non adopre
Contrario effetto la mia lingua al core
meno io le ho dichiarate e dichiaro più per Che vorria far onore (1).
fare come gli altri e soddisfare in qualche
parte all'ufficio mio, che per altra cagione. Ma non in guisa, che lo corsi stempre: sentiva
Dice dunque – Poichè: poscia che – Quella dentro il core tanta dolcezza il poeta nostro
voglia accesa: quello ardente desire, come dice nel rimirare la vaga luce de'begli occhi santi,
di sotto, ed in somma amore, o almeno il de che dubitava di morire, se avesse tale potuto
siderio che dall'amore gli nasceva. – Mi sfor sprimerla con i versi quale la sentiva nel core:
za a dire: come di sopra i Ma contrastar e però quasi ravvedutosi dice – Ma non in
rion posso al gran dislo – Che: la quale ac guisa : ma non però di tal maniera. – Che lo
cesa voglia – M'ha sforzato a sospirar mai cor si stempre: cioè ch'io ne morissi; perchè
sempre: e questo dice per maggiore scusa di dal cuore, come s'è detto più volte, vengono
secondo Aristotile tutte le virtù in tutte le
sè ed anco per muovere compassione ad Amo
re; e sono i sospiri del Petrarca più manife membra con temperamento mirabilissimo, lo
sti, che faccia bisogno di raccontarli; percioc quale mancando, manca la vita. – Di soverchia
chè si può dire che tutto quasi il suo Canzo dolcezza: per lo troppo piacere. E che la par
miere altro non sia che sospiri, e però egli disse ticella di significhi per, e quello che i Latini
nel proemio di tutta l'opera: dicono propter, è più che notissimo. – Come io
temo: come io dubito. – Per quel ch'io sento
Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono ove occhio altrui non giugne: o nel cuore come
Di quei sospiri (1). vogliono alcuni, dove egli sentiva cotale dol
Ed altrove: cezza: e niuno può rimirarvi: o piuttosto, il che
più mi piace, negli occhi, o nel viso di Ma
.3 io avessi pensato, che si care donna Laura; onde egli disse altrove:
Fosser le voci de sospir miei 'n rima (2).
Ove, fra 'l bianco e l'aureo colore,
Per mio destino: disse così perchè egli attri Sempre si mostra quel che mai non vide
buisce l'amor suo moltissime volte al destino Occhio mortal (ch'io creda) altro che 'l mio (2)-
o al fato, onde disse:
Ed altrove disse:
L'infinita bellezza, ch'altrui abbaglia (3)
Non vi s'impara; che quei dolci lumi Conobbi allor sì come in paradiso
S'acquistan per ventura e non per arte. Vede l'un l'altro; in tal guisa s'aperse
Quel pietoso pensier, ch'altri non scerse:
IEd altrove Ma vidil'io, ch'altrove non m'affiso (3).
ADagli occhi ov'era (i' non so per qual fato) Che 'l dir m'infiamma e pugnes e perciò disse
Riposto il guiderdon d'ogni mia fede (4). di sopra:
Ma più chiaro che negli altri luoghi nella fine Canzon, tu non m'acqueti anzi m'infiammi (4).

(1) Son. I, Parte I. (1) Canz. IV, Stanza II, Parte II.
(2) Son. XXV, Parte II. (2) Canz. XII, Stanza IV, Parte I.
(3) Son. C1 1 1, Parte I. (3) Son. LXXIV, Parte I.

; (4) Son. LXXXVI, Parte I


VARtari
(4) Canz. VI, Stanza Vill, Parte I.
12
9o LEZIONI
Nè per mio ingegno: cioè per mia facondia Mi porse a ragionar quel ch'i sentia:
o eloquenza. – Trovo scemo il gran fiuoco Or m'abbandona al tempo, e si dilegua.
della mente: cioè non so cantare in guisa che Ma pur convien che l'alta impresa segua,
io possa scemare l'ardente desiderio che io ho Continuando l'amorose note;
di lodarli ed acquietare un poco la mente; per Sì possente è 'l voler, che mi trasporta ;
ciocchè ancora quelli che sono in grandissime E la ragione è morta,
o fatiche, o afflizioni sogliono cantando alleg Che tenea 'l freno, e contrastar nol pote.
giare il dolore: onde Nemisiano ancora nella Mostrimi almen, ch'io dica :
seconda Egloga: Amor in guisa, che se mai percote
Gli orecchi della dolce mia nemica,
Tum vero ardentes flammati pectoris astus
Carminibus dulcique parant revelare querela. Non mia, ma di pietà la faccia amica.
Onde Virgilio disse nella Buccolica: La speranza che aveva il Poeta di cessare
alquanto col cantare de'begli occhi l'accesa
Quae tibi, quae tali reddam pro carmine dona? sua voglia, fece che egli incominciò; dalla quale
Nam neque me tantum venientissibilus Austri, poi trovandosi abbandonato come le più delle
Nec percussa juvant fluctu tam littora, nec quae volte avviene e massimamente nell'amore ben
Sarosas inter decurrunt flumina valles. per una cento, non perciò potette ritrarsi di
Il qual luogo imitando il nobilissimo e lottis non seguitare ; tanto era il desiderio che lo
simo messer Jacopo Sanazzaro nelle sue dolcis trasportava, onde non potendo altro, prega di
sime Egloghe, degne per mio giudizio di star nuovo Amore, che gli conceda almeno tali e
con quelle di Virgilio, non essendo meno, o concetti e parole, che se mai venissero all'orec
colti o dotti i pescatori moderni, che i pastori chie di Madonna Laura la facciano pietosa. –
antichi, disse nella prima Egloga: Io credia: cioè credea. – Nel cominciarº quando
Dulce sonant, Lycida, tua carmina, necmihi malim cominciai a cantare. – Trovar parlando: avere
Alcronum lamenta, aut udo in gramine ripa a trovar nel dire. – Qualche breve riposo: al
Propter aquam, dulces Qrgnorum audire querelas. cuna quiete. – E qualche tregua: che significa
il medesimo per maggiore spressione. – Al mio
Siccome talor suole: cioè scemasi cantando il
desire ardente: all'accesa voglia e gran foco
gran fuoco della mente ed il dolore; onde egli della mente, come disse di sopra. – Questa
disse nella gravissima canzone : – Nel dolce speranza: cotale speme. – Mi porse ardire: mi
tempo della prima etade: diede baldanza. – A ragionar: ch'io ragionassi.
Perchè cantando il duol si disacerba (1): – Quel ch'io sentia: quanto io sentiva, o den
ed altrove: tro il core mio, o negli occhi di Laura. – Or
m'abbandona: or mi lascia. – Al tempo: al
Dirò, perch' i sospiri, maggiore uopo, appunto quando n'arei bisogno:
Parlando han tregua, ed al dolor soccorro (2). quello che i Latini direbbero in tempore, ovvero
ed altrove ancora: in ipso articulo. – E si dilegua: si fugge e spa
risce via. – Ma pur: ma nientedimeno. – Con
E, per ch'un poco nel parlar mi sfogo, vien: m'è forza. – Ch'io segua: ch'io seguiti
Veggo la sera i buoi tornare sciolti e vada dietro. – L'alta impresa: di lodare si
Dalle campagne e da solcati colli (3). begli occhi e narrare tanti loro effetti, onde
disse di sopra:
Anzi mi struggo al suon delle parole. Non so
lamente, dice, non m'acqueto cantando, anzi E l'ingegno paventa a l'alta impresa.
mi struggo al suon delle parole, tanto erano Continuando l'amorose note: segnendo di can
dolci. E di vero chi non sente la dolcezza di
queste canzoni e non si liquefà in udendole, tare in versi pieni d'amore quanto ho comin
si può dire sicuramente ch'abbia il gusto sordo ciato. – Sì possente è 'l voler: di tal forza e
e l'udito stemperato. – Pur com'io fossi un potere è l'ardente desio. – Che mi trasporta: il
uom di ghiaccio al sole: non altramente che il quale contra mia voglia mi mena. – A dire: e
ghiaccio, o piuttosto la neve si disfà sotto il perchè in noi son due parti contrarie, il senso
che debbe ubbidire come servo, e la ragione
sole, onde disse di sopra:
che deve comandare come signora negli uomini
Quando a gli ardenti rai neve divegno. virtuosi e prudenti, egli per mostrare, che non
E perchè alcuni riprendono il Petrarca in que aveva la ragione in sua balia, ma era signoreg
sti versi parendo loro che egli lodi sè mede giato dal senso, il quale chiama volere come
altrove nel sonetto:
simo, mostreremo un'altra volta quando ed a
quali poeti sia lecito gloriarsi. I nol posso negar, donna, e nol niego,
Nel cominciar credia Che la ragion, ch'ogni buon'alma aſfiena,
Trovar parlando al mio ardente desire Non sia dal voler vinta (1).
Qualche breve riposo e qualche tregua. Ed altrove medesimamente:
Questa speranza ardire
E chi discerne è vinto da chi vuole (2)-
(1) Canz. 1, Stanza I, Parte I.
(2) Canz. XII, Stanza 1, Parte I. (1) Son. CLXXXII, Parte I.
(3) Cauz. IV, Stanza v, Parte I. va) Son. XC11, Paile I.
SULLE CANZONI DEGLI OCCHI
91
soggiunse – E la ragione, che tenea 'l freno: poeti poi mutano alcuna volta quella e in i,
la quale reggeva la briglia, cioè signoreggiava come si vede in questo e molti altri luoghi.
per traslazione da cavalli. – Emorta: non disse
sviata come altrove, ma morta a dimostrare Dico: Se 'n quella etate,
che non aveva più speranza di riaverla. – E Ch al vero onor fur gli animi si accesi,
contrastar nol puote: cioè non può contrastare L'industria d'alquanti uomini s'avvolse
e combattere col senso, onde soggiugne. – Al Pe” diversi paesi,
men: poi che io non ho altra speranza. – Mo Poggi ed onde passando; e l'onorate
strimi amor: piaccia ad Amore di mostrarmi. Cose cercando, il più bel fior ne colse;
– Ch'io dica in guisa: che io canti di ma Poi che Dio, e Natura, ed Amor volse
niera che. – Se mai: il mio canto. – Percote: Locar compitamente ogni virtute
perviene e tocca. – Gli orecchi: le orecchie. In que bei lumi, ond'io giojoso vivo,
– Della mia dolce nemica: di Madonna Laura Questo e quell'altro rivo
come altrove: Non conven ch'i' trapasse, e terra mute:
A lor sempre ricorro,
Della dolce ed acerba mia nemica (1). Come a fontana d'ogni mia salute;
Ed altrove senza aggiungervi dolce, o altro, E quando a morte desiando corro,
disse: Sol di lor vista al mio stato soccorro.

E die le chiavi a quella mia nemica, Dopo il proemio, nel quale oltra l'altre cose
si contiene l'invocazione ad Amore, comincia
Ch'ancor me di me stesso tiene in bando (2).
il Poeta a narrare e tornando a lodare dagli ef
Ed altrove: fetti gli occhi di Laura, li loda di maniera in
. . . . e vo' che m'oda questa stanza, che io per me non arei creduto
La mia dolce nemica, anzi ch'io moja (3). mai che si fosse potuto crescere tanto dalle
lodi date loro di sopra; nè so immaginare uo
Ed altrove la chiamò per la medesima cagione mo tanto insensato, che nel leggerla non si mo
guerriera: il che mi pare più amorosamente vesse. Perciocchè qual lode si poteva pensare
detto, che fanno i Latini che chiamano le lor maggiore di questa ? dicendo che Dio, e la
donne amiche: natura, ed amore vollero mettere tutte le vir
Mille fate, o dolce mia guerriera (4). tù compiutamente in quei bei lumi, onde chi
li poteva mirare, non aveva bisogno per dive
E il Reverendissimo Bembo, colla solita leg
- - - - g -- - -
nire perfettissimo in ogni maniera di virtù, di
giadria e giudizio, cominciò quell'umilissimo fare come gli antichi eroi e filosofi, i quali per
ed altissimo sonetto: apprendere ora questa virtù, e scienza, e quan
» Bella guerriera mia, perchè si spesso do quell'altra, e farsi non meno con altrui
utilità, che con gloria di loro immortali, tra
» V'armate contro a me d'ira e d'orgoglio,
» Ed in fatti e 'n parole a voi mi soglio passavano ora in questo paese, e quando in
» Portar si reverente e si dimesso ». quell'altro; tanto che per dirlo brevemente;
quanto aveva tutto il mondo, o di bello, o di
Non mia, ma di pietà la faccia amica. Modo di buono, si ritrovava compitamente tutto insieme
favellare non meno leggiadro che onesto; e in quegli occhi, i quali, oltra le cose dette, era
benchè il sentimento paja diverso è nondimeno no di tanta virtù, che solo il vederli scampa
il medesimo, perciocchè se Madonna Laura fosse va da morte il Petrarca. Onde dice: – Dico:
pietosa, sarebbe pietosa ancora verso lui; anzi ritornando alla materia proposta –Se in quella
tanto più quanto conosce i suoi disiri essere etade: se a quel tempo. – Che: nel quale –
castissimi. Nè osta che altrove la chiami non Gli animi fur sì accesi: furono tanto invogliati
solamente pietosa, ma fonte di pietà, perchè, ed ardenti. – Al vero onor: il quale non con
come avemo detto altre volte, favellano i poeti siste in quelle cose, che il volgo ammira e lo
e massimamente amorosi, secondo che a loro da, come pensano molti, ma nelle virtù mo
torna meglio, o pare che sia. E perchè, come rali ed intellettive. Onde alcuni come Ercole,
s'è detto di sopra, la bellezza e soavità di Teseo e Giasone, per giovare al mondo, fati
queste canzoni non si può dichiarare con pa carono sempre brigando coll' uccidere i mo
role, non diremo altro in questa seconda stanza. stri, cioè ammazzando i tiranni ed altri uomi
Salvo che quel creda non è propiamente to ni perversi, di ridurlo a tranquillità; ed alcuni
scano, conciossiachè tutte le prime e terze come Pitagora, Socrate, e Platone e tanti al
persone singolari di tutte le coniugazioni for tri filosofi non intesero altro con tante fatiche
niscano nel tempo passato ma non compito in e sudori loro se non far gli uomini prima buo
questa sillaba va, come amava, vedeva, leggeva, ni, mediante le virtù morali, poscia beati, me
sentiva, ed a tutte, eccettuata la prima, usano diante l'intellettive. E questi sono i veri ono
cosi i prosatori come i rimatori di levare quella ri, queste sono le vere glorie, questa è la vera
consonante e fare vedea, leggea, sentia, ed i via di farsi eterno, e finalmente:- così QUAG
ciò si cooe (1). – L'industria d' alquanti
(1) Canz. I, Slanza IV, Parte I. uomini: cioè alquanti uomini industriosi, e di
(2) Son. XLVIII, Parte I.
(3) Canz. X, Stanza l V, Parte I. (1) Codeste parole formavano, come si è detto nella preſa
(4) Son. XVII, Parte I. zione, l'impresa del Varchi. (M.)
92 LEZIONI
ce alquanti perchè i buoni furono sempre po Laura, i quali infondendomi nell'animo del va
chi. – S'avvolse per diversi paesi: cioè andò lor loro, e scorgendo in essi tutti i beni, mi
cercando diligentemente varie regioni, soffe destano a virtute con una voglia ardentissima,
rendo caldo, freddo, fame e sete ed ogni altro perciocchè sono il principio onde mi viene ogni
disagio che i pellegrini intrica.-Poggi ed onde salute: – Siccome ogni arbor vien da sue radici.
passando: cioè ora per terra ed ora per ma – E quando a morte desiando corro – Sol di lor
re. – E cercando le cose onorate: e massima vista al mio stato soccorro: cioè qualunque volta
mente le scienze, come racconta S. Girolamo
mi sento morire per lo troppo amore, solo il
nel proemio sopra la Bibbia. – Ne colse il più vedere quegli occhi soccorre e rimedia a tutte
bel fiore: sta in sulla traslazione del fiore, e le pene e danni miei: onde disse altrove:
però dice, ne colse, di quelle cose onorate, e
non vuol dire altro cogliere il fiore d'alcuna Chi nol sa di ch'io vivo e vissi sempre
cosa se non torne il più bello ed il migliore, Dal dl che prima que begli occhi vidi,
per lo essere il fiore non solo la più bella e Che mi fecer cangiar volto e costume (1).
più utile parte della pianta, ma per tenere an Disiando: bramando, come là:
cora il primo e più alto luogo, onde disse
Dante: Fa di tua man, non pur bramando, io mora,
Che un bel morir tutta la vita onora (2).
» Ma come fior di fronda,
» Così della mia mente tien la cima » (1).
Ed il Petrarca disse:

In quante parti il fior dell'altre belle LEZIONE OTTAVA


Stando in sè stessa, ha la sua luce sparta (2).
Poi che Dio e Natura ed Amor volse: Dio, la
bontà e virtù dell'animo; Natura, la bellezza
e doti del corpo: Amore, la grazia e leggia O l'amore che io porto singolarissimo a questo
dria, che accompagnava l' une e l'altre. Ed maraviglioso e veramente unico Poeta nostro mi
altrove quasi nel medesimo sentimento disse appanna ogni lume di buono e diritto giudizio in
nel principio di quel sonetto: tutto e per tutto, nobilissimi accademici Fiorcm
tini; o io non lessi mai cosa niuna, per tempo niu
Chi vuol veder quantunque può Natura no in niuna lingua, nè più dolce di queste tre
E 'l Ciel tra noi, venga a mirar costei, canzoni, nè più vaga, nè più ornata. E so bene,
Ch'è sola un Sol, non pure agli occhi miei che molti non solo mi tengono, ma mi predicano
Ma al mondo cieco, che virtù non cura (3). ancora, parte per prosuntuoso in dando cotali
E nella fine di quell'altro: giudizi, parte per ignorante in lodando tanto
c celebrando i poeti toscani. Ma io confessando
Allora insieme in men d un palmo appare ingenuamente l'ignoranza mia, la quale è via
Visibilmente, quanto in questa vita maggiore, che essi per ventura o non conosco
Arte, ingegno, e natura, e il ciel può fare (4). no, o non pensano, non chiamerò mai prosun
Locar compitamente ogni virtute: porre qualun zione dir liberamente colla lingua a tempo
que bello e qualunque buono. – In quei bei e luogo quello che tu senti sinceramente nel
lumi: e per dichiarare di quali intendeva li cuore. Ed è tanto lontano per avviso mio da
circoscrisse come suole sempre dicendo. – On ogni biasimo, che merita grandissima lode co
de: cioè mediante i quali – Io vivo gioioso: lui, che in pro e beneficio comune non curando
non convien ch'io trapassi questo rivo e quel di sè stesso, dice palesemente, se non quello
l'altro, e mute terra, cioè: a me non bisogna, che e, almeno quello che egli pensa che vero
per cercare le cose onorate e coglierne il più sia, e non ha le parole discordanti dall' intel
bel fiore, passare poggi ed onde, ed aggirarmi per letto; sebbene può essere, che s'inganni nel
diversi paesi; ancorachè alcuni intendano que giudicare. La qual cosa rimettendo tutta nella
sto e quell'altro rivo per Sorga e per Du sincera discrezione e discreta sincerità vostra
renza (5). E soggiugne la cagione, perchè a lui passerò, col favore di Dio e con buona grazia di
non bisogni far questo dicendo: – A lor sem voi, a l'ultima parte di questa ultima canzone
pre ricorro, come a fontana d'ogni mia salute: degli Occhi, la quale, chente sia, sarà più age
cioè a me basta rimirar nei bellissimi occhi di vole a ciascuno di voi il conoscere da sè stesso,
che a me il dichiararlo. Onde se non temessi,
(1) Rime di Dante, Libro III, Canz. I, Stanza II. che mi fosse imputato da certi, o a infingar
(2) Canz. Xl, Stanza Vi 1, Parte 1. daggine o a saccenteria, per non dir peggio,
(3) Son. CXC, Parte I. il mio interpretamento non sarebbe altro, che
(4) Son. CXLI, Parte I. il leggerla o rccitarla venti volte o trenta, co
(5) La celebre fonte di Sorga e il fiume Durance, che
mette foce nel Rodano. D'una e dell'altra cosi cantò il Pe me sapessi e quanto potessi più chiaramente;
trarca in un Frammento di Capitolo, che in alcune edizioni chè ben conosco, che tutto quello che si può
suole premettersi al Trionfo della Morte: arrecare da un mio pari per esposizione di così
” ºve Sorga e Duranza in maggior vaso
” Congiungon le lor chiare e torbid'acque, (1) Canz. XVI, Stanza V, Parte I.
” La mia Accademia un tempo e il mio Parma -».(M) . (2) Canz. XVI, stanza V, Parte I.
SULLE CANZONI DEGLI OCCIII
93
dolce e così concordevole melodia, è quasi un º necessitati di navigare di giorno con l'altezza
contrappunto falso di non dotto e fioco cantore del sole, per avventura, comme fanno oggi quel
sopra una musica perfettissima. li che navigano al Mondo Nuovo, o con altri
segni, e di notte colle stelie, onde Virgilio
Come a forza di venti disse:
Stanco nocchier di notte alza la testa
A duo lumi, ch'ha sempre il nostro polo, Talia dicta dahat, clavunque affrus et haerens
Così nella tempesta Nusquam amittebat, oculosque sub astra tenebat.
Ch'io sostengo d'amor, gli occhi lucenti Ed altrove:
Sono il mio segno e 'l mio conforto solo.
Arcturum,pluviasque Hradas.geminosque Triones.
Lasso ma troppo è più quel ch'io n involo
Or quinci, or quindi, come Amor m'informa, E benchè nell'una Orsa e nell'altra, chiamate
Che quel che vien da grazioso dono: dai Greci Kyvo a 3 pts cd II'Atzn, siano più stelle,
E quel poco ch'i sono, tuttavia il Petrarca disse duoi lumi poetica
Mi fa di loro una perpetua norma: mente. E chi vuole intendere più a pieno que
Poi ch'io li vidi in prima sto luogo, legga Cicerone nel secondo libro
Senza loro a ben far non mossi un'orma: della natura degli Dii, dove, allegando i versi
Così gli ho di me posti in su la cima, d'Arato, tradotti da lui, comincia in questo
modo:
Che il mio valor per sè falso s'estima.
Caetera labuntur celeri caclestia motu
Continuando il Poeta a lodare gli occhi della
sua Laura dagli effetti, ed avendo detto nel Cum caeloque simul noctesque diesque.feruntur.
fine della stanza precedente, come ancora in – Ch'ha: i quali lumi ha. – Il polo nostro:
molti altri luoghi, che solo il mirarli lo scam cioè l'artico. Polo significa appresso i Greci
pava da morte, seguita ora in questa di me quello che appresso i Latini verter, e noi vol
glio dichiararsi con una comparazione, o piut garmente diciamo perno, cioè quella parte,
tosto similitudine poetica e molto appropiata circa la quale si volge alcuna cosa: e Dante
dicendo, che come i nocchieri quando hanno l lo chiamò stelo. E benchè ordinariamente si
tempesta si rivolgono alla tramontana, non aven dica i poli del mondo essere due punti immo
do altro scampo che quello solo per sal bili, intorno i quali si volge il cielo, nondi
vare la vita loro ; così egli, combattuto e vinto meno dovemo sapere, che nei corpi celesti non
dalle passioni e dal desiderio amoroso, non è cosa alcuna, che non si mova eccetto le in
aveva altro rifugio che lo scampasse, se non telligenze, le quali come avemo detto più volte
i begli occhi di cui s'è tante volte favellato. non si movono nè per sè, nè per accidente,
E che le tempeste d'amore s'agguaglino alle come nè anco l'anima umana. – Sempre: disse
marine, oltre che Ovidio disse: così perchè l'Orse non vanno mai sotto, onde
Pessima mutatis caepit Amoris hyems, Virgilio:
si vede in quella ode leggiadrissima del Pe Arctos Oceani metuentes acquore mergi.
trarca latino che comincia (1): E Lucano:
Quis multa gracilis te puer in rosa Sed qui non mergitur undis
Perfusus liquidi urget odoribus Aris inoccialuus gemina clarissimus Arcto.
Grato, Pyrrha, sub antro?
Non dovemo però credere che un giorno dopo
Dice dunque: – Come: non altramente che, moltissimi, e quasi infiniti anni non siano per
– Nocchiero: parola tolta dalla lingua greca, andar sotto l'Orse insieme colla Stella Polare
e significa quello che appresso i Latini guber chiamata da noi la bocca del corno, stante il
nator, e volgarmente il piloto, eioè quegli che moto dato dagli astrologi all'ottava sfera chia
governa e guida la nave. – Stanco: per di mato da loro il moto dell'accesso e del reces
mostrare o la lunghezza, o la grandezza della so, ovvero della titubazione. E questo prova
tempesta. – A forza di venti: quando soffiano evidentemente il raggio sensale con ragioni
più venti e con maggiore impeto che non bi. matematiche, come si dirà nel luogo suo. –
sogna, ed in somma quando il mare ha fortuna, Così nella tempesta d'Amore: similmente nelle
non essendo questo altro che una descrizione sventure mie amorose. – Ch' io sostegno: la
della tempesta per non avere a replicare la qual tempesta io sopporto. – Gli occhi lucenti:
medesima parola dovendo usarla di sotto. – di Madonna Laura. – Sono il mio segno: cioe
– Alza la testa: o la parte per lo tutto, cioè la mira e bersaglio mio, non avendo dove al
il capo, o il tutto per la parte, cioè gli occhi. trove rifuggire. – E 'l mio conforto solo: non
– Di notte: o per mostrare la tempesta mag avendo altro contento, che mirar quelli e così
giore, o perchè di giorno non si vedono le ha fornita la similitudine sua. E qui voglio che
stelle. – A due lumi: a due stelle, cioè l'Orsa notiate, che sebbene io, seguitando i gramatici
maggiore e minore, ed in somma alla tramon latini e l'uso comune, piglio talvolta nel me
tana, dove oggi si tempera la calamita, inge desimo significato esempio, comparazione e si
gnosissimo ritrovamento ed utilissimo ai navi militudine, non è però che non siano differenti
ganti: del quale mancando gli antichi, erano tra loro, come dichiareremo un'altra volta più
lungamente, non essendo materia nè agevolis
41) Her., Lib. I, Carm. Od. V. sima, nè brevissima. Basta era, ehe la simili
94 LEZIONI
-

tudine è come un genere alla comparazione ed i questa altra, onde altrove a questo medesimo
all'esempio; e l'esempio è come una specie di l proposito:
comparazione. Onde dovunque è esempio, è Però s'i' mi procaccio'
ancora necessariamente comparazione, perchè Quinci e quindi alimenti al viver curto (1).
sempre dove è la specie, è il genere, ma non
già per lo rovescio. E si pongono le similitu Come Amor m'informa: come m'insegna ed in
dini così per ornamento come per meglio di struisce amore ottimo maestro di tutte le cose;
chiarare, e quasi dipignere le cose, ed alcuna e non è altro propiamente informare alcuna
volta per provare, benchè questo è più pro cosa che darle la forma, cioè l'essere, onde il
Petrarca altrove:
prio dell'esempio, come diremo allora –Lassol
ma troppo è più quel ch'io n involo. Avendo Ed è sì spento ogni benigno lume
detto il Poeta, che tutta la speranza del suo Del Ciel, per cui s'informa umana vita (2).
scampo e tutto il conforto era nella dolce vi
sta de begli occhi, ricordandosi quasi in un Che quel: che quella parte. – Che vien: che
subito quanto di rado gli era conceduto il ve procede e mi viene. – Da grazioso dono: da
derli se non di nascoso ed alla sfuggiasca, co grazia e liberalità di Madonna Laura che spon
me si dice, entra con un sospiro a dolersi di taneamente e di sua voglia mi concede il ri
questo fatto in cotal guisa – Lasso! oimè, in mirarli; del che ella gli era scarsissima. Onde
terjezione che significa dolore, e tanto significa si duole o più tosto si scusa in quei duoi so
netti:
sola, quanto accompagnata col pronome me, co
me si vede in questo luogo nella canzone: – Lasso! Amor mi trasporta, ove io non voglio (3).
Lasso me, ch'io non so 'n qual parte pieghi (1). E nel seguente:
E qui è da notare che il Poeta, dovendo dire ma
lasso, disse usando la trasposizione lasso, ma Amore, i fallo, e veggio il mio fallire (4).
per cagione di miglior suono: il che fece an E quel poco ch'io sono. Attribuisce tutte le
cora col medesimo giudizio il cardinal Bembo virtù ed i beni suoi a quegli occhi, dai quali
nella prima stanza delle tre sue canzoni nate pigliava e l'esempio e la regola a tutte l'opera
ad un corpo quando disse: zioni sue, e mai senza essi cominciò impresa
» Lasso! ma chi può dire alcuna, perciocche senza loro, se pure avesse
» Le tante guise poi del mio gioire?» pensato, non gli sarebbe riuscita alcuna cosa,
Troppo è più quel: troppo maggiore è la parte e per modestia dice – Una norma perpetua di
–Ch'io ne involo: ch'io furo da quegli occhi; loro. La vista, cioè di quegli occhi mi fa quel
onde disse altrove: poco che io sono, cioè tutto quel poco che io
so ed opero, mi viene da loro; perchè essi
Se vuol dir che sia ſurto; sono la mia norma, cioè regola perpetua; per
sì ricca donna deve esser contenta, -

chè, come chi vuole andar diritto, adopera la


S'altri vive del suo, ch'ella nol senta (2). riga, ovvero il regolo, così io avendo per regolo'
Avendo detto nella stanza di sopra: i begli occhi, foe dico secondo che da loro
m' è mostrato tutto quello che dico e fo e
Così dal suo bel volto
come chi ha buon regolo va sempre diritto,
Le involo ora uno ed ora un altro sguardo, così chi seguita quegli occhi non falla mai. E
E di ciò insieme mi nutrico ed ardo.
so bene, che altri spongono queste parole al
Involare è verbo latino formato dalla proposi tramente, ma questo pare a me il sentimento
zione in e dal nome vola, che significa la palma più vero. – Poi ch'io li vidi in prima: dal di
della mano e la pianta del piede, cioè la parte che li vidi la prima volta, come là:
del mezzo, così della mano, come del piede; e . . . . . dal dl che Adamo
noi volgarmente cangiata la e nella b, come s'usa Aperse gli occhi in prima: (5).
spesse volte, diciamo imbolare, come mostra più Senza lor: senza essi occhi. – Non mossi un'or.
volte la Novella di Calandrino, a cui era stato
imbolato il suo porco. Noteremo ancora, come ma non feci un passo. – A ben fare a ope
rar bene e virtuosamente. – Così: in tal ma
s'è detto altrove abbastanza, che le vocali quan
do cozzano l'una nell'altra nel fine della pre niera. – Gli ho posti in sulla cima di me: cioè
cedente, e nel principio della seguente parola in tanto pregio li tengo e talmente gli onoro.
non solo si levano come nei versi latini quelle Ed è questa locuzione topica propria de' To
della precedente parola, ma alcuna volta quelle scani, perchè quanto le cose son più onorate,
della seguente; ed alcuna volta ancora si cam tanto in più alto luogo si pongono; onde al
biano l'una nell'altra, anzi in diverse come nel trove disse favellando della ragione ed intel
letto umano:
la canzone: Verdi panni:
Che la parte divina
Rubella di mercè, che pur le 'nvoglia (3). Tien di nostra natura, e 'n cima siede (6.)
in luogo di la, ovvero lei invoglia. – Orquinci,
(1) Canz. XVI, Stanza IV, Parte I.
or quindi: or da questa parte e quando da (2) Son. 1, Parte I V.
(3) Son. CLXXIX, Parte I.
(1) Canz. V, Parte I. (4) Son. CLXXX, Parte I.
(2) Canz. XVI, Stanza Iv, Parte I. (5) Son. LXXXVIII, Parte II.
(3) Canz. 11, Stanza 11I, Parte 1. (6) Cauz. VII, Stanza 1, Parte II,
SULLE CANZONI DEGLI OCCHI
95
Ed altrove parlando di Laura : gnare senza la cognizione d'alcuna altra lin
Morta colei che mi facea parlare, gua; e se quelli che interpretano gli autori la
E che si stava de' pensier miei 'n cima (1). tini latinamente, gli interpretassero nella lingua
toscana o in alcuna altra lingua natia, sceme
E nel Trionfo della Castità:
rebbero, per mio avviso, di molta fatica gli im
Ma d'alquante dirò che 'n sulla cima paranti, e non si logorarebbero tutti gli anni
Son di vera onestate. migliori in apparare una lingua sola non senza
colpa e vergogna dai maestri, ma ben con dan
Che 'l mio valor: perchè la virtù e il saper no inestimabile degli scolari, e forse del mon
mio. – S'estima falso per sè: cioe quanto a lui do. Posciachè in luogo delle cose ci conten
e senza l'aiuto de' begli occhi non potrebbe tiamo per lo più delle parole, le quali, per
far cosa alcuna; e se pur credesse di farla si avventura, ci potrebbero fare o ricchi, o ri
stimerebbe falso, cioè giudicarebbe falsamente, putati, ma non già nè dotti nè buoni. E pure
ed in somma s'ingannerebbe. E se vogliamo sa ognuno che le lingue non s'imparano per sè
fare s'estima impersonale diremo, che chi pen stesse, ma per intendere le cose che in esse
sasse che il valore del Petrarca fosse da qual sono state scritte dagli autori; e per questo
cosa, giudicarebbe falsamente e sopra il vero, si dà opera alla latina ed alla greca, e non alla
onde disse altrove:
francese o alla spagnuola. Nè perciò biasimo
Ma così va chi sopra 'l ver s'estima (2). l'avere più lingue, essendo non solo lodevole,
Procede la canzone: ma utilissimo: biasimo bene il modo ed il fine
dell'impararle; benchè questo è fuora di tempo
Io non porla giammai - e forse di proposito. E però ritorno al Petrarca.
Immaginar, non che narrar, gli effetti Narrar: raccontare, il che è molto più dif
Che nel mio cor gli occhi soavi fanno. ficile che l'immaginare, perchè i concetti sono
Tutti gli altri diletti i medesimi, ed i modi dello sprimerli sono di
Di questa vita ho per minori assai; versissimi. – Gli effetti che: i quali – Gli oc
E tutte altre bellezze indietro vanno.
chi soavi: i dolcissimi occhi quando soavemente
Pace tranquilla, senza alcuno affanno, risguardano. – Fanno nel mio core: producono
Simile a quella ch'è nel Cielo eterna, in me, come disse più volte in diversi luoghi,
Move dal loro innamorato riso.
e massimamente nel sonetto: Quando il Pianeta
Così vedessº io fiso che distingue l'ore (1); e sebbene ha lodato
Come Amor dolcemente li governa, sempre gli occhi di Laura dagli effetti, non
Sol un giorno da presso gli ha però nominati mai se non in questo luogo,
Senza volger giammai rota superna; dove noteremo, che tutte le cose si conoscono
Ne pensassi d'altrui, nè di me stesso, per gli effetti loro, onde quanto più sono de
E'l batter gli occhi miei non fosse spesso! gni gli effetti, tanto più sono nobili le cagioni.
Quando, non dico in questa sola, ma in tutte – Tutti gli altri diletti: tutti gli altri piaceri,
e tre queste canzoni, non si contenesse altro così corporali come mentali. – Di questa vita:
che la presente stanza, sì le giudicarei io, non di questo viver mortale, per escludere i cele
solamente radissime, ma singolari. Primiera sti, come fece nel sonetto: Siccome eterna vita
mente, acciocchè niuno pensasse che egli avesse è veder Dio (2). – Ho per minori assai: sti
detto tutto quello che sapeva o poteva, egli mo e tengo vie più piccioli, che quei diletti,
dice che non potrebbe mai per alcun tempo s'intende, che si traggono da begli occhi. –E
immaginare nella mente, non che raccontare tutte altre bellezze indietro vanno: cioè segui
colle parole gli effetti che operano in lui gli tano come inferiori, e quasi serventi quelle di
occhi di Laura. Poi dice tutti gli altri piaceri Madonna Laura, le quali come superiori, e
mondani sono minori appo lui, e tutte l'altre quasi padrone vanno innanzi e precedono: -
bellezze sono inferiori a quelle degli occhi pre Pace tranquilla e senza alcuno affanno. Tutte
detti. Poi soggiugne che quella medesima gioia le cose terrene per essere composte di contrari
si sente nel mirar loro, che si sente nel Pa non sono mai perfette del tutto, nè arrecano
radiso, ed ultimamente desidera di poter mi pace e tranquillità intera, ma sempre sono me
scolate le dolcezze loro con alcuna amaritu
rarli fisamente un sol giorno, il quale però fosse
eterno. E perchè nulla mancasse, vorrebbe non dine, perchè altramente sarebbero celesti e non
pensare, mentre la mira, nè a sè, nè ad altri, mondane; e tali volendole descrivere il Pe
ed ancora vorrebbe non battere gli occhi, con trarca disse: – Pace tranquilla senza alcuno af
cetto veramente, non meno maraviglioso e leg fanno; e per meglio dichiararlo soggiunse i –
giadro, che impossibile. – Io non poria: io non Simile a quella ch'è nel Cielo eterna: percioc
chè non mancano mai come le mondane; le
potrei. – Giammai: per tempo alcuno. – Im
maginar: comprendere nell'immaginazione, e quali, sebbene fossero per fette nel resto, non
colla fantasia. – Non che: ne dum, come dicono però sarebbero perfette del tutto, non essendo
i Latini. Nè si meravigli alcuno che io sponga durevoli, anzi caduche e fragilissime. Nè mi -

alcuna volta le parole toscane colle latine, per. piace che eterna sia verbo come credono al

ciocche niuna lingua si può sporre ed inse cuni. – Muove: cioè si parte – Dal riso lorº

(1) Son. XXV, Parte II. (1) sor. VIII, Parte I.


(2) Sea. XL11, Parte I. (2) son. CXXXiX, Parte I.
96 LEZIONI
dagli occhi di Madonna Laura. – Innamorato: Avvedutosi messer Francesco che egli desi
o che fa innamorare altrui, o che e pieno d'a- derava cose del tutto impossibili, le quali non
more. Egli disse riso per dimostrare più la si potevano conseguire, ma solamente deside
bellezza e soavità loro, essendo ridenti ed al rare soggiugne in questa ultima stanza, che
legri. – Così vedessº io fiso: non pare a me che vorrebbe almeno aver tanta grazia che egli
si potesse trovare più leggiadro concetto e più potesse in presenza di Madonna Laura mandar
leggiadramente vestito di questo. – Così: cioè fuori colla voce quello che egli sente dentro
volesse Dio, avverbio desiderativo, come appo nel core, e crederebbe dir cose che farebbero
i Latini sic.– Vedess’io: potessi mirare – Fiso: piangere o per dolcezza, o per compassione di
fisamente, et intentis oculis, come direbbero i se tutti quelli che le ascoltassero ed intendes
Latini. – Come dolcemente: con quanta dolcezza sero. Ma egli, come vero amante, non sola
e soavità. – Amor li governa: gli apre e gira. mente non poteva parlare dinanzi alla persona
– Solo un giorno: un di solo. – Da presso: amata, ma ancora diventava pallido e smorto,
da vicino, quello che i Latini direbbero prope in quel modo che sanno quelli solamente che
o cominus; ed una simil cosa disse Dante nella l'hanno provato, e che racconta il Petrarca
sua canzone più volte allegata: medesimo, che bene il sapeva, in tutto quel
dottissimo sonetto:
». Ancor negli occhi, ond' escon le faville
» Che m'infiammano il cor ch'io porto anciso, Quando giugne per gli occhi al cor profondo
s, Mirerei presso e fiso ». L'immagin donna, ogn'altra indi si parte (1).
E disse presso e fiso, perchè quanto il visibile Lasso! replica un'altra volta questa interie
è più vicino all'occhio e quanto l'occhio più zione di dolore, che i Latini dicono heu, e
lo guarda intentamente, tanto si fa più perfetta soggiugne subitamente la cagione, perchè si
la visione. – Senza volger giammai rota super duole dicendo – Che: perchè. – Vo desiando:
na: cioè che non finisse mai, perchè se il cielo cioè desio e desidero; modo di favellare pro
non volgesse, il che è impossibile secondo i piamente toscano. – Quello che non puote es
filosofi, perchè subito mancherebbero tutte le sere in modo alcuno, il che è quanto s'è ve
cose mortali, dipendendo tutte dal movimento duto di sopra. – E vivo del disio fuor di spe
del cielo: ma posto che non movesse, non sa ranza: cioè desidero quello che io non ispero,
rebbe il tempo, perchè il tempo non è altro ed in somma vorrei e chiedo quello che cono
che la misura dei moto, e così sarebbe quel sco non poter conseguire. La qual cosa però
giorno senza fine. E chiamò ruote superne i e detta più poeticamente, che secondo la ve
cieli poeticamente, come fece Dante più volte. rità: conciossiachè non può essere desio senza
E non bastandogli aver detto insin qui, che pure speranza, nè può ordinariamente la volontà no
era qual cosa, aggiunse. – Ne pensassi d'altrui, stra desiderare cose impossibili, ed a quelli che
nè di me stesso: il che medesimamente e impos dicono desiderare di viver sempre o di farsi
sibile. – E 'l batter gli occhi miei non fosse dii ed altre cose cotali che non possono es
spesso. Questo si, che poteva essere natural sere, s'è risposto nel luogo suo e salvato il
mente: se già non si vuole inferire, che lo Petrarca. – Solamente quel nodo. Che il Pe
splendore di quella luce era tale, che non si trarca si peritasse di dire le ragioni sue a Ma
poteva guardare in lui senza chiudere gli oc donna Laura, lo dimostra apertissimamente in
chi spesse volte. Benché ancora il riguardare mille luoghi, come si vede in tutto il sonetto:
fiso e cagione, secondo alcuni, del battimento
degli occhi; e però dicono che le stelle scin Perchè io t'abbia guardato da menzogna (2).
tillano; ma a questo si ricerca la distanza, e e nel difficilissimo sonetto:
però i pianeti più vicini alla terra, schbene
fiammeggiano, non però scintillano, cioè non Se mai fuoco per fuoco non si spense (3).
fanno quel tremolare, che i Latini chiamano Il che avviene generalmente a tutti coloro che
micare. Onde avendo detto messer Petrarca amano daddovero; onde Virgilio disse di Di
presso, non pare che volesse intendere questo. done:

ALasso! che desiando


Incipit cſari, media que in voce resistit.
t/o quel che esser non puote in alcun modo; E la cagione di questo effetto è perchè gli
E vivo del desir fuor di speranza. amanti, ancora che sapientissimi, ancora che
Solamente quel nodo fortissimi, ancora che vecchissimi hanno in ve
Ch Amor circonda alla mia lingua, quando nerazione e quasi adorano le cose amate qua
E' umana vista il troppo lume avanza, lunque siano. E da questo nasce la reverenza
Fosse disciolto! I'prenderei baldanza che portano loro ed il timore; oltre che stanno
Di dir parole in quel punto si nove, in sospetto grandissimo di non fare atto alcuno
Che farian lagrimar chi le 'ntendesse. o dir parola nessuna che faccia lor perdere
Ma le ferite impresse quello che bramano sopra tutte le cose, cioè
Volson per forza il cor piagato altrove: la grazia della cosa amata; senza che temono
Ond'io divento smorto
L 'l sangue si nasconde, i non so dove, (1) Son. LXIII, Parte I.
Ne rimango, qual era ; e somi accorto (2) Soa. XXXIV, Parte I.
Che questo e l colpo, di che Amorm ha morto. (3) Son. XXXll 1, Pa e l. -
SULLE CANZONI DEGLI OCCHI 97

nncora, perchè sanno che in potestà degli aman diverse interpretazioni di vari spositori, ma noi,
ti sono tutti i beni loro, e tutti i mali pari non biasimando gli altrui pareri, diremo il no
mente. E questo dichiara il Petrarca medesi stro qualunque sia. Vuole il Poeta significare,
mo nel sonetto:
che quantunque volte s'appresentava dinanzi
Più volte già dal bel sembiante umano (1) alla donna sua per discovrirle i suoi desiri, e di
con tutto quello che seguita. Ed il reveren mandarle mercede, sempre era vinto tanto dalla
bellezza di lei e dalla riverenza, la quale le
dissimo Bembo disse ancora a questo propo
sito, parlando ad Amore: portava, che egli, o non poteva parlare, o se
pur faceva parola, erano imperfette e quasi di
» Quel di, che volontier detto le arei uomo che sognasse, vinto come ho detto così
» Le mie ragion, ma tu mi spaventavi ». dallo splendore de' suoi lucentissimi occhi, co
Dice dunque – Solamente: almeno questa me da tutte l'altre bellezze. E che questo sia
grazia sola, dopo tante che il vento ode e di il vero intendimento pare a me che lo dichiari
sperde, conceduta mi fosse di poter discovrire apertamente esso medesimo in tutto quel so
i miei pensieri a Madonna Laura: il che poc netto, il cui principio è questo:
ticamente dice. – Quel nodo fosse disciolto: si Se la mia vita da l'aspro tormento (1).
disciogliesse; dove si debbe intendere, o vo Veggiamo ora la costruzione ed ordine delle
lesse Dio, o la particella se come usano spesse parole, la quale non è agevole, per cagione di
volte i Latini, e come fece Virgilio, quando un participio usato latinamente come vedre
disse:
mo. – Ma: questa particella avversativa di
Hac fortuna tenus fuerit Trojana secuta. mostra, che egli non poteva fare quello effet
to che desiderava, e soggiugne la cagione, di
Che: il qual modo. – Amor: l'amoroso disio – cendo: – Le ferite impresse – Volgono per forza
Circonda alla mia lingua: per la cagione, che altrove il cor piagato: cioè, in sentenza: Io che
disse altrove:
vorrei scoprire il desiderio mio alla mia donna,
E veggio or ben, che caritate accesa veggendo i suoi begli occhi, onde mi vengono
Lega la lingua altrui, gli spirti invola. mille punte amorose, sono forzato a distormi
Chi può dir come egli arde, è 'n picciolfoco (2). da cotale impresa, e rivolgermi a pensare di
non esserle o grave, o molesto, temendo sem
Quando: allora che. – Il troppo lume: degli
occhi di Madonna Laura. – Avanza: vince e pre di non offenderla pure un poco, come san
soverchia. – La vista umana: cioè mortale del no gli amanti, perchè gli altri non possono in
tendere cotali affetti e sì maravigliosi acciden
Petrarca, e questa mi pare la sposizione vera;
onde altrove disse: ti. E quello impresse, è un participio di tem
po presente, e non vuol dir altro impresse, se
Ne mortal vista mai luce divina condo che a me pare, se non che s'imprimo
l'inse, come la mia quel raggio altero (3). no, mentre e tuttavia ch' io la rimiro. E ho
Io prenderei baldanza: se ciò fosse, io pigliarei detto questo essere detto latinamente; percioc
ardimento ed osarei. – Di dir in quel punto: chè i Latini non avendo nella lingua loro il
di mandar fuori in quello istante, che ciò mi participio passivo nel tempo presente, come
fosse conceduto.–Parole sì nuove: sì inusitate hanno i Greci, si servono alcuna volta del par
ed inudite e di tanta forza. – Che farian la ticipio del tempo passato in iscambio del pre
grimar: che sforzerebbero a piangere. – Chi sente o preterito imperfetto. Dice dunque: –
l'intendesse: o quelli ch'hanno provato Amore, Ma le ferite impresse: cioè che s'imprimono
onde disse nel proemio del suo Canzoniere: nel cuore. – Piagato: mediante quelle ferite –
Lo volgono a viva forza altrove: cioè, lo rimuo
Ove sia, chi per prova intenda Amore, vono da quel pensiero a pensare ad altro per
Spero trovar pietà, non che perdono (4). temenza d'offenderla, come s'è detto. – Onde
ovvero Madonna Laura onde disse: io: per la qual cosa. – Divento smorto: diven
go pallido ed esangue. E questo mostra l'in
E so ch'altri che voi, nessun m'intende (5). terpretazione nostra non essere falsa, cioè il
Ed altrove più chiaramente in quella vaga e timore esser cagione, che egli non osa favel
dolcissima canzone:
larle quanto aveva pensato e deliberato tra sè.
Se 'l pensier che mi strugge E perchè la cagione del diventar bianco nella
Come è pungente e saldo, paura è perchè il sangue si ritira dalla super
Così restasse d'un color conforme (6). ficie e dalle parti streme del corpo al cuore
come a membro principale per aiutarlo e for
Ma le ferite impresse – Volgon per forza il tificarlo, però soggiunse: – E'l sangue sina
cor piagato altrove. Il sentimento di questi versi sconde: poi per mostrare, che in quel tempo
è riputato oscurissimo: il che dimostrano le ed in cotale stato non si può filosofare ed at
tendere alle cagioni delle cose, soggiunse: –
(1) Son. CXVIII, Parte I. Io non so dove: non volendo dire al cuore per
(2) Son. CXVI l I, Parte 1. servare il decoro così di poeta come d'amante
(3) Son. C, Parte I. appassionato. – Ne rimango quale era: il che
(4) Son. I, Parte I.
(5) Soa. LXIV, Parte I. si debbe intendere e quanto al corpo, e quan
(6) Canz. X, in rva 1, Parte I. (1) Son. IX, Parte I.
VARulli
- 13
LEZIONI
93
to all'animo, avendo cangiato per le ragioni ne alla sposizione di queste tre Canzoni, e per
sopraddette e volto e volere. E qui notaremo compiacere a quelli che vogliono, ed ubbidire
in quanto alla lingua, che tutte le prime per coloro che possono, farò vacazione per tutto
sone di tutti quanti i verbi, di qualunque con il presente mese di luglio; e la prima volta
jugazione forniscono tanto nelle prose, quanto che leggerò in questo luogo che sarà (non oc
ne versi sempre in a, e non mai in o, come correndo altro) il primo giovedì d'agosto, co
si favella volgarmente. Nè è buona ragione mincierò la prima delle tre canzoni nate ad un
quella che allegano alcuni che dicono io ama corpo del reverendissimo e dottissimo cardi
vo, e così in tutti gli altri, per distinguere la nale Bembo, la quale comincia : Perché 'l pia
prima persona dalla terza; perciocchè l'uso di cere a ragionar m'invoglia (1).
tutti gli antichi Toscani e di tutti i moderni di -

autorità è in contrario; oltra che così usano i


Provenzali, dai quali, come s'è detto altrove,
è derivata quasi tutta la lingua nostra. Nota LE ZI O N I DUE
remo ancora, che era nel numero del meno e
di due sillabe si scrive e pronunzia per e aper SOPRA LA PITTURA E SCULTURA
to, che è l'Eta (H) greco, ed in quello del più
si pronunzia e scrive per e chiuso, che è l'e
tenue de Greci (Epsilon E). E questo avviene
AL Mol,To REVERENDO ED ILLUSTRISSIMO SIGNORE
non solamente nell'e, ma ancora nell'o, per
la ragione che avemo detto nel luogo suo –E IL SIGNOR
sonmi accorto: e sonomi, ovvero mi sono avvedu
to-Che questo è 'l colpo, di che: per lo quale: DON LUIGI DI TOLEDO
Amore m'ha morto: il che non vuole significare sicNon suo osservANDIssiMo
altro, a giudizio mio, se non che Madonna Lau
ra era tanto pietosa, ed i suoi disiri tanto ra B ENE D E TT O V A RCH I
gionevoli, ed egli tanto affettuosamente gli
avrebbe saputi sprimere, che avrebbe trovato
pietà : la qual cosa, perchè non seguisse, Amore Già so io bene, nobilissimo e cortesissimo Si
non gli lasciava, come s'è veduto, pigliare così gnor mio, che alla molta così dottrina, come
fatto ardimento, e perciò egli disse:-E sonmi bontà del figliuolo dell'illustrissimo signor don
accorto. - Che questo è 'l colpo di che Amor Pietro Vicerè di Napoli, e fratello dell'eccellen
m'ha morto. tissima signora donna Leonora, Duchessa di Fi
Canzone, io sento già stancar la penna renze, e nipote del reverendissimo e tre volte
Del lungo e dolce ragionar con lei; grande cardinale di Burgos, si conveniva troppo
-

Ma non di parlar meco i pensier miei. maggior dono e troppo più degno, che questo non
e, che io le mando al presente. Ma io non pos
Volgendosi in questa ultima parte alla can sendo più, e desiderando sommamente di mostra
zone secondo l'usanza dice, come la penna è re oggimai in quel modo, che per me si potesse,
bene stanca di scrivere, ma non già egli di pen alcuna parte di quella umile affezione e servitù
sare le bellezze degli occhi della sua Ma ; che io porto già da gran tempo alle tante e così
donna Laura, e gli effetti che cagionavano in grandi doti e qualità della molto reverenda ed il
lui, volendo inferire che tutto quello che ave lustrissima Signoria Vostra, ho eletto, confidatomi
va detto insin qui era niente, verso quello che i non meno nella singolare umanità, che nel discre
egli si sentiva da poter dire: – Canzone, io tissimo giudizio suo, di palesare più tosto la po
sento già: cioè sì tosto. – Stancar la penna: vertà dell'ingegno mio, che di nascondere la gra
che la penna si stanca. – Del lungo e dolce titudine dell'animo, imitando la semplicità e
ragionar con lei: lungo, per lo averne favel pura mente di quei pastori, i quali non avendo
lato in tre canzoni: dolce, per lo piacere che nè oro, nè incenso, sacrificano col farro solo o
ne pigliava infinito. – Con lei: cioè con la col latte.
penna; e ragionar colla penna non vuol dire Di Firenze, a dì 7 di Marzo, 1546.
altro, che scrivere: e scrivere non è altro che
parlare pensatamente; onde egli disse altrove:
Ond'io gridai con lingua e con inchiostro: (1) Sembra da queste parole, che il Varchi nostro volesse
fare un Commento sopra le tre Canzoni del Bembo, che, a
Non son mio, no: s'io moro, il danno è vostro(1). imitazione delle tre del Petrarca su gli Occhi, sono chiamate
Ma non sento stancare – I miei pensieri di par le tre sorelle. Ma non sappiamo, se mandasse ad effetto
larmeco: quello che disse nella canzone grande: questo pensiero. (MI.)
La penna al buon voler non può gir presso:
Onde più cose nella mente scritte
Vo trapassando, e sol d alcune parlo (2).
E qui ringraziandovi infinitamente pongo ſi

(1) Canz. I, Stanza V, Parte I.


(2) Cauz 1, Stanza V, Parte I.
SULLA PITTURA E SCULTURA 99
fetta, tanto ha di più cose e maggiori, e più
perfette bisogno, secondo gli eterni ordinamen
LEZIONE PRIMA ti e le infallibili leggi della natura, i quali e le
quali si potrebbero forse desiderare migliori,
SOPRA IL SOTTOSCRITTo soNETTo DI MICHELAGNolo ma avere no. Onde chiunque desidera o di le.
EcoNARRoTI, FATTA PUBBLICAMENTE NELLA AccA vare alcuna cosa all'uomo di quelle che egli
DEMIA FIoRENTINA, LA seconda DoMENICA DI ha da natura, o d'aggiugnergli di quelle degli
QUAREsIMA, L'ANNo 1546. altri animali, desidera quello che non pure non
si può mai ottenere, ma nè ancora desiderare
naturalmente, cioè la sua imperfezione mede
sima. Diciamo dunque (lasciata la costoro o
ignoranza, o follia, o semplicità degna più to
IL PR O E MIO
sto di compassione che di castigo), che l'uomo,
quando bene fosse mille volte mortale, come
vogliono alcuni, è ad ogni modo senza fallo
Egli non ha dubbio alcuno appresso tutti nessuno il più perfetto in tutte le cose, e il
i migliori così filosofi come teologi, che tutte meglio organizzato animale non solo che un
le cose generabili e corruttibili, cioè tutte quelle qua facesse, ma che potesse mai fare la natura,
che si ritrovano in questo mondo inferiore, dal la quale a lui solo ha prodotto tutto quello
cielo della luna in giù, qualunque elle siano, che ha prodotto o di buono o di bello in qua
o animate o private d'anima, furono, magni lunque luogo.
fico e meritissimo Consolo, nobilissimi e dot Ma che diremo, se egli non solamente è im
tissimi Accademici, e voi tutti, prudentissimi e mortale, così secondo l'opinione e credenza
benignissimi Uditori, prodotte da Dio e dalla dei più dotti filosofi, come secondo la verità e
natura, a cagione e per benefizio dell'uomo. certezza di tutti i teologi, ma talmente fatto,
Conciossiache, tutte le cose meno degne e per che egli può, ancora vivendo e colle terrene
fette sono, come diceva il Filosofo nella Poli membra, volare al Cielo e divenire non pure
tica, a benefizio, e per cagione delle più de Angelo, ma quasi Dio? Dorremoci noi della
gne e perfette. Onde, come tutte le cose che natura? chiamaremola noi non pietosa madre,
mancano d'anima, sono per cagione delle pian ma ingiustissima matrigna ? vorremo noi essere
te, e le piante per cagione degli animali, così piuttosto lioni o altra fiera, che uomini? eleg
gli animali sono per cagione degli uomini, es geremo più volentieri il nuotare che l'andare?
sendo l'uomo più perfetto e più nobile di tutti, stimeremo più degna cosa il volare per l'aria
si quanto alla perfezione dell'anima, e si quan per posare in terra, che il posare in terra per
to alla nobiltà del corpo. Perciocchè, siccome volare al Cielo ? e finalmente ci piacerà più il
l'animo umano avanza in infinito tutte le cose
correre, che il discorrere? Ma perchè la na
mortali, così ebbe il più nobile corpo, e più tura non dà mai potenza, o vogliamo dire pos
perfetto che si potesse trovare quaggiù. E per sibilità alcuna a nessuna cosa, che ella non le
dirlo più chiaramente, non poteva fare la na dia ancora gli strumenti da poterla ridurre al
tura in modo nessuno cosa alcuna più perfet l'atto (perciocchè sarebbe vana cotale potenza,
ta dell'uomo, nè lui medesimo più nobile, o e di niun frutto, il che la natura non tollera,
meglio disposto e proporzionato, nè quanto alla onde Aristotele volendo provare, che le stelle
perfezione e dignità dell'anima, nè quanto alla non si movevano per loro stesse, argomentava
complessione e temperatura del corpo. Laonde da questo, che la natura arebbe loro fatti i
non si può non che dire, ma pensare la mag piedi, se avesse voluto che si fossero mosse),
giore e più scellerata, o bestemmia o ignoranza mi potrebbe alcuno dimandare, quale è quello
di quella di coloro, i quali, dolendosi della na strumento, che n'ha dato la natura, mediante
tura, accusano tacitamente, e riprendono Colui, il quale possiamo ridurre all'atto questa poten
cui tutte le cose sono possibili, eccetto l'er za, cioè salire al Cielo colla terrena somma e
rare. E se quelli che vorrebbero o essere ga divenire d'uomini, dii. Alla costui e dotta di
gliardi come i lioni, o correre come i cervi, o manda e ragionevole si risponde, che questo
volare come gli uccelli, o nuotare come i pesci, strumento oltra le scienze senza alcun dubbio
considerassero, non dico che desiderano cose è l'Amore. L'Amore è questo strumento senza
contrarie in un tempo medesimo, e conseguen dubbio alcuno, nobilissimi ed amantissimi udi
temente impossibili, ma con quanta agevolezza tori, e mediante l'Amore non solo potemo,
e in quanti modi si vincano dall'uomo tutte ma dovemo ancora levarci da queste nebbie
le forze e tutte le velocità e destrezze di tutti mortali e saliti d'una in altra sembianza, a
gli altri animali, conoscerebbero subitamente quegli splendori oltramondani poggiare sopra
la loro follia non punto minore della sempli il Cielo, e quivi contemplando visibilmente la
cità e poca conoscenza, per non dire parola più prima cagione a faccia a faccia, diventare lei.
grave, di tutti coloro, i quali si rammaricano E per questo significare, furono aggiunte secon
con doglianze, che all'uomo facciano di me do che io stimo l'ali ad Amore, non per di
stiero assai più cose, ed al nascere, e nel con mostrare l'incostanza sua o la leggerezza, co
servarsi che agli animali bruti non fanno, co me hanno molti creduto. Nè sia chi reputi que:
me quelli che non pensano, o non sanno che sta salita e cotal visione impossibile, perciocchè
quanto è più degna ciascuna spezie e più per ed alcuni dei teologi l'affermano e molti dei
1 oo LEZIONI
filosofi lo confessano; e quel grandissimo Ara- suoi migliori cittadini non desiderano cosa nè
bo (1), il quale, per quel poco che posso co più giusta, nè più ragionevole, che di vedergli
moscere io, fu solo o con pochissimi vero filo posta, quando che sia, una statua, ma degna di
sofo dopo Aristotile, pone il sommo bene e lui, cioè di sua mano in questa città. Nè so
l' ultima felicità umana in questa così fatta io per me pensare, non che dire, che cosa po
contemplazione, la quale egli chiama intuitiva, tesse arrecare, o maggior contento alla bontà
perciocchè non si fa col discorso della ragione, del nostro felicissimo ed ottimo Duca, che ve
ma presenzialmente coll'occhio dell'intelletto. dere uno de' suoi cittadini, al quale tanto ce
O maravigliosa e possentissima forza di questo dono tutti gli altri uomini, quanto esso tutti
grande e santissimo Dio, quanto dei tu essere gli altri Principi sopravanza. E coloro, che si
amata, ringraziata ed adorata da tutti i buoni, maravigliano come ne'componimenti d'un uomo,
da tutti i dotti, da tutti i saggi ! Da te sola il quale non faccia professione nè di lettere, nè
ne viene ogni quiete, ogni contento, ogni ri di scienze, e sia tutto occupatissimo in tanti, e
poso, ogni salute. Tu ne scaldi gl'ingegni: tu tanto diversi esercizi, possa essere così grande e
n'incendi gli animi: tu n'infiammi le menti: profondità di dottrina ed altezza di concetti,
tu n'infuochi i cuori: tu n'ardi i petti di pen mostrano male, che conoscano o quanto possa la
sieri altissimi, di desii dolcissimi, di voglie one natura, quando vuole fare uno ingegno perfet
stissime, di concetti onoratissimi, di desideri to e singolare, o che la pittura e la poesia sono
cortesissimi, e finalmente sei sola cagione di secondo molti non tanto somigliantissime fra
tutti i beni a tutte le cose. loro, quanto poco meno che una cosa mede
Ma potrebbe dubitare chicchessia, come possa sima, come si vedrà nel fine di questa nostra
questo essere vero che io ho detto, conciossia lettura, quando tratteremo la quistione della
cosachè tutto il giorno si vedono tutti gli nobiltà dell'arti. Ora è tempo (invocato prima
amanti o almeno la parte maggiore, pallidi, i divotamente il nome ed aiuto di Colui, che
afflitti, macilenti, maninconici, pieni di lagri sempre rispose bene a chi con fede lo chiamò),
me, di sospiri, di cordogli, di gelosie, di pen di venire alla sposizione del sonetto, il quale
timenti e brevemente colmi di tutte quante le mentre che io recito e dichiaro, prego umil
sciagure, andarsi amarissimamente dolendo e mente l'umanissime cortesie vostre, che ne
rammaricando d'amore, delle donne amate, dieno, colla solita benignità, la consueta udienza.
della fortuna, col cielo, coi boschi, coll'acque,
senza mai avere non che pace, tregua de loro
affanni. Al qual dubbio con grandissima ragio
ne mosso e non mica agevole a potersi scio SONETTO
gliere, niuno, per quanto abbia veduto o possa
giudicare io, non ha nè più veramente risposto, mol
nè più dottamente, che in un suo altissimo so
netto, pieno di quella antica purezza e Dantesca MICHELANGIOLO BUONARROTI
gravità, Michelagnolo Buonarroti: dico Michela -

gnolo senza altro titolo o soprannome alcuno, per


ciocchè non so trovare nessuno epiteto, il quale l
non mi paja, o che si contenga in quel nome Non ha l'ottimo Artista alcun concetto,
solo, o che non sia di lui minore. Il qual so Ch'un marmo solo in sè non circoscriva
netto ho preso oggi a dover interpretare per Col suo soverchio, e solo a quello arriva
la grandissima dottrina ed incredibile utilità La mano che ubbidisce all' intelletto.
che in esso si racchiude, non secondo che ri Il mal che io fuggo, e 'l ben che io mi prometto,
cercano l'altezza e profondità dei grandissimi In te, Donna leggiadra, altera e diva,
concetti di lui, ma in quel modo che potranno Tal si nasconde, e perch'io più non viva,
la bassezza e debolezza delle mie picciolissime Contraria ho l'arte al disiato effetto.
forze. E volesse Dio, che, ubbidendo la mia Amor dunque non ha, nè tua beltate,
lingua all'intelletto, potessi mandar fuori pure O durezza, o fortuna, o gran disdegno,
una sola particella colla voce di quello che io Del mio mal colpa, o mio destino, o sorte :
ne sento dentro nel cuore! E perchè non m'è Se dentro del tuo cor morte e pietate
nè nascoso, nè nuovo quello, che hanno detto Porti in un tempo, e che 'l mio basso ingegno,
alcuni di questo fatto, non voglio rispondere Non sappia, ardendo, trarne altro che morte.
loro altro, se non che Michelagnolo, oltra l'es
sere egli nobilissimo cittadino ed accademico
nostro, è Michelagnolo, il cui nome manterrà
viva ed onorata Fiorenza, poichè ella sarà IL SOGGETTO
stata polvere migliaia di lustri; e che tutti i
Per maggiore e più agevole intelligenza del
(1) Intende l'arabo Averroe, che spesso pur citò nelle pre soggetto di questo grave e dotto sonetto, ave
i" Nacque questo acuto filosofo a Cordova, e moria mo a sapere, nobilissimi uditori, che niuno af
Marocco nel 1217. E il più celebre fra'dotti della sua nazione,
il più ossequioso discepolo d'Aristotile, e uno degli scrittori fetto, ovvero accidente qualunque egli sia, è
più ſecondi, che siano stati al mondo. Venne per antonomasia tanto universale e tanto comune a tutte le cose,
detto il Commentatore, per aver egli principalmente atteso a quanto l'amore. Perciocchè egli non è cosa
commentare con estrera devozione le opere di Aristotite. (M) ncssuna in luogo nessuno nè tanto bassa ed
SULLA PITTURA E SCULTURA lo -

ignobile, nè così alta cd eccellente, la quale non non fa come molti e anticamente e moderna
abbia in sè qualche amore: anzi quanto è più mente hanno fatto e fanno, i quali, o pcr iscu
nobile ciascuna cosa e più perfetta, tanto ha sare sè medesimi, o per non conoscere per av
senza alcun fallo più perfetto amore e più no ventura la verità, ne danno la colpa, come si
bile. Onde l'ottimo e grandissimo Dio, non disse, chi all'amore, chi alle cose amate, chi alla
solo è nobilissimo e perfettissimo amante, ma fortuna, ma ne incolpa sè stesso, e null'altro,
esso primo e verissimo Amore, onde derivano volendo sotto il nome e persona sua, come ac
gli altri amori tutti quanti. E delle intelligenze corto e modestissimo, insegnare a tutti gli aman
quanto ciascuna è più vicina alla prima, cioè ti di che si debbano dolere ed a chi attribuire
a Dio e conseguentemente più degna, tanto ha la cagione e la colpa di tutte le passioni e dis
maggior amore, e più degno. Ma lasciando piaceri, che provano e sentono amando. E per
stare al presente l'amore di Dio e de' suoi meglio e più agevolmente dimostrarlo, usa, co
Angeli, il quale nel vero è d'un'altra manie me fa quasi sempre Aristotile, un esempio dalle
ra, che il nostro non è, e si chiama ora in cose artifiziali, le quali ci sono più note, del
tellettuale, ora angelico e quando divino, e fa quale niuno si poteva immaginare nè più a
vellando solamente dell'umano, cioè di quello proposito alla materia della quale si tratta, nè
che si trova in queste cose sottane cd inferio più dicevole a lui che la tratta. Ed è questo,
ri, diciamo, che ogni amore seguita qualche se io saprò così bene spiegarlo e distenderlo
appetito, onde come nelle cose mortali si ri con molte e lunghe parole, come egli seppe
trovano tre appetiti, così necessariamente si ri ripiegarlo e strignerlo in poche e brevi.
trovano ancora tre amori. Il primo e più comune Se uno scultore avesse un marmo, certa cosa
di tutti si chiama naturale, perciocchè viene è che in quel marmo sono in potenza, cioè si
in tutte le cose dalla natura, e questo è senza possono cavare di lui tutte le figure che si pos
alcuna cognizione della cosa che appetisce, onde sono immaginare, come un uomo, un cavallo,
tutte le cose che non conoscono, come sono tutte un lione e così di tutti gli altri egualmente;
le inanimate e tra le animate le piante, hanno o vogliamo piuttosto dire che in quel marmo
questo appetito ed amor naturale. E quinci è, sono in potenza, e si possono cavare di lui
che tutte le cose gravi caggiono al centro, e le tutte le bellezze che si possono immaginare da
leggiere volano al cielo, perchè sebbene non qualsivoglia ottimo maestro di dare a qualun
conoscono per sè stesse, perchè la natura non que figura, diciamo, per cagione d'esempio, a
conosce, sono però guidate da chi conosce, non un Mercurio. Ora se uno scultore lavorando
altramente, che gli strali vanno dirittamente questo marmo, e facendone questo Mercurio,
al bersaglio, non per loro medesimi, ma in virtù non sapesse condurlo a quella perfezione, la
dell'arciero che li trasse. E in questo amore quale egli s'era immaginata, o che un altro mae
non furono mai inganni, nè falli, perchè il suo stro migliore di lui si sarebbe immaginato, a
ſine è sempre buono, anzi ottimo; e sempre chi si deve dare la colpa di questo fatto: al
si consegue da tutte le cosc, se non sono im marmo, o allo scultore? Al marmo certamente
pedite violentemente; onde si vede, che le no, perchè in lui erano in potenza così le belle
piante tutte e sempre crescono, si nutriscono fattezze che se gli dovevano dare, come le non
e generano. Il secondo appetito ed amore si belle che gli sono state date. Dunque il difetto
chiama sensitivo, perchè nasce dalla cognizione sarà del maestro, il quale non avrà saputo spri
del senso; e questo si ritrova in tutte le cose, mere con lo scarpello quello che egli s'era im
che hanno l'anima scnsitiva, cioè in tutti gli maginato coll' ingegno; anzi non ubbidendo le
animali. E questo quanto è meno comune, tanto mani alla fantasia, avrà fatto tutto il contrario
è più nobile del naturale, laonde tutti gli ani di quello che s'era proposto e pensato di do
mali, oltra il crescere, nutrirsi, e generare, cer ver fare. Così nè più, nè meno, dice il nostro
cano sempre ed in tutti i luoghi quelle cose, poeta, avviene nell'amore; perciocchè nella
le quali, o sono veramente, o paiono loro pro cosa amata, e in un viso, il quale o sia bello
fittevoli. Il terzo ed ultimo appetito ed amore in verità, come è necessario che siano tutti
si chiama razionale, ovvero intellettivo, e que quelli che piacciono a sì perfetto giudizio, o
sto si ritrova solamente negli animali razio paja bello all'amante, sono in potenza e se ne
nali, ovvero intellettivi, cioè negli uomini, ed possono trarre da uno che fosse buono mae
è perfettissimo di tutti gli altri, onde chi ha stro d'amore, tutti i piaceri, tutte le gioie e
questo, può avere ancora, anzi ha necessaria tutti i contenti che si possono immaginare. Ma
mente gli altri duoi, ma non già all'incon se uno, come avviene alla maggior parte degli
tro; e tutti e tre questi amori sono natu amanti, invece di questi ne cavasse dispiaceri,
rali nell'uomo, e conseguentemente buoni. On noje e scontenti, egli può dire che egli non
de subitamente nasce quel dubbio, che noi sappia l'arte d'amare, onde di sè debbe do
toccammo nel proemio, come sia possibile, che lersi e non d'amore, o della amata, o della
una cosa, che venga da natura, e conseguen fortuna. E così nel vero è verissimo, cemc di
temente sia buona, n'apporti seco tanti dolori, chiareremo nel luogo suo; e in somma, per
tanti affanni, tanti travagli, quanti si veggiono, raccorre quanto avemo detto, l'esempio con
si sentono e si provano tutto il giorno in aman siste in questo che come d'un marmo mede
do. Il qual dubbio volendo sciogliere questo ve simo, e così dovemo intendere di tutti i sub
ramente Angelo divino, e richiamare i mortali i bietti di tutte l'altre arti, si possono cavare
dalla via sinistra e torta alla destra e diritta, tutte le bellezze che si possono immaginare da
to2 LEZIONI

qualunque maestro. Ma uno che avrà l'arte l'essere è di due maniere. Uno si chiama ed
perfettamente, ne le saprà cavare, ed un altro è essere potenziale: l'altro è, e si chiama es
che non l'avrà, no: onde la colpa non sarà ser reale. L'essere potenziale d'una qualche cosa
del marmo, ma dell'artefice. Così medesima è quello, il quale non è ancora venuto all'atto,
mente d'un bel viso si possono cavare tutte ma si giace nascoso in checchessia. Per esempio
le dolcezze che si possono immaginare da qua nella terra, nella cera, nel marmo sono in potenza
lunque innamorato; ma uno che avrà l'arte uomini, cavalli e tutte l'altre figure che se ne
d'amore, ne le saprà cavare, ed un altro che possono cavare, e tutte quelle tali figure si di
non l'avrà, no. Onde non si debbe assegnare la cono aver l'essere potenziale, perchè non sono
colpa alla cosa amata, nè ad altro, ma solo al ancora venute all'atto; e quelle medesime quando
l' amante. saranno venute all'atto mediante l'artefice, e
E questo pare a me che sia il soggetto di saranno o cavalli, o nomini o altro , avranno
questo bellissimo sonetto ed utilissimo, il quale l'essere reale. Ma sebbene l'essere potenziale è
divideremo in tre parti principali: nel primo piuttosto un essere finto ed immaginato che
quadernario: nel secondo: e ne duoi ternari. vero, e non si può chiamare essere semplice
Le quali tre parti dichiararemo a una a una, mente, ma essere in potenza, non è che egli
dove ciascuno potrà conoscere per sè stesso, non sia cagione dell'essere reale, perchè, come
prima la dottrina, poi l'artifizio, ed ultimamente diceva quel grande Arabo nel dodicesimo della
l'utilità. Le quali cose sono tante e tali che scienza divina al diciottesimo testo del com
io non le dico, non tanto per diffidarmi di me mento: Se la potenza non fosse, non sarebbe
stesso, quanto per non essere tenuto da certi, l'agente, perciocchè tutto quello che è generato
i quali tanto hanno avuto a male, e tanto mi in atto, è corrotto in potenza, e mai non si fa
sono iti biasimando della elezione di questo rebbe cosa nessuna, se prima non fosse in po
sonetto, quello che io non sono, o di certo non tenza a farsi, cioè non si potesse fare. Perchè
vorrei essere. Ma venghiamo alla prima parte. appresso i filosofi tutto quello che è possibile
dalla parte dell'agente, è anco possibile dalla
Non ha l'ottimo artista alcun concetto,
Ch” un marmo solo in sè non circoscriva
parte del subbietto, o vogliamo dire, che tutto
quello che è nell'agente in potenza attiva, è
Col suo soverchio, e solo a quello arriva nella materia in potenza passiva; cioè che come
La man che ubbidisce all'intelletto.
uno scultore, per istare nell'esempio dell'au
La sentenza di questa prima parte, come si tore, può fare tutte le figure d'un marmo solo,
disse ancora poco fa, è questa. Tutte le cose così tutte le figure possono esser fatte di quel
che possono fare tutti gli artefici, non solo sono marmo solo, altramente, come può vedere ognu
in potenza nei loro subbietti, cioè nelle mate no, non si farebbero mai. Onde è necessario,
rie di che essi fanno i loro lavori; ma vi sono che la potenza passiva del marmo corrisponda
ancora nella più perfetta forma che si possa e sia eguale alla potenza attiva dell'artefice;
immaginare. Onde un fabbro, ad esempio, può e così, secondo i filosofi, non si fece mai nulla,
fare del ferro non solo tutte le cose che si pos che non si potesse fare, e nulla che si potesse fa
sono fare di ferro, ma le più belle e perfette che re, non si fece. Il che però è falsissimo secondo i
si possano immaginare dentro. Ma non tutti i teologi, perciocchè Dio può fare moltissime cose
maestri ve le sanno immaginare belle a un mo che mai non fece, e mai non farà, onde essi lo
do, nè condurre a perfezione egualmente quelle chiamano meritamente onnipotente; il qual no
che si sono immaginati egli stessi. Perciocchè me non solo non se gli conviene appresso i fi
oltra quello che i Greci chiamano iºsa, ed i losofi, ma gli è del tutto contrario ed inimicis
Latini ora forma, ora specie ed ora exemplar, simo, per dir così, conciossiachè questo signi
e talvolta exemplum, e noi imitando ora i Gre fichi tutta potenza, ed egli sia tutto atto.
ci, ed ora i Latini chiamiamo quando idea, Dovemo ancora sapere, a perfettamente inten
quando esemplare, e quando esempio, e più dere la vera e maravigliosa sentenza di questa
volgarmente modello, cioè quella immagine che prima parte, che secondo il medesimo Aristo
si forma ciascuno nella fantasia, ogni volta che tile: Actio Agentis (perchè veggiano che io non
vuole fare checchessia. Si ricerca ancora l'arte trovo queste cose da me, nè le cavo, d'onde
e la pratica; onde chi non ha queste, potrebbe elle non sono) nihil aliud est, quam extrahere
immaginar bene, ed operar male, perchè nel rem de potentia ad actum ; cioè : L'azione ov
l'arti manuali non basta l'ingegno, ma bisogna vero operazione d'un agente, ovvero operan
l'esercitazione. E quello che diciamo d'un fab te, non è altro che cavare la cosa della potenza
bro, diciamo de legnajuoli e di tutti gli altri all'atto, che in somma non vuol significare al
esercizi parimente, perchè in tutte può non solo tro, se non che chiunque fa qualche cosa, non
operare meglio uno che un altro, ma immagi fa altro, che cavarla dall'essere potenziale e ri
nare ancora. Ma quello è solo vero maestro durla all'essere reale. Onde quell'Arabo (di
che può perfettamente mettere in opera colle cui mai non dirò tanto, che non mi paja aver
mani quello che egli s'è perfettamente imma detto poco) diceva con diverse parole, ma nel
ginato col cervello. La quale sentenza tratta medesimo sentimento che il maestro: Ab agente
del mezzo della più vera e più profonda dot nihil provenit, nisi extrahere illud, quod est in
trina d'Aristotele, non si può bene intendere, potentia ad actum; cioè: D'uno agente non viene
se non sappiamo prima che gli esseri, per dir altro, se non cavare quello che è in potenza e
così, sono duoi, o volemo dir piuttosto che condurlo all'atto. Non è dunque altro generare
SULLA PITTURA E SCULTURA Io3
o fare alcuna cosa che cavarla dall'essere po E nella medesima Cantica al Canto trente
tenziale e darle l'attuale esistenza, ovvero l'es simo:
sere reale. E però diceva il medesimo filosofo, Come all'ultimo suo ciascuno Artista.
ed il medesimo Commentatore: Agens extra
hens aliquid de potentia ad actum, non largitur E più chiaramente ancora, donde potemo cre
multitudinem, sed perfectionem : cioè: L'agente dere che lo cavasse il Poeta, nel tredicesimo:
cavando alcuna cosa dalla potenza all'atto, non
Ma la natura la dà sempre scema,
le dona moltitudine ma perfezione. Il che non Similemente operando all'Artista,
vuole altro significare se non che chi fa alcuna C ha l'abito dell' arte, e man che trema.
cosa, non le dà nulla del suo che non vi fosse
È dunque artista vocabolo non latino ma to
prima, ma riduce a perfezione quello che v'era
prima imperfetto; perciocchè la potenza, ov scano, e molto più che non è artefice, il quale
vero essere potenziale, è cosa imperfetta: e l'at è latino, ed è meno volgare e plebeo, che non
to, ovvero essere attuale e reale, è cosa perfetta. è artigiano. Ma al Petrarca, il quale fu così
Raccogliamo dunque e diciamo, che fare al schifo e così mondo poeta, e di tanto purgate
cuna cosa non è altro che cavarla di quel luogo orecchie, non gliene piacque nessuno, e nessu
e materia, dove ella era in potenza e ridurla no volle usarne, nel suo candidissimo poema,
all'atto, cioè trarla dall'essere potenziale, il ma si servi, come si dee fare, della circonlo
quale è imperfetto, e darle l'essere reale, il cuzione, dicendo ora:
quale è perfetto, come si vedrà ancora più Era 'l giorno, ch'al Sol si scoloraro
chiaramente nella sposizione particolare. L'or Per la pietà del suo Fattore i rai (1).
dine della quale mi par questo. Ed ora:
L'ottimo artista: cioè uno scultore. – Non
ha alcun concetto: non s'immagina, nè può Quel ch' infinita provvidenza, ed arte
fingersi cosa nella fantasia. – Che il qual con
Mostrò nel suo mirabil magistero (2).
cetto, e la qual cosa da lui immaginata.– Un
marmo solo: perchè i marmi sono ordinaria Ed ora altramente,
mente il subbietto degli scultori, onde i Lati Ottimo. Questa parola ha due sentimenta in
ni li chiamavano propiamente Marmorari, e questo luogo secondo che si può riferire a due
quelli che facevano le figure di bronzo Sta
tuari. -Non circoscriva in sè: non serri, non cose, perciocchè potemo intendere, che egli
contenga, non racchiuda dentro di lui. – Col faccia la comparazione dalla scultura a tutte
l'altre arti. E così chiamò lo scultore ottimo
suo soperchio: colla sua superficie, o con quello di tutti gli artisti, intendendo, e volendo si
che gli avanza, e v'è sopra più. E così in fin
qui ha detto, che d'un marmo solo si possono gnificare, che la scultura sia la migliore e più
nobile arte, che niuna dell'altre. Possiamo an
cavare tutte le figure, e nel più perfetto mo cora riferirla agli scultori soli, e dire, l' otti
do, che se le possa immaginare qualunque mae mo artista, cioè uno ottimo scultore che sia
stro. Ora seguita, che sebbene si possono ca eccellentissimo nell'arte. E nell'uno e l'altro
vare, non le cava però, se non chi ha l'arte,
e la pratica, dicendo:-E solo: ma solamente – senso in quanto a questo luogo torna bene, ed
è verissimo, e qui non fa differenza nessuna,
Arriva: aggiugne. – A quello : a quel concetto nè è di niuna importanza. Ma sarebbe bene di
bello, che s'ha immaginato lo scultore. – La
man: quella mano. – Che obbedisce all'intel grandissimo momento il primo in quanto alla
quistione che intendiamo di fare, piacendo a
letto: la quale sa sprimere, e mettere in opera Dio, ed al Consolo nostro, nel fine di que
quello che aveva conceputo, e s'era immagi sta lezione, perchè se avesse voluto significare
nato l' intelletto.
che lo scultore fosse il più nobile degli arti
Artista. Credono alcuni che questa parola per sti, io per me non cercarei più oltra, e senza
lo non ritrovarsi appresso il Petrarca, ed es
sere in uso fra gli studianti moderni, che usa fare altramente cotale quistione, m'acquetarei
a sì gran giudizio, e me ne terrei pago e con
no di chiamare artisti quelli che vacano al tento: ma di questo nel luogo suo.
l'arti, cioè, alla filosofia e medicina, a diffe
Concetto. Questo vocabolo, il quale è non
renza di quelli che danno opera alle leggi, men bello che generale, significa appresso i
sia più tosto voce latina, che toscana, e Toscani quello, che appresso i Greci, iºga,
massimamente dicendo noi volgarmente non
ed i Latini, notio. La qual significazione affine
artista, ma artefice, o artigiano. I quali, quan che meglio s'intenda, dovemo sapere, che niu
tº s'ingannano, mostra Dante in più luo
ghi; del qual si vede, che il nostro Poeta è no non può nè fare, nè dire cosa nessuna, la
stato studiosissimo, e come me versi l' ha se quale egli non s” abbia prima conceputa, ov
vero concetta nella mente, cioè immaginata
guitato ed imitato, così nello scolpire e dipi
gnere ha giostrato e combattuto seco, e forse nella fantasia; onde tutto quello che noi ci
fatto a lui alcuna volta, come si legge, che avemo prima pensato di volere, o dire, o fare,
si chiama concetto. Per lo che, come degli
fece Apelle ad Omero. Disse dunque Dante uomini, o ingegnosi, o buoni sogliamo dire, che
nel diciottesimo Canto del Paradiso;
hanno begli concetti, o buoni, o alti, o grandi,
Qual era tra i Cantor del Ciclo Artista.
(1) Son. III, Parte I.
(2) Sou. I V, Parte l.
1 o4 LEZIONI

cioè bei pensieri, ingegnose fantasie, divine in artiſiziale, la quale è nell'anima, cioè nella
venzioni, ovvero trovati, e più volgarmente fantasia dell'artista, la qual forma, ovvero mo
capricci, ghiribizzi, ed altri cotali nomi bassi dello è principio fattivo della forma artificiale
e plebei: così per lo contrario diciamo de'rei della materia. E poco di sotto disse: che la
e goffi, brutte immaginazioni, sciocche inven sanità dell'infermo si fa da quella cosa imma
zioni, cattive fantasie, deboli pensamenti: ed teriale, che è nella mente, cioè nell'immagi
altri nomi cotali, onde il Petrarca favellando nazione dell' architetto. E così il primo prin
del Pittore, che ritrasse la sua Madonna Lau cipio, o vogliamo dire la cagione efficiente di
ra (1) disse: tutte le cose, che si dicono e che si fanno, è
Quando giunse a Simon l'alto concetto,
quella spezie o forma, o immagine, o sembian
za, o idea, o esempio, o esemplare, o simili
Ch'a mio nome gli pose in man lo stile (2). tudine, o intenzione, o concetto, o modello, o
Ed il Molza medesimamente in quelle dottis altramente, che si possa o debba dire, come
sime stanze sopra il ritratto di Donna Giulia sarebbe simulacro, o fantasma, la quale è nella
disse (3): virtù fantastica, o vogliamo dire nella potenza
Tien pur gli occhi come Aquila in quel Sole, immaginativa di colui che vuole, o farle, o
dirle.
Nè cercare altra aita al gran concetto.
Circonscriva. Circonscrivere significa propia
E Dante volendo significare: Io mi sono im mente nella nostra lingua, quello, che egli si
maginato, ed ho appreso e conosciuto la fan gnifica nella latina, dalla quale è tratto, cioè
tasia ed il desiderio e voler tuo, dissc (4): circondare, serrare e chiudere. Onde circon
Lascia parlare a me; ch'io ho concetto scritta si chiama una cosa quando è chiusa e
Ciò che tu vuoi; ch'e' sarebbero schivi, circondata d' ogn'intorno, ed in somma con
Perch'ei fur Greci, forse del tuo detto. tenuta da un'altra, come è contenuto lo spa
In questo luogo si piglia concetto dal nostro zio d'un cerchio da quella linea che lo cir
conscrive, cioè lo circonda e serra intorno, la
Poeta per quello, che dicemmo di sopra chia
marsi da Greci tèsa, da Latini exemplar, da quale per questo si chiama circonferenza. E
noi modello, cioè per quella forma o imma perchè tutte le cose circonscritte hanno neces
gine detta da alcuni intenzione, che avemo sariamente termine, e sono finite, però Dante
volendo mostrare l'infinità di Dio, e che egli
dentro nella fantasia di tutto quello, che in non era in luogo nessuno particolarmente,
tendiamo di volere o fare, o dire. La quale cantò :
sebbene è spiritale, onde non pare che possa
operare cosa alcuna a chi non intende, è però O Padre nostro, che ne Cieli stai,
cagione efficiente di tutto quello che si dice, Non circonscritto (1),
o fa, onde diceva il Filosofo nel settimo libro
della prima Filosofia: – Forma agens respectu
e quello che segue. Ed altrove usando pro
piamente la significazione di questo verbo, disse:
lectiest in anima artificis: cioè: Quando si fa
un letto (ed il medesimo dovemo intendere di Quasi rubin che oro circonscrive (2).
tutte le cose artificiali) la cagione agente è E sebbene non fu usato questo verbo, che io
quella forma che è nell'anima dell'artista, cioè ora mi ricordi, dal nostro Petrarca, fu usato
il modello. Ed il suo dottissimo Commentatore
però dal Petrarca Viniziano nella sua Canzone
volendo diffinire, che cosa fosse arte, disse: – maggiore, quando disse nella fine, recitatavi
Ars nihil aliud est, quam forma rei artificialis, da me, oggi sono otto giorni, in questo luogo
existens in anima artificis, quae est principium medesimo, ma a diversissimo proposito:
.factivum formae artificialis in materia; cioè: Af
ſine che ognuno possa intendere, ed intenda Tu, Re del Ciel, cui nulla circonscrive.
quanto intese questo Poeta in questi quattro Significa dunque in questo luogo circonscrive
versi di questa prima parte, l'arte non è al propiamente serra, chiude, circonda, ed in som
tro che la forma, cioè il modello della cosa ma contiene, ed ha in sè. E così l'usò questo
medesimo Poeta in quel sonetto, che comincia;
(1) Il pittore di Madonna Laura fu Simone Memmi, ami Ogni van chiuso, ogni coperto loco -

cissimo del Petrarca, che lo celebrò con due sonetti, un dei Quantunque ogni materia circonscrive.
quali è quello citato qui dal Varchi. Era egli da Siena, e il
Vasari afferma che fu scolare di Giotto: i Sanesi il vogliono Ma bisogna avvertire molto bene che quando
invece scolare del loro Mino. Opero in Siena, in Pisa, in noi diciamo una cosa essere in un' altra, noi
iFirenze, in Roma e in Avignone, dove morì nel 1344. Il non intendiamo che ella vi sia, come diceva
famoso codice di Virgilio col commento di Servio, posseduto Anassagora, il quale pose l'omeomeria. La qual
già dal Petrarca, che si conserva qui in Milano nell'Ambro parola, dice Lucrezio, che la povertà della lin
siana, ha ucl frontispizio una bella miniatura di Simone, sotto
la quale leggonsi due versi del Petrarca. (M.) gua latina, non poteva sprimere; e significa la
(2) Son. L, Parte I. somiglianza delle parti, perchè voleva, che tutte
(3) Queste stanze vanno fra le più lodate poesie del Molza. le cose fossero in tutte le cose, e che delle par
La Donna Giulia di cui celebrano il ritratto, è quella Giulia ticelle d' ossa picciole nascessero l'ossa, e così
Gonzaga, cosi famosa per ingegno e per beltà, che visse in del sangue e di tutte l'altre cose. La quale
tanta dimestichezza col Cardinale Ippolito de' Medici. Il P.
Aſfo ne scrisse una bella vita. (M.) (1) Purg., Canto XI.
(4) inf., Canto XXVI. (2) Paradiso, Canto XXX.
SULLA PITTURA E SCULTURA Io5

opinione è recitata leggiadrissimamente da Lu Ed altrove: -

crezio nel primo libro e confutata gagliardissi


mamente da Aristotile nella Fisica. Nè intcn Versi d'Amore, e prose di romanzi
diamo ancora che elle vi siano, come si vede Soverchiò tutti, e lascia dir gli stolti,
talvolta essere un viso o altra figura fatta dalla Che quel di Lcmosì credon che avanzi (1).
natura in un marmo, come si può vedere nel È ben vero, che pare posto in questo luogo in
S. Giovanni di Pisa ed in Padova cd altrove;
vcce di superficie o volemo dire coverchio, cioè
c Plinio racconta, che nel fendere un marmo in sentenza colla sua circonferenza: nondimeno
vi si trovò dentro un viso di Sileno. Ma inten
pensando io, quanto sia profondo l'intelletto
diamo in quel modo che avemo dichiarato di di questo uomo, poichè uomo è, e come con
sopra e che dichiarò Aristotile tante volte e venga con Aristotile e con Dante, giudico, che
massimamente nel quinto della Metafisica, quan egli l'abbia usato propiamente e voglia inſe
do disse: – In lapide est forma Mercurii in rire quello stesso, che dice il Filosofo nella
potentia. Fisica. Il che a fine che meglio s'intenda, di
Col suo soperchio. Quello che i Latini dicono remo che tutte le cose che si fanno artifizia
superfluum, supervacuum e supervacaneum con tamente, si fanno in uno di questi cinque modi:
nome aggettivo, è detto medesimamente da noi o col mutare e trasfigurare una cosa in un'al
aggettivamente soverchio, come nel Madrigale tra, come quando del bronzo si fa una statua:
che comincia: – Esser non può giammai che gli o coll'aggiugnere e mettere insieme quello che
occhi santi (1), disse questo medesimo Autore: era sparso e disgiunto della medesima spezie,
L'infinita beltà, il soverchio lume. come si farebbe un monte di sassi o d'altro:

E nel fine di quell'altro, che comincia: – Nulla o col ragunare e porre insieme cose di diverse
già valsi: spezie, come quando si fa una casa: o mediante
alcuna alterazione per mezzo d'alcuna delle
Ben può veder tua grazia e tua mercede, qualità attive, come quando del loto si fanno
Chi per soperchia luce te non vede. i mattoni e della farina il pane: o col togliere
E come essi ne fanno un sostantivo, come quan e levar via delle parti, come si fa, dice il Fi
do Orazio disse: losofo, d'un marmo, Mercurio. Volendo dunque
il nostro Poeta, o piuttosto Filosofo, dimostrare
Omnesupervacuum pleno de pectore manat: che il propio della Scultura era di fare per le
così diciamo ancora noi sostantivamente il so vamento di parti, come aveva detto Aristotile,
verchio. E significa propiamente quello, che disse col suo soperchio, cioè con quello che
avanza, abbonda ed è di più; onde usiamo avanza, che sono quelle parti che, lavorando, si
volgarmente un tal proverbio tratto per ven levano e se ne vanno in iscaglie.
tura da questo verso: Il soperchio rompe il Arriva. Questo verbo è propio toscano; e co
coperchio. E se non l'usò il Petrarca, l'usò me ne dimostra la sua composizione dal nome
Dante in questo prºpio significato, che pone riva, e la proposizione a, non significa altro,
qui l'autore, dicendo in quella miracolosissima che giugnere a riva: ma si piglia largamente
trasformazione: per giugnere e pervenire a checchessia, onde
Ciò che non corse indietro e si ritenne disse il Petrarca:

Di quel soverchio, fe” naso alla faccia (2). Si ch'alla morte in un punto s'arriva (2).
Dissc anco altrove :
E questo medesimo Poeta disse in un altro dei
Mentre che del salire avem soverchio (3). suoi gravissimi sonetti:
Ed altrove:
Ben posson gli occhi ancor, ch' io sia lontano
Non far sovra la pegola soverchio (4). Da te, Donna, arrivare al tuo bel volto (3).
TEd il medesimo usò il verbo soverchiare, cioè La mano che obbedisce all'intelletto. In due
vincere e soprastare di molto, quando disse: modi e per due cagioni non obbedisce la mano
Ma siccome carbon, che fiamma rende, all'intelletto, o perchè non è esercitata e non
E per vivo candor quella soverchia, ha pratica, e questo è difetto del maestro; o
Sì che la sua parvenza si difende (5). perchè è impedita da qualche accidente, co
me disse Dante:
(1) Nè questo, nè il susseguente Madrigale – Nulla già
valsi, nè altri Madrigali e Sonetti, che verremo notando più
sotto, si trovano nella raccolta delle Rime di Michelangiolo. Con (1) Purgatorio, Canto XXVI.
vien dunque credere, che siffatti componimenti, noti al Varchi, (2) Sest. II, Parte I.
si siano in progresso smarriti. Mi fa gran meraviglia che ciò non (3) L'edizione del Manni fatta in gran parte sull'edizione di
sia stato avvertito da Domenico Maria Manni, il quale all'edi Michelangiolo Buonarroti ilGiovane venuta in luce nel 1612, ha:
zione, che delle Rime del Buonarroti pubblicò nel 1726, aggiunse
questa Lezione del Varchi. E già non occorre dire che non ve Ben posson gli occhi miei presso e lontano
ne ha parola nelle edizioni posteriori, tutte eseguite su quella Veder come risplende il tuo bel volto.
del Manni. ) In una nota riferisce il Manni la lezione del Varchi; indi la
(2) Inferno, Canto XXV. seguente di un codice Vaticano:
(3) Purgatorio, Canto XXII.
(4) Inferno, Canto XXI. Ben posson gli occhi miei presso e lontano
(5) Paradiso, Canto XIV. Vede, dove apparisce il tuo bel volto. (M.)
VAR CIil i4
to6 -
LEZIONI

Ma la natura la dà sempre scema maginazione, ovvero fantasia, della quale ave


Similemente operando all'artista, mo ragionato più volte, la quale non solamente
Chi ha l'abito dell'arte, e man che trema (1). è differente dall' intelletto, ma diversa, essendo
E questo è difetto della fortuna o d'altri, che del quello immortale appresso i più veri filosofi, e
questa appresso tutti e senza alcun dubbio mor
maestro; ma in qual si voglia di questi duoi modi, compone, divide e finalmente
non si possono esercitare in modo che ben vada tale. E sebbene
come l'anima razionale, discorre però
discorre
l'arti manuali, perchè la mano è lo strumento non le cose universali, come quella, ma sola
dell'arti, come i sentimenti interiori sono gli mente le particolari. Nè si maravigli alcuno,
strumenti delle scienze; onde come chi avesse che il Poeta chiami questa potenza, la quale è
offesa o impedita l'immaginazione, o la memo uno dei sentimenti interiori, intelletto, perchè
ria, non potrebbe dirittamente filosofare, così non solamente tutti i poeti la chiamano con
chi avesse impedite o offese le mani, non può questo nome, come il Petrarca quando disse:
esercitare l'arti. Nè dovemo credere ancora,
che i maestri dell' arti, ancor che ottimi, met I nol posso ridir, chè nol comprendo ;
tano così bene in opera, come eglino immagi Da tai due lumi è l'intelletto offeso,
nano, perchè essendo le forme e immaginazioni E di tanta dolcezza oppresso e stanco (1).
immateriali sono molto più perfette, che non ed in molti altri luoghi; ma Aristotile mede
sono le forme artifiziate, che sono materiali.
simo. Onde dovemo sapere, che oltra l'intel
Ed il medesimo avviene nelle scienze, onde di letto agente, si ritrovano appresso Aristotile
ceva il Petrarca:
due intelletti, uno universale e questo si chia
ma da lui ora passibile ed ora materiale, ed è
P non porta giammai
Immaginar, non che narrar gli effetti quello che noi chiamiamo propiamente intel
Che nel mio cor gli occhi soavi fanno (2). letto, ovvero mente: ed uno particolare, il
quale si chiama passibile e questo non è altro,
Ed altrove: che la fantasia, ovvero immaginazione. E si
chiama intelletto passibile secondo Giovanni
Ch'io nol so ripensar, non che ridire, Gramatico, perchè come l'intelletto piglia tutto
Che nè lingua, nè 'ngegno al vero aggiunge (3). quello che egli intende dalla fantasia, così
Oltre che, come disse altrove questo nostro la fantasia piglia da sensi esteriori; o piuttosto,
Poeta in quel suo dottissimo Madrigale: perchè l'immaginativa serve sempre all'intel
letto o lo va imitando, perchè se l'intelletto in
Non ha l'abito intero tende, la fantasia intende: se egli discorre ed
Prima alcun, ch'a l'estremo ella discorre: se egli divide ed ella divide; nè
Dell' arte e della vita (4): vi è altra differenza se non quella, che s'è
detta di sopra, cioè che l'uno considera le
e quel che segue; benchè questo di lui non cose universali solamente e l'altra solamente
poteva dirsi, il quale ancora nella sua giovi le particolari. E di questo intelletto passibile,
nezza ebbe l'abito intero di tre arti nobilis
il quale come intendono gli esercitati non
sine.
distinguiamo in questo luogo dalla cogitativa,
All'intelletto. Questo nome intelletto signi pare che intendesse Aristotile nella fine del
fica più cose, come avemo dichiarato altrove, proemio della Fisica. E di questo potette in
ed è propiamente in noi quella parte più no tendere Dante, quando scrisse:
bile dell'anima per la quale noi intendiamo, e
si chiama molte volte mente. Ed in questo suo O voi ch'avete gli intelletti sani,
l" significato l'usò il Petrarca, quando Mirate la dottrina, che s'asconde
isse in quella divinissima comparazione: Sotto 'l velame degli versi strani (2).
Come Natura al ciel la Luna e 'l Sole Benchè si può attribuire propiamente ancora
All'aere i venti, alla terra erbe e fronde, al passibile, il quale imitando per avventura
All'uomo l'intelletto e le parole, questo Poeta, disse altrove:
Ed al mar ritogliesse i pesci, e l'onde (5). L'anima, l'intelletto intero e sano
E così là: Per gli occhi ascende più libero e sciolto
All'alta tua beltà, ma l'ardor molto
Con le quai del mortale Non dà tal privilegio al corpo umano.
Carcer nostro intelletto al Ciel si leva (6).
Ed in un altro sonetto, lodando la Notte,
disse:
Ma in questo luogo si piglia altramente, cioè
Per quella potenza o virtù che si chiama im Ben vede e ben intende chi t'esalta,
E chi t' onora ha l' intelletto intero.
(1) Paradiso, Canto XIII. -
E così avemo fornito la prima parte, nella
(2) Canz. VIII, Stanza V, Parte I. quale s'è veduto come tutte le forme artifi
(3) Son. CLXVI, Parte I. ziali che si possono immaginare e fare dagli
(4) Anche questo Madrigale nell'edizione del Manni non
si trova. (M.)
(5) Son. CLXIII, Parte I. (1) Son. CXLVI, Parte I.
(6) Canz. XVII 1, Stanza 1, Parte I. (2) Inferno, Canto l X.
SULLA PITTURA E SCULTURA 1 o7
artefici, sono in potenza nei loro subbietti; ma gnone; e come Raffaello da Montelupo (1), non
che a volernele cavare, bisogna avere la mano fece il marmo onde egli cavò il S. Cosimo, ma
che ubbidisca e corrisponda all'intelletto, per tutto il composto. E queste sono le parole del
chè altramente non solo non si fa quello che grande Averrois, cavate però, come quasi tutte
l'uomo s'è immaginato, ma tutto il contrario. l'altre, dal suo maestro, parlando dell' arteſi
E perchè in questo esempio consiste tutta la ce: Non facit aliquod uno, verbi gratia, formam
difficoltà della presente materia, potrebbe al in subjecto, quoniam manifestum est quod si fa
cuno dubitare e dimandarmi che cosa sieno cit, facit ex alio aliud, non aliud in alio, facit
queste forme artifiziali, e come si generino, il enim ex materia formatum, non in materia formam.
qual dubbio è non meno piacevole ad inten E per conchiudere qualche volta questa materia
dere che malagevole a solvere. Bisogna dunque e fornire questa prima parte, diciamo, come di
sapere che una delle principali cagioni che in sopra, che chiunque fa qualunque cosa, non fa
ducesse Platone a porre le idee, fu il non ve altro secondo i Peripatetici che trarla dall'essere
dere d'onde, e come s'introducessero le forme potenziale e ridurla all'attuale; al che fare non
nelle cose; benchè egli non poneva le idee ha bisogno, nè delle idee di Platone, nè del
delle cose artifiziali, la cui opinione riprova Ari demone d'Avicenna, cioè del datore delle for
stotile lungamente nel settimo della Metafisica, me. Ed a questa opinione pare che avesse ac
Avicenna poi non gli piacendo le idee, finse cennamento il gran filosofo de' poeti latini,
una intelligenza, la quale, come avemo dichia quando disse nel sesto della sua divina Eneide:
rato altrove, chiamò la datrice delle forme, la Cerca una parte della fiamma i semi,
quale opinione fu riprovata per le cagioni che Dentro le vene della selce ascosi (2).
dicemmo allora e non si può al presente, nè
è necessario dichiarare ogni cosa. Basta che Conforme a quello che aveva detto nella Gcor
l'opinione d'Aristotile è, come si vede spres gica:
samente nell'ottavo capitolo del settimo della Et silicis venis abstrusum excuderet ignem :
Sapienza, che quello che si genera dalla na volendo mostrare che la forma del fuoco è in
tura, o si fa dall'arte non è nè la forma sola, potenza nelle pietre focaie, come n'avvertì il
nè sola la materia: ma tutto il composto in gran filosofo M. Marcantonio Zimara nei suoi
sieme, di maniera che se uno dimandasse che dottissimi Teoremi, a cui molto debbono tutti
è quello che ha fatto uno statuario, quando gli studiosi della buona filosofia, essendo egli
d'una massa di bronzo ha gittato, ad esempio, stato tra i primi che, lasciate le troppe sotti
un Perseo; dovemo rispondere, che come egli gliezze e sofisticherie de'Latini, seguitasse gli
non ha fatto il subbietto, ovvero la materia autori greci e preponesse la verità a tutti gli
cioè il bronzo, così medesimamente non ha altri rispetti.
fatto la forma del Perseo, ma tutto il compo
sto, cioè la materia, e la forma insieme ed in
Il mal, ch'io fuggo, e 'l ben ch'io mi prometto,
somma il Perseo, nel quale si contiene ed il In te, Donna leggiadra, altera, e diva,
bronzo che è la materia, e quello che lo fa Tal si nastonde, e perch'io più non viva,
essere piuttosto Perseo che S. Giorgio, o Giu Contraria ho l'arte al disiato effetto.
ditta o un'altra statua, cioè la forma; non al
tramente che nelle generazioni naturali, dove
le forme sono sostanziali, l'uomo non è nè la In questa seconda parte il Poeta alla sua
forma sola, cioè l'anima, nè la materia sola, donna volgendosi, accomoda l'esempio posto
cioè il corpo, ma l'anima ed il corpo insieme, disopra al proponimento suo, dicendo: Come
in un marmo solo si nascondono tutte le fat
cioè tutto il composto della forma e della ma
teria. Onde non possiamo dire che il Tribo tezze che si possono dare a una figura e belle
e non belle, ma chi ha l'arte, ne trae le bel
lo (1), per atto d'esempio, facesse la forma le, chi non l'ha ne cava le brutte; così in voi
d'Arno e di Mugnone in quelle pietre che si è tutto il male, che io non vorrei, e tutto il
veggiono nel giardino di Castello: che questo
sarebbe falsissimo, perchè la forma non si ge bene che io cerco, ma io per mio danno e morte
nera, se non per accidente alla generazione non ho l'arte buona da sapernc cavare il be
del composto; altravmente s'andrebbe in inſi
mito, come intendono i filosofi. Possiamo ben (1) Raffaello da Montelupo fu figliuolo di Baccio da Mon
dire che egli fece di quelle pietre Arno e Mu telupo, valente scultore. Giovinetto, attese a lavorare di cera,
di terra e di bronzo, e tanto s'avanzò nell'arte, che venne alla
notizia di Michalangelo, il quale si servi di lui in molte opere.
Stette lungo tempo in Roma, in Firenze, ed in Lucca: poi,
(1) Nicolò detto il Tribolo, scultore ed architetto, nacque datosi, come dice il Vasari, a una certa cita piuttosto da filo
in Firenze nel 15oo, di Raffaello legnaiuolo soprannominato sofo che da scultore, rimulossi ad Orvieto, dove innanzi tempo
il Riccio de' Pericoli. Fanciullo, egli aveva tale inquietezza invecchiò.– Vedi il Vasari pag. 3o6 e seg. della nostra edi
indosso, che, fra suoi coetanei e nella scuola e fuori, come zione. - -
(M.) -
narra il Vasari, era un diavolo, che sempre travagliara e tri (2) Questi denno esser versi del Varchi. Virgilio dice: -
bolava sè e gli altri, onde s'acquistò il nome di Tribolo.
Stette qualche tempo con Michelangiolo, e visse in molta di - - - - quarri pars semina fiamma
mestichezza col Vasari, e con quel cervello balzano di Ben Abstrusa in cenis silicis.
venuto Cellini. Cosimo I gli allogò varie opere nella sua villa
di Castello, dove egli condusse fra l'altre con molto amore
Il Caro con quella sua sbadata infedeltà, che così spesso fa
le statue qui accennate dal Varchi – Vedi il Vasari pag. 429 velo agli splendidi pregi della sua versione, traduce:
e seg. della nostra edizione. (M.) Chi qua, chi là si dicio a picchiarselci. (M.)
1 o8 LEZIONI
me, ma la contraria, e però ne traggo il male. apparisce e non si vede egualmente in una cosa
L'ordine è questo. – Tal: cioè talmente, il bella il bene e il male; che se così fosse, ce
nome per l'avverbio – O donna leggiadra, al ne potremmo meglio guardare: ma appare e si
tera e diva : lode e onori che si danno dagli mostra fuori la bellezza sola che ne promette
amanti alle cose amate, non tanto per acqui pace e diletto, sebbene poi le più volte riesce
starne benevolenza, come fanno gli oratori, quan per difetto nostro il contrario. E però disse
to perchè così paiono, se pure non sono, agli veramente il Petrarca, maestro di tutti gli
innamorati. – Il mal ch'io fuggo: cioè quelle amori ed amorosi accidenti per lunghissima
pene e dolori che io sento in amando, e cerco prova:
di fuggire perchè naturalmente fuggiamo tutti
tutte quelle cose, le quali o sono dannose e Ed altri, col disio folle, che spera
Gioir forse nel foco, perchè splende,
nocive, o ci paiono tali: e la cagione è, perchè Provan l'altra virtù, quella che 'ncende.
ciascuno ama principalmente sè stesso, e quinci
fa ogni opera di conservarsi quanto può il più, Lassol'l mio loco è 'n questa ultima schiera (1).
fuggendo quello che l'attrista, e quello che gli E perchè sempre tutti gli amori sono nel prin
diletta seguendo – E 'l ben ch'io mi prometto: cipio felici, o pajono cotali, però disse il me
Tutto quello che si dice e si fa, si fa e si desimo:
dice sotto speranza o d'acquistare qualche be Felice agnello alla penosa mandra
me, o di fuggire qualche male, ed il fuggire Mi giacqui un tempo, ora all'estremo famme
alcun male è una spezie di bene, onde chiun E Fortuna ed Amor pur come suole (2).
que s'innamora, si promette gioia e contento,
sperando di dover conseguire l'intendimento In te: Avvengadiochè l'uso della lingua to
c desiderio suo qualunque egli sia. E può tanto scana e del favellare nostro, come ne testi
questa speranza, la quale, come si dice volgar monia ancora Dante nel Paradiso, dia del voi,
mente, è sempre verde, che senza essa non come si dice volgarmente, ancora ad un solo
può alcuno ne innamorarsi, nè seguitare nel (il che la lingua latina, come cosa discordante,
l'amore, ancora che il Petrarca dicesse: non sostiene), non è però che non usi ancora
E vivo del disio fuor di speranza (1). il numero del meno molte volte; anzi pare che
porte seco maggiore grandezza e dignità, onde
Diva. Non poteva aggiugnere dopo leggiadra favellando a Dio o a Principi grandi usiamo
ed altera epiteto maggiore, nè più degno; per il numero singolare. E però disse Dante:
ciocchè questa voce, la quale noi avemo tolta
da Latini, come essi la trassero da Greci, si O Padre nostro, che ne Cicli stai (3).
gnifica propiamente quelli o quelle, i quali, Ed altrove:
nati uomini, hanno poi meritato per lo valore
loro e virtù d'essere stati fatti e chiamati dagli E se lecito m'è, o sommo Giove,
antichi poeti, dii; onde quello che noi dicia Che fosti in terra per noi crocifisso,
motoscanamente santo, si dice da Latini Divas. Son gli occhi giusti tuoi rivolti altrove (4)
Nè deve alcuno maravigliarsi, non che ripren Ed il Petrarca medesimamente fece il somi
adere il poeta d'avere così chiamata la donna gliante, come si vede in tutto il sonetto:
sua, perchè tutti gli amanti, ancora che nobi
lissimi, tengono le cose amate, ancora che fos Padre del Ciel, dopo i perduti giorni (5).
sero ignobilissime, e le onorano come dii; ne E come Dante aveva detto all'imperadore Fe
questo fanno senza cagione; conciossiachè cia derigo:
scuno dice della sua quello che disse il più Vieni a veder la tua Roma, che piagne (6);
ieggiadro Toscano di Laura :
Perch' ogni mia fortuna, ogni mia sorte, così disse il Petrarca a quel Tribnno, che, preso
Mio ben, mio male, e mia vita, e mia morte il Campidoglio, s'era insignorito di Roma:
Quei che solo il può far le ha posto in mano (2). Tu marito, tu padre
F sebbene il primo Petrarca non pare che Ogni soccorso di tua man s'attende (7).
usasse mai la voce diva, se non sostantiva E così ha fatto in questo luogo questo Poeta
mente: tuttavia il Petrarca secondo la pose dicendo in te, e non in voi; oltra che s'usa
aggettiva, cone ha fatto in questo luogo il ancora il primo numero con gli amici per mag
poeta nostro, quando disse nella canzone grande giore famigliarità; come quando il Petrarca
allegata di sopra da noi: disse:
Manda alcun delle schiere elette e dive.

Si nasconde: cioè sono in potenza, come si (1) son. XV, Parte 1.


nascondono in ciascun marmo tutte le figure; (2) Canz. XVI, Stanza IV, Parte I.
(3) Purgatorio, Canto XI.
quasi che voglia dichiarare quella parola cir (4) Purgatorio, Canto VI.
conscriva, che aveva posta di sopra. E forse (5) Son. XL, Parte I.
ancora disse si nasconde per dinotare che non (6) Purgatorio, Canto VI.
(7) Cauz. ll, Parte IV. – E intende parlare il Varchi
dell'illustre e infelice Cola di Rienzo, a cui il Petrarca in
(1) Canz. VIII, Stanza V1 Parte 1. dirisse questa robusta canzone, pregandolo di restituire a Ro
C2) Sun. CXVI il Pate 1. sia l'antica sua liberta. (M)
SULLA PITTURA E SCULTURA to9
Sennuccio mio, benchè doglioso e solo quella, quando alcuno non sa alcuna cosa, ma
M'abbi lasciato, i pur mi riconforto (1). non fa anco professione di saperla; onde a un
Il che si vede ancora nelle prose. Ed alcuna soldato, tutto che non sappia dipingere, nè scol
pire, si può ben dire ch'egli non sappia l'arte
volta potemo pensare che si faccia per l'uni della scultura o pittura, ma non già che egli
cosa e per l'altra, come quando il Bembo dis sia ignorante, o indotto pittore o scultore. Dice
se, favellando al Duca d'Urbino, per quanto
stimo: dunque il nostro Poeta, che non solo non ha
l'arte buona da saper trarre dalla sua donna
Felice Imperador, ch'avanzi gli anni leggiadra, altera e diva quel bene che è in lei
Colla virtute. nascoso, e che egli s'era promesso; ma ha quel
l'abito contrario dell'arte, che potremo chia
E questo modo è molto usato dal Poeta nostro mare arte cattiva, o piuttosto arte contraria,
come si può vedere in tutte le sue composi come dice egli stesso, col quale ne trae quel
zioni, come nel sonetto: male che egli non vorrebbe.
Te sola del mio mal contenta veggio (2). Al disiato effetto: cioè a quello che io vor
rei, e desidero di fare, perchè tutte le cose
Ed in quell'altro: che si sanno, si sanno a qualche ſine e ciascun
Sol perchè tue bellezze al mondo sieno. fine è buono, perchè, come avemo detto, tante
volte fine e bcne si convertono, ovvero rivol
E nel Madrigale :
gono, cioè sono una cosa medesima essenzial
Come non puoi non esser cosa bella. mente; perchè come ciò che è fine, è bene,
cosi ciò che è bene, è fine: onde l'effetto di
La qual cosa viene da cuore libero e senza tutte le cose, o è buono veramente, o almeno
nessuna adulazione o piaggiamento, come tra'
buoni si debbe fare. pare buono a chi lo desidera. E per questo cia
scuno che non consegue quell'effetto e fine
E perch'io più non viva: a fine che il do che egli s'era proposto, s'affligge e s'attrista; e
lore m'uccida; e ben si può morire del do
lore, e massimamente nelle passioni amorose,
molto più poi, se non solo non conseguisse il fine
ed effetto desiderato, ma il suo contrario, come
le quali trapassano quasi d'infinito spazio tutte avveniva al Poeta nostro. E la cagione è per
l'altre, non ostante che il Petrarca lasciasse
scritto: chè quanto ci arreca di gaudio il bene deside
rato, tanto ci apporta di tristezza, o il non po
L'ardente nodo ov'io fui, d'ora in ora ter conseguirlo, o l'esserne privati; e sempre
Cantando anni ventuno interi preso, quanto è maggiore il piacere, tanto è più spia
Morte disciolse, nè giammai tal peso cevole la privazione d'esso, oltra che ordina
Provai , nè credo ch'uom di dolor mora (3). riamente più ci dispiacciono i mali e più ci af
Contraria ho l'arte: come tutti gli abiti fat fliggono, che non ci dilettano i beni, e massi
tivi hanno alcun nome che gli sprime e de mamente quando ci vengono di quei luoghi o
nota la scienza loro, come Scultura, Architet da quelle persone, d'onde aspettavamo il con
tura, Pittura, e tutti gli altri, così avrebbero trario, come ne mostrò il Petrarca, dove disse
da avere ancora un nome che sprimesse l'abito nel sonetto: – Non dall' ispano Ibero all'indo
cattivo, cioè l'ignoranza di cotale arte: il quale Idaspe:
abito contrario i Greci chiamano felicissima Misero onde sperava esser felice (1).
mente Arexvia, cioè inarte, se potessimo dir Ho veduto scritto in alcuni sonetti non effetto,
così, ignoranza di cotale arte, la quale pare che
sia chiamata da Ciccrone inscilia. Ma non l'aven ma affetto, la quale scrittura, avvengachè si po
tesse salvare e difendere, nulla di meno sta
do, perchè molto più sono le cose che i vocaboli meglio effetto, e così è scritto in quello che ho
non sono, e tutte le lingue non possono espri io appresso me di mano propria dell'Autore
mere tutte le cose egualmente, non possiamo stesso; il che si può confermare non pure col
dire, verbi grazia, inarchitettore, iniscultore, l'autorità del Petrarca, quando cominciò quella
inpittore, cd altri nomi cotali, volendo signi maravigliosa Canzone delle lodi di Madonna
ficare il cattivo abito e l'ignoranza di quel Laura: -
tale in qual si voglia arte; ma diciamo in quella
vece, o cattivo, o goffo o indotto scultore, ar Tacer non posso, e temo non adopre
chitettore, dipintore, e così di tutte l'altre Contrario effetto la mia lingua al core (2);
arti. E qui dovemo notare che l'ignoranza è ma con quella dell'Autore propio, quasi in que
di due maniere; una chiamaremo positiva, e sta sentenza medesima, quando disse nel so
l'altra privativa. Ignoranza positiva è quella netto, che comincia: Sento d'un freddo aspetto
quando alcuno fa professione d'una qualche un foco aeceso:
cosa, e non la sa, o la sa malamente, come di
remo d'uno scultore, o pittore, o architettore Come esser può, signor, che d'un bel volto
goffo, indotto, ignorante. Ignoranza privativa è Ne porti il mio così contrari effetti?
E così avemo veduto in questa seconda parte
(1) Son. XIX, Parte II. che il Poeta medesimo confessa ingenuamente
(2) Nè questo, nè il seguente Sonetto non si trovano del
pari nell'edizione del Manni. (M.) (1) Son. CLVI, Parte I.
(3) Son. 111, Parte II, (2) Canz. IV, Stanza 1, Parte II.
i lo LEZIONI
che da lui stesso gli viene, e non da null'al Ma tempo è omai di venire alla terza ed ul
tro, che egli, essendo nella sua donna il bene tima parte.
ed il male parimente, non sa trarne per lo suo Amor dunque non ha, nè tua beltate,
contrario e cattivo abito, se non quello che
non vorrebbe, cioè il male: dove notaremo O durezza, o fortuna, o gran disdegno
Del mio mal colpa, o mio destino, o sorte,
che il male si pone in questo luogo per litor Se dentro del tuo cor morte e pietate
menti, dolori ed affanni che in amando si sen
tono, conciossiacosachè, come altra volta in
Porti in un tempo, e che'l mio basso ingegno,
Non sappia, ardendo, trarne altro che morte.
questo medesimo luogo fu da noi dichiarato,
il male non essendo altro che privazione del In questa terza ed ultima parte pone il no
bene non è natura nessuna, e non significa stro ingegnoso Poeta assai agevolmente la con
nulla positivamente, onde non ha cagione ef clusione di tutto il sonetto e della presente
fettiva. Il perchè chi dimandasse, che cosa è materia, dicendo, pure alla sua donna favel
il male e chi lo fa e cagiona, non potremmo lando: Dunque Amore non ha colpa del mio
rispondere altro, se non che egli è il contra male, nè la tua beltà o durezza, nè fortuna,
rio privativo del bene, e non ha nessuno che nè gran disdegno, nè mio destino o sorte; se,
lo faccia per farlo, ma solo per accidente. E cioè, poichè tu porti in un tempo medesimo
perchè mi ricorda che l'altra volta, che in sen morte, cioè il mio male, e pietade, cioè il mio
tenza dissi queste cose medesime, parte non bene dentro del tuo cuore. Altra volta dicem
fui inteso, parte fui ripreso; dico di nuovo, che mo, in che modo due contrari possano stare
il male non è nulla, e non ha nessuno che lo insieme negli amanti in un tempo medesimo;
faccia, come è chiarissimo appresso tutti, così benchè qui non occorre cotal dubbio, perchè
filosofi come teologi; conciossiachè tutte le pri i contrari spiritali e non reali, come si disse
vazioni, come ne dimostra lo stesso nome, non allora, ed i contrari in potenza come in que
sono natura nessuna, nè hanno causa efficiente. sto luogo, non s'impediscono, come è chiaris
Perlochè chi dimandasse che cosa è bujo, ov simo per sè medesimo. Seguitò in questo luogo
vero tenebre e chi lo fa, non potremmo ri Aristotile e non Platone, o Galeno. Perciocchè
spondere altro, se non che è privazione di il cuore, secondo i Peripatetici, è il primo e
lume, nè ha nessuno che lo faccia per farlo, principal membro, come s'è detto altre volte,
ma solo si fa per accidente, seguitando l'om e nel quale consistono tutte le perfezioni del
bra, ovvero il buio dal discostamento e rimo l'uomo; e tutte le virtù si partono da lui, non
vimento del Sole, mediante l'opposizione della altramente, che i rivi da un fonte, a tutte,
terra o altro impedimento. E questo, per av quante l'altre parti del corpo. Onde il Pe
ventura, volle significare dottissimamente Dante, trarca sebben nel suo secondo sonetto aveva,
quando chiamò il Sole: seguitando Galeno e Platone, posto la ragione
nel cervello, la pose ancora nella canzone: Sì
Quello ch'apporta mane e lascia sera (1). è debile il filo, nel cuore, dicendo:
E questo nostro medesimo Poeta non solo stu E 'l bel giovenil petto,
dioso, ma imitatore di Dante, disse: Torre d'alto intelletto (1).
In tal misero stato il vostro viso
Segue a dire: E poichè io non so col mio
basso ingegno trarne ardendo, cioè amandovi,
Ne presta, come 'l Sol, tenebre e luce. altro che morte. La qual sentenza in somma
E per essere meglio inteso, ed in cosa che non è altra che quella che si disse nel prin
cipio, cioè che in una donna, o altra cosa amata
parrà forse più strana a chi non intende, dico,
che la morte non essendo altro che la priva sono in potenza la vita e la morte dell'amante,
zione della vita, non è nulla propiamente, e cioè tutti i beni che si possono immaginare, e
tutti i mali. Ma chi ha l'arte ed è d' alto in
non avendo cagione effettiva, non ha nulla
che la faccia; e però si rise Aristotile d'Omc gegno, sa cavarne la vita: chi non l'ha ed è
ro, ch'aveva detto d'uno ch' era morto, lui di basso cuore, non sa, nè può trarne altro
aver conseguito il suo fine, come si dice tutto che la morte; ma qual sia quest'arte, e come,
il giorno che nasciamo per morire. Il che è o donde s'appari, ed in che modo debba eser
non men falso, che ridicolo; conciossiachè la citarsi, non dice il Poeta spressamente; ma,
morte non è intesa, nè voluta dalla natura, la bastandogli d'averla accennata, e quasi mostra
col dito, lascia ai lettori che ne cerchino da
quale non intende, nè vuole cosa alcuna, se
non buona, e tutte le privazioni sono cattive. loro stessi, come debbono fare i poeti buoni,
Non è dunque la natura della morte, ma se perchè dichiarare simili dubbi più lungarnente
guita sì dalla necessità della materia, quale, de o più chiaramente s'appartiene al filosofo. E
siderando sempre forma nuova, non può du da questo sonetto potremo intendere moltissi
rare lungamente in una, e sì per la contra mi luoghi così del Petrarca, come d'altri poeti di
rietà che si ritrova in tutte le cose composte, tutte le lingue, i quali hanno dato la colpa delle
le quali combattendo sempre insieme, è neces loro passioni e sventure amorose a diverse ca
gioni, senza renderne altra ragione. Se non che
sario che qualche volta vincano l'una l'altra,
e così si risolvano. questa materia fu trattata da noi lungamente

(1) Paradiso, Canto XXVII. (1) Canz. III, Stanza VII, Parte I.
SULLA PITTURA E SCULTURA lº
nella sposizione del sonetto: Occhi miei lassi(1); Gl'ingordi miei nemici, anzi occhi miei.
ove mostrammo che il Petrarca dà la colpa Nè doler mi potrei
degli affanni e disgrazie sue non pure a que Di questo sol poter, che non è teco
ste sei ovver sette cose che racconta in questo Bellezza e grazia egualmente infinita,
luogo il Poeta, cioè amore, beltade, durezza, Dove più. porge aita
fortuna, disdegno, destino o sorte, ma ancora Men puoi non tor la vita,
a dell'altre. E questo medesimo Poeta fa il Ne puoi non far chiunque miri cieco.
medesimo che gli altri nell'altre sue composi E similmente in quell'altro, del quale è il
zioni, seguitando alcuna volta l'uso comune, e
non la propria verità, come in tutto quel vago principio questo:
e dolce Madrigaletto: Se ben talor tua gran pietà m'assale,
Non mi posso tener, nè voglio, Amore, Non men che tua durezza curo o temo,
Crescendo il tuo furore, Chè l'uno e l'altro stremo
Ch'io non tel dica e giuri: E ne colpi d'Amor piaga mortale.
Quanto più inaspri e 'nduri, Ed il somigliante nella fine del sonetto, che
A più virtù l'alma consigli e sproni: comincia: Non so se d'altro stral giammai s'av
E se talor perdoni viene s dove dice nel dodicesimo verso:
Alla mia morte, a gli angosciosi pianti,
Come a colui che muore, Ma mia fortuna vinse il suo costume.
Dentro mi sento il core E nel madrigale:
Mancar, mancando i miei tormenti tanti:
Occhi lucenti e santi, Che posso, o debbo, o vuoi ch'io provi ancora
Amore, anzi ch'io mora?
Mia poca grazia m'è ben dolce e cara,
Che dove più si perde, più s'impara (2). dove dice nel sesto verso:

Ed in tutto quest'altro non men dolce, nè men Dille, che sempre ognora
vago, ma ben più celebrato di questo: Sua pietà vinta è da tua fera stella (1).
Deh, dimmi, Amor, se l'alma di costei E medesimamente nel madrigale:
Fosse pietosa, come ha bello il volto, Dal primo pianto all'ultimo sospiro,
S'alcun saria sì stolto, Al qual son già vicino.
Ch a sè non si togliesse, e desse a lei? Chi contrasse giammai sl fier destino
Ed io che più potrei Da men benigna e più lucente stella (2)?
Servirla, amarla, se mi fosse amica,
Ch” essendomi nemica, Ed in quell'altro:
L'amo più ch'allor far non doverei (3)? Io giuro a chi nol crede,
E medesimamente in tutto quel madrigale, il Che da costei, che del mio pianger ride,
cui principio è: Se gli è che d'uom mortal giu Sol mi difende e scampa chi m'uccide (3).
sto desio: ed in quello che comincia – Il mio Ma molto più veramente nel sonetto che co
rifugio e 'l mio ultimo scampo, quando disse: mincia: Al cor di solfo, quando disse:
Bellezza e crudeltà m'han posto in campo (4). A l'arte di beltà che meco venne (4);
E così nel madrigale: chè bene la si portò dal cielo questo Angelo
Ben vinci ogni durezza celeste. E perchè ciascuno possa meglio giu
dicare non tanto le diverse cagioni che asse
Con gli occhi tuoi, come ogni luce ancora;
Che s' alcun d'allegrezza avvien che mora, gna egli stesso all'amor suo ed alle sue passio
Allor sarebbe l'ora, ni, ma ancora i bellissimi suoi concetti, vi re
Che gran pietà comanda a gran bellezza:
E se nel foco avvezza (1) I tre madrigali qui citati – Ben vinci ogni durezza
Non fosse l'alma, già morto sarei Se ben talor – Che posso o debbo – e così pure il Sonetto -
Alle promesse de tuoi primi sguardi, Non so se d'altro stral giammai sº a viene – non si trovano
Ove non fur mai tardi nell'edizione del Manni.
(2) L'edizione del Manni ha:
Com'io, da sì benigna e chiara stella? (M.)
(1) O giace inedita, o andò perduta, la Sposizione qui ac
cenzata della Ballata II del Petrarca: Occhi miei lassi. Il (3) Pur questo madrigale non si legge nell'edizione del
Manni. (M.)
Varchi chiama questa Ballata, Sonetto, forse perchè tutto
quelle che non è canzone, era da lui compreso nel numero dei (4) Ben trovasi questo Sonetto nell'edizione del Manni:
Sonetti. (M.) ma il verso qui citato dal Varchi non vi si legge; nè altro
(2) L'edizione del Manni ha ve n'ha, che in qualche modo ne esprima il senso. Il Manni in
una nota reca una variante del primo terzetto di questo So
Nei miei dolci martir per voi s'impara, nello, nella quale v'ha traccia del concetto espresso nel verso,
Coanº esser può talor la morte cara. che forse il Varchi, citando a memoria, raffazzonò di suo
Questo
- Madrigale
g non è del ppari nell'edizione del Manni. capo. Ecco il terzetto:
(M.) Alla bell'arte, che, se dal ciel seco
(1) Nell'edizione del Manni si legge: Ciascun la porta, vince la natura,
Amore e crudeltà m'han posto il campo, (Ml) Quantunque se ben preme in ogni loco. (M.)
il 2 LEZIONI
citerò due interi de' suoi sonetti, veggendo quan Ma tornando alla sposizione del sonetto, po
to m'ascoltate, mentre vi recito delle sue cose, trebbe parere ad alcuno che il Poeta avesse
volentieri e con chetissima attenzione. Ed il posto a caso quello che, secondo me, fu con
primo sarà quello indiritto a messer Tomma grandissima considerazione fatto d'aver messo
so Cavalieri, giovane Romano nobilissimo, nel per cose diverse fortuna, destino o sorte, le
quale io conobbi già in Roma, oltre l'incom quali cose credono molti, che siano una me
parabile bellezza del corpo, tanta leggiadria di desima, i quali quanto s'ingannano, prometto
costumi, e così eccellente ingegno e graziosa di mostrare, e forse in questo luogo medesimo
maniera che ben merito e merita ancora che
un'altra volta, parlando lungamente del fato
più l'amasse chi maggiormente il conosceva. e della fortuna. Per ora ci basterà di mostrare
A che più debbo omai l'intensa voglia che altri poeti hanno usato simili modi me
Sfogar con pianto, o con parole meste, scolando l'uno con l'altro, i quali tutti si di
Se di tal sorte il Ciel, che l'alma veste, chiareranno nella lezione del fato e della fortu
Tardi o per tempo alcun mai non ne spoglia? na. Disse dunque Dante nel trentesimosecondo
A che 'l cor lasso a più languir m' invoglia, dell' Inferno:
S'altri pur dee morir? dunque per queste
Luci, l'ore del fin fien men moleste, Se voler fu, o destino, o fortuna -

Ch'ogni altro ben val men, ch'una mia doglia. Non so, ma passeggiando tra le teste,
Però se 'l colpo, ch' io ne rubo e 'nvolo Forte percossi il pie nel viso ad una.
Schifar non posso; e men s' è destinato, E nel decimoquinto aveva detto:
Che in terra i sia fra la dolcezza e 'l duolo?
Se vinto e preso io debbo esser beato, Ei cominciò qual fortuna, o destino.
Maraviglia non è, se nudo e solo,
Resto prigion d'un cavaliere armato (1). E il Petrarca nel sonetto: –Più volte già dal
L'altro sarà questo, fatto, per avventura, so bel sembiante umano: disse, come allegammo
pra il soggetto medesimo, degno per mio giu di sopra:
dizio di qualunque miglior filosofo, e non ine Perch ogni mia fortuna, ogni mia sorte (1).
sercitato poeta;
Veggo co' bei vostri occhi un dolce lume, E questo stesso Poeta nel sonetto: – Colui
Che co' miei ciechi già veder non posso: che fece, e non di cosa alcuna, disse:
Porto co' vostri piedi un pondo a dosso, Ond' il caso, la sorte, e la fortuna
Che de'miei zoppi non fu mai costume. In un momento nacquer di ciascuno.
Volo con le vostre ali senza piume: La natura, propietà e differenza dei quali no
Col vostro ingegno al Ciel sempre son mosso: mi dichiararemo allora minutissimamente, es
Dal vostro arbitrio son pallido e rosso: sendo cotale cognizione non meno necessaria
Freddo al Sol, caldo alle più fredde brume. ed utile, che faticosa e malagevole. Restaci ora
Nel voler vostro sta la voglia mia: solamente a sciogliere il dubbio in che modo
I miei pensier nel cor vostro si fanno: tutti gli amanti siano cagione eglino stessi a
Nel fiato vostro son le mie parole. loro medesimi di tutte le noic c torinenti loro,
Come Luna da sè sol par ch' io sia, e per qual cagione a sè propio, e non ad altri
Chè gli occhi nostri in Ciel veder non sanno, ne debbano la colpa dare. Perchè dovemo sa
Se non quel tanto, che n'accende il Sole (2). pere, che tutte le cose, eccettuato l'uomo, hanno
(1) Questo Sonetto nell'edizione del Manni è di lezione cosi
un amore solo, e non più o naturale, oscnsitivo,
diversa da questa del Varchi, che reputo doverlo qui riferire nel quale però si contiene il naturale. E come
intiero. il naturale, il quale si ritrova in tutte le cose ina
A che più debbo omai l'intensa voglia nimate, e di più nelle piante, non erra mai,
Sfogar con pianto e con parole meste, per lo essere guidato da Dio: così il sensitivo
Se'l Ciel quando d'aſſonni un'atma veste, che si ritrova in tutti gli animali bruti non
Tardi o per tempo mai non ne lo spoglia. può errare mai per lo non avere cosiffatti ani
A che 'l cor lasso di morir m'invoglia, mali il libero arbitrio e l'elezione : solo l'uo
S” altri pur dec morir º Ma ben per queste
Luci men fian l' estreme ore moleste, mo per lo contenere in sè tutte l' altre natu
Ch'ogni altro ben val men ch una mia doglia. re, ed essere come un picciolo mondo, ha in
E però l colpo rolontier ne involo, sè tutti tre gli amori, cioè il naturale, il sen
Mon pur non fuggo, e son già destinato sitivo, e l'intellettivo; onde può amare e co
Esempio novo d'infelice duolo. me pianta, e come animale, e come uomo. Ma
se dunque nei tormenti io son beato, perchè l'uomo è uomo mediante l'intelletto,
Meraviglia non è, se inerme e solo ogni volta, che egli, o allettato dal senso o in
Ardito incontro un cordi virtù armato
Questa lezione mi pare per più ragioni preferibile a quella del gannato, s'appiglia ad altro amore che lo in
Varchi, secondo la quale l'ultimo terzetto racchiude un bis tellettivo, il quale è il suo propio, mai non
ticcio, che, salva la riverenza a Michelangiolo e a Messer Be può contentarsi appieno. Dico ancora, che egli
nedetto, puzza di secento, per non dir peggio. (M. conseguisce tutto quello che egli desidera in
(2) Ecco le varianti di questo sonetto raffrontato coll'edi tutti quei modi che si possono immaginare ;
zione del Manni:
Porto co'rostri passi un pondo addosso,
perciocchè sempre cerca un non so che più
Che de'miei stanchi non fu mai costume. oltre, senza sapere quello che cerchi, e si duole
Nel vostro spirto son le mie parole,
Come luna per se sembra ch'io na. (M.) (1) Son. CXVIII, Parte I.
SULLA PITTURA E SCULTURA
i 13
non sapendo di quello che si dolga, ed in som stro in questo dotto e maraviglioso sonetto;
ma ha sempre un tacito rimordimento, che della quale niuna è al mondo nè nreno intesa,
non lo lascia godere affatto quello che egli go nè più necessaria, l'utilità della quale tra
dc. Onde Lucrezio scrisse non meno dottamen passa certissimamente tutte l'altre utilità senza
te, che leggiadramente nel quarto libro: nessuna proporzione. Perciocchè, come tutti i
Nec Veneris fructu caret is, qui vitat amorem, mali che nascono al mondo, nascono dall'a-
more reo ed inordinato, così tutti i beni na
Sed potius quae sunt sime poena commoda sumit, scono dal buono ed ordinato, talmente che,
Nam certa et pura est sanis magis indevoluptas.
come quelli, i quali hanno la vera e perfetta
E poco di sotto, avendo raccontato i mali de arte d'amore, sono felicissimi; così, all'incontro,
gli innamorati, non tanto lungamente, quanto quelli che hanno l'arte cattiva e contraria so
veramente, e con leggiadria incomparabile, sog no infelicissimi. E che il Poeta nostro inten
giunse non meno leggiadramente, che con desse di questa arte e di questo amore, lo mo
verità : strano manifestissimamente, oltra l'età e costumi
suoi onestissimi, tutti i componimenti di lui
Atque in amore mala haec proprio, summegue pieni d'amore Socratico e di concetti Plato
secundo
Inveniuntur. nici. Dei quali essendo omai l'ora tarda, e re
standoci che dire pur assai intorno la mag
E la cagione perchè niuno amante, quantun gioranza dell' arti, voglio che mi basti allegare
que felice, possa mai essere pienamente con un sonetto solo, il quale però può valere per
tento, anzi si doglia sempre, e sempre desideri molti, e mostrerà, come disse quello ingegno
senza saper che cosa è, come s'è detto di sopra, sissimo Poeta di ciance e da trastullo (i), che
che il propio amore dell'uomo è l'intellettivo, egli è nuovo Apollo e nuovo Apelle, e non
ed in niuno altro amore può conseguire la fi dice parola, ma cose, tratte non solo del mez
ne sua e perfezione, se non in questo. E que zo di Platone, ma d'Aristotile.
sto non è di cose sensibili, che si possano e
vedere e toccare, come sono tutte le partico Non vider gli occhi miei cosa mortale
lari; ma d'intelligibili, come sono le univer Allor, che ne bei vostri intera pace
sali; e tutto che questo amore gli sia propio Trovai, ma dentro, ov' ogni mal dispiace,
Che d'amor l'alma a sè simil m'assale:
e naturale, e per conseguenza dovesse sempre
in lui ritrovarsi, tuttavia la forza e l'alletta E se creata a Dio non fosse eguale
mento dei sensi in questo carcere materiale, Altro, che 'l bel di fuor, ch'agli occhi piace,
se non glielo levano, glielo coprono, come quasi Più non vorria, ma perch è sì fallace,
Trascende nella forma universale.
fa la cenere il fuoco. Onde nei più giace quasi
sepolto in un sonno profondissimo senza de Io dico, ch'a chi vive quel che muore
starsi mai, ed in molti, sebbene si sveglia qual Quetar non può disir, nè parsº aspetti
che volta nel vedere alcuna bellezza partico L'eterno al tempo, ove altri cangia il pelo.
lare e corporea, non però s'erge tanto alto, Poglia sfrenata il senso è, non amore,
che egli aggiunga alla bellezza universale ed Che l'alma uccide; e 'l nostro fa perfetti
incorporea, la quale è propia dell'intelletto, che, Gli amici qui, ma più per morte in Cielo (2).
essendo immortale, non può quetarsi in cosa Da questo sonetto penso io, che chiunque
nessuna, che non sia a lui somigliante. Perlo ha giudizio, potrà conoscere quanto questo An
che quelle bellezze che appaiono di fuori, e che gelo, anzi Arcangelo, oltra le sue tre prime e
si piacciono agli occhi e li dilettano, essendo nobilissime professioni architettura, scultura e
mortali e cadevoli, possono bene eccitare e pittura, nelle quali egli senza alcun contrasto
quasi destare l'intelletto, ma non già conten non solo avanza tutti i moderni, ma trapassa
tarlo; onde tutti quelli che si fermano in esse gli antichi, sia ancora eccellente, anzi singo
senza trascendere e trapassare alla forma uni lare nella poesia e nella vera arte dell'amante,
versale, cioè alla idea di tutte le bellezze, la la quale non è nè men bella, nè men faticosa,
quale e eterna, si possono chiamare indotti ar ma ben più necessaria e più profittevole del
tetici ed ignoranti d'amare, lasciandosi non
come uomini, ma come bestie guidare alle sen (1) Parole tolte da un Capitolo del Berni a F. Sebastiano
timenta, onde incorrono in tutti quelli tor del Piombo, pittor Veneziano. (M.) -

(2) Ecco come leggesi questo sonetto nell'edizione del Manni.


menti, dolori e disperazioni, che raccontò Pe
rottino con tanta eloquenza e dottrina. Ma Non rider gli occhi miei cosa mortale,
quelli pochi, che veduta alcuna bellezza ma Quando refulse in me la prima ſace
Dei tuoi sereni; e in lor ritrovar pace
teriale sagliono d'un pensiero in un altro a quella L'alma sperò, che sempre al suo finale i
bellezza divina, e si pascono di tal cibo, che Spiegando, ond'ella scese, in alto l'alº,
fatti più che uomini, anzi divenuti dii, non Non pare intende al bel ch'agli occhi piº i
invidiano a Giove nè il nettare, nè l'ambrosia, Ma perche è troppo debile e fallace,
si possono chiamare veri e perfetti artefici del Trascende in ver la forma universale.
vero e perfetto amore. E questa arte è quella, Io dico, che all'uom saggio quel che muºiº
la quale seguitando, non Ovidio nella sua ar Potger quiete non può; ne par s'aspetti
Amar ciò cui fa il tempo cangiar pelo
te, il quale di vero ne scrisse plebeamente, ma Voglia sfrenata e il senso, e non amore,
Platone nel suo Convito divinissimo, ci voleva Che palma uccide. Anor può far perfetti
insegnare il giudizioso cd amorevole Poeta no Gli asini qui, ma più prºfeti in cielº. 15 (M )
V Ali CI11
1 14 LEZIONI

l'altre quattro. Della qual cosa niuno si debbe pregarvi, prima, che a lui facciate fede della
maravigliare; perciocchè, oltra quello che ap brevità nel tempo, nel quale fummo costretti, io
parisce manifesto a ciascuno, che la natura a dettarla, e voi a scriverla, poi, che mandiate
volle fare, per mostrare l'estremo di sua possa, a me copia della risposta sua, affinchè ed egli
un uomo compiuto, e, come dicono i Latini, possa scusare appo se la presunzione ed igno
fornito da tutte le parti; egli alle doti della ranza mia, ed io lodare appo tutti la cortesia e
natura tante e si fatte aggiunse tanto studio, il giudizio di lui. State sano.
e così fatta diligenza, che quando bene fosse Di Firenze, a dì 14 di Marzo, 1546.
stato da natura rozzissimo, poteva mediante
quello divenire eccellentissimo. E se fosse na
to non dico in Firenze, e di nobilissima fami
glia, e nel tempo del Magnifico Lorenzo dei DELLA MAGGIORANZA DELL'ARTI E QUAL siA PIU' no
Medici vecchio, il quale conobbe, volle, sep BILE, LA scuLTURA o LA PITTURA, DisPUTA FATTA
pe e potette innalzare sì grande ingegno, ma PUBBLICAMENTE NELL'AccADEMIA FIoRENTINA, LA
nella Scizia d'un qualche ceppo o stipite, sotto TERzA DoMenicA DI QUARESIMA L'ANNo 1546.
qualche uomo barbaro, non solo dispregiatore,
ma inimico capitale di tutte le virtù, ad ogni
modo sarebbe stato Michelagnolo, cioè unico PROEMIO
pittore, singolare scultore, perfettissimo archi
tettore, eccellentissimo poeta ed amatore di Tutte le cose di tutto l'universo, il qua
vinissimo. Onde io, già sono molti anni, aven le, abbracciando tutti i cieli e tutti gli ele
do non solo in ammirazione, ma in reverenza menti, comprende in sè, e contiene non sola
il nome suo, innanzi che sapessi lui essere an mente tutto quello che era, ma eziandio tutto
cora architettore, feci un sonetto, col quale quello che poteva essere, in guisa che fuora
io, ancora che egli sia tanto minore del gran di lui non pure non rimase cosa nessuna, ma
dissimo valor di lui, quanto indegno delle pur nè luogo ancora, nè vuoto, sono, degnissimo
gatissime orecchie vostre, intendo di fornire Consolo, onoratissimi Accademici, e voi tutti
questa presente interpretazione, riserbando la uditori nobilissimi, o eterne o non eterne. Le
disputa dell'arti, per ubbidire il Consolo no eterne, favellando aristotelicamente, sono quel
stro, ad un'altra lezione nella domenica che le, le quali non dovendo finir mai, mai ancora
verrà.
non cominciarono; e per conseguenza non eb
Ben vi potea bastar, chiaro Scultore, bero cagione efficiente, cioè alcuno che le fa
Non sol per opra d'incude e martello cesse: e queste si chiamano celesti, divine ed
Aver, ma co i colori, e col pennello immortali. Le non eterne sono quelle, le quali
Agguagliato, anzi vinto il prisco onore: dovendo aver fine qualche volta, ebbero an
Ma non contento al gemino valore, cora qualche volta principio, e per conseguen
C ha fatto il secol nostro altero e bello, za cagione efficiente, cioè alcuno che le facesse:
L'arme e le paci di quel dolce e fello e queste sono di due maniere, perciocchè al
Cantate, che v'impiaga e molce il core. cune furono prodotte da Dio mediante la na
O saggio e caro a Dio ben nato veglio, tura, e queste si chiamano naturali, umane e
Che 'n tanti, e sì bei modi ornate il mondo, cadevoli: ed alcune furono fatte dagli uomini
Qual non è poco a sl gran merti pregio? mediante l'arte, e queste si chiamano artifi
A voi, che per eterno privilegio, ciate, ovvero manuali. Delle divine, le quali
Nasceste d'arte e di natura speglio, sono tutte quelle, che si ritrovano dall'ele
Mai non fu primo, e non fia mai secondo. mento del fuoco in su, tratta, e ragiona il me
tafisico, cioè il filosofo soprannaturale. Delle
umane, le quali sono tutte quelle che si ritro
vano dal cielo della luna in giù, ragiona e tratta
LEZIONE SECONDA il fisico, cioè il filosofo naturalc. Delle artifi
ziali, le quali sono più e diverse, trattano e ra
gionano più e diversi artefici; e queste seb
BENEDETTO VARCHI bene sono assai meno degne delle naturali,
come le naturali sono infinitamente meno per
AL MAGNIFICo E SUo Mol,TO ONORANDO fette delle divine, arrecano però non solamen
te molti e grandissimi piaceri, ma molte e gran
LUCA MARTINI dissime utilità alla vita mortale. La quale senza
l'arti non pure non si potrebbe vivere como
damente, ma nè vivere ancora; laonde di ma
Posciachè a me conviene disgiugnere questa ravigliosi pregi ed eccellentissimi onori furono
presente materia, membro quasi dal suo capo, dagli antichi riputati degnissimi, anzi tenuti
da quella che io trattai, jeri furono otto giorni, per iddii tutti coloro, che d'esse furono ritro
nella sposizione sopra il sonetto di Michelagno vatori. E noi per certo, se non fossimo ingrati
lo: ed a voi piace di volergliele ad ogni modo verso quelli che n'hanno così altamente bene
mandare a Roma, per intendere da lui stesso la ficiato (della qual cosa Plinio con giustissima
propia verità di cotale disputa: io non volendo cagione agramente ne riprende) tanto più lo
non compiacervi, non posso altro fare, se non deremmo, ed onoraremmo ciascuno, quanto fu
SULLA PITTURA E SCULTURA i 15

o più nobile la sua arte, o più nobilmente terzo, e però distinto dall'uno e dall' altro:
esercitata da lui. Ma perchè il conoscere que il terzo si chiama scienza, la quale non è altro
sta nobiltà non è cosa agevole, ed ognuno vo che la cognizione delle cose universali e neces
lentieri si lascia ingannare da sè medesimo, sarie e conseguentemente eterne, avuta mediante
perciò avevamo noi pensato di volerne favel la dimostrazione. Onde si vede manifestamente
lare, oggi sono otto giorni, dietro la sposizione che tutte le scienze di tutte le cose sono in questa
del sonetto di Michelagnolo, tutto quello che ragione superiore, ovvero intelletto contempla
da diversi scrittori in diversi tempi n'aveva tivo, perchè il fine di tutte è lo speculare, cioè con
mo apparato. Ma posciachè al magnifico e pru templare le cagioni delle cose e saperne la verità.
dentissimo Consolo nostro parve e piacque, che Nella ragione inferiore, il fine della quale non
ne favellassimo di per sè, in una lezione se è conoscere ed intendere, ma fare ed operare,
parata, disputaremo oggi, allargandoci alquanto sono gli altri due abiti pratici, l' agibile, nel
più che non pensavamo di dover fare, queste quale si contiene la prudenza, capo di tutte
tre quistioni ordinatamente. La prima, qual sia le virtù mortali, ed il fattibile, il quale con
la più degna di tutte l'arti; la seconda, qual tiene sotto sè tutte l'arti; e come de' tre abiti
sia più nobile, o la pittura, o la scultura ; la speculativi, il primo e più nobile è l'intellet
terza ed ultima, in quali cose siano, o somi to, così de due pratici, il fattibile è l'ultimo
glianti o dissomiglianti i poeti ed i dipintori: e manco degno. E da questa divisione fatta
ciascuna delle quali, come è di non minore dal Filosofo nel quarto Capo del sesto Libro
utilità che piacere, così è ancora di non mi dell' Etica, può ciascuno conoscere, prima, che
nore fatica che dottrina. sia propiamente scienza, e che propiamente arte,
Ma perchè in ciascuna disputa si debbe la benchè questa dichiararemo più lungamente
prima cosa, per fuggire l'equivocazione e lo nella sua diffinizione, la quale essendo un abi
scambiamento dei nomi, dichiarare i termini to dell'intelletto, non si poteva dichiarare, se
principali, dovemo sapere, che siccome questo prima non s'intendeva che cosa importasse, e
nome scienza comprende, largamente preso, significasse questo vocabolo. Il che senza la
ancora tutte l'arti, così questo nome arte com distinzione posta di sopra da noi, era del tutto
prende, preso largamente, ancora tutte le scien impossibile: poichè tutte le scienze, essendo
ze, nonostante che la scienza e l'arte siano nella ragione superiore, ed avendo più nobile
abiti differentissimi. Onde a noi, che volemo fine, cioè contemplare, sono senza alcun dub
trattare dell'arte propiamente, non come ella bio più nobili di tutte l' arti, le quali sono
è la medesima, ma come è distinta dalla scien nella ragione inferiore, ed hanno men nobile
za, è necessario dichiarare i cinque albiti del fine, cioè operare. Conoscesi ancora, che fa
l' intelletto, nei quali sono, come in loro sub vellando propiamente, si ritrovano alcune o di
bietto, così tutte l'arti, come tutte le scienze, scipline, o facoltà, o in altro modo che le
e questo non si può fare più chiaramente che dobbiamo chiamare, le quali non sono vera
dividendo, come avemo fatto altre volte in que mente nè scienze, nè arti, come, per atto d'e-
sto luogo medesimo, l'anima umana, la quale sempio, la gramatica e la logica e l'altre che
si chiama dai teologi massimamente ragione, e hanno per loro subbietto l'orazione, ovvero il
si divide primieramente in due parti, nella ra parlare, perciocchè non trattando di cose, ma
gione particolare e nella ragione universale. La di parole, non si possono chiamare propia
ragione particolare è intenta alle intenzioni in mente scienze; e dall'altro lato non essendo
dividuali, come dicono cssi, cioè non conosce in arbitrio e poter nostro totalmente il farle,
e non intende, se non le cose particolari, e o 'l non farle, non si possono chiamare arti,
conseguentemente generabili e corruttibili; e secondo la propia e vera significazione, come
questa fu chiamata da Aristotile, secondo che più lungamente si vedrà nelle dispute seguen
testimonia il suo grandissimo Commentatore, ti. Alle quali chiamato prima divotamente l'ot
cogitativa; la quale, sebbene è mortale, non si timo e grandissimo Dio, che ne presti il con
trova però negli animali bruti, i quali hanno sueto aiuto e favore, e poscia pregate umil
in quella vece la stimativa, assai meno per mente l'umanissime e benignissime cortesie vo
fetta, che non è la cogitativa negli uomini. La stre, che ne concedano la solita quetezza ed
ragione universale è delle intenzioni universali, attenzione, è tempo oggimai di venire, avendo
cioè non conosce e non considera se non le che ragionare pure assai.
cose, non solo private d'ogni materia, ma spo
gliate da tutte le passioni ed accidenti mate DISPUTA PliIMA
riali, e conseguentemente ingenerate cd incor
ruttibili; e questa, la quale è propia dell'uo Della maggioranza e nobiltà dell'arti.
mo, si ridivide in due parti, nella ragione su
periore, cioè nello intelletto speculativo ovvero L'intendimento nostro in questa prima di
contemplativo, e nella ragione inferiore, cioè nel sputa è di trovare qual sia fra l'arti la più
l'intelletto pratico ovvero attivo. Nella ragione nobile, la qual cosa è non meno faticosa, che
superiore sono i tre abiti contemplativi, il primo utile; e sebbene potremmo dire in pochissime
de quali si chiama da filosofi col nome del ge parole l'opinione nostra, nondimeno, volendo
nere intelletto, e questo è la cognizione de'pri noi procedere filosoficamente, ed essere intesi
mi principi: il secondo si chiama sapienza, il da ognuno, è necessario dichiarare prima, che
quale, schbene comprende il primo abito ed il cosa sia arte: poi in che modo, e da che cosa
I 16 LEZIONI

si conosca, quando un'arte è più o meno no tra l'arte e la natura, non meno ntili, che
bile d'un'altra. Avendo dunque veduto nel belle e quasi necessarie a bene intendere a
Proemio, che tutte l' arti sono nella ragione perfettamente, non solo quanto s' è ragiona
inferiore, in quella seconda ed ultima parte, to dell'arte, ma quanto dovemo ancora ragio
che si chiama fattibile, che è meno degna di narne; la qual cosa potremo fare, per avven
tutti e cinque gli abiti, ovvero cognizioni in tura, in un'altra lezione
tellettive, diciamo, che secondo la diffinizione E così avendo veduta la prima cosa propo
del Filosofo, l'arte non è altro, che un abito sta da noi, cioè che sia arte, ed in quello che
intellettivo, che fa con certa e vera ragione. sia differente da tutte le cose, che arti non
E ancora che questa diffinizione sia compiuta sono, tra passeremo alla seconda, cioè in che
e perfetta, distinguendo l'arte da tutti gli al modo e da che cosa si debba conoscere la
tri abiti, e conseguentemente facendola diffe nobiltà di ciascuna arte. Al che diciamo, che
rente da tutte l'altre cose: tuttavia noi per come la nobiltà delle scienze si conosce da
aprirla e spiegarla più largamente, a maggiore due cose, dal subbietto loro e dalla certezza
e più chiara intelligenza, diremo che: L'arte è della dimostrazione in guisa che quella scien
un abito fattivo con vera ragione di quelle cose, za, la quale è più certa, o ha il subbietto più
che non sono necessarie, il principio delle quali degno, è più nobile, benchè principalmente si
non è nelle cose che si fanno, ma in colui che attende la dignità del subbietto, in quel modo
le fa. La quale diffinizione, per meglio cssere e per quelle cagioni, che dichiarammo nella
intesi da ciascuno, dichiararemo a parola a prima Lezione nostra dell'Anima, cosi credono
parola alcuni, che si debba conoscere la nobiltà del
Dicesi dunque abito, il quale non è altro, l'arti. La qual cosa è falsissima, perciocchè il
che una qualità stabile e ferma, che malage subbietto dell'arti è molto differente da quello
volmente si possa rimovere o perdere, a dif delle scienze, perchè di lui non si prova o di
ferenza della disposizione, la quale è una qua mostra propietà o passione alcuna, come san
lità, che agevolmente si può perdere e rimo no gl'intendenti. Diciamo dunque, che nelle
vere; onde, come tutte le virtù, così ancora arti si debbe attendere principalmente e con
tutte l'arti sono abiti e non disposizioni, per siderare il fine, e secondo che il fine è o me
ciocchè non basta ad essere virtuoso, ovvero no o più degno, così l'arte è più o meno
artefice la disposizione, cioè l'essere atto e di nobile; perciocchè, come ciascuna scienza pi
sposto a poterle conseguire, ma si ricerca l'abito, glia l'unità sua dal suo subbietto, cioè è una
cioè l'avervi fatto dentro tale pratica, median sola e distinta da tutte l'altre, per lo essere
te l'uso, che si possano esercitare agevolmente il subbietto di lei un solo e distinto da tutti
e malagevolmente perdere. Dicesi fattivo a diffe gli altri, così ciascuna arte piglia l'unità sua
renza dell'abito della prudenza, il quale non si non dal suo subbietto, ma dal suo fine, cioè è
chiama fattivo, ma attivo; perciocchè nella pru una sola e distinta da tutte l'altre per lo avere
denza, oltra che dopo le operazioni non rima nn fine solo e distinto da tutti gli altri. Onde
ne alcun opera, può ciascuno operare a sna chiunque vuole conoscere quando alcuna arte
voglia, senza l'aiuto del corpo o d'altra cosa sia o non sia più o meno nobile di qualunque
di fuori; il che nell'arte non avviene, come altra, debbe considerare principalmente non il
è notissimo. Dicesi con vera ragione per due subbietto, come nelle scienze, ma il suo fine,
cagioni, perchè tutte l'arti sono infallibili, e secondariamente il subbictto, come nelle scien
cioè non errano mai e sempre conseguiscono ze la certezza. E qualunque volta il fine sarà
l'intendimento e fine loro; poi, perchè me più nobile, quell'arte senza alcun dubbio sarà
diante quelle parole se ne esclude e cava l'ar più degna; ed il medesimo che avviene nelle
te, colla quale i ragnateli ordiscono le loro scienze, occorre ancora nell'arti, cioè che al
maravigliose tele, e le rondini ed altri animali cune possono essere più nobili, e quanto al
fanno il nido, e molte altre cose, le quali fine e quanto al subbietto, e queste sono no
paiono bene fatte artifiziosamente, ma nel vero bilissime: alcune quanto al fine solo, ed al
non sono; perciocchè non essendo fatte per cune quanto al subbietto solo. Ma quelle, che
ragione, ma per istinto naturale, non si pos hanno il fine più nobile, sempre sono più no
sono chiamare arti veramente. Dicesi di quelle bili, perchè il fine debbe attendersi principal
cose, che non sono necessarie, perchè tutte le mente quanto alla nobiltà ed il subbietto in
arti si maneggiano intorno a cose contingenti, conseguenza. E però dovemo sapere, che il fine
cioè che possono essere, e non essere egual di ciascun'arte è uno solo, e non più, perchè
mente, ed in questo sono differenti l'arti dalle ciascuna arte è una sola, e non più, e piglia
scienze, perchè tutte le scienze sono di cose questa unità, come s'è detto di sopra, dall'u-
necessarie. Dicesi il principio delle quali non nità del suo fine. E sebbene la medicina non
è nelle cose, che si fanno, ma in colui, che le solamente ricovera la sanità perduta, ma ezian
fa: perchè in questo si distinguono le cose ar dio mantiene quella che è, non perciò si dice
tifiziate dalle naturali; conciossiach e le natu aver duc fini, ma due intenzioni per un fine solo,
rali hanno sempre il principio in sè stesse, e il quale è la sanità; e la sanità è di due maniere,
l' artifiziali in altrui, cioè nello artefice. E se una reale, cioè quella, che induce il medico
la presente materia, o piuttosto il tempo lo nel corpo infermo, ed una virtuale, cioè quel
concedesse, raccontaremmo così alcune somi la, la quale è nella mente del medico; e que
glianze, come molte differenze, le quali sono sta non è il fine del medico, ma la cagione
SULLA PITTURA E SCULTURA 117
efficiente della sanità dell'infermo; e questo mezzi si possa conseguire detto fine. È ben ve
è il fine del medico. E però diceva Averrois, ro, che ciascuna arte (come n' insegna il me
non minor medico che ſilosofo, nel duodecimo desimo nel principio del suo libro, che si chia
della Metafisica al Com. XXXIV, e nel settimo ma volgarmente Texyn, cioè arte) ha tre pro
che il bagno, che è fuori, è il fine; ma il bagno cessi, cioè si può ordinare, ed insegnare in tre
di dentro è il movente. modi, risolutivo, compositivo, e diffinitivo; dei
Ancora è da sapere, che tutto quello che si quali avendo favellato altra volta, non fa me
fa in tutte le arti da tutti gli artisti, si fa in stiero di dichiararli più, ma diremo in quella
ordine, e per cagione del fine; e se i medici vece, che questo nome arte si può pigliare in
medicano alcuna volta le infermità incurabili, due modi, propiamente, e comunemente. Pro
o s'ingegnano di prolungare la vita senza spe piamente quando si distingue dalla scienza, e
ranza del fine, o inducono alcuna volta la bel da tutti gli altri abiti intellettivi, come s'è di
lezza tanto naturale, quanto artifiziale, non è chiarato di sopra. Comunemente si piglia in più
che il fine vero e propio di tutta la medici modi, perciocchè alcuna volta si chiamano arti
ma non sia un solo, cioè la sanità, e gli altri ancora tutte le scienze, senza aggiugnervi, o
si possono dire aggiunti, e quasi accidentali, buone, o liberali, o nobili, o altro epiteto al
altramente l'arte della medicina non sarebbe cuno, come si può vedere nel primo libro del
una sola, non avendo un fine solo, ma tante, l'Anima; cd in questo modo tanto significa
quanti fossero i fini. E ancora degno di consi arte, quanto scienza, come avemo dichiarato
derazione, che il fine di tutte l'arti, come ne di sopra. Alcuna volta si piglia non per ogni
insegna il Filosofo nell'Etica, è infinito, perchè scienza, ma solamente per le scienze pratiche,
ciascuna arte desidera il suo fine infinitamente, ed in questo modo si potrebbe chiamare arte
come la medicina la sanità, ed il capitano la ancora la prudenza, onde irragionevolmente
vittoria, ma il fine e numero di quelle cose, fu ripreso da alcuni il Petrarca, quando disse
mediante le quali si conseguita detto fine, è nella fine del sonetto –O tempo, o ciel volubil
finito, e quinci viene, che gli avari quanto più che fuggendo:
sono ricchi, tanto maggiormente desiderano la
Non a caso è virtute, anzi è bell'arte (1).
roba, perchè il loro fine non è altro che l'es
sere ricchi. E questo procede in infinito, e seb come dichiarammo lungamente altrove. Alcuna
bene molte arti hanno il loro fine vile e plebeo volta si piglia per un abito acquistato non con
per sè medesimo, tuttavia non si chiamarebbe certa e vera ragione, ma da un cotale uso, e
un'arte nè plebea, nè vile, quando s'esercitasse pratica, come si vede in molte arti. Pigliasi
per qualche giusta, o virtuosa cagione, come ancora qualche volta per una pratica e con
in benefizio, o della patria, o degli amici. E suetudine fatta, non nell' anima razionale, ma
chi non sa, che il rappare e 'l barellare sono nella cogitativa; e così non è altro, che una
opere per sè vilissime, ma fatte per difendere sperienza. Pigliasi ancora per un aggregato di
la patria, o in benefizio del suo principe, di più cose, le quali siano utili alla vita umana,
ventano e si debbono chiamare nobilissime º acquistisi cotale aggregato, o per ragione, o
E per lo contrario sa ciascuno, che il vacare per isperienza, ed in questo modo si possono
alle buone arti, o l'insegnarle è cosa per sè chiamare arti la gramatica e l' altre, delle
medesima nobilissima, ma, esercitata per da quali favellammo di sopra.
mari o ad alcun cattivo fine, divien vilissima. E perchè ciascuno possa meglio comprendere
Detto dei fini dell' arti, non sarà se non questa materia, porremo alcune divisioni del
buono dire alcuna cosa del modo come si fac l'arti, e prima diremo, che dell'arti, alcune fu
ciano ed ordinino tutte l'arti, il quale è que rono trovate per necessità, alcune per utilità,
sto. Primieramente si considera e piglia il fine alcune per dilettazione; e furono trovate parte
di quella cotale arte, ch'altri vuole ordinare, dagli uomini ingegnosi, parte dagli uomini po
poi si cerca di que mezzi, che siano atti, e veri, per sostentare la vita; perciocchè, come -

bastevoli a conseguire detto fine. Così ne in diceva Nerone, niuna arte è sì vile, che non
segna il Medico (1) nel primo del Metodo, cioè dia le spese a chi l'esercita; e furono trovate
della via e del modo di medicare al Capo set mediante l'uso e la sperienza, onde Manilio
timo, e nel libro che egli fece della constitu scrisse nel suo libro dell'Astronomia:
zione dell' arte, cioè come si debba disporre
e trattare la medicina, nel secondo e terzo Per varios usus artem experientia fecit.
Capitolo. E come in ciascuna scienza non si E Virgilio nella sua Georgica:
cerca mai, nè si prova il subbietto suo, cioè
Tum variae venere artes, labor omnia vincit.
la materia, di che tratta, ma si presuppone, Improbus, et duris urgens in rebus egestas.
come nota, così medesimamente in ciascuna
arte si presuppone il suo fine senza provarlo; E medesimamente poco di poi:
e posto il fine si cerca de mezzi, che condu Ut varias usus meditando extunderet artes.
cano a cotal fine, esempi grazia, nella medi Ben è vero che nessuna arte fu trovata e com
cina si presuppone il conservare i corpi sani,
o guarire gli ammalati; poi si cerca per quali piuta, o in un medesimo tempo, o da un solo,
ma di mano in mano e da diversi, perchè sem
(1) Intende Ippocrate di Coo, chiamato il Medico per an
tonomasia. (M.) (1) Son. LXIV, Parte II.
a 18 LEZIONI
pre si va o aggingnendo, o ripulendo, o quello | l'arti alcune pigliano il sublietto dalla natura,
che manca, o quello che è rozzo ed imper come la Scultura; alcune dall'arte, come l'arte
fetto. E perciò disse Dante non meno vera dei tessitori, dei calzolai e somiglianti: alcune
mente che con giudizio nell'undecimo canto dall'uno e dall'altro, come l'Architettura e la
del Purgatorio: Pittura. Dell'arti alcune dispongono la materia:
Credente Cimabue nella Pittura alcune introducono la forma: alcune usano la
Tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido, cosa fatta, come si vede in quelli che tagliano
Sì che la fama di colui oscura. i legni per fare le navi, in quelli che le fanno
Così ha tolto l'uno a l'altro Guido ed in quelli che le adoperano belle e fatte. Del
La gloria della lingua, e forse è nato l'arti alcune si fabbricano da sè stesse i propi
Chi l'uno e l'altro caccierà del nido. strumenti, come il fabbro l'incudine cd il
martello, ed alcune li pigliano dalla natura o
Anzi crcd'io che si possa dire con verità, che dall'altre arti. Dell'arti alcune servono ad acqui
niuna arte sia ancor giunta al colmo, di ma stare il vitto naturalmente, e queste sono cin
niera che non vi si possa o aggiugnere o le que: la pastorale e l'agricoltura, e queste sono
vare; ed il medesimo dico, anzi molto più, giustissime; l'arte del pescare, dell'uccellare
delle scienze. Dell'arti alcune si chiamano li
e del cacciare, la quale non vuole Sallustio
bcrali, cioè degne d'uomini liberi e non servi, che si ponga fra l'arti liberali, e pure fu sen
e queste si dicono comunemente essere sette, pre usata, ed oggi è più che mai dai re e dai
delle quali, tre sono intorno al favellare: la principi: alcune l'acquistano non naturalmen
Gramatica, la Rettorica e la Dialettica, e quat te, come tutte l'altre, eccetto queste. Dell'arti
tro intorno alla quantità: la Geometria, l'Arit alcune fanno cose che si possono fare solamente
mctica, la Musica e l'Astronomia. Ed è tanto dall'arte sola, e queste si dicono vincere la natu
volgare questa divisione, che infino al Bur ra, come l'Architettura: alcune fanno cose che
chiello ne fece un sonetto, dicendo: si possono fare dall'arte e dalla natura parimente,
Sette son l'arti liberali, e prima ecc. come la Medicina e l'Alchimia. Dell'arti alcu
ne vincono la natura, come s'è detto di sopra
E alcune si chiamano illiberali, cioè quelle le dell'Architettura, che fanno quello che clla non
quali non erano da uomini liberi, e che po può fare; alcune sono vinte da lei, come tutte
tevano esercitare ancora i servi. Dell'arti al
l'arti, che non arrivano a quella perfezione
cune consistono solamente nel contemplare, della natura, le quali sono moltissime. Alcune
come la Fisica, l'Astrologia e tutte l'altre, che sono ministre della natura, come la Medicina e
sono scienze veramente: alcune nel fare, e que l'Alchimia; o fanno il principio solamente, e la
ste sono di due maniere; perciocchè in alcune natura fa il restante come l'agricoltura. Alcune
dopo l'operazione rimane alcuna opera, come hanno il principio dalla natura, e fanno esse il fi
nell'Architettura, dove dopo l'edificazione ri ne; e qui è da notare, che niuna arte si ritrova,
mane, e si può vedere la cosa operata, cioè l'edi la quale non abbia i principi dalla natura o
fizio, come ancora nella Scultura, Pittura, ed immediate, o mediantemente. Dell'arti alcune
infinite altre; alcune operano in guisa, che dopo sono subalternanti, ovvero principali, le quali
l'operazioni non rimane opera alcuna, come si chiamano da ſilosofi latini con nome greco
nell'arte del cavalcare, saltare, cantare, sonare,
Architettoniche, e queste sono quelle che danno
ed altre tali. E come quelle prime che la i principi all'altre, come l'Aritmetica alla Mu
sciano dopo sè alcun lavoro, si chiamano fat sica; o comandano loro, come l'arte della ca
tive; così queste scconde, dopo l'operazioni valleria al sellaio, morsaio, maniscalco, e tutte
delle quali non rimane cosa niuna, si chia l'altre che servono a lei. Alcune si chiamano
mano da molti attive; il che a me non piace, subalternate ovvero inferiori, e queste sono
se non se impropiamente, perchè niuna arte quelle o che pigliano i principi o subbietti
si può chiamare attiva veramente, se non la loro da alcuna altra, o la ublbidiscono. Del
prudenza. Dell'arti alcune sono che consegui l'arti alcune sono, secondo la distinzione di
tano sempre il loro fine, e queste si possono Galeno, vili ed indegne, come quelle che si
chiamar certe: alcuna volta nol conseguitano,
come la Medicina, la Rettorica ed altre simili,
esercitano colle forze e fatiche del corpo, che i
Greci dall'operare delle mani chiamano chirur
le quali si possono chiamare congetturali. Del giche da xsip mano, come a dir manuali; altre
l'arti alcune sono necessarie o al corpo, o al
l'anima: alcune utili: alcune dilettevoli ed al oneste e liberali, fra le quali poue primieramente
la Medicina, la Rettorica, la Musica, la Gcome
cune oneste. Dell'arti alcune sono volgari e
tria, l'Astronomia, l'Aritmetica, la Dialettica, la
sordide, ovvero laide, come quelle che sono oc Gramatica, e la scienza delle Leggi; nè vieta
cupate manualmente intorno le necessità uma che fra queste si ponga la Scultura e la Pit
ne: alcune sono ludicre ovvero giocose e bur
tura, perchè sebbene adoperano le mani, non
levoli, come sono quelle che danno piacere o però hanno bisogno principalmente delle forze
agli occhi, o agli orecchi del volgo: alcune sono del corpo. Dell'arti alcune hanno l'operazioni
puerili, o fanciullesche, come sarebbero i frac loro artifiziosissime, e queste sono quelle, nelle
curradi (1), le bagattelle, ed altre simili. Del quali può meno la fortuna: alcune l'hanno vi
(1) Fraccurrado dicesi un fantoccio di cenci o legno, si lissime, e queste sono quelle dove più s'im
mile a burattino, che non ha piedi, ma solo il fusto,5 con cui bratta il corpo. Alcune sono servili del tutto,
fanno lor giuochi i bagattellieri. (Ml.) e queste sono quelle dove il corpo può assai:
SULLA PITTURA E SCULTURA i 19
alcune ignobilissime, e queste sono quelle, do aggiugne un'altra, cioè quella del subbietto, il
ve non si ricerca virtù alcuna, o pochissima; quale avanza di gran lunga, e trapassa tutti
la quale divisione fa il filosofo nel primo li gli altri, essendo l'uomo infinitamente più per
bro della Politica al capo settimo, dove chia fetto di tutte le cose mortali. E così la Medi
ma vile quell'esercizio che rende inutile o cina e quanto al fine, e quanto al subbietto è
l'animo, o il corpo alle operazioni virtuose. nobilissima; e, perchè alcuni, credendo nobili
Da queste tante e cosi varie divisioni di di tarla, dicono che ella non è arte meccanica,
versi Autori può conoscere ciascuno la diffi cioè fattiva, avemo a sapere, che in questa
coltà di questa materia trattata da diversi, non parte ella è inferiore a molte altre, conciossia
pure diversamente, ma con tale confusione, che chè ella si debba piuttosto chiamare rabbercia
a me pare non solo malagevole ad intendersi, tiva, che fattiva; perciocchè ella non fa mai
ma impossibile senza le distinzioni e dichiara di nuovo, ma racconcia sempre e corregge,
zioni fatte disopra da noi. La quale affine che onde la chiameremo correttiva; perciocche o
ancora s'intenda meglio e più agevolmente, conservi ella la sanità, o la induca, non fa al
dovemo sapere, che favellando, come noi fac tro che correggere, benchè ora più ed ora
ciamo, secondo il vero e propio significato, meno, come intendono i medici. E ancora in
tutte l'arti sono meccaniche, pigliando mecca feriore a molte altre arti, perchè il medico
niche non in quella significazione che suona non solo non vince la natura, ma non l'imita
la parola greca, tratta dalla macchina (come ancora, ma è suo ministro, non essendo egli
si vede nel divino libro delle Meccaniche di quello che induca e conservi la sanità princi
Aristotile) la qual parte appartiene massima palmente, ma la natura mediante l'arte e l'o-
mente all'architettore; nè ancora in quella si pera di lui, come si disse lungamente nel pri
gnificazione, con che si dice volgarmente mec mo trattato della quistione dell'Alchimia; ben
caniche, cioè mercenarie, e del tutto vili ed chè nel vero il medico non è sempre ministra
abbiette; ma pigliando meccaniche, cioè ma tivo, come è sempre correttivo, perchè pare
nuali, e nelle quali faccia di mestiero di ser che operi alcuna volta senza la natura, come
virsi in qualche modo del corpo, dico che al quando o racconcia l' ossa, o taglia la carne
lora, ed in cotale significazione implica con fracida. E qui e da avvertire, che favelliamo
trarietà, cioè non è possibile dire arte, la del medico, quanto all'arte della Medicina, e
quale non sia meccanica, essendo tutte un abito brevemente come medico, il quale in cotal
medesimo, come s'è veduto di sopra. Le quali modo considerato, è senza alcun dubbio il più
tutte potremmo, per avventura, dividere gene nobile di tutti gli artisti. Ma perchè al medico
ralmente in questo modo, che alcune sono, vero e scientifico si ricerca ancora necessaria
nelle quali si ricerca e vale più l'ingegno che mente la filosofia naturale, come ne mostra il
la fatica, ed in alcune, all'incontro, vale e si nome stesso, onde il Petrarca disse:
ricerca più la fatica che l'ingegno: in alcune E se non fosse la discreta aita
ancora sono pari l'ingegno e la fatica, ed in Del Fisico gentile (1). -

alcune non fa bisogno, se non la fatica sola.


Ben è vero che in ciascuna di queste divisioni perchè il medico comincia, dove il filosofo for
è larghezza, cioè si trovano più gradi, perchè nisce ed è in un certo modo la medicina sn
molte, sebbene vogliono più ingegno che fati balternata alla filosofia, pigliando da lei molti
ca, sono però differenti tra loro, perchè in principi, come è chiarissimo, verbigrazia, gli
questa o in quella si ricerca più, o manco in clementi esser quattro: viene il medico a essere
gegno, ed in quella o in questa inanco, o più ancora più nobile fra gli scienziati, eccettuato
fatica. Ed il medesimo diciamo di tutte l'al solamente il metafisico, ovvero il filosofo di
tre tre divisioni, perchè nell'ultima, sebbene vino. Onde possiamo dire che un medico, ricer
si ricerca, se non fatica sola, in una però si candosi in lui così la scienza della filosofia,
ricerca più o meno fatica che in un'altra; e come l'arte della medicina, si debba, se è vero
nella terza sebbene avemo detto esservi la fa medico, e lodare ed onorare più che niuno
tica e l'ingegno del pari, non intendiamo però, altro, arrecando maggiore utilità alla vita uma
che siano in modo bilanciate e contrappesate, na, e nel più nobile subbietto, che alcun al
che non vi sia in alcuna più o di fatica, o d'in tro. E se quelli che disputano qual sia più no
gegno, e così per lo contrario che in un'altra. bile, o un medico o un dottore di leggi, di
Ma venendo finalmente alla disputa princi stinguessero, come è necessario, da un medico
pale, diciamo, che per le cose sopraddette, pratico, il quale non abbia se non la sperienza
non è difficile il conoscere che dopo l'arte del medicare, ed un medico che, oltra la pra
della guerra, della quale non volemo favellare tica del medicare, abbia ancora la teorica della
oggi, non ci parendo che i suoi grandissimi medicina, come dicono essi, e di più la cogni
giovamenti vengano senza grandissimi dànni; zione della filosofia, conoscerebbero il dubbio
e giudicando che usarla per arte propia sia loro essere chiarissimo; perchè le leggi sono
non solo biasimevole, ma empio, la Medicina sotto l'abito non fattivo, come il medico, ma
è la più degna e la più nobile di tutte l'al attivo, cioè sotto la prudenza, essendo senza
tre, e la cagione è, perchè ha il suo fine più alcun dubbio una parte della Politica. E così
nobile e più degno, il quale è, come si disse un legista e più nobile ch'un medico, perchè
di sopra, o conservare la sanità, dove ella è,
o indurla dove manca, alla cui nobiltà se ne l (1) Trionfo d'Amore, Cap. lI.
leo LEZ:ONI
sebbene tutti e due sono in un medesimo in perciocchè, sebbene l' architettura conscrva
telletto, cioè nel pratico, il legista però è sotto anch'ella la sanità, ed ha di più la magnifi
la prima parte, che si chiama agibile, la quale cenza e l'ornamento, non però nè la conserva
è più nobile della seconda, che si chiama fat in quel modo, nè la introduce, dove non è;
tibile, sotto la quale sono i medici e tutti gli oltra che al medico è necessaria la cognizione
altri artefici. Ma considerato il medico ancora di molto più cose; conciossiachè tutte le parti
come filosofo, soprastà tanto ai dottori di del corpo hanno diverse virtù ed operazioni,
leggi, quanto l'intelletto contemplativo, o ve le quali è necessario che sappia il medico, dove
ramente la ragion superiore, nella quale sono le parti d' uni edifizio non hanno operazione
tutte le scienze, soprastà all'intelletto pratico, alcuna, non essendo animate. E chi mi diman
ovvero alla ragione inferiore, nella quale sono dasse, perchè io la prepongo alla Scultura ed
tutte l'arti. E in questo modo medesimo per alla Pittura, gli risponderei, non ci essendo
le medesime cagioni si può dicidere e tagliare altra regola fissa, non che più vera, perchè il
la disputa che si fa ordinariamente da legisti, fine è più nobile; oltra che è infinitamente, non
quali siano più nobili o l'armi, o le lettere e solo più necessaria, ma più utile l'architettura,
molte altre somiglianti, le quali appresso i filo ed ha bisogno di maggior cognizione di molte
sofi non hanno dubbio nessuno. E come da loro più cose, che non hanno l'altre. E si potrebbe
si possono sciogliere tutte agevolissimamente, dire che l'Architettura fosse alternante, e la
così dagli altri piuttosto si confondono e fanno Scultura, sotto la quale comprendo ancora la
più dubbie che altro; per lo che mai non si Pittura, subalternata: conciossiachè le sculture
possono rendere nè tante grazie alla filosofia, e pitture si fanno per adornare gli edifizi e
nè tanto grandi che non siano e poche e pic non all'incontro, se non se per cagione della
ciole, senza la quale, abbracciando ella tutte religione, il che è per accidente. E chiunque ha
le cose, non si può disputare, non che risolvere veduto o la Cupola di Firenze, o la Rotonda
dubbio nessuno. in Roma, oltra tanti cdifizi, ed abbia punto
Dopo la Medicina seguita, per quanto a me di giudizio, conoscerà senza fatica nessuna qual
ne paja, l'Architettura, la quale e per la no di loro si debba preporre e mettere innanzi;
biltà del suo fine, e per la dignità del suo sub per non dir nulla che quasi tutte le altre arti
bietto, e per le molte cose che in lei si ricer dipendono da questa, senza la quale niuna del -
cano di sapere, precede l'altre tutte quante; l'altre, o pochissime si potrebbero esercitare;
e se non avesse favellato lungamente prima e l'arte dei mugnai, che pare a volgari tanto
Vitruvio, nel suo dottissimo e bellissimo procmio ingegnosa, quanto necessaria, ha tutto l'ingegno
posto innanzi a suoi libri dell'Architettura, nel insieme con moltissime altre dall'architetto; e
quale però, secondo il poco giudizio nostro, della necessità in questo caso non si debbe
le attribuisce troppo, e poi pure nel suo bel fare altra stima, che di colui che alza i man
lissimo e dottissimo proemio innanzi a suoi tici nel sonar gli organi. E così abbiamo spe
libri dell'Architettura M. Leon Batista Alberti dita la prima disputa e conchiuso, che dopo
nobile fiorentino, ed in molte così arti, come la Medicina, l'Architettura è la più nobile di
scienze esercitatissimo, ne potremmo trattare tutte l'arti. Della Magia non aveno fatto men
diffusamente. Ma rimettendoci all'autorità loro, zione, perchè non è altro che la medicina
diremo solamente, che l'architettura è nobilis congiunta e mescolata colla religione. Della
sima di tutte l'altre arti dopo la medicina, Negromanzia, Piromanzia e molte altre somi
non solo per la regola del fine data di sopra glianti non favellano i Filosofi, perchè non le
da noi, la quale è infallibile, e cosi dal sub credono.
bietto, ma ancora per la grande utilità e mol Ora innanzi che vegniamo alla seconda, pen
tissime cognizioni, che d'essa si cavano ed in siamo essere ben fatto, per compire questa ma
essa si ricercano. E Aristotile quasi sempre dà teria dell'arti, recitarvi alcune cose apparte
gli esempi dell'architettura, ancora che Pla nenti ad essa, e prima che ciascuna va imi
tone dica, che nella Grecia si trovassero po tando, quanto più può, la natura, ed ha sempre
chissimi che la sapessero, o csercitassero, do tutte e quattro le cagioni, la materia, la for
ve in Roma in un tempo medesimo se ne tro male, l'efficiente e la finale. La materiale è
varono settecento, cosa incredibile a chi non ha quella, di che si fa tutto quello onde si fon
veduta Roma, o non ha lette le grandezze de, verbi grazia, il bronzo in una statua: la
di quella città. E Galeno agguagliava l'arte formale è quella, che dà la forma e l'essere
della Medicina a quella dell'Arshitettura. E alla cosa, perchè la forma sua non altro fa,
come il medico ricorre alla filosofia, così l'ar che quel bronzo sia piuttosto uomo che ca
chitetto deve ricorrere alla Geometria. Ma che vallo, e piuttosto Cesare che Pompeo: l' eſſi
più ? non dimostra il nome stesso lei essere ciente è quegli che la fa, cioè l'artefice: la
principalissima di tutte le altre; poscia che finale è quella cagione che invita e sforza l'ar
architettoniche, nome derivativo dall'architet tefice a farla, la quale può essere così il de
tura, si chiamano tutte quelle arti, le quali siderio della gloria, come il bisogno o la vo
danno principio all'altre, o le comandano? E glia di guadagnare. E come la cagione formale
chi mi domandasse: Se l'architetto vince la na non può essere senza la materiale, così la for
tura ed il medico è suo ministro, perchè dun male non può essere senza l'agente, nè l'agente
que si prepone la medicina all'architettura? scnza la finale, la quale è più nobile di tutte
gli risponderei, perchè il fine è più nobile; l'altre, perciocchè tutte l'altre servono a lei,
SULLA PITTURA E SCULTURA mai

conciossiachè tutte le cose che operano così E prima diremo, che sebbene l'arti pigliate
naturalmente, come volontariamente operano propiamente si distinguono contro le scienze,
per lo fine. Platone aggiugneva a queste quat non è però che in ciascuna arte non si specoli e
tro cagioni la esemplare, chiamata da lui idea; consideri alcuna cosa: e mediante cotale con
aggiugneva ancora la strumentale, le quali in templazione si trova ed inferisce quello che si
verità si comprendono sotto le dette quattro; debba fare. È ben vero che le speculazioni
perciocchè tutte le cagioni sono, o quello del nelle scienze sono per cagione di loro stesse,
quale, cioè la materia, o quello dal quale, cioè e non per altro fine, che per sapere la verità
l'artefice, o quello nel quale, o piuttosto col delle cose, dove nell'arti non è così, perchè
quale, cioè la forma, o quello per lo quale, cioè tutte si riferiscono al fine dell'arte. Onde non
il fine. E da queste ne viene e risulta, quello il è dubbio, che ancora nell'arti si fanno delle
quale, cioè essa statua. Altramente se s'aves dimostrazioni, come nele scienze; ma vi è que
sero a mettere per cagioni tutte le cose che sta differenza, che nelle scienze le dimostrazioni
si ricercano di necessità, bisognarebbe mettervi sono di cose necessarie per sè e semplicemente,
ancora il tempo ed il luogo, perchè niuna cosa dove nell'arti sono di cose necessarie, non sem
si può fare senza questi; oltrachè, come diceva plicemente e per sè, ma per lo presupposto;
il Filosofo, tutte l'arti adoperano il moto, e e cotali presupposizioni cotalmente necessarie
niuna di quelle che alterano e trasformano una possono essere contingenti. E in questo modo
materia in un'altra, si può fare senza fuoco. scioglieva Galeno, onde fosse che l'opinione non
Notaremo ancora, che, sebbene in tutti gli uomi sia quistione tra gli abiti dello intelletto, co
mi sono da natura alcuni semi, e quasi principi me l'arte; perchè l'arte, diceva egli, sebbene
di tutte così le arti, come scienze, onde pare non è delle cose necessarie semplicemente, è
che tutti le possano apprendere tutte, non è però delle cose necessarie in un certo modo,
però che non si vegga manifestamente alcuni cioè per lo essere state presupposte così, ma
essere nati molto più atti a una che a un'al l'opinione non è delle cose necessarie, nè nel
tra. E perciò diceva Properzio, poeta piacevo l'un modo, nè nell'altro; onde, potendo noi
lissimo:
appigliarci così ad una parte come all'altra e
Naturae sequitur semina quisque suae. conseguentemente errare, non si può, né deve
porre fra gli abiti dello intelletto, che sono infal
E come molti sono atti a più, così pare che al
cuni non siano atti a nessuna. Giova bene in libili. Hanno ancora l'arti questa differenza dalle
finitamente l'industria e l'esercitazione, ma chi scienze, che esse sono divise e separate l'una
non accozza e congiugne l'arte insieme colla dall'altra, di modo, che si può essere buon
maestro in alcuna di loro, senza la cognizione
natura, radissime volte, anzi non mai diverrà
di nessuna dell'altre, dove le scienze hanno
eccellentissimo. Ma trattare di questo s'appar una certa convenienza e colleganza insieme, che
tiene alla disputa a chi più si debba avere
obbligo da buoni artefici o alla natura, o al malagevolissimamente può alcuno saperne nes
l'arte; e sebbene molte arti consistono in un suna bene, senza qualche cognizione, se non di
certo modo nell'esercitazione sola, non è però tutte, almeno della maggior parte. Sono ancora
che la vivezza dell'ingegno non possa assais differenti l'arti dalle virtù, perchè quelle cose
che si fanno dall'arti hanno il bene loro e l'u-
simo, anzi senza questa non provano mai molto,
non altramente quasi che un qualunque buono tilità in sè medesime, e però basta che si fac
artefice, s'egli è o stanco, o perturbato, o in ciano in qualunque modo l'artefice le faccia o
ben volentieri, o forzato; ma le cose che si
fermo non opera bene. fanno da virtuosi, se non si fanno virtuosa
E ancora da notare che tutte l'arti si pos mente e nel modo che si debbano fare, non
sono chiamare potenze, ma attive, perchè tutte
sono principi d'operare in materia diversa, in si possono chiamare virtù. Onde se alcuno fa
quanto diversa; cosicchè tutte l'arti quantun cesse alcuna opera o di fortezza o di tempe
ranza o mal volentieri o forzato o a cattivo
que meccaniche e mercenarie, si servono della
filosofia, se bene non sanno le cagioni, perchè fine, non si può chiamare nè forte, nè tempe
ciò facciano; onde il muratore adopera l'ar rato. È ben vero, che non ognuno, che fa al
chipenzolo ed il legnajuolo la squadra, senza cuna opera si può chiamare artefice, perchè se
sapere la natura o dell'uno o dell'altro; e se la facesse a caso o insegnato da un altro, non
la sanno, non la sanno come tali artefici ; onde sarebbe artefice. Come dimostrò quello scar
tutte l'arti sono subalternate all'XI Libro di pellino, il quale avendo per ordine e coll'aiuto
Euclide, e tutte hanno, come diceva Cicero di Michelagnolo rifatto, non so che membro a
ne, alcuni nomi propi e vocaboli particolari, una statua antica, chiese un marmo a Papa
i quali le più volte non sono noti, se non agli allora non per
Clemente lavorarlo, dicendo, che infino
s'era avveduto mai d' essere scul
artefici medesimi. Ora raccontaremo alcune so
ſi miglianze che hanno l' arti, o colle scienze, o tore; e avutolo, non prima s'accorse dell'er
colle virtù e così alcune dissomiglianze, ov ror suo, che l'ebbe ridotto e consumato in
lº vero differenze, riserbandoci a trattar quelle iscaglie, non avendo l'arte, la quale è un abito,
che sono fra l'arte e la natura nella Lezione come si disse, e secondo quello bisogna che
della Natura (1), se ci sarà conceduto il farla. s'operi. Sono bene l'arti e le virtù simili in
questo che amendue s'apparano coll'esercizio
(1) È quella che segue alla presente. Nell'edizione del Giunti e col fare assai. E per la cagione detta di so
essa è posta la prima, non saprei ben dire perchè. (M.) gli
pra diceva Aristotile nell'Etica che arti
VARetri l
I 22 LEZIONI
era molto meglio che nelle virtù l'errare e far Se quello, che si disse nella Lezione passata
male in prova; perciocchè cotale errore non è vero, cioè, che tutte le forme siano in po
fa, che uno non sia artefice, ma fa bene, che tenza nella materia subbietta, come disse Aristo
uno non sia virtuoso. tile che l'arte induce la forma nella materia,
Quanto a dubbi e problemi, che possono ca ancora che in essa non sia cosa alcuna dell'in
dere in questa materia dell'arte si dimanda tenzione della forma? Rispondesi, come dichia
prima, onde è, che i giovani ordinariamente rano le parole stesse, che le forme sono nei
non sono artefici perfetti: al che si risponde subbietti in potenza e non in atto.
che alla perfezione dell'arte si ricerca non so Se l'arti hanno bisogno non solo della dottrina
lamente la dottrina, cioè la cognizione univer universale, ma ancora dell'esercitazione, come
sale delle cose appartenenti ad essa arte, ma dicono alcuni che elle si possono apparare in
ancora l'uso e l'esercitazione, perchè come la sogno? Si risponde, che Averrois disse nel li
dottrina acuisce ovvero assottiglia la mente, così bro che egli intitolò Distruggimento de'distrug
l'esercitazione fa perfetta la mano, dove si ri gimenti, che dell'arti alcune non s'imparano,
cerca non meno tempo che studio. ma sono date dai demoni o dagli angioli; ed
Se l'arte è uno aggregato, ovvero raguna altrove disse, molti aver pensato che l'arti
mento di più regole ed ammaestramenti gene operative si possono acquistare in sogno dor
rali che s'indirizzano a qualche uso ed utilità mendo, ma questo non poter già avvenire delle
della vita umana, onde è che alcune sono dan scienze speculative, e da questa autorità hanno
nosissime, eppure si chiamano arti ? Come fu cavato tale opinione; le quali parole, credo
quella di ritrovare le artiglierie, della quale io per me che si debbano intendere non se
niuna si poteva nè pensare ancora più danno condo la verità e propia sentenza d'Averrois,
sa e biasimevole (1). Ebbene meritava chiun ma secondo la famosità e il parere altrui, co
que ne fu ritrovatore che in lui si rinnovasse me favella molte volte Aristotile, ed egli me
l'esempio di Perillo, che fe nell'arte sua pri desimo. E che questo sia vero, chi non sa che
mi vestigi (2), onde quanto in tutte le altre si appresso i Peripatetici non si danno i demo
debbe biasimare Falaride, tanto in questa cru ni? Or non si potendo apparare le scienze in
deltà meritò d'essere lodato. Al che si rispon sogno, molto meno pare che si possano appa
de; prima, che tutte l'arti sono buone, e or rare l'arti; e però forse disse: molti aver
dinate a buon fine, ma tutte possono, adope pensato.
randosi male gli uomini rei, farsi cattive e di. Se tutte l'arti, come s'è detto di sopra,
ventare di giovevoli, dannose; onde chi trovò hanno bisogno non solo dell'abito, e cogni
l'artiglieria, potrebbe rispondere d'avere ciò zione universale, ma ancora dell'uso e speri
fatto a benefizio degli uomini, per difendere le mento particolare (e per questa cagione diceva
città, che ingiustamente fossero assaltate, o il Medico che l'arte ha due gambe, cioè la
assaltare quelle, che giustamente dovessero es ragione e la sperienza), come è adunque vero
sere oppresse, poichè nessuna arte, se è dan quello che dice Avicenna, che alcuno possa
nosa, può chiamarsi arte veramente, secondo avere tutta la medicina, e quanto alla parte
quella diffinizione. Nè si creda alcuno, che Pe teorica e quanto alla pratica, ancor che egli non
rillo si possa chiamare veramente scultore, non abbia operato mai? Si risponde, che l'arti si
avendo avuto quel fine, che debbono avere gli possono apparare in due modi, o collo speri
seultori, se già non credessimo che tanti buoni mento solo senza la ragione, o colla ragione
e valenti maestri che furono innanzi a lui aves sola senza lo sperimento. E l'uno e l'altro di
sero tanto faticato nell'arte della scultura, non | questi modi è imperfetto e manchevole, per
per fare le statue degli Dei e contraffare le ciocchè non si può chiamare veramente me
immagini degli uomini grandi, ma per fabbricare dico chi non ha ammendue queste parti; con
un toro, dentro al quale si dovessero abbron ciossiachè come a ben medicare non basta la
zare crudelissimamente gli uomini vivi. scienza cavata dagli altrui libri, o voci senza
la pratica, così la pratica sola senza la scienza
(1) Perdoniamo al buon Varchi questa scappata contro la non è bastevole, e semprechè vi manchi o l'una,
invenzione delle artiglierie. Tutto ingolfato nelle sue sottigliezze o l'altra di queste, è necessario che l'arte
aristoteliche, egli, per consueto, non guardava più in là delle zoppichi, come meglio si vedrà nella quistio
cause e degli effetti apparenti per giudicar delle cose. Nè d'altra ne: chi operi meglio, o un pratico senza scien
parte la ragion pubblica era a suoi giorni così matura da rico
noscere, che l'invenzione della polvere da cannone, cangiando
za, o uno scienziato senza pratica.
tutta la pratica della guerra, doveva giovare d'assai l'uma Se la medicina è arte, e ciascuna arte è
nità. (M.) abito dell'intelletto, e niuno abito può erra
re, cssendo tutti certissimi, come dunque ave
(2) Sicilia, de' tiranni antico nido, mo detto nelle divisioni dell'arti, che alcune
Vide trista Agatocle acerbo e crudo;
E ride i dispietati Dionigi, sono congetturali, cioè non conseguiscono sempre
E quel che fece il crudo ſabbro ignudo il fine loro, come fa la medicina? Si risponde
Gittare il primo doloroso strido, ciò non avvenire dalla parte della medicina,
E far nell'arte sua primi restigi. avendo ella le sue regole e ordini tutti certis
Così il Petrarca nella Canzone – Quel ch'ha nostra natura simi, ma dal difetto di colui che opera, il quale
in sè più degno – la quale trovasi in alcune edizioni nella molte volte, o s'inganna, o erra, o nella quan
Giunta di vari componimenti, che si dicono da Messer Fran tità, o nella qualità, o nel tempo, o in alcuna
cesco rifiutati- (M.) altra circostanza; e così gli errori della medi
SULLA PITTURA E SCULTURA i 23

cina non sono dell'arte, ma del medico, e molte verso d'Agatone, l'arte ama la fortuna, ed ella
volte procedono ancora dalla difficoltà o im l'arte? Forse perchè, come soggiugne egli stesso,
possibilità della malattia, e bene spesso dagli amendue si maneggiano in un certo modo circa
infermi medesimi che non solo non fanno le medesime cose; le quali parole interpretando
quanto, e come è stato loro ordinato, ma tutto Eustazio, dice che amendue, l'arte e la fortuna,
l'opposito; per non dir nulla di quello che hanno la cagione loro estrinseca, cioè fuori
nasce ancora molte volte così dagli speziali, d'esse, e l'opera diversa dall'operazione, ben
come dagli astanti, o altri che li governino. chè siano poi differenti in questo, che l'arte
Potremmo ancora dire, e massimamente nella consegue le più volte il fine, secondo l'inten
rettorica, come disse Marco Cicerone, che altro dimento dell'artefice, dove il fine della fortuna
è il fine dell' oratore, cioè persuadere e altro non solamente avviene di rado, ma ancora fuori
l'uffizio, cioè dire in modo che si possa e si dell'intendimento, essendo la fortuna cagione
debba persuadere. non per sè, ma per accidente. La qual sentenza
Se la diffinizione di qualsivoglia cosa è il d'Agatone pare nel vero molto dubbia; con
medesimo che il diffinito, cioè che essa cosa ciossiachè quello che conseguisce l'effetto suo
che si diffinisce; perchè tanto è a dire uomo, a caso non si può, come testimonia Seneca,
quanto animale razionale, e ciascuna cosa è una chiamare arte. Ed Aristotile medesimo dice,
sola e non più, come è possibile che alcuna che quivi può maggiormente la fortuna, dove,
cosa, non avendo più che una quidità, come la prudenza è minore; e noi vediamo che tanto
dicono i filosofi, abbia più diffinizioni che una? sono più nobili l'arti e più stimate, quanto
Si risponde, che ciascuna cosa essendo una per meno vi può la fortuna. E credono alcuni che
la sua forma che è una, non può avere pro il detto d'Agatone si debba intendere e rife
piamente se non una sola quidità e diffini rire per quei pittori, i quali non possendo fare
zione, ma si danno molte volte più diffinizioni alcuna cosa con l'arte, la fecero a caso, non
a una sola cosa, perchè si può considerare di pensando di farla, come si legge ed in Plinio,
versamente; e secondo le diverse considera ed in Valerio Massimo di Nealte, che non po
zioni se le danno diverse diffinizioni, ora dal tendo contraffare la spuma d'un cavallo, gittata
subbietto, ora dal fine, ora da altre operazioni via stizzosamente la spugna, e colto a punto
ed accidenti, come si vede nella medicina, la il cavallo nella bocca, fece quello a sorte senza
quale non pure da diversi fu diffinita diversa pensarvi, che non avea potuto fare pensando
mente, ma da Galeno medesimo, per non dir coll'industria. Potremmo ancora dire che, come
nulla che molte cose molte volte piuttosto si l'arte non delibera del fine, così non si con
descrivono, che diffiniscono, e le descrizioni siglia, nè si delibera nella fortuna.
sono differenti dalle diffinizioni, come i dise Restaci ora a dichiarare solamente per com
gni primi o piuttosto gli schizzi sono differenti pimento di questa materia alcune quistioni. E
dalle figure colorite e perfette, perchè quelle prima si dubita a che deve maggiore obbligo
procedono per cose accidentali e queste per un buono artefice, favellando massimamente dei
essenziali. mobili, come un poeta, o alla natura o all'arte.
Se tutte l' arti che fanno alcuna cosa, la La quale quistione pare che Orazio risolva nella
fanno fuori di sè, cioè in materia estrinseca, Poetica; e la risolve brevemente, che l'una
come s'è detto di sopra, dunque un medico non può essere eccellente senza l'altra, e così
non potrà medicare sè stesso, nè un pittore un ottimo artista ha bisogno d'amendue, come
ritrarre sè medesimo? Si risponde, che questo ne dimostrano assai chiaramente questi suoi
Versl :
non è per se, ma per accidente, cioè che il
medico non si cura come medico, ma come
Natura fieret laudabile carmen, an arte
infermo, a cui accade essere medico; ed il me Quaesitum est: ego nec studium sine divite vena,
desimo diciamo del pittore, se già alcuno non Nec rude quid prosit video ingenium; alterius sic
volesse rispondere altramente, ritraendosi nello Altera poscit opem res, et conſurat amice.
specchio; il che non varrebbe nè nel medico,
nè in un barbiere che zucconasse o radesse se Tratta ancora Quintiliano questa medesima di
stesso. sputa nell'Oratore; ma perchè n'avemo par
Se tutte l'arti sono inferiori, e quasi figliuole lato altrove, non diremo altro in questo luo
della natura, onde Dante chiamò l'arte nipote go, se non la risoluzione, cioè che un eccel
di Dio, come avemo noi detto di sopra che lentissimo o poeta od oratore è più obbligato
l'architettura la vince? Rispondiamo, perchè all'arte, che alla natura, sebbene non può es
ella fa quelle cose che non si possono fare sere perfetto senza amendue.
dalla natura; e la cagione è, perchè la natura, Fu nel tempo de'padri, o avoli nostri gran
come si vedrà al suo luogo, opera solamente dissima disputa fra due Greci di grandissimo
in un modo, ma la vince però colle sue arme nome, benchè, a giudizio mio, tanto e più do
medesime, togliendo da lei la materia ed il veva cedere il Trapesunzio al Bessarione nelle
subbietto suo, e però tutte le arti sono dopo lettere, quanto gli era inferiore di dignità (1), se
la natura.
Se l'arte è un abito dell'intelletto ed ha (1) Il Cardinale Bessarione e Giorgio da Trabisonda, detto
il Trapesunzio, tengono un posto onorato fra que Greci, che,
tutte le cagioni, e la fortuna non ha cagione venuti in Italia a cercarvi asilo ed ospizio, giovarono ad ac
nessuna, se non per accidente, perchè disse cendervi più vivo l'amore delle lettere e della filosofia. – Il
Aristotile nel sesto dell' Etica, allegando il Bessarione, nato in Trabisonda nel 1395, fatto cardinale da
124 LEZIONI

l'arte consultava e deliberava; e ne scrissero i particolari sono quelli che si medicano, cioè
l'uno e l'altro, come si può vedere da chiunque Socrate o Callia, non gli universali, cioè l'uo
vuole, lungamente. Ma perchè ( oltra che 'l mo; ma è più degno, perchè, come dice Ari
tempo nol ci consente) n'avemo disputato al stotile, egli sa più ed è più saggio, e può in
tra volta, non diremo se non la risoluzione di segnare l'arte, il che non può fare il pratico
questo dubbio, il quale nel vero è chiarissimo, perchè non sa la cagione, e, come si dice vol
come si può vedere per le parole medesime garmente, il propter quid, ed il maggior segno
d'Aristotile nel terzo dell'Etica, cioè che l'arti che sia di sapere una qualche cosa, è, dice il
consul uno e deliberano, e molte volte molto Filosofo, il poterla insegnare e darla ad inten
più che le scienze non fanno, come si vede dere; e la cagione di questo è, penso io, per
manifestissimamente nella medicina, nell'arte chè allora si chiama perfetta alcuna cosa nel
del navigare e in tutte l'altre congetturali. genere suo, quando ella può fare e generare
Bene è vero che mai non consultano del fine, cosa somigliante a sè. Onde nè le piante, nè
ma sempre dei mezzi a esso fine conducenti; gli animali, nè gli uomini stessi si possono chia
ed in questo modo si debbe intendere Aristo mare perfetti infino che non possono generare
tie, qua io dice, che l'arte non delibera, an cosa a loro somigliante. Altri, per isciogliere
corchè gli spositori greci intendano nell'arti questo dubbio medesimo, dicono che l'arti si
che non sono congetturali. Ed è maraviglioso pigliano in due modi: propiamente, come si
a pensare, come il Trapesunzio, essendo uomo dichiarò di sopra, e comunemente; cioè quando
greco, e facendo professione non solo di ora si pigliano per la cognizione d'alcuna cosa; e
tore, ma di filosofo, erri tanto e tanto fuori di questo in due modi, perchè ciascuna scienza s'a-
ragione nell'interpretare quelle parole d'Ari cquista, o per ispirazione, che i teologi chia
stotile che dicono: se l'arte fosse nel legno, ella mano infusa, e questo non concederebbero i
non consultarebbe. filosofi, o per la scienza acquistata; e questo
Dubitasi ancora e disputasi, qual più possa in due modi, perchè o s'acquista da sè me
o l'arte o la sperienza; e ricercandosi in un diante l'invenzione ed in questo modo presup
medico perfetto ambedue queste cose, che sia pone la sperienza, o perfetta o imperfetta, o
meglio, quando mancasse d'una di loro, o me ella s'acquista mediante la dottrina, cioè es
di arsi da uno, il quale fosse buon pratico senza sendoci insegnata da altri; e questa si può
scienza, o bene scienziato senza pratica. Al che considerare in due modi, mentre ch'ella s'a-
rispondendo diciamo, che tra l'arte e la spe cquista, ed in questo modo non si ricerca la
rienza possono essere due differenze, una nel sperienza in colui che l'impara, ma solo in
conoscere, perchè la sperienza conosce sola colui che l' insegna: secondariamente si può
mente le cose singolari, ovvero particolari: considerare dopo l'acquistamento, ed in questo
l'altra nell'operare. E questa si può conside modo si ricerca la sperienza a volere che sia
rare in due modi: o quanto al modo dell'ope perfetta, ed abbia amendue quelle gambe, che
rare, e così non sono differenti, perchè l'una diceva il Medico. E mediante questa divisione
e l'altra si maneggia intorno a cose partico e distinzione si possono concordare Galeno,
lari: o quanto all'efficacia e giovamento del Avicenna ed Aristotile in più luoghi, dove pare
l'operare; ed in questo modo sono differenti, che siano contrari non solamente l'uno all'al
perchè lo sperto, ovvero pratico, opera con mag tro, ma alcuna volta a sè medesimi. E chi mi
giore certezza, e conseguentemente giova più, dimandasse, se uno può essere Artista, verbi
o di certo erra meno, perchè conosce il singo grazia Medico, senza la sperienza e non avendo
lare per sè e l'universale per accidente, dove medicato; gli risponderei di sì, s'egli inten
Io scienziato fa tutto l'opposito, perchè cono desse di quell'arte che s'acquista mediante la
sce l'universale per sè ed il singolare per ac dottrina, ma di no, se intendesse di quella
cidente. E però è ben più degno, ma meno che s' acquista per invenzione. Ma per finire
utile perchè, come dice il Filosofo tante volte, una volta questa materia, passeremo, con buona
licenza delle cortesie vostre,alla seconda disputa
Ergenio IV, vescovo di Sabina e Frascati da Nicolò V., non meno o bella, o utile, o diſficile che la
Le to a vari principi e patriarca di Costantinopoli da Pio II, prima.
emerse chiarissimo fra gli uomini più cospicui dell'età sua per
dottrina e saviezza, per generoso amor degli studi, per ogni DISPUTA SECONDA
maniera di virtù. Mori in Ravenna nel 1472, e legò la ricca
sua biblioteca alla repubblica di Venezia. – Il Trapesunzio, Qual sia più nobile, o la Scultura o la Pittura.
oriondo di Trabisonda, nacque in Candia verso l'anno 1395:
verne in Italia presso il 142o: insegnò in varie città la lingua
e ietteratura greca: stette lungo tempo in Roma protetto da Io non penso, che niuno di qualche ingegno
Nicºlò V. Era uomo d'ingegno acre e stizzoso: ond' ebbe a si ritrovi in luogo nessuno, il quale non sap
se tenere aspre contese con molti de' suoi contemporanei. Morì pia quanto grande sia stata sempre, e sia oggi
in isoma nel 1488 – Il Bessarione era gran fautore di Pla più che mai la contesa e differenza non solo
tene: tereva il Trapesunzio per Aristotile. Avea il primo fra gli scultori e pittori, ma fra gli altri an
º sito un'operetta contro Teodoro Gaza, altro difensore d'A- cora, della nobiltà e maggioranza fra la Pittura
ristotile, intitolata de Natura et Arte; e Giorgio, dimentico e la Scultura, credendo molti ed affermando
º mºlti benefici, che avea da lui ricevuti, prese a risponder
ei in luon mordace e rubesto: onde s'accese fra essi una fiera che la Scultura sia più nobile della Pittura, e
disputa, della quale parlano per disteso Apostolo Zeno e il Ti molti per lo contrario affermando e credendo
raboschi. (M.) che la Pittura sia più nobile della Scultura,
SULLA PITTURA E SCULTURA 125
allegando ciascuno in prò e favore della parte dove furono pittori eccellentissimi, e Plinio
sua varie ragioni e diverse autorità. Nè penso racconta che nella Grecia tutti i fanciulli no
ancora, che alcuno mi creda tanto arrogante, bili imparavano la prima cosa disegnare; onde
e presontuoso che io osassi di movere questa l'arte della Pittura fu ricevuta nel primo gra
dubitazione e disputa per deciderla e risol do dell'arti liberali, e sempre ebbe questo onore
verla, avendo pochissima cognizione dell'una che fu esercitata da uomini nobili e fu proibito
e manco dell'altra; ma bene penso che come con perpetuo bando, che niun servo potesse
a filosofo, cioè ad amatore del vero, mi sia le mai esercitarla. Che se Seneca non vuole, che
cito dire liberamente quel poco, ch'io inten nè i pittori, nè gli scultori s' annoverino nel
do, rimettendomi in tutto e per tutto al giu numero dei praticanti l'arti liberali, lo fece
dizio di chi è perfetto nell'una e nell'altra, per lo essere egli fra gli Stoici, i quali erano
cioè a Michelagnolo. E perchè io non desidero severissimi, e non chiamavano arti liberali se
altro, che trovare puramente la verità, e sa non quelle le quali non solo si convenivano
pendo che a ciascuno si debbe credere nel agli uomini liberi, ma li facevano liberi cioè
l'arte sua, ho scritto ed avuto i pareri e giu le virtù , onde il medesimo dispregia e si fa
dizi quasi di tutti gli scultori e pittori più ec beffe ancora delle scienze e della filosofia me
cellenti, che oggi in Firenze si ritrovino; e se desima, non tenendo conto, se non delle mo
la brevità del tempo lo mi avesse conceduto, rali ad imitazione di Socrate. Dicono ancora,
arei scritto ancora a tutti gli altri, che io co che Fabio, nobilissimo cittadino Romano, non
nosco fuori di qui. Ed in vero ho cavato dal solo non si vergognò d'essere pittore e scri
le opinioni loro non meno utile che piacere, vere il nome suo nelle sue opere, ma diede il
veggendoli non meno intendenti che ingegnosi, nome a così nobile famiglia (1), e che Marcanto
e che non solo lo scarpello o il pennello è be nio Imperadore, il quale fu dottissimo e san
ne adoperato da loro, ma ancora la penna, se tissimo, con quelle mani, colle quali dava leggi
guitando il Maestro loro (1), nell'un'arte e nel e reggeva il mondo, con quelle mcdesime di
l'altra; e mi sono confermato nella credenza pigneva, ed in un medesimo tempo dava opera
mia, che chiunque è eccellentissimo in un'arte grandissima così alla pittura, come alla filosofia;
nobile, non sia del tutto privato di giudizio e che Platone il quale fu ed è meritamente
nell'altre. E benchè io potessi dire brevissima chiamato divino, fu oltra modo studioso della
mente l'opinione mia, nientedimeno mi piace Pittura; e M. Cicerone, padre e maestro della
di raccontare, con quella agevolezza e brevità facondia romana, mostra, che molto non pure
che potrò maggiore, le opinioni degli altri. E se ne dilettasse, ma intendesse. Dicono ancora
perchè tutte le cose dubbie si possono provare che Demetrio fu non meno grande pittore che
in due modi, o per autorità o per ragioni, rac filosofo. E che in Atene anticamente fu uno
conteremo prima tutte le autorità, dipoi le ra chiamato Metrodoro, il quale fu non solamente
gioni, che avemo o udite, o lette. pittore grandissimo, ma eccellentissimo filoso
E quanto all'autorità diciamo prima che 'l fo. Onde avendo Lucio Paolo, vinto ch'egli
Conte Baldassarre da Castiglione mosse questa di ebbe Perseo, fatto intendere agli Ateniesi, che
sputa presso la fine del primo Libro del suo dot gli mandassero il miglior filosofo che potesse
tissimo e giudiziosissimo Cortegiano(2), ed alle ro, per insegnare a suoi figliuoli ed un pittore
gando molte ragioni per l'una parte e per l'altra, medesimamente eccellentissimo che gli dipi
conchiuse finalmente, che la Pittura fosse più gnesse il suo trionfo; gli Ateniesi gli mandarono
nobile. Medesimamente M. Leone Batista Alberti, Metrodoro, facendogli sapere, che egli solo lo
uomo nobilissimo e dottissimo in molte scienze servirebbe in amendue quelle cose eccellentis
ed arti, essendo stato architetto e pittore gran simamente: il che seguì, perciocchè Paolo non
dissimo ne' suoi tempi, tiene nel libro ch'egli solo se ne tenne pago e contento fra sè mede
scrisse della Pittura che ella sia più degna e simo, ma lo bandi pubblicamente.
più nobile della Scultura (3). A questi s'aggiun Potremmo addurre infiniti altri esempi sì di
gono tutti i pittori che m'hanno scritto o a molte altre città, e si massimamente di Firenze,
chi ho favellato, i quali, per non essere neces dove la pittura già spenta rinacque, e sono stati
sario, non nominerò. Ma perchè le autorità non tanti e si eccellenti maestri nobilissimi cittadini,
dimostrano, nè conchiudono necessariamente, i quali non racconterò sì per maggiore brevità
ma ingenerano solamente fede ed opinione, pas e sì per lo averne scritto lungamente e con gran
seremo alle ragioni. diligenza M. Giorgio Vasari d'Arezzo, mio ami
Dicono dunque primieramente la Pittura es cissimo, a imitazione di molti altri pittori an
sere stata sempre in grandissima riputazione tichi o piuttosto di Plinio, per l'immortale be
appresso tutte le genti e massimamente appo nefizio del quale si sono serbati dalla ingiuria
i Greci ed i Latini e prima appo i Toscani, del tempo vivi e lodati i nomi di tanti eccel
lentissimi così scultori, come pittori, le cui
(1) Intende Michelagnolo. (M.)
(2) V. il Cortigiano lib. I, cap. XVII (tomo Xl di que (1) Qualunque sia l'espressione, il Varchi qui vuol dire,
sta Biblioteca Enciclopedica Italiana pag. 189). Ivi sono, a non già che il primo de' Fabi fosse cognominato pittore, ma
un bel circa, tutti gli argomenti qui addotti dal Varchi, che che il primo che tra Fabi ebbe questo soprannome, lo ebbe
più volte adoperò le parole stesse del Castiglione. (M.) per essere in effetto eccellentissimo pittore. Dipingeva intornº
(3) L'Alberti, toscano d'origine, nacque in Genova nel 14o4: all'anno 3o4 innanzi l'era volgare; e sebbene scrittore di
mori in Roma nel 1472: ei fu de pochi, in cui si videro ma
poco pregio, si può considerare come il padre della storia la
ravigliosamente congiunte tutte le scienze. (M.) tina. (M.)
126 LEZIONI

opere non che si trovassero, non pure si sa conobbe un velo dipinto, giudicandolo vero e
pevano. comandando che si levasse per poter vedere
Argomentano ancora dagli onori e premi gran la figura ch'egli credeva che ci fosse sotto. E
dissimi, che sempre furono fatti e dati ai pit di simili esempi hanno avuti pure assai i tempi
tori, perciocchè, sebbene i premi dell'arti sono nostri, come ultimamente nel ritratto di mano
ordinariamente i danari, delle nobilissime però di M. Tiziano di Papa Paolo terzo.
sono la gloria e l'onore, onde nacque quel det Argomentano ancora dalla difficoltà dell'ar
to: L'onore nutrisce l'arti; e si vede ordinaria te, dove, distinguendo la difficoltà in due parti:
mente, ch'elle fioriscono, o più o manco, in in fatica di corpo, e questa come ignobile la
questo o in quel luogo, secondo che più o meno sciano agli scultori: ed in fatica d'ingegno, e
sono amate o favorite da principi. Onde sotto questa nobile riserbano per loro, dicono, che
Alessandro era in pregio e conseguentemente oltre le diverse maniere e modi di lavorare e
in l'uso l'arte della guerra: sotto Augusto la colorire in fresco, a olio, a tempera, a colla
poesia: sotto Nerone la musica, ed ai nostri ed a guazzo, la Pittura fa scorciare le figure, e
tempi sotto Papa Leone tutte le arti e disci le fa parere tonde e rilevate in un campo piano,
pline in un tempo medesimo; il quale uso, co facendolo sfondare e parere lontano con tutte
me ognuno vede, ritorna a gran passi sotto il le apparenze e vaghezze che si possono desi
virtuosissimo e liberalissimo Signor Duca Prin derare, dando a tutte le sue opere lumi ed
cipe nostro. Dicono dunque che i pittori grandi ombre bene osservate, secondo i lumi ed i ri
furono sempre in grande onore appresso i gran verberi; il che tengono per cosa difficilissi
di principi, come ebbe Alessandro il grande ma; ed insomma dicono che fa parere quello
Apelle, e le tavole loro furono pagate grandis che non è: nella qual cosa si ricerca fatica ed
simi pregi e stimate tanto si da' pittori mede artifizio infinito. Mostrano ancora questa loro
simi, che vollero piuttosto donarle alcuni di difficoltà con esempio manifesto, dicendo, che
loro che riceverne prezzo, giudicandole mag un fanciullo o uno che non sia dell'arte farà
giori di qualunque pregio, e si da altri uomini più agevolmente, o manco male un viso, o qual
grandi, che per non guastarne una, s'astennero sivoglia altra cosa colla terra o colla cera, che
di pigliare le città intere (1). disegnandolo in una carta, o in altro luogo.
Argomentano ancora, la Pittura essere molto Dicono ancora che si sono trovati molti scultori
più universale, cioè potere imitare la Natura molto grandi senza gran disegno, il che della
in tutte le cose; perciocchè oltra il potere con Pittura non avviene. Ancora dicono, che i pit
traffare tutti gli animali e tutte l'altre cose, che tori ordinariamente sanno meglio fare di ri
si possono toccare, fanno ancora i pittori tutte lievo, che gli scultori colorire; e di qui argui
quelle che si possono vedere, alle quali non ag scono esser più agevol cosa di pittore diven
giugne la scultura; onde Plinio diceva d'Apelle, tare scultore, che di scultore dipintore, e con
che egli aveva dipinte quelle cose che non si seguentemente la Scultura esser più agevole,
potevano dipignere, cioè tuoni, baleni e saette. che la Pittura. Al che aggiungono, che al di
Fanno ancora fuochi, lumi, aria, fumi, fiati, pintore e necessaria la prospettiva per gli scorci
nugoli, riverberi ed altre infinite apparenze, delle figure, de casamenti, delle città e dei
come sarebbe l'apparire del Sole, l'aurora, la paesi, la quale consiste nella forza di linee
notte, i colori dell'acque, le piume degli uc misurate, di colori, di lumi e d'ombre, onde
celli, i capelli e peli dell'uomo e di tutti gli nascono cose maravigliose e quasi soprannatu
animali, sudori, spume ed altre cose, che non rali. Ed in somma dicono, che tutta la mac
possono fare gli scultori. china del mondo dir si può, che una nobile e
Conchiudono dunque, che la Pittura non gran pittura sia per mano della natura e di
solo fa più cose assai, ma ancora più perfetta Dio composta (1).
mente della Scultura, dando i propi colori a Arguiscono ancora dalla magnificenza ed or
tutte le cose minutissimamente; dal che argui namento, dicendo quanto sia cosa magnifica, e
scono che la Pittura sprime meglio, e conse quanto adorni il vedere una storia intera e
guentemente imita più la natura; il perchè alle perfetta con tante varie figure di tutte l'età e
gano l'esempio delle uve che aveva in mano condizioni, in tante e tanto varie attitudini,
il fanciullo dipinto da Apelle, dove gli uc così d'uomini, come d'animali, coi loro propi
celli volarono per beccarle, onde egli le fece colori di tutte le parti, tanto morti, quanto
scancellare subito, conoscendo per quello atto vivi, vestiti ed ignudi, sani e malati, addor
che aveva bene dipinte l'uve naturalmente, ma mentati e desti, armati e senza arme, arditi e
non già il fanciullo. Ma che ci dobbiamo mara timidi, a cavallo ed a piè, feriti in vari luoghi da
vigliare degli animali bruti, se gli uomini medesi varie armi, da varie persone, così in terra, co
mi, anzi i medesimi pittori eccellentissimi ri me in mare, e finalmente tutto quello che può
mangono ingannati dalla Pittura ? Come avven
ne, quando contendendo Zeusi con Parrasio, non (1) Il Castiglione dice: » E veramente chi non estima
quest'arte, parmi che molto sia dalla ragione alieno; che la
» macchina del mondo che noi veggiamo coll'ampio cielo di
(1) Narrasi, che tanto pregiata fosse una tavola di Proto » chiare stelle tanto splendido, e nel mezzo la terra dai mari
gene, ch'essendo Demetrio a campo sotto Rodi, e potendo en s» cinta, di monti, valli e fiumi variati, e di sì diversi alberi,
trarvi dentro, appiccandole il fuoco dalla banda ove sapeva vaghi fiori e d'erbe ornata, dir si può che una nobile e
ch'era quella tavola, per non abbruciarla, restò di dar la bat » gran pittura sia per mano della natura e di Dio compo
taglia, e cosi non prese la terra. (M.) º sta º. (M.)
SULLA PITTURA E SCULTURA 127
accadere in tutti i luoghi. La qual cosa arreca minciarono al tempo di Fidia, benchè anche
quello ornamento e grandezza che si può ve Fidia fu marmorajo. Dicono ancora d'aver ve
deresi in molti luoghi, e si massimamente nella duto in Roma uno esempio della Scultura e
Cappella di Roma ed in molte stanze del Pa della Pittura, dove la Scultura era d'oro, ed
lazzo (1). | in sulla mano destra, e la Pittura d'argento in
Argomentano ancora dalla comodità ed uti sulla sinistra.
lità, dicendo, che molto più agevolmente si Argomentano ancora dalla lunghezza del tem
può dipignere in ogni luogo ed in ogni tempo, po, dicendo che la Scultura è quasi perpetua,
che scolpire, per farsi con minore così tempo, non essendo sottoposta ne a pioggia, nè a fuo
come spesa, e si per trovarsi e maneggiarsi più co, ed altri accidenti a gran pezzo, quanto la
agevolmente i colori, che i marmi; oltre che Pittura; il che apparisce nelle statue antiche,
non si ricerca in un pittore quella gagliardia delle quali se ne trovano infinite, dove delle
e robustezza, che nello scultore; ed una Chiesa pitture non è rimasa in piè nessuna, se non
si vede tutta dipinta senza tener luogo o impe se alcune nelle grotte di Roma che hanno dato
dirla di cosa veruna, o arrecarle danno o pericolo il nome a quelle che oggi si chiamano grotte
nessuno.Trassene ancora grandissima utilità nelle sche; e quinci aver detto il Petrarca:
scienze, come si vede nel libro della Notomia del Quel dolce pianto mi dipinse Amore,
Vessalio, nelle quarantotto immagini del Cielo Anzi scolpì o (1).
di Camillo della Golpaia, nel libro dell'erbe
del Fnesio, e molto meglio e più naturalmente A questa ragione rispondono i pittori in tre
ne disegni di Francesco Bacchiacca, ritratti al modi: prima dicono questo non venire dall'arte,
l'illustrissimo Duca di Firenze, come si può ma dal subbietto dell'arte, il che è verissimo:
ancora vedere nello scrittoio di Sua Eccellen secondariamente dicono, che niuna cosa sotto
za (2). -
il cielo è perpetua, e che le pitture durano
Argomentano ancora dalla vaghezza e dal centinaia d'anni, il che pare loro che basti:
diletto, che si cava maggiore dalla Pittura, che nel terzo luogo dicono, che si può dipignere
dalla Scultura, rispetto massimamente a colo ancora nei marmi, e così saranno eterne a un
ri; oltre che si ritraggono ed uomini e donne, modo, allegando l'esempio di fra Bastiano, c
che somigliano più, e porgono diletto grandis que'versi del Molza a lui, che dicono:
sino, come si vede ne duoi sonetti di messer Tu che lo stile con mirabil cura
Francesco Petrarca fatti sopra il ritratto di Pareggi col martello, e la grandezza
Madonna Laura di mano di Simone Sanese ed Che sola possedea già la Scultura
in quello del Reverendissimo Bembo sopra il Ai color doni e non minor vaghezza,
ritratto fattogli dal Bellino, Viniziano, che co Sì che superba gir può la Pittura,
mincia: O immagine mia celeste e pura. Ma più Sola per te salita a tanta altezza,
che in tutti i luoghi nelle bellissime e dottis Col senno, onde n'apristi il bel segreto,
sime stanze, così di messer Gandolfo, come Movi pensoso a l'alta impresa e lieto.
del Molza, sopra il ritratto di donna Giulia di
mano di fra Bastiano da Vinegia (3). Ed an E quegli altri non meno vaghi di messer Gan
dolfo pure al medesimo sopra la medesima ma
cora che si potessero allegare molte più ra teria:
gioni ed esempi, questi però ci sono paruti ab
bastanza, essendo i maggiori, e donde gli al E con quell'arte, di che solo onori
tri si possono trarre agevolmente, e perciò pas Il secol nostro, e lo fai chiaro e bello,
seremo alle autorità e ragioni degli scultori. Con nuovo uso agguagliando i tuoi colori
I quali dall'altro lato dicono tutti ed affer Alle forze d'incude e di martello,
mano, che la scultura senza alcun dubbio è più Or coronata di novelli fiori, -

nobile, prima allegando Plinio, il quale dice, Or col fianco appoggiata a un arboscello,
che l'arte della Scultura, che i Latini chia E'n mille altre maniere, e 'n treccia, e'n gonna,
mano marmoraria, fu molto innanzi della Pit Formi l'altera e gloriosa Donna.
tura e della statuaria, cioè del gittare le sta Argomentano ancora, e questa ragione si noti
tue di bronzo; perciocchè amendue queste co bene, perchè vi fanno sopra gran fondamento,
e secondo a me pare con gran ragione: di
(1) Intende della Cappella Sistina, ove sono i freschi di Mi cono dunque, che animendue queste arti cer
chelangiolo, e del Vaticano, ove, fra gli altri molti, sono i mi cano d'imitare la natura, e che quella sarà più
rabili ri di Raffaello. (M.)
nobile che meglio saprà fare questo e s'appres
(2) Non mi venne fatto di trovare notizia alcuna di Ca
mio della Golpaia e del Fuesio. – Francesco Ubertini, detto serà più al vero, il che è verissimo. Poi sog
il Bacchiacca, fratello di Baccio Ubertini, chbe molto nome giungono che la Pittura è, come noi diremmo,
cane pittor di grottesche. Era solito a operar sempre in pic sofistica, cioè apparente, e non vera, non al
caso particolarmente intorno a privati mobili e al piccioli qua tramente quasi che si veggono le figure negli
dri, ch” erano mandati anche in Inghilterra. Verso il fine del specchi; conciossiachè quelle cose che appari
vive zzo servi al Duca Cosimo I. (M.)
scono nella Pittura, non vi sono in verità, il
(3) Messer Gandolfo Porrino, modenese, servi in Corte
del cardinal Farnese, e fu ancora segretario di D. Giulia Gon che non avviene nella Scultura. E che questo
zaga, per la quale concepi una passione ardentissima. Anch'egli, sia vero nol negano i pittori medesimi; onde
come il Molza, scrisse alcune stanze sul ritratto, che di questa se i pittori imitano le medesime cose che gli
bellissima donna ſe dipingere il cardinale Ippolito de' Medici
; da fra Sebastiano del Piombo. (M.) (1) Son. CIV., Parte I.
128 LEZIONI

scultori con più cose, cioè colle figure e coi come avemo dichiarato nella sposizione della
colori, e gli scultori colle figure sole, le imi prima parte del sonetto, faccia la forma sola,
tano però più veramente, e più naturalmente. ma la forma colla materia insieme, cioè tutto
E che questo sia vero ognun sa, che sebbene il composto. Oltre questo, quando bene se gli
l'occhio è il più nobile di tutti i cinque senti concedesse quello che dice, ad uno scultore
menti, ed ha per obbietto i colori, non è però basterebbe che la sua statua, venisse da che si
il più certo, anzi s'inganna molte volte, come volesse, imitasse meglio la natura e più s'ap
sa ognuno, e meglio i pittori che gli altri, la pressasse al vero che una Pittura, perchè qui
cui arte non pare che sia quasi altro che in si favella della nobiltà dell'arte, cioè qual più
gannare la vista; ma il più certo sentimento s'appressa al naturale, checchè ne sia la ca
è il tatto, onde chi niega il tatto è di perduta gione, o una Scultura o una Pittura.
speranza, e quinci sclamò Lucrezio: Raccontate le autorità e le ragioni dell'una
parte e dell'altra, innanzi che io venga a ri
Tactus enim tactus proh divum numina sancta! spondere alle ragioni de pittori contro agli
Corporis est, etc. scultori, non voglio mancare, con buona pace
E quando noi vediamo una qualche cosa, e du e sopportazione di amendue le parti, di dire
bitiamo se è o non è, ci serviamo, per certi liberamente la sentenza mia circa questa du
ficarci, del tatto. Ora sa ognuno, che il tatto bitazione, la quale, prego che sia accettata con
trova in una statua tutto quello che l'occhio vi quell'animo che io la dico, e se non sarà, come
vede, che sia però obbietto del tatto, dove in io penso e certo vorrei, non s'attribuisca ad al
una Pittura non ve ne trova nessuna, onde gli tro che al poco sapere e giudizio mio. Dico dun
scultori dicono che la loro arte è vera, e la que, procedendo filosoficamente, che io stimo,
Pittura dipinta, e che vi è tanta differenza, anzi tengo per certo, che sostanzialmente la Scul
quant'è dall'essere al parere. A questa ragione tura e la Pittura siano un'arte sola, e conse
rispondono alcuni, che sebbene il pittore non guentemente tanto nobile l'una quanto l'altra,
fa la persona tonda, fa quei muscoli e mem ed a questo mi muove la ragione allegata da
bri tondeggiati di sorte, che vanno a ritrovare noi di sopra, cioè che l'arti si conoscono dai
quelle parti che non si veggono con tal ma fini, e che tutte quelle arti, che hanno il me
niera, che benissimo comprender si può che desimo fine, sono una sola e la medesima es
il pittore ancor quelle conosce ed intende; la senzialmente, sebbene negli accidenti possono
qual risposta quanto vaglia, lascierò giudicare essere differenti. Ora ognuno confessa che non
a ciascuno, perchè gli scultori direbbero, che solamente il fine è il medesimo, cioè una ar
non niegano che il pittore le conosce ed in tifiziosa imitazione della natura, ma ancora il
tende, ma ch'egli molle può fare. Alcuni altri principio, cioè il disegno; nè mi maraviglio
rispondono, che per questo gli scultori non imi che tanti grandi uomini e così peregrini ingegni
tano più la natura per far di rilievo, che al non abbiano trovato infino a qui, che io sap
tramente; anzi tolgono la cosa che già era di pia, questa verità, perchè sebbene nella so
rilievo fatta della natura, onde tutto quello stanza, ovvero essenza, ed in somma realmente,
che vi si trova di tondo o di largo, o d'altro come dicono i filosofi, e come diciamo noi, in
non è dell'arte, perchè prima v'erano e lar effetto sono una medesima, per lo avere un
ghezza ed altezza e tutte le parti che si danno medesimo fine, sono però molto varie negli ac
a corpi solidi, ma solo sono dell'arte le linee cidenti. E di qui è nato che alcuni, credendosi
che circondano detto corpo, le quali sono in provare la nobiltà dell'arte, hanno provato ora
superficie. Onde, come è detto, non è dell'arte la difficoltà, ora la vaghezza, ora l'eternità,
essere di rilievo, ma della natura. E questa ed ora qualche altro accidente; e questi non
medesima risposta, per recitare tutte le parole variano la sostanza, perchè così è uomo uno
loro, serve ancora dove dicono del senso del picciolo, brutto, goffo, ignobile, ignorante, come
tatto, perchè il trovare la cosa di rilievo, dig un dotto, nobile, avvenevole, bello e grande,
già è detto non essere dell'arte. La qual ri perchè amendue sono il medesimo nella so
sposta, ancora che sia di uomo ingegnosissimo stanza, avendo amendue l'anima intellettiva,
ed amicissimo mio, pare a me, che non con ma variano negli accidenti. E per dare un
chiuda, prima per non essere vero, che quello esempio più accomodato e più chiaro: a chi
che vi si trova delle tre dimensioni sia total dimandasse, quale è più nobile arte, o quella
mente della natura, perchè sebbene tutti i corpi medicina, che si chiama fisica, cioè natura
hanno le tre dimensioni necessariamente, non le, o quella che si chiama cerusica, cioè ma
però le hanno in un modo medesimo: altramente nuale, si deve rispondere a un modo, cioè che
lo scultore non vi avrebbe fatto niente, per tanto è nobile l'una quanto l'altra, perché nel
chè in altro modo sono le dimensioni d'un vero ed in sostanza sono un'arte medesima; e
marmo rozzo, che del medesimo, fattane una la cagione è perchè hanno un medesimo fine,
statua: perchè non solamente vi si trovano le cioè la sanità; e di questo appresso i migliori
tre dimensioni naturali, ma ancora in guisa così medici come filosofi, non è dubbio nes
che eziandio un cicco conosce quella essere suno, ed i medici antichi come Ippocrate e
una statua; poi non è vero, che solo le linee Galeno operavano colle mani, come testificano
che circondano detto corpo siano dell'arte, essi medesimi e l'opere loro tante volte. Onde
perchè sebbene l'arte opera solamente nella quando alcuno concedesse tutte le ragioni che
superficie, non però si può dire, che l'artista, s'allegano per la parte de'dipintori, non segui
sULLA PITTURA E SCULTURA 129
rebbe per questo che la Pittura fosse più no rebbero che questo avveniva dalla gran difficoltà
bile, e dall'altro lato chi concedesse agli scul della Scultura, non solo del corpo, ma del
tori tutto quello che dicono, non seguirebbe l'ingegno, perchè chi è occupato in ella, non
che la Scultura fosse più nobile, confessato può dare opera ad altra cosa nessuna.
che avessero il medesimo fine. Ed io per me, Alla seconda ragione la concederebbero, mc
per quel poco che n'intendo, credo che essendo desimamente tutta, e confesserebbero che niuno
le medesime effettualmente e variando negli pregio può pagare una bella tavola, e che niuno
accidenti, in alcuni sia tal dubbio, che non si onore può esser fatto da uomo si grande a un
possa o difficilmente risolvere, come escmpi pittore che egli nol meriti maggiore, conside
grazia la difficoltà: in alcuni siano senza dub rata non solamente la nobiltà di cotale arte,
bio pari, come l'università nella Pittura, cioè ma la fatica e 'l tempo che necessariamente
il potere imitare più cose, e nella Scultura la bisogna spendervi, e quanto pochi dopo molte,
eternità, cioè durare più lungo tempo, ed anzi infinite, fatiche e sudori divengano eccel
essere meno sottoposta alle ingiurie; in alcuni lentissimi. Ma direbbero, che il medesimo av
siano pari, o con pochissimo vantaggio, come viene e forse più, e per le medesime cagioni
nella riputazione e nell'essere stimate dalle agli scultori, i quali nel vero hanno sempre
genti, o veramente nel dilettare, trovandosi avuto i pregi maggiori; il che è avvenuto loro,
vari giudizi secondo la varietà delle nature. come dicono i pittori, per essere sì più fati
E rimettendomi in tutto e per tutto, come dissi cosa di corpo, e si più lunga di tempo, oltre
di sopra, al giudizio di chi o solo, o più ve che durando più, soddisfa meglio all'intendi
ramente che alcun altro può giudicarne, pas mento di colui, per cui si fa. E se Alessandro
serò a rispondere alle ragioni allegate di so amò grandemente e beneficò Apelle, coman
pra, ed ultimamente dichiararò, come saprò dando che niuno il ritraesse, eccetto lui, do
il meglio, quale sia la somiglianza e quale la veno credere, che facesse il medesimo, come
differenza tra la poesia e l'arte del disegno, testifica il Petrarca, ancora di Pirgotele e di
sotto la quale comprendonsi alcune altre ar Lisippo (1).
ti. Comprendonsi gli intagliatori non tanto di Alla terza ragione risponderebbero, che con
legname, come era già il nostro buon Tasso, tenendo ella tre parti, la prima parte, cioe
oggi nobile architettore, quanto di gioie e pietre che la Pittura può fare più cose, la concedereb
fini, nel quale artifizio tiene lo campo senza bero, ma negherebbero la seconda; cioè che
contrasto alcuno il gentilissimo M. Alessandro le facciano più perfettamente che essi non fanno
Greco, come ancora gli Orafi in molte loro le loro, e così la terza, cioè la conseguenza,
parti, e quegli che anticamente si chiamavano che essi fanno; e concederebbero che imitano
frigiones, ed oggi ricamatori; tra tutti i quali è bene più, cioè in più cose la natura, ma non
eccellentissimo Antonio Bachiacca antichissimo già meglio, cioè più perfettamente, come si
amico nostro; come vi dimostrano largamente disse di sopra. Ed all'uve d'Apelle ed ai cani
l'opere lavorate da lui all'Eccellenza del no che abbaiarono a cani dipinti ed a tutti gli altri
stro Illustrissimo signor Duca, e massimamente esempi antichi e moderni, risponderebbero
la Pittura e la Scultura (1). prima il medesimo, il che è maggior cosa, es
Quanto alla prima ragione gli scultori concc sere avvenuto alle sculture, onde il medesimo
derebbero tutte le cose che in essa si contengono, Plinio che racconta degli uccelli e de cani,
e direbbero che tutte si convengono medesima racconta ancora nel medesimo luogo de'cavalli
mente e forse più alla scultura, perchè il disegno che annitrirono a cavalli di marmo e di bron
è l'origine, la fonte e la madre di amendue loro; zo. Ma che più? Non dice egli che gli uomini
onde i fanciulli Greci mediante il disegno avreb medesimi si sono innamorati delle statue di
bero così potuto scolpire come dipingere, ma marmo, come avvenne alla Venere di Prassi
bastava loro quella prima parte per servirsene tele, benchè questo stesso avviene ancora oggi
forse non meno all'Architettura e Cosmogra tutto il giorno nella Venere che disegnò Miche
ſia, che per cagione dell'arte della guerra. Non lagnolo a M. Bartolommeo Bettini (2), colorita
negherebbero già, penso io, che la Pittura per di mano di M. Jacopo Pontormo (3). Seconda
essere in vero, non solo men faticosa, quanto riamente direbbero questo ne pittori non es
alla fatica del corpo, ma ancora più dilettevole sere tanto gran maraviglia, quanto negli scul
nell'operarla e di molto minor tempo, era eser
citata più volentieri e più spesso dagli uomini (1) Vincitore Alessandro l'ira vinse,
grandi occupati o in altre professioni, o in E fel minore in parte che Filippo:
altre faccende; ed alcuni, per avventura, di Che gli val, se Pirgotele o Lisippo
L'intaglidr solo, ed Apelle il dipinse ?
(1) Del Tasso, intagliatore in legno, qui nominato, non rin Son. XIX, Parte IV.
venni alcuna notizia. Alessandro Cesari, cognominato il Gre (2) Bartolommeo Bellini fu un ricco mercante fiorentino,
co, ebbe gran valore nell'intaglio del cammei, delle ruote e dei stanziato in Roma, grande amico del Varchi e di Michelaguolo,
coni d'acciaio, ed ogni altro si fatto artefice superò, dice il Va che ſe per lui varie opere di scalpello e di pennello: fra l'al
sari, in grazia, bontà e perfezione. Il cammeo suo più pre tre una Venere in marmo lodatissima in questa stessa Lezione
giato è la testa di Forioue Ateniese.– Antonio Ubertini, detto dal Varchi. (M.)
il Bachiacca, fratello di quel Baccio e di quel Francesco, che (3) Jacopo Carrucci, dal nome della patria sua detto Pon
sono accennati più sopra, fu valentissimo ricamatore, e con tormo, fu eccellentissimo pittore: ebbe a maestri il Vinci, po
Giovanni Rossi e Nicolo Fiamminghi introdusse l'arte del tes scia Andrea del Sarto. Fu alquanto strano di naturale, e fa
sere gli arazzi in Firenze. ( 1.) cile a isvogliarsi d'uno stile per prenderne un altro. (M.)
V Ala e il 17
i 3o LEZIONI
tori, rispetto a colori ed a quelle minuzie, che continua diligenza e star sempre intento non
la Pittura può meglio sprimere, e concedereb meno coll'ingegno, che colla mano per fare
bero, credo io, che in quanto agli accidenti, proporzionata ed accordare tutte le parti della
e massimamente, essendo l'obbietto degli occhi sua statua, e tanto più, ch'egli non può mai
i colori che ci dilettano infinitamente, la Pittura vedere del tutto, come debba essere, e torna
soprastà alla Scultura, ma nclle cose sostanziali, re, fatta la sua figura, fino che non è fornita,
come ne dimostra il tatto, che, per lo essere e sempre gli bisogna stare con continua gelo
materiale, è più certo che la vista e s'inganna sia delle cose che possono accadere moltissime.
meno, risponderebbero essere il contrario; e di È ancora gran fatica l'avere a ritrovare in
rebbero, che l'una arte e l'altra cerca d'imi un marmo, e poi condurvi mediante lo scar
tare quanto può il più la natura; ma non po pello alcun membro che tocchi più membra
tendo fare le figure vive, perchè allora sa
rebbero la natura medesima, cercano di farle
più somiglianti al vivo che possono; e potendo:
si imitare due cose, che si ritrovano in tutti i
corpi, cioè la sostanza e gli accidenti,
in qualche attitudine difficile, e sia proporzio
nato all'altre, e convenga con tutta la figura,
come si vede nella Notte di Michelagnolo, e
nel Duca Lorenzo, o veramente fare un mem
dirch bro spiccato, come sarebbe un braccio in aria,
bero che essi imitano più la sostanza e gli acci
denti, cd i pittori più gli accidenti che la so
stanza. E certa cosa è, che una figura di rilievo
e tanto più, se avesse in mano alcuna cosa,
come si vede nel bellissimo, anzi miracoloso
Bacco di M. Jacopo Sansovino (1). Fa ancora
|
ha più del vero e del naturale, quanto alla difficoltà non piccola secondo alcuni, che allo
sostanza, che una dipinta: il che dimostrano scultore è di mestiero operare nel modo con
si la figura di Pigmalione, e si tutti gl' Idoli trario, ch'egli ha imparato, cioè che quando
antichi che erano di rilievo, perchè meglio po impara colla terra, lavora per lo più aggiu
-
tessero ingannare gli uomini; e tutti quelli che gnendo, e quando scolpisce nel marmo, lavora
hanno o creduto, o voluto dare a credere che levando, e conseguentemente con altra regola,
le figure favellassero, l'hanno prese di rilievo, il che non avviene de' getti del bronzo. E in
come si vede in Egitto; onde nacque quella questo sono diversi gli statuari da marmorari,
bellissima stanza e dottissima del Molza : ed a vari modi del lavoro de' pittori contrap
pongono il fare di marmo, di bronzo, di legno,
Forse ancor fia, che Memfi, e chi già cinse di stucco, di cera, di terra, di tutto, di mez
Di muri Anubi, e ricchi tempi e fregi zo e di basso rilievo; ed anche ad essi è ne
D'oro e di gemme i mostri suoi distinse, cessaria la prospettiva; ed anch'essi levano
Con voi contenda d'artifizi egregi:
E dove infino a qui nulla mai finse paesi, città e case di rilievo, e molto meglio
Dal dl, che 'n lei mancar gli antichi pregi, si comprende, come noi diremmo o l'Inferno
o 'l Purgatorio di Dante di rilievo, che di
Ritorni al primo onor, col qual dia poi Pittura, ancora che simili cose si convengono,
Spirar, come già fece, a sogni suoi. per avventura, più propiamente all'architetto.
Non si niega già che la Pittura per cagione dei La qual cosa si potrà conoscere apertamente
colori, e di quelle sottilissime parti, perfettis nel sito d'amenduc, che si fa continuamente
simamente fornite, ed in somma rispetto agli dal nostro Luca Martini, nel quale, oltre moltº
accidenti non paja più vera, e massimamente altri chiari ed importantissimi errori, si vedrà
a chi meno considera ed in una subita vista. quanto tutti quelli che hanno scritto insin
E la ragione è, che niun sentimento com qui si siano ingannati nella grandezza, e nella
prende e conosce la sostanza, ma solamente positura, e si renderà in questo tempo a Dante
gli accidenti, e solo l'intelletto, spogliandole da un solo tutto quello, che da molti gli era
di tutti gli accidenti, perchè altramente non stato tolto in diverse età. Scortano anche gli
potrebbe intenderle, comprende le sostanze; scultori le loro figure ne' bassi rilievi, e vi ti
e si dice ancora volgarmente, che ad una statua rano prospettive. E se alla Scultura mancano
non manca, se non lo spirito ed il movimento; i lumi e l'ombre, che dà l'artefice, vi sono
o nde come mi fu scritto da un eccellentissimo quelli e quelle che fa la natura stessa, i quali
ingegno, che Dio avendo a fare l'uomo, lo c le quali si vanno variando naturalmente, il
fece come scultore, non come pittore. che non fanno quelli de'pittori. Non ho detto
Alla quarta ragione, favellando della diffi che i pittori possono mille volte scancellare
coltà dell'ingegno e della fatica corporale, ri e rifare, dove agli scultori non avviene così,
spondono gli scultori, la loro essere più diffi perchè, oltra che intendiamo in amendue le
cile ed alcuno di loro di sottilissimo intelletto arti di maestri perfetti ch'abbiano l'arte tal
tiene per fermo non esservi quasi compara mente, che non accaggia di levare quello che
zione rispetto alle molte vedute, che un buo non bisogna: possono anco gli scultori, benchè
no scultore è necessitato dare alle sue figure, infinitamente meno e con molto maggiore fatica,
oltre molte altre fatiche e diſigenze, come la
vorare sotto squadra ed in luoghi alcune volte, (1) Jacopo Tatti, detto il Sansavino o Sansovino per essere
dove appena possono arrivare gli occhi, e vi stato scolare dello scultore Andrea Cantucci da Monte a San
si trovano le cose o naturali o accidentali savino, nacque in Firenze nel 1477, morì nel 157o. Attese
alla scultura cd all'architettura, fu al servigio della Repubblica
fatte dall'artefice, come dicono, che si vede, Veneta e ornò Venezia di splendidi edifici. Dicevasi da lui
o, per più vero dire, si trova nel Moisè di che nato era per primeggiare, ma non dove fosse Michelangelo.
Michelagnolo; oltra che allo scultore bisogna una ( 1 )
SULLA PITTURA E SCULTURA 13 I
e tempo, fare il medesimo, ma non si perfetta la cerussa e'l cinabro non fanno: e quelli,
mente. E si vede ancora che i colossi si fanno che escono dalla cappella di Roma, o dalla log
di pezzi, o per mancamento di materia, come gia dei Ghigi, e vanno, o nel cortile della
avviene mille volte, o per difetto d'arte, come Valle, nella casa dei Cesi, ne possono far fede.
si vede nell'Ercole di Piazza, quando cadde Ma che maggior magnificenza ed ornamento si
quel pezzo con gran danno di chi v'era sot può vedere che a Roma la colonna di Trajano
to. E le statue antiche si racconciano e rap ed in Firenze la sagrestia di S. Lorenzo?
pezzano tutto 'l giorno, e per conchiudere Alla sesta ragione, perchè contiene due cose,
questa parte, non si può errare a credere, che concederebbero la prima che con molta più
l'una e l'altra sia tanto malagevole, che niuno comodità si dipigne, che non si scolpisce, quasi
possa giudicare in qual di loro sia maggiore senza comparazione, perchè, oltre mille altre
difficoltà, se non chi ha provato, e le sa fare comodità, non potrebbe fare lo scultore la
amendue eccellentemente. E quando fosse più volta o di Careggi o di Castello, nè con quella
difficile la Pittura, direbbero gli scultori, quali comodità, nè senza impedire il luogo e rifarlo
la tengono mestiere da donne a comparazione tutto di nuovo. Quanto all'utilità, che è la se
della Scultura, che questa ragione fa per loro, conda parte, direbbero: penso che quanto al
perchè bisogna più fatica a voler dare ad in l' erbe dicono vero: quanto alla Notomia ed
tendere la bugia, e far parere quello che non alla Astrologia, che la fanno anch'essi, e forse
è, che a sprimere il vero. Onde se bene gli meglio, come s'è detto di sopra. Ilanno poi
artefici della Pittura fossero più ingegnosi, questa utilità di più, che durando maggior tem
ed avessero bisogno di maggiore artifizio, gli po, incitano più persone alla virtù ed alla glo
scultori non meno sarebbero più veri, e per ria, come testimoniò il Petrarca, quando disse:
questo dicono, che un fanciullo, o un che non
abbia l'arte fa più agevolmente nella terra, che Giunto Alessandro alla famosa tomba
nella carta, oltra che qui si favella dei fini Del fºro Achille, sospirando disse,
che sono perfetti, e non de'principi. O fortunato, che si chiara tromba
A quello che dicono essersi trovati scultori Trovasti e chi di te si alto scrisse (1).
eccellentissimi scnza discgno grande, risponde Direbbero ancora che le statue servono alcuna
rebbero che ancora che questo sia difficilissi volta ancora per mensola o colonne, sosten
mo, è avvenuto ancora nei pittori ; il che si tando alcuna cosa o facendo alcun altro ufi
debbe però intendere in quelle cose che si cio, come si può vedere ampiamente nel giar
ricercano in amendue le arti oltre il dise dino di Castello, ed in molti altri luoghi: ben
sno: e direbbero che un giovine di pari inge chè di simili cose, per l'essere accidentali e
gno e di pari esercitazione nell'una arte e fuora dell'arti, non farei io per me troppo gran
nell'altra, ritrarrebbe meglio una pittura che caso, come pare che facciano alcuni.
non ritorniarebbe una statua; e che se i pittori Al settimo ed ultimo argomento, cred'io che
diventano molte volte e agevolmente scultori, gli scultori lo concederebbero tutto per quelle
e degli scultori rarissimi, o niuno diventa pit cagioni ed in quel modo che avemo detto di
tore, viene, dicono essi, perchè lo scultore gli sopra, cioè rispetto alla vaghezza de' colori,
parrebbe abbassarsi. E a quelli che dicono ed a quelle ultime perfezioni, dove non può
Michelagnolo essere eccellentissimo scultore arrivare la scultura, le quali però consistono
per lo essere eccellentissimo pittore, rispon più negli accidenti che nella sostanza; onde
dono essere il contrario. Nè è già dubbio che agli uomini intellettivi porge, per avventura,
i pittori fanno meglio e imparano più al ri più vaghezza e maggior diletto la scultura. Ed
trarre dal rilievo, che dalle pitture, come te ancora che in verità la pittura somigli molto
stimonia M. Leon Battista Alberti, e Michela più e possa meglio ingannare, tuttavia si ve
gnolo l'ha dimostro in S. Lorenzo nelle sue de che i più, se sono ingegnosi, tirati forse
architetture col fare i modelli di rilievo eguali dalla lunghezza del tempo o forse dal piacere,
alla grandezza dell'opere. che ne trae in qualche modo ancora il tatto,
Quelli che dicono che la macchina del mon o da qualunque cagione ciò si venga, i più de
do è una nobile, e gran pittura, arebbero detto siderano più le sculture che le pitture. E per
più veramente secondo ch'io penso, e come questo credo che messer Gandolfo giudiziosa
può vedere ciascuno, se avessero detto Scul mente dopo l'avere detto quella stanza a fra
tura, come ne dimostra appresso i Latini il Bastiano, che di sopra recitammo, si volgesse a
nome del Cielo che vuol dire scolpito, e non Michelagnolo, e non meno dottamente che leg
dipinto, benchè, per dire perfettamente, pote giadramente cantasse:
vano aggiugnere colorito. O s'un giorno dappresso in qualche piaggia
Alla quinta ragione, la concedono tutta e Miri i santi atti schivi il gran Scultore,
ancora molto più che non dicono, ma affer E lei conversa indietro accorta e saggia
mano, che 'l medesimo molto più, e senza al Gir con quegli occhi a ritrovargli il core,
cun dubbio avviene nella Scultura: perchè al Perchè sempre in onore il mondo l'aggia,
tra grandezza e magnificenza arrecano i bronzi Spenderà tutti in questa i giorni e l'ore:
ed i marmi (come veggiamo tutto il giorno E i magnanimi re del Tebro e d'Arno,
ge
nella piazza del Duca, e nelle porte di S. Gio I gran sepolcri aspetteranno indarno.
vanni, le quali, come dicono aver detto Mi
chelagnolo, si converrebbero al paradiso), che (1) Sou. CXXXV, Parte I, -
i 3a LEZIONI

| stotile, che Empedocle, aneora che avesse scritto


DISPUTA TiRZA in versi, non era poeta, ma filosofo, il che po
temo noi dire medesimamente di Lucrezio. Ben
In che siano simili ed in che differenti è vero che sebbene la materia è da filosofo, è
i Poeti ed i Pittori. però trattata, e, massimamente in certi luoghi,
tanto poeticamente, che si può chiamare poeta
Avendo veduto che tutte l'arti sono nella in questa parte; come si vede che fa Dante,
seconda ed ultima parte dell'intelletto pratico, che in molti luoghi tratta le quistioni e di teo
la quale si chiama fattibile, e che ciascuna logia e di filosofia e di tutte l'altre scienze,
piglia la nobiltà e l'unità dal suo fine, di ma la qual cosa non è da poeta; ma le tratta, ol
niera che tutte quelle che hanno i medesimi tre il numero, con parole e figure e modi di
fini, sono una medesima e parimente nobili; dire poetici. E così avemo veduto, perchè la
ed essendo il fine della Poesia e della Pittura Poesia si chiama arte, e che è simile alla Pit
il medesimo, secondo alcuni, cioè imitare la tura, perchè amendue imitano la natura.
natura, quanto possono il più, vengono ad es Ma è da notare che il poeta l'imita colle
sere una medesima e nobili ad un modo; e parole, ed i pittori coi colori, e, quello che è
però molte volte gli scrittori danno a pittori più, i poeti imitano il di dentro principalmente,
quello che è de'poeti, e così per lo contra cioè i concetti e le passioni dell'animo, seb
rio. Onde Dante, che, come avemo detto più bene molte volte descrivono ancora, e quasi
volte, seppe tutto, e tutto scrisse, pose nel dipingono colle parole i corpi, e tutte le fat
ventinovesimo Canto del Purgatorio: tezze di tutte le cose così animate come inani

Ma legge Ezechiel che li dipinse. mate; ed i pittori imitano principalmente il di


fuori, cioè i corpi e le fattezze di tutte le
Ed altrove per traslazione dagli scultori: cose. E perchè i concetti e le azioni de're
O frate, disse, questi ch'io ti scerno sono diverse da quelle dei privati, e quelle dei
Col dito, e additò uno spirto innanzi, privati sono differenti fra loro, secondo le di
Fu miglior fabbro del parlar materno (1). verse nature e professioni, perchè altre parole
e altri costumi ha ordinariamente, e si ricer
E chi non sa che si trovano molti nomi delle
cano in un soldato, che in un mercatante an
pitture accomodati a poeti? come: zi un medesimo è differente da sè stesso o per
Primo pittor delle memorie antiche (2); le diverse età, o per li vari accidenti, le quali
cioè scrittore; e così, all'incontro, e spessissi cose tutte s'hanno a sapere esprimere da poeti:
me volte si pongono insieme, onde Orazio disse per questa cagione si ritrovano diverse spezie
nella Poetica: di poesie. Il che non avviene nella pittura;
perchè tutti i corpi sono ad un modo cosi
Pictoribus atque poctis quelli dei principi come de privati, il che de
Quidlibet audendi semper fuit aequa potestas. gli animi non avviene essendo tutti differen
e più di sotto: ti, cioè avendo diversi concetti. Onde seb
bene i poeti ed i pittori innitano, non però
Ut Pictura Poesis erit: quaedam si propius stes imitano nelle medesime cose e nei medesimi
Tecapient magis, et quaedam si longius abstes. modi. Imitano quelli colle parole, e questi
Ma dovemo avvertire che la Poesia si chiama co'colori; il perchè pare che sia tanta diffe
arte, non perchè ella sia propiamente fatti renza fra la Poesia e la Pittura, quanta è fra
bile, ma perchè è stata ridotta sotto precetti l'anima e'l corpo. Bene è vero, che come i
ed insegnamenti che questa è la minor parte poeti descrivono ancora il di fuori, così i pit
ch'ella abbia; perchè, a giudizio mio, non si tori mostrano quanto più possono il di dentro,
può dir cosa ne maggiore, nè dove si ricer cioè gli affetti, ed il primo che ciò anticamente
chino più cose e più grandi che in uno che facesse questo, secondo che racconta Plinio,
sia vero poeta. Perciocchè in lui, come si può fu Aristide Tebano, e modernamente Giotto.
vedere in Omero ed in Virgilio nel modo, e Bene è vero, che i pittori non possono spri
per le cagioni che avemo dichiarate altrove mere così felicemente il di dentro, come il di
lungamente, si ricercano necessariamente tutte fuori; e però disse il Molza:
le scienze di tutte le cose; onde si vede ma
nifestamente, che la sua parte migliore è nel Chè l'alta mente, che celata avete,
l'intelletto speculativo. Ma queste non sono Esser non può con mano, o stile espressa,
Ne vengono in color, perchi altri il pensi,
quelle che facciano il poeta, perché ne potreb Così cortesi ed onorati sensi.
be scrivere e come filosofo e come medico e
come astrologo, e così di tutte l'altre; ma E per dichiarare più ampiamente “Iuesta ma
quello che fa il poeta è il modo dello scri teria, dovemo sapere, che i dipintori, sebbene
verle poeticamente; onde chi traduce Aristo nel ritrarre dal naturale, debbono imitare la
tile in versi, non sarebbe poeta, ma filosofo, natura ed esprimere il vero quanto più sanno,
come chi riduce Virgilio in prosa, non sarebbe possono nondimeno, anzi debbono, come an
oratore, ma poeta. E per questo diceva Ari cora i poeti, usare alcuna discrezione; onde
molto fu lodata la prudenza d'Apelle, il quale
(1) Purgatorio, Canto XXVI. dovendo ritrarre Antigono, che era cieco da
(2) Petr., Trionfo della Fama, Cap. III. un occhio, diede tal sito alla figura che ascose
SULLA Pl'"I URA E SCULTURA 133

quell'occhio di maniera che non si poteva ve che veda quel suo Carone, e non gli venga
dere; la qual cosa non arebbe potuto fare uno subito nella mente quel terzetto di Dante?
scultore in tutto rilievo. E quelli che dipin
scro Pericle, perchè egli aveva il capo aguzzo, Caron dimonio con occhi di bragia
e, come noi diciamo, alla Genovese, lo dipi Loro accennando tutte le raccoglie :
gnevano coll'elmetto in testa, il che arebbero Batte col remo qualunque s'adagia (1).
potuto fare gli scultori medesimamente. Fu Chi non si ricorda, quando vede Minosse, di
ancora lodata grandemente l'industria ed ac quell'altro nel quinto Canto dell'Inferno?
cortezza di Timante, il quale avendo nel sa Stavvi Minos orribilmente e ringhia:
crifizio d'Ifigenia dipinto Calcante mesto, Ulis
se doloroso, Ajace che gridava, Menelao che Esamina le colpe nell'entrata:
Giudica e manda, secondo ch” avvinghia.
si disperava, e dovendo dipignere Agamennone
che vincesse di tristezza e di passione tutti E chi vede la sua Pietà non vede egli in mar
costoro, come padre di lei, lo fece col capo mo viva e vera quella sentenza di quel verso
turato; benchè mostrò in questo, come riferi che mostrò Dante, non meno pittore che poeta,
sce Valerio Massimo, che l'arte non può ag
giugnere alla natura, perchè potette ben dipi Morti li morti, e vivi parcan vivi (o)?
gnere le lagrime dell'aruspice, il dolore degli E se alcuno bramasse di vedere come si pos
amici, il pianto del fratello, ma non già l'af sano descrivere le figure che dipigne Miche
fetto del padre. E lodato ancora il Vulcano lagnolo, non meno poeta che pittore, legga Dante
d'Alcamene, il quale mostra beno sotto la ve quasi per tutto, ma particolarmente nel deci
sta d'esser zoppo, ma in guisa però che gli ino Canto e nel duodecimo del Purgatorio. E
da grazia, e pare che se gli convenga; le quali chi non vede nel Bambino della Madonna della
discrezioni, accortezze, industrie e accidenti cappella di S. Lorenzo spresse nel marmo mi
sono comuni, come lo mostrano gli esempi, racolosamente quelle due comparazioni mira
così agli scultori come a pittori. colose: l'una nel ventesimo terzo del Paradiso:
Hanno i pittori e gli scultori, come disse E come fantolin, che 'n ver la mamma
Cicerone, ancora questo comune con i poeti
buoni, che propongono l'opere in pubblico, Tende le braccia, poi che 'l latte prese,
acciocchè, inteso il giudizio universale, possano Per l'animo che 'n fin di fuor s'infiamma;
ammendarſe, dove fossero ripresi dai più. Onde e l'altra nel trentesimo:
Apelle, stando dietro le sue opere, per inten Non è fantin, che si subito rua
dere quello che se ne diceva, racconciò non
so che in una scarpa, avendo inteso dove un Col volto verso il latte, se si svegli
Molto tardato dall'usanza sua ?
calzolaio l'aveva biasimata, il quale poi preso da
questo maggiore ardire, lo biasimò ancora in Ma chi potrà mai non dico lodare, ma mera
una gamba, ma gli fu risposto da Apelle, il vigliarsi tanto che basti dell'ingegno, e del
che andò poi in proverbio: Non giudichi un giudizio di questo uomo che dovendo fare i
calzolajo più su che le scarpette. sepolcri al duca di Nemours ed al duca Lo
Sono ancora molte altre somiglianze fra i renzo de' Medici, spresse in quattro marmi, a
poeti ed i pittori; ed io per me, come non ho guisa che fa Dante ne' versi, il suo altissimo
concetto ? Perciocchè volendo, per quanto io
dubbio nessuno che l'essere pittore, giovi gran
dissimamente alla poesia: così tengo per fer mi stimo, significare che per sepolcro di cia
mo, che la poesia giovi infinitamente a pittori; scuno di costoro, si conveniva non solo un
onde si racconta che Zeusi, che fu tanto ec emisperio, ma tutto 'l mondo, ad uno pose la
cellente, faceva le donne grandi e forzose, se Notte e 'l Giorno, ed all' altro l'Aurora e 'l
guitando in ciò Omero ; e Plinio racconta, che Crepuscolo, che li mettessero in mezzo e co
Apelle dipinse in modo Diana fra un coro di prissero, come quelli fanno la terra. La qual
vergini che sacrificavano, ch'egli vinse i versi cosa fu medesimamente osservata in più luoghi
d'Omero che scrivevano questo medesimo. Il da Dante, e specialmente nel primo Canto del
che si può ancora vedere nella Lupa, che al Paradiso, quando dice:
latta e lecca Romolo e Remo, descritta prima Fatto avea di là mane, e di qua sera
da Cicerone, e poi da Virgilio in quell'atto e Tal foce quasi, e tutto era là bianco
modo medesimo che si vede oggi nel Campi Quello emisperio, e l'altra parte nera,
doglio. E io per me non dubito punto, che Mi come dichiarammo e dichiararemo altra volta
chelagnolo, come ha imitato Dante nella poe
sia, così non l'abbia imitato nell' opere sue, più lungamente.
non solo dando loro quella grandezza e mae E qui, essendo passata l'ora di buona pezza,
sta, che si vede ne concetti di Dante; ma in porremo fine a questo ragionamento, prima
gegnandosi ancora di fare quello o nel mar alla benignità di Dio, poi alle umanità vostre
no o con i colori, che aveva fatto egli nelle infinite grazie rendendo.
sentenze e colle parole. E chi dubita, che nel (1) Inferno, Canto III.
dipignere il Giudizio nella Cappella di Roma, (2) Purgatorio, Canto XXII.
non gli fosse l'opera di Dante, la quale egli
I, a tutta nella memoria, sempre dinanzi agli
occhi? E per non dire le cose generali, chi è,
134 LEZIONI

date, benchè ignorantemente (1). Io dico che


la Pittura mi par più tenuta buona quanto più
APPENDICE va verso il rilievo, ed il rilievo più tenuto cat
tivo quanto più va verso la Pittura; e però a
me soleva parere che la Scultura fosse ia lan
Piacque tanto al Buonarroti il comento del terna della Pittura, e che dall'una all'altra
Varchi al suo Sonetto, che gliene significò la fosse quella differenza che è dal sole alla luna.
sua soddisfazione in una lettera indiritta a Luca Ora poi che io ho letto nel vostro libretto,
Martini. In proposito poi della disputa, che fa il dove dite, che, parlando filosoficamente, quelle
soggetto della seconda lezione, egli ne scrisse in cose che hanno un medesimo fine, sono una i
un'altra lettera il suo parere a Messer Benedetto medesima cosa, io mi son mutato d' opinione,
medesimo. Entrambe queste lettere sono state pub e dico, che se maggior giudizio e difficoltà, im
blicate da Domenico Maria Manni, che le cavò pedimento e fatica non fa maggiore nobiltà,
da un Codice della celebre Libreria Strozziana di la Pittura e Scultura è una medesima cosa,
Firenze. Reputo buon consiglio l'inserirle qui e perchè ella fosse tenuta così, non dovrebbe
con due noterelle. ogni pittore far manco di Scultura che di Pit
tura, e il simile lo scultore di Pittura. Io intendo
LETTERA Scultura quella che si fa per forza di levare,
chè quella che si fa per via di porre è simile
DI MICHELAcNoLo A LUCA MARTINI. alla Pittura. Basta, che venendo l'una e l'al
tra da una medesima intelligenza, cioè Scultura
Magnifico M. Luca. – Io ho ricevuto da Mes e Pittura, si può far fare loro una buona pace
ser Bartolommeo Bettini una vostra con un li insieme, e lasciar tante dispute, perchè vi va
bretto, Comento d'un sonetto di mia mano. più tempo che a far le figure. Colui che scrisse
Il sonetto vien bene da me, ma il Comento che la Pittura era più nobile della Scultura,
viene dal ciclo, e veramente è cosa mirabile, se egli avesse così ben intese l'altre cose che
non dico al giudizio mio, ma degli uomini va egli ha scritte, l'averebbe meglio scritte la
lenti, e massimamente di Messer Donato Gian mia fante. Infinite cose e non più dette, ci
notti (1), il quale non si sazia di leggerlo, ed sarebbe da dire di simile scienza; ma, come ho
a voi si raccomanda. Circa il sonetto, io co detto, vorrebbon troppo tempo, e io ne ho
nosco quello che egli è, ma come si sia, io non poco, perchè non solo son vecchio, ma quasi º

mi posso tenere che io non ne pigli un poco di nel numero de'morti; però priego che m'ab
vanagloria, essendo stato cagione di sì bello e biate per iscusato, e a voi mi raccomando; e
dotto Comento; e perchè nell'autore di detto, vi ringrazio quanto so e posso del troppo onor
che mi fate, non conveniente a me. Vostro
sento, per le sue parole e lodi, d'essere quello MICHELAGNoLo BuonARRori. In Roma.
che io non sono, prego voi facciate per me
parole verso di lui, come si conviene a tanto
amore, affezione e cortesia. Io vi prego di questo, (1) Michelagnolo dice qui di parlare da ignorante; a me
perchè mi sento di poco valore, e chi è in pare, che dica più egli in poche parole, che non hanno detto
tanti eruditi, i quali, nonostante che sapessero come avea par
buona opinione, non debbe tentare la fortuna, lato un uomo si grande, vollero continuare a perdere il tem
e meglio è tacere che cascare da alto. Io sono po, scrivendo intorno a una quistione di nessun pro'. Per tale
vecchio, e la morte mi ha tolti i pensieri della la riguardò sempre Michelagnolo: laonde, allora che ne fu
giovinezza; e chi non sa che cosa è la vecchiez richiesto dal Vasari, ghignando rispose, che la Scultura e la
za, abbia tanta pazienza che v'arrivi, che Pittura hanno un fine medesimo difficilmente operato da una
prima noi può sapere. Raccomandatemi, come parte e dall'altra: nè altro potè trarre da esso. (M.)
è detto, al Varchi come suo affezionatissimo
e delle sue virtù, e al suo servizio dovunque
io sono.
Vostro e al servizio vostro in tutte le cose
a me possibili. -

MICHELAGNoLo BuonARRoTI. In Roma.

LETTERA -

DI MICHELAcNoLo A BENEDETTo VARCHI.

M. Benedetto. –Perchè e paia pur che io ab


bia ricevuto, come io ho, il vostro libretto,
risponderò qualche cosa a quel che mi doman

(1) Parla qui Michelagnolo del celebre Statista Donalo


Giannotti, successore al Machiavelli nel carico di Segretario
Fiorentino; del quale noi raccogliemmo le opere più pregiate
nel tomo VI di questa Biblioteca Enciclopedica che con
prende gli Scrittori Politici. (M.)
DELLA NATURA 135
son posto a mandarvi in iscritto tutto quello che
LEZIONE UNA dissi nell'Accademia nostra della Natura, non
perchè lo reputi degno di dovere essere letto ed
DELLA NATURA avuto caro da voi, per la dottrina o eloquenza
sua, ma sibbene per l'amorevolezza vostra e be
nignità, le quali Dio insieme con esso noi con
servi e prosperi lungamente.
AL MolTo NoBILE E VIRTUOSO MESSERE

FRANCESCO TORELLO

AUDITonE DELL'ILLUsTRIssIMo ED EccELLENTIssiMo


LE ZIONE
DUCA DI FIRENZE
NELLA QUALE si nacioNA DELLA NATURA, LErra
BENEDETTO VARCHI. PUBBLICAMENTE NELL'AccADEMIA FIoRENTINA, LA
PRIMA DoMENICA DI QUARESIMA DELL'ANNO 1547.

Maturalissima cosa è, molto magnifico ed ec PROEMIO


cellente M. Francesco, che tutti gli eſſetti, quanto
sono più prossimani e più nobili, tanto riferi F, tutte le cose naturali, cioè che hanno
scano maggiormente e rappresentino le qualità e dentro sè il principio del movimento e della
virtù delle loro cagioni e conseguentemente che quiete loro, e, per dirlo più chiaramente, fra
ne figliuoli apparisca non pur l'effigie de'volti tutte le cose composte di materia e di forma,
paterni, ma eziandio la somiglianza degli animi:
quali sono tutte quelle che sono, qualunque
e sebbene Dante, come teologo, parlò altramente ele dovunque siano, eccetto la materia prima e
quando disse:
il primo motore, i quali son ben naturali in
Rade volte risurge per li rami alcun modo, ma non già composti, niuna se ne
L'umana probitate, e questo vuole ritrova in luogo nessuno, dottissimo Consolo,
Chi ce la dà, perchè da lui si chiami (1); nobilissimi Accademici, e voi tutti, Uditori gra
appresso quei figliuoli ziosissimi, la quale non abbia in sè, come di
non è perciò che i filosofi,
i quali non rassomigliano il padre, o almeno cevaAnimali, il Filosofo nel primo libro delle parti de
alcun altro dei maggiori, non solo non si pos gli alcuna cosa di divino e degnissi
ma di grandissima ammirazione.
La onde niuno
sano chiamare parti legittimi, ma si debbano an
cora nominare mostri. Laonde niuno nè può giu (gran fatto!) si trova di sì poco ingegno, nè
stamente, nè debbe maravigliarsi che in voi an di sì grosso, il quale non prenda alcuna volta
cora giovanissimo risplendano tante e così grandi nel contemplare i miracoli della Natura, non
meno dilettevole maraviglia, che maravigliosa
e così chiare non meno doti di corpo, che virtù
d'animo: ma miracolo sarebbe bene, non pur dilettazione; anzi quanto è più ingegnoso cia
maraviglia, se voi, essendo figliuolo di M. Lelio, scuno e più intendente, tanto con maggiore e
maraviglia e diletto, fatica di conoscere le ca
non foste tutto cortesia, tutto bontà, tutto virtù,
gioni d'essa. E furono già molti di sì nobile
e finalmente tale appunto, come voi siete. Perchè intelletto, che non curando, anzi dispregiando
io, il quale porto quell'amore al magnifico ed maraviglie, come dilettanze,
eccellentissimo M. Lelio, e quella riverenza che tutte l'altre così
si diedero solo alla speculazione delle cose na
se gli convengono, m'allegro oltra modo, prima turali, ed a quelle assiduamente e con infinita
meco medesimo privatamente, che dovendovi amare
contentezza e tranquillità vacando, non pure
ed onorare per cagion di lui qualunque voi foste,
a sè stessi, dimenticatisi quasi della loro mor
vi conosco di cotali maniere e di così fatti por talità,
tamenti, che la menomissima cagione di farvi e la vita degli Dii vivendo, ma a tutti
i mortali arrecarono, con non sua picciola glo
amare e tener caro, è l'essere figliuolo di co ria, grandissimo e onoratissimo giovamento. E
tanto padre : poscia pubblicamente con tutti gli certo maestà della Natura è cotale, che
per
altri, i quali veggiono, a guisa che negli alberi niuna cosala può immaginarsi nè tanto grande
molte volte suole avvenire,
non iscemare sfon
e
darsi il troncone vecchio, ma ben rinverdire e e malagevole, nè così nuova e inusitata, la quale
crescere il rampollo nuovo, e dall'uno, e dal della mirabile, anzi stupendissima potenza sua
l'altro si colgono ogni giorno, anzi a ciascuna non solo non si possa negare, ma che non si
ora non meno frutti utilissimi che giocondissi debba affermare. Nè so io per me o di che
mi odori, del che, dopo Dio, dovemo ringraziare possa rallegrarsi, od onde debba maravigliarsi
tutti così la prudenza e giudizio, come la co colui, il quale non s'allegra e maraviglia nel
vedere il giorno la salutevole e dolcissima luce
stanza e liberalità dell'ottimo e sapientissimo
Principe e Padrone nostro. Ma tornando donde del sole, e la notte i vaghi e purissimi splen
dori della luna e dell'altre stelle tutte quante.
partii, dico, che non possendo io dimostrare al E se noi nel rimirare o una statua di marmo
tramente la buona disposizione e contentezza del
l'animo mio verso i meriti e fortune vostre, mi
egregiamente lavorata, o una tavola di legno
cccellentemente dipinta, prendiamo tanto di
piacere e d'ammirazione, perchè in essa rico
(1) Pargatorio, Canto VII. nosciamo l'ingegno e macstria dell'artefice, che
-
136 LEZIONE
dovemo fare in rimirando questa miracolosis tutto e che parte, sa ancora, senza fare altro
sima scultura dell'universo da sì perfetto mae discorso, che ogni tutto è maggiore della sua
stro tanto egregiamente e tanto eccellentemente parte. Ma perchè questo si può ancora provare,
lavorata e dipinta? E sebbene la Natura ha, diciamo, che qualunque sa che cosa sia eguale
come l'oro e molte più care pietre, pregi ed e levare, sa ancora, che se da due cose che siano
abbellimenti dei corpi, così ancora la verità eguali tra loro, si leverà una parte eguale, i
delle cose, della quale nessuna gemma è più rimanenti saranno eguali. E chi non sa, che se
preziosa, cibo ed ornamento degli animi, non due cose non saranno maggiori l'una dell'al
solo posta in oscuro, ma nascosa, anzi, come tra, elleno di necessità verranno ad essere ugua
diceva Democrito, sotterrata nel profondo; non li? O chi dubita che una cosa in un istesso
perciò possiamo noi nè accusare, nè biasimare tempo non può essere e non essere? E così di
lei, la quale mai per sè medesima non errò, molte altre proposizioni e conclusioni somi
ma ben dobbiamo riprendere e correggere noi glianti, le quali non avendo innanzi a sè cosa
stessi, i quali pecchiamo sempre. Perciocchè più nota, non si possono dimostrare; e chia
quanto è più grande l'oscurità de'segreti di mansi ora primi principi, ora prime notizie
lei, tanto deve essere maggiore la diligenza dell'intelletto, ora proposizioni grandissime, ed
delle menti di noi, affinche possiamo, quando ora altramente. Alcune altre cose si ritrovano,
che sia, mediante gli studi e fatiche nostre, di le quali non si possono anche esse dimostrare,
venir ricchi d'un tesoro così profittevole e così ma non sono perciò note, mediante i termini
giocondo: seguendo in ciò non tanto le dot loro, e però hanno bisogno d'alcuna dichiara
tissime opinioni dei più celebrati filosofi anti zione e quasi accennamento. E queste si ma
chi, che della Natura trattarono, quanto la nifestano o colla induzione, o coll'esempio, o
verissima dottrina de' Peripatetici, e special con alcun sillogismo ipotetico, cioè supposi
mente d'Aristotile, principe e precettore loro, tivo. Esempigrazia che le magnitudini ovvero
prodotto da lei per mostrare a suo diletto e dimensioni siano tre, lunghezza, larghezza, e
nostra utilità, quanto potesse salire in alto col profondità, non si può dimostrare, perchè ogni
l'intendere un uomo solo. cosa si dimostra, come s'è detto, mediante le
Ma perchè niuno può conoscere perfettamente cagioni sue; e questa non ha cagione nessuna,
gli effetti di checchessia, se prima non conosce nè anco è nota per li suoi termini; perchè
le cagioni, nè sapere ciò che siano le cose na non ognuno che sa che cosa sia dimensione,
turali, se prima non sa che sia essa Natura, sa ancora che le dimensioni siano tre a pun
però noi, dovendo oggi, per compiacere al ma to; e perciò ha bisogno d'essere dichiarata con
gnifico Consolo nostro, e seguitare gli ordini di un sillogismo ipotetico, mediante la divisione
questa famosissima Accademia, ragionare alquan della magnitudine, ovvero grandezza. E queste
to con esso voi, nobilissimi e benignissimi Ascol si chiamano supposizioni, le quali si concedono
tatori, avemo preso a favellare così general nelle scienze, e massimamente nelle naturali,
mente della Natura, si per mantenere la pro che, come dice il ſilosofo, non possono avere
messa fatta da noi nell'ultime mostre Lezioni, le dimostrazioni matematiche, cioè certissime.
dove trattammo dell'arte, e si per soddisfare E di queste dovemo oggi parlando della Na
ad alcuni amici, che di ciò n'hanno instantis tura riferire moltissime, tra le quali la prima
simamente richiesto. E perchè questa materia, è, che la Natura sia, il che non si può nè pro
siccome è utile e dilettosa oltra ogni stima, così vare, essendo noto da per sè stesso, nè negare,
è ancora faticosa e malagevole sopra ogni cre essendo manifesto al senso. Onde chi volesse
dere; perciò noi, chiamato prima divotamente, dimostrare, diceva Aristotile, che la Natura
secondo il costume nostro, l'ajuto di Dio ot fosse, meritarebbe d' essere beffato, e sarebbe
timo e grandissimo, il quale è solo Autore e non altramente che se un cieco volesse pro
padre d'essa Natura, anzi essa Natura mede vare i colori; perchè se non fosse cieco, ves
sima: poscia, pregate umilmente le benignis gendoli col senso non cercherebbe di mostrarli
sime umanità vostre della solita grata e cor colla ragione. È adunque la Natura, ed è tanto
tese udienza loro, daremo principio, con buona nota per sè stessa, che non può provarsi nè
licenza di tutti, a quanto intendiamo di dover dal filosofo naturale, nè dal metaſisico, sch
dire. bene Avicenna crede il contrario, e si fa beffe
d'Aristotile.
Veduto che la Natura è, resta a vedere che
Sapere alcuna cosa non è altro che cono cosa clla sia; ma anco questa è una di quelle
scere la natura ed essenza d'essa mediante le supposizioni concedute, e che non si possono
sue cagioni ; e tutte le cose che si sanno scien provare dimostrativamente; essendo noto al
tificamente, si sanno mediante la dimostrazio senso, che le cose naturali si muovono per sè
ne, la quale non è altro che un sillogismo medesime, cioè da principi intrinsechi; e le ar
scientifico, cioè che fa sapere. È ben vero che tifiziali, non si movono come artifiziali, ma co
si ritrovano alcune cose, le quali sono tanto me naturali, così ne'movimenti propi, cioè lo
note per loro natura medesima, che non si cali, come negli altri. Onde un letto, verbi
possono dimostrare in modo alcuno; conciossia grazia, non va all'ingiù come letto, ma come
che chiunque intende i termini d'esse, cioè le legno; e se uno scanno, putrefacendosi, gene
parole, colle quali si sprimono, intende ancora rasse, non sarebbe uno scanno, ma un albero,
loro subitamente. Onde chi sa, che cosa sia e così di tutti gli altri. Non si può adunque
DELLA NATURA 137
dimostrare, che cosa Natura sia, per lo essere aggiunto:-Cagione; il che Averrois o non ave
manifesto da sè, ma ben dichiarare. Onde noi va nel suo testo, o non lo considerò; però a noi
ponendo in sentenza le medesime parole del soddisfa più l'interpretazione de' Greci, con
Filosofo nel principio del secondo della Fisica ciossiachè quella de Latini è del tutto falsa.
al terzo testo, diremo che: La Natura è un Credono alcuni, che queste due parole prin
certo principio e cagione di movere e riposare cipio e cagione, siano sinonimi, come dicono
quella cosa, nella quale è primamente per sè e essi, cioè significhino il medesimo, e tanto im
non per accidente. porti l'una, quanto l'altra; ma perchè i filo
E perchè io so che questa diffinizione pare sofi e massimamente nelle diffinizioni, non usa
scurissima a chi non è esercitato, e tanto più no nomi sinonimi, però vogliono alcuni, che
essendo interpretata da diversi diversamente, cagione in questo luogo si pigli non per l'ef
non mi parrà fatica, se a voi non ſia grave, ficiente, nè per la passiva, ma per la finale,
dichiararla tutta parola per parola. Ma prima adducendo l'esempio del moto della genera
notaremo, che questa non è vera e propia dif zione, la quale si chiama Natura, perchè è via
finizione, non essendo univoca, ma equivoca, alla natura: ed altri vogliono, che tra princi
cioè analoga, come dicemmo, di quella dell'A- pio e cagione sia differenza, dicendo, che prin
nima. Onde si può piuttosto chiamare discre cipio si riferisce al movimento, e cagione al
zione ed una cotale dichiarazione che diffini riposo; e questo, perchè essendo il riposo, ov
zione. Del che non si deve portarne la colpa ver quiete, privazione, non si può chiamare prin
ad Aristotile, il quale, come testimonia il suo cipio, ma sì ben cagione; onde secondo que
grandissimo Commentatore, fece nelle diffini sti tali la natura quando fa movere, è prin
zioni tutto quello che vi si poteva fare; ma alla cipio: quando fa riposare, è cagione. Ma per
natura delle cose, che non permettevano più che tutte queste cose sono trovate e dette da
oltre. Disse dunque non principio assolutamen costoro per salvare la sposizione d' Averrois,
te ma un certo: il che fece per distinguerlo che prese principio per principio e per cagio
dagli altri principi: conciossiachè non solo la ne, cioè per la forma, ovvero causa efficiente,
Natura è principio di fare, ma alcune altre e per la materia, ovvero cagione paziente: a
cose, come l'intelletto pratico, e ancora il ca noi pare, che l'interpretazione de' Greci sia
so. Alcuni vogliono, che dicesse certo, cioè pri tanto più vera e più certa, quanto più chia
mo e principale per escludere i principi se ra e più agevole, cioè, che principio signifi
condari e strumentali; perchè il timone è prin chi solamente il principio formale, cioè la causa
cipio di mover la nave, e non è natura, ma agente, e cagione solamente il principio ma
è principio secondario e strumentale, non pri teriale, cioè la causa paziente. E così la na
miero e principale, come la Natura. – Prin tura ne movimenti attivi sarà principio, e nei
cipio. Questa parola è dichiarata altramente passivi cagione di muovere e riposare, o vera
da' Greci, altramente degli Arabi ed altra mente di moto e di quiete. Queste due parole
mente da Latini. Simplicio (1), e tutti gli altri fanno grandissima difficoltà a molti, percioc
spositori greci, dicono, il che molto ci piace, chè non pare, che possano verificarsi insieme
che questa parola Principio fu posta in questo e congiunte l'una con l'altra, come dimostra
luogo segnalatamente e secondo il suo signifi quella congiunzione copulativa che si debba
cato propio; conciossiachè principio significhi fare: conciossiachè alcune cose naturali si mo
propiamente la cagione effettiva e movente. vano sempre senza mai riposarsi come i cieli;
Onde secondo costoro principio si piglia sola onde in questi potrà ben la natura esser prin
mente per lo principio formale ovvero attivo, cipio di moverli; ma non già cagione di farli
cioè per la cagione efficiente. Ma secondo molti riposare: ed alcune si riposano sempre senza
de Latini, si piglia appunto per l' opposito, moversi mai, come la terra (1), onde in que
cioè solamente per lo principio materiale, ov ste potrà bene la natura essere cagione, che
vero passivo, cioè per la cagione paziente. Aver si riposino, ma non già principio che si mo
rois lo dichiara per l'uno principio e per l'al vano. Onde alcuni, per fuggir questo dubbio,
tro, onde, secondo lui, si deve intendere così e mostrare come queste parole non solo si do
attivamente per la forma, come passivamente vevano, ma si potevano ancora intendere con
per la materia; e così ne movimenti propi e giuntivamente, dissero, che anco il cielo si ri
massimamente nel moto locale degli elementi, posava avendo rispetto al centro, a poli ed
si piglierà attivamente; e ne movimenti im all'asse, anzi che rispetto al tutto non si mo
propi, come in quello dell'alterazione, si pi ve mai; perchè mai non muta luogo; senza
glierà passivamente; e così il medesimo prin che le più nobili parti d'esso, che sono le stel
cipio sarà ora attivo, cioè principio di movere, le, sono sempre immobili. E della terra di
ora passivo, cioè d'essere mosso. La quale spo cevano, che ella si moverebbe, se fosse fuori
sizione sarebbe non pur vera, ma necessaria, del luogo suo, e che se non si moveva secon
se il filosofo, quasi dichiarandosi, non avesse do il tutto, si moveva secondo le parti, come
vediamo tutto il giorno. Alcuni altri, a cui non
piacquero queste investigazioni così sottili, dis
(1) Simplicio di Cilicia, commentatore d'Aristotile fiori
circa la metà del secolo V ll : egli fu tra quelli, che si stu
sero, che quella particella non si pigliava in
diarono di metter concordia fra le dottrine d'Aristotile e di
Platone. Le opere sue furono pubblicate colle stampe in Ve (1) Ripetiamo cosa già detta più sopra: non avere il Var
nezia a finire del 14.oo. (M.) chi avuta chiara notizia del sistema Copernicano, (M.)
VARCHI 18
i 38 LEZION
questo luogo come copulativa, ma come sposi per questo non la torrebbero, conciossiache,
tiva, cioè in luogo di questa altra particella non levando parole, non si levarebbe la nuga
alternativa ovvero, onde la Natura, secondo co zione o prima, o poi che ella fosse. Onde è
storo, è principio di movere, come nei corpi necessario, che si spongano a una a una separa
celesti, o cagione di posare, come nella terra; tamente, senza che contraggano o ristringano
e così non si deve pigliare movere e riposare l'una l' altra; la qual cosa nelle diffinizioni
insiememente e delle cose medesime, ma divi propie e vere non si comportarebbe, dove in
samente e di diverse. Ma perchè anco questa questa, per essere analoga, non si disdice. E si
dichiarazione è più ingegnosa, che necessaria, chiama analoga, perchè questo nome Natura,
noi, seguitando Temistio e alcuni altri, diremo, che si diſfinisce in questo luogo comprende
che la Natura è principio e cagione di mo così la natura delle cose celesti, come quella
vere e riposare parimente, intendendo ciò di delle cose terrene; ancora che Boezio ed al
tutti quei corpi, che sono nati atti a moversi cuni altri vogliano, che si diffinisca solamente
e riposarsi; ma in quelli, che si movono sola la terrestre. Ora non è dubbio, che secondo
mente, come i cieli, diremo che la Natura sia il vero, la Natura si dice e predica prima delle
principio del movimento loro; ed in quelli che divine e poi delle mortali; e così tal predi
stanno sempre fermi, come la terra, diremo, cato, essendo il prima, e il poi, viene ad es
che la Natura sia cagione del riposo. – Pri scre analogo; dove i veri generi debbono es
mamente. Aveva il filosofo circonscritto infin sere univoci, cioè comprendere egualmente
qui, come dice Alessandro (1), il genere con tutte le spezie loro, e non prima l'una e poi
questa descrizione; ora seguita a circonscrivere l' altra,
la differenza con queste tre particelle. La pri Ma perchè io dissi di sopra colle parole di
ma delle quali si pone a differenza delle cose Aristotile medesimo, che la diffinizione della
artifiziali, nelle quali è bene il moto, ma non natura era di quelle supposizioni concedute,
primamente; perchè, come si disse ancora di che sono note per sè e di loro natura; mi par
sopra, le cose artiſiziali non si movono come di sentire alcuno di voi, il qual dica seco stesso:
artifiziali, ma come naturali; onde in questa Se le cose manifeste e chiare appo i filosofi,
cattedra è il principio del suo movimento, e chi sono così fatte, pensa quello che devono essere
le rimovesse d'intorno quello che le probisce le scure e dubbiose. Al che rispondo, che buona
il moversi, non già primamente, ma seconda parte di queste difficoltà nascono dal non cone
riamente; perciocchè non si moverebbe prin scere, o per non avvertire, che la Natura non si
cipalmente, come cosa artifiziata, cioè come diffinisce in questo luogo semplicemente e co
cattedra, ma come cosa naturale, cioè come le me assoluta, ma rispettivamente e come rela
gno.–Per sè. Questo fu aggiunto per differenza tiva. E la cagione è, perchè non istà al filosofo
d'un nocchiere, il quale è principio del mo naturale il diffinire la natura assolutamente e
vimento della nave, ed è nella nave prima secondo la sua quidità ed essenza propia, ma al
mente, non essendo altrove prima che quivi, metafisico; onde se Aristotile non fosse stato
ma non vi è già per sè, cioè non è dell'intel costretto di dover avere rispetto al moto, co
letto o sostanza della nave; onde chi diffinisce la me filosofo naturale, arebbe potuto dire age
nave non vi porrebbe il nocchiere, come sarebbe volissimamente: La natura significa così la for
necessario di fare, se vi fosse per sè, come in ma di checchessia, come la materia.
tendono i loici.–E non per accidente. Non ba Le quali cose a cagione che meglio e più
stavano le cose sopraddette, se non s'aggiugne chiaramente si comprendano, dovemo sapere,
va ancora questa differenza, perchè un medico che questo nome Natura, come si può trarre
che guarisce sè medesimo, sarebbe il principio dal quarto capitolo del quinto libro della Me
della sua sanità, e sarebbe primamente e per taſisica, significa otto cose.
sè, e nondimeno non sarebbe la natura, e per Prima: la natività, ovvero il nascimento, cioè
ciò fu necessario aggiugnere e non per acci la generazione di qualunque cosa, ed in que
dente; perchè il medico medica se stesso per ac ste significato si chiamò da Greci poats e dai
cidente, cioè gli accade essendo infermo esser Latini Natura.
medico: altramente, come dice Aristotile, non Secondo: il principio intrinseco, onde si ge
si disgiugnerebbero mai l'uno dall' altro; e nera alcuna cosa, come è la virtù formativa
così tutti i medici medicarebbero sempre loro nel seme, dell'eccellenza della quale, maravi
stessi e non mai altri. Non mancano ancora gliandosi così i filosofi come i medici, non sa
in queste tre ultime particelle infinite difficol pevano se dovessero chiamarla creatura o crea
tà, perchè significando più la prima di mano tore. E di vero è piuttosto miracolo, che ma
in mano che l'altra, si dovevano posporre, raviglia, che di poco sperma inanimato, nascano
come fecero alcuni, per tor via la nugazione, gli uomini e tanti altri animali così perfetti,
come dicono i loici, cioè il ripetere superflua come imperfetti; e questo secondo significato
mente una cosa medesima. Al che diciamo, che si tenga bene a mente.
Terza: il principio del movimento e della
(1) Credo che sia Alessandro d'Afrodisia, celebre commen quiete delle cose, come avemo dichiarato di
tatore delle opere di Aristotile, che fiori in Alessandria nel li
secolo dell'Era Volgare. Circa la metà del secolo XVI, si sopra.
stamparono separatamente in Firenze e in Venezia i vari Quarta: qualunque materia di qualunque cosa.
commenti che gli sono attribuiti delle principali opere d'Ari Quinta: qualunque forma sostanziale di esse
stotile, (M.) cose.
Dl LLA NATURA 139
Sesta: la materia prima solamente. Natura tien costei d'un sì gentile
Settima: la forma del tutto; perchè non solo Laccio, che nullo sforzo è che sostegna (1).
l'anima razionale è la forma dell'uomo, ma
ancora dell' umanità.
E così pare, che lo pigliasse medesimamente
nel
Ottava ed ultima; e questa significazione e quando sonetto: Dicemi spesso il mio fidato speglio,
disse:
metaforica, ovvero traslata: la sostanza di qua
lunque cosa. Le quali significazioni, acciocche tIbbidire a Natura in tutto è 'l meglio,
s'intendano meglio, dovemo sapere che tutte Che a contender con lei l tempo ne sforza (2).
le cose che sono, sono o sostanze o accidenti. Dove
notaremo incidentemente quanto alla lin
Le sostanze sono di due maniere o incorporee, gua, che quella voce sforza fu usata da lui,
come le celesti, o corporali, come le terrene, non so se impropiamente, ma bene nuova
e di tutte queste cose si predica e dice questo mente, avendola composta dal verbo forzare e
nome Natura : tanto che niuna cosa è in ve
dalla lettera s, la quale molte volte posta dinanzi
run luogo che non si possa chiamare Natura, a verbi dà loro la significazione contraria, co
o sia accidente, come sono suoni, sapori, colori me avemo notato altrove; onde sforza in que
e tutte le altre qualità che non possono stare da sto luogo non vuol significare altro, che priva
loro. nè trovarsi spiccate da alcuna cosa, dove di forze e toglie la possibilità, e, come noi di
elleno s'appoggiano; o sia sostanza cioè che sia remmo, sgagliarda. Pigliasi ancora alcuna volta
veramente, e possa stare per sè sola: onde di pur da medici per la forma del corpo, non
remo che la natura di questo nome Natura è da per la forma sostanziale, che è l'anima, ma
predicarsi di qualunque cosa si sia. E per que per la figura, come nota Galeno nel trenta
sto Plinio, dovendo favellare di tutte le cose, quattresimo Aforismo; esempigrazia d'uno che
intitolò il suo libro: Della storia della Natura, avesse il collo lungo o le gambe corte ed altre
e Lucrezio il suo: Della Natura delle cose. cose somiglianti.
Ma perchè molti o non intendono gli uni Ma appresso il metafisico, che considera la
versali o vi si confondono dentro, però non sia quidità ed essenza delle cose, la Natura e la for
se non bene che noi, seguitando il costume ma di qualunque cosa, cioè quello che la fa
nostro d' agevolare le materie, di che trattia essere quello che ella e, perchè ogni cosa che
mo, se non quanto porta la natura d'esse cose, è, è mediante la forma; e brevemente piglian
almeno come può la debolezza del nostro in do Natura nel suo più largo significato, egli
gegno, discendiamo a particolari. E, quasi co non è cosa nessuna o sostanziale, o acciden
minciando da un altro principio, diciamo che tale, o divina, o terrena, della quale non si
questo nome Natura (lasciamo da parte il si predichi e dica questa voce Natura: ne si trova
gnificato, nel quale lo pigliano i gramatici, cioè nome alcuno, il quale non significhi qualche
per li membri naturali così dell'uomo, come natura in qualche modo da uno in fuori, e que
della donna, e quello ancora del filosofo natu sto è quello che i Latini dicono nihil, e i To
rale, il quale è il principio del moto e della scani nulla, ovvero nonnulla, il quale non si
quiete, secondo che avemo dichiarato) si piglia gnificando natura nessuna, non si può inten
appresso i medici per lo calore naturale, come dere, perchè quello che non è, non si può
testifica Galeno nel secondo Aforismo del pri intendere.
mo libro, che comincia: I venti la vernata. E Seguita ora, che noi dichiariamo i nomi e gli
in questa significazione si dice tutto il di d'u- avverbi, che derivano da questa voce Natura.
no che sia infermo: La natura s'aiuta: bisogna Ma prima è necessario dichiarare come si tro
laseiar fare alla natura: i medici debbono es vano due Nature, una che si chiama univer
sere ministri della natura, perchè la natura, sale e l'altra particolare. La Natura Universale
non il medico guarisce gli ammalati e in molti non è altro che una virtù attiva, ovvero ca
altri modi; dove, per natura non s'intende al gione efficiente in alcun principio universale,
tro, che il calore naturale, del quale avendone ovvero in alcuna sostanza superiore, come sono
parlato lungamente nella quistione de' Calori, i cieli e l'anime loro, cioè le intelligenze che
non occorre dirne altro. Pigliasi ancora da me li muovono. Onde, perchè ognuno intenda, la
desimi medici per la temperatura del corpo, natura universale non è altro che la virtù ce
ovvero temperamento, che volgarmente dicia leste, e la virtù celeste non è altro, secondo
mo compressione; perchè, come testifica il me alcuni, che la forza e potenza delle stelle, la
desimo Galeno, la natura risulta dalla simme quale discendendo, mediante i raggi, in questo
tria, cioè dalla moderata e commisurata me mondo inferiore, genera e mantiene tutte le
scolanza de quattro elementi; e questo è il cose: e per questo diceva il filosofo: L'uo
principalissimo e propio significato di questo mo, e 'l Sole generano l'uomo. Ma, secondo
veeabolo appo i medici, come dice Galeno alcuni altri, questa virtù celeste si cagiona
di aver mostrato ne' libri delle temperature dal movimento del cielo, e non è altro che il
ovvero eomplessioni. E in questa significazione calore disseminato, cioè sparso e diffuso per
diciamo d'uno, che sia forte e robusto: Egli tutto l'universo, il quale, credono alcuni, che
e di gagliarda natura; e per lo contrario d'uno sia l'anima del mondo secondo Platone. E di
sparuto ed infermuccio; egli ha la natura de
bole; e in questo modo Io prese messer Fran
cesco Petrarca, quando disse nel sonetto: Amor, (t) Son. CXXXII, Parte I.
Maura e la bella alma umile: (2) Son. LXXXI, Parte 1.
LEZIONE
i 4o
questo parlò altissimamente nel sesto della sua melius pars animus est, in illo nulla pars extra
altissima Eneide Virgilio, dove dice: animum. Ma secondo la verità, Dio e sopra la
Natura, ed i Peripatetici medesimi dicono, che
Principio caelum, acterras, camposque liquentes, l'Anima è sopra la Natura, e le intelligenze
Lucentemque golum lunae, titaniaque astra
sopra l'anime. Puossi bene chiamare ancora
Spiritus intus ali, totamque infusa per artus Dio Natura e massimamente quando vi si ag
Mens agitat molem, et magno se corpore miscet: giugne, come fanno i teologi, Naturante; per
Inde omnium, pecudumque genus. chè producendo ogni cosa ed essendo la pri
E secondo alcuni è quel tepore etereo, cagio ma cagione ed universale di tutte le cagioni,
nato non tanto dal moto del cielo, quanto dal e senza la quale niuna potrebbe durare, nè un
lume, del quale non diremo altro, avendone momento solo, pare che se gli convenga il no
favellato a lungo nel fine della quistione alle me di Natura, come se gli convengono tutti gli
gata di sopra da noi. Basta che la Natura Uni altri, che possono significare principio, cagione
versale che è tutto il corpo celeste, anzi i flus o perfezione alcuna; dato che tutti quanti in
si o piuttosto deflussi dei corpi celesti, è in sieme non possono esprimere parte nessuna
somma la cagione universale di tutte le cose. della natura sua, la quale è non pnre indici
E di questa par che si debba intendere il bile, ma inimmaginabile. E quando Aristotile
disse nel secondo libro del Cielo, che Dio e
Petrarca, quando nella canzone d'Italia, disse:
la Natura non facevano cosa alcuna indarno,
Ben provvide Natura al nostro stato, prese Dio per la Natura universale, o volemo
Quando dell'Alpi schermo dire la cagione prima, la quale e indeterminata
Pose fra noi e la tedesca rabbia (1). a tutti gli effetti, cioè non intende più questo
E similmente nel dottissimo sonetto dichiarato che quello; e per Natura prese, non come di
già da noi, che comincia. – O tempo, o Ciel chiara Simplicio, la potenza passiva della ma
volubil, che fuggendo, dove dice: teria, ma anzi la virtù attiva, ed in somma la
Natura particolare, la quale determina l'uni
Ma scuso voi, e me stesso riprendo versale. Ed il Petrarca medesimo accozzò più
Che Natura a volar v'aperse l'ali, volte questi duoi nomi insieme, come diversi,
A me diede occhi (2). quando disse:
Ed in altri luoghi assai. Come Dio e Natura avrebbon messo
La Natura Particolare non è altro che una virtù
In un cor giovenil tanta virtute (1).
attiva, ovvero cagione efficiente, la qual conser
Ed altrove:
va e difende quanto può il più, quella cosa,
qualunque ella sia, della quale ella è natura, e Or già Dio e Natura nol consenta (2).
questa non opera cosa nessuna, se non in virtù
di quella: tanto che la natura particolare, ov Ma più chiaramente, che in nessun altro luogo
vero inferiore si può chiamare quasi strumento, nella fine di quel sonetto, il cui principio
è: – I'mi vivea di mia sorte contento:
rispetto alla natura universale e superiore. E di
questa favellò il Petrarca più volte, come là: O Natura, pietosa e fera madre,
Anima bella da quel nodo sciolta, Onde tal possa e si contrarie voglie,
Che mai più bel non seppe ordir Natura (3). Di far cose e disfar tanto leggiadre (3)?
Ora perchè molti dubitano se Dio e la Na dove si vede manifestamente che egli intende
tura, intendendo dell' universale, sono una della natura universale; e poi soggiugne, par
cosa medesima, dico, che secondo coloro, i lando di Dio come sopra alla natura:
quali tenevano che Dio non fosse altro che D'un vivo fonte ogni poter s'accoglie,
tutto l'aggregato de corpi celesti ed ordine Ma tu come 'l consenti, o sommo Padre,
delle cagioni universali, come facevano gli Stoi Che del tuo caro dono altri ne spoglie?
ci, e come si può vedere nel secondo libro di Ed il Reverendissimo Bembo nelle sue bellis
Plinio nel capitolo settimo, dove parla di Dio, sime Stanze:
tanto è la Natura, quanto Dio, onde disse
nel fine: Per quae declaratur haud dubie, na Come avrian posto al nostro nascimento.
turae potentiam, id quoque esse, quod Deum vo Necessità d'amor Natura e Dio.
camus. E Seneca nel quarto libro de'Benefizi Ma che più? Non chiamò Dante l'arte nipote
lasciò scritto queste parole. Natura (inquis) hoc di Dio, come figliuola della natura, a cui Dio
mihi praestat: non intelligis te, cum hoc dicis è padre? Nè però niego, che non chiamassero
mutare nomen Deo? Quid aliud est Natura, quam ancora Dio alcuna volta natura, come quando
Deus, et divina ratio toti mundo, ct partibus ejus Dante chiamò il Sole:
inserta? Ed altrove a questo proposito mede
simo: Quid est Deus? Mens universi, quod vi Lo ministro maggior della Natura (4).
des totum, et quod non vides totum: quid ergo
interest inter naturam Dei et nostran? Nostri
(1) Canz. VI, Stanza III, Parte II.
(1) Canz. IV, Stanza III, Parte IV. (2) Son. CXCIII, Parte I.
(2) Son. LXIV, Parte II. (3) Son. CLXXVI, Parte I.
(3) Son. XXXVII, Parte II. (4) Paradiso, Canto X.
DELLA NATURA 14 i
Ed il Petrarca quando disse: altri uomini, l'essere risibile e razionabile. Se
Come Natura al ciel la Luna, e 'l Sole, come individuo, cioè non come uomo in ispe
zie, ma come Piero, o Giovanni, o Martino in
A l'aere i venti, alla terra erbe e fronde,
A l'uomo l'intelletto e le parole, particolare; in questo caso gli sono naturali
Ed al mar ritogliesse i pesci, e l'onde (1); alcune proprietà così di corpo, come d'animo,
che non convengono a nessun altro, se non
dove pare che si debba piuttosto intendere di a lui: come si vedono alcuni o più destri di
esso Dio, che della natura universale, la quale corpo, o più ingegnosi di mente, o più alti
è sua ministra e vicaria, e si chiama talora che gli altri e più disposti a checchessia: per
da poeti Cielo, come il Petrarca: ciocchè mai non fu, e mai non sarà individuo
nessuno, che non fosse diverso in alcuna cosa
Mano, ove ogni arte e tutti i loro studi
Poser Natura e il Ciel per farsi onore (2): da tutti gli altri della sua spezie. Notaremo an
cora, che delle cose naturali quelle, che con
E così là : vengono secondo la propia natura, sono inse
Allora insieme in men d un palmo appare, parabili, e mai non si possono rimuovere, co
Visibilmente quanto in questa vita me al fuoco il volare al cielo; alcune altre
Arte, ingegno e Natura e 'l Ciel può fare (3). sono ben naturali, come la sanità all'uomo;
ma però si possono separare per vari acciden
dove natura si piglia per la particolare, ed il ti, onde sebbene la mano destra è naturalmente
ciel per l'universale. Onde Dante disse: più forte, che la stanca, non è, che gli uomini
La circolar natura, ch'è suggello non si potessero avvezzare tutti mancini, e così
Alla cera mortal, fa ben sua arte, aver più forte la sinistra, che la destra, per
Ma non distingue l'un dall'altro ostello (4). chè queste cose non sono della propia sostan
za e natura dell'uomo. Dividesi alcuna volta
E talvolta la pongono di maniera, che par si questo nome naturale contra le cose artifizia
possa pigliare, e per Dio, e per la natura uni te, e allora tutto quello, che non è fatto dal
versale, e per la particolare, come nella fine l'arte, si chiama naturale: onde il Petrarca:
del sonetto: – Quel ch' infinita provvidenza,
ed arte: Con beltà naturale abito adorno (1);
Ed or d'un picciol borgo un Sol n'ha dato alcuna volta contra l'acquistate con istudio
ed industria; onde il medesimo:
Tal, che Natura e 'l loco si ringrazia,
Onde sì bella Donna al mondo nacque (5); Perch' io veggio e mi spiace,

Ed altrove: Che natural mia dote a me non vale (2).


Ed uomo naturale si chiama colui, che è po
Ringraziando Natura e 'l dl ch'io nacqui (6). sitivo, e senza lettere, ed ha quello che ha,
Aristotile dopo la diffinizione della Natura, non dall'accidente, ma per natura, ed in que
dichiara tre termini, cioè quali cose si chia sto modo disse il Petrarca:
mano aver natura: quali si dicano secondo na Ben sapeva io che natural consiglio (3).
tura: e quali da natura; e perchè dell'ulti
me due avemo a parlare poco di sotto, dichia E perchè l'accidentale senza il naturale val
raremo ora il primo, il quale è meno comune, poco o niente, però usiamo dire d'un uomo
cioè comprende meno, e significa manco cose, che non sia da nulla: Egli ha poco obbligo colla
che gli altri. Onde avente natura si chiama natura. Alcuna volta contra le cose violente
ogni cosa, la quale è composta di materia e ed alcuna contra le volontarie; ed allora tutto
di forma, ed in somma tutto quello che è na quello che non è o violento, o volontario, si
turale. Ma qui bisogna avvertire, che questo chiama naturale, come dicemmo già, che il riso
termine naturale, si può intendere e pigliare in era moto naturale, non volontario. Chiamasi
più modi secondo diversi rispetti; esempigra naturale alcuna volta, non quello che viene da
zia, se l'uomo si considera come corpo com tutta la spezie, ma quello che è stato ordina
posto, ovvero grave, allora tutte quelle cose, to dalla natura in alcuna spezie ad alcun
che convengono a corpi gravi di loro natura fine; come per atto d'esempio, secondo la na
sono naturali all'uomo, come l'andare al cen tura nessuno e servo; e nondimeno Aristotile
tro, il doversi corrompere ed altre cose tali. dice, che tutti quelli che sono gagliardi di
Se si considera come animale, che è il suo ge corpo, sono servi naturalmente a quelli che
nere prossimo, tutte quelle cose che conven sono alti d'ingegno, perchè la natura ha or
gono naturalmente agli animali, gli sono natu dinato questa differenza tra loro a questo fine;
rali, come il moversi, il sentire, il congiugner e così la differenza, che è tra l'uomo e la fem
si ed altri tali. Se come uomo, che è la sua mina, mostra che l'uomo le è naturalmente
spezie propia, gli è naturale, come a tutti gli superiore. Pigliasi ancora naturale qualche vol
ta per quello che non è nè secondo natura,
(1) Son. CLXIII, Parte I. nè contra natura, ma solo fuori di natura, co
(2) Son. CXLVII, Parte I. me il movimento de sette pianeti da Oriente
(3) Son. CXLI, Parte I.
(4) Paradiso, Canto VIII. (1) Son. CLX, Parte I.
(5) Son. IV, Parte I. (2) Canz. VII, Stanza V, Pate 1.
(6) Canz. VII, Stana II, Parte I. l ( ) Son. XLV, Parte I.
142 LEZIONE

verso Cecidente, il quale non è loro violento Ma fa, come natura face in foco,
e contra natura: perchè oltra che in cielo non Se mille volte violenza il torsa (1).
è violenza nessuna, non sarebbe perpetuo, ne
è loro propiamente naturale, perchè il movi Ed Orazio non meno dotto, che buono:
mento loro naturale è da Occidente ad Orien
te. Il medesimo dovemo dire del moto del
Natura eapellas furca, tamen usque recurrer.
flusso e riflusso del mare, e di quello del fuoco E sebbene molte cose contra natura si correg
intorno al cielo, il quale non gli è propiamente gono dalla natura medesima o dall'arte, co
secondo natura, perchè il moto del fuoco se me vediamo, che la medicina guarisce i mali,
che sono contra natura; e Cicerone racconta
condo natura è allo insù, nè propiamente con
tra natura, perchè non sarebbe eterno, ma fuori di Demostene, che non possendo per lo essere
di natura. Ponsi alcuna volta naturale a dif egli scilinguato pronunziare la lettera H (Eta),
ferenza di razionale, onde come le scienze na fece tanto coll' esercitazione, e consuetudine,
turali trattano di cose, così le razionali di pa che la profferiva speditissimamente; non è però
role. Ed alcuna volta a differenza di divino, questo contra quello, che dice il Filosofo;
ed in questo modo tutte le cose sopra la Luna, perciocchè le malattie ed altri simili impedi
si chiamano divine, e tutte le sotto, naturali. menti son bene contra natura, cioè fuori dell'in
Dichiarato che cosa sia naturale, ed in quanti tendimento della natura, ma vengono però dai
modi si pigli, è agevolissimo intendere, che principi d'essa per qualche accidente: però
cosa sia secondo natura, perchè tutte le cose si chiamano contra natura, cioè fuori di na
che sono naturali a una qualche cosa, le so tura. Nel qual modo diciamo, che i vizi sono
no secondo natura; onde come le cose leg contro natura; perciocchè se fossero veramen
gieri salgono secondo loro natura, così le gravi te e propiamente contra natura, non si fareb
discendono. E qui si può conoscere essere ve bero mai; perchè niuna cosa si fa contra na
rissimo quello che diceva il Filosofo, cioè, che tura, se non dalla natura medesima alcuna
secondo natura è più comune e comprende volta per grandissima cagione, come è quando
più cose, che avente natura; perciocchè il fuo l'acqua saglie, perchè non si dia vòto nelle
co, l'aria e tutti gli altri elementi, essendo cose sue, e così perisca l'universo, il che è
corpi semplici, non si può dire che abbiano del tutto impossibile.
natura; ma ben si dice, che si movono a luo Da Natura. Questo è l'ultimo termine dei
ghi loro, secondo natura, ed all'uomo conven tre dichiarati da Aristotile, il quale è ancora
gono molte cose, ora secondo la sua natura ge più comune, cioè di maggior significazione e
nerica, cioè come animale, ora secondo la na più largo comprendimento, che secondo Natu
tura specifica, cioè come uomo, or secondo la ra; conciossiacosachè la vecchiezza, la malat
natura individuale, cioè come Socrate, o Pla tia e la morte stessa con tutti gli altri difetti
tone. E tutte quelle cose, che gli vengono se e privazioni si possono ben chiamare da na
condo la natura, gli giungono grate, e soavi; tura, ma non già secondo natura, perchè que
e però diceva Marco Tullio: Che il vivere se ste son tutte cose malvagie, e la natura non
condo la natura e 'l vivere beatamente, era il intende per sè, nè vuole se non cose buone,
medesimo. Onde ogni animale seguita sempre e le non buone o cattive per accidente; onde
quel piacere, che gli è secondo la natura; e è grandissima difficoltà appresso i Latini, se i
quinci disse Virgilio: mostri, come sono i nani, i gobbi da natura
ed altri parti più mostruosi, si possono chia
Trahit sua quemque voluptas. mare da natura. La qual quistione essendo
non meno Iunga e difficile, che bella, serba
E perchè chi conosce l'uno contrario, co remo a un'altra volta, ed ora diremo, che è
nosce l'altro, chi sa che sia secondo natura, quello, che i Latini dicono : secundum natu
sa che significhi contra natura; contra la quale ram, come si vede in queste parole di Marco
mai non può farsi cosa alcuna, che sia dilet Tullio: Omne animal se ipsum diligit, ac si
tevole e grata, e che riesca a prospero fine, mul, ut ortum est, id agit, ut se conservet,
onde disse dottissimamente Orazio:
quod hic primus ad omnem vitam tuendam ap
Tu nihil invita dices faciesque Minerva. petitus a natura datur, se ut conservet, atque
ita sit affectum, ut optimum secundum naturam
Ed il fingimento della favola de' Giganti, che affectum esse possit. La qual parola il Petrarca
volevano guerreggiare con gli Dii, non ci vo traduce or naturalmente dicendo:
leva dimostrare altro, se non che non si debba
E perchè naturalmente s'aita
fare cosa alcuna contra natura, le cui forze
Contra alla morte ogni animal terreno (2).
trapassano di grandissima pezza tutti gli altri
poteri; onde niuno tempo basta, nè niuna con Or da natura:
suetudine, come diceva Aristotile, nel secondo
dell' Etica, a fare che alcuna cosa, dimenti Una pietra è sì ardita,
Là per l'Indico marche da natura
catasi la natura propia, operi contra quella; Tragge a sè 'l ferro e 'l fura (3).
perchè se un sasso, diceva egli, si gittasse ogni
ora mille volte in alto, mai però non s' ose (1) Paradiso, Canto IV.
rebbe a dovere andare all'insù, ma sempre (2) Son, XXXII, Parte I.
cadrebbe verso la terra; e perciò disse Dante: (3) Canz. IV, Stanza II, Parte I.
DELLA NATURA 143
E ora per natura: | Restaci ora, non mica per compimento della
Sorge nel mezzo giorno materia proposta, la quale è quasi infinita, ma
Una fontana, e tien nome dal Sole, di questa nostra Lezione, a recitarvi piuttosto
Che per natura suole che dichiarare alcune di quelle più famose pro
Bollir le notti, e 'n sul giorno esser fredda (1). posizioni, le quali si debbono ben credere, ma
non già si possono provare, raccolte di vari
Ed altrove:
luoghi e diversi libri d'Aristotile, i quali non
Femmina è cosa mobil per natura (2). allegaremo per non essere diligenti, dove non
fa di mestiero; e se pure alcuno li volesse sa
E ne' Trionfi:
pere, li troverà in buona parte nella tavola
Fece temer chi per natura sprezza (3). del dottissimo M. Marcantonio Zimara. La pri
ma delle quali sarà questa:
Sopra Natura. Se bene noi avemo detto, che La Natura fa tutto quello che ella fa ad al
il nome di natura si predica di tutte le cose cun fine. La qual proposizione è grandissimo
che sono, o siano accidenti, o siano sostanze fondamento, non solo nella scienza naturale,
tanto mortali, quanto immortali, avemo anco ma nella divina ancora; e chi la negasse, ne
detto che Simplicio, e molti altri, così Greci, garebbe il principio finale, e che la materia fosse
come Latini, vogliono che l'anime razionali per cagione della forma; e così verrebbe a ne
siano sopra la natura, e tanto più l'anime dei gar l'agente; e in somma negarebbe le cose
cieli, cioè le intelligenze che li muovono; e manifeste, essendo ella nota per sè medesima.
però chiamano alcune cose naturali, ed alcune E quelle tante ragioni e si diverse, che allega
soprannaturali. E sebbene il Petrarca teneva, Aristotile nel secondo della Fisica per provarla,
che l'intelletto umano e l'anima nostra razio
non sono naturali, ma dialettiche e metafisiche,
nale fosse natura, come è secondo Aristotile, che s'usano contra coloro che niegano i prin
onde disse nella canzone del Pianto :
cipj, contra i quali, o non si disputa, o si pi
Quell'antico mio dolce empio Signore, gliano argomenti e ragioni fuori di quella scien
Fatto citar dinanzi alla reina, za, della quale si disputa, come fa spesso Ari
Che la parte divina stotile: e ciò nel primo della Scienza Naturale
contra Parmenide e Melisso si vede manife
Tien di nostra natura, e 'n cima siede (4):
disse nondimeno altrove:
stissimamente, come notano gli spositori.
La Natura non è potenza razionale, ma ir
Stiamo, Amore, a veder la gloria nostra, razionale, e con tutto ciò non fa cosa alcuna
Cose sopra natura altere e nuove (5). irrazionabilmente. Questa proposizione pare in
un certo modo contraddittoria, e conseguente
E il nostro Lodovico Martelli, seguitando l'opi mente falsa, non parendo possibile che una
nione di Simplicio, disse nelle sue bellissime cosa che non sia ragionevole, operi ragionevol
e dottissime stanze alla dottissima e bellissima
marchesa di Pescara:
mente: e nondimeno è verissima, perchè la
natura non è razionale, cioè non opera con ra
Donna, sopra natura al secol nostro gione, perchè ella non conosce, e non cono
Come a mortali è la ragione e l'alma (6); scendo non può discorrere, e però si chiama
dove disse la ragione e l'alma, cioè l'anima irragionevole. Dall'altro lato ella non fa nulla
razionale per quella figura, onde disse il Pe senza somma ragione, perchè sebbene non co
trarca: nosce da per sè, opera nondimeno in virtù di
chi conosce, ed è retta e guidata in tutte le
Onde vanno a gran rischio uomini ed arme (7). sue operazioni da una intelligenza, che non
Fuor di Natura. Quello che non è del tutto può errare. E quinci avviene, che tutti gli
nè secondo la natura, nè contra la natura, si agenti naturali, non operando con ragione, ma
chiama fuor di natura, come dicemmo di so per istinto di natura, desiderano sempre quello
pra nel mewimento del flusso e riflusso del mare, che è bene con la mente, e sempre lo conse
di quel del fuoco, e di quel dei sette piane guiscono. Solo l'uomo, che opera mediante il
ti. Ippocrate, come dichiara Galeno nell'Afo discorso e la ragione, s' inganna molte volte,
rismo quarantaquattro, che comincia: Quicum desiderando quello che gli par bene, come di
que praeter naturam tenues, lo prese per un chiarammo altra volta, ma che in vero non è
eccesso e soprabbondanza grande, come noi buono, e molte volte non lo conseguisce. E chi
diremmo smunti e stentati oltra modo e natura. volesse sapere qual sia questa intelligenza non
errante, che regge e governa la natura, non
(1) Canz. IV, Stanza II, Parte I. potrà errare a credere che sia il ciclo, cioè la
(2) Son. CXXXI, Parte I. natura universale, o veramente il primo mo
(3) Trionfo della Fama, Capitolo II. tore, in virtù del quale operano tutte le cose
(4) Canz. VII, Stanza 1, Parte II. tutto quello che operano.
(5) Son. CL, Parte I. La Natura per se stessa intende, appetisce
(6) Lodovico Martelli, di cui si è parlato in una nota an
tecedente, scrisse alcune stanze indirile a Vittoria Colonna,
e cerca sempre il bene, e non mai male al
chiamata Marchesa di Pescara in grazia del marito Luigi d'Ava 1, cuno, se non per accidente; e la cagione è
los, marchese di Pescara, che come è noto da alcuni Signori perchè, come s'è detto pur testè, ella è retta
italiani si voleva fare re di Napoli contro Carlo V. ( 1 ) ed indirizzata dal primo bene. Onde chiunque
(7) Son. CXXXIV, Parte I. l biasima o bestemmia la natura, bestemmia e
144 LEZIONE
biasima Dio; nè creda alcuno, che dalla na e cosi di tutte l'altre spezie: e sempre piut
tura possa venire male, e cosa che buona non tosto maschi, che femmine, essendo questi senza
sia che troppo sarebbe ingannato. Ne è cagione dubbio alcuno più perfetti e più nobili, che
la Natura, come avemo detto ancora di sopra, quelle non sono, secondo Aristotile: ma se
della vecchiezza, de morbi e della morte no condo il Cortegiano e M. Vincenzo Maggio,
stra, ma la materia di che siamo composti; le donne sono più nobili e più perfette che
perchè la natura non intende per sè corru gli uomini. Ma di questo avemo favellato al
zione alcuna, essendo tutte le corruzioni cat trove; e poscia che non si ritrova animale nes
tive, ma solamente generazioni che sono tutte suno più nobile, che l'uomo, nè più perfetto,
buone. È ben vero che per accidente si può non ha dubbio che la natura pose in lui tutto
dire, che le intenda, sapendo che della morte quello che sapeva e poteva, così di bello, co
d'uno un altro nasce; come dice il Martelli: me di buono; e l'universo si potrebbe, per
avventura, immaginare, o desiderare più per
Che di tal variar Giove si pasce. fetto, ma essere no. E ben vero che altro si
E però a torto ci dogliamo della natura nelle richiede alla quinta essenza, ovvero natura ce
nostre o altrui morti, come fece il Petrarca: leste, ed altro alla natura mortale, onde nel
mondo inferiore è più perfetta la quiete, che
Dolce mio caro e prezioso pegno, il movimento, essendo ogni movimento per ca
Che Natura mi tolse, e 'l ciel mi guarda (1). gione di qualche quiete; ma nel mondo supe
La Natura ha forze piuttosto miracolose, che riore è il contrario: onde i cieli si movono
mirabili, come si vede sempre, e in ogni luogo sempre senza doversi mai posare; che se fosse
dove si rivolgono o gli occhi o la mente. Ecco stato altramente, avrebbero posato sempre, senza
i tigri che sono sì fieri animali, e tanto sel mai doversi movere. Così il contingente, cioè
vaggie e indomite bestie, tosto che veggiono quello che può essere e non essere, è tra noi
non solo l'uomo, ma l'orme e pedate sue, an meglio, ma lassù è il necessario; onde ciò che
corchè mai non abbiano visti uomini, temendo si fa in cielo, si fa, favellando sempre secondo
di lui tramutano e trafugano i loro figliuoli; Aristotile, necessariamente; perchè sarebbe im
e così le pecore ancora che mai non abbiano perfezione, se il primo motore potesse non mo
veduti lupi, ne temono subito per occulto in vere: del che non è da dubitare, come diceva
stinto di natura. Che diremo dei nidi delle il Filosofo.
rondini ? che delle tele de'ragnateli? che della La Natura, come veramente liberale, dà le
prudenza delle formiche ? che della sapienza cose quando, dove ed a chi si debbono dare;
delle pecchie? e che, finalmente, di infiniti al onde l'uomo non è prudentissimo fra tutti gli
tri miracoli della natura? De' quali parleremo animali perchè egli ha le mani, come credeva
un di lungamente, quando tratteremo, se si Anassagora, ma per l'opposto ha le mani, per
danno e che cosa siano le propietà occulte, che chè è prudentissimo; ed i tori non cozzano, per
si vedono ognora da ognuno, come appare nella chè hanno le corna, come diceva Epicuro, ma
calamita ed in mille altre cose, che non si hanno le corna, perchè devono cozzare; e così
credono quasi da persona. di tutte le altre cose somiglianti. E la ragione
La Natura non fa mai cosa nessuna nè in è, che la natura accomoda gli strumenti agli
vano, nè di soperchio, nè temerariamente, ov ufizi, non gli ufizi agli strumenti. E chi dubita,
vero a caso; anzi tutto quello che fa, lo fa o che non sia meglio dare un flauto, come dice
perchè è necessario il farlo, o perchè è il mi Aristotile, a un che sappia sonare , che dare
gliore con sommo consiglio e prudenza sem la scienza del sonare a un che abbia il flauto?
pre. Non fa anco mai cosa alcuna violente E di qui nasce ancora che la natura si chia
mente, ma sempre a poco a poco, e perchè ma giustissima, dando sempre a ciascuno quan
ella intende l'unità, la quale è perfettissima; to se gli aspetta; onde ben disse messer Fran
però tende sempre a un fine, ancora che per cesco :

molti mezzi, come si vede nel grano. E per Che natura non vuol, nè si conviene,
chè l'infinito non ha fine, però è nimico della
natura e fuggito da lei; oltra che non è, nè si Per far ricco un, porgli altri in povertate (1);
può intendere, nè mai si stanca infino a che e sempre usa di rendere a una parte quello
è necessario operare, come testimonia Dante che ha tolto a un'altra; onde avendo gli orsi
dicendo: il corpo molto peloso, fece loro la coda pic
ciola.
Ed io: Non già , perchè impossibil veggio La Natura è ordinatissima, anzi cagione d'or
Che la natura, in quel ch'è uopo, stanchi (2). dine, onde delle cose naturali niuna è disor
La Natura fa sempre come perfettissima mae dinata, se non di rado e per accidente; e chi
stra di tintte le cose il migliore, cioè cava di considera l'ordine dell'universo, è forza, che
qualunque cosa quello che più perfetto se ne conosca in qualche parte la grandissima sapien
può cavare; onde quando fa, per cagione d'e- za di Dio, perchè l'ordinare s” appartiene al
sempio, una botta, farebbe più volentieri un sapiente, diceva il Filosofo; e conoscendola, non
ranoccº o, se la materia soggetta lo portasse, solo se n'ammiri ed allegri, ma ami e goda,
non si potendo amare, nè godere le cose, che
(1) Son. LXVIII, Parte II.
(2) Paradiso, Canto V li I. (1) Son. LXIII, Parte 11.
DELLA NATURA 145
non si conoscono: e questo voleva dire Dante, si vede nel naso; anzi in tutte le operazioni sue
quando cantò: intende e cerca la bellezza e l'ornamento del
l'universo.
Quanto per mente e per occhio si gira,
Con tanto ordine fe” ch'esser non puote, La Natura non può creare, cioè non può
Senza gustar di lui, chi ciò rimira (1). fare di non-nulla qualcosa, perchè la crea
zione appresso tutti i filosofi è negata, e ap
E l'ordine della natura è di cominciare sem presso i teologi si concede solamente a Dio, e
pre dalle cose meno perfette verso le più per però disse Dante dottamente:
fette; come si vede nella creazione dell'uomo,
dichiarata da noi altra volta, e sempre la na E la sua volontade è nostra pace ;
tura usa le cose superiori in luogo di forma, Ell è quel mare, al qual tutto si muove
e l'inferiori in luogo di materia. Ciò ch'ella cria, o che natura face (1).
La Natura come non abbonda mai nelle cose La Natura non si può mutare e vincere del
superflue, così non manca mai nelle necessa tutto con nessun tempo, arte, ingegno, nè forza;
rie; anzi tutte quelle che erano necessarie, le onde i vizi così del corpo, come dell'animo,
fece agevolissime a potersi conseguire, e come che noi avemo propiamente da natura, si pos
benignissima ne diede il sonno, riposo e ri sono bene mitigare e scemare alquanto, ma tor
storo di tutte le fatiche e pensieri umani: quasi via del tutto no, parlando naturalmente; e per
volendo insegnarci a morire, e mostrarci che questo disse leggiadramente Lucrezio:
cosa fosse, e quanto si dovesse temere la morte.
Sic hominum genus est, quam is doctrina politos
La Natura fa, dice il Filosofo, come un pru Constituat pariter quosdam, tamen illa reliquit
dente padre di famiglia, il quale mai non la
scia perdere cosa nessuna, d'onde si possa trarre Naturae cuisque animae vestigia prima;
alcuna utilità: perchè si serve talvolta infino Nec radicitus evelli mala posse putandum esti
degli scrementi e di vilissime superfluità in Quin proclivius hic iras decurrat ad acres,
Ille metu citius paulo tentetur, at ille
qualche uso o utile o necessario. E fa ancora
come un buono architettore, il quale le cose Tertius accipiat quaedam dementius aequo,
necessarie, ma brutte rimove dagli occhi, e le Inque aliis rebus multis disserre necesse est
nasconde il più che può. Naturas hominum varias, moresque sequaces.
La Natura, come quella che tanto maggior E nondimeno il Petrarca disse non meno dot
cura ha di qualunque cosa, quanto ella è più tamente, che leggiadramente:
nobile, pone sempre, dice Galeno, quello che
è meglio nel fondo, come si vede nel cuore, e Onde è dal corso suo quasi smarrita
le altre cose nella superficie. E qui ancora av Nostra natura vinta dal costume (2).
vertiremo che nelle cose superiori è il contrario; Ed altrove:

perchè Dio secondo l'operazione è nella su Nè Natura può star contra'l costume (3).
perficie, ed il primo cielo è più nobile degli
altri, come dichiarammo altra volta. per le ragioni, che si sono dichiarate bastevol
La Natura usa alcuna volta alcuno strumento mente di sopra.
per lo migliore, alcuna volta per necessità; e La Natura non solamente è certa e deter
sempre ciò che può fare con uno strumento minata, cioè non pure tutte le cose nascono
solo, non fa mai con due; perchè gli enti, cioè di tutte le cose e ciascuna d'una certa e de
le cose non s'hanno a moltiplicare senza ne terminata; onde un fico non farà mai delle ne
cessità; ma usa bene quando può comodamente spole, nè i pesci nasceranno mai su per li monti
uno strumento a due cose, come fece nella e nelle selve: ma ancora ha un certo termine
lingua, che serve pel gusto ed al parlare; e e fine in tutte le cose sue; perchè tutte le
cosi nel naso sono due utilità, una per ispur cose naturali possono crescere inſino a una certa
gare le superfluità del cervello, l'altra per grandezza e non più, la quale è determinata
odorare. così nel poco, come nel molto, onde la forma
La Natura non fa salti, cioè non passa da dell'uomo non può stare in minor materia, nè
uno stremo a un altro, nè da un contrario al in maggiore che tanta, verbigrazia da un braccio
l'altro senza i debiti mezzi; onde mai non si in fino a cinque o sei e così di tutte le altre
scalda una cosa fredda, che prima non diventi cose. E questo voleva inferire Lucrezio, quando
tiepida, e tra le piante e gli animali sono al lodando Epicuro disse:
cune cose che non sono al tutto piante, nè al Unde refert nobis victor quid possit oriri,
tutto animali, come le spugne; e tra le cose Quid nequeat finita potestas, denique cui pue
inferiori e mortali e le superiori e immortali Quantum sit ratione, atque alte terminus haerens.
è l'uomo che partecipa dell'une e dell'altre,
essendo col corpo terreno e mortale e coll'a- E di qui si può conoscere senza fatica nessuna,
nimo celeste e divino, e così è mezzo tra l' c quanto s'ingannino fanciullescamente alcuni, i
terno e 'l temporale, come diceva Averrois, quali tenendosi filosofi e favellando da donne,
che 'l gran comento feo. , credono che anticamente tutti gli uomini fos
La Natura non solamente ha cura al me sero di statura infinitamente maggiore della no
cessario e all'utile, ma ancora al bello, come
(1) Paradiso, Canto III.
(2) Son. I, Parte IV.
(1) Paradiso, Canto X. (3) Canz. I, Stanza VIII, Parte 1 V.
VARCIIl
19
146 LEZIONE

stra e vivessero le migliaia degli anni, quasi cioè essa spezie. Il che noi non crediamo; cre
non sappiano quello che sanno ancora gli ar diamo bene, che ogni cosa cerchi, non si pos
tefici, che i giganti furono favole trovate inge sendo perpetuare nell'individuo, cioè in sè me
griosamente da poeti, non senza grandissimi mi desima, di perpetuarsi almeno nella spezie e
steri e utilità, favellando sempre, come ho detto così nelle cose generate da lei somiglianti a sè.
più volte, non come cristiano, ma come filo E per questo disse il Filosofo, che la più na
sofo. Ma essi lo vogliono persuadere con ra turale opera che si potesse fare, era il gene
gioni naturali e provare come filosofi ; ed in rare. E qui mi piace, ringraziata prima l'inef
questo li riprendiamo, non già di credere co fabile maestà dello Dio della Natura e poscia
me cristiani i quali se sapessero, non dico, la benignissima cortesia dell'umanità vostre,
che la natura fu sempre una cd operò sempre porre fine alla presente Lezione.
nel medesimo modo, ma che cosa sia crescere
ed onde proceda, si riderebbero essi medesimi,
e quasi vo'dire vergognarebbero di loro stessi.
La Natura, cioè tutti gli agenti naturali, quan LEZIONE UNA
do non possono conseguire il fine loro ordina
riamente e per via diritta, cercano di conse DELLA

gnirlo straordinariamente e per via indiretta;


come si vede manifestamente negli specchi, dove G E NERAZIONE D E' MOSTRI
non potendo i raggi forare e trapassare il piom
bo che è loro dietro e cagionar lume, si ri
flettono e tornandosi indictro lo cagionano; il
che avviene ancora nelle impressioni celesti, BENEDETTO VARCHI
come nell'arco baleno e quando si vedono più
AI MolTO MAGNIFICI ED ONoRANDI
Soli, e come in molte altre cose si dichiara nelle
Meteore.
La Natura, il che non par verisimile, ha bi GIOVANNI DE ROSSI
sogno della Fortuna; cioè, come i semi posti E
in terreno non conveniente a loro, non pro
vano e le più volte imbastardiscono: GIOVAMBATISTA GUIDACCI
Chè gentil pianta in arido terreno
SUOI AMICISSIMI
Par che si disconvenga; e però lieta
Naturalmente quindi si diparte (1);
così chi è inclinato da natura a una qualche Mo non credo, che egli trapassi mai giorno nes
cosa, e per sua mala fortuna o elezione s'è
dato a un'altra, corrompe e guasta quei buoni suno, non voglio dire ora, che non mi sovvenga
semi e mai non farà gran prove; perchè, come così di codesta bellissima, e piacevolissima stanza
grida Pindaro e tutti gli altri scrittori, la Na di Rezzano e di Gagliano: come della dolcissi
tura è quella, che opera e chi non ha principi di ma conversazione e gratissimi ragionamenti, avuti
più volte con ambedue voi nell'un luogo e nel
checchessia da natura, fatica indarno per ve
nirvi dentro eccellentissimo. E questo dichiarò l'altro. E come io non dubito, che l'essermi io,
divinamente nella sua opera divina, il divino non dico partito, ma discostato da voi, vi sia di
poeta Dante, quando disse: alcuna noia e scontentezza stato cagione: così
dovete creder voi, ciò avermi non picciolo affanno
Sempre Natura, se Fortuna trova portato, e più che grandissimo dispiacere. I quali
Discorde a sè, come ogni altra semente però vo tuttavia ingegnandomi di temperare e
Fuor di sua region fa mala prova (2). far minori, sì colla speranza del dovervi tosta
con quello che seguita. mente rivedere, e sì col riandare meco medesimo
La Natura, cioè tutte le cose naturali, delle la tranquilla e naturalissima vita vostra, la quale
quali, come n'insegna il Filosofo nel Cielo, al lungi dalle città e lontanissima da tutte quante
cune sono corpo e grandezza, come i corpi sem l'ambizioni, e senza pur uno di quei tanti e cosi
plici, cioè i quattro elementi: alcune hanno molesti pensieri, i quali le più volte rodono, a
corpo e grandezza, come tutti i corpi misti e guisa che i tarli fanno, e consumano le lor cose
massimamente gli animati, ed alcune sono prin propie, ha maggior sembianza con tutte quelle
cipi d'esse cose, che hanno corpo e grandezza, felicissime del secolo d'oro, che con alcuna di
come la materia e la forma; tutte desiderano queste miserissime de'tempi nostri. Perchè ral
la perpetuità, cioè l'essere sempre in quel mo legrandomene con esso meco, e come amico par
do, che possono: e la cagione di questo è per tecipandone, mi par d'essere quasi sempre in com.
assomigliarsi il più che possono al fattore e Pagnia vostra ora giacendo sotto alcuna ombra,
mantenitore loro, che fu sempre e sempre sa ora spaziando per qualche riva: diletti 8iocon
rà. Onde dicono molti, che la Natura non in dissimi veramente e senza alcun danno, ma non
tende generare nè Dante, nè il Petrarca, nè già conosciuti se non da coloro, i quali cono
alcun altro particolare individuo, ma l'uomo scono se stessi e l'infinite miserie di questa bre
ºe e figacissima vita mortale, come fa ottima
(1) Petr., Son. XLI, Parte I. mente l'uno, e l'altro di voi: ciascuno de'quali
(2) Paradiso, Caulo VI11. cºntentandosi del suo stato, il che radissime volte
DELLA GENERAZIONE DE' MOSTRI 147
suole avvenire, non cerca altro, nè altro cura, perciò si possono chiamare veramente naturali,
che l'avere insieme colla sanità del corpo, la non esssendo intesi, cioè ordinati e voluti dalla
tranquillità della mente: quella coll' andare du
natura, ma fortunevoli e casuali, come pro
caccia e con altri onestissimi esercizi; questa dotti temerariamente ed a caso, fuori della vo
col leggere e col ragionare procacciando. Laon lontà ed intendimento del producente. La qual
de dovendo io la settimana passata fare, secondo cosa si in alcune altre generazioni si può age
gli ordini, la mia Lezione, non so se nell'Acca volmente conoscere, come sono, per atto d'e-
demia Fiorentina, ma bene in Santa Maria No sempio, i tuoni ed i tremuoti ed altre impres
vella di Firenze, mi tornò subito nella mente la sioni somiglianti, le quali non hanno fine al
promessa fattavi costi da me: quando entrati non cuno manifesto, e si massimamente nei Mostri,
so in che modo, a favellare de' Mostri, mi ven i quali, essendo sozza e rea cosa, non essendo
ne detto, che la prima volta, che a me fosse toc altro che errori e peccati di chi li fa, non
eato di leggere, ne tratterei lungamente. La qual potemo pensare, nè dovemo, che siano nè in
cosa avendo io fatto, non già come arei voluto, tesi, nè voluti, nè da Dio, il quale non può er
ma come potei, tanto occupato ed in sì pochi rare, nè dalla natura, la quale mai non pecca.
giorni e si rincresciosi. mi deliberai di volerlavi E dall'altro lato sapendo che senza il sapere
mandare, qualunque si fosse, certissimo, che di Dio e volere non si fa cosa nessuna, e che
quanto ella fosse per iscemare appresso il giudi la natura non solo genera i Mostri, ma ezian
zio vostro di quella credenza ed opinione, che dio li nutrisce e conserva, non pare che dob
portate di amendue, assai di là da meriti miei, biamo credere, nè possiamo, che siano prodotti
tanto dovesse accrescere di quella affezione e be dalla fortuna ed a caso. La qual ragione insie
nevolenza, ch' io porto alle virtù e cortesie vo me con molte altre che si diranno di sotto nei
stre, già sono più anni, non meno grande che luoghi loro, ebbero tanto di vigore, e così ne
singolare. State sani, e salutando a mio nome renderono dubitosa e quistionevole questa di
i duoi Ubaldini ed il Poggino, vivete felici, sputa, che gli interpreti della natura, cosi gli
amandomi, come fate. antichi, come i moderni, e tanto i Greci, e gli
Arabi, quanto i Latini, ne sentirono e deter.
minarono diversamente, tanto che fra tutte le
quistioni naturali niuna, per avventura, se ne
lezioNe soPRA LA GENERAZIoNE DE' MosTRI, E se ritrova nè più dubitevole, nè meno risoluta di
soNo INTESI DALLA NATURA, o No: FATTA PUB
questa. La quale io, dovendo per ubbedire ai
BlicAMENTE NELL'AccADEMIA FIoRENTINA LA PRIMA prieghi del magnifico Consolo, e soddisfare
E seconda DoMENICA DI LUGLlo, L'ANNo 1548. agli ordini di questa nostra Accademia, favel
lare oggi alquanto colle prudentissime e cor
PROEMIO tesissime Signorie vostre, ho preso a dover di
chiarare, non già come meriterebbe la gran
dezza di così alta impresa e così difficile, ma
Tutte le cose di tutto l'universo di qualun in quel modo, che potrà la picciolezza del basso
que maniera siano, ed in qualunque luogo si ingegno e delle debolissime forze mie; e questo
trovino, sono, magnifico Consolo, nobilissimi non tanto per continuare la materia, che io
Accademici, e voi tutti, Ascoltatori virtuosissi trattai prima dell'Arte, e poi della Natura,
mi, o sostanze, o accidenti. Delle sostanze al quanto per compiacere ad alcuni amicissimi
cune sono corporali, ed alcune incorporee. miei, checchè avvenire me ne debba. Oltra
Delle corporali alcune sono viventi, alcune man che desidero sommamente di svegliare chic
cano di vita. Delle viventi alcune sono sensi
chessia, la cui dottrina ed eloquenza quella
bili, alcune non sentono. Delle sensibili alcune chiarezza le porti e quella perfezione che da
sono ragionevoli, alcune private di ragione. Delle ne conosco non mai poterle venire.
ragionevoli, alcune sono celesti e divine, ed alcu Ma perchè io so, Uditori graziosissimi, che
neterrene e mortali. Quelle siccome perfette, ne molti parte riprendono, e parte si dolgono, che
cessarie, e sempiterne, non ebbero mai chi le fa - in questo luogo si trattino per lo più materie
cesse: queste siccome imperfette, contingenti e filosofiche, e degne piuttosto, come essi dico
cadevoli, hanno sempre chi le produce. Ora tutte no, d'essere per le scuole disputate tra le per
le cose, cosi quelle che si producono dall'arte, sone dotte e nella lingua latina, che dichia
come quelle che si generano dalla natura, han rate nell'Accademia fra gli uomini non lette
no bisogno necessariamente di quattro cose: rati, nell' idioma toscano, non mi pare di più
d'alcuno, che le faccia: della materia, onde dovere indugiare a rispondere a cotali doglian
si facciano: della forma, che dia loro l'essere: ze e riprendimenti, avvertendoli prima, che es
del fine, per lo quale si facciano. E questo è sendo la filosofia cognizione di tutte quante le
nobilissimo di tutte l'altre, perciocchè niuno cose che sono, o umane, o divine che siano,
si muove mai a fare cosa nessuna, se non so niuna materia si può trovare in luogo nessuno,
spinto e tirato da alcun fine; e però diceva di cui trattare, non dico non possa , ma non
il Filosofo, che il fine era la cagione delle ca debba il filosofo. E, per dirlo più apertamen
giºni, ed è tanto necessaria questa prima, ed te, tutto quello, che si pensa e non pur si fa
ultima cagione finale, che tutti gli effetti che vella, è filosofia, poichè gli uomini, dovunque
º mancano, schbene hanno tutte e tre l'altre siano e di qualunque idioma, sono tutti da na
ºsioni, efficiente, materiale e formale, non tura non pure desiderosi d'udire la verità delle
148 LEZIONE

cose, ma capevoli d'intenderla, solo che tro cosa a cagione che più agevolmente si possa
vino chi possa loro, o voglia insegnarla; oltra comprendere da ciascheduno, dovemo sapere,
che mai non mi ricorda d' essere in questo che (come n'insegna il Filosofo nel principio
luogo venuto, che non ci abbia molti trovato del secondo libro della Posteriora) tante sono
così religiosi, come laici, in tutte le scienze e quelle cose, che si possono conoscere e sa
discipline dottrinatissimi. E se coloro, i quali pere, generalmente favellando, quante sono
o non credono essi, o non vorrebbero che al quelle, delle quali si può dubitare e dimanda
tri credesse, che in questa lingua nostra, o non re. Onde non possendo noi dubitare intorno a
si potesse, o non si dovesse nè favellare delle qualunque cosa si sia, di più che di quattro
scienze, nè scriverle, sapessero o credessero, cose, ne seguita, che quattro e non più siano
che altri sapesse come malagevolmente, e con le cose, che si possono sapere da noi: e queste
quanta confusione, lunghezza e barbarie sono sono quelle quattro quistioni, cioè domande
scritte nella latina, conoscerebbero allora quan generali che i filosofi Latini chiamano: An est:
to fosse o guasto e corrotto, o dannoso e bia Quid est: Quale est: Propter quid est. E noi le
simevole il giudizio loro. Ditemi, vi prego, di potremo dire: Se è: Che è: Quale è: Perchè
temi, per Dio, Uditori giudiziosissimi, chi è è. E di vero nessuno può dubitare circa chec
quegli di noi, il quale non eleggesse anzi una chessia, se non o di tutte queste quattro, o di
preziosissima pietra, quantunque picciola, che alcuna d'esse. Perchè la prima dubitazione che
un vilissimo sasso, quantunque grande ? o non può nascere ad alcuno d'alcuna cosa, è di vo
volesse piuttosto un diamante solo, che mille ler sapere se ella sia: poi, che cosa ella sia:
pezzi di vetro?Non dice Aristotile medesimo, poi, quale ella sia: ed ultimamente perchè ella
rarissimo mostro anzi singolarissimo della na sia. Esempigrazia, può alcuno dubitare, se l'e-
tura, che molto più vale, e via maggiormente clissi, ovvero oscurazione del Sole sia o non sia,
si debbe stimare la credenza sola d'una qual e trovato che è, voler sapere che cosa ella sia:
che cosa nobile e perfetta, che la certezza di il che saputo, voler cercare d'intendere quale
molte ignobili ed imperfette ? Niuno effetto è ella sia, e finalmente per quale cagione ella sia.
tanto vile nelle cose della natura, il quale non Le quali cose trovate, come non gli resta più
avanzi di grandissima lunga, anzi infinitamente i che dubitare, così non gli resta più che sapere.
tutte l' opere di tutte l'arti, se già non cre E chi non conosce, che, presupposto, che una
dessimo, che tra l'infinita perfezione di Dio cosa sia (perchè delle cose che non sono, non
e l'infinita imperfezione degli uomini cadesse è scienza), tutte le dubitazioni, che vi possono
alcuna proporzione, o che tutti i mortali, di | nascere sopra, sono o circa la sostanza o circa
tutte le parti, in tutti i secoli bastassero con l gli accidenti propi o circa la cagione d'essi?
tutte le forze ed argomenti loro a produrre Ora la sostanza si dichiara e diventa nota me
pure una di quelle cose, che la natura pro diante la quistione, ovvero interrogazione: Che
duce ogni giorno, anzi a ciascuna ora infinite. è; gli accidenti propi mediante la quistione:
Nè sia per questo chi creda, che io voglia non Quale è; la cagione d'essi accidenti mediante la
che lodare, scusare, o la poca prudenza, o il quistione: Perchè è. E così è manifesto, che co
troppo ardire di coloro, per non dir follia, i me niuno può dubitare di qualsivoglia subbiet
quali senza avere, o per l'età, o per altra ca to, se non di queste quattro cose sole, così non
gione vacato alle lettere, se non se forse un può saperne nè più, nè meno di queste quattro.
poco alle umane, osano nondimeno di volere E benchè queste quattro, due delle quali sono
entrare in materie difficili e sottilissime; i semplici e due composte, si potrebbero ridurre
quali; per mio giudizio, farebbero maggior sen a due e forse a una sola, noi però, presuppo
no, se quel tempo e fatica, che pongono, o in nendo come cosa nota che i Mostri siano, e
fare cotali lezioni, o in recitarle, spendessero desiderando d'agevolare questa materia, la quale
in apparare prima la cognizione delle lingue, è stata trattata da molti scuramente e con in
poi la scienza delle cose; conciossiachè nessu credibile confusione, la tratteremo in quel mo
no possa essere nè veramente eloquente senza do che giudicheremo più convenevole, non cu
dottrina, nè veramente dotto senza eloquenza: rando delle autorità, ma delle ragioni, sotto tre
perciocchè come i buoni sentimenti vestiti di capi principali:
parole non belle, non movono e non dilettano, Che siano, dove si trovino, di quante ma
così le parole leggiadre senza la bontà de'sen niere si facciano e in quanti modi avvengano
timenti, arrecano più tosto riso che maraviglia i Mostri.
o dilettazione. Ma tempo è oggi mai di proce Quali siano e onde nascano.
dere, prima coll'aiuto di Dio ottimo e gran Perchè siano, cioè se hanno cagione fina
dissimo, poscia col favore dell'umanissime e le o no.
benignissime cortesie vostre alla materia pro
posta. CAPO PRIMO

Che siano, dove si trovino, di quante maniere si


Quello, che noi intendiamo di fare in que facciano e per quanti modi avvengano i Mostri.
sta presente Lezione è trattare de'Mostri, cioè
- - - - --

dichiarare con maggiore agevolezza e migliore Questo termine mostro ha, siccome tutti gli
ordine che sapremo: che cosa siano: onde altri vocaboli, due diffinizioni, una del nome,
nascano e perchè si generano i Mostri. La qual l la quale appartiene al gramatico, l'altra della
DELLA GENERAZIONE DE' MOSTRI 149
cosa, la quale s'aspetta al filosofo. Quanto alla favolose, perchè nè la ragione li persuade, nè
diffinizione della voce Mostro è detto dal mo li mostra il senso, conciossiachè in tutto 'l
strare, cioè significare, quasi che egli dimostri, mondo scoperto nuovamente a tempi nostri
significhi ed annunzi alcuna cosa futura obno non se ne sono trovate vestigia alcune, salvo
ma o rea che ella sia. Onde in questo mede che di quegli ultimi, cioè uomini con alquanto
simo significato usavano gli antichi per le me di coda; e quando pure se ne trovassero, sì
desime cagioni ostento, portento e prodigio, an per non essersi ancora cercato il tutto e sì mas
cora che fra loro, favellando propiamente, si simamente per lo essere la natura poco meno
trovi alcuna differenza e si piglino per lo più che onnipotente, non crederei che fossero uo
in cattiva parte. Onde tutte quelle cose, che mini, come diremo di sotto del pigmei ed altre
si crede, che predicano ed annunzino alcuno cosi fatte generazioni. Ed in questo significato
effetto, o avvenimento futuro, si possono chia potemo dire, che una grandissima o lunghis
mare Mostri in questa significazione gramatica sima e continua pioggia (come è avvenuto que
le. Quanto alla diffinizione della cosa, Mostro, sto anno) sia mostruosa, non che un diluvio,
pigliandolo generalmente, e nella sua più larga del quale disse non meno leggiadramente, che
significazione, si chiamano tutte quelle cose, le con dottrina Orazio nella seconda Ode:
quali avvengono fuori dell'ordine consueto e
usitato corso della Natura, in qualunque modo Terruit gentes, grave ne rediret
avvengano e per qualunque cagione. E a que Saeculum Prrrhae, nova monstra questae.
sto modo non solamente i ciechi nati, i sordi, Così quando sono o venti eccessivi, o caldi
i mutoli, i zoppi o altramente stroppiati ed at straordinari e finalmente tutte quelle cose, che
tratti da natività, si possono chiamare Mostri, non sono solite di venire, se non di rado a
e similmente i nani, i gobbi o altramente con fuori del corso naturale, si chiamano mostri in
traffatti da natura; ma ancora posto, che siano questa prima e larghissima significazione.
veri, tutti quelli che racconta Plinio nel sesto Mostri, nella seconda e più stretta significa
libro ai trenta capitoli ed in altri luoghi della zione, si chiamano tutte quelle generazioni, le
sua Storia Naturale, come i Cinocefali, cioè quali si fanno oltra il volere e fuori dell'in
uomini, che hanno il capo di cane, gli Arimaspi tendimento di chi le fa. Onde qualunque volta
che hanno un'occhio solo nel mezzo della fron alcuno agente intende di conseguire alcun fine,
te, gli Astomi non lunge dal fonte del Gange, e mollo consegue, quello propiamente si chia
i quali non hanno bocca e vivono d'odori di ma mostro. E si trovano cotali mostri non solo
pomi selvatici, onde il Petrarca disse: nelle cose animate, come sono gli uomini, gli
animali e le piante, ma ancora in quelle che
L'un vive, ecco, d'odor là sul gran fiume (1); mancano d'anima, come si vede molte volte
i Monoscelli, che hanno una gamba sola e cor nelle pietre, nei metalli ed in tutti gli altri
rono a salti velocissimamente, i quali si chia minerali e misti e perfetti, e non meno nelle cose
mano ancora Sciopodi, perchè nel maggior cal artifiziali che nelle naturali; perchè ogni volta
do, come è oggi a noi, stando rovesci in terra, che alcuno artefice, verbicausa, un medico, dà
si fanno ombra colla pianta del piè. Racconta una medicina a un malato per guarirlo ed ella
ancora d'alcuni, i quali sono senza naso ed l'ammazza o nollo guarisce, quello è mostro;
hanno il viso tutto piano: alcuni senza il lab e così se un pittore volendo ritrarre alcuno,
bro di sopra: alcuni senza lingua: alcuni han non sa somigliarlo, o un fabbro volendo fare un
no ben la bocca, ma appiccata insieme con un pugnale, facesse un coltello, e di tutti gli altri
buco solamente, per lo quale succiano il cibo, nel medesimo modo. Ma noi, volendo favellare
e beono con un filo di vena: alcuni che hanno solamente de mostri naturali e di quelli mas
i piedi volti di dietro con otto dita per piedi simamente che si fanno negli animali e spezial
e corrono maravigliosamente: alcuni, che han mente negli uomini, diciamo, che mostri si
no gli occhi gialli e veggono meglio la notte, chiamano tutti quei parti, i quali si generano
che di giorno, i quali diventano canuti nella fuori dell'intendimento della natura, e per con
prima fanciullezza loro: alcuni i quali man seguenza sono diversi in alcuna parte o disso
cano del collo ed hanno gli occhi nelle spalle: miglianti dal producente. Dove notaremo pri
alcuni, che hanno sì grandi orecchi, che se ne mieramente che essendo, come dichiarammo al
coprono tutti: alcuni finalmente che hanno la tra volta, due nature, una universale, cioè Dio,
coda; per non istare a raccontarli tutti quanti; e l'altra particolare, in questo luogo non s'in
de'quali favella medesimamente Aulo Gellio tende della natura universale e divina: per
nel quarto capo del nono libro delle sue Notti che fuori dell'intendimento di lei non si fece
Ateniesi. E Santo Agostino nel nono capo del mai, nè mai si farà cosa nessuna: ma della
sedicesimo libro della Città di Dio, dice, pro particolare ed umana, la quale consegue bene
cedendo cautamente, che simili mostri o non so il più delle volte il suo fine, ma qualche volta
no in verità, o che, se pur sono, non sono uomini ancora impedita non può arrivarvi. Onde niuno
e che seppure sono uomini, dovemo credere che mostro di niuna sorte può farsi nelle cose ce
siano nati e discesi del seme d'Adamo. L'opi lesti, essendo tutte necessarie, ma solo in que
mione nostra è, parlando filosoficamente, che ste inferiori; il che provarcmo colle parole
per la maggior parte cotali mostri siano cose stesse d'Aristotile medesimo nel quarto capo
del quarto libro della generazione degli animali,
º (1) Canz. XVI, Stanza V, Parte I. le quali sono queste secondo la traduzione di
15o LEZIONE

Teodoro Gaza (1): – Monstrum est enim res eccedono tanto in malizia gli altri e malvagi
praeter naturam, sed praeteream, quae magna ex tà, che trapassano l'ordinario della natura! E
parte sit : nam praeter eam, quae semper etne benchè non ci manchino (e così non ci avan
cessario est, nihil fit. Verum in rebus iis, quae zassero l) degli esempi moderni, allegaremo
magna quidem ex parte ita fiunt, sed aliter etiam però più volentieri gli antichi; come quando
possunt fieri, evenit, quod praeternaturam con M. Tullio chiamò Pisone, immanissimum, et
sistant. foedissimum monstrum. E di Catilina disse: –
Secondariamente notaremo, che si fanno di Nulla jam pernicies monstro illo atque prodigio,
due ragioni mostri: perciocchè alcuni sono moenibus ipsis intra moenia comparabitur. Ed
mostri veri ed alcuni quasi mostri. Quasi mo Orazio favellando d'Augusto e di Cleopatra,
stri si chiamano le femmine e tutti quei figliuo disse:
li, che non somigliano i padri loro; percioc Daret ut catenis
chè sebbene la donna è della medesima spezie Fatale Monstrum.
dell'uomo, come dice Aristotile, è nondimeno
dissimile al generante, desiderando ciascuno di E Virgilio chiamò mostro orrendo non meno
generare cosa somigliante a sè, e conseguen la Fama, che Polifemo. Ma quai maggiori mo
temente sempre maschio e non mai femmina. stri e più perniziosi, che Nerone, Caligola,
Bene è vero, che simili mostri sono necessari: Massimino, e tanti altri più tosto pesti pub
il che non avviene degli altri, se non per ac bliche, e rovine del mondo, che imperadori?
cidente. E che quanto avemo detto sia vero, lo I mostri del corpo sono medesimamente di
provano queste parole d'Aristotile nel princi due maniere, perciocchè, alcuni sono mostri
pio del terzo capo del quarto libro della ge imperfetti, per dir così, ed alcuni perfetti. Mo
nerazione degli animali: – Qui enim suis pa stri imperfetti chiamiamo quelli che sono tal
rentibus similis non est, monstrum quodammodo mente deformi, o confusi, che non si conosce
est, discessit enim in eo quodammodo natura ex quello che siano i mostri perfetti, per lo con
proprio genere, coepitgue degenerare, sed initium trario, quelli, i quali sono in modo effigiati,
primum degenerandi est foeminam generari, non che si conoscono; il che affine, che meglio
marem, verum hoc necessarium est naturae; ge s'intenda, dovemo notare, che il generante,
nus enim servari oportet eorum, quae foemina come a dir Socrate, è non solamente indivi
et mare distinguuntur. duo, cioè Socrate, ma ancora spezie, cioè uo
I mostri veri sono di due ragioni: percioc mo, e di più genere, cioè animale. Onde quan
che alcuni sono mostri dell'animo ed alcuni do egli genera, si corrompe alcuna volta, e
mostri del corpo. I mostri dell'animo sono perde del tutto l'operazione per più e diverse
tutti coloro, i quali dal nascimento ebbero o cagioni, e così non si produce cosa nessuna.
impediti o offesi o uno o più de'sentimenti in Alcuna volta si concepe alcuna cosa nella ma
teriori che sono quattro, come s'è detto più trice, e diventa viva, ma non arriva al senti
volte: il senso comune, l'immaginativa ovvero mento, onde è animale; come è quella, che i
la fantasia, la memoria e la cogitativa. Onde medici, ed i filosofi chiamano mola. Alcuna
vedemo alcuni, i quali naturalmente non di volta il parto aggiugne al genere, cioè diventa
scorrono, o male: alcuni che non si ricordano: animale e sente, ma non perviene alla spezie.
alcuni che non immaginano : alcuni che non Alcuna volta perviene alla spezie, cioè ha la
distinguono. Chiamansi ancora mostri dell'a- forma umana, e l'anima razionale, ed in som
nimo tutti coloro, i quali eccedono tanto e ma è uomo, ma dissimile però al producente;
sopravanzano gli altri nelle opere loro o di e questi nominiamo mostri perfetti, i quali so
mano o d'ingegno che vincono quasi la natura, no anch'essi di due manicre. Alcuni chiamia
cioè fanno quello che non è solito a farsi or mo intrinseci, cioè di dentro: alcuni estrinse
dinariamente dagli altri. Ed in questo significato ci, cioè di fuori; e qual sia l'una di queste
diciamo che il Bembo fu, e Michelagnolo è un maniere, può avvenire in tre modi: per ab
mostro della natura; e per questa cagione disse bondanza, per mancamento, e per trasposizio
M. Francesco a Madonna Laura non meno dot ne, ovvero trasmutamento. Per abbondanza nei
tamente che con leggiadria: mostri estrinseci, quando nasce un parto con
più membri estrinseci dell'ordinario, come due
O delle Donne altero, e raro mostro (2). capi, quattro braccia, sei dita, tre testicoli, ov
E chi vuol vedere un altero e raro mostro vero granelli, come dicono che aveva il Fi
tra principi, che regnano oggi, non bisogna, lelfo, ed altre disformità, ed inconvenienze co
che vada molto lontano. Ma volesse Dio, che tali: nei membri intrinseci, come due milze,
così spesso si trovassero di questi mostri buo due fegati, due cuori. Per mancamento, quan
ni, come se ne trovano per tutto de'rei, i quali do per l'opposito nasce un parto con manco
membra o estrinseche, o intrinseche, che non
(1) Teodoro Gaza, nato in Tessalonica, venuto in ltalia debbe, come con un braccio solo, o senza milza,
circa il 1439, fu scolare in Mantova del celebre Vittorino o senza una delle rene, o senza fiele, o senza
da Feltre: insegno in più Studi la lingua greca, ne scrisse le alcuna parte del fegato, perchè senza tutto non
Instituzioni gramaticali, molte opere tradusse in latino dal gre
s'è mai trovato, dice Aristotile, come senza
co, e qualcune anche in greco dal latino: tenne sempre per
Aristotile di cui traslatò varie opere: uomo di rara acutezza cuore non nacque mai animale nessuno. Per
d'ingegno e di ottimo costume. Mori circa il 1478. (M.) trasposizione, quando i membri sono mutati
(2) Son. LXXV, Parte V. de luoghi loro, come se gli occhi non fossero
DELLA GENERAZIONE DE' MOSTRI 151

nella testa, e le orecchie nelle tempie, o il fe l'altro, che non si potevano quasi discernere;
gato si trovasse nel lato destro, e la milza nel aveva i capelli lunghetti e neri: tra l'un capo
ritto. A questi potemo aggiugnere un altro mo e l'altro sorgeva una terza mano, la quale non
do, il quale lasciaremo innominato, per non era maggiore dell'orecchie, ma non si vedeva
sapere, che nome dovemo porgli, e questo è, tutta; e perchè lo fecero sparare, gli trova
quando i parti nascono con alcuno di quei se rono un cuor solo, ma due milze, e due fegati.
gni in alcuna parte del corpo, che noi Fioren M. Celio Calcagnino Ferrarese uomo di gran
tini chiamiamo voglie, tra i quali porremo an dissima lezione, e molto riputato nella sua pa
cora quelli, che di padre e madre bianchi na tria, scrive nel commento, che fece sopra il
scono ghezzi: perciocchè possono venire dalla titolo della significazione delle parole, nella
medesima cagione, come vedremo nel capo se legge Ostentum, d'aver letto appresso Giulio
gnente. Ossequente (1), il quale scrittore io non ho
veduto, che d'una schiava nacque un fanciullo
CAPO SECONDO con quattro piedi, quattro mani, quattro oc
chi, quattro orecchie e due membri naturali.
Quali siano i Mostri ed onde nascano. Piero del Riccio nostro Fiorentino, giovane
molto studioso e letterato, e degno di più grata
Come tutti gli arcieri hanno un segno solo patria e meno avversa fortuna, che egli non
e non più, nel quale pongono la mira, ed ogni ebbe, narra nell'ottavo capitolo del ventune
volta che non percuotono in quello, non con simo libro, che egli intitolò dell' Onesta Di
seguiscono il fine loro, e si dicono errare: così sciplina (2), come f. scritto anticamente, che
nè più, né meno tutti i generanti hanno un al tempo di Teodosio Imperadore nacque un
fine solo, cioè di generare cosa somigliante a bambino, che dal bellico in giù era tutto in
loro, ed ogni volta, che per qualunque cagio tero e senza mostruosità alcuna; ma dal bellico
ne non conseguono il desiderato ſine, essi si in su era tutto doppio, avendo due capi, due
dicono errare, e cotali parti si chiamano Mo visi e due petti con tutte l'altre parti e sen
stri, i quali possono essere di molte e diverse timenti loro compitamente perfetti: e quello
maniere, anzi quasi infinite; perchè come la che è più maraviglioso alcuna volta mangiava
mira è una, e tutti i colpi, che non colgono l'uno e non l'altro, e così molte volte uno
in quella, sono errori: così il parto vero è un dormiva, e l'altro era desto: scherzavano ta
solo, e tutti gli altri sono mostri, i quali si lora insieme, ridevano, piangevano, e si davano
fanno, come avemo detto, in tutte quante le molte volte. Visse vicino a due anni: poi es
cose cosi animate, come inanimate, e così arti sendone morto uno, l'altro dopo quattro di
fiziali, come naturali, di quante maniere e per infracidò anch'egli e morissi.
quanti modi avemo raccontato di sopra gene Ma che bisogna raccontare quello che scri
ralmente. vono gli altri? Non se ne sono veduti molti
i quali volendo specificare alquanto meglio e anticamente, e ne'tempi nostri, non che in
e venir più al particolare, diciamo esser ve Italia, come fu quello di Ravenna, ma nel do
rissimo, che così negli animali come negli uo minio Fiorentino, e in Firenze medesima ?
mini nascono parti mostruosi, i quali o abbon Quanti sono in questo luogo che si ricordano
dano, o mancano delle membra ordinarie, così d'aver veduto quel mostro, che nacque dalla
esteriori, come interiori, o l'hanno trasposte o Porta al Prato circa dodici anni sono, il quale
offese. E per darne alcun esempio più nota fu ritratto egregiamente dallo eccellentissimo
bile, oltra quelli che si trovano assai spesso Bronzino? (3) Il quale era così fatto: erano due
in tutte le storie, racconta M. Lodovico Celio femmine congiunte ed appiccate insieme l'una
lodigino, uomo il quale aveva lette e notate verso l'altra di maniera, che mezzo il petto
con assai diligenza infinite cose, nel terzo ca dell'una insieme con quello dell'altra, face
pitolo del tredicesimo libro delle Lezioni an
tiche (1), che l'anno 1514 nacque in un borgo
chiamato Sarzano vicino alla patria sua un (1) Celio Calcagnini nacque in Ferrara nel 147o. Segui
per qualche tempo la milizia, poi viaggiò in Ungheria col car
bambino con due capi, nel quale erano più dinale Ippolito d'Este. lndi fu professore di belle lettere in
cose straordinarie e maravigliose : perciocchè patria, dove mori nel 1541. Le sue opere furono tutte stam
egli aveva tutte le membra intere, proporzio pate in Basilea nel 1544. Molte di esse appartengono alle an
nate e ben fornite, le quali mostravano di quat tichità, altre alla filosofia, alla morale, alla politica. Fu il Cal
tro mesi; e aveva i visi tanto simili l'uno al cagnini un de primi a sostenere il moto della terra intorno al
Sole. – Giulio Ossequente o Obsequente scrisse un libro
De' Prodigi avvenuti in Roma e altrove, ch'egli accolse sin
(1) Lodovico Celio Richieri, che da Rovigo sua patria golarmente da Livio, usando spesso delle stesse di lui parole.
Fee caraunemente il soprannome di Rodigino, nacque verso il Non si sa precisamente in quale età egli vivesse: il Tirabo
i te. Stelte per qualche tempo a dimora in Francia; poi fu schi lo annovera fra gli scrittori del secolo Il dell'era vol
eletta in patria pubblico maestro, ma dalle fazioni civili venne gare. (M.)
tesºretto a partirsene, anzi per legge ne fu perpetuamente sban (2) Non mi venne fatto di trovare alcuna notizia intorno
dia. Indi fa professore in Vicenza. in Milano ed in Padova, a codesto Piero del Riccio. (M.)
d'ende, cessate le fazioni, fu richiamato in patria. Mori verso (3) Angiolo Bronzino, contemporaneo e dimestico del Va
il 1525. Scrisse un'opera di ponderosa erudizione intitolata sari, fu pittore di assai grido e valente poeta nel genere scher
Aat garua Lectionum, che si può paragonare a un ampio zevole. Le sue poesie vennero stampate con quelle del Ber
magazzinº, in cui si trovino merci d'ogni maniera insieme ni. Fu scolare del Pontormo, imitatore un pochino servile di
coi fase e transescolate. (M.) Michelangelo. (M.)
152 LEZIONE
-
vano un petto solo, e così formavano due petti, mo. E la ragione allegata da loro è, che altro
r
l'uno rincontro l'altro; le schiene non erano tempo ricerca la gravidezza e parto d'un uomo,
comuni, ma ciascuna aveva le sue di per sè: ed altro quella d'una pecora o d'un bue, e
aveva la testa volta al diritto dell'uno de'duoi nessuno parto può nascere, se non nel tempo
petti, e dall'altro lato in luogo di volto aveva debito e conveniente a lui. Onde Aristotile
due orecchi che si congiugnevano l'uno con nel terzo capo del quarto libro allegato di so
tra l'altro e si toccavano: il viso era assai bello: pra due volte da noi, dice queste parole for
gli occhi azzurricci: aveva i denti di sopra e di mali: Iam puerum ortum capite arietis, aut bovis
sotto bianchissimi più teneri che l'osso, e più referunts itemque in caeteris membrum nomi
duri che il tenerume: grandi come d'uomo le nant animalis diversi: vitulum capite pueri, et
spalle, una delle quali era molto bene proporzio ovem capite bovis natam asseverant. Quae omnia
nata, l'altra dal mezzo della schiena in giù era accidunt quidem causis supra dictis, sed nihil
stroppiata; e specialmente aveva storpie le gambe ex his, quae nominant, est, quamvis similitudo
una delle quali era molto corta a comparazione l
quaedam generetur. E poco di sotto più chia
dell'altra: aveva una certa pelle pagonazziccia ramente: Sed enim impossibile esse, ut tale mon
che la copriva di dietro, e le veniva dinanzi strum gignatur, idest alterum in altero animal,
infino alla natura, appiccandosi al pettignone; tempora ipsa graviditatis declarant, quae pluri
le braccia e le mani d'entrambe erano bellis mum discrepant in homine, et cane, et in ove,
sime e ben proporzionate, e mostravano come et bove: nasci autem ullum nisi suo tempore po
tutte l'altre membra di dieci o dodici anni, test. Ed a quelli che affermano d'averli veduti
ancora che il mostro fosse piccolo. La separa rispondono, che sono stati ingannati dalla so
zione di dette fanciulle era nel bellico, il quale miglianza, parendo loro quello che non era;
solo serviva al comune nutrimento d'amen conciossiachè in quelli che non sono mostri,
due. Fecesi sparare nell'orto di Palla Rucel si vede molte volte alcuna sembianza di alcu
lai alla presenza di maestro Alessandro da Ri no animale, onde si dice spesse fiate, d'alcuno
pa e di maestro Francesco da Monte Varchi, volendo lodarlo: Egli ha cera, ovvero piglio
e d'alcuni altri medici e pittori eccellentissi di leone; e ad alcuno volendolo ingiuriare, viso
mi. Trovaronvisi due cuori, due fegati e due di bue, volto d'asino, mostaccio di pecora,
polmoni, e finalmente ogni cosa doppia, co ceffo di cane, muso di topo, grifo di porco ed
me per due corpi, ma le canne che si par altre simili villanie. Ed alcuni fisiomanti, come
tivano da cuori si congiugnevano circa alla testimonia Aristotile, avevano ridotte queste
fontanella della gola, e diventavano una. Dcn somiglianze a tre. E così sarebbero forzati a
tro il corpo non era divisione alcuna, ma le rispondere i Peripatetici a quel mostro che
costole dell'uno s'appiccavano alle costole del nacque l'anno 1543 in Avignone, il quale nacque
l'altro infino alla forcella del petto, e da indi dopo tre di che era nata della medesima donna
in giù servivano ciascuna alle sue schiene. una bambina, la quale non visse un'ora, ed
Questi e molt'altri mostri simili e diversi, era così fatto. Egli aveva la testa d'uomo da
come quello che si vede nella Loggia dello gli orecchi in fuori, i quali insieme col collo,
Spedale della Scala, crediamo noi filosofica colle braccia e mani erano di cane, e così il
mente, che siano stati e che possono essere: membro virile: le gambe ed i piedi con un
ma non è già vero secondo i Peripatetici quello picciol segno di coda di dietro, e tutte le mem
che dice Plinio, che una donna chiamata Al bra canine erano coperte di pelo lungo e nero
cippe partorisse uno elefante; perciocchè non come era il cane, col quale confessò poi es
pur gli uomini, ma nessuna spezie perfetta può sersi giacciuta quella tal donna che l'aveva
produrre un'altra spezie diversa; perciocchè, partorito: il restante del corpo infino alla cin
come dice il Filosofo nella scienza divina, ogni tura, era tutto d'uomo, colle coscie e le gambe
simile si genera dal suo simile. E perchè il bianchissime; il quale mezzo albbajava, e mezzo
medesimo Plinio testimonia nel medesimo luo avrebbe voluto favellare, ma mugolava, e di
go, che una schiava in su i principi della cono che egli fece delle braccia croce in atto
guerra de' Marsi partorì una serpe, e molti di volersi raccomandare: il che o non crede
affermano aver veduto delle donne, le quali rebbero i Peripatetici, o direbbero che fosse
hanno partorito delle botte ed altre così fatte stato a caso. Visse tanto, che fu portato da
cose, rispondiamo che questi non si chiamano Avignone a Marsiglia al cristianissimo Re Fran
parti, nè quelli mostri; cioè non sono generati cesco, il quale l'ultimo giorno di luglio fece
di sperma, nè della sostanza del seme, ma di abbruciare la donna ed il cane insieme.
umori corrotti, o per la cattività del cibi, o Non niegano già, che gli animali di diverse
per qualunque altra cagione, non altramente spezie si congiungano l'uno con l'altro alcuna
che si generano i vermini negli intestini. Ed volta e partoriscano, come si vede tutto i di
è tanto lontano da filosofi, che una spezie per degli asini e muli, ma quelli solamente, i quali,
fetta possa generare un'altra spezie diversa da sebbene sono di diversa spezie, sono però molto
se, che essi non vogliono ancora che si possa simili di natura, e quasi grandi a un modo ;
generare mostro alcuno di due spezie diverse, ed il tempo della gravidezza e pregnezza loro
come molti affermano di aver veduto, come, è il medesimo, come sono i cani, i lupi, le
esempi grazia, un fanciullo col capo di ber golpi ed altri cotali; la qual cosa dimostrano
tuccia, o di cane, o di cavallo, o d'altro ani apertamente queste parole d'Aristotile nel quinto
male, o un vitello, o cane, o bue col capo d'uo capitolo del secondo libro detto di sopra: Coeunt
DELLA GENERAZIONE DE' MOSTRI 133

animalia generis ejusdem secundum naturam, fetto concorrono necessariamente due cose: lo
sed ea etiam quorum genus diversum quidem, sperma, ovvero seme del maschio, ed il me
sed natura non multum distat, si modo par ma struo della femmina. Lo sperma, nel quale è
gnitudo sit, et tempora aequent graviditatis raro la virtù formativa, concorre, come dichiarammo
id fit, sed tamen fieri, et in canibus, et in lu altra volta, come forma, ovvero agente, e il
pis, et in vulpibus, certum est. E quel prover mestruo come materia, ovvero paziente; in
bio, il quale diceva che l'Africa arrecava sem guisa che l'anima che è la forma, viene dal
pre alcuna cosa di nuovo, ne fa fede manifesta. padre, e il corpo che è la materia dalla ma
Onde nascano, e da quali cagioni procedano dre. E come da queste due cose si generano
i sopraddetti mostri è agevolissimo a risolvere i parti perfetti, così da queste due medesime
secondo i teologi, perciocchè essi, come do si generano ancora gli imperfetti, cioè i mo
vemo credere, direbbero, che come tutte l'al stri; perciocchè così il seme dell'uomo, come
tre cose, così i mostri procedono dalla volontà il mestruo della donna, può essere talvolta
di Dio, la cui sapienza non intesa, e da non i inabile, indisposto e non atto ora a generare
potersi intendere da noi, li fa dove, quando, cosa alcuna, ora a generare cosa perfetta, tal
ed in quel modo che più le piace: al che non chè di necessità seguita, ora che non si generi
possono rispondere i filosofi, i quali non cre cosa nessuna, ora che si generino mostri; la
dono se non quello o che mostra il senso, o qual cosa può venire talvolta dal seme solo,
che detta la ragione. Non è anco difficile co talvolta dal mestruo solo, talvolta dall'uno e
tal dubbio secondo gli astrologi, i quali di dall'altro insieme. Il seme può essere inabile
rebbero, come si vede in Tolomeo, in Giulio e indisposto in due modi, secondo la quanti
Firmico, in Alcabizio ed in altri, che i tali tà, essendo o troppo, o poco, e secondo la
pianeti, con i tali aspetti, ne' tai segni sono qualità, essendo o troppo freddo, o troppo caldo.
cagione della produzione de'mostri: al che ri La materia medesimamente può essere discon
spondono i filosofi, questo essere per acciden veniente e sproporzionata nella quantità e nella
te; perchè quelle tali costellazioni non sono qualità. Se il seme è o troppo poco, o troppo
cagione d'altro per sè e principalmente, se non freddo, egli non ha virtù di cuocere e possanza
di lume; e se quel lume così disposto è ca di trasmutare il mestruo, e così o non si ge
gione che il seme dell'uomo o per la troppa nera, o si generano mostri difettivi e manche
caldezza, o per la troppa freddezza si renda voli. Può essere la materia sproporzionata
indisposto e non atto a generare, onde si pro nella quantità continua, come quelli che han
duca qualche mostro, il cielo viene a essere no le dita delle mani o dei piedi menche
cagione de'mostri per accidente; e le cagioni ed appiccate insieme; o nella quantità di
per accidente sono indeterminate; e le cagioni screta, come quelli che hanno quattro o meno
indeterminate sono incognite. E così secondo dita; o nell'una e nell'altra, come racconta
i filosofi, gli astrologi non possono predire la santo Agostino, che avvenne nella sua terra,
generazione de mostri, se non per accidente, dove nacque uno, il quale aveva le mani ed i
presupponendo, come vuole Aristotile, che il piedi a guisa d'una luna non piena con due
cielo non operi in queste cose di quaggiù, se dita solamente; ed il medesimo diciamo dei
non mediante il lume e movimento suo, per membri interiori, quando manca la milza, o il
chè a coloro che danno gli influssi e proprietà fiele o altro membro. Se il seme sarà o trop
occulte, non possono rispondere gli Aristoteli po, o troppo caldo, non per questo si farà il
ci, se non col negarle, o dire di non crederle, parte maggiore, o con più membri, come hanno
come fanno molti, ancora che il senso e la creduto molti; ma seccando troppo'l mestruo,
sperienza le mostri loro tutto il dì. Ma degli in l'abbrucerà e corromperà, non altramente
flussi celesti ed occulte propietà favelleremo che il troppo fuoco non fa l'acqua più calda,
a lungo quando che sia. Basti per ora che a ma la corrompe facendola evaporare e diven
chi dice: la tal costellazione ha propietà di tare aria, di maniera che non si genererà cosa
far generare mostri; o il tale ha dal nascimento nessuna, o generandosi sarà mostro, nascendo,
suo infelice di non generare se non mostri e esempi grazia, con i capelli, o con i denti; o
parti imperfetti e manchevoli, non se gli debbe come quella fanciulla che nacque, secondo che
credere, secondo Aristotile; ma nè anco se racconta Alberto Magno, colle poppe grandi e
gli può negare dimostrativamente, se già non con i peli al pettignone e sotto le braccia, e
si tenesse per dimostrazione e cosa certissima, colle sue debite purgazioni. Da queste cagioni
il cielo non operare nelle cose inferiori, se non nascono ancora coloro, i quali straordinaria
con due mezzi e strumenti solamente, cioè col mente, ed oltra ogni dovere umano e uso na
l'illuminare e col muoversi, come dice spres turale, sono o troppo grassi, o troppo magri,
samente il Filosofo nel secondo del Cielo al te e quegli ancora, i quali le leggi chiamano freddi,
sto quarantadue. E ben difficile sopra modo il ammalati ed impotenti, perchè non si possono
volerne rendere la cagione secondo i medici congiugnere. Il seme alcuna volta si confonde
ed i filosofi; l'opinioni de quali sono molto e corrompe nella matrice, ed allora medesi
varie, incerte e confuse, le quali noi c'inge mamente o non si genera, o si generano mo
gneremo di ridurre a miglior ordine e mag stri confusi senza forma o effigie che si cono
gior certezza che sapremo, pigliando il prin sca, e brevemente prodigiosi; e tanto saranno
cipio di qui. più o meno confusi, disformati e prodigiosi
Nella generazione di qualunque animale per quanto sarà o maggiore, o minore l'eccesso,
VARCHI 20
LEZIONE
154
ovvero soprabbondanza nella corruzione del non per se, almeno per accidente e cagione
scme, e massimamente se vi s'aggiugnerà che della grandezza e picciolezza de'corpi; perchè
ancora il mestruo pecchi nella qualità. Ma se Aristotile nel quattordicesimo Problema, nella
la materia, ovvero il mestruo peccherà nella decima sezione, dimanda prima particolarmente
quantità, se sarà continua nasceranno piu mem ond'è che nascano uomini nani; poi general
bri appiccati insieme; se discreta, il parto sarà mente onde avviene che degli uomini alcuni sono
binato, e nasceranno o due, o tre, o più se piccioli ed alcuni grandi, e risponde ciò pro
condo la quantità della materia e vigore della cedere da due cagioni, o dalla matrice quando
forma, perchè i gemelli sono mostri, ancora ella e stretta, o dal cibo quando egli è poco,
che Plinio dica che allora comincia a esser e fa questa distinzione. Quando i nani vengono
mostro, quando nascono più di tre per volta, dalla strettezza del luogo, eglino sono larghi e
e saranno maschi o femmine secondo il vigore profondi, ovvero grossi a proporzione de pa
e potenza del seme sopra il mestruo; e quando dri loro, ma mancano della lunghezza; e la
potranno tanto l'uno, quanto l' altro: nasce cagione è, perchè le linee diritte si sono pie
ranno Ermafroditi, che anticamente chiamava gate in curte e torte, come vediamo talvolta un
no Androgini, cioè uomo e donna. Dove note ramo di vite, o d'alcun albero, il quale non
remo, che Aristotile dice, che negli Ermafro potendo per qualche impedimento crescere per
diti, nome composto di Mercurio e di Venere, lo diritto, si torce e cresce per un altro verso.
procedono,
dai quali dicono gli astrologi chevano E però cotali nani non hanno le membra pro
sempre è uno dei duoi membri ed inu porzionate, come si vede in quello dell'illu
tile: il che è contra Plinio, Alberto Magno e strissimo ed eccellentissimo Duca Signor no
molti altri, che vogliono che eglino possano sto. Ma quando viene dal poco cibo, allora
servirsi dell'un membro e dell'altro, essendo sono ben piccoli, ma hanno le membra pro
ora agenti e quando pazienti; ma fa bene per porzionate, e paiono fanciulli di poca età, co
le leggi, che vogliono, che gli Ermafroditi si me vedemo tutto il di in Gradasso, ed in quello
giudichino o maschi o femmine secondo il mem del signor Chiappino Vitelli. E dà l'esempio
bro che prevale in loro. Nascono ancora per Aristotile quanto ai primi di quelle figure che
la medesima cagione, cioè per abbondanza di si pongono per mensole, mostrandole ancora
materia, parti con sei dita, che son mostri, per esempio di quelli, che volendo che i ca
secondo i filosofi, ma non già secondo i giu nini non crescano, gli allevano in gabbioline
reconsulti, volendo Paolo, e con gran ragione, picciole. Quanto a secondi dà l'esempio dei
che tutti quelli che non sono prodigiosi, ed canini dell'isola di Malta, i quali anticamente
hanno forma umana, siano liberi, e così i gobbi erano per la picciolezza loro in grandissimo
ed altri tali; benchè Aristotile pare che ci fac pregio, come oggi i cagnolini francesi. E ren
cia alcuna differenza, ancora che procedano dendo la cagione di questa diversità, dice che
dalla medesima cagione, cioè da superfluità di la natura distribuisce il cibo egualmente e con
materia, come i mostri raccontati di sopra; e debita proporzione a ciascuna parte; il che
quello che pone Sant'Agostino, che nacque in non può fare il luogo. Il quale problema ho
Oriente al tempo suo, che di sopra era dop dichiarato alquanto più lungamente che non
pio e di sotto scempio, perchè avea duoi capi avrei fatto, si perchè Pietro d'Abano, detto il
e duoi petti, e quattro mani, ma un ventre Conciliatore (1), per la poca notizia di quei
solo e due piedi, e visse tanto, che molti po tempi, ancorchè fosse grandissimo uomo, pare
tettero andare infino là a vederlo; ed Alberto che lo commenti ed esponga a rovescio; e sì
racconta d'uno ch'era doppio di sotto, avendo perchè di qui si può cavare apertissimamente,
quattro gambe, e scempio di sopra, avendo un che la statura degli uomini viene ordinaria
capo solo, i quali sono o uno, o più, secondo mente da padri, e per accidente dalla matrice
che hanno uno o più cuori, come n'insegna e dal cibo, al che si può aggiugnere la con
Aristotile; ed i teologi insieme con i canoni dizione dell'aria e diversità de'venti, e non pre -

determinano, quando s'hanno a battezzare o cisamente dalla molta o poca materia, come
no, il che giudicano massimamente dal capo, hanno creduto moltissimi. Il che, acciocchè
non possendo vedere il cuore e gli altri mem meglio si comprenda e si risponda insieme
bri interiori, tanto più se sono nati nel tempo
debito. (1) Di Pietro d'Abano furono scritte cose pazze e maravi
In tanti modi e per tante cagioni, quante si gliose; e il suo nome, più o meno stranamente storpiato, vive
sono dette, nascono i mostri, benchè ai modi ancora nelle stolte leggende di magia, che passano per eredità
fra le comari di città e di campagna. Nacque egli l'anno 125o
se ne possono aggiugnere molti e quasi infiniti in Abano, onde trasse il nome. Viaggiò a Costantinopoli, -
secondo le molte, e quasi infinite sproporzio vi ebbe una pubblica cattedra: tornato di là, per alcun tempo
nalità, mescolanze, confusioni e corruzioni che stette in Padova, poi rimutossi a Parigi, ove scrisse il Coni
possono accadere nella matrice ora per cagione liatore, opera in cui prese a conciliare insieme, quantº era pos
del seme, ora per cagione del mestruo, e tal sibile, le discordanti opinioni dei medici e del filosofi su molte
volta per cagione d'ambiduoi. Alle cagioni se quistioni appartenenti a medicina ed a filosofia. Fu devotissimo
ne debbono aggiugnere due altre, cioè il cie ad Averroe, e superstizioso coltivatore dell'astrologia: ottente
gran fama nell'esercizio della medicina: venne accusato di ma
lo, o come cagione universale, come dicono i
gia e d'eresia. Mori circa l'anno 1315 in Padova; r. Inqui
filosofi, º ancora come cagione particolare, sizione ne fe” ardere il cadavere e gettar le ceneri al vento
come vogliono gli astrologi ed il iuogo, cioè Il benemerito conte G. M. Mazzucchelli ne scrisse - na dilt
la matrice, dove si genera il parto, la quale se gentissima Vita. ( MI )
DELLA GENERAZIONE DE' MOSTRI 155

mente a una tacita dubitazione che potrebbe modo dicendum est. Sed enim ex toto potius cau
nascere: per qual cagione la natura, quando sam in materiam, constituendisque conceptibus
lo sperma è gagliardo e la materia è molta, esse censendum est. La qual cosa volendo pro
non faccia piuttosto un uomo grande, come vare, dice che i mostri si fanno rade volte in
quando il presame rappiglia il latte, che due quegli animali che partoriscono uno per volta,
ordinari o uno e mezzo, cioè un mostro con e spessissime in quelli che ne partoriscono di
tre braccia e tre piedi, o altro cotale; dove più, e massimamente negli uccelli, e tra que
mo sapere, che come (e questo s'avverta e con sti nelle galline, le quali non solamente par
sideri diligentissimamente) il mestruo della don toriscono spesso, come le colombe; ma hanno
ma non è interminato, cioè che di qualunque in corpo assai parti, i quali sono presso l'uno
parte, o grande o piccola che sia, si può for all'altro, come si vede alcuna volta ne' frutti
mare il parto; anzi è determinatissimo, di ma degli alberi; onde se i tuorli non sono distinti
niera, che nè di più che tanto, nè di meno da una certa pellicina, i pulcini che nascono
che tanto non si può formare il parto (non che sono mostruosi, avendo un capo ed un corpo
quel tanto consista in un punto e non abbia solo, ma quattro gambe ed altrettante ali. Pro
larghezza, ma basta che si dia un termine nel valo ancora coll'esempio delle serpi, le quali
più e un termine nel meno, oltre i quali non hanno qualche volta due capi, perchè anch'esse
può nascere il parto): così il seme dell'uomo partoriscono uova e molte per volta, ma in
o il calore che è in esso, non ha la sua virtù loro accaggiono mostri di rado rispetto alla
indeterminata, ma certa e prescritta di ma forma del ventre, che è lunga e stretta; e di
niera che può cuocere e trasmutare tanta ma qui si cava manifestamente che anco la ma:
teria e non più, talmente che tra il mestruo trice può essere cagione de mostri. Dice poi
della donna ed il seme dell'uomo è una con che nelle pecchie e nelle vespe non si fanno
venienza e proporzione certa. Onde avviene mai mostri, perchè i lor parti si racchiudono
che qualunque volta la materia è più che non separatamente nelle loro celle, e per questo
bisogna per un parto, la natura non può fare soggiugne: Unde apertum est causam eventuum
quel parto maggiore, avendo la misura e quan htjusmodi in materia esse putare oportere. Alle
tità sua determinata, ma ne fa tanti, per quanti quali autorità confesso ingenuamente di non
v'è materia; e se ve n'è troppa per uno e sapere che rispondere. Ma vorrei bene che
poca per due, è forzata di fare un mostro, fosse risposto, si a molti altri luoghi del me
come sarebbe un pittore, il quale avesse una desimo autore, che pare dicano il contrario
tavola lunga sei braccia, e l'avesse a dipignere spessamente, e sì a questo nel terzo capitolo
tutta di figure non maggiori, nè minori di quat del secondo libro della generazione degli Ani
tro braccia. Se non che l'esempio che si dette mali, dove favellando del calore seminale, cioè
del latte non è simile, dice Aristotile nel quarto della virtù formativa, dice queste parole: Quod
capitolo del quarto libro della generazione degli si vel desit, vel ercedat rem, aut deteriorem
Animali, onde ho cavato tutto quello che ho efficit, aut laesam, aut mancam. Non so io
detto, perchè il caldo del presame non fa se per me, come si possa dir più chiaro che i
non il quanto, ovvero la quantità, ma quel del mostri vengano dal seme, se non forse in que
seme, oltre la quantità, fa ancora la qualità. st altre del quattordicesimo Problema della
Potemo ancora aggiugnere un'altra cagione dei quarta sezione: Ex semine vero ipso si quid er
mostri, e questa è l'immaginazione, dalla quale, titit aliud, u vermis, ubi foris computavit, vel
benchè per accidente, vengono infiniti effetti corruptum in utero ut est, quae monstra appel
mirabili, come racconta Averrois di quella don lamus. Che risponderemo ancora a tutto il Pro
na detta da noi altra volta, la quale essendo blema sessantesimo, dove par che tenga l'opi
bianca, partorì un moro, e quelle note, ovver nione di Democrito, e senza dubbio riferisce
segni, che nascono ne' bambini, le quali, come la cagione de mostri non nella materia, ma
dicemmo di sopra, chiamiamo voglie. E così nella forma, cioè nel seme? Monstra autem tum
le cagioni di tutti i mostri saranno, secondo i confici solent, cum plura semina interse cohae:
filosofi, cinque; due principali, il seme del ma rescunt, confundunturque. A questi luoghi ed
schio e'l mestruo della femmina; una univer a molti altri che si lasciano per brevità, lascerò
sale il ciclo; una per accidente il luogo, cioè rispondere a coloro che più gli intendono e
la matrice, ovvero la secondina, nella quale meglio ch'io non so; e dirò solamente, che co
sta rivolto il parto; e l'immaginazione. tali autorità credendole vere tutte quante, sono
Restami ora a rispondere ad una difficoltà state cagione, prima di farmi venire nell'opi
grandissima, e questa è, che Aristotile par che nione, ch'io ho posta di sopra, poi di mara
voglia che la cagione de mostri sia non il se vigliarmi meno si della incostanza e diversità
me del maschio, ma solo il mestruo della fem che io ho trovata in questa materia tra gli
mina, come dimostrano chiarissimamente que spositori, e sì delle opinioni false e manifestis
ste parole nel quarto Capitolo tante volte al simamente contra Aristotile e massimamente
legato da noi, dove avendo fatto menzione ed di messcr Agostino da Sessa, il quale pare a
in parte ripresa l'opinione di Democrito, che mc, che non solo in questo, ma in moltissimi
diceva che i mostri nascevano, quando duoi altri luoghi abbia, senza giudizio o considera
semi entravano l'uno dopo l'altro, ed amen zione alcuna, detto tutto quello che gli veniva
due si confondevano nella matrice, soggiogne: non che nella mente, alla bocca; il che per av
Quod si semini maris causa tribuenda est, hoc ventura gli potette avvenire non tanto dalla
156 LEZIONE

natura sna, quanto dalla grandissima riputa fine: perchè i mostri sono errori e peccati
zione ed incredibile autorità, colla quale lo ri della natura. Ora se la natura non operasse
cordo leggere in Pisa. per alcun fine, ma a caso, i mostri non si po
Ma tempo è omai di venire al terzo ed ul trebbero chiamar peccati, nè errori; concios
timo capo, il che si farà tosto che avremo di siachè nelle cose casuali non importa se o in
chiarate due dubitazioni. La prima per che ca qual modo si vengano; ed un saettatore che
gione ne mostri mancano ordinariamente, o non s'avesse proposto bersaglio nessuno, ma
sono impedite più le estremità del corpo, co traesse a vanvera, come si dice, non si potreb
me sono le mani ed i piedi, o alcuna parte be dir mai, che avesse fallato, in qualunque
del capo, che le altre. Al che rispondendo Al luogo cogliesse. Così se la natura non avesse
berto, dice ciò avvenire per lo essere queste fine, non si potrebbe dire che i mostri fossero
parti più rimote e lontane dal cuore e dal fe errori; e dà l'esempio dell'arte, la quale senza
gato, ne' quali membri regnano principalmente dubbio opera per alcun fine, e nondimeno erra
le virtù che formano le membra. La seconda qualche volta, come un gramatico che non
è onde avviene che alcuni mostri vivono alcun sempre scrive bene, o parla correttamente, ed
tempo, parlando massimamente di quelli che un medico qualche volta dà una medicina che
sono prodigiosi, o offesi ne membri interiori, non opera, o opera il contrario dell'intendi
ed alcuni mo: al che Aristotile risponde con mento del medico. Mossi gli Spositori da co
queste parole: Quae si parum de sua natura di tali parole, muovono tutti questa dubitazione,
scendunt, vivere solent: si plus, vivere nequeunt, se i mostri sono intesi dalla natura o no; per
videlicet cum quod praeter naturam est, parti chè se fossero intesi, non si potrebbero chia
bus vivendi principalibus accidit. Onde quando mare errori, ma la natura intenderebbe le cose
la mostruosità o offesa fuori di natura, non è cattive: il che è impossibile, e se non sono in
molto grande e notabile, o non è nelle parti tesi da lei, perchè non solo li genera, ma nu
principali, nelle quali consiste la vita, il mo trisce? E sono tanto diversi l'uno coll'altro,
stro può vivere, altramente no. Noteremo an e talvolta seco stessi in questa quistione, che
cora che non solamente quelle cose, le quali se da sè era malagevole, l'hanno fatta scuris
sono ben fuori di natura, ma accaggiono sem sima non solo con i sensi, ma colle parole an
pre, come la morte e la vecchiezza, non si cora, dicendo che questa proposizione: La na
chiamano mostri, ma ancora quelle che accag tura intende i mostri, è falsa; ma quest'altra:
giono spesso, come le infermità, ed altre cose La natura i mostri intende, è vera, per una
cotali. Ed Aristotile racconta d'una certa vite, certa proprietà d'un certo loro termine, chia
che alcuni chiamavano capneo, la quale era mato appellazione. Miseri tempi veramente,
usata fare uve bianche; nondimeno se le pro per non dire infelici uomini, quando si crede
duceva nere, non se ne maravigliavano, nè la vano o si volevano dare a credere cose tanto
chiamavano mostro, perchè molte volte era so non solo manifestamente falsissime, ma ridicole!
lita di così fare; e la cagione era, perchè la Ma noi lasciando queste e simili altre indc
natura era mezza tra bianca e nera, onde non gnità, le quali condussero la filosofia in quella
avveniva in un certo modo fuori di natura, poca riputazione, anzi in quel molto dispregio,
non si passando totalmente in un'altra. E per dove si trova, raccontaremo solamente così per
chè noi avemo annoverate le parti superflue e l'una parte, come per l'altra, quelle ragioni,
l'offese tra mostri, non sarà fuori di proposito che ci parranno se non vere, almeno verisimili.
dire, che alcune volte i parti nascono con quel Ma prima diremo, che alcuni niegano, che i
le partiturate, le quali vorrebbero stare aperte mostri non siano prodotti ad alcun fine, di
ed alcuna volta si turano dopo la nascita; il cendo, che son fatti dalla prima cagione per
perchè è necessario, non s'aprendo per loro bellezza ed ornamento dell'universo, perchè
medesime, come fanno molte volte, servirsi sebbene hanno alcuna disformità e sconvene
dell'opera e maestria de'cerusici; e qui sia volezza rispetto agli effetti naturali e consueti,
fine al secondo Capo. non però l' hanno rispetto al tutto. E danno
l' esempio dei dipintori, i quali molte volte
CAPO TERZO fanno fare in alcun luogo alcuna grottesca,
o altra strana e mostruosa figura, che que
Perchè siano mostri, cioè se hanno gli stessi che le fanno non conoscono a che
cagione finale. fine le facciano, e par loro, che non si con
vengano; le quali nondimeno poi rispetto a
Aristotile volendo nel fine del secondo della tutta l'opera, tornano bene ed arrecano gra
Fisica provare quello che è manifesto per sè zia ed ornamento; la qual cosa secondo i Pc
medesimo, cioè, che la natura non opera a caso, ripatetici non può aver luogo, come si vedrà
come pareva che volessero Democrito, Empe di sotto. Alcuni altri dicono, che i mostri so
docle ed alcuni altri filosofi antichi: ma ad no prodotti a significare ed annunziare le cose
alcun fine, e veggendo l'obbiezione che se gli future, allegando gli avvenimenti, che si leg
poteva far contro de'mostri, dicendo: i mostri gono essere seguiti dopo cotali portenti e pro
non hanno fine nessuno, e sono generati dalla digi in tutte le storie, e l'usanza de' Romani,
natura, dunque la natura non opera per lo i quali li facevano o ardere, o gittare in ma
fine: risponde che questa obbiezione mostra re, o portare in qualche isola deserta ed ab
l'intento suo, cioè la natura operare ad alcun bandonata, per placare l'ira degli Dii, e fug
DELLA GENERAZIONE DE' MOSTRI 157
gire il soprastante pericolo per ordine e co mossi dagli agenti e dalle cagioni loro, e non si
mandamento degli Aruspici, come si legge in dicono operare a caso, se non rispetto ai loro
Valerio Massimo, ed altrove. Il che medesi agenti ; onde essendo Dio l'agente principale,
mamente negarebbero i Peripatetici, dicendo, e tutte l' altre cagioni seconde stromenti di
che le cose future contingenti non si possono Dio, se Dio intende tutti gli effetti, ancora le
sapere, ed all'usanza de Romani rispondereb seconde cagioni gli intenderanno; e così non
bero, che quella era una superstizione, come si troverà effetto nessuno a caso, nè rispetto
se ne leggono moltº altre in quella e nell'al all'agente universale, nè rispetto all'agente
tre religioni. particolare.
Ma è da sapere innanzi procediamo più ol Queste sono le principali ragioni e i più ga
tra, che questo nome Natura, come dichiaram gliardi argomenti che io creda, che si possono
mo nel suo trattato, significa oltra la natura addurre in questa materia, e niente di meno
universale, cioè Dio, la natura particolare, e si possono sciogliere agevolissimamente.
questa si divide in due: nella forma che è Quanto al primo, confessiamo, che secondo
agente, e nella materia che è paziente. È dub i teologi, e come cristiani, Dio non produ
bio dunque se i mostri sono peccati della na ce cosa alcuna fuori della voglia ed intendi
tura, di qual natura si debbe intendere o del mento suo, e che egli, come a tutte l'altre
l'universale, o della particolare. E se della parti cose, così concorre ancora alla generazione dei
colare, di quale, della forma o della materia, o mostri; ma diciamo, che trattiamo questa qui
di tutte e due insieme. Alcuni vogliono, che stione filosoficamente. E il primo motore, se
nessuno effetto sia casuale rispetto alla prima condo i Peripatetici, non solo non produce le
causa, cioè alla natura universale, ma solamente cose particolari, ma non le intende, nè cono
rispetto alla particolare, cioè alla forma ed sce; e se pur le conosce, non le conosce, se
alla materia. Alcuni che nessuno effetto sia non universalmente, e secondo le proprietà uni
casuale, cioè prodotto fuori dell'intendimento, versali; ma le mostruosità non sono propie
nè dalla natura universale, ne dalla natura par condizioni della spezie, perchè tutti gli uomini
ticolare; e così i mostri saranno intesi e vo sarebbero mostruosi, come tutti sono risibili:
luti così dalla natura particolare, come dal dunque l'argomento non vale.
l'universale. Ma perchè noi crediamo tutto il Al secondo rispondiamo, che un mostruoso,
contrario di costoro, cioè, che i mostri non come uomo, è della medesima spezie, ma co
siano intesi nè dalla natura universale, nè dalla me tale, cioè come mostruoso, non è della me
particolare, porremo le ragioni loro, e poi le desima spezie, perchè la mostruosità è una in
confuteremo. disposizione fuori di natura, e l'uomo è della
I. La prima cagione, cioè Dio non produce natura.
cosa nessuna fuori dell'intendimento suo, e la Al terzo serve la medesima risposta, perchè
prima cagione concorre alla generazione dei un mostro, come uomo, è naturale, ma non
mostri; dunque almeno la prima cagione in come mostro, come meglio si vedrà di sotto.
tende i mostri. Alla quarta si dice, che quella autorità s'in
II. Una medesima spezie perfetta non può tende di quei fini, che hanno ragione di be
essere dalla natura, ed a caso, perchè ne se ne; il che non è in questo caso, pigliandosi il
guirebbe questa contraddizione, che fosse in mostro formalmente, e non materialmente, co
tesa e non intesa: conciossiachè s” ella fosse me dichiararemo nella sesta ragione.
dalla natura, ella sarebbe intesa : se dal caso, Alla quinta si rispose di sopra, quando si
non sarebbe intesa; ora un uomo mostruoso e disse, che i Peripatetici non vogliono, che il
un non mostruoso sono d'una medesima spe cielo operi, se non col movimento e col lume.
zic; dunque non possono essere dalla natura Ora così il lume, come 'l moto del cielo non
e dal caso. cagionano principalmente e per sè, se non cal
III. I mostri son cosa naturale, perchè sono do; e se mediante quel caldo il seme si cor
composti di materia e di forma: dunque non rompe, o si rende inabile alla generazione, on
sono dal caso: dunque sono dalla natura. de ne nascono i mostri, il cielo non intende
IV. Dovunque è il fine, nel quale cessa il quei mostri per sè e principalmente, ma solo
moto continuo, tutte le cose che si fanno in per accidente; e le cagioni per accidente sono
nanzi ad esso, si fanno per cagione d'esso: indeterminate, perchè l'astrologo non le può
nei mostri cessa il moto, dunque tutte le cose sapere, se non per accidente.
fatte innanzi loro, sono per cagione d' essi: Alla sesta dicono alcuni, che questo nome
dunque sono da natura. -
mostro significa due cose, prima quella indis
V. Gli astrologi sanno predire i parti mo posizione e disconvenienza fuori di natura, e
struosi, infino quando sono nel corpo della ma questa è quella, che si chiama a caso: secon
dre: dunque hanno cagione determinata: dun dariamente l'individuo della sostanza, cioè quel
que non sono a caso. tale mostruoso senza quella mostruosità; onde,
VI. Se il sesto dito o altre parti superflue distinguendo, dicono, che se un mostro si con
fossero a caso, la natura non le nutrirebbe; sidera formalmente, cioè come mostruoso, e
ma ella le nutrisce: dunque non sono dal caso: con quella disconvenienza ed indisposizione
e questo argomento si noti bene, perchè è for fuori di natura, egli non si chiama naturale,
tissimo. ma a caso. Ma se si considera materialmente,
VII. Tutti gli stromenti oprano, come sono cioè come individuo di sostanza conforme alla
158 LEZIONE

sua spezie, ed in somma come uomo non mo miglianti a loro, che alcuna volta le generano
struoso, senza quella indisposizione e disfor simili non solamente nella sostanza, ma negli
mità egli non è a caso, ma dalla natura, così accidenti; onde si sono veduti nascere dei
se il dito, o altra parte superflua si conside figliuoli colle margini de'padri. Secondaria
ra formalmente, allora non è dalla natura, mente, tutte le generazioni intese dalla natura
ed ella come tale non lo continuerebbe, nè sono naturali: i mostri sono fuori di natura,
nutrirebbe, ma dal caso; ma se materialmente, come testifica Aristotile: dunque i mostri non
allora non è dal caso, ma dalla natura, e così sono naturali. Ma che più ? Nessuno appetito
lo continua, lo nutrisce e lo conserva, come naturale può desiderare cose cattive ed errori:
fa ancora le voglie. dunque non sono dalla natura, nè dalla uni
Questa è la risposta, che danno molti a que versale, che è Dio, a cui non è nulla impos
sto argomento: ma noi diremmo più volentie sibile se non l'errare: nè dalla particolare, la
ri, che la natura, come quella che sempre delle quale è retta e guidata dalla universale. Resta
cose buone fa il migliore, e delle ree il manco dunque che siano a caso. E perchè alcuni di
cattivo, che viene in tal caso ad essere in luogo cono, che i mostri non sono intesi dalla natura
di buono, veggendo di non poter correggere universale, nè ancora dalla particolare princi
cotale eccesso, lo nutrisce per minor male, palmente, ma secondariamente, cioè ch'ella
acciò non si putrefaccia, e putrefacendosi, cor intende di produrre il parto non mostruoso,
rompa tutto il membro o tutto l'animale, della potendo, ma non potendo, mostruoso, si ri
conservazione del quale ha principale e gran sponde, che questo non è vero, perchè allora
dissima cura. non si chiamerebbero a caso; conciossiachè la
Al settimo ed ultimo argomento, il quale è femmina non si chiama a caso, sebbene non è
di Simplicio, e pare insolubile, si dice non es intesa dalla natura principalmente, volendo ge
ser vero, che le seconde cagioni siano stru nerare maschi, ma secondariamente: e cosi po
menti delle prime, perchè gli strumenti non temo finalmente conchiudere che i mostri es
operano mai, se non mossi dall' agente e ca sendo errori e peccati, non sono intesi nè dalla
gione loro, e non muovono, se non come sono natura universale, nè dalla particolare, le quali
mossi. Ma le seconde cagioni non sono mosse non possono errare, ma dalla fortuna e dal
dalla prima, perchè non ricevono nulla da lei, caso. La quale opinione crediamo noi che sia
e quella proposizione, che dice: Le seconde verissima, nè ci resta se non uno scrupolo so
cagioni operano, perchè sono mosse dalla pri lo; e questo è, perchè Aristotile chiami i mo
ma, e così le seconde sono strumenti della pri stri errori e peccati della natura, se la natura
ma, sarebbe falsa, se s'intendesse, come fa il non può errare nè peccare. E se alcuno di
Sessa, cioè che fossero veramente strumenti cesse, perchè ella non segue il fine intento,
della prima; ma si deve intendere, come la di rispondiamo che non fa ciò per sua colpa e
chiarava l'eccellentissimo Boccadiferro, mio difetto, ma impedita da altri. E non ognuno
precettore (1), cioè, che le seconde cagioni non che non consegue il suo fine, si chiama errare;
operano, se non opera anco la prima, cioè, onde se uno scultore volendo formare una
che le seconde cagioni operano in virtù della statua, non conseguisce il fine suo o per non
prima, e così non sono strumenti veramente aver materia di che farlo, o perchè la materia
delle prime, ma non operarebbero già, se non fosse o tanto dura o tanto tenera, che non
fossero le prime. E chi dubita, che se il cielo patisse che di lei si facesse statua, non per
fermasse pure un punto solo, tutte le cose tor questo si direbbe errare, ma solo quando non
nerebbero a nulla in uno stante ? conseguisse il sno fine per ignoranza dell'arte.
Riprovate quelle cagioni che parevano pro Similmente quando non conseguisse il suo ſine,
vare che i mostri fossero intendimenti della per l'essere mal disposto, o debile tanto che
natura, resta manifestamente che siano dalla non potesse lavorare, e fosse costretto a lavo
fortuna e dal caso; il che, perchè si conosca rare, non si potrebbe dire propiamente che
più chiaramente, allegaremo ancora alcune ra errasse. In questo modo medesimo potemo dire
gioni, le quali dimostreranno essere impossibile della natura, la quale non erra mai per sè,
che i mostri siano dalla natura. Prima la na perchè se il seme è indisposto, ed ella fa quello
tura intende di generare cosa somigliante a sè: che può, deve essere scusata. E se il mestruo
i mostri non sono tali: dunque i mostri non non è tanto o tale, quanto e quale si ricerca
sono dalla natura: dunque sono a caso. E che che sia, che colpa v'ha la natura? Mai non
la proposizione maggiore sia vera, si vede in farebbe un architetto una casa di pietre, se
tutte le cose che si generano che tutte somi non avesse se non mattoni, quantunque si fosse
gliano il generante, dove la natura non sia im eccellente, nè un legnaiuolo caverà mai un
pedita, come appare ne mostri. Ed è sì grande regolo diritto d'un legno torto. Che dunque
il desiderio che hanno le cose di generare so risponderemo ad Aristotile che chiama i mo
stri errori e peccati? Pensinlo i più intendenti:
(1) Due sono gli scrittori di questo casato: Lodovico e io per me direi, che errore o peccato in que
Girolamo. Lodovico Boccadiferro, che fu professore di filoso sto luogo non importa altro, se non manca
fia in Bologna sua patria ed in Roma e mori nell'anno 1545, mento d'ordine e non conseguimento di fine.
fu avuto in conto del primo filosofo de'suoi tempi: Girolamo,
nipote di lui, che fu del pari professore di legge in Bologna, cd in somma un mancare dal solito corso
e mori nel 1623, s'acquistò gran nome fra' giureconsulti dei ordinario costume; la qual cosa benchè non
suoi tempi. (M) venga per colpa o difetto della natura, il
DELLA GENERAZIONE DE'MOSTRI 159
Filosofo dice così, perchè nel vero la natura perchè l'intendimento nostro non è mai di ri
manca, cioè quel suo effetto è difettivo, ed ha prendere alcuna opinione per riprenderla, ma
più o meno, o altramente di quello che do solo per mostrare liberamente quello che noi
vrebbe ed è consueto d'avere. Se un sarto o
ºrediamo la verità, allegaremo in pro e contra
per lo essere mal disposto, o per mancamento fedelissimamente tutto quello che ci sovverrà
di panno, o per l'uno e per l'altro, avesse strop sopra tale materia, affinchè ciascuno conside
piata una veste, non è che quella veste non rando per sè medesimo l'una parte e l'altra,
si potesse chiamare errore di quel sarto da possa risolversi ad eleggere quello che più giu
chi la vedesse, sebbene il sarto in vero non dica o da credere o da ricusare. E perchè tutte
ci avesse colpa, cioè che egli non avesse con le cose si possono provare o per autorità, o per
seguito il fine suo, il quale era di farla che ragione, o per esperienza, porremo prima le
stesse bene. E perchè Aristotile dà gli esempi autorità, le quali appresso molti molte volte
d'un gramatico, il quale erra qualche volta non vagliono assai: secondariamente le ragioni, le
iscrivendo bene, e d'un medico, il quale pecca quali sempre vagliono assaissimo appresso i ſi
nel dare alcuna volta le medicine; i quali paiono losofi; ed ultimamente la sperienza, alla quale
contrari a quel che s'è detto, non potendo il non contraddicono se non gli stolti.
gramatico errare, se non per ignoranza dell'arte, Quanto all'autorità, Plinio Secondo nel se
potemo dire, come si vede infinite volte in Ari dicesimo capo del settimo libro, racconta che
stotile, che negli esempi non si ricerca che essendosi in Candia rotto un monte per forza
siano veri, ma che mostrino quello che si vuole di tremuoti, vi si trovò dentro un corpo ritto,
dare ad intendere. E di vero Aristotile voleva il quale era quarantasei cubiti, onde essendo
inferire che come l'arte, benchè operi ad alcun ogni cubito un piede e mezzo, ed ogni piede
fine può errare, cioè può non conseguire detto sedici dita ordinarie e dodici grosse, e facendo
fine, così la natura medesimamente nè più nè il nostro braccio due piedi, veniva ad essere
meno, avvengachè nell'arte gli errori vengano lungo detto corpo trenta quattro braccia e mez
da una cagione, e nella natura da un'altra. zo: il quale pensarono alcuni che fosse quello
Ma in qualunque modo l'opinione nostra è, d'Orione, alcuni quello d'Issione. Poi soggiu
favellando aristotelicamente, che i mostri non gne, che essendo stato per comandamento del
siano intesi nè dalla natura universale, nè dalla l'Oracolo disotterrato il corpo d'Oreste, si
particolare, ma si producano a caso in quel disse che fu sette cubiti, che fanno alla ragione
modo che avemo detto; e si chiamino errori di sopra, cinque braccia ed un quarto. Testi
della natura, non perchè la natura erri mai, fica il medesimo in quello stesso capitolo, che
ma perchè tal volta non consegue per le ca nell'età sua, al tempo di Claudio Imperadore,
gioni dette il fine ch'ella intende. fu portato dell'Arabia uno, il quale era nove
E qui sia fine a questo terzo ed ultimo piè e nove once: nove piè sono sei cubiti, che
capo, nel quale finirebbe ancora la Lezione, fanno quattro braccia e mezzo: nove once,
se non che, non vo' dire per compimento ma cioè nove diti grossi, sono dodici degli ordi
per maggior perfezione di questa materia, pare nari, che fanno tre quarti d'un picde; onde
che ci restino alcuni dubbi, i quali andremo veniva a essere tutto quattro braccia e sette
dichiarando di mano in mano, secondo che ci ottavi, alla qual misura se s'aggiugne un mezzo
verranno nella mente, e, se non m'inganno, non piede, cioè otto dita, sarà manifesto, che quei
saranno meno utili che dilettevoli. duoi corpi che dice il medesimo, che si guar
davano a Roma per miracolo negli Orti Sallu
Se i Giganti si trovarono mai, o si trovano oggi stiani non erano maggiori di cinque braccia ed
in luogo alcuno. un ottavo. Queste medesime cose quasi colle
medesime parole, come suole, racconta Soli
Se noi, come avemo protestato tante volte, no (1).
non favellassimo in tutte le dispute nostre, se Santo Agostino nel ventesimoterzo capo del
condo i filosofi, non ci farebbe punto di me decimoquinto libro della Città di Dio favellando
stieri porre ora in quistione il presente dub teologicamente de giganti e d'onde nacquero,
bio, conciossiacosachè appresso i teologi è chia dice ancora, che pochi anni innanzi che i Goti
rissimo che i giganti furono, come si legge di saccheggiassero Roma vi si trovò una femmina
Nembrotto e di Golia, e di tanti altri; ed i col corpo quasi di gigante; nè dice però quanto
Cristiani li devono tenere per cosa certissima fosse alta, ma che sopravanzando l'altre, cor
in quel modo appunto che li mette la Bibbia, reva ciascuno a vederla, il che tanto più pa
non ostante che alcuni gli intendano varia reva maraviglioso, quanto il padre di lei e la
mente, e diano loro diverse interpretazioni. Ma madre erano poco più che gli ordinari.
perchè molti credono che questa sia opinione M. Giovanni Boccaccio, il quale, se si dec
ancora de'filosofi, e che si possa provare per dar fede alle sue medesime parole, non cre
ragioni naturali, che anticamente innanzi al deva molto a teologi, dice nel quarto libro
diluvio, gli uomini fossero tutti giganti, cioè di delle sue Genealogie, non essere favola che i
statura senza comparazione maggiore della no
stra, e vivessero le centinaia degli anni, della intorno a tempi di M. Aure
(1) C. Giulio Solino visse
quale immaginazione non è cosa alcuna nè più lio: scrisse il Polistore, ossia Trattato della situazione e
falsa, nè più ridicola appresso i Peripatetici. delle cose meravigliose del mondo, il quale altro non è che un
c'è paruto di doverne fare alcune parole. E infelice compendio di Plinio il Vecchio (M.)
16o LEZIONE

giganti fossero, anzi verissimo; e per prova di bile che si trovino e possano essere. E se que
ciò allega, che ne' suoi di cavando certi con sta proposizione non fosse vera, tutta la filo
tadini un monte nella Sicilia non lungi da Tra sofia con tutta la medicina, anzi la natura
pani, trovarono un grandissimo antro, nel quale stessa anderebbe per terra, come intendono gli
videro un uomo a sedere con un bastone nella esercitati. È ben vero che detto termine non
mano sinistra, il quale era tanto grande che consiste in un punto, ma ha larghezza, cioè si
albero di nave non fu mai tale; nè fu prima dà il meno ed il più; ed in quel mezzo sono
caduto che trovarono in detto bastone tanto molti gradi: onde per cagione d'esempio, co
piombo, che pesò oltra mille cinquecento lib me l'uomo può nascere il meno, diciamo in
bre. E per non raccontare dei denti, che per sette mesi ed il più in dieci, ed in quel mezzo
savano più di nove libbre l'uno, e d'una parte sono molti gradi, potendosi nascere in tutto
del teschio, che teneva parecchie moggia di l'ottavo e nono, così la forma dell'uomo non
grano, dice che, fatto il conto, veniva a esser può stare con meno quantità, verbigrazia, d'un
lungo tutto questo gigante più di dugento cu braccio, nè con più di sette per farla grande,
biti, che sarebbero, come di sopra, più di cen ed in quel mezzo son tanti gradi, quanto si
tocinquanta braccia, tanto che pensarono che vedono tutto il giorno, ancora che l'ordinario
fosse Polifemo. Dopo questo esempio non pen sia tre braccia, alle quali, o non si arriva, o
so, occorra recitarne più, se già non volessimo si passano di poco, secondo la grandezza dei
far menzione di quelli di Dante, e piuttosto di padri, oltra il cibo, il luogo, il cielo, l'aria, i
Morgante: basta che non solo i poeti, come venti ed altre qualità. Ed Ercole, che fu tre
Virgilio, Ovidio, ma ancora gli Storiografi, come braccia e mezzo secondo trovarono, nel modo
Gioseffo, Erodoto e Beroso affermano essere che pone Aulo Gellio nel primo capo, fu tenuto
stati i giganti. grandissimo e maraviglioso, nè però era mag
Quanto alle ragioni, dicono non essere stata giore d'un quarto di gigante, secondo la mi
maraviglia, perciocchè avevano, innanzi al di sura di Luigi Pulci. E questo crediamo, anzi
luvio, il cielo più benigno e la terra più sa teniamo per certo, che sia verissimo secondo
na. Allegano ancora Omero, che più di due i Peripatetici: la qual cosa affine, che ciascuno
mila anni sono, si doleva che i corpi andassero possa conoscere meglio, porremo le parole pro
sempre scemando, e divenissero minori degli pie di Aristotile nel quarto capitolo del libro
antichi. della Generazione degli Animali: Sed ut per
Quanto alla sperienza, non possono allegare ficiendi cujusque animalis certa est magnitudo tum
altro che quello che trovarono scritto dagli ad majus, tum vero ad minus, quem terminum
antichi, e modernamente da Amerigo Vespucci non supragrediuntur, ut vel majora evadant, sed
che fu il primo a trovare l'Isola de'Giganti. in medio magnitudo spatii excessum defectumque
A nostri tempi non s'è veduto, che sappia io, inter se capit, atque ita homo alius alio auctior
in queste parti di qua, alcuno che sia mag est, et caeterum quod vis animalium: con quel
giore di quello che venne a Bologna, quando che segue.
si coronò Carlo Quinto, il quale, ancora che E benchè io non creda, che alcuno che fac
non fosse oltra quattro braccia, come si può cia professione di filosofo, dubiti punto circa
vedere nella misura di Bologna, si chiamava il quanto avemo detto, tuttavia mi piace aggiu
Gigante dell'Imperadore. In Firenze non s'è gnere ancora, che se i giganti fossero stati, o
trovato maggiore uomo, che mi ricordi io, fossero oggi nel modo che vogliono costoro, ne
prima di Migliore Guidotti, ed oggi di quel seguirebbe, o che noi non fossimo, o che essi
Turco, che fu donato all'Illustrissimo ed Ec non fossero stati uomini; conciossiachè la gran
cellentissimo Signor nostro. Nè voglio tacere, dezza ed il crescere de'corpi non viene dalla
che dicendo Plinio nel capo allegato, che fu materia, come hanno creduto molti, ma dalla
veduto un uomo non più alto di due piedi ed forma, come disputava Aristotile, anzi provava
un palmo, che sono al più un braccio ed un contra Empedocle. E la ragione è, perchè il
quarto, non dovemo maravigliarci, conciossia crescere s'annovera tra le perfezioni; e tutte
che quel Portoghese, che pochi mesi sono passò le perfezioni che sono in qualunque composto
per Firenze portato in quella gabbia, nè si la vengono dalla forma, come tutte le imperfe
sciava vedere se non a chi lo pagava, non era zioni procedono dalla materia; e per questo il
tanto non che maggiore, ma credo bene assai filosofo naturale s'accorda col geometra, di
meglio proporzionato e di molto migliore di cendo, che qualunque magnitudine può sce
scorso e giudizio. Ed ancora che si potessero marsi e dividersi in infinito, essendo questa
allegare molte più se non ragioni, almeno au cosa imperfetta e per conseguenza procedente
torità, dicendo molti chi d'aver veduti e chi dalla materia, ma non conviene già seco quando
d'avere inteso da uomini degni di fede molti dice che ogni grandezza può crescere in infi
miracoli circa questa materia; noi però do nito. Ora chi non vede per le cose dette e
vendo rispondere a tutti con una ragion sola, massimamente dandosi le materie secondo le
pensiamo che queste bastino. forme, e non le forme secondo le materie, che
Dovemo dunque sapere, che tutte le cose noi non avremmo la medesima forma, cioè la
naturali, come dice Aristotile nel secondo del medesima anima, che i giganti, e conseguente
l'Anima, hanno così nella qualità, come nella mente o eglino, o noi non saremmo uomini ?
quantità un certo termine e misura, così nel Le quali cose stando così, non occorre rispon
meno, come nel più, oltra il quale è impossi dere alle ragioni loro, non essendo secondo i
DELLA GENERAZIONE DE' MOSTRI ato a

Filosofi, i quali sapendo che il cielo fu sempre, i Pani, i Silvani chiamati alcuna volta Incubi,
e sempre sarà il medesimo, sanno ancora che e se altri si trovano cotali. I quali sebbene
sempre furono in terra, e sempre saranno le essere stati confermano non pure i poeti a ogni
medesime cose nei medesimi modi, sebbene si passo, ma ancora gli altri scrittori quasi tutti
vanno mutando di luogo, e variando secondo i concordevolmente; nondimeno non concordano
movimenti e le variazioni de'corpi celesti. in dicendo quello che siano, perciocchè alcuni li
Alle autorità ancora esperienze allegate non credono animali: alcuni li tengono uomini: al
occorre rispondere, perchè i Peripatetici le ne cuni li fanno più che uomini e meno che dii,
garebbero: dico quella che racconta Plinio del chiamandoli semidei, cioè mezzi dii, dicendo
corpo d' Orione, e quella che narra il Boccac che i Satiri e i Fauni sono dii de boschi: i
cio di Polifemo, la quale sarebbe stata, secondo Pani dei campi: i Silvani delle selve. Onde
i Peripatetici, più convenevolmente tra le sue Virgilio nel principio della sua Coltivazione in
Novelle. Tutte l'altre, dalle favolose in fuori, co vocandoli, disse:
me la gamba d'Anteo che era sessanta cubiti,
si confanno con quanto avemo detto. E chi con Et vos agrestum praesentia numina Fauni
sidererà bene le parole del Vespucci, cono Ferte simul Faunique pedem, Drradesque puellae.
scerà che i giganti dell'Isola trovata da lui, Ed Ovidio fa dire a Giove medesimo nel pri
non arrivano a cinque braccia, non che pas mo libro delle sue Trasformazioni:
sino le sei. E così potemo credere di quella
Sunt mihi Semidei, rustica numina Panes,
gigantessa di S. Agostino, non dicendo, se non
Et Fauni, Satyrique et monticolae Sylvani,
che sopravanzava l'altre, ancora che, come la
misura ordinaria che è tre braccia, scema più Quos quoniam coeli nondum dignamur honore
Quas dedimus certe terras habitare, sinamus.
che la metà, trovandosi degli uomini d'un brac
cio ed un quarto, così per avventura potrebbe Ma lasciando i poeti, i quali non pur questi,
crescere più che la metà a sei braccia e mezzo ma ancora invocano bene spesso le Driadi, le
in circa, non istando, come avemo detto, in un Amadriadi, le Napee ed altri nomi di diverse
punto. Nè sia chi creda che i Peripatetici o ninfe o dee che le dovemo chiamare; Plinio,
soli nieghino i giganti, perchè Aulo Gellio ri nel secondo capitolo del settimo libro, dice
prende Erodoto Storiografo, e tiene per favo espressamente, che i Satiri sono bestie velocis
loso il corpo d'Orione; e Macrobio dice, che sime nei monti d'India, e come animali qua
i giganti non furono altri che uomini superbi drupedi tanto ben corrono; il qual luogo pare
e cattivi, che non credevano altri dii che se a noi, che sia scorretto e per avventura vuol
stessi; onde, come dice Ovidio, vollero torre significare, che i Satiri ancora che abbiano quat
il regno a Giove; e per mostrargli uomini ter tro piè, corrono ritti, come vedemo che fanno
reni e rapaci, li finsero coi piedi di dragone, molte volte le bertucce cd i gatti mammoni,
nè si sa bene da chi furono generati; basta servendosi dei piè dinanzi in vece di mani, o
che la madre fu la Terra, secondo i gentili, delle mani in luogo di piedi. E soggiugne, che
perchè S. Agostino, seguendo Gioseffo Storico, hanno la effigie umana e sono tanto veloci,
disputa se i demoni congiungendosi colle donne che non si possono pigliare, se non quando
possano produrli. E che a Beroso non si debba sono vecchi o malati. Solino, cavando ogni
credere, ancora che noi crediamo che non sia cosa da Plinio, come suole, dice, che i Sa
Beroso, mostrano le sue parole stesse, scriven tiri non hanno altro d'uomo che la forma.
do che i giganti signoreggiavano in quel tempo Il medesimo dice Pomponio Mela nel primo
tutto il mondo dall'Orto all' Occaso. E final libro; e nel terzo racconta, come nell'Etio
mente essendo questa materia piuttosto da poeti pia di là da uno altissimo monte, che si chia
che da filosofi, diremo che Lucrezio, il quale ma, ma con parole greche, il carro degli dii,
come poeta credeva che Atlante reggesse il ed arde continuamente, si vedono da un colle
Cielo colle spalle, che Briareo avesse cento mani, verdissimo grandissime pianure, nelle quali di
che Encelado, rivolgendosi sotto Mongibello, giorno non vi si scorge, nè vi si sente cosa
facesse tremare tutta Sicilia, che Polifemo, fi nessuna, ma la notte non pure si veggono molti
nalmente, passasse il mare a guazzo, quando ebbe fuochi a guisa d'un campo d'arme, ma vi s'o-
a favellare come filosofo, disse nel primo libro, dono tamburi, cemmanelle, flauti ed altri stre
quasi volendo riprovare quello che n'aveva lettopiti e romori maravigliosi; e da questo crede,
e sentito : che sia nata l'opinione de'Satiri. Ma quello, che
più mi muove è, che Pausania, come racconta
Denique cur homines tantos Natura creare M. Niccolò Leonico nel ventesimo quarto capo
Non potuit, pedibus per pontum qui vada possent del secondo libro della sua Varia Storia (1) mar
Transire, et magnos manibus divellere montes, ra, come già un Eufemo uomo buono e veri
Multaque vivendo vitalia vincere saccla? dico gli affermò, che navigando egli in Ispagna,
ed essendo stato per forza di venti traportato
Se e che siano i Satiri.
(1) Niccolò Leonico Tomeo, oriondo d'Albania, nacque in
Sotto questo nome Satiri, detti così da garty, Venezia nel 1455, mori in Padova nel 1531. Fu medico e
filosofo di gran nome, versatissimo nella lingua greca e latina,
che nella lingua greca significa il membro na studioso assai di Platone e d'Aristotile. L'opera sua De Va
turale, per lo essere essi libidinosi oltra modo, ria Historia è assai commendevole per copia d'erudizione e
comprendiamo ancora in questo luogo i Fauni, per eleganza di stile. (M.)
VARcnl 2 r

\
a 62 iLEZIONE

nel mare Oceano, dopo molti di giunsero a so, che s'aspettasse altro da loro a giudicarle
certe isole diserte, dove trovarono uomini sel razionali, se non la favella.
svatici non rimeno bestiali, secondo che mostra
avano nella cera, che crudeli, tutti pelosi il Se e quello che sieno i Tritoni e la Nereidi.
corpo di setole rossicce e colle code quasi
come quelle de cavalli; i quali tosto che li vi Come sopra la terra si trovano vari e diversi
dero, non ſaveilando cesa che si potesse inten animali di varie e diverse figure, tanto che
dere, e mandando fuori piuttosto un cotale alcuni di loro per varie e diverse cagioni si
stridore, che voce articolata, corsero addosso chiamano mostri, e nondimeno parte di loro
con tanto empito ad alcune femmine, le quali furono tenuti e adorati per dii, così pare ra
erano nella nave, che a gran pena ſu possibile gionevole, che sotto il mare si ritrovino varie
di spiccarneli coi percuoterli e dar loro delle e diverse sorti di pesci, anzi molto più e via
ferite: perchè discostatisi i nocchieri collana maggiori, che in terra non fanno, così per lo
ve, e ritiratisi in alto mare, li videro correre essere elemento maggiore e più nobile, come
tutti addosso a una femmina, ch'essi a sommo rispetto all'umidità, la quale nutrisce maravi
studio avevano lasciata in sul lito e con ella gliosamente. Onde sono tanti e di tanto stra
furiosamente sfogare per tutti i versi la libi ne e diverse maniere, che tutti generalmente
dine loro: onde partitisi, chiamarono quei si chiamano mostri, come fece Virgilio, quan
luoghi l'Isole del Satiri. Ma che diremo di Plu do disse:
tarco autore gravissimo, il quale nella vita di Et quae marmoreofertmonstra subaequore pontus.
Lucio Silla scrive, come tornando Silla in Ita
lia, gli fu menato un Satiro, ch'era stato preso Tra quali se ne ritrovavano alcuni di forma so
a dormire, di quella forma che li fanno gli migliantissimi all'uomo, onde da molti sono
scultori e pittori ? ſi quale dimandato da più chiamati uomini marini, e da molti dii del mare,
turcimanni e interpreti, chi egli fosse, rispon come sono, oltra Nettuno e Teti, Nereo, Pro
deva in un modo strano, che non era nè voce, teo, Glauco, Forci, Galatea e molti altri, tra
nè stridore, ma come quasi chi mescolasse il quali sono i Tritoni e le Nereidi, che non pure
belare d'un becco, per dir come Plutarco, da poeti sono celebrati e tenuti veri, ma an
coll' annitrire d'un cavallo; onde Silla lo fece eora dagli altri scrittori. Perchè Plinio nel
lasciare quasi che n'avesse avuto paura. S. Gi quinto capo del nono libro testimonia, che gli
rolamo finalmente nella vita di Paolo Romito uomini di Lisbona mandarono a posta amba
testimonia, come a S. Antonio apparve un omic sciadori a Tiberio Imperadore, solo per signi
ciato col naso adunco e colle corna, il quale ficargli, che avevano veduto in una spelonca
dimandato da lui chi fosse, rispose, non so già un Tritone in quel modo appunto, che si di
in qual lingua, perchè S. Girolamo pone le pa pigne e uditolo sonare colla cornetta. Poi sog
role latine, le quali suonano così: io sono mor giugne, che la credenza che le Nereidi siano,
tale ed uno degli abitatori di questo eremo, e non è vana, dicendo che hanno il corpo uma
sono uno di quelli, che i Gentili, ingannandosi, no, ma pieno di setole e con isquame di pe
adorano chiamandoci Fauni, Satiri e Incubi, sce, una delle quali fu veduta nel medesimo
e sono mandato ambasciadore da miei com lito, e udita piagnere da paesani, mentre che
pagni a pregarti, che tu preghi per noi lo moriva, molto di lontano. Dice ancora, che 'I
Dio comune, il quale sappiano, che venne luogotenente di Francia scrisse a Ottaviano Au
in terra per la salute del mondo; e così det gusto, che molti corpi di Nereidi comparivano
to spari. morti in su 'l lito gittati dal mare. Testifica il
Questo è quanto ci sovviene per al presente medesimo, che nell'Oceano là da Gade fu ve
dire de' Satiri o uomini, o animali che sieno, duto un uomo marino simile in tutte le parti
benchè, secondo Aristotile, non possono essere a un corpo umano, il quale saliva di notte in
nè l'uno, nè l'altro, per lo essere di spezie non sulle navi, e l'arebbe fatte affondare, in modo
pure diverse, ma diversissime, essendo, come l'aggravava, se avesse durato troppo. M. Ales
dicono, mezzi uomini e mezze capre, e di più sandro d'Alessandro scrive nell'ottavo capo del
avendo le corna, le quali secondo Aristotile non quarto libro ch'egli intitolò Dies geniales, cioè
possono avere se non gli animali di quattro giorni allegri e festevoli (1), che un gentiluo
pie. Potemo ben credere, anzi dovemo, che mo Napoletano degnissimo d'ogni fede, era usato
sieno degli uomini salvatichi, perchè, come dice di raccontare pubblicamente, d'aver veduto in
il medesimo, niuna spezie si ritrova domestica Ispagna dove militava, un uomo marino, il quale
che non si ritrovi ancora salvatica. Ed è pos era stato mandato rinvolto nel mele infino dal
sibile, anzi necessario, volendo salvare le cose Mauro a certi Signori; il quale aveva il viso
dette di sopra, che si trovino animali, i quali, d'uomo, era peloso, di colore celestro, di statu
se non sieno del tutto, abbiano però grandis ra maggiore, che umana, aveva l'ali, e dal mezzo
sima somiglianza con quelli, che si sono rac
contati, come sono, esempigrazia, i Cinocefali, (1) Alessandro d'Alessandro, nobile napolitano, nacque cir
che racconta Aristotile, le Sfingi che sono quei ca il 1461, e morì in Roma nel 1523. Prima esercitò la pro
mostri, che vedemo talvolta dipinti e scolpiti fessione d'avvocato: poi tutto si diede agli studi. Ebbe fama
col viso, e petto di donna, gli Egipani ed altri di grande erudito: ma più che dotto fu puerilmente credelo e
fantastico. L'opera citata dal Varchi è scritta sul modello
cotali. E chi non avesse veduto mai bertucce, delle Notti Attiche di Aulo Gellio, e discorre moltiplici qui
e considerasse bene i gesti e le azioni loro, non stioni seguatamente di gramatica e d'antichità, (M.)
DELLA GENERAZIONE DE MOSTRI n.63
in giù forniva in pesce. Teodoro Gaza, uomo gimenti e sotto misteri diversi, come furo in
di scienza infinita, soleva, come riferisce il me terra le Idre e le Chimere, ed in mare le Scille
desimo, raccontare a M. Giovanni Pontano (i), e le Sirene, le quali furono introdotte da Ome
uomo in tutte le cose compiutissimo, come tro ro nel duodecimo dell'Odissea cantare in que
vandosi egli nella Morea, aveva veduti molti sta maniera, passando Ulisse:
mostri marini, e tra questi una Nereide git O decus Argolicum, quinpuppim flectis Ulixes,
tata nel lito dall'onde, la quale era ancora Auribus ut nostros possis cognoscere cantus?
viva ed alitava, aveva la faccia quasi di donna Vam nemo haec unquam est transvectus cerula
e co
ed assai bella, ma era infino al pettignone co- cursu,
perta di squame, e da quindi in giù forniva in Quin prius assisterit vocam dulcedine captus,
una coda di locusta: la quale veggendosi in i Post variis avido satiatus pectore Musis
terra, ed intorniata da molta gente, ch'era Doctior ad patrias lapsus perverserit oras.
corsa a vederla, cominciò tutta mesta, secondo
si poteva giudicare dal viso, a piangere e sº
I quali versi ho recitato sì per mostrare quanto
s'ingannino coloro, i quali dietro al giudizio
spirare, onde egli come uomo compassionevole di Marziale e di Giovenale, credono, che Ci
e vero filosofo, fatta discostare la turba, fu ca
non sapesse far versi, e sì perchè Ci
gione, che ella a poco a poco ritirandosi, si cerone
cerone stesso interpreta questa favola altramen
gittasse nel mare e scampasse. M. Giorgio Tra te, che sogliono gli altri e che non fece Vir
pesunzio raccontava, che trovandosi una volta gilio, o chiunque si fosse l'autore di quella
vicino al mare, vide una fanciulla molto bella,
che stava sopra l'acqua infino al bellico e quasi dottissima Elegia e Ieggiadrissima, che ha il
suo principio eosi:
a bello studio ora s'alzava sopra l'onde, ed ora
si tuffava sotto, e tosto che conobbe d'essere Syrenes varios cantus Acheloia protes,
Et solitae miseros ore ciere modos.
stata veduta, non comparse più; onde divina
mente disse Catullo nel suo maravigliosissimo l
Perciocchè egli la dichiara per quegli uomini,
Epitalamio: i quali dilettandosi degli studi ed arti liberali,
Ilaque haud alia viderunt luce marinas presi dalla dolcezza della cognizione delle co
Mortales oculi nudato corpore Nymphas, se, non curano, non che la roba ed altri pia
Nutrieum tanus, extantes e gurgite cano. ceri, la sanità e salute propia. E poscia che
noi siamo in sul ragionare di cose stravaganti
Nella Schiavonia, come per pubbliche serit e maravigliose. non voglio lasciarne indietro
ture fu notato e ne fu fatto fede, si trovò un Tri una, la quale avendo faccia più di menzogna,
tone, il quale, appiattandosi in un antro, stava che di verità, doverei tacere; il che certo fa
aspettando, che alcune femmine, come erano rei, se l'autore d' essa non fosse il Pontano,
solite di fare, andassero per l'acqua a una fonteil quale fu veramente un mostro di tutte quan
fuori della terra, vicino al lito, ed andava lor te le virtù, oltra che fu in quel tempo cosa
dietro pian piano per giugnerle e sforzarle; notissima non pure in Sicilia, ed a Napoli, ma
la qual cosa conosciuta da paesani, gli tesero quasi per tutta Europa. E questo è, che si
tanti lacci, che lo pigliarono; ed egli tutto di trovò un Siciliano di bassa condizione, il quale
mal talento, come si può pensare, non volen non pure nuotava sessanta ed ottanta miglia per
do mangiare, si morì. Onde nacque, per av mare, quando era più tempestoso, il che fanno
ventura, quella bellissima Elegia di M. Baldas ancora molti dell'Isole Nuove, ma viveva più
sarre Castiglione, la qual comincia: sotto l'acqua, che in terra: non gli parendo
di poter vivere e rifiatare, se ogni giorno non
Ad mare ne accedas propius, mea vita, protervos
Nimirum et turpes continet unda Deos ; fosse ito all'acqua, perseguitando i pesci del
mare coll' armi ed uccidendoli, non altra
con quello che segue. E ben so, che queste mente che si facciano i cacciatori i porci sel
cose saranno riputate da molti più tosto no vatici, stando due e tre giorni sotto l' onde,
velle, che storie, tuttavia, come tutte le cose anzi che ritornasse in terra; ne aveva paura
non si debbono credere, così tutte non si deb di mostro alcuno del mare, se non di Cariddi,
bono non credere, perciocchè, oltra l'autorità la quale dubitando di quello che gli avvenne,
di tanti e tali uomini, non è lontano, non che mai non volle tentare, come aveva fatto Scilla
impossibile dalla potenza e varietà della na e gli altri. Se non che il re Federigo il giorno
tura, che si trovino animali, i quali abbiano o della festa principale, tra gli altri giuochi, che
mostrino d'avere, non dico la forma dell'uomo, s usavano fare, gittò nel mare una tazza d'oro,
la quale è l'anima razionale, ma la forma del | appunto dove è il mostro chiamato Cariddi, e
corpo umano. Non dico già, che molte non comandatogli, che andasse per ella, ed egli ri
siano favolose e trovate da poeti con vari ſin cusandolo, lo minacciò di farlo legare, di ma
niera che egli arditamente, ma con protesta
zione però di quello che seguì, vi si gettò
(1) Giovanni Pontano nacque a Gereto nella diocesi d'Ur dentro colla spada ignuda in mano, nè mai
bino nel 1426: fanciullo visse tra l'armi: indi si con
più si vide, o s'intese altro di lui. E questo
desse a Napoli, dove si pose sotto la disciplina di Giovanni fine ebbe Cola, chiamato per soprannome Pe
Panormita applicandosi alle lettere ed alla poesia. Studiò con
gran fervore i latini poeti, e riuscì a ritrarne la grazia e l'ele sce della Natura, del quale potemo bene ma
tanta: i re di Napoli Ferdinando I e Alfonso II se l'ebbero ravigliarci agevolmente, ma non già agevolmen
assai aro. Mori nel 15o3- (M.) te renderne le cagione, massimamente secondo
164 LEZIONE

i Peripatetici; i quali, come avemo detto tante intelligibile; pure quel centauro, o checchè si
volte, niegano gli influssi celesti e le proprietà fosse, disteso il braccio, gli mostrò colla mano
occulte, senza le quali nè questi, ne infiniti il luogo da lui cercato.
altri effetti pare a noi che si possano salvare, Ma perchè cotali mostri sono impossibili na
come discorreremo altra volta lungamente. Ba turalmente, come avemo detto, gli Aristotelici
sti per ora, che chi vuole conoscere in un me risponderebbero a Claudio imperadore ed a
desimo tempo due miracoli, uno col fatti e Plinio, che quel mostro fosse ben paruto loro,
l'altro nelle parole, legga i versi, che fece ma che non già fosse stato centauro; e chi
sopra questa materia di Colapesce nel quarto allegasse, che Aristotile stesso fa menzione nel
libro delle Stelle il Pontano, i quali comincia primo capo del secondo libro della storia de
no cosi - gli animali dell'Ippolifo in greco ed Equicer
vo in latino, cioè cervo e cavallo insieme, e
Haec Pistris, sed quo Coeli sub srdere natum
Quave poli sub parte Colan rear? d'alcuni altri simili, gli rispondiamo, come di
sopra, che tra il cavallo ed il cervo non è
quella differenza, che è tra l'uomo e il toro;
Se i Centauri sono. e così potemo dire, se fosse stato vero il ca
vallo d'Alessandro Magno, che aveva il capo
di bue, onde si chiamava Bucefalo. Ed in som
Servio Onorato (1), sponendo quel verso di ma chi vuol conoscere, che naturalmente non
Virgilio nel terzo libro della Georgica: possono essere mostri di due spezie molto di
verse, guardi, come diceva Aristotile contra
Fraena Pelethroni Lapithae, grrosque dedere, Empedocle, che non si trovano nelle piante;
dice, che Peletronio è una terra di Tessaglia, onde per l'argomento chiamato dal maggiore,
dove si trovò prima l'uso del domare i caval molto meno si troveranno negli animali e ne
li; e la cagione fu questa, avendo il re del gli uomini, che sono più nobili, ed hanno più
luogo comandato ad alcuni suoi ministri, che certo fine: come non si trova, dice Aristotile nel
andassero a ripigliare certi buoi, i quali stimo secondo della Fisica, una pianta, che composta
lati dall'assillo, s'erano furiosamente fuggiti: di vite e d'ulivo faccia vino ed olio, così non
e non li possendo costoro raggiugnere, presero si può trovare un animale, che sia uomo e to
spediente di salire in su'cavalli, e così fatto, ro insieme. E perchè è verissimo, che d'uno
li ritornarono a casa con i pungetti, e da que ulivo nella vita nostra usciva un alloro, di
sto stimolare e frugare i tori furono grecamen ciamo che nel tronco d'esso ulivo era o nato
te chiamati Centauri. I quali essendo stati ve a caso, o stato piantato indubitatamente l'allo
duti correre sì velocemente, o perchè quando ro. E perchè Lucrezio nel quarto libro tratta
furono veduti primieramente i cavalli beevano tutta questa materia de'mostri quanto alle pa
nel fiume Peneo, onde non si vedevano loro role come poeta leggiadrissimo, e quanto ai
i capi, furono creduti essere mezzi uomini, e sensi come dottissimo filosofo, non ci parrà
mezzi cavalli, e però si chiamavano ancora Ip fatica recitarne più versi, parte maravigliandoci,
pocentauri. Del che niuno si maraviglierà, il e parte dolendoci, che non prese a dichiarare,
quale sappia, che il medesimo avvenne a di ed illustrare colla grandezza dell' ingegno ed
nostri nell'Isole Nuove la prima volta, che vi agevolezza de' versi suoi più vera setta e più
dero uomini a cavallo. E benchè quasi tutti certa dottrina, che non fu quella di Epicuro.
gli scrittori ne favellino, come di cosa favolosa,
facendoli figliuoli d'Issione e d'una nuvola, la Sed neque Centauri fuerunt, nec tempore in ullo
quale credeva essere Giunone, non è però, che Esse querunt, duplici natura et corpore bino,
Plinio scrittore sensatissimo e di grandissimo Er alienigenis membris compacta potestas,
giudizio non dica, prima che Claudio imperadore Hinc, illinc par vis, ut non par esse potis sit:
scrive, che un centauro nato in Tessaglia, morì Id licet hinc quamvis hebeti cognoscere corde,
quello stesso giorno, che era nato; poi afferma Principio circum tribus actis impiger annis
d'averne veduto uno egli stesso, il quale era Floret Equus: puer haud quaquam, sed saepe
stato mandato d' Egitto rinvolto nel mele a etiam nunc
detto imperadore. E San Girolamo nella vita Ubera mammarum in somnis lactantia quaerit.
allegata di sopra, testifica che al medesimo Post ubi Equum validae vires, aetate senecta
Sant'Antonio apparì un centauro. Bene è vero Membraque deficiunt fugienti languida vita
che egli dice di non saper certo, s'egli era un Tunc demum puerili aevo florente juventus
centauro vero, oppure il demonio trasmutato Occipit, et molli vestit lanugine malas,
in quella forma per beffarlo; basta, che fat Ne forte ex homine, et uterino semine Equorum
tosi il segno della croce, e dimandatogli, dove Confieri credas Centauros posse, necesse,
abitava un servo di Dio, gli fu risposto da lui Aut canibus rapidis succintas semimarinis
più tosto mugolando e stridendo, che con voce Corporibus Scyllas, et caetera degenere horum,
Inter se quorum discordia membra videmus.
(1) Servio Onorato detto il grammatico fiorì circa a tempi
di Teodosio o d'Onorio. Macrobio lo introduce tra personaggi E tutto quello che seguita di questa materia.
de' suoi Saturnali; dice ch'egli era uomo, che ad una singo
lar modestia univa una rara dottrina, gli dà il nome di mas
simo traduttore e ne loda singolarmente i Commenti sopra
Virgilio. (M.)
DELLA GENERAZIONE DE' MOSTRI 165
che furono i primi a scoprire il Mondo Nuovo.
De Pigmei. Ma che nell'Arabia si trovi la Fenice uccello
unico e diverso di bellezza da tutti gli altri,
Ancora che tutta la navigazione nuova, la qua non maggiore d'un'Aquila, non è così certo,
le ha girato la terra intorno intorno, non abbia come pare che affermino molti; perchè sebbene
mai trovato in luogo nessuno i pigmei, che così Plinio, Solino e Pomponio Mela la descrivano
chiamano i Greci da rivor, che vuol dire il go assai concordevolmente quanto alla forma ed ai
mito, quegli o uomini o animali, che noi Fio colori, non è che Plinio, come scrittore pru
rentini chiamiamo piccinacoli, i quali non sono dentissimo, non aggiugnesse che non sapeva, se
più alti, come testimonia Plinio, di tre spita ella era cosa favolosa, oltra che discordano
mi, ovvero dodranti, cioè di tre spanne ovvero tutti nel tempo; dicendo Plinio ch'ella vive 156o
trentasei dita, che fanno un braccio ed un otta anni, Solino 54o, Pomponio 5oo; il che dice
vo; e non solo combattono co' grù, ma ne vanno ancora Ovidio nel settimo delle Trasformazioni
col peggio, essendo vinti da loro: non è per descrivendola:
ciò che molti autori degnissimi non ne facciano Haec ubi quinque suae complevit saecula vitae.
menzione e gli affermino per veri. Primiera E così afferma Cornelio Tacito, scrittore di
mente, per non raccontare quello che ne scri storie diligentissimo e veracissimo, che è la co
vono Ovidio, Giovenale ed altri poeti, Plinio mune opinione, onde Dante seguitando costoro
nel secondo capo del settimo libro li pone nel cantò:
l'India, allegando Omero, il quale nel princi Così per li gran savi si confessa,
pio del terzo libro dell'Iliade ne fa menzione. Che la Fenice muore, e poi rinasce,
Pomponio Mela medesimamente afferma che Quando al cinquecentesim'anno appressa:
sono, ma li pone nell'Arabia; in quella parte Erba nè biada in sua vita non pasce,
che di là dal Golfo Persico guarda l'Etiopia. Ma sol d'incenso lagrime e d'amomo,
Ma per non istare a raccontare gli altri, dice E nardo e mirra son l'ultime fasce (1).
Aristotile, credo, ricordandosi d'Omero nel duo.
decimo capo del settimo libro della storia degli L'autore di quella Elegia, il cui principio e
Animali, non essere favola che i pigmei siano questo:
e combattino con i grù; e perchè abitano nelle Est locus in primo felix Oriente remotus,
caverne, si chiamano Trogloditi. Ora molti cre Qua patet aeterni maxima porta poli;
dendo che i pigmei siano per l'autorità di si
gran filosofo, dubitano se sono uomini o ani la quale s'attribuisce a Lattanzio Firmiano (2),
mali; ed ancora che Aristotile li chiami uomi dice che ella vive mill”anni, come dimostrano
ni, dicendo una sorte d'uomini e di cavalli questi versi:
piccioli, non vogliono però che siano uomini Quae postquam vitae jam mille peregerit annos,
veramente; onde Alberto Magno nel terzo li Ac se reddiderint tempora longa gravem.
bro degli animali li chiama uomini salvatichi,
e nel ventesimo primo dice, che non sono uo Col quale concorda non pure Claudiano quando
disse:
mini del tutto ma in alcuna parte, il che non
intendo quello che possa voler significare; Namque ubi mille vias longinqua retorcerit aetas;
conciossiachè tutti gli animali siano bruti o ra
zionali, non si dando tra loro alcun mezzo, se ma ancora Marziano Cappella, dove scrive:
già non volesse dire, come credo, quanto alla Qualiter Assyrios revocant incendia nidos
somiglianza, o del corpo o degli atti, dicendo Una decem quoties saecula vixit avis (3),
altrove che i pigmei e le bertucce somigliano
l'uomo. E M. Marcantonio Zimara, allegando dove disse una, cioè unica, come Ovidio:
Alberto nel sesto capo del settimo libro degli Et vivax Fenix unica semper avis.
Animali, dice, che sebbene Aristotile ed Omero
E Lattanzio:
affermino i piccinacoli essere una sorte d'uo
mini, non però si debbe intendere che siano Unica sic vivit morte refecta sua.
della medesima spezie, ma si chiamano uomini
perchè sono simili agli uomini, essendo di sta E perchè io non vorrei ch'alcuno mosso non
tura diritta, ma non sono uomini veramente, tanto dall'autorità de'poeti allegati, quanto da
cioè non hanno l'anima razionale: il che cre
diamo ancor noi, dato che si trovino, non ostan (1) Inferno, Canto XXIV.
te che quanto alla grandezza, potessero essere (2) Lattanzio Firmiano, d'ignota patria, fiori nel secolo III
dell'era volgare, e va collocato fra' Padri più illustri della
uomini veramente ed aver l'intelletto, come Chiesa latina. Il suo stile sº accosta più di quello d'ogni al
s'è dichiarato di sopra. tro scrittore ecclesiastico alla tersa latinità. Non è certo che
siano sue le poesie che corrono sotto il suo nome; fra esse la
Della Fenice. più pregiabile è il Carme sulla Passione, che venne rifatto con
tanta felicità da Giovanni Torti. (M.)
Che l'Etiopia e l'India abbiano molte e di (3) Marziano Mineo Felice Cappella, Africano di patria,
non si sa bene in quale età fiorisse. Abbiamo di lui nove li
verse sorti non solo d'erbe e d'altre piante, bri intitolati de Nuptiis Philologiae et Mercurii, ne' quali
ma d'animali e d'uccelli di varie forme e co
tratta poeticamente di quasi tutte le scienze, e ne spiega i prin
Iori assai dissomiglianti da nostri, non è dubbio cipj e l'indole con uno stile barbaro al certo ed inculto, ma
nessuno, mediante i Genovesi ed i Fiorcntini, con molta copia di cognizioni. (M.)
166 LEZIONE

quella di Cornelio Tacito, la quale è gravissima, che un concetto, che si può predicare, cioè'dire
credesse che le cose che si dicono del vivere della di più individui. Ed a chi dicesse, che quelle
Fenice, del morire e del rinascere fossero vere, cose che sono composte di tutta la materia
dico, che chi eonsidererà bene le sue parole, loro, non possano avere più individui, che un
conoscerà ch'egli non afferma cosa nessuna per solo, come diceva il Filosofo del mondo, si
certa; se non che dice, che l'anno, nel quale risponde come di sopra, che l'avere più in
Paolo Fabio e Lucio Vitello furono Consoli, dividui, secondo i Peripatetici, non viene dalla
l'uccello chiamato Fenice venne dopo un lungo materia, ma dalla forma; onde se la forma del
giro di secoli in Egitto, e diede materia agli mondo, o d'altro individuo solo, avesse ricer
uomini dotti del paese e di Grecia di disputare cato o piuttosto patito, che fossero stati più
molte cose sopra così fatto miracolo, delle d'uno, la natura non le avrebbe mancato di
quali alcune si riscontrano, ed alcune sono dub materia, come conoscono gl'intendenti. E chi
bie. Di poi avendola descritta, mostra che non considererà bene non pur Dante, che se ne ri
poteva esser vero ch'ella fosse apparsa, come mise agli altri, ma ancora il Petrarca nel so
dicevano, al tempo di Tolomeo, che fu il terzo netto:
de' Macedoni che regnasse nella città, che si Questa Fenice dell'aurata piuma (1);
chiama Eliopoli, cioè città del Sole; concios
siachè da quello Telomeo a Tiberio Impera ancora che altrove dicesse:
tore erano corsi meno che 25o anni; onde sog Ne 'n ciel, nè'n terra è più d'una Fenice (2);
giugne, che alcuni credettero che questa non fosse ed altrove:
la vera Fenice, né fosse venuta dall'Arabia, non
avendo fatto cosa alcuna di quelle, che secon Arde e muore e riprende i nervi suoi,
do la memoria degli antichi doveva fare; e rac E vive poi colla Fenice a prova (3);
contato il modo della sua morte e della sua
vedrà che egli non credeva, che fosse altra
rinascita, aggiugne che sono cose incerte ed Fenice, che Madonna Laura, onde disse nei
accresciute per favola, ma che non si dubita tre ultimi versi:
già che quell'uccello non si vegga qualche
volta in Egitto (1). E brevemente solo S. Giro Fama nell'adorato e ricco grembo
lamo nella sposizione del Credo, ed in un altro D' Arabi monti lei ripone e cela,
luogo pare a me che creda o voglia, che gli Che per lo nostro Ciel sì altero vola.
altri credano, che quelle cose, che si dicono E perchè Claudiano la dipigne assai leggia
della Fenice, siano vere e così Filostrato nel dramente, non voglio mancare di recitarvi i
terzo libro della vita d'Apollonio Tianeo. suoi versi:
Ma venendo a filosofi, i quali, posti da parte Arcani radiant oculi jubar, igneos ora
tutti i rispetti, cercano solo la verità delle Cingit honor rutilo, cognatum vertice svalus
cose, e lasciando Alberto Magno, il quale se Attollit cristatus apex, tenebrasque serenaris
non la concede, non pare anco che la nieghi, Luce secat: trrio pinguntur crura veneno:
dico, che chiunque sa che la moltiplicazione Ante volant Zephyrum pennae, quas caerulus ambiti
degli individui (cioè che in una spezie si ri Flore color, sparso gue simul ditescit in auro.
trovino più particolari, come sotto l'uomo. So
crate o Platone), viene principalmente dalla Se di femmina si può diventar maschio.
forma, e non dalla materia, non crederà mai,
che la Fenice sia unica per lasciare stare l'al Io dubito, che avendo infin qui negate molte
tre cose; perchè tutte le spezie, che sono sotto cose, che molti affermano, ed ora volendone
la Luna, hanno più individui, altramente non affermare una, che molti niegano, di dar che
sarebbero spezie, non essendo altro la spezie, dire a chicchessia: nondimeno dirò liberamente
(1) Ecco le parole di Tacito nella traduzione del Davan I'opinione mia, perchè coloro, i quali sanno,
zati, Essendo consoli Paolo Fabio, e L. Vitellio, voltaſi che la verità si debbe preporre a tutte le cose
molti secoli, venne la Fenice in Egitto: materia ai dotti della da tutti gli uomini, e specialmente da filosofi,
contrada e della Grecia di molto discorrere di tal miracolo. dovranno se non lodarmene, almeno scusarmi.
E degno fia, ove convengono, ove discordano, raccontare. Dico dunque, che non credo già quello, che
Tutti scrivono esser questº uccello sagrato al sole: nel becco dice Virgilio poeticamente di Ceneo, che di
e penne screziate diverso dagli altri. Degli anni, la più comu maschio diventò femmina, poi ritornò maschio;
ne è, che ella venga ogni cinquecento: alcuni affermano, mille e come dicono di Tiresia, e d'alcuni altri; ma
quattrocento sessantuno: e che un'altra al tempo di Sesostri
de, un'altra di Amaside, la terza, di Tolomeo l II re di Ma credo bene, che di femmina alcuna volta si possa
cedonia, volarono nella città d'Eliopoli, con gran seguito di diventare maschio, così per le parole di Pli
altri uccelli, corsi alla forma nuova. E molto scura l'antichi nio, al quale gli uomini volgari e idioti hanno
tà; da Tolomeo a Tiberio fu meno di dugencinquant'anni; posto il soprannome di bugiardo senza sapere
onde alcuni tennero questa Fenice non vera, nè venuta d'Ara che si dicano, come per l'autorità del Ponta
bia; e niente aver fatto dell'antica memoria, cioè, che forniti
gli anni, vicina al morire fa suo paese suo nidio: gettavi il no, il quale se più sapessi lodarlo, ch'io non
seme: del nato e allevato Feniciotto la prima cura è di sep ho fatto, più lo loderei. Comincia dunque Pli
pellire il padre; a caso nol fa, ma provasi con un peso di mir
ra a far lungo volo; e se gli riesce, si leva il padre in collo,
e in su l'altare del sole lo porta e arde; cose incerte, e con (1) Son. CXXXIII, Parte I.
tigiate di favole. Ma non si dubita che qualche volta non si (2) Son. CLI, Parte I.
vegga questo uccello in Egitto. (Ann., lib. VI, 28) » (M.) (3) Canz. XIV, Stanza 1, Parte I.
DELLA GENERAZIONE DE' MOSTRI 167
mio il quarto capo del settimo libro con que chè, secondo i filosofi, e così secondo i me
ste parole in sentenza: Che di femmina si di dici, il maschio non è differente, nè si cono
venti maschio non è cosa favolosa, e così lo sce dalla femmina per alcun membro, ma
traduce M. Cristofano Landini, della quale dall' essere o più caldo, o più freddo, con
traduzione merita, per mio giudizio, altra ciossiache la natura dell'uomo sia senza al
lode, che quella, che gli danno molti; per cun dubbio più calda, che quella della donna,
ciocchè, sebbene in molti luoghi non tanto per e da questa forza del calore viene, che la na
la difficoltà dello scrittore e della materia, tura, può negli uomini mandare fuori quelle
quanto per lo essere, e massimamente allora membra, che nelle donne per la freddezza si
tutto lacero e scorretto, non traduce i senti rimangono dentro, onde è possibile, che poi
menti veri, non è però, per quanto posso giu col tempo, o per cibi, o per aria, o per altre
dicare io, che non avesse il vero modo di tra cagioni questa freddezza si riscaldi tanto, che
durre di latino in toscano. Ma tornando alla possa fare allora quello che non potette al
materia nostra, soggiugne Plinio d'aver trovato nascimento.
nelle storie che a Casino nel tempo, che Licinio Restaci solamente a dichiarare la cagione,
Crasso e Cajo Cassio Longino erano Consoli, una perchè si possa vivere senza mangiare non so
fanciulla in casa diventò garzone, e per coman lamente venticinque o trenta giorni, come si
damento degli Aruspici fu portato, e lasciato vide in quello Scozzese al tempo di Papa Cle
in una isola abbandonata. Licinio Muziano (1) mente, e pochi giorni sono in quella Aquila,
lasciò scritto, ch'aveva veduto in Argo Are che l'illustrissimo Duca Signor nostro fece
scente, il quale prima essendo femmina, si stare senza alcun cibo di nessuna ragione tren
chiamava Arescusa; alla quale dopo, che si fa ta giorni interi nella Cittadella nuova di Pisa,
maritata, nacque la barba e il membro vi ma ancora più e più anni, come testificano di
rile, tanto che menò moglie. Il medesimo quella fanciulla della Magna chiamata Marghe
scrive d'aver veduto a Smirna uno, che di rita Roet.
fanciulla era diventato fanciullo. Io stesso, dice Ma perchè l'ora è passata pur d'assai, e io
Plinio, essendo in Africa vidi Lucio Cossuzio, non vorrei trattando de'Mostri fare una lezione
il quale il giorno, che ne doveva andare a ma mostruosa, dopo le debite grazie prima alla
rito, era diventato maschio. E perchè niuno benignità di Dio, poi alle cortesie vostre, porrò
creda, che queste come cose antiche, siano fine al presente ragionamento.
favolose, messer Giovanni Pontano, uomo più
tosto divino che mortale, testimonia nel deci
mo libro delle cose celesti, che M. Antonio Pa
normita gli raccontò, che una donna da Gaeta L E ZlONI OTTO
dopo quattordici anni ch'era stata ed avea usato
col marito, natogli in un subito il membro na SU L L' A M O R E
turale, diventò uomo, onde per fuggire gli
scherni, che gli erano fatti, e dagli uomini e
dalle donne, si fece frate, e quivi visse tutto LEZIONE PRIMA
il tempo della vita sua, dove il Pontano dice
d'averlo conosciuto, e che fu sotterrato in Roma s U R U n s o N E T to D a L BEM B 0
nella Minerva. Un'altra donna, dice il mede
simo, che si chiamava Emilia, si maritò a un
Antonio Spensa, e dopo d'essere stata a marito BENEDETTO VARCIII
dodici anni, diventò uomo, ed al tempo del Pon
tano viveva, praticava ed esercitava gli uffizi AL MAGNIFICO E SUo. Molto onora ANno
da uomo; e di più prese donna, e il giudice,
ch'era amico del Pontano gli disse, che pia M. ROBERTO DE ROSSI
tendo la dote, gliela aveva fatta rendere per
AMICO CARISSIMO
eomandamento del re Fernando di Napoli.
Messer Agnolo Colozio, uomo di grande autorità,
il quale noi avemo conosciuto vescovo, disse Grandi veramente, e potentissime sono le forze
al Pontano, suo amicissimo, che a una contadi dell'amicizia, e di quelle amicizie massimamente,
na, moglie d'un villano, partorito che ebbe le quali nei più teneri anni si pigliano da co
un fanciullo, nacque il membro virile dentro loro, che sotto i medesimi precettori negli studi
la natura, la quale dopo non molti mesi si mori medesimi s'affaticano. La qual cosa sebbene m'era
coll'una natura e coll'altra. E con tutto che per molti esempi così antichi, come moderni ma
queste cose paiano piuttosto impossibili, che ma nifestissima, tuttavia più certa fede e chiarezza
ravigliose, nondimeno io per me non posso non via maggiore me n'ha fatto la prova stessa e la
credere all'autorità di così fatte persone; e sperienza della nostra medesima. Perciocchè, es
massimamente che la filosofia non solo non le sendoci noi non solamente conosciuti, ma amati
può negare, ma non può non concederle; per grandissimamente infino dalla fanciullezza no
stra, quando sotto la severa disciplina di mae
(1) Licinio Muziano, fiori nel secolo VI dell'era volgare: stro Guasparri Mariscotti da Marradi appara
fu amico del celebre Cassiodoro pe cui conforti tradusse dal vamo le prime lettere della gramatica latina amen
-
greco in latino varie opere, (M.) due, non ostante poi che molti e molti anni non
168 LEZIONE PRIMA

avessimo, non che favellato l'uno all'altro, ma dalla natura ed ordine loro, e cercano sempre
nè ancora scritto per le diverse vite e fortune d'assomigliarsi con ogni sforzo al facitore di
nostre, era nondimeno rimaso in me, con una esse Dio, quanto a ciascuna è concesso il più;
dolce e continua memoria dell'amorevole natura possono nientedimeno essere impedite da di
e piacevolissima conversazione vostra, un desi verse cagioni, come noi vedemo avvenire tutto
derio ardentissimo di piacervi, non dubitando il giorno; conciossiache siccome tutte le cose
punto, che voi il medesimo facevate verso di me. leggieri salgono sempre per loro natura al cie
Il che essere così come io divisava, intesi, non ha lo, così tutte le gravi discendono al centro per
gran tempo, si da alcuni altri che venivano di loro natura sempre, quando impedite non so
costà, e si ultimamente dal non meno gentile e no. Alcune altre poi procedono dalla mente e
virtuoso, che magnanimo e liberale messer Luigi dall'intelletto umano, come sono tutte l'arti,
Alamanni, il quale questi pochi giorni, che s'è tutte le discipline, tutte le azioni ed elezioni
degnato di starsi con esso noi, ha molte volte e nostre, e queste sono meno perfette e meno

molto amichevolmente favellatoci dei fatti vostri. ordinate, siccome quelle che nascono dall'ar
E perchè voi, avendo inteso di questa nostra bitrio e volere nostri, i quali, oltra che sono
Accademia di Padova, mostrate di fortemente de vari e mutabili sempre, possono ancora, e so
siderare alcuno dei miei componimenti, io mi ri gliono bene spesso errare ed ingannarsi troppo
solvei subito di mandarvi la prima Lezione fatta più che di mestiero non ci farebbe. Il che ac
da me sopra un grave e dottissimo Sonetto del ciocchè meglio e più agevolmente s'intenda,
reverendissimo ed illustrissimo cardinale Bembo, è da sapere che l'anima umana, siccome non
sapendo che le cose mie, quantunque basse e de è tutta ragione e libera affatto da ogni mate
bili, vi saranno se non utili, almeno giocondes e ria, come sono l'intelligenze separate, così an
di qui potrete pigliare argomento certissimo di cora non è tutto senso, nè sepolta del tutto
quanto io v'ami, poscia che per compiacere alle nella materia come gli animali bruti; ma e
voglie vostre non curo di palesare l'ignoranza una forma, e natura mezza tra le cose celesti
mia. State sano. Di Padova. e sempiterne, e quelle che sono mortali e ter
rene, la quale partecipa dell'une e dell'altre.
Laonde fu divisa dai Filosofi in due parti prin
cipalmente, nella razionale, e in quella che
LetturA di BENEDetto vanchi FiorarnTINo, LETTA manca di ragione. Della parte razionale, nella
ILA seconda DoMENICA DI seTTEMBRE DELL'AN quale sono essenzialmente le virtù intellettive,
No 154o NELLA FIoRiTissIMA AccADEMIA PADo e per la quale noi siamo immortali e somi
vANA DEGLI INFIAMMATI, EssENDo sEcoNdo PRIN glianti agli stessi Dii, non occorre che favel
cipe il MAGNIFICo M. Giovanni Cornano, ELETTO liamo al presente. La parte irrazionale, me
DA M. GiovANNI ANDREA DELL'ANGUILLARA, soPRA diante la quale noi comunichiamo colle bestie,
UN soneTTo DI MONSIGNOR PIETRO BEMBO. si sotto divide in due parti anch'essa, nella ve.
getativa, la quale non è propia dell'uomo, ma
PROEMIO delle piante, e nella sensitiva, la quale è pro
pia degli animali.
Ora questa parte sensitiva è quella che si
Ancora che tutte le cose che sono, Prin chiama appetito sensitivo ovvero sensualità dai
cipe nostro degnissimo, onoratissimi Padri, ar teologi nostri cristiani, la quale sebbene non
dentissimi Infiammati, e voi tutti nobilissimi è razionale per la essenza e natura sua, è però
Uditori, procedano da esso primo e sommo razionale, per participazione; perciocchè può,
bene, cioè da Dio ottimo e grandissimo, come anzi debbe obbedire alla ragione, e lasciarsi
cagione universalissima e principalissima di raffrenare, e regolare da quella; ed anco que
tutte le cose: tuttavia in esse tre ordini si ri sta si ridivide in due parti; in irascibile e con
trovano, chi bene le considera; perciocchè al cupiscibile. Nelle quali due parti sono tutti gli
cune di loro procedono da esso sommo e primo affetti ovvero passioni umane; le quali passio
bene immediate, come sono quelle massima ni, perciocchè siccome venti contrari turbano
mente, che i filosofi sostanze, ovvero intelli la tranquillità dell'anima ed ogni quiete della
genze separate, ed i cristiani Angeli chiamano, nostra vita, sono per più segnato vocabolo per
e queste sono perfettissime, e ordinatissime di turbazioni chiamate dagli scrittori. E sono prin
tutte l'altre, conciossiachè non solamente non cipalmente quattro: desiderio, allegrezza, ti
mancano mai della perfezione ed ordine loro, more e dolore, dalle quali e nelle quali, non
ma nè ancora mancare possono per accidente altramente che i fiumi dal mare, derivano e
veruno. Alcune altre procedono bene mediate ritornano, si può dire, tutte l'altre, e non sono
da Dio, ma immediate da essa natura, come altro questi affetti, ovvero perturbazioni, che
tutte le cose che da lei naturali sono chiama alcuni moti e commovimenti dell'anima no
te; la quale natura non è altro, come dice il stra. Perciocchè qualunque volta al senso o
Filosofo nel secondo libro della Fisica, che un appetito nostro si rappresenta alcuna cosa sotto
certo principio e cagione di movimento e di spezie d'utile, o di giocondo, o veramente di
riposo di quella cosa, nella quale è primiera bene, il quale non è altro che l'utile ed il
mente, per sè, e non per accidente; e queste giocondo insieme, subito essi primieramente si
tengono il secondo grado di perfezione. Per muovono a desiderarla, e noi poscia a fare
ciocchè, sebbene non mancano mai per se stesse tutto quello, per lo quale la possiamo con
SULL'AMORE
169
seguire, e così nasce primieramente il deside desiderio, allegrezza, timore e dolore; e que
rio, e poscia, conseguita da noi la cosa deside sto non mica di rado, o in diversi tempi, co
rata, l'allegrezza. Quando poi, per lo contrario, me negli altri uomini suole accadere, ma spesse
ci s'appresenta alcuna cosa, la quale, º sia o fiate, e ad un'ora medesima (la qual cosa è
ci paia cattiva e nocevole, noi di subito co di certo oltra modo maravigliosa, anzi del tut
minciamo ad averne paura, e volerla fuggire, te impossibile, se non se negli amanti, come
e quinci nasce prima il timore, e poscia, ve: vedremo); compose, non tante per alleggiamento
nuta quella cotale cosa, il dolore. Di questi e conforto suo, quanto per giovamento e di
quattro affetti e passioni dell'anima nostra, i letto altrui, il quale è il propio e vero fine
tre primieri si dividono, perchè possono essere d'ogni buon poeta, il presente artificioso So.
e buoni e rei, conciossiacosachè il desiderare netto, nel quale egli domanda amore poetica
quello che si deve, e come si deve, sia cosa mente, onde ciò gli avvenga, e quasi ripiglian
in ciascun luogo e d'ogni tempo lodevole, e il dolo si duole, che non gli basti di fare sen
rallegrarsi, e temere dove e quando si debbe, tire così forti, ed acerbe passioni agli amanti
non sia mai biasimevole. Il dolore non si di separatamente, ora una, ora altra, e non tutti
vide, perciocchè i saggi e costanti uomini non quattro insiememente ed in un tempo mede
deono nè attristarsi, nè affliggersi giammai, es simo. E induce Amore, che rispondendogli dice
sendo superfluo, e del tutto vano ogni dolore, questo essere fatto da lui in pro e benefizio
il quale o delle cose, le quali avvenute siano, degli amanti, acciò possano vivere; il che essi
o di quelle, le quali avvenire deggiano, si pi non farebbero, se gustassero separatamente e
glia. E perchè ciascuna virtù, come s'è detto soffrissero qual s'è l' una delle quattro; per
altre volte in questo luogo, consiste nel mezzo ciocche sono tanto forti e possenti ciascuna,
tra il poco ed il troppo, nasce che di questi che chiunque avesse qualunque di loro sola
affetti, tre sono saggi e temperati, onesto de e separata, incontamente ne morrebbe, non pos
siderio, onesta allegrezza e onesto timore, e sendo tollerare nè il dolore solo, tanto è grande
tre stolti e disordinati, soverchio desiderare, in amore, nè l'allegrezza separata, tanto è me
soverchio rallegrarsi, soverchio temere. La desimamente smisurata e possente. Perciò egli
quarta perturbazione, cioè il dolore, per le confondendo e mescolando l'una coll'altra, a
cagioni sopraddette non si divide. guisa, che nelle medicine vedemo, tempera in
Ora per venir finalmente al primo inten modo il dolore con l'allegrezza, e si fatta
dimento nostro, dico, che sebbene queste mente il desiderio col timore, che quello stes
quattro guise di perturbazioni si vedano suc so, che di per sè n'arrecarebbe danno gravis
cessivamente or l'una, or l'altra in tutte le simo e morte, mescolato ed insieme col suo
maniere degli uomini assai sovente, più spesso contrario è cagione di salute e di vita; rispo
però e più gravi, senza dubbio e comparazione sta accomodatissima e degna veramente non
alcuna negli amanti e innamorati uomini si ri meno dell'acutezza ed ingegno d'Amore, che
trovano, come si può manifestissimamente ve del giudizio ed accortezza del poeta, tessuta
dere, oltra la sperienza propia di ciascuno, in poi e vestita con tanto ordine e si leggiadra
tutti gli scrittori, e massimamente nei poeti, mente, quanto richiedeva l'invenzione e ri
così greci e latini, come toscani; e più chia trovamento del soggetto, come ciascuno potrà
ramente che in alcun altro luogo, in questo per sè stesso agevolmente vedere nella sposi
non meno dotto e grave, che leggiadro ed or zione delle parole.
nato Sonetto del Reverendissimo, e non mai
bastevolmente lodato monsignor M. Pietro Bem A questa fredda tema, a questo ardente
bo, il quale noi per ubbidire al secondo Prin Sperar, che da te nasce, a questo gioco,
cipe nostro, e seguitare il lodevole, s'io non A questa pena, Amor, perchè dai loco
m'inganno, e utilissimo costume della nostra Nel mio core ad un tempo, e si sovente?
felicemente incominciata Accademia, secondo Ond'è ch'un alma fai lieta e dolente
l'ordine posto dal molto nobile e reverendo Insieme spesso, e tutta gelo e foco?
monsignor M. Leone Orsino Autore e primo Molte varietati era a te poco,
Principe nostro meritissimo, avemo eletto a Se separatamente uom prova e sente?
dover esporre e dichiarare, secondo le deboli Risponde: Voi non durareste in vita,
Tanto è 'l mio amaro e 'l mio dolce mortale,
e picciole forze nostre questa mattina. Il sog
getto del quale, mentre io con brevi parole Se n'aveste sol questa o quella parte.
vi narrarò, pregovi ad ascoltarmi benigna Confusi, mentre l'un coll'altro male
mente, ed intentamente come fate. Contende, e scemal di sua forza in parte,
Quel che v'anciderla per sè, v'aita.
IL SOGGETTO
Questo sonetto, per quanto a me ne paja,
è in istile mezzano, come di vero si conveni
Sentendo il gentile e dottissimo poeta no va, perciocchè essendo in dialogo si richie
stro, che del grande, e verace amore, il quale deva lo stile umile e familiare; e trattan
egli alla sua carissima e leggiadra donna portava do di materia grave e filosofica, si ricercava
non forse meno, che il Petrarca a Laura santa, sag stile alto. Onde il poeta con giudizioso arti
gia, cortese, onesta e bella, gli nascevano den ficio, mescolò l'uno con l'altro, usando però
tro il cuore tutte quattro quelle perturbazioni, parole più alte e gravi, che dolci e leggiadre,
delle quali noi abbiamo ragionato di sopra, cioè, e massimamente negli otto versi primi, come
VARCHI
22r
LEZIONE PRIMA
17o
richiedeva la materia. Esso si può dividere in due Pose ancora studiosamente il Vicario Amor, do
parti principali; ne due primi quadernari, dove po tutte le quattro passioni, ed usò la figura
è la dimanda del Poeta ad Amore, e negli ul la quale i gramatici latini, tolto il nome dai
timi duoi ternari, dove si contiene la risposta Grcci, chiamano Zeuma, la quale noi potremmo,
d'Amore al Poeta; l' ordine del primo qua per avventura nominare congiugnimento, di
dernario, e la costruzione va così: cendo: che da te nasce, e non che da te na
scono. E questo fece affinchè s'avesse a re
a « « - - - - - . (1) plicare quattro volte tutta quella parte: Amor,
Vedete ora come poeticamente, con quanta ar perchè dai loco a questa fredda tema, che da
te, con che gravi parole, con quanto dolce al te nasce? a questo ardente sperare, che da te
terezza dimandando amore, mise nei tre versi nasce ? a questo gioco, che da te nasce? a que
primi tutte le quattro perturbazioni, delle quali sta pena, che da te nasce? Il che oltra l' a
abbiamo parlato, ponendo tema per timore, e vere una certa grandezza e veemenza, arreca
chiamandola fredda: perciocchè la freddezza ancora invidia e carico ad esso Amore, e per
seguita sempre il timore, e il timore la bian ciò pensatamente pose nell'ultimo luogo pena,
chezza, perchè come il caldo dirada quasi sem siccome aveva posto nel primo, tema, affin
pre, così il freddo condensa: onde egli mede chè si sentissero meglio e rimanessero nella
simo di sè stesso parlando disse a questo pro memoria dei leggenti queste due passioni ti
posito in quel vago e dotto sonetto: Tosto more e dolore, le quali sono amendue ree e
che 'l dolce sguardo Amor m'impetra: dolorose; e l'altre due speranza ed allegrezza,
che sono dolci e care, quasi sotto questo si
Ma 'l sangue accolto in sè dalla paura, nascondessero. Usò ancora con grandissimo ar
Si ritien dentro, e teme apparir fuore, tificio due ornamenti rettorici nelle medesime
Però son io così pallido, e bianco, parole, quello che si chiama articolo, non aven
seguitando forse quell'ammaestramento d'O- do posto a niuna delle quattro passioni copula
vidio; alcuna o congiunzione, acciocchè colla spessezza
Palleat omnis amans, color est hic aptus amanti. e prestezza del dimandare, quasi ferisse più
volte Amore e con maggior colpo, ed è quello
Per ardente sperare. – Pose la speme, cioè, che si chiama ripetizione, avendo replicato quat
il desiderio, perciocchè sempre insieme col de tro volte quella parola questo, due volte nel
siderio d'alcuna cosa nasce la speranza, e per genere del maschio e due del femminino, la qual
questo spesse volte si pone l'uno per l'altro cosa ha leggiadria e gravità, e massimamente
appo i buoni ed approvati scrittori, aggiuntavi la interrogazione e dimanda; e si
Per gioco. – Intese l'allegrezza ed il pia gnificando quel pronome questa, non tanto quel
cere, come si in molti altri luoghi M. Fran la che è in me, e che da te mi viene, quanto
cesco Petrarca, e sì nel sonetto: – Quando cotale e così grande; perciocchè queste pas
mi viene innanzi il tempo e 'l loco: sioni, come qualità, ricevono il più ed il me
Che l'amar mi fe' dolce e'l pianger gioco (2). no, essendo ora maggiori, ed ora minori, come
è notissimo; e più ha cagione di dolersi chi
Per pena il dolore. – E così variò artifizio maggiori e più agre le soffra.
samente tutti i quattro nomi delle quattro per Dai loco. – Dar luogo usò il Petrarca due
turbazioni.
volte in quella significazione, che lo pigliano
È ancora degno di considerazione, che aven i Latini, nella canzone: – Nella stagion che
do dati ad amendue le prime gli epiteti ed il ciel rapido inchina, dove disse:
addiettivi, per dir così, e fatto la prima nome
e di genere femminino, e l'altra verbo, e di Come 'l Sol volge le infiammate rote
genere maschio, ovvero neutro, non aggiunse Per dar luogo alla notte, onde discende
alle due ultime gioco e pena, cosa alcuna; Dagli altissimi monti maggior l'ombra (1);
ed essendo tutte due nomi, fece la prima di tolto da Virgilio, che nella Buccolica dice :
genere mascolino e l'altra del suo contrario.
E perchè il timore ed il desiderio, inteso qui Nec serae meminit decedere noctis;
per la speme, sono contrari, diede loro con dove egli tolse ed imitò non solamente il con
trari epiteti; e sebbene il vero e propio con cetto e la sentenza, ma le parole ancora, co
trario di fredda tema era caldo sperare, ha me fece nel seguente con non minore arte e
però più del poetico, ed è più gentile in questo leggiadria tolto dal medesimo nella medesima
luogo ardente, che caldo, ed anco dimostra forza
opera:
maggiore ad imitazione del Petrarca: il quale
disse: Majoresque cadunt altis de montibus umbrae.
Amor, ch'incende il cor d'ardente zelo, Ed altrove disse:
Di gelata paura il tien costretto (3).
Che 'l Sol si parta e dia luogo alla Luna (2).
(1) Qui c'è evidentemente una lacuna nell'edizione del Ma qui dare luogo significa: Perchè soffri º
Giunti che noi seguiamo: lacuna che non possiamo riempire
in alcun modo poichè altra edizione di queste lezioni del Var
perchè consenti? perchè fai, che possa essere?
chi non fu fatta mai, come già dicemmo. (M.)
(2) Son. CXXIII, Parte I. (1) Canz. IV, St. II, Parte I.
(3) Son, CXXX, Parte I. (2) Sestina VII, Parte I.
SULL'AMORE 15 I
i quasi inſerendo essere impossibile, come in ve a un tempo, cioè ad un'ora medesima, è fuori
ro è, che i contrari possano stare insieme se al tutto d'usanza e d'ogni credenza. Aggiunse
non per virtù e potenza d'amore, come li nel mio core, non meno con artifizio, che ne

' mette il Petrarca più volte,


Che n” un punto arde, agghiaccia, arrossa e
'mbianca;
cessariamente, perciocchè i contrari possono
bene stare insieme, e spesse ſiate ancora, ed
in un tempo medesimo, ma non già in uno stesso
soggetto, come era qui nel cuore del poeta.
avendo detto di sopra più chiaramente, Onde per maggior chiarezza, e più chiara ed
agevole intelligenza è da sapere, che Aristotile
In riso e 'n pianto, fra paura, e spene (1), ne'Predicamenti diffinisce i contrari esser quelli,
nel sonetto. – Questa umil fera: e nel sonet i quali, in un genere medesimo, sono grandissi
to: – Amor fra l'erbe una leggiadra rete, disse mamente lontani; come, verbigrazia, la circon
tolto via il timore, il quale non gli faceva a ferenza del cerchio ed il suo centro, della quale
proposito: niuna maggiore distanza trovare non si puote.
Ed altrove disse: Contrarie sono tutte quelle
E'l piacere, e'l desire, e la speranza (2). cose, le quali non possono stare in un subbietto
Similmente il Poeta nostro ad imitazione del medesimo a un medesimo tempo. E questo si
Petrarca, il quale niuno spresse mai nè più debbe intendere in atto e non in potenza, ed
puramente, nè più felicemente, mise in un ver in una parte medesima, perciocchè se duoi con
so solo tutte quattro quelle perturbazioni, in trari si potessero ritrovare insieme in un me
quel suo dotto e vago sonetto: Già vago or desimo subbietto ed in una parte medesima a
sovr ogn' altro orrido colle, nel duodecimo un medesimo tempo, ne seguitarebbe di neces
Verso: sità, che due contraddittori potessero essere veri
parimenti; il che è impossibile, perchè se que
Che speri, o tema, o goda, o si consume. sto fosse, quello che è, non sarebbe, e quello
E più chiaramente nell'undecimo verso di quello che non è, sarebbe ; e così non solamente la
così puro, così dolce, così amoroso e gentile filosofia, ma essa natura ancora verrebbe a cor
sonetto: Son questi quei begli occhi, in cui mi rompersi. Che risponderemo dunque a questo
rando, il quale io per parermi oltra misura luogo, dove non pure duoi contrari, ma quattro
vago e leggiadro, e veggendo quanto voi ascol erano in un medesimo cuore in un tempo me
tate volentieri, reciterò tutto, certo d'avervi a desimo insiememente? Forse, quello che rispose
dilettare. Amore in un dubbio e dimanda simile a M.
Francesco nel sonetto: Io mi rivolgo indietro a
Son questi que begli occhi in cui mirando ciascun passo, quando dice:
Senza difesa far, perdei me stesso?
E questo è quel bel ciglio, a cui si spesso Ma, rispondimi Amor: Non ti rimembra,
Invan del mio languir mercè dimando ? Che questo è privilegio degli amanti,
Son queste quelle chiome, che legando Sciolti da tutte qualitati umane (1)?
Vanno il mio cor, sì ch'ei ne more espresso? E certo gli uomini veramente innamorati
O volto, che mi stai nell'alma impresso
Perch'io viva di me mai sempre in bando! sono assai più che uomini, ed a loro sono pos
sibili cose, che a tutti gli altri sono impossi
Parmi veder nella tua fronte Amore bili, come si può vedere chiaramente non meno
Tener suo maggior seggio, e d'una parte nei filosofi che nei poeti, e, più che altrove,
Volar speme, piacer, tema e dolore: nel Convivio del divino Platone. O piuttosto
Dall'altra quasi stelle in Ciel cosparte, diremo quello che risponde Alessandro nobilis
Quinci e quindi apparir senno, valore simo Peripatetico nel primo libro delle sue qui
Bellezza, laggiadria, natura ed arte. stioni naturali nella dodicesima quistione, cioe
Maravigliosa dolcezza certamente, incredibile che dilettazione e tristizia non sono contrari
armonia, s'io non m'inganno, s'ode in questo semplicemente e sempre, ma solamente quando
sonetto, tessuto con arte grandissima; come si comparano ed agguagliano a una cosa me
altra volta mostreremo ; dove è da notare, che desima; perciocche non ogni allegrezza s'op
siccome nel sonetto Già vago, si sprimono que pone, ed è contraria a qualunque dolore, ma
ste quattro passioni con quattro verbi speri, ad uno determinato solamente. E così si scioglie
tema, goda, consume, così in questo si dichia dai filosofi la quistione ed il dubbio d'alcuno,
rano con quattro nomi, come fece ancora Pe il quale abbia fame e mangi, perchè in costui
trarca. -

si ritrova dolore e piacere a un tratto, ma se


Ma tempo è omai di venire al quarto verso: condo diversi rispetti: dolore in quanto ha bi
Nel mio core ad un tempo e si sovente. Questo sogno di cibo e nutrimento; piacere in quanto
verso è non meno maraviglioso, che i tre su piglia e riceve; e così potremo dire per ven
periori, conciossiacosachè sentire e soppor tura in questo luogo e negli altri somiglianti.
tare queste quattro passioni successivamente Notaremo ancora che dicendo nel mio core, se
ed alcuna volta accade ancora a degli altri, guita parte l'opinione di Platone, come fa le
ma soffrirle sì sovente, cioè tanto spesso, ed più volte il Petrarca, e parte quella dei Pe
ripatetici. Conciossiachè Platone divideva l'ani
(1) Son. CI, Parte I.
(2) Sou. CXXIX, Parte I, (1) Son, XI, Parte I.
172 LEZIONE PRIMA
ma e la distingueva non solamente secondo la dai rei; e dovrà (gran fatto!) vedere, che come
ragione sua e diffinizione, ma ancora secondo disse Virgilio:
il subbietto, ponendo la parte razionale nel
cervello, onde il Petrarca disse: In tenui labor, at tenuis non gloria si quem
Numina laeva sinunt, auditoue vocatus Apollo.
Ovvero al poggio faticoso ed alto (1);
Molte varietati era a te poco – Se separatamente
e l'irascibile nel cuore e la concupiscibile nel uom prova e sente. Questo è il luogo, dove egli
fegato. Ma Aristotile la divise secondo la dif si duole e quasi riprende Amore, che non gli
ſinizione sola, non altramente, che la circon basti che gli amanti sentano e provino queste
ferenza d'un cerchio, la quale secondo il sub cosi agre ed acerbe passioni separatamente ed
bictto non è diversa ma una sola, e facendo in diversi tempi, come fanno gli altri uomini
la considerazione è diversa, perchè la parte di non innamorati, ma voglia che le soffrino tutte
fuori si chiama il convesso, e quella di dentro ad un'ora; e quella parola separatamente, ri
il concavo; e così la via di qui a Firenze, e sponde e si contrappone a quella ad un tempo,
da Firenze a qui è nel subbietto ed in verità ed a quell'altra insieme – Molte varietati, cioè
una medesima, ancora che sia diversa, secondo diversità e contrarietà, cavato da quel sonetto
varie considerazioni e rispetti. Nè però si dee del Petrarca allegato di sopra da noi:
credere, che Platone volesse distinguere l'ani
ma, come s'ella fosse divisa in varie parti e Non può più la virtù debole e stanca
diverse membra; ma voleva significare che le Tante varietati omai soffrire.
potenze dell'anima esercitavano le operazioni Uom invece d'uomo. Questa parola è presa ed
loro principalmente, mediante cotali membri, usata da Toscani variamente, come ancora dai
come strumenti.
Latini, come quando Cicerone dice, uomo in
Ma di questo non è tempo ora; però ver tendendo di Verre o di qualcun altro, e signi
remo, col nome ed aiuto del Padre ed Autore fica non solamente ille, ma ancora ego, come
di tutte le cose, al secondo quadernario di que in quello antico e nobilissimo Epigramma;
sto sonetto:
Pastores orium, teneracque propaginis agnum
Ond'è ch” un'alma fai lieta e dolente Quaeritisignem'ite hucquaeritis?ignis homoest.
Insieme spesso, e tutta gelo e foco?
Così ancora in toscano significa alcune volte
Fa il Poeta nostro in questi duoi versi quello esso uomo, cioè l'idea o veramente spezie del
che sogliono fare molte volte i buoni poeti, e l'uomo, come dice Dante in quella sua dottis
talora gli oratori a maggiore spressione ed or sima canzone chiamata contra gli erranti, dove
namento, cioè ripiglia leggiadramente e con arte favella della nobiltà:
appena conosciuta, usando diversi modi e pa Chi diffinisce l'uom legno animato
role, tutto quello che egli aveva detto nei primi Prima dice non vero.
versi di sopra. Il che fece più volte Virgilio,
come in quel luogo nel primo della sua divina E dopo 'l falso parla non intero (1).
Eneide:
Ed alcuna volta significa alcun uomo partico
Nec dum etiam causae irarum saevique dolores lare certo, come quando il Petrarca disse:
Ecciderant animo; manet alta mente repostum Il sonno è veramente quale uom dice (2),
Judicium Paridis, spretacque injuria formae.
i dove pare che voglia intendere di Virgilio, che
dice nel sesto:
Consideriamo ora con quanta arte e varietà il
facesse. Quelle parole, Ond'è che fai, rispon Et consanguineus leti sopor.
dono a quelle di sopra: Perchè dài loco – Un'
alma risponde a quello : Nel mio core – Lieta Tal volta ancora significa una persona incerta,
a gioco: dolente a pena: insieme a quello ad come il medesimo Petrarca:
aun tempo: spesso a sì sovente: tutta gelo a fredda Come uom, ch'a nuocer luogo e tempo aspetta(3).
tema: tutta foco a ardente sperare. E qui non
usò l'articolo, ponendo a tutte la congiunzione, Ed il nostro Poeta medesimamente dice in un
e non fu senza maestria ripigliare primieramente suo dolce ed alto sonetto di quelli che non
le due passioni ultime, e le due prime porre sono ancora stampati, il quale comincia: –
nell'ultimo luogo. E bellissimo ancora ed inge Quella, che co' begli occhi parch invoglie, dice,
gnosissimo l'avere cangiato i modi del dire e dico, nel verso dodicesimo:
le parole; e se alcuno fosse che si desse a cre
Ch'io spero alzarmi, ov'uom per sè non sale.
dere che queste cose fossero leggiere, o venissero
fatte a caso, legga e consideri quello che ne Prova esente.-Possono significare questi duoi
scrive sua Signoria Reverendissima nel secondo verbi il medesimo tanto l'uno quanto l' altro,
libro delle sue dottissime e gravissime Prose, per quella figura chiamata da Greci Ecparal
e pensi bene in quello che sono differenti il più lelo usata spessissime volte da Latini, e parimen
delle volte gli scritti e componimenti perfetti te da Toscani, non tanto dagli scrittori in verso,
dagli ordinari e mezzani, ed i buoni scrittori
(1) Rime di Dante, lib. IV, Canz. III, Stanza III.
(2) Son. CLXXI, Parte I.
(1) Son. II, Parte I. h (3) Son. II, Parte I.
SULL' AMORE i 73

quanto da quelli di prosa. Possiamo ancora ri E là :


ferirne uno alle due passioni dolci e gioconde,
e l'altro alle due amare e spiacevoli. Parmi Mai questa mortal vita a me non piacque (1):
ancora non essere stato fatto senza misterio Ma in significato attivo, come nel secondo so
tre volte alla fila il punto interrogativo nel netto :
quarto, nel sesto e nell'ottavo verso. Concios Quando il colpo mortal là giù discese.
siachè, oltre l'arrecare gravità, mostra ancora
E nel sonetto:
maggiormente lo sdegno e la passione del Poe
ta, i quali se ad alcuno paressero troppo gran Io avrò sempre in odio la finestra,
di, dicendo che egli doveva, come saggio e Ond Amor m'avventò già mille strali
prudente e temperato uomo, raffrenare così fatti Perch alquanti di lor non far mortali (2).
desideri colla ragione e col consiglio; a que Potrebbesi ancora sporre così, non essendo il
sto tale direi io, che (oltra l'essere state fatte punto dopo quella parola dolce: il mio amaro
queste cose in gioventù, nella quale conven mortale ed il mio dolce mortale è tanto, cioè
gono) non pure non si disdicono molte, anzi si grande e di tal maniera e qualità, che voi
le più delle volte si fanno cotali componimenti (e s'intende, o amanti) – Non durareste in
più per esercitare l'ingegno e dilettare, che vita. – Non potresti sostenerli nè vivere, – Se
per altro, senzachè a poeti sono concedute n'aveste sol questa, o quella parte; – Cioè sen
troppo maggiori cose, che queste non sono. Ed
egli direbbe forse come nel sonetto, che co tiste o l'amaro solo, o il dolore solo, e sepa
mincia: Colà mentre voi siete in fresca parte; ratamente l'un dall'altro; perciocchè come si
nel fine del quale dice così: legge nelle storie, molti morirono già per so
verchia allegrezza, per dolore non mica cosi;
Perchè veggiate in me, siccome avvegna onde disse il Petrarca:
Di quel che Roma ne Teatri udiva, Ne credo, ch'uom di dolor mora (3);
Che ragione, o consiglio Amor non degna.
Ed i filosofi ancora dicono quasi ad un simil
Ma vegniamo ora alla seconda parte princi proposito, che l'eccellenza e superfluità dei
pale di questo sonetto: sensibili corrompono i sensi, come mostrò il
Risponde: Voi non durareste in vita, Petrarca in quel suo dottissimo e scurissimo
sonetto:
Tanto è 'l mio amaro, e 'l mio dolce mortale,
Se n'aveste sol questa o quella parte. Se mai foco per foco non si spense (4).
In questa seconda parte leggiadramente ed ar La qual proposizione s'intende in tutti i sensi,
tificiosamente tessuta, risponde Amore alla di eccetto in quel del tatto, perchè in questo il
manda del Poeta con brevissime parole, ma di troppo non solamente corrompe il senso, ma
grandissima sostanza e valore; perciocchè di l' animale ancora, come prova Aristotile nel
fine dell'ultimo libro dell'Anima.
mostrano amore ciò fare non per crudeltà, nè
per più affliggere gli amanti sottoposti al re Confusi, mentre l'un coll'altro male
gno ed alla potenza sua, come pareva, che il Contende, e scemat di sua forza in parte,
Poeta avesse voluto inferire, o come è l'opi Quel che v'ancideria per sè, v'aita.
mione comune di tutti gli innamorati; anzi per Confissi, cioè essendo mischiati e mescolati
lo contrario tutto farsi in bene e pro'di Ioro, insicme l'amaro ed il dolce, che amenduc
affine che potessero mantenersi in vita. Dice
chiama mali, perciocchè amendue separati e
dunque Amore; perciocchè quel risponde è pa divisi l'uno dall' altro sono mortali, variando
rola del Poeta, e vi s'intende amore per una
sempre artifiziosamente le parole, e più ar
figura chiamata da Latini per nome greco
Elrpsis, cioè difetto e mancamento, come usò tifiziosamente accrescendole, perciocchè più è,
il Petrarca nel sonetto: Deh porgi mano al
come più generale, amaro, e dolce per trasla
l'affannato ingegno (1). zione del gusto, che non è tema e pena, spe
me e gioco; e più è poi male, che amaro e
Il mio amaro è tanto mortale.-E per amaro
dolce, essendo più universale. Ed è questo
s'intendono qui quelle due ree e spiacevoli confusi, un modo di favellare toscano assai
passioni poste di sopra nel primo luogo e nel spesso usitato nella lingua nostra, invece e scam
P ultimo, cioè tema e pena, o veramente ti bio quasi de' participi in conseguenza, che ha
more e dolore; e similmente: – Il mio dolce
la lingua latina. – Mentre l'un coll'altro male,
è tanto mortale, e si piglia dolce per l'altre due cioè mentre l'amaro col dolce, cioè mentre,
perturbazioni, cioè per la speranza e per lo che 'l timore contende e combatte colla spe
gioco, ovvero desiderio ed allegrezza. – E tanto ranza, e l'allegrezza col dolore. Usò verbo ap
mortale, cioè in modo ancide ed ammazza, per
ciocchè mortale non è posto in questo luogo propiatissimo a contrari, i quali sempre com
battono per discacciare l'un l'altro. – Escemal,
in significazione passiva, come là: e lo scema e diminuisce di sua forza, di sua
Egri del tutto, e miseri mortali (2):
(1) Canz. V, Stanza II, Parte II.
(2) Son. LVII, Parte I.
(1) Son. LXXXVIII, Parte II. (3) Son. III, Parte II.
(2) Petr., Trionfo della Divinità. (4) Son. XXXIII, Parte I.
LEZIONE PRIMA
174
virtù e potere,- In parte, non del tutto, per
chè allora lo corromperebbe, e non sarebbe LEZIONE SECONDA
mescolamento; ma in qualche parte, che così
significa qui questa particella in parte, benchè sUR UN SONETTO DEL CASA E SULLA GELOSIA

altrove abbia diverso significato, siccome là:


E gir in parte, ove la strada manca (1). ALLA MoDTo NOBILE E VIRTUOSA DAMIGELLA
Ed altrove:

E la radice in parte, MARGHERITA DE BOURG


che appressar nol poteva anima sciolta (2). DAMA DE GAGE

Ed alcuna volta significa quello, che i Latini


dicono interea, e noi intanto, e mentre il che LUC ANTONIO RIDOLFI
medesimamente significa senza la in, come in
quel luogo del Petrarca:
E parte d'un cor saggio sospirando (3). Sgliono coloro che son nati più atti a poter co
noscere le virtù, avere quelle persone sommamente
Quel che per sè, e separatamente, o fosse il dol care ed in pregio grandissimo tenere, le quali
ce, o fosse l'amaro – cioè v'anciderla, v'anci più rare e più perfette essendo, alla divinità
derebbe, modo propio Provenzale, e del verso, maggiormente s'assomigliano ; perciocchè eglino
come n'insegna il medesimo autore nelle sue contemplandole bene e quanto si conviene sti
divine prose.–V'aita, cioè essendo così mesco mandole, colla considerazione di esse da queste
lato e confuso col suo contrario, e scemato in basse creature e caduche all'alta conoscenza del
parte di sua virtù, v'aita e v'arreca scampo loro immortale Creatore possono agevolmente per
e salute. Nè ci debbono parere nuovi ed inu venire: onde avviene che essi da così maraviglioso
sitati questi miracoli d'amore, i quali noi tutto affetto commossi, con somma fatica ed estrema
il giorno non pure udiamo e leggiamo, ma diligenza, le virtù acquistare s'ingegnano. Ma
eziandio proviamo e sentiamo, e chi pure nè coloro, a quali per la picciolezza dello intelletto
provati, nè uditi gli avesse giammai, legga quel poco capace a ricevere tanto alta e gran cosa,
lo che ne racconta Perottino non meno acu quanto le virtù sono, questo non viene fatto co
tamente che copiosamente nel primo dei così me eglino desiderano, si sforzano almeno con qual
dolci e leggiadri, come gravi e dotti Asolani, che onorato segno palesare al mondo l'amore e
e massimamente in quelle vaghe, ed oltra modo la reverenza che eglino ai possessori d'esse virtù
piacevoli, e maravigliose Canzoni, l'una delle portano veementissimo, servendosi, per dar ef
quali comincia;– Quando io penso al martire: fetto a questo loro ardente desiderio, delle altrui
e l'altra: Voi mi poneste in foco: le quali io più rare opere, poichè colle loro ciò conseguire
veggendo quanto volontieri ed attentamente non possono. Nel numero di questi ultimi, che,
ascoltate vi reciterò tutte (4); poi farò fine es molto volendo, poco o nulla vagliono, mi conosco
sendo l'ora di buona pezza trapassata. essere posto io, virtuosissima Madamigella, percioc
Queste sono, nobilissimi Uditori, quelle po chè, dacchè prima vividi e m'accorsi, voi di tanto
che e deboli cose, le quali in così breve tem valore e di sì lodevoli costumi essereornata, quanto
po, ed occupato in altri studi e diversi fastidi in gentil donna si possano desiderare e commen
ho saputo arrecare nella sposizione di questo, dare, subito mi prese così alta di voi maraviglia,
a mio giudizio, singolarissimo sonetto. e con essa tanta affezione e reverenza, quanta
Delle qualità, e lodi dell'autore d'esso non alcun altro di persona eccellente e rara potesse
ho voluto ragionare, sì per essere quelle tante aver giammai. E di ciò non contento, ma più
e tali, che omai sono in ciascun luogo notis oltre desiderando, mi nacque una ardentissima
sime e celebratissime, e sì per fuggire ogni so voglia di dimostrarvi con qualche lodevole effetto,
spetto d'adulazione, essendo egli, la buona di in quanto gran pregio e stima le rarissime doti
Dio mercè, ancora e vivo e sano, ed in istato concedutevi dal Cielo e le innumerabili virtù che
e grado onoratissimo certamente e grandissimo, col vostro bellissimo ingegno acquistate vi siete,
ma minore però della bontà sua e delle vir fossero appresso di me tenute. Ma poichè il Ciclo
tù, le quali io sempre con somma e singolare di quanto mi s'è liberale dimostrato in darmi
osservanza ho non meno amate ed onorate, che lume perch'io possa l'altrui eccellenti virtù chia
ammirate. ramente conoscere, di tanto m'è stato avaro in
donarmi forza e sapere, acciocchè io con qual
che mia ornata opera le potessi in alcuna parte
(1) Petr., Canz. II, Stanza II, Parte II. almeno riverire e celebrare ; ho meco medesimo
(2) Sest. VI, Parte I.
(3) Son. CC, Parte I. deliberato, tardare più oltre non volendo, a pa
(4) Le due Canzoni qui citate non trovansi inserite nel lesarvi questa mia buona ed amorevole intenzione,
l'edizione del Bembo: nè si è creduto di qui riportarle, per di ora mandarvi in dono (poichè cosa di voi più
chè avranno il lor luogo nel volume, che comprenderà le degna al presente non mi trovo) una molto dot
Opere del Bembo. (M.)
ta ed elegante Lezione del virtuosissimo M. Be
nedetto Varchi sopra un Sonetto del moltore e
rendo monsignor M. Giovanni della Casa, dove
si tratta della gelosia, da lui, già sono maoiti
SULL' AMORE
175
anni, in Padova nella famosissima Accademia è, dovete voi essere, dappoichè, come voi siete,
degli Infiammati stata letta: la quale ho dappoi esse similmente donne sono e valorose. Tal che
appresso di me in grande stima e fra le mie più dalle onoratissime operazioni vostre conchiuden
care cose tenuta, essendomi ella allora stata da do si può veramente dire, che voi siete una pre
esso autore, amicissimo mio, con somma benevo ziosissima Margherita, in oro finissimo legata,
lenza e liberalità donata e dappoi, con utili e di e siccome il fiore della fronde tiene la cima,
lettevoli quistioni, accresciuta. così voi delle belle doti dell'animo vostro in al
Piacciavi adunque, valorosa Madamigella, il to levata, tra le più rare e illustri donne va
picciolo presente, ma leggiadro certo e dotto mol gamente oggi fiorite. Grande adunque sarà l'ob
to, cortesemente ricevere, riguardo avendo non bligo che mi dovrà il dottissimo ed amicissimo
ai meriti vostri che incomparabili sono, ma al Varchi avere, che io il suo picciolo libro abbia
l'amorevolissimo animo del donatore e alla qua così altamente collocato: massimamente in que
lità del dono: del quale, s'io non m'inganno, sto primo giorno dell'anno, nel quale ordina
diletto ed utilità non mediocre dovrete ritrarre. riamente è costume, come sapete, dei più con
'erciocchè leggendolo con lieto animo, quanto qualche più eccellente dono le più da loro pre
grande sia lo amaro che col poco dolce d'amore giate persone, presentando onorare. Poi dico che
è mescolato, e quanti affanni e dolori colui so tale suo Trattato in compagnia di tante altre lo.
stenga che, di lui fatto servo, al suo imperio è datissime opere averà nel vostro preclaro e non
costretto ubbidire, brevemente intenderete. E ben mai abbastanza celebrato studio onorato luogo
che fuori della intenzione dell'autore io prenda e favorevole, e la dolcezza della sua eloquenza
ardire di presentemente donarlavi, spero nondi e l'altezza della dottrina sua nella vostra per
meno da lui gran lode e commendazione doverne .fetta e profonda memoria degnissimo albergo e
riportare, se io il cortese dono, che egli già mi famoso averanno. Ove io stimerò sempre grazia
fece, ora di quel basso luogo, ove egli per sua da Cieli avere ricevuta grandissima, se una ben
amorevolezza posto aveva, levatolo e in altissimo picciola parte della somma affezione e reverenza
collocandolo, umilmente e con ottimo giudizio a che vi porto, sarà da voi pure un minimo luogo
voi ridòno : conciossiacosachè a persona niuna d'ottenere degna reputata.
si poteva cotal Lezione certo presentare che di In Lione, il giorno primo dell'anno 155o.
voi più profondamente l'efficacia della sua dot
trina intendesse, e che quasi ape che del dolce
de' fiori si nutrisce, gustando la soavità della sua
LEzioNE DI BENEDETTo vARCHI NELL'AccADEMIA DI
eloquenza, maggior diletto ne prendesse. Percioc
PADOVA SOPRA UN SONETTO DEL CASA E SULLA
che voi non solamente nella vostra natia lingua
GELOSIA,
elegantemente parlando e dottamente scrivendo
gli alti concetti vostri mandate fuora, ma avete
ancora sì bene e la toscana e la latina apparata,
che così in quelle parete nata, come nella stessa Siccome l'ineffabile e incomparabile Dio, au
vostra francese siete. Ma che dirò io, oltre alle tore e conservatore dell'universo, non sola
lingue, delle scienze che voi così divinamente pos mente è, ma è ancora beatissimo e perfettissi
sedete? Meglio è certo onestamente tacerne, che, mo, oltra ogni credenza ed immaginazione uma
ragionandone, dirne poco, e poco ornatamente. E na, così diede a tutte le cose, Principe nostro
nel vero a voler dire come si converrebbe abba meritissimo, onoratissimi Padri, e voi tutti, ar
stanza le lodi delle vostre infinite virtù, della vostra dentissimi Infiammati, non solamente l'essere
unica grazia e bellezza, de leggiadri e onestissi semplicemente, mediante il quale fossero ma
mi costumi saria di mestieri l'efficacia e gli or. ancora il bene e perfettamente essere, quan
namenti del vostro stesso stile potersi ampiamente to la natura di ciascuna poteva capere il più.
usare ; perciocchè voi sola, di voi medesima po E quinci è, che cercando tutte le cose d'as
treste a pieno e acconciamente ragionare. E qual somigliarsi al Fattore loro, quanto più possono,
maggior contezza si può egli avere del divino desiderano naturalmente sovr ogn'altra cosa
- intelletto vostro, che il vedere l'ornato ed eccel non pure l'essere, ma l'essere eziandio perfette
lente studio, che avete così singolarmente nelle e beate, quanto a ciascuna maggiormente si
vostre case fabbricato? Ove oltre all'ornatissime conviene. E perchè, come dice il filosofo nel
e celesti pitture, sono tanti e tanti eccellenti li primo libro del Cielo, Dio e la Natura non
bri cosi toscani e latini come francesi: di geo fanno miuna cosa invano, hanno tutte alcuni
metria e d' astrologia infiniti strumenti e sì rari: mezzi, o facoltà, ovvero possibilità così d'a-
si belle per tutto ed eleganti sentenze, pure dei cquistare queste due cose, come di conservarle.
tre detti idiomi, a lettere d'oro scritte; accioc Perciocchè quanto all'essere semplicemente,
che ovunque si volga la vista, non si possa cosa hanno dalla natura stessa una certa prontezza
ne vedere, nè leggere, che conforti l'uomo ad o inchinazione che la voglian chiamare, di
altro che ad onestamente vivere e virtuosamen guardarsi e difendersi secondo le forze loro da
te adoperare, tal che non studio dev'egli es tutte le cose, che le potessero offendere in al
sere, ma piuttosto museo nominato. Poichè quivi, cun modo e corromperle. Quanto al bene es
come in loro più caro ed onorato albergo, le sere, hanno un appetito medesimamente natu
nove Muse del continuo dimorano, e voi, quasi rale, mediante il quale desiderano tutte e cer
loro Apollo amandole, le guardate sempre e cano il bene, o quello che par loro che sia
guidate: e molto più cara loro che Apollo non bene, e per lo contrario fuggono sempre ed han
i 76 LEZIONE SECONDA

no in odio tutto quello o che è, o che da esse di godere la bellezza con unione, nasce sem
è giudicato esser male, conciossiachè molte pre; della quale niuno poeta nè Greco, nè
volte s'ingannino. Nè per altro è da stimare, Latino (siami lecito dir liberamente quello, che
che fosse data la cognizione de sensi tanto l'e- io intendo) scrisse giammai che io vedessi, nè
steriore, per dir così, quanto l'interiore agli tanto, nè si dottamente, quanto duoi rari, e
animati, se non perchè potessero giudicare; ed quasi divini ingegni del secol nostro; l' uno
acciocchè il giudizio gli spignesse al bene, o de quali, e 'l più vecchio, fu il molto dotto
li ritraesse dal male; e gli atti di queste ſa e giudizioso poeta M. Lodovico Ariosto, Ferra
coltà e potenze, c'hanno l'anime nostre da na rese, l'altro è il molto reverendo e virtuosis
tura, di seguitare le cose che giovino, e schi simo monsignor M. Giovanni della Casa, Fio
fare le nocevoli, furono chiamati affetti ovvero rentino; l'uno nel principio del trentunesimo
perturbazioni da Latini; i Toscani, seguitando canto dell'opera sua; l'altro in uno non me
in questo, come in molte altre cose i Greci, no grave e dotto, che ornato e leggiadro So
li chiamano per appropiato e convenientissimo netto, fatto da lui nel primo fiore della gio
nome passioni; perciocchè tutto l'animo come vinezza sua. Il quale io, per seguitare il lode
movendosi in essi ed eccitandosi, viene a pa vole costume di questa fioritissima Accademia
tire. ed obbedire a te, Principe nostro degnissimo,
Ora di tutte queste perturbazioni ovvero pas ho tolto a dovere oggi leggere ed esporre, se
sioni, le quali hanno loro essere nella parte condo le poche e debolissime forze mie. Della
irrazionale dell'anima nostra e sono principal bontà e dottrina dell'autore d'esso favellare,
mente quattro, come mi ricorda aver detto come si richiederebbe, mi vieta non meno la
altra volta in questo luogo più stesamente, non grandezza loro ed insufficienza mia, che la pa
è dubbio alcuno, che l'amore è di grandissima tria comune e la modestia sua, benchè l'una
lunga la più forte e la più potente, come quello e l'altra è, son certo, notissima alla maggior
dal quale, se bene si considera, procedono tutte parte di voi, e parte ancora ne dovrà gran
l'altre. Onde non senza cagione fu detto dal fatto mostrare il presente maraviglioso sonet
padre e principe de' poeti latini: – L'amor to, il quale mentre che io recito e dichiaro,
vince tutte le cose. E gli antichi poeti e teologi statemi, prego, ad ascoltare intentamente come
greci non vollero significare altro sotto il ve solete.
lane della favola di Paride, il quale, lasciata Cura, che di timor ti nutri e cresci,
Pallade, dea della sapienza, e Giunone, intesa E tosto fede a tuoi sospetti acquisti,
per le ricchezze, s'apprese a Venere, madre E mentre colla fiamma il gelo mesci
degli amori. E la cagione di questa maravigliosa Tutto il regno d'Amor turbi e contristi,
e incredibile potenza d'amore è, perchè, sic Poi che 'n breve ora entro 'l mio dolce hai misti
come la volontà nostra signoreggia e governa
tutto l'animo, così amore governa e signoreggia
Tutti gli amari tuoi, del mio cor esci: si
Torna a Cocito, è lagrimosi e tristi
la volontà, il quale la tira e rapisce al suo Ghiacci d'inferno: ivi a te stessa incresci.
bene. E questo moto è incitatissimo e veemen Ivi senza riposo i giorni mena
tissimo di tutti gli altri, sì per sè, essendo l'a- Senza sonno le notti, ivi ti duoli
mor potentissimo, e sì perchè nasce e cresce Non men di dubbia che di certa pena.
con volere e somma prontezza e piacere della Vattene: a che più fera che non suoli,
volontà; onde è non altramente quasi, che se Se 'l tuo venen m' è corso in ogni vena,
alcuno fosse non solo gagliardissimamente e Con nuove larve a me ritorni e voli?
da una forza eccessiva, ma volentieri ancora
spinto in verso il chino. E di vero se la na
tura, la quale in molte cose è creduta da molti IL SOGGETTO
piuttosto matrigna nostra, che madre, non aves
se ordinato, che tutti i dolci nostri fossero Il soggetto di questo altissimo sonetto, il
mescolati sempre d'alcuno fiele, troppo felici quale è e di concetti e di parole e d'ordine
senza dubbio niuno sarebbero e troppo beati di rime tutto grave e tutto d'una dogliosa e
gli amanti. Ma siccome niuna dolcezza, niu compassionevole indignazione ripieno, pare a
na gioja, niuna felicità è tanto piacevole, tan me, che sia di volere insegnare e dichiarare
to cara, e tanto desiderata, quanto quelle, non meno secondo il vero e da filosofo che
che d'amor si traggono, così tutti gli amari, poeticamente, che cosa è gelosia; onde nasca,
per lo rovescio, tutte le noje, tutte le disav si nutrisca, e quanto sia rea e dannosa. E ciò
venture trapassano quelle senza comparazione dimostra per gli effetti ed accidenti suoi: i
ed avanzano, che in amando si sentono, come quali, essendo più noti a noi e più manifesti,
bene provano ed efficacemente gli amanti Pe che le cagioni e le sostanze, giovano in gran
rotiniani. È ben vero, che tutti gli sdegni, tutti parte, come testimonia Aristotele nel primo
i martiri, tutte le pene e, brevemente, tutte l'al dell'anima, a conoscere la natura di checches
tre passioni d'amore poste in un luogo, sa sia. E però finge, oppure che così nel vero fos
rebbero niente, o piuttosto soavissime, verso se, di dar licenza e scacciar da sè questo sozzo
quell'una paura e sospetto, anzi peste e ve mostro e infernal furia, la quale col suo tri
neno, chiamata da noi gelosia, la quale insie stissimo e potentissimo veneno gli aveva per
me con amore, il quale non è altro, come s'è turbate in un subito e volte in amaro tutte
più volte detto in questo luogo, che disiderio le allegrezze e dolcezze sue amorose; nè rifi
SULL'AMORE a i

miva, come se questo fosse stato poco, di per o per goderla noi soli, o perchè la goda solo
turbargliele ognora più diventando sempre mag quegli cui volemo noi. -

giore. E benchè si potesse dividere principal Ora non è dubbio niuno, che la gelosia è
mente in due parti, nel primo quadernario e una spezie d'invidia, e sebbene non seguita
in tutto il restante, noi per maggiore agevolez necessariamente, che dovunque è invidia, sia
za, essendo questa materia assai ben difficile, gelosia, seguita bene di necessità, che dovun
lo dividiamo in quattro. que è gelosia sia invidia, come ciò che è ani
male, non è uomo, ma bene ciò che è uomo,
Cura, che di timor ti nutri e cresci, è animale. Onde Platone diffini, il geloso essere
E tosto fede a tuoi sospetti acquisti, colui, il quale ha invidia per sospetto amoroso.
E mentre colla fiamma il gelo mesci, E per questo forse disse il leggiadrissimo lirico
Tutto 'l regno d'Amor turbi e contristi. nostro M. Francesco Petrarca in quel suo dol
In questa prima parte, nella quale si con cissimo sonetto:-Liete e pensose, accompagnate
tengono tutte le quattro cose narrate di sopra e sole;
non meno brevemente, che dottamente, favella
La qual ne toglie invidia e gelosia (1).
il Poeta alla gelosia, ed artifiziosamente non la
chiama per lo suo dritto nome, ma la circon Benchè, siccome egli fa alcuna volta poetica
scrive, dicendo: –Cura, che di timor ti nutri mente Madonna Laura innamorata di sè mede
e cresci: con quello che segue. Il che fece an sima, a guisa di Narciso, come nel sonetto:-
cora l'Ariosto nella prima stanza; il quale in Il mio avversario in cui veder solete (2): e in
manzi, che le dicesse il nome propio, la dinotò quella dolce, e vaga canzone, che comincia: –
con cinque vocaboli, peggior l'uno, che l'altro; Se 'l pensier che mi strugge:
che furono questi: sospetto, timore, martire, fre
nesia e rabbia. Ma perchè ciascuno di que Se forse ogni sua gioia
sti quattro versi è pieno di dottrina, e tutta Nel suo bel viso è solo,
la difficoltà consiste in questa prima parte; E di tutt'altro è schiva (3):
però noi, per più chiara intelligenza, li di e quello che seguita: così pare la faccia ancor
chiararemo a uno a uno, con più facilità che gelosa alcuna volta di sè stessa. Il che mede
potremo, e come sapremo il meglio. simamente fece il dottissimo Molza nella fine
Cura, che di timor ti nutri e cresci. d'un suo bellissimo sonetto, dove confortando
la donna sua a lasciarsi mirare da lui, e chia
Conciossiachè in questi primi versi ei diffi mandola suo sole, conchiude: voi non dovre
nisca, o più tosto descriva la gelosia, ed es ste aver tanta paura nell'esser guardata da chi
sendo due maniere di diffinizioni una che di
vi ama, che voi temeste a voi d'esservi tolta.
chiara il nome, e l'altra che dimostra la co
Ma lasciando al presente il parlare della ge
sa; è da sapere primieramente, che questo vo losia che hanno i padri delle figliuole, i fra
cabolo greco Zn A3ruria, composto di due vo telli delle sorelle ed altre somiglianti, e ragio
ci, onde è derivato nella nostra lingua gelosia, nando solamente di quella degli amanti, dico
non significa altro, che una emulazione ovvero che in tre modi potemo avere gelosia; cioè,
invidia di forma, ovvero bellezza; del quale quando noi non vorremmo che un altro con
nome pare, che manchino i Latini veramente. seguisse o quello che avemo coseguito noi, o
Marco Tullio la tradusse obtrectatio, e la dif quello che desideriamo di conseguire, o quello
fini una passione che alcuno ha, perchè un al che avemo cercato di conseguire, e non l'avemo
tro gode e possiede quello, che vorrebbe pos potuto ottenere. E nasce questa gelosia dalla
sedere e godere egli solo. Altri dissero la ge cupidigia nostra propia, la quale è di quattro
losia essere una sospizione, la quale ha l'aman maniere: di piacere, di possessione, di proprietà,
te circa la cosa amata, ch'ella non s'innamori d' onore,
d'un altro. Altri la gelosia essere un pauroso Per cagion di piacere è la gelosia, quando
sospetto dell'amante che la cosa amata, la quale noi amiamo tanto il piacere, che si cava della
egli non vorrebbe avere comune con alcuno, cosa amata, che noi lo ci vogliamo godere tutto
non faccia copia di sè a niuno altro; le quali soli, e pensiamo che dovesse scemare e farsi
tutte significano in effetto una cosa medesima, minore, se si comunicasse con altri. E di que
ma sono particolari, e non universali, come
vorrebbero essere le vere e perfette diffinizio sto pare che favelli divinamente, come fa sem
pre, Tibullo in quella dolcissima elegia:
ni. Conciossiachè queste non comprendono se
non quello, il quale è geloso per desiderio, e Quidni si fueras teneros laesurus amores,
concupiscenza sna propia, cioe per godere egli Foedera per Divos clam violanda dabas?
solo: come se non vi avesse gelosia delle figliuole, Ed in quell'altra ancora non men dolce e leg
delle madri, delle sorelle, e d'altre, o parenti, o giadra, il cui cominciamento è:
benevole, o in qualche modo sotto la cura, tutela
e protezione nostra, le quali non desideriamo di Semper ut inducar, blandos offers mihi vultus:
godere per noi, ma non soffriamo che altri con Post tamen es misero tristis et asper, Amor.
tra la voglia o onor nostro non le goda. E però
diremo, che la gelosia è una paura o sospetto (1) Son. CLXVII, Parte I.
che alcuno, il quale noi non vorremmo, ne go (2) Son. CXXX, Parte I.
da alcuna bellezza; e questo per due cagioni, (3) Csn, X, Stanza vi Parte I.
YArc HI 23
178 LEZIONE SECONDA

Quid mihisaevitiae tecum est?an gloria magna est ancora di che nasce; perchè, come n'insegna
Insidias homini composuisse Deum ? il Principe de filosofi, noi ci nutriamo agevol
mente di quello, di che nasciamo. Nè gli bastò
La qual noi traducendo già nella nostra lingua aver detto questo, ma aggiunse ancora: cresci
a nostro proposito dicemmo così: ll che fu fatto da lui con ottimo giudizio; per
Sempre acciocch'io più volentier m'inveschi, ciocchè la gelosia può, come l'altre qualità, e
Con lieti risi e graziosi cenni, crescere e scemare, e scema e cresce per quat
Dolcemente da prima, Amor, m'adeschi, tro cose e modi: secondo le persone, secondo
Ma poscia, lasso! come tuo divenni, i luoghi, secondo i tempi, secondo le faccende.
Sì mi governi giorno e notte, ch'io Le persone mediante le quali cresce e scema
Altro che danno e duol mai non sostenni. la gelosia, sono tre appunto: quella che ha la
A che sei tanto in me spietato e rio? gelosia, quella di chi s' ha gelosia, quella per
E però gloria tal con forza e 'nganni chi s'ha gelosia.
Tender lacciuoli ad uom mortale un Dio? Quanto alla persona del geloso, quelli che
Di possessione è, quando noi desideriamo di conoscono non aver in loro virtù o qualità da
possedere per noi la cosa amata, e temiamo di piacere, o essere stimati, ingelosiscono più to
non perderne la possessione, se diventasse amica sto e maggiormente; la qual cosa ne insegna
d'un altro; e di questa favella Properzio in giudiziosamente, come suole, M. Giovanni Boc
caccio nella nona Novella della settima gior
quella elegia, che ha il principio a questo
modo: nata in persona di Arriguccio Berlinghieri, come
può ciascuno vedere per sè stesso leggendola.
Eripitur nobis jampridem cara puella, Importa ancora grandemente, di che natura sia
E in me lacrymas fundere, amice, vetas? il geloso, che se è ordinariamente persona so
Di proprietà, quando possediamo la cosa spettosa, e si piglia ogni cosa in cattiva parte,
amata, e la vorremmo tutta per noi, senza che interpretando sinistramente ciò che ode e vede,
alcuno v'avesse parte nissuna, e di questa parla accresce la sua malattia quasi in infinito. E
il medesimo Poeta nell'elegia a Liceo poeta: di questa maniera era quello, che confessò la
moglie in forma di Prete. E perchè la maggior
Tu mihi vel ferro pectus, vel perde veneno: parte de gelosi sono cosi fatti, però soggiunse
A domina tantum te modo tolle mea.
prudentemente il nostro poeta nel secondo
Te socium vitae, te corporis esse licebit, verso : -

Te dominum admitto rebus, amice, meis.


Lecto te solo, lecto te deprecor uno: E tosto fede a tuoi sospetti acquisti,
Rivalem possum non ego ferre Jovem. chè così debbe scriversi, e non come ho ve
duto in alcuni:
Simile a Properzio, e non meno al mio pare
re, leggiadramente disse ancora l'Ariosto in una E più temendo, maggior forza acquisti:
sua breve, ma divinissima elegia al divinissimo
Bembo, la quale comincia; tutto che ancora questo staria benissimo e di
rebbe vero, tolto per avventura da Virgilio,
Me tacitum perferre meae peccata puellae ? quando disse della Fama:
Me mihi rivalem praeposuisse pati ?
Fama malum, quo non aliud velocius ullum,
Ed è tanto possente questo desiderio, ch'ave Mobilitate viget, viresque acquirit eundo.
mo di possedere la cosa amata propia e senza
compagnia, che molte volte fatta comune, non E chi non sa che quanto uno teme più, tanto
ce ne curiamo più e la lasciamo del tutto, spo è più geloso? Mostrò ancora questa prestezza e
gliandoci non solamente la gelosia, ma l'amore crudeltà de gelosi l'Ariosto quando disse, che
ancora. Onde due volte disse Virgilio: questa piaga incurabile s'imprimeva sì facile nel
petto di un amatore. E certo maravigliosa cosa
Conjugio jungam stabili, propriamgue dicabo. e a pensare, che gli uomini siano tanto minici
D'onore è poi nella quarta ed ultima ma di sè stessi e della vita loro, che molte volte
niera, secondo che il geloso stima o più o meno per una parola, per un cenno, per un guardo
cotale vergogna, secondo la natura sua, e i co fatto bene spesso impensatamente, vogliano
stumi della patria o regione sua ; perciocchè mal grado loro pensare, e creder quello che
anco in questi sono vari i giudizi degli uomini tanto gli affanna, gli affligge e gli addolora,
e l'usanze dei paesi. Onde dicono, che le na cone se propiamente nell' amore non fossero
zioni occidentali e quelle che abitano nel mezzo altre cure ed altre noie, che quelle sole che
giorno sono molto gelose, o perchè sono molto noi stessi, senza utile veruno, ci andiamo tutto
dedite all'amore, o perchè reputano grandis il giorno importunamente procacciando. Ma
simo disonore l'impudicizia e vergogna delle per tornare alla sposizione del sonetto, dico
mogli ed amate loro; il che per le ragioni con che acquistar fede in questo luogo non vuol
trarie non fanno quelle che vivono sotto il dire esser creduto, o fare in modo che si cre
settentrione. E così s'è veduto che ottimamente da, come là nella prima stanza della canzone
fece il poeta nostro a chiamare, e quasi diffi grande:
nire la gelosia cura, cioè pensiero e passione Ch'acquistan fede alla penosa vita (1).
che si nutre e pasce di timore, cioè paura e
sospetto. E con queste parole da ad intendere (1 Pelr. Canz, I, Stanza 1, Parte I,
SULL' AMORE 179

Ed in quel sonetto divino: Siccome eterna vita Ove egli chiama per il nome del genere quello,
è veder Dio, quando dice: che i Latini chiamano specialmente rivale, non
però propiamente, nè felicemente a gran pez
E se non fosse il suo fuggir sl ratto, za, come i Greci: il che sapendo voi tutti me
Più non domandarci: che s'alcun vive
glio di me, tacerò.
Sol d'odore, e tal fama fede acquista (1). Quanto alla seconda cosa, cioè al luogo,
Ma significa per l'opposito, dar fede e crede s' ha più o meno gelosia secondo le qualità
re, nel qual significato l'usò il Petrarca nel d'esso, il qual può essere sacro e profano,
sonetto: Solea lontana in sonno consolarme; di lungi e da presso, chiuso e aperto, comodo
ccndo nel settimo verso: e scomodo, e così degli altri. E che questo
non importi poco, ciascuno da sè il può co
Ed udir cose, onde 'l cor fede acquista (2). noscere, e la torre di Danae dimostrarlo, ed
Ora tornando, dove io lasciai della gelosia, i serragli medesimamente, ed il proverbio vol
dico che questo maligno spirto cresce ancora gare: Loda l'innamorarsi in vicinanza.
e scema, secondo la persona della quale s'ha Similmente quanto alla terza cosa, che è il
gelosia: e questo non solamente secondo che tempo, ciascuno può conoscere da sè, che come
ella propia è, costumata, pietosa, costante, in nell'altre cose importa assai, così in questa
gegnosa, prudente, amorevole e tenera dell'o- non è di poco momento; conciossiachè altre
nore, ed altre cose cotali: ma si considera an occasioni s'hanno comunemente per Carnescia
cora la madre, la balia, le parenti, i famigliari, le, che di Quaresima, altre ne di del riposo,
le vicine e le compagne, il che dimostra otti che in quelli delle fatiche, e nel medesimo
mamente il Boccaccio in diversi luoghi. Onde modo degli altri.
il Petrarca, cssendo Madonna Laura santa, sag Circa la quarta ed ultima cosa, che sono le
gia, cortese, onesta e bella, dice di non essere faccende, chi non sa che minor gelosia si pigli
stato geloso nel fine di quello, non men bello d'uno occupato, che d'uno scioperato? e poco
che malagevole sonetto: Amor che 'ncende'l cor si teme di chi è dietro a cose importantissime,
d'ardente zelo, dove dice favellando della ge o che sono stimate da lui più che i piaceri,
losia: e così per lo contrario? Conciossiachè da con
L'altra non già, che 'l mio bel foco è tale, trarie cagioni nascono effetti contrari, in guisa
Ch'ogn'uom pareggia; e del suo lume in cima, che secondo che saranno maggiori, o minori
le cose dette, sarà ancora maggiore o minore
Chi volar pensa, indarno spiega l'ale (3).
la gelosia; e le cose dette saranno maggiori,
Importa ancora in questa parte l'animo del o minori non secondo il vero, ma secondo che
l'amante verso la persona amata, perciocchè le giudicherà il geloso. E benche noi parliamo
se è adirato, o altramente di mal talento, pi sempre nel genere del maschio, intendiamo
glia agevolmente ogni occasione ; ed ogni bru però ancora delle femmine, le quali non amando
scolo, come volgarmente si dice, gli pare una manco degli uomini, ed avendo naturalmente
trave: il che apparisce medesimamente nel Boc manco prudenza e consiglio, è forza che più
caccio ed in Bradamante dell'Ariosto. E così si diano in preda, e più si lascino vincere da
se per lo rovescio fossero bene animati verso questa furia che gli uomini.
le persone amate, appunto al rovescio anda E mentre colla fiamma il gelo mesci. – Mo
rebbe la cosa, e bisognarebbe bene che fosse stra in questo verso come opera la gelosia,
grandissimo segno e dimostramento a volere cioè che mescola il gelo, che non è altro che
che credessero altramente, come si vede tutto la paura ed il sospetto colla fiamma, cioè con
quanto il giorno della persona, di chi s'ha ge amore che non è altro che fuoco. Onde i poeti
losia. pongono fiamma e fuoco, non pure per esso
Scema e cresce medesimamente questa rab amore, come ognuno sa, ma per le donne amate
bia secondo le qualità sue, perciocchè se fosse ancora; come il Petrarca, quando disse:
povera, brutta, ignobile, illitterata, da poco,
priva d'amici e di parenti, e se ne fa poca L'alma mia fiamma oltra le belle bella (1).
stima, e poco se ne teme; come per l'opposito E il molto reverendissimo Cardinale Bembo in
avviene, quando è ricca, bella, nobile, dotta, quei suoi bellissimi terzetti d'amore:
d'assai, abbondante di parenti e d'amici. Onde
il Petrarca, il quale, come avemo detto, non Un dinanzi al suo fuoco esser di neve,
era geloso per l'ordinario, mostrò d'esser di dove è da notare, che sempre vi s'aggiugne al
ventato straordinariamente geloso per questa cuna cosa; onde il Petrarca disse l'alma mia
cagione, quando disse nel sonetto: In mezzo fiamma, ed altrove:
di due amanti onesta altera:
Il mio bel fuoco è tale (2).
Subito in allegrezza si converse
La gelosia, che 'n su la prima vista, Il che fanno ancora i Latini, ed è necessario;
Per sl alto avversario al cor mi nacque (4). sicchè Virgilio disse nella terza Egloga:
At mihi sese oſert ultro meus ignis Amintaº.
(1) Son. CXXXIX, Parte I.
(2) Son. CXCII, Parte I.
(3) Son. CXXX, Parte I. (1) Son. XXI, Parte II.
(4) Son. 1.XXIX, Parte I. (2) Son. CXXX, Parte I.
18o LEZIONE SECONDA
E questo fanno, perchè, come il fuoco è attivissi grand' arte e giudizio furono tessuti questi
mo, per dir cosi, cioè potentissimo ad operare quattro primi versi, in guisa che in ciascuno
fra tutti gli altri elementi, così è amore tra d'essi fornisce la sentenza, e vi è il punto; il
l'altre passioni umane. Onde Virgilio nel quarto: che oltre a una certa gravità, fa più attento
l'uditore; e questo medesimo si vede artata
Vulnus alit Venus et caeco carpitur igni. mente fatto in quel sonetto del reverendissi
Ed il Petrarca disse: mo Bembo, che favella della speranza:
Saette uscivan d'invisibil foco (1). Speme, che gl'occhi nostri veli e fasci,
E che il gelo si metta per la paura, cioè Sfreni e sforzi le voglie e l'ardimento;
l'effetto per la cagione, è figura usitatissima
non solo appresso i dicitori in rima, ma ezian e quel che seguita.
dio a quelli di prosa. La cagione, perchè chi Poiche'n brev ora entro'l mio petto hai misti
teme diventi pallido e freddo, è, perchè la paura Tutti gl' amari tuoi, del mio cor esci;
contrae e debilita il cuore. Onde la natura Torna a Cocito, a lagrimosi e tristi
per soccorrerlo, essendo il cuore il più nobile Ghiacci d'inferno, ivi a te stessa incresci.
membro dell' uomo, come quello che secondo
i Peripatetici è il primo a nascere e l'ultimo Questa è la seconda parte principale, nella
a morire, vi manda il sangue della parte di quale avendo il poeta favellato di sopra della
sopra: e non bastando questo, vi manda anco gelosia e de' suoi effetti in universale e gene
in suo aiuto di quello di sotto, e di qui nasce ralmente, discende ora al particolare; e le co
la pallidezza e'l gelo. Tremasi poi, perchè manda, o piuttosto la prega, che esca e parta
tremando il cuore, trema dietro il suo moto del petto e cuore suo, avendo servata l'usanza
tutto il corpo. Questo medesimo modo di dire sua, e fattolo di felicissimo infelicissimo, sicchè
usò il Petrarca nel sonetto allegato della ge non le restando a fare altro, se ne può ritor
losia, dicendo: nare all'inferno, onde uscì come dimostra il
verbo torna. La qual parte per lo essere el
Amor che 'ncende 'l cor d'ardente zelo, l'agevole da sè, ed ancora per le cose dette
Di gelata paura il tien costretto, di sopra lungamente, non ci distenderemo in
dichiarare altramente. Notaremo solo alcune
dove gelata paura senza dubbio significa la ge
losia; e però soggiunge: brevissime cose circa le parole; e prima dire
mo, che in brev ora fu detto studiosamente,
E qual sia più, fa dubbio all'intelletto,
non tanto per rispondere a quel verso di sopra:
La speranza o'l timor, la fiamma o'l gelo,
pigliando la fiamma per amore, e il gelo per E tosto fede a tuoi sospetti acquisti ;
gelosia, come in questo luogo qui ne più nè quanto per mostrare la forza e subita potenza
meno. Usò ancora il Petrarca il verbo mescere di questo pessimo veneno, il quale opera su
in questo stesso significato; quando disse nel bitamente. – Hai misti, cioè mischiati e me
Trionfo della Divinita: scolati, come disse il Petrarca ancora nel so
netto :
ch'io veggia ivi presente il sommo bene
Mè alcun mal, che solo il tempo mesce ; Se Virgilio ed Omero avesser visto -

benchè potrebbe essere ancora per traslazione Quel Sole, il qual vegg'io con gli occhi miei,
dal vino, come si usa volgarmente in Firenze. Tutte le forze in dar fama a costei
Nel qual significato lo prese l'acutissimo e Avrian posto, e l'un stil coll'altro misto (1).
molto amicissimo mio M. Lodovico Martelli in
Torna a Cocito, a lagrimosi, e tristi – Ghiacci
un suo gentile madrigale, il cui principio è d'inferno, ivi a te stessa incresci – Ghiacci
questo: deve dire e non campi, come ho veduto in al
Io ho nel cuore un gelo, cuni scritti; ed è questa una descrizione poe
Che quanto più lo scaldo, più s'indura. tica dell'inferno, onde è uscita, essendo vera
E poco di sotto dice: mente una furia: perciocchè l'Ariosto ancora
la nominò peste infernale. Onde è da sapere,
Il mendicar m'ancide e 'l soffrir mesce che siccome tutte le cose o belle o buone si
Martiri all'aspra doglia. chiamano essere del Paradiso, come il Petrarca:
Tutto 'l regno d'Amor turbi e contristi. – In Ch'un degli arbor parea di Paradiso (2);
queste poche parole di questo verso solo si
contengono universalmente ed in virtù tutti i Ed altrove:
dolori, tutti gli affanni e tutte le angosce che Quasi un spirto gentil di Paradiso (3);
si possono immaginare in amore, non che sof
frire; il quale quanto è dolce per sè, tanto così dall'altro lato tutte le sozze e rec si di
diventa amaro, meschiato con la gelosia, non cono essere d'inferno; come disse Virgilio del
altramente che se con una medicina si mesco gioco e della fama: ed il Petrarca degli spec
1asse uno amarissimo veneno. chi di Madonna Laura:
Ma tempo è oramai di passare all'altre parti;
il che si farà, detto che aremo, che non senza (1) son. CXXXIV, Parte I.
(2) Canz. III, Stanza III, Parte II.
(1) Canz. II, Stanza VI, Parte II, (3) Son. LXXll I, Parte I.
SULL' AMORE 18 i

Questi furfabbricati sopra l'acque non si riposano, nè dormono la notte; anzi


D'abisso, e tutti nell'eterno obblio ; sempre si dolgono e si lamentano, rammarican
Ond il principio di mia morte nacque (1). dosi cosi del falso e di quello che non sanno,
Ed altrove biasimando la Corte di Roma, la come del vero e di quello che dubitano, im
chiamò inferno di vivi, come fece anco del maginandosi non poche volte cose al tutto im
mondo tutto quanto, quando disse: possibili. Perciocchè questa malattia genera
negli animi una perpetua e continua inquietu
Ne vorrei rivederla in questo inferno (2). dine, che mai non posa, ma sempre sta at
lui a te stessa incresci: – cioè vieni a noia tenta, e con gli orecchi tesi ad ascoltare ogni
e fastidio a te medesima, non che ad altrui; e voce, ogni romore, ogni vento, e tutte le pi
cosi ci dipigne la natura e costumi de gelosi; glia ed accresce a mal suo prò. E però si scusa
la quale espresse dottamente Lodovico Mar Properzio dicendo:
teli in una delle sue leggiadrissime stanze d'a-
more, la quale veggendo starvi si intentamente Omnia me terrent, timidus sum: ignosce timori,
reciterò tutta: Et miser in tunica suspicor esse virum.

Quel ch'interrompe il lor casto desire, Il che riprendendo il Petrarca, come cosa vana,
E se quel che è d'un solo, a molti è dato: ed impossibile disse:
Quest'ingombra i mortai di sdegni e d'ire, Pur come donna in un vestire schietto,
E turba e volee ogni amoroso stato: Celi un uom vivo, o sotto un picciol velo (1).
Questo fa l'uomo vago di morire,
Elfa doler con Dio d'esser mal nato, E procede tanto oltre alcuna fiata, che toglie
E'l fa venir d'ogni sua grazia schivo, il vero sentimento, e fa che non siamo più
Poi che d'ogni mercè, vivendo, è privo. dessi; onde nascono non solamente tutte quelle
cose, che racconta Orazio in quella dolcissima
E come che questo verbo increscere significhi ode:
arer pietà e compassione il più delle volte,
come l'usa il divino poeta Dante in una delle Cum tu, Lydia, Telephi ;
sue dotte e moralissime Canzoni, cominciando ma ancora avemo paura dell'ombre nostre me
quasi ex abrupto, come si dice: desime, il che confessa di se Properzio:
E m'incresce di me sì malamente
Ch'altrettanto di doglia Ipse meas solus, quod nil est, aemulor umbrass
Stultus, quod stulto saepe timore tremo !
Mi reca la pietà, quanto il martire (3).
ed il Petrarca: Il che imitando il dottissimo Molza cominciò
un sonetto:
0r di miei gridi a me medesimo incresce (4); Io son del mio bel Sol tanto geloso,
ed altrove: Ch' io temo di chiunque fiso il mira.
Mostrando in vista che di me le 'ncresca (5); E perchè, come s'è detto, gelosiasuoè mal
d'invidia, che d'altrui benela quasi spezie
si
tuttavia l'usa ancora in questa significazione duole, eleggono i gelosi di mancare essi d' al
il Petrarca, come là nella prima stanza della cuna comodità, pur che non l'abbiano ancora
canzone delle trasformazioni:
gli altri; e quinci diceva l'innamoratissimo
Poi seguirò sì come a lui m'increbbe (6);
-
poeta Tibullo in quella elegia allegata di sopra:
ed altrove: - Me quoque servato, peccet ut illa nihil.
0nd il lasciare l' aspettarne 'ncresce (7). E che più? Non solamente degli uomini temo
ll che non è senza considerazione, come altro no i gelosi, ma degli di ancora; e però disse
ve s'è detto, che un verbo toscano solo signi Ovidio nella epistola di Saffo:
fichi due cose tanto diverse, ed esprima quello Hunc ne pro Cephalo raperes, Aurora, timeban:
che i Latini con duoi verbi sprimono: miseret Ei faceres, sed te prima rapina tenets
ettaedet.
con quello che seguita. Ma troppi esempi ci
li senza riposo, i giorni mena sono da allegare, non parlando i poeti, nasº
Senza sonno le notti, ivi ti duoli mamente i Greci ed i Latini, di cosa alcunº
Non men di dubbia, che di certa pena. più e più di cuore, che di questa. Onde Pro
Seguita in questa terza parte di raccontare la perzio si condusse a dire:
natura e la vita de'gelosi, i quali, stando sem Nullae sunt inimiciliae nisi amoris acerbars
Pre come in un continuo inferno, mai il giorno Ipsum me jugula, lenior hostis ero.
I poeti toscani, amando più castamente, scris
(1) Son. XXXI, Parte I. sero ancora più santamente, ne fu lor mestiero
(2) Son. LXXIl l, Parte II. dolersi tanto di questa furia malvagia. Quanto
(3) Canz. IV, Lib. I V.
(4) Canz. XV1, Stanza VI, Parte I. alle parole pare a me, che non senza grazia,
(5) Son. XIII, Parte II. e giudizio sia stata replicata tre volte la par
(6) Canr. 1, Slanza I, Parte I.
(7) Son. XXXVII, Parte I. (1) Son. LXXX, Parte I.
182 LEZIONE SECONDA

ticella ivi, non tanto per congiugnere ed ap Primum ne medio, medium ne discrepet imo,
piccare i versi di sotto a quei di sopra, quanto
per quello colore, che i rettorici chiamano ri replica brevemente, e conchiude tutta la sen
tenza del sonetto, licenziando un' altra volta,
petizione, e per quell'altro ancora, che si chia
ma articolo, non essendo posto a niuno la co e scacciando la gelosia, allegandole per per
suaderla la medesima ragione di sopra, perche
pula e congiunzione.
I giorni mena –E detto in questo luogo me tanto significa questo verso:
nare in quel medesimo modo che disse il Pe Se 'l tuo venen m'è corso in ogni vena:
trarca nel principio di quella sestina: quanto questo:
Chi è fermato di menar sua vita (1); Poi ch'in breve ora entro 'l mio petto hai misti
ad imitazione dei Latini, che dicono ducere Tutti gli amari tuoi.
vitam. In altro significato l' usò il Petrarca, E poscia dichiara la natura di questa fera in
quando disse nel sonetto: Po, ben puoi tu saziabile, alla quale non basta avere appestato
portartene la scorza: -
ed ammorbato uno col suo veneno tutto quanto,
Che incontri 'l Sol, quando e'ne mena il giorno(2). che ancora con varie larve, cioè faccie e for
me, il che significa con nuovi e vari sospetti,
E si piglia molte volte in mala parte, come ritorna ogni ora più, e va sempre crescendo
nell'escmpio allegato di sopra, dove seguita: con maggiore inquietudine. Ed essendo anco
Su per l'onde fallaci e per gli scogli. questa parte chiara per sè, non diremo altro,
se non che, come sapete, larve in lingua lati
E nel capitolo primo d'Amore: na significa, oltre quello che noi diciamo
Qual è morto da lui, qual con più gravi maschere, l'anime dannate de'rei, che noi vol
Leggi mena sua vita aspra ed acerba, garmente chiamiamo spiriti. Ma qui vuol dire:
Sotto mille catene e mille chiavi (3). sºtto varie figure ed apparizioni, come dico
no, appariscono quelle, ed è tolto dal Petrar
Non men di dubbia che di certa pena. –Non ca, quando disse nel sonetto : – Fuggendo la
si poteva a giudizio mio, nè più dottamente, prigione, ove Amor m'ebbe:
nè più veramente, aggiungo ancora, ne più
leggiadramente sprimere e dimostrare l'ultima . . . . E poi tra via m'apparve,
differenza della gelosia, che in questo verso Quel traditor in sì mentite larve,
si sia fatto. Conciossiachè alcuna altra o cura, Che più saggio di me 'ngannato archbe (1).
o passione si ritroverà, che abbia tutte, o parte ed altrove:
delle cose date alla gelosia, ma non se ne ri
troverà giammai niuna, che io creda, che si Mirandola in immagini non false (2);
dolga cosi del dubbio, come del certo, essen cavato da Virgilio, come sapete nel primo:
do questo il propio di questa infermità Onde Quid natum toties crudelis tu quoque falsis
ben disse l'Ariosto medesimamente:
Ludis imaginibus ?
Non men per falso, che per ver sospetto. Formata la sposizione del sonetto ci restano,
Ed il Petrarca ancora volle mostrare il mede nobilissimi Uditori, molti e belli dubbi, non
simo quando disse: meno utili, che difficili, circa la materia della
Pur come donna in un vestire schietto (4); gelosia. Ma, perchè l'ora è omai passata di
buona pezza, ne toccheremo solamente alcuni
volendo inferire, come di sopra dicemmo, che di quelli, che si desiderano più. E primiera
i gelosi temono di quello, che non dovrebbe mente si dubita se l'amore, intendendo del
ro, stando sempre in sospetto, non altramente l' amore, che è disio di bellezza, può essere
che se fosse possibile, che una donna nascon senza gelosia, come pare, che tenga il Petrarca
desse un uomo vivo sotto la gonna, o sotto il in quel tante volte allegato sonetto della ge
velo. Ed in questo sonetto significa il Petrarca losia, dove mostra di amar Madonna Laura
la gelosia per quattro nomi ; gelata paura, ti senza gelosia. E rende la ragione, perchè ciò
more, gelo, sospetto, siccome chiamò Amore, gli avvenisse, quando dice:
zelo ardente, speranza, fiamma, desire, per le L'altra non già, chè 'l mio bel fuoco è tale :
cagioni, che altra volta si diranno.
Vattene, a che più fera, che non suoli, A che si risponde brevemente, che amare ve
Se 'l tuo venen m'è corso in ogni vena, ramente non si può senza gelosia; e la ragio
Con nuove larve a me ritorni e voli? ne è, perchè come dice Aristotile nell' ottavo
dell' Etica, l'amore è d'un solo, e l'amicizia
Questa quarta ed ottima parte confacendosi è di pochi; e quando Ovidio scrisse a Greci
mirabilmente col principio e con il mezzo, se no, che amava due donne, mi penso, che egli
condo il precetto d'Orazio: errasse nel nome, benchè a poeti si concedono
troppo maggiori cose, che queste non sono,
Onde il nostro gentilissimo Infiammato M. Luigi
(1) Sest. IV, Parte I.
(2) Son. CXXv 111, Parte I.
(3) Trionfo d'Amore. (1) Son. LX, Parte I.
(4) Son. CXXX, Parte I. (2) Son. LXI, Parte II.
SULL'AMORE 183
Alamanni, disse, seguitando il suo ingegnosis l'esser divino, quanto ed in quel modo che
simo Ovidio, in una delle sue vaghe e dolci possono. E se alcuno dubitasse qui: se la ge
Elegie toscane; losia è cosa naturale, perchè dunque tanto si
Per qual cagione avvien, crudele Amore, biasima? conciossiachè per la regola di Aristo
Che fuor d'ogn' uso uman per Cinzia e Flora tile, nessuno deve esser lodato nè biasimato
Porti due fiamme, e non ho più ch'un core (1)? per quelle cose che sono da natura; si rispon
de che non si biasima la gelosia, ma l'eccesso
Ora se l'amata amasse un altro, non potendo ed il troppo, come non si biasima il mangiare
esser l'amor vero se non d' un solo, verrebbe
e bere, ed altri desideri naturali, ma il troppo
di necessità a non amare il primo amante, il mangiare e bere: perciocchè se alcuno fosse
che è quello, che da lui si cerca. Oltra a que geloso, quanto, e quando, e dove, e come si
sto desiderando l'amante generare nell'amata, conviene, non saria biasimevole.
cosa somigliante a sè, verrebbe a non conseguire È dubbio ancora se questa malattia si pnò
l'intendimento suo, se avesse l'amata comune. E guarire, o è del tutto piaga incurabile, come af
chi credesse, che si potesse amare veramente ferma l'Ariosto, ed altri insieme con lui. Al che
più d'un solo in un medesimo tempo, erra dico, che come scemate e cresciute le cagioni,
di grandissima lunga, come proveremo altra che la fanno scemare e crescere, essa scema e cre
volta con altri argomenti, oltra l'autorità di sce; così tolte via le medesime affatto, si leve
Aristotile, e non conosce, che quello che rebbe anco affatto la gelosia; quella intendo, la
s'ama, s'ama come cosa ottima e propia; nè quale è per eccesso oltre il dovere. Perciocchè,
si desidera altro, che diventare di due un solo, come in uno infermo si può levare colle medicine
come racconta Platone, che risposero quei duoi o la troppa fame, o la troppa sete, ed altri tali
amanti a Vulcano. Onde ben disse Lodovico
eccessi fuori di natura, così colla prudenza si
Martelli:
può tòrre l'eccesso della gelosia, più e meno
Nessun può far di quei ch'al mondo sono, agevolmente secondo le qualità dette di sopra.
A più d'una di sè gradito dono. E così per le cagioni contrarie, cresce alcuna
volta tanto, che diventa odio e si converte in
E meglio soggiunse:
rabbia, e questa non solo contro la cosa amata,
E poco è il don ch'un di sè stesso face; o il suo avversario o rivale, ma contro tutti
avendo detto di sopra: quelli ancora, i quali giudica essergli stati in
qualunque modo contrari. Onde sono nate ven
E quei ch'ama di voi, donne, più d'una dette crudelissime e fatti scelleratissimi fuor
Non può saper com'alta impresa onora: d'ogni misura, e talvolta contro l'onore e vita
Resta vinto 'l pensier che troppo vuole, propia di sè medesimi, come si può vedere
Qual occhio ingordo in mirar fiso il sole. per le storie così antiche, come moderne, e
Conchiudendo adunque diciamo, che dovun come vollero significare i poeti, favoleggiando
d'Io, che fu trasmutata in vacca da Giove per
que è vero amore, quivi necessariamente è ge gelosia, e Calisto in orsa, e quello che rac
losia, e dove non è gelosia, quivi di necessità contano essi di Procre, la quale ammazzò Ce
non è amore. E di questa sentenza fu il Pe
trarca, come si vede nel principio di quel so falo suo marito inavvertentemente (1); locchè
afferma Plutarco, scrittore gravissimo, essere
netto; sebbene nel fine per esaltare Madonna
Laura disse come poeta, che in lui non era intervenuto veramente alla moglie di un Cia
gelosia, la quale confessa essere in tutti gli al nippo e d'un altro chiamato Emilio. Sono bene
tri amanti sempre, il che conoscendo ancora da riprendere acremente coloro, i quali cono
scendo che in Dio è amore, anzi è esso primo
il nostro messer Luigi v'aggiunse quelle parole
fuor d'ogni uso umano. amore e cagione di tutti gli amori, credono
Dubitasi ancora se la gelosia è naturale agli che in lui sia gelosia, come in noi, non sapen
amanti, o no; e molti affermano di sì, dicendo do, che tutte le cose che sono, o s'attribui
essere ancora in tutti gli animali bruti, ec scono a Dio, sono in lui in diversissimo modo
cetto quello però che ha dato il nome nella dal nostro; perciocchè l'amore in Dio non pre
nostra lingua a quelli che non si curano di suppone mancamento, come l'umano. Ma troppo
aver le donne loro comuni. E certamente non è alta questa materia al basso e poco saver
si può negare che in alcuno non sia manife mio, e però ringraziando Lui, che tutto sa e
stamente, come nei tori e cigni, nelle galline, tutto può, farò fine.
ed altri tali. Oltre questo pare, che tanto sia (1) Tutto al rovescio: Cefalo ammazzò Procre, come al
naturale l'esser geloso, quanto è il desiderare manco racconta Ovidio nelle Trasformazioni. Ed era Cefalo,
di generare simile a sè; la qual cosa è la più figliuol d'Eolo, famoso cacciatore e amato molto dall'Aurora:
naturale, come dice Aristotile nel secondo del del che sospettando male Procre sua moglie, il seguitò in una
l'anima, che possono fare i viventi; e questo, selva, e fra un folto di piante si nascose; dove Cefalo, pensando
come s'è detto più volte, per partecipare del che fosse una fiera, con una gittata d'arco l'uccise. (M.)

(1) Luigi Alamanni, uno de' più gentili ingegni del se


colo XVI, fu anch'egli tra quelli che andarono esuli da Fi
renze per la causa della libertà. In Padova egli dimorò qual
che tempo, e promosse la fondazione dell' Accademia degli
lufiammati, (M.)
154 LEZIONE SECONDA

pra posto come vede ciascuno. E questo baste


ALTRI DUBBJ INTORNO ALLA GELOSIA - Ills PosTA
rebbe a provare, che la conchiusione loro, cioè
DEL VARCHI AD ALCU Nl s LOI CEN so Ial. che la gelosia per lo essere ella spezie della
invidia sia vizio, è falsa. Ma perchè se non essi,
gli altri conoscano, onde sia proceduto l'in
Pensano alcuni che nessuna gelosia possa es l ganno di costoro, dico che Aristotile, nel luogo
- a - -

sere senza biasimo, e conseguentemente se non allegato già due volte da noi, non dice, come
cattiva, ed argomentano così : La gelosia è una essi dicono, il che è falsissimo manifestamente;
specie d'invidia: l'invidia è vizio; dunque la ma dice così, il che è manifestamente verissi
gelosia è vizio. Poi soggiungono: Il vizio è sem mo. Quando una cosa si predica d'un'altra
pre male e biasimevole; dunque la gelosia è cosa come di subbietto, tutte quelle cose, le
sempre vizio biasimevole. Poi faticano di pro quali di quello che si predica si dicono, si di
vare quello che niuno o buono, o dotto nega ranno ancora tutte del subbietto; come uomo
rebbe, cioè che l'invidia sia vizio, e da questo si predica d'alcun uomo, ed animale si pre
inferiscono; dunque l'invidia è male, usando dica d'uomo, dunque anco animale si predica
non il sillogismo, come filosofi, ma l'entimema, d'alcun uomo, perchè alcun uomo, come per
come retori. Poi provando quello che di già atto d'esempio, Socrate, è uomo ed animale.
è provato, cioè che la gelosia sia vizio, ed in E tutta la malagevolezza e l'importanza di
somma volendo provare l'assunto, allegano questa maravigliosa regola consiste, come n'av
quella famosa e volgata regola posta dal Filo vertiscono tutti gli spositori così Greci, come
sofo nel principio de Predicamenti, che dice Latini in quelle due parole come di sabbietto,
tutto quello che si predica del predicato, si cioè essenzialmente, e non per accidente, come
predica del subbietto. E aggiungono l'altra re si vede negli esempi di sopra.
gola, che tutto quello che si predica del ge Ma ponghiamo che la regola citata da loro
nere si predica anco della spezie, e dato l'e- sia stata bene intesa e bene allegata, dico che
sempio di questa regola verissima, conchiudono il sillogismo loro non solo è falsissimo, ma
da capo: l'invidia è vizio, dunque la gelosia pecca nella più debile e più evidente fallacia
è vizio; e perchè il vizio si predica dell'invi che possa essere, cioè nell'equivocazione, che
dia, che è predicato e genere, si predicherà non e altro che non intendere o scambiare i
ancora della gelosia, che è subbietto e specie significati del vocaboli, pigliando una voce per
d'invidia. un'altra, come chi dicesse: Gli uomini favel
Questa è la prima e più efficace ragione loro, lano: questa (e mostrasse una figura dipinta o
alla quale innanzi che io risponda, non mi pa scolpita) è uomo, dunque questa favella; o si
re se non ben fatto in iscusazione così di loro, veramente, i lioni mugghiano: il Lion di Piazza
come di me, dire che io non credo, che essi è lione, dunque il Lion di Piazza mugghia. E
medesimi, o l'abbiano detto, o l'intendano così: che ciò sia non men chiaro, che vero cssi di
perchè chiunque avrà pur letto i primi prin cono cosi; la gelosia è una spezie d'invidia,
cipi della logica, conoscerà subito agevolissi l'invidia è vizio, dunque la gelosia è vizio.
mamente queste ragioni così fatte essere state Ora io dico così, com'essi nè più nè meno:
scritte o da uno che non intendeva quello che la vegetativa, o volemo dir la sensitiva, è spe
egli si scrivesse o, se l'intendeva, le scrivesse cie d'anima: l'anima è separata dalla materia,
a coloro che non intendessero. Primieramente e conseguentemente immortale, dunque la ve
la regola posta da Aristotile nel principio dei getativa è separata dal corpo e immortale; il
Predicamenti, la quale è tanto bella, necessa che esser falso penso che sappiano anch'essi.
ria e universale, che tutti i modi di tutte e Ma per mostrar la cagione di questo errore,
tre le figure, ed in somma tutta la loica sono come facemmo di sopra di quell'altro, diciamo
fondati sopra essa, non è stata bene intesa da che i generi, quanto fa al presente propo
loro, nè bene allegata, come può vedere ognuno sito, sono di tre maniere. Genere univoco, il
da sè, perchè questo termine animale, il quale quale è il propio e vero genere, predicandosi
è predicato, si dice di questo termine uomo, non meno della sostanza che del nome, come
il quale è subbietto e spezie; dunque per que animale di tutti gli uomini, perchè ciascuno
sta regola ciò che si predica d'animale, si dirà uomo è animale e sostanza animata sensitiva:
anco d'uomo. Ora l'animale predica di gene e di questo solo non d'altro s'intende allegata
re, perchè si dice animale è genere: dunque la regola di sopra. Genere equivoco, e questo
si predicherà anco d'uomo, dunque l'uomo sarà è quando si predica del nome solamente, ma
genere. non già della sostanza, e così accidentalmente,
E perchè m'intendano ancora coloro i quali e non essenzialmente, come un corpo morto
non hanno letto i Predicamenti, dico, che que ed un vivo, che non hanno a far nulla insie
sto nome uomo si predica del Petrarca e di me, se non che hanno un nome medesimo,
tutti gli uomini; dunque per la predetta regola, cioè corpo; onde chi dicesse: il cane abbaia,
tutto quello che si predica d'uomo, si predi non potrebbe conchiudere, come hanno fatto
cherà anco del Petrarca e di tutti gli altri uo. costoro della gelosia; dunque il cane pesce,
mini. Ora l'uomo è un nome di due sillabe, o veramente il cane, segno celeste, abbaja : per
il quale fornisce in o, dunque il Petrarca è chè sono equivoci, e gli equivoci non s'hanno
un nome di due sillabe che fornisce in o, il a usare né nelle scienze, nè nell'arti, ed in
che non è più vero, che si sia l'esempio di so somma non son buoni a nulla. Genere analogo
SULL'AMORE 185

è quello, il quale è tra l'uno e l'altro di que Ma l'animo mio, nè la forza son di ripren
sti due, perchè si predica, e secondo il nome dere gli altrui errori; però tornando al pro
come l'equivoco, e secondo la sostanza ed es ponimento nostro diciamo (perchè ognuno possa
senza come l'univoco. Ma v'è però questa diffe meglio intendere con quanta considerazione si
renza, che l'univoco comprende tutte le sue dovrebbe pensare quello che l'uomo vuole scri
specie egualmente e in un tempo medesimo: vere, perchè sia letto, e massimamente in ri
perchè animale comprende tutte le sue specie prendendo altrui), che l'invidia ha quattro spe
egualmente, cioè che tanto è animale l'uomo, zie, ovvero è di quattro maniere, come dichiarò
quanto il cavallo cd il topo, ed in un mede già lungamente in una sua Lezione M. Benedetto
simo tempo, perchè non comprende prima l'una Varchi (1); le prime due delle quali non sono
specie che l'altra. Ma l'analogo non le com biasimevoli, anzi meritano lode. E come avrebbe
prende tutte, nè ugualmente, nè in un tempo detto il Petrarca: Tinto di dolce invidia, se ciò
medesimo, anzi ve n'è una, la quale è più non fosse che alcuna invidia non potesse essere
perfetta dell'altra, e conseguentemente prima se non biasimevole? E M. Cristofano Landino
di tempo; e sempre quella che è più perfetta, dichiarò l'emulazione, ch' è spezie d'invidia,
più sempre comprende, ed è cagione di tutte una giusta e ragionevole invidia; ed il Bembo disse
l'altre: come, per cagion d'esempio, questo nelle sue prose, una dolce e cortese invidia. Ma
nome sano contiene sotto sè ed abbraccia più che bisogna faticare nelle cose chiare? La terza
specie. Alcuni cibi si chiamano sani, l'aria sana, spezie della invidia è la gelosia, la quale può
l'esercizio sano, l'orina e la medicina sana, ed essere e cattiva e buona, e così merita ora bia
altri somiglianti; ma tutte queste cose si chia simo e quando lode, come si mostrerà più di
mano sane, rispetto alla prima e vera sanità: sotto più chiaramente. La quarta ed ultima spe
l'altre dipoi per diversi rispetti, come la me zie è quella, che è veramente vizio e biasi
dicina, perchè fa la sanità; l'orina, perchè la mevole, la quale consiste nel contristarsi degli
mostra; l'esercizio e l'aria, perchè giovano alla altrui beni o rallegrarsi degli altrui mali, senza
sanità, e così degli altri. E di questo genere che a te pro od onore alcuno perciò te ne
fece molte definizioni ed importantissime Ari venga. E di questa sarebbe vero a dire: l'invi
stotile, come si vede in quella dell'anima ed dia è vizio, dunque è male, dunque biasimevole,
in quella de'corpi celesti e in molte altre. Il come sarebbe vero dire intendendo dell'anima
che non sapendo o non avvertendo costoro, intellettiva, che è la forma e qualità dell'uo
sono incorsi in un errore ridicolo; del che se mo: l'anima è immortale; onde quando essi
non altro li doveva fare avvedere quel dire dicono: la gelosia è una spezie d'invidia, lo
una spezie, e che coloro i quali la definiscono concediamo, ma quando soggiungono: l'invidia
compitamente, non dicono: la gelosia è invidia: è vizio, lo neghiamo. Essi lo provano per Ari
il che sarebbe necessario che facessero se l'in stotile e per non dire altramente, non cono
vidia fosse il vero e propinquo genere della scono, che Aristotile nell'Etica favella della
gelosia; ma dicono: la gelosia è una paura ov vera e propia spezie e non della terza, sotto
vero sospetto che alcuno, il quale noi non vor la quale avemo posto la gelosia. Se alcuno mi
remmo, non goda alcuna bellezza; e questo per dimandasse volendomi provare, che Dio ha l'a-
due cagioni, o per goderla noi soli, o per bito della dimostrazione: Dio ha scienza? gli
che la goda solo quegli, cui vogliamo noi. E risponderei di sì. Ma quando dicesse la scienza
coloro che definiscono la gelosia è un acci è l'abito della dimostrazione, dunque Dio ha
dente, fanno non altramente che chi dicesse: l'abito della dimostrazione, glielo negarei, per
Dante è corpo, ovvero sostanza, pigliando il chè la scienza di Dio e la nostra è, come ognu
genere non prossimano, come si debbe fare no sa, equivoca. E pur secondo le regole loro
nelle definizioni, ma il remoto o piuttosto re seguiterebbe questo, con infiniti altri non solo
motissimo, perchè tutti i vizi ed anco tutte le inconvenevoli, ma impossibili. Bel loico e gran
virtù sono accidenti; e brevemente di dieci un maestro di conseguenze sarebbe uno che di
solo predicamento è sostanza. Il che mi con cesse: la qualità è ente, l'ente è quello che
ferma nella mia certezza, che costoro scrivano sta per sè medesimo; dunque la qualità sta
più per via di diporto e per trapassare il tempo per sè medesima, e per conseguente non è ac
ozioso, che per altro: perchè chi è tanto lontano cidente. Ovvero: l'uomo è spezie d'animale,
dai principi della filosofia, che volendo dare la l'animale è irragionevole, dunque l'uomo è
vera e perfetta definizione della gelosia, le desse irragionevole. E se alcuno dubitando qui di
per suo genere la freddezza, la quale è privazio cesse animale non è genere equivoco, nè ana
me, sapendo che le privazioni non operano mai logo, ma univoco, dunque si debbe predicare
cosa nessuna: onde nessuno atto privativo può della sua spezie egualmente, rispondo, che uo
essere causato da alcuna privazione? E poi sog mo e cavallo, considerati come animali sempli
giungesse: e tutto questo aggregato è non sola cemente, sono univoci, ma tosto che l'uomo
mente la definizione, ma la forma della gelosia, si diffinisse non come animale, ma come uomo,
mostrando di non sapere quello che è notissimo diventano equivoci. E così quella proposizione
a tutti i principianti di logica, che la definizione logica, poichè gli argomenti loro son quasi tutti
ed il definito sono una cosa medesima, e che la logici (il che quanto si convenga a chi vuol fa
forma è tutta la quidità, ovvero essenza della
cosa, nè è altro quello che si esprime primiera (1) Vedi la nostra prefazione, dove di questa Lezione º
mente dalla definizione che la quidità. parla e si riferisce l'avvertenza del Bottari, (M.)
VARCIII
24
186 LEZIONE SECONDA

vellare dell'invidia cone filosofo naturale, il san e biasimevole, con esse è virtù e laudevole;
no i logici medesimi; ed anco dai luoghi allegati anzi non è vizio nessuno sì grande, che fatto
da loro potevano conoscere, che della invidia si colle debite circostanze non divenga virtù. Qual
appartiene ragionar più al filosofo morale co più iniqua cosa, che non voler rendere ad al
me fece Aristotile nell'Etica che al naturale, cuno quello, che egli ti diede in deposito, per
essendo vizio); quella proposizione logica, che chè tu glielo dovessi serbare e rendere? Eppure
dice: Siccome quello che conviene al genere ne chi negasse, come dice Seneca, il suo pugnale
cessariamente conviene alla spezie, così quello a uno che si volesse uccidere con ello, fareb
che si niega al genere, non potrà convenire be gran senno e gran cortesia.
alla spezie, si debbe intenderedei veri generi, Io non so immaginarmi talvolta da me a me,
cioè univoci. Onde chi dicesse: il movimento come possa tanto negli uomini non so che dir
è trovato per cagion del riposo, e tutte le cose mi, che eglino si lascino così inconsideratamente
che si muovono, si muovono per fermarsi, di trasportare, che escano lor di bocca cotali mera
rebbe in un tempo medesimo il vero ed il falso; viglie, per non dir farfalloni. Ed è poi verissi
anzi piuttosto semplicemente il falso, perchè mo, che coloro, i quali vogliono dare a credere
gli equivoci infino a che non si distinguono e a sè medesimi o ad altri d'essere filosofi, senza
specificano, non significano cosa nessuna pro aver mai o per l'età, o per altra cagione stu
iamente; onde l'ammaestramento del Filosofo diato filosofia, dicono cose, che nè anco gli
è, che agli equivoci non si debbe rispondere; ignoranti del tutto, ed i fanciulli nolle direb
perchè schbene tutti i movimenti sublunari sono bero; il che non dico, sallo Dio, per isbigot
per cagione della quiete, non è però questo tirli dallo scrivere, ma per inanimarli prima
vero ne' movimenti circolari e celesti. a dovere apparare, che a volere insegnare; nè
Ma venghiamo oggi mai alla seconda loro si pensino, che la vera gloria stia nello scri
ragione, la quale siccome la prima contraddice vere o tostamente o assai, ma bene; nè in of
alla ragione, così è manifestamente contra il fendere altrui, ma in difendere sè. Io non ne.
senso ed a lor medesimi, onde chiaro appare, gherò, che non sia malagevole scrivere le cose
che essi più che per altro hanno ciò scritto, o difficili e trattare le quistioni di filosofia, es
per lo desiderio e cagione di riprendere, o per sendo questo ufficio solo di coloro, i quali se
compiacere ancora in così fatte cose ad altrui. non sanno il tutto, non son del tutto ignoranti:
Dicono dunque, che nessuna gelosia può essere ma dirò bene, che molto sarebbe il migliore
'non biasimevole, perchè il genere è invidia, la spendere quel tempo in leggere gli antichi buo
quale è vizio, ritornando nel medesimo errore ni scrittori, o udire i moderni, che dare a sè
di sopra, perchè il genere vero e propio e briga ed altrui disagio; nè doverebbe ingan
prossimo della gelosia non è invidia, ma pau nare l'usanza presente coloro che vogliono es
ra, o sospetto o dolore; ed essi medesimi dif sere veramente lodati. Altro è scrivere da mot
finendola, o volendola diffinir più volte, mai teggio, altro mettere i suoi scritti in istampa
non le danno per genere invidia, ma accidente da dovero, e più si dee tener conto d'un soio,
naturale, o freddezza; il che quanto sia vero, che ti riprenda a ragione, che di mille, che ti
ciascuno sel vede, anzi confessano, forse non lodino a torto. E ben so che ora non cono
se n'accorgendo, che alcuna invidia si ritrova, scono e non credono queste cose, ma buon per
la quale è buona; poi dicono così: L'invidia è loro sarà, se mai le crederanno, perchè allora
estremo, dunque mai non può esser buona, nè rivolgeranno l'odio in amore e l'ammirazione
può ridursi alla mediocrità; perchè quelle cir di sè stessi in coloro, i quali non pure hanno
costanze: quanto, come, quando e dove, non si saputo dir loro liberamente la verità, ma vo
danno agli estremi mai, come è l'invidia, ma luto, giovando a chi pensava di nuocere loro.
a mezzi, cioè alle virtù; e così nè più nè me Però seguitiamo d'avvertirli se non per cagion
no è forza, che avvenga nella gelosia, per lo di loro, per amore degli altri.
essere ella una spezie d'invidia; le quali cose Essi dicono la gelosia è uno estremo: ma an
essi medesimi hanno di già conceduto, di co il punto è uno estremo, e le due proposi
cendo, che dell'invidia se ne trova alcuna zioni de sillogismi sono estremi, e tutti i fini
buona. Ma chi non sa, che la gelosia, che han di tutte le cose; ma diciamo estremo, cioè ec
no i padri delle figliuole, i fratelli delle so cesso, ovvero trapassamento. Certa cosa è che
relle, i mariti delle mogli, i parenti ed amici essendo estremo nome relativo e detto ad al
delle parenti ed amiche, solo che sia colle de cuna cosa, avrà ancora l'altro suo estremo, nel
bite circostanze, non solo non è degna di bia mezzo dei quali consista la virtù. Io dimando
simo, ma di lode? Quale è maggiore scelera dunque qual è lo estremo della gelosia; certo
tezza, che ammazzare alcuno? E nientedimeno il non curarsi, per favellare solo della gelosia
quando si fa colle debite circostanze, cioè quan degli amanti verso l'amato, che le lor donne
do, come, dove, e perchè si deve, non solo siano da altri godute, il che è impossibile, che
non merita biasimo, ma gloria ed onore. Chi si ritrovi, dove è amore, come si vedrà di sotto:
uccidesse uno, il quale volesse uccidere lui, o ma diciamo ora che ciò sia. La virtù, la quale
commettere qualche altra sceleratezza contra consiste nel mezzo di questi due estremi qual
la patria o principe suo, dovrebbe essere bia sarà ? Io per me non ne so immaginar nessuna,
simato e ripreso, o pur lodato, e premiato? se non l'essere geloso, quando, come, quanto,
Ecco che quelle circostanze fanno, che quello, dove, e perchè si convenga; il che non è al
ehe semplicemente e senza esse sarebbe vizio tro, che circonscrivere quella virtù, alla quale
SULL' AMORE 187
non fu posto nome, come fa Aristotile molte mor dilettevole non può essere senza gelosia,
volte; e anche noi non avemo un nome, il quale e che dove non è gelosia, o tanto o quanto,
esprima, come hanno i Greci, l'abito cattivo non è amore. E di più dico, che quando non
dell'arte, onde diciamo il tale, o il cotale è ci fosse ragione alcuna che ciò provasse, lo
cattivo o scultore o pittore. Ora se le cose dimostra assai la sperienza di ciascuno. Ma co
buone si possono mediante le condizioni e pa storo vogliono più credere a quel che sentono
role aggiunte, far cattive, perchè non si potran dire agli altri, o vorrebbero essi, che a sè me
no le cattive far buone per la regola de'con desimi: ne si può rendere la ragione dimostra
trari? Il che si deve intendere sanamente, cioè, tiva d' ogni cosa; anzi tutte le cose, che sono
che dove son posti i nomi, siamo forzati a spri chiare per sè, non si possono dimostrare. Di
merli con giro di parole, e mediante quelle cami alcuno, perchè l'uomo è razionale, se
condizioni e circostanze dichiararli: verbigra non per che egli è uomo o perchè un morto
zia, se a quella virtù, la quale è in mezzo della non può, parlando naturalmente, risuscitare, se
prodigalità ed avarizia, non fosse posto nome, non perchè è morto. Dimostrimi, che la na
uno che volesse significare la liberalità, sareb tura sia, e mille altre cose cotali; nè per que
rebbe necessitato circonscriverla; e se dicesse: sto voglio intendere, che la gelosia, non si possa
Il tale è avaro quanto, quando, come, dove e dimostrare in qualche modo. E chi sa, che la
perchè bisogna, l'avrebbe bello e descritto. Chi propria diffinizione d'amore, di quello inten
vuole sprimere un uomo sobrio, non dice, che do, di cui ragioniamo, è di godere la bellezza
egli non bee, ma che non bee se non quanto, dell'amata con unione, sa che amore non può
quando, dove, e come bisogna. Io vorrei sapere essere senza gelosia.
in qual filosofia si ritrova quello, che essi dicono, Dunque dirà uno: se in tutti gli amori car
che la gelosia sia naturale; e soggiungono, che nali è gelosia, tutti saranno amari. Al che io
ella è male e vizio, perchè la natura non solo rispondo: sì tutti; e siano pur propizi, e fa
non fa, ma non intende mai di fare mal nes vorevoli quanto si vogliono. Anzi dico più, che
suno, se non se forse per accidente, e le cose quanto sarà maggior amore, tanto sarà maggior
per accidente non entrano nelle scienze, nè nel la gelosia, ed all'incontro: ma dico bene, che
l'arti. Non sanno essi, che il male è privazione questa gelosia sarà più o meno secondo le cir
come la morte, e che le privazioni non sono costanze dichiarate nella Lezione della Invidia
intese, nè volute dalla natura? Niuno riprenderà di M. Benedetto Varchi, e allora vi sarà quella
uno che mangi, essendo cosa naturale, ma bene gelosia buona e lodevole solamente, cioè, quan
uno, che mangi quanto, quando, dove, e come to, quando, dove, come, e perchè bisogna. E
non si conviene. E se m'allegassino che anco il come può uno desiderare di godere alcuna cosa
congiungersi l'uomo colla donna è cosa natu solo che non tema, o dubiti o di non per
rale, e pur è tanto lodata la virginità, direi, che derla, o che altri non gliela tolga ? Ma perché
quanto a teologi questo è verissimo. Ma i filosofi di queste cose s'è parlato lungamente altrove,
dicono tutto il contrario, intanto che non chia non diremo altro, perchè rispondere all'esempio
mano più uomo, se non equivocamente chi non del Petrarca allegato da loro, è un voler mo
può generare più; non altramente che una strare quello che è chiaro da sè; ma diciamo,
mano stroppiata e tutte l'altre cose, le quali poi che chi può, ha voluto cosi, e mostriamo,
non possono far più l'uffizio loro, non si chia che non è men faticoso essere vero amante,
mano, se non in quanto al nome. che buon filosofo. Essi volendo provare, che
Ma lasciamo le cose, che non fanno qui a ancor nell'amor dilettevole non è sempre ge
proposito, e consideriamo, che di quante con losia, si suppongono, che talora l'amor di
chiusioni hanno fatto, niuna è, la quale non lettevole, che volemo alla cosa bella, sia per
sia falsissima manifestissimamente e da dovere buon fine; d'intorno alla quale supposizione
, essere conosciuta ancor da coloro, i quali non lasciato stare, che tutti i fini son buoni, anzi,
sono nè loici, nè filosofi; ed il medesimo, o che appo i filosofi fine e buono sono una cosa
poco meno avverrebbe dell'altre cose dette medesima, dirò, che tutte le cose che si fanno,
da loro, chi volesse disaminarle. La qual co o dicono, si dicono, e fanno per buon fine.
sa io per me non voglio fare, si per non mi Perchè, come ho detto tante volte, il male non
parere, che porti la spesa, e si perchè dove il solo non si desidera naturalmente, ma non si
ſarei, se pure il facessi, con animo di beneficiarli, può desiderare. Onde ben diceva Platone, che
essi lo ripigliarebbero, per avventura, in con ogni cattivo era ignorante, e, come diceva Se
traria parte. E che questo, che io dica sia vero, neca, niuno opera male a bel diletto, e per
considerino, che la conseguenza ovvero corolla ispasso. Ma dico bene, che essi mostrano, chè
rio, che fanno dicendo: e di qui segue che abbia male sappiano, che in tutti gli amori si ritro
no errato ancora nel dire, che il vero amore va il diletto, e che monsignor Francesco Pe
e sempre con gelosia, parlando pur dell'amor trarca, amò Madama Laura di tutti gli amori
dilettevole; è non solo contra la ragione, ma dal bestiale in fuora, e che quando egli me
contra la sperienza ancora: nel che essi per va diante quello amore s'alzava al cielo, egli non
ghezza di rispondere quello, che non credo, era più propiamente dilettevole, ma contem
che cosi credano, replicano senza proposito plativo, nel quale il diletto è maggiore, che
quello, che avevano disputato prima con quel in tutti gli altri. E ben si può dall'amore la
l'ordine e chiarezza, che può vedere ciascuno. scivo salire al contemplativo: come per lo con
Io dico, e dissi e dirò fin ch'io viva, che l'a- trario, ed allora non v'è gelosia: perche tu
n.88 LEZIONE SECONDA

sei certo, che egli non può mai venirti meno Amor, che solo i cor gentili invesca,
per sè medesimo. nè esserti da altri furato, Nè degna di provar sue forze altrove,
che se ciò fosse, maggior gelosia sarebbe in disse il leggiadrissimo M. Francesco Petrar
questo, che in nessuno degli altri tanto, quan ca (1): ed il nostro dottissimo Dante:
io è più perfetto e più dilettevole, che gli Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende (2).
altri non sono. E qui farò fine, senza altro
dire, lasciando di far la scusa d'aver io inſin Il medesimo avviene, anzi più incomparabil
qui detto a coloro, che di ciò sono stati ca mente tra i motori celesti, i quali i filosofi in
gione, se mai ad altri, che ad essi (il che ne telligenze, ed i teologi angeli chiamano. Con
credo, nè vorrei) capitassero alle mani queste ciossiacosachè, quanto alcuna intelligenza è più
mie risposte scritte, non vo' dir con riso, ma perfetta e più nobile, tanto ha ancora più no
bene con compassione, avvertendo te A. e voi R. bile amore e più perfetto: onde come la luna
che facendovi profitto l'altrui danno, appa è meno ardente di tutte l'altre, così Saturno
riate ad essere prima modesti, e poi dotti, e più ferve, ancora che gli astrologi ed i poeti
mescolando la bontà colla dottrina v'ingegniate freddo lo chiamino. Non favello della prima,
di scrivere in tal maniera, che, se, per ventu cioè di Dio ottimo e grandissimo, perchè egli
ra, non piaceste ai molti, possiate essere ap come è infinitamente sopra l'altre, così sopra
provati e lodati da pochi, nel che la vera l' altre infinitamente ama e ferve, anzi è tutto
gloria consiste. amore e tutto fuoco, o se cosa alcuna può in
verun modo più del fuoco calda, e più dell'a-
more immaginarsi. Stando queste cose così,
niuno può, Uditori perspicacissimi, nè dee du
LEZIONE TERZA bitare, che l'amore sia non solamente natu
rale, ma eviando naturalissimo a tutte le cose:
sua UN soNETTO DEL PETRARCA ed essendo l'amore naturalissimo, sa ognuno
che egli non pure non è cattivo e dannoso mai,
ma sempre necessariamente buono e giovevole.
Onde Platone, il quale quanto avanzò tutti gli
ILEzIoNE DI BENEDETTo vARCHI, soPRA UN soNETTo
altri infino al suo tempo d'eccellenza di dot
DI M. FRANCEsco PETRARCA, LETTA DA LUI PUB
trina, tanto li trapassò di santità di costumi,
BLICAMENTE NELL'AccADEMIA FIoRENTINA, LA TER si maravigliava e doleva insieme, che amore
za DoMENICA DI QUAResiMA, l'anno 1553. stato conosciuto dagli uomini non fosse; il che
argomentava da questo, che essi non gli ave
IL PROEMIO vano nè tempi posto, nè altari consegrato, co
me fatto avrebbono, se conosciuto l'avessero,
essendo egli non solo di tutte le cose creatore,
D, tutte quante le cose, le quali o sono, ma ancora conservatore e di più tutore, pre
o furono, o saranno mai in tutto quanto l'u- cettore ed autore. E di vero Platone fu il pri
niverso, nessuna, molto magnifico e reverendo mo (e da questo forse più meritò, che da tutte
Viceconsolo, prudentissimi Accademici, e voi l'altre cose, nelle quali fu veramente unico,
tutti, amabilissimi Ascoltatori, nè è, ne fu, nè il soprannome di divino), il quale la ineffabile
sarà mai più comune ed universale di quella, potenza, la indicibile maestà e la maraviglio
che così da Latini, come toscanamente è amore sissima divinità d'amore conosciuta, lo chia
chiamata: perchè tutte le cose, che dal più masse secondo l'uso di quei tempi, non sola
basso loco e più oscuro e più lontano dal | mente Dio, ma bellissimo ed ottimo e sapien
cielo, che tutto gira, cioè dal profondo di tutto tissimo Dio, e per conseguenza beatissimo; per
l'universo, al quale ogni gravezza si rauna, e chè chi è bello, e buono e saggio, ha tutto
in somma dal centro della terra, al qual si quello ch'a Dio chieder si puote, e per con
traggono d'ogni parte i pesi, infino alla più seguente è beato. -
alta e per conseguente maggiore spera si tro E perchè niuno di voi, ottimi e sapientissi
vano, o animate, o private d'anima che sia mi Ascoltatori, si pensi, che noi in trattando s
no, sono a questa comunissima ed universalis
d'amore troppo dalla materia nostra della poe
sima passione sottoposte. Anzi quanto e cia tica allontanati ci siamo, sappia, che il mede
scuna spezie più nobile e più perfetta, tanto simo Platone, che in tutte le altre cose fu ra
ha conseguentemente maggior amore e più de rissimo, ma nell'amare, e nel ragionare d'a-
gno. Onde come le cose animate più sentono more, insegnando la natura e gli effetti suoi,
d'amore, che le inanimate non fanno, così tra singolarissimo, prova, che amore non solo è
le animate più soggiacciono ad amore gli ani poeta egli, ma fa eziandio (cosa incredibile, ma
mali, che le piante; e tra gli animali stessi vera!) poeti gli altri; perchè niuno è, dice
più amano, quasi senza comparazione, gli uo egli, sì rozzo, e, come diremmo noi, tanto Ci
mini, che i bruti: e tra gli uomini medesimi mone, il quale toccato pure una volta sola da
quanto è più perfetto ciascuno, tanto ama an un solo de' suoi raggi, non divenga subitamente
cora maggiormente; anzi, per vero dire, solo poeta. La qual cosa, oltra i poeti greci ed i
negli animali grandi e generosi vive e regna
amore: nei bassi o vili, o non e, o dorme, (1) Son. CXIV, Parte 1.
sloe non opera. (2) inferno, Canto V.
SULL'AMORE 189
latini, i quali altro non testimoniano, dimo Ancora (e questo, è quel che tutto avanza)
strano ampissimamente i rimatori toscani. Non Da volar sopra il ciel gli avea dat'ali
dice il Petrarca stesso, del quale non si trovò Per le cose mortali,
mai nè più dotto amante, nè più leggiadro, nè Che son scala al Fattor, chi ben l'estima:
più cortese, non dice il Petrarca stesso: Chè mirando ei ben fiso, quante e quali
Eran virtuti in quella sua speranza,
A parte a parte entro i begli occhi leggo D'una in altra sembianza
Quant'io parlo d'amore, e quant'io scrivo (1)? Potea levarsi all'alta Cagion prima,
Ed ei l'ha detto alcuna volta in rima (1).
Ed il reverendissimo Bembo medesimo, cioè,
Ma quanto è maggior la certezza della na
per giudicio de' migliori, il secondo Petrarca: turalità, della bontà e della giovevolezza d'a-
Amor da te conosco quel ch'io sono: more, tanto viene ancora ad essere più grande
Tu prima mi levasti il dubbio, onde è che gli amanti quasi tutti,
Da terra, e 'n ciel alzasti,
come ne dimostra Perottino, tutti mesti, tutti
Ed al mio dir donasti un dolce suono. miseri, tutti afflitti sempre si dolgono, sempre
si lamentano, sempre si rammaricano, senza
Ma chi tutti gli effetti o buoni, o maravigliosi, aver mai, non che lunga pace, brevissima tre
i quali, o da amore nascono, o per amore si gua nè colle lagrime, nè coi sospiri. E però
fanno, raccontare volesse, tutte le buone opere, diceva il nostro dolorosissimo poeta:
e tutti i maravigliosi fatti, che da tutti gli uo Tutto il di piango e poi la notte, quando
mini e in tutti i luoghi e per tutti i tempi si Prendon riposo i miseri mortali,
fanno, bisognarebbe che raccontasse. Ma che Trovomi in pianto, e raddoppiansi i malie
bisogna, che quelle cose si raccontino, delle Così spendo il mio tempo lagrimando (2).
quali fanno sì larga fede e si indubitata testi Ed in quell'altro luogo non meno dolorosa
monianza tutti gli scrittori di tutte le lingue mente lagrimando, così sospirava:
così di prosa, come di versi, e forse più il
poeta nostro solo che tutti gli altri insieme? Ed io, da che comincia la bell'alba,
Il che vedere può chiunque vuole in tutto il A scuoter l'ombra intorno della terra,
suo dotto e leggiadrissimo Canzoniere a cia Svegliando gli animali in ogni selva,
scun passo, e più che altrove in tutta la se Non ho mai tregua di sospir col Sole.
conda parte della morale e famosissima Can Poi, quand'io veggio fiammeggiar le stelle,
zone del pianto; della quale noi, per non con Volagrimando, e desiando il giorno (3).
sumare il tempo in cose notissime, altro non E qual doglienza si può più di quella compas
recitaremo che una sola stanza, nella quale fa sionevole ritrovare :
dire egli stesso contra sè medesimo ad amor
propio queste agre, ma vere e nobilissime pa Ogni loco m'attrista, ov'io non veggio
role: Quei begl'occhi soavi,
Che portaron le chiavi
E per dire all'estremo il gran servigio, Demiei dolci pensier, mentre a Dio piacque (4)?
Da mill'atti inonesti l'ho ritratto:
Ma così si potrebbe in infinito procedere i
Che mai per alcun patto laonde ad altro cordoglio e di più grave mo
A lui piacer non potèo cosa vile; mento trapassando, non disse egli in un luogo:
Giovane schivo e vergognoso in atto
Ed in pensier, poi che fatt'era uom ligio Quel ch'io.fo, veggio, e non m'inganna il vero
Di lei, ch'alto vestigio Mal conosciuto, anzi mi sforza Amore,
Che la strada d'onore
L'impresse al core, e fecel suo simile.
Quanto ha del pellegrino e del gentile, Mai non lascia seguir chi troppo il crede (5)?
Da lei tene e da me, di cui si biasma. E nientedimeno tutte queste ed altre infinite
Mai notturno fantasma lamentanze così fatte, insieme con tutti gli altri
D'error non fu sì pien, com' ei vér noi; danni si possono dir nulla verso quell'una,
Ch'è in grazia, da poi quando nella prima parte della Canzone del
Che ne conobbe, a Dio ed alla gente : pianto allegata di sopra, dolendosi d'amore,
Di ciò 'l superbo si lamenta e pente (2). dice così:

Ma chi è colui, il quale abbia o tanto le orec Questi m'ha fatto meno amare Dio,
chie nimiche della leggiadria e dolcezza delle Ch'io non doveva, e men curar me stesso:
parole, o la mente dalla grandezza e gravità Per una donna ho messo
delle sentenze così lontana, che tenere si po Egualmente in non cale ogni pensieros
tesse di non recitare ancora un poco di quello Di ciò m'è stato consiglier sol esso i
che seguita, e massimamente facendo all'in con tutto quel che seguita.
tendimento della proposta materia, quanto
egli fa? (1) Canz. VII, Parte II, Stanza X.
(2) Son. CLXI, Parte I.
(3) Sestina I, Parte 1.
(1) Son. C, Parte I. (4) Canz. Il 1, Stanza III, Parte II.
(2) Cana. Vll, Parte II, Stanza 1X. (5) Canz. XVII, Stanza VI, Parte I.
19o LEZIONE TERZA

Come è adunque o ragionevole, o possibile


che quello che è buono sia reo? che quello ! senza proporzione alcuna più onesti di tutti
gli altri, così sono ancora in molte parti più
che n' arreca gioia, n'apporti tormento ? che leggiadri; dovemo sapere, che essendo tanto
quello che tanto piace e giova, tanto noccia e secondo i filosofi, quanto secondo i teologi ve
dispiaccia; e in somma che di dolcissimo mele rissimo tutto quello che avemo nel proemio
si tragga amarissimo fiele ? In così fatto dub detto, cioè che niuna cosa, in niun luogo senza
bio trovandosi tra speme e timore, tra gioco amore si ritrovi, e per conseguenza che l'a-
e pena, brevemente tra vita e morte, il feli more la più universale cosa sia e la più natu
cissimo od infelicissimo poeta nostro compose rale e la più migliore che essere possa, è an
con maravigliosa arte quel travagliatissimo cd cora vero, che le maniere dell'amore sono più
ingegnosissimo sonetto, che comincia: e diverse, cioè quattro. Il primo e più nobile
è quello, che principalmente in Dio, e poi nel
S'amor non è, che dunque è quel ch'io sento? l'altre intelligenze di mano in mano si ritro
Il quale noi, essendo egli malagevolissimo, come va, e questo si chiama intellettuale, ovvero an
ne dimostra il Petrarca stesso, che mosse bene gelico. Il secondo è quello, che solo nelle crea
in ello di molti dubbi e bellissimi, ma niuno ture razionali, cioè negli uomini si ritrova,
ne risolvette, avemo preso, sì per lo debito onde è appellato razionale. Il terzo è quello,
del nostro uffizio, e sì per compiacere ad al che è propio degli animali bruti, onde prese
cuni, a dovere oggi interpretare e scioglier il suo nome e si chiama animale. Il quarto ed
tutte le dubitazioni sopra dette, secondo la ultimo è quello, che in tutte le cose mancanti
dottrina del Filosofo divino, il quale intendia di anima si ritrova; e questo quanto è più co
mo in questa materia seguitare, riserbandoci a mune ed universale di tutti gli altri, tanto è
favellare d'amore secondo Aristotile ad un al ancora men degno e men perfetto, e si dice
tro tempo. Ma, perchè trattare d'amore senza naturale.
amore non si può, e favellare delle cose sue Sono dunque generalmente quattro sorti d'a
non deono gli uomini mortali, non che pro more: naturale (per cominciare dal più basso
fani, spogliatici di tutti i terreni affetti, e a e men perfetto), animale, razionale ed intel
te rivolgendoci, ed il tuo aiuto supplichevol lettuale. Delle quali avendo noi altra volta in
mente chiedendoti, diremo con altrui parole questo luogo stesso e sopra questa medesima
sì, ma bene all'animo e bisogno nostro conve cattedra lungamente favellato, non diremo al
nevoli, in questa maniera: tro al presente; ma pigliando solo l'amore ra:
O bello Dio, ch'al cor per gli occhi spiri zionale, cioè quello che è propio degli uomini,
Dolce disio d'amaro pensier pieno, lo divideremo, come genere, nelle sue spezie.
E ti pasci di lagrime, e sospiri, Diciamo dunque, che favellando noi dell'amore
Nodrisci l'alme d'un dolce veleno, razionale, cioè di quello che le creature ragio
Gentil fai divenir ciò che tu miri, nevoli all'altre creature ragionevoli portano
Nè può star cosa vil dentro il tuo seno, mediante alcuna cosa, la quale o sia veramente,
Amor, del quale io fui sempre soggetto, o pajalor bella, è necessario che chiunque amº,
Porgi or la mano al mio basso intelletto. ami alcuna creatura ragionevole o uomo, o
donna che sia. E perchè ciascun uomo, inten
dendo sotto questo nome così il maschio, come
soNETTO DI MESSER FRANCEsco pernAnca la femmina, è composto di due parti, cioè della
materia che è il corpo, e della forma che º
S'amor non è, che dunque è quel, ch'io sento? l'anima, può essere in tre modi consideratº;
Ma s'egli è amor, per Dio, che cosa? e quale? cioè si può considerare alcuna volta l'animº
Se buona, ond'è l'effetto aspro e mortale ? sola senza il corpo, ed alcuna volta il corpº
Se ria, ond'è sì dolce ogni tormento ? solo senza l'anima; e ultimamente tutto il com
S'a mia voglia ardo, ond'è 'l pianto e 'l lamento? posto, cioè l'anima e il corpo insieme. Dalle
S'a mal mio grado, il lamentar che vale? quali cose si cavano agevolmente tutte le spe
O viva morte, o dilettoso male, cie di tutti gli amori, che in tutte le creature
Come puoi tanto in me, s'io no'l consento? ragionevoli cader possono, le quali sono cinque
E s'io'l consento, a gran torto mi doglio, senza più: perciocchè si trovano alcuni, i quali
Fra sì contrari venti in frale barca o per grazia di Dio, o per beneficio di natu
Mi trovo in alto mar senza governo, ra, o per virtù e costume lor propio, o piut
Sl lieve di saver, d'error sì carca, tosto per tutte queste cose insieme sono di
Ch'io medesmo non so quel ch'io mi voglio, spirito tanto elevato e di sì felice intelletto, che
E tremo a mezza state, ardendo il verno. considerando l'anima sola, ed astraendola, co
me dicono i filosofi, cioè separandola dal corº
IL SOGGETTO po, quella sola amano, quella contemplano, di
quella si dilettano, e mediante le sue bellezze
le quali non sono altro che la sapienza e le
Per più chiara intelligenza non solo di que
virtù, s'ergono tanto alto che le bellezze del
sto, ma di tutti gli altri amorosi sonetti, anzi
di tutta la materia d'amore, e conseguente Facitore d'essa, cioè Dio contemplando, di quel
mente della maggior parte di tutti i poeti in nettare si pascono, e di quella ambrosia tanto
qualunque lingua e massimamente de toscani, da tutti gli antichi filosofi c sapientissimi teo
i quali come in favellare d'amore sono quasi logi e tanto meritamente celebrata; la quale
-

SULL' AMORE 19 I
altro non è che quello incredibile diletto, quello del suo Canzoniere trarre: del primo amore,
immenso piacere, quella infinita gioia, che in cioè del divino, e del secondo, cioè dell'one
contemplando le cose celesti e massimamente sto, e del terzo ancora, cioè dell'umano. E ben
il primo vero, il vero Ente e il sommo Bene, chè queste cose manifestissime siano a tutti co
con ineffabile dolcezza si prende, si sente e loro, che pure una volta letto hanno e consi
si gusta. E questi tali niuna cura tengono del derato i componimenti del Petrarca, si trovano
corpo, nè si mettono pensiero di lui, non al nondimeno di coloro che non solo credono essi,
tramente che se egli non fosse: e in somma, ma vorrebbono ancora che gli altri credessero,
messe tutte l'altre cose in non cale, attendono che il Petrarca solo d'amore disonesto e lascivo
solo alla contemplazione dell'anime, prima amato avesse, i quali sono nel medesimo erro
umane poi divine: e cotale amore ora celeste, re, anzi molto più biasimevole di coloro che si
ora divino è chiamato. Dall'altro lato si trovano fanno a credere, che il Petrarca solo d'amore
alcuni o per mancamento di natura, o per pro divino Madonna Laura amasse. Amò dunque il
pio vizio, d'ingegno tanto rozzo e di sì grosso Petrarca, non già dell'amore ferino, nè del vol
intelletto, che non tenendo conto alcuno del gare, i quali negli uomini sono biasimevolissi
l'anima, amano il corpo solamente, solamente mi, ma di tutti gli altri tre. E che ciò sia vero,
quello risguardano, di quello solo si compiaccio cominciando dall'amore umano ovvero civile,
no e prendono diletto. Onde quanto i primi non dice egli :
sopra la natura umana s'innalzano e divengono Con lei foss' io, da che si parte il Sole,
poco meno che dii, tanto questi secondi sotto E non ci vedesse altri, che le stelle
lei s'abbassano e quasi fiere diventano, onde Solo una notte, e mai non fosse l'alba (1)?
cotale amore fu ragionevolmente ora bestiale
chiamato e quando ferino. Trovansi oltra que E che vuole egli altro in quell'altro luogo si
sti due estremi, tre altre sorti d'amore; per gnificare:
ciocchè molti sono coloro, i quali amano non Pigmalion quanto lodarti dei
l'anima sola, come i primi, nè il corpo solo, Dell'immagine tua, se mille volte
come i secondi; ma l'anima e il corpo insie N'avesti quel ch'io solo una vorrei (2)?
me, cioè il composto. E questo può avvenire E che accadeva, che egli avesse detto prima:
in tre modi: perchè sono alcuni, i quali amano
lene l'una e l'altro, cioè l'anima e il corpo E maledico il dl ch'io vidi il Sole (3)?
insieme, ma amano prima l'anima, e per ca E poi:
gione dell'anima il corpo; e questi sono tutti Di riveder, cui non veder fu 'l meglio (4)?
coloro i quali col pensiero contemplano l'ani
ma, e con due sole delle cinque sentimenta, E che bisognava, ch'egli dicesse nella canzone
cioé col viso e coll'udito godono delle bellezze grande delle trasformazioni:
del corpo: perciocchè si servono degli occhi a Piansi molti anni il mio sfrenato ardire (5)?
contemplare la soavità de'colori e dell'orec Ed altrove:
chie la dolcezza delle voci, nè passano più ol
tra; perchè solo questi due sensi sono spiri Aspro core e selvaggio, e cruda voglia
tuali, e possono veramente delle cose spiritali, In dolce, umile, angelica figura,
che sono le vere bellezze, godere: e questo co Se l'impreso rigor gran tempo dura,
tale amore ora cortese o virtuoso, e quando Avran di me poco onorata spoglia (6):
gentile ed onesto chiamaremo. Sono alcuni ol con tutto il restante del sonetto. Ma che cosa
tra questi, i quali amano e l'anima ed il corpo, può dirsi più chiaramente, o con più aperte
e prima l'anima; ma dove i sopraddetti da parole, che in quel sonetto:
noi chiamati virtuosi ed onesti si fermano ai
Dolci durezze, e placide repulse,
due primi sentimenti, questi trapassano ancora Piene di casto amore e di pietate,
agli altri, con quella modestia però e con quella Leggiadri sdegni, che le mie 'nfiammate
civiltà, che ad uomo e moderato e civile è ri
chiesto. Onde cotale amore ora civile, e quando Voglie tempraro (or me n'accorgo) e 'nsulse (7)?
umano è chiamato. Ultimamente si ritrovano Che egli ancora amasse, anzi molto più, quan
alcuni, i quali amano anch'essi l'anima ed il to è più degno, dell'amore cortese ed onesto,
corpo insieme, ma prima il corpo che l'anima, non può niuno dubitarne, come dichiara an
anzi del corpo molto e dell'anima poco curan cora tutto quel sonetto:
do, solo della terra, anzi del fango a guisa che S'onesto amor può meritarmercede,
i porci fanno, si dilettano; e questo ora vol E se pietà ancor può quanto ella suole,
gare, e quando plebeo si noma. Mediante que Pietade avrò, che più chiara che 'l Sole
ste cinque sorti d'amore, cioè celeste o divino, A Madonna ed al mondo, è la mia fede (8),
cortese o onesto, civile o umano, volgare o ple
beo, bestiale o fermo, non solo si possono sol (1) Sestina I, Parte l.
vere le dubitazioni del presente sonetto, ma (2) Son. I, Parte I. - -

infinite altre di tutti gli scrittori. (3) Sestina I, Parte I.


(4) Son. XLI V, Parte II.
Onde bisogna sapere, che M. Francesco Pe (5) Canz. I, Stanza VIII, Parte I.
trarca amò la sua bellissima e castissima Ma
(6) Son. CCVI, Parte I.
donna Laura di tre maniere d'amori in diversi (7) Son. LXXXVI, Parte II.
tempi, secondo che da lui medesimo si può e (8) Son. LX, Parte II.
LEZIONE TERZA
192
E similmente quando disse: senza più, così quattro senza più dubitare se ne
Già traluceva a begli occhi il mio core, possono, se egli è, o no; e posto che egli sia, che
E l'alta fede non più lor molesta (1). cosa egli sia: quale egli sia, e finalmente per
chè egli sia, chiamate da filosofi, an sit: quid
E medesimamente: sit: quale sit: et propter quid sit. Nè è possibile
in cosa nessuna nè dubitare, nè sapere più di
La falsa opinion del cors'è tolta, qneste quattro cose, come ne dimostra il Fi
Che mi fece alcun tempo acerba e dura,
Tua dolce vista: omai tutta secura losofo nella Posteriora. Procedendo dunque il
Polgi a me gli occhi, e i miei sospiri ascolta (2). Poeta filosoficamente, dimanda prima se me
desimo per un colore retorico e poetico, se
Ma che più ? Non introduce egli sè medesimo quello che egli sentiva, cioè gli affanni e le
a ragionare con esso lei propia? quando disse pene sue, era amore o no; e rispondendo a sè
ne Trionfi: medesimo per la medesima figura, quasi voglia
Deh ! Madonna, diss'io, per quella fede tutto quello che gli si risponda confutare, di
ce: Se non è amore, che dunque è? quasi non
Che vi fu, credo, al tempo manifesta,
possa essere altro, essendo tanto acre e vee
Or più nel volto di Chi tutto vede (3).
mente, e soggiungendo:
E troverassi alcuno tanto empio e da ogni
buon costume tanto spazio lontano, che egli Ma s'egli è amor, per Dio, che cosa? e quale?
crcda che uomo tanto dotto, tanto costumato cioè posto che egli sia amore, che cosa è egli?
e tanto religioso avesse chiamato in testimonio E questo è il secondo quesito de' quattro, il
prima Colui che tutte le cose sa e vede, poi quale chiede la quidità, cioè l'essenza, ovvero
Colei che gli fu madre, figliuola e sposa, sostanza, ed in somma la natura della cosa; e
quando disse nella santissima canzone, e pie questa altramente non può esprimersi e dichia
tosissima a lei indiritta ed a lei favellando: rarsi, se non mediante la definizione, cioè de
Vergine, tale è terra, e posto ha in doglia finendo che cosa è amore. Ma perchè amore è
Lo mio cor, che vivendo in pianto il tenne, nome equivoco, cioè che significa più cose di
E di mille miei mali un non sapea: verse, non si può definire se prima non si di
E per saperlo pur quel che n'avvenne, stingue di quale amore s'intenda: nè anco si
Föra avvenuto, ch'ogn'altra sua voglia può intendere la definizione d'amore, da chi
Era a me morte, ed a lei fama rea (4). non sa prima che cosa bellezza sia. E perchè
nel definire così la bellezza, come l'amore è
Ora che egli amasse di quel primo e tranquil grandissima diversità tra i due migliori e mag
lissimo amore divino, niuno è che o possa o giori filosofi, che mai fossero, cioè tra Platone
debba dubitarne, e quelle parole poste nel so
ed Aristotile: noi contenti, a quanto avemo
netto, il cui principio è: Donna, che lieta col detto di sopra, ed a quanto diremo di sotto,
principio nostro, ne possono fare certissima te non definiremo nè la bellezza, ne l'amore al
stimonianza:
tramente, sì perchè questo sonetto non defini
C) delle donne altero e raro mostro, sce l'amore, cioè non dice la natura sostanzial
Or nel volto di Lui che tutto vede mente, ma lo descrive metaforicamente e per
Vedi il mio Amore, e quella pura fede, accidente, come vedremo di sotto, e sì perchè
Per ch'io tante versai lagrime e 'nchiostro: avemo animo di ſavellarne con più agio, par
E senti che ver te'l mio core in terra -
ticolarmente così secondo Platone, come se
Tal fu, qual ora è in cielo, e mai non volsi condo Aristotile – E quale? Questo è il terzo
Altro da te, che il sol degli occhi tuoi (5). quesito, il quale chiede e dimanda qual sia
Il qual sole degli occhi di Madonna Laura al amore, cioè di che qualità; sotto la qual pa
tro non era che l'onestissima bellezza sua, me rola si potrebbero comprendere tutti gli acci
diante la quale si levava alla contemplazione denti d'amore, e massimamente i propi, dei
delle bellezze celesti, e conseguentemente di quali chi volesse a sufficienza trattare, avrebbe
Dio, padre e fonte di tutte le bellezze. larghissimo campo da spaziarsi, ma più tempo
bisognerebbe.
Ma tempo è omai, che alla particolare spo
sizione del proposto maraviglioso sonetto tra Se buona, ond'è l'effetto aspro e mortale?
passiamo. Lasciato stare il Poeta il secondo quesito,
S'amor non è, che dunque è quel ch'io sento? che cosa amore sia (il che in vero suo uffizio
Come di tutte le cose si posson sapere quat non era) s'appiglia al terzo, cioè quale amore
tro cose e non più, così quattro cose di tutte sia. E perchè tutte le cose sono o buone o ree,
dubitare si possono senza più; esempi grazia, dimanda prima della bontà, opponendo così.
per istare su la materia del nostro sonetto, Nessuna cosa buona può cosa cattiva produrre,
come d'amore si possono sapere quattro cose perchè tutti gli effetti ritengono della natura
delle loro cagioni: onde quanto alcuna cagione
(1) Son. XLIX, Parte II. è più nobile e più perfetta, tanto i suoi effetti
(2) Son. XXXVII, Parte II. sono ancor essi di necessità più nobili e più
(3) Trionfo della Morte, capitolo II. perfetti. Volendo dunque mostrare il Poeta,
(4) Canº. Vlt I, Stanza Viii, Parte II. che amore non era cosa buona, lo prova da
(5) Son. LXXV, Parte II. questo, che gli effetti suoi sono aspri e mor
SULL'AMORE 193
tali, cioè inappassionano ed ancidono. E vale che più gli abbella: ma secondo i filosofi è dub
ottimamente questa conseguenza: questo effetto biosissima. Vogliono alcuni che ciò venga dal
è reo, dunque la sua cagione non è buona: destino, come dice questo medesimo Poeta in
perchè nessun ben, come bene, può produrre mille luoghi, come là :
male alcuno, ma solo per accidente.
Il mio fermo destin vien dalle stelle (1).
Se ria? ond'è sì dolce ogni tormento? Ed altrove:
Avendo dimostrato l'amore non poter esser In tale stella presi l'esca e l'amo (2).
buono, mostra ora lui non potere esser reo,
con la medesima argomentazione; perchè niuno Ma perchè questo è un modo di definire age
buono effetto può nascere da cagione rea, se volmente tutte le questioni, dicendo:
non per accidente, perchè niun male, come male, Sua ventura ha ciascun dal dl che nasce (3):
può produrre bene, ma solo per accidente. E o veramente:
se alcuno dubitando dicesse essere necessario
che amore sia o buono o reo, si risponde pri E così vada s'è pur mio destino (4).
ma negando ciò, perchè buono e reo sono di Ed il medesimo Petrarca, ora lo mette in forse,
quei contrari che hanno mezzo; onde non è come nel sonetto:
necessario, che dove non è l'uno sia l'altro:
poi amore è propiamente una passione concu Fera stella, se 'l cielo ha forza in noi (5):
piscibile, la quale può essere e buona e rea, ed altrove ne dà la colpa agli occhi, come nel
secondo che è bene o male usata. E ultima sonetto:
mente è da sapere che tutti gli amori, essendo
naturali, sono buoni, come avemo detto di so Occhi piangete, accompagnate il core (6);
pra, e diremo di sotto; ma il non sapergli usare e talvolta al cuore stesso, come là :
li fa rei: onde non vale la conseguenza fatta in
Perchè d'ogni mio mal te stesso incolpo (7):
questo luogo dal Poeta, o almeno se gli può age
volmente rispondere: perchè quando dimanda se e benchè dica molte volte:
è buono, si risponderebbe di sì: ed alla illazione Non mio voler, ma mia stella seguendo (8):
sua, cioè: – Ond' è l'effetto aspro e mortale?
si risponderebbe, ciò essere per accidente, cioè ed altrove:
venire da lui, il quale o non ama di quello Che già il contrario era ordinato in cielo (9):
amore, o in quel modo che dovrebbe. E così
quando dimanda: Se ria? si risponderebbe di e più chiaramente in quel luogo, quando fa
dire a sè stesso dal Re delle stelle medesimo:
no, di sua natura; ed a quello che inferisce:
Ond'è sl dolce ogni tormento? si risponderebbe . . . Egli è ben fermo il tuo destino,

; rendendogli la cagione, cioè che essendo amore


naturale, è ancora buono, dunque ancora dol
ce; ma il tormento gli dà il modo di chi l'usa
male, come di sotto più apertamente si vedrà.
E per tardare ancor vent'anni o trenta,
Parrà a te troppo, e non fa però molto (1o):
nientedimeno non ostante tutte queste cose
dette da lui, come i poeti fanno, ora secondo
Nè sia chi creda che la terza specie d'amore,
cioè il civile ed umano, sia reo: anzi secondo questa opinione, ed ora secondo quell'altra,
nella canzone che comincia: Lasso me! che non
i filosofi il generare è la più naturale cosa che
si faccia, dunque la migliore e più lodevole: so 'n qual parte pieghi: disse più chiaro e più
aperto che in altro luogo, e per quello che si
ma quello che biasimevole lo fa e non buono, può credere di sua propria intenzione:
sono le circostanze, cioè non far ciò, nè a de
bito tempo, nè con debito modo: Che parlo? o dove sono? e chi m'inganna,
Altri ch'io stesso, e 'l disiar soverchio?
Se a mia voglia ardo, ond'e'l pianto e il lamento? Già, s'io trascorro il ciel di cerchio in cerchio,
Procede con le medesime dubitazioni, quasi Nessun pianeta a pianger mi condanna,
per mostrare, che amore non è volontario, nè in Se mortal velo il mio veder appanna,
volontario. Perchè, dice egli, se io consento di Che colpa è delle stelle, -
O delle cose belle?
ardere, perchè piango io e mi lamento? E poi
seguita: Meco si sta chi dl e notte m'affanna,
Poi che del suo piacer mi fe'gir grave
Se mal mio grado, il lamentar che vale ? La dolce vista e 'l bel guardo soave (11).
Quasi dica, se amore non può fuggirsi, che mi
giova dolermi? Quanto è agevole il proporre (1) Sestina I, Parte I.
dubbi, tanto è difficile lo sciorgli. Dimandano (2) Son. CLXVIII, Parte I.
molti, se amore in verità è volontario o invo (3) Son. XXXV, Parte II.
lontario; cioè, se chi s'innamora, s'innamora di (4) Canz. V, Stanza II, Parte II.
sua volontà propia; di maniera che volendo, (5) Son. CXXII, Parte I.
possa fare senza innamorarsi; oppure è costretto (6) Soa. LV, Parte I.
(7) Son. VI, Parte II.
a ciò far mal grado suo. Questa dubitazione (8) Canz. II, Stanza I, Parte II.
secondo i teologi e la verità, non è dubitazio (9) Soa. LVII, Parte II.
ne: perchè avendo l'uomo il libero arbitrio, (1o) Son. LXXXII, Parte II.
certa cosa è, che egli può e non può, secondo (11) Cane. V, Stanza IV, Parte I. 5
VARCtil 2.
194 LEZIONE TERZA
E non contento a questo, soggiunse non meno Chiama adunque amore morte, perchè ogni volta
dottamente che altamente, e secondo i teologi muore l'intelletto, per dir così, che egli, nato
cristiani: a contemplare le cose celesti, è nelle terrene
Tutte le cose, di che 'l mondo è adorno, ritenuto; e v'aggiugne viva, perchè essendo l'a-
Uscir buone di man del Mastro eterno: more cosa naturale, non può essere se non
Ma me, che così addentro non discerno, buono; e come gli amanti si dicono morir vivi,
cosi si dicono ancora viver morti. E sebbene
Abbaglia il bel, che mi si mostra intorno:
E s'al vero splendor giammai ritorno, queste cose paiono favolose ed impossibili, so
L'occhio non può star fermo; no però, bene intese, verissime: e sebbene non
Così l'ha fatto infermo è vero semplicemente quel privilegio degli aman
ti d'essere sciolti da tutte le qualità umane e
Pur la sua propia colpa, e non quel giorno,
Ch'i volsi in ver l'angelica beltade che possano vivere senza cuore, ardere ed ag
Nel dolce tempo della prima etade (1). ghiacciare in un medesimo tempo, temere, e
sperare, aver guerra e pace e simili altre con
Ma noi, lasciando i poeti e gli astrologi da una trarietà, è però vero che molte cose negli
delle parti, e favellando aristotelicamente, dicia amanti si ritrovano, che negli altri non sono.
mo, che secondo lui la libertà dell'arbitrio non Onde ancora Tibullo disse:
si trova nella volontà, ma nell'intelletto; dal Quisquis amore tenetur, eat tutusque sacergue
che seguita, che se l'intelletto intende una Qualibet: insidias non timuisse decet.
cosa come bella o buona, la volontà non può
non volerla, ed è costretta a desiderarla e se E quasi gli amanti sono tanto differenti dagli
guirla: dal che seguita, che ogni volta, che ve altri uomini quanto coloro, che sono desti da
demo alcun bello o buono, che sono il me coloro che dormono. E perchè non poteva
desimo, non possiamo non desiderarlo. E se chiamare il Petrarca amore viva morte, se una
alcuno dubitasse, dicendo: Dunque ogni volta, " sola il pungeva e risanava; e se egli
1SSe -
che alcuno vedrà alcuna cosa o bella, o che
bella gli paja, sarà costretto d'amarla ed in Mille volte il dl moro e mille nasco (1)?
somma d'innamorarsene: si risponde questa
conseguenza non essere buona, e noi non aver E se volemo intendere questo luogo più pro
detto così; ma ne seguita bene, come avemo fondamente, dovemo sapere, che ogni amante,
detto, che egli la desidererà. Tuttavolta questo come testimonia Platone, è in sè morto; e per
primo desiderio non è, e non si chiama amore, questo chiamava amore una morte volontaria.
perchè innanzi che divenga amore, vi bisogna Onde come morte, è amaro, e come volontaria,
il consenso dell'intelletto: e questo non vi può dolce; il che disse ancora Catullo, descrivendo
Venere:
essere se non v'è la speranza di poterla con
seguire: perchè l'amore non può stare senza . . . . . . Non est Dea nescia nostri,
speranza. E se il Petrarca disse: Quae dulcem curis miscet amaritiem.
E vivo del disir fuor di speranza, Onde Orfeo chiamava l'amore un dolce amaro.
lo disse poeticamente, come fa molte altre co È dunque l'amante morto in sè, ma vive, se
se, e per mostrare l'amor suo maggiore, e sè più è riamato, nella cosa amata; ma se l'amore
infelice di tutti gli altri, perchè portava invi non è reciproco, ovvero scambievole, si può
dia a quelli, che erano in su l'altra riva: la dire del tutto morto, come si vede nel sonet
qual cosa è del tutto impossibile per l'essere to: – Mille fate, o dolce mia guerriera (2). E
e tanto nobile, e tanto propio di Dio, che de so bene, che queste cose quanto sono vere e
siderando ciascuno d'assomigliarsi a Dio, non mirabili appresso i filosofi, che le intendono,
può desiderare di non essere. tanto paiono false e ridicole appresso i volgari,
O viva morte, o dilettoso male. In queste pa i quali non sanno, che l'essere e l'operare so
role volgendosi il poeta ad amore, e quasi de no il medesimo, cioè che tanto è uno, quanto
scrivendolo dagli effetti lo chiama una morte egli opera, e quivi si chiama essere, dove egli
viva; la qual cosa tanto è più bella e maravi opera. Ora la cogitativa degli amanti, sdimen
gliosa, quanto essendo la morte privazione della ticatisi di sè medesimi, si converte nella cosa
vita, ed in somma essendo morte e vita con amata, e quivi pensa, e quivi discorre: dunque
trari, non possono stare insieme in un mede opera quivi, cioè nell'amato; dunque è in lui
simo soggetto a un medesimo tempo, perchè dunque non è nell'amante; non potendo essere
chi non è vivo, conviene necessariamente che in un medesimo tempo in due luoghi: dunque
morto sia. Sebbene non solamente questo poeta, l'amante non opera in sè: dunque non è in se;
ma tutti gli altri usano somiglianti modi di fa dunque è morto in sè. E così è vero tutto
vellare, e Dante ancora disse: quello, che s'è detto e che l'amore si può
Io non morii, e non rimasi vivo: chiamare morte; e così si potrebbe provare,
che gli amanti, quando sono riamati, hanno due
Pensa ora mai per te, s'hai fior d'ingegno, vite, ed infiniti altri maravigliosissimi misteri:
Qual io divenni d'uno e d'altro privo (2). ma il tempo non lo concede.

(1) Cauz. V, Stanza V, Parte I. (1) Son. CXIII, Parte I.


(2) Inferno, Canto XXXIV. (2) Son. XVII, Parte I.
SULL'AMORE 195
O dilettoso male. – Per le medesime cagio e però disse - Fra si contrari venti, cioè fra
ni, che amore si chiama morte viva, si chiama sì diverse passioni: come disse altrove:
anco male dilettoso, quasi che il male possa
essere buono. Onde è da sapere, che come niu Piacciavi porre giù l'odio e lo sdegno,
no falso si può trovare, il quale non abbia al Venti contrari alla vita serena (1).
cuna cosa del vero, perchè altramente non sa In frale barca. Sta nella medesima trasla
rebbe vero, che del falso si potesse cavare la zione ed accresce l'infelicità per muovere
verità, così nessun male trovare si può, il quale compassione maggiore; perchè essendo tra
non sia fondato in alcun bene, perchè il male contrari venti, ed avendo la barca fragile e
da sè e di sua natura non è nulla. Onde egli debole, non può altro sperare che di dover
non si trova in nessun lato, dove non sia be fare tostamente naufragio, e tanto più trovan
ne, non altramente che non si trova ombra ov dosi, come seguita: –In alto mare, e non avendo
vero rezzo in luogo nessuno, dove non sia sole. governo, cioè timone; senza il quale tanto è
E di cotali contrarietà, come sono queste, vi possibile, che una nave si conduca felicemente
va morte, e male dilettoso, sono tutti i poeti pie a porto, quanto che un uomo o sia, o discorra
ni, e massimamente i Toscani, e fra Toscani il senza ragione, per la quale si intende il go
Petrarca. E chi vuole vederc raccolto insieme verno. E chi vuole bene intendere questo luo
tutto quello che in simil genere si può d'a- go, legga e consideri tutto il sonetto, che co
more insieme accozzare, dopo quello che disse mincia: Passa la nave mia colma d'oblio (2);
il Petrarca Fiorentino nel trionfo d'Amore, e vedrà ancora perchè disse altrove:
legga quella maravigliosa elegia del Petrarca Sì leve di saver, d'error sì carca,
Veneziano, che comincia: Amore è, donne care, Ch'io medesmo non so quel ch'io mi voglio(3).
un dolce e fello.
Dalle tante, e si grandi contrarietà dette di
Come puoi tanto in me, s'io nol consento? –
Ritorna un'altra volta, ma per diverse cagio sopra seguita ragionevolmente, che il Poeta
ni a quello che aveva detto di sopra: – S'a tutto risoluto non sapesse, nè che dire, nè che
mal mio grado: E soggiugne: – E s'io'l con fare, tanto che egli medesimo non sapesse
sento, a gran torto mi doglio; – rispondendo quello che si volesse; perchè, come il diletto
da un lato lo tirava, così lo ritraeva da l'al
a quello: – S a mia voglia ardo; come dis
se altrove: tro; chè tal diletto era pieno di noia: perchè
l'amore, come buono e naturale, il dilettava,
E cieca al suo morir l'alma acconsente (1). ma poi, come non convenevole all'intelletto, gli
portava molestia per le ragioni che di sotto si
Ed è certa cosa, che l'intelletto mai non con diranno. E perchè gli uomini, anzi tutti gli
sente a cosa nessuna, la quale o non sia, o non animali fuggono ordinariamente più il dispia
gli paja buona: perchè egli non può intendere cere, che non cercano il piacere; onde più si
altramente di quello, che gli detti il senso. dolgono del male che non s'allegrano del be
Onde come un uomo temperato e continente ne, perciò il poeta e in questo luogo e in mol
eleggerà di non fare, verbigrazia, adulterio, sti tissimi altri si duole acerbamente, come quegli
mando meno il piacere, che di quello potesse che aveva di che, posciachè tremava a mezza
cavare, che la vergogna e il biasimo che di state ed ardeva il verno; il che non è altro,
ciò gli potesse avvenire, così uno incontinente che temere nella speranza, e sperare nel ti
more; cose tutte contrarie e naturalmente inn
e distemperato eleggerà di farlo, tenendo mag
gior conto di quel diletto carnale, che egli possibili, ma che sanamente intese, sono negli
amanti verissime.
non fa del vituperio e del peccato che indi
risulta. E però si debbono avvezzare i fanciul Che pro, se con quegli occhi ella ne face
li, dicono Platone e Aristotile, a rallegrarsi Di state un ghiaccio, un foco quando verna;
delle cose buone e rattristarsi delle ree, quel
le lodando come utili, e queste come disutili disse egli altrove al medesimo proposito, e per
biasimando. -
le medesime cagioni. Ma tempo è omai di tra
Fra si contrari venti in frale barca. – Come passare a scioglier i dubbi proposti, il che age
volmente si farà; parte mediante le cose dette,
quando il mare è tranquillo e l'aere sereno, è
sicurissimo il navigare ancora senza arte, così e parte mediante quelle che si diranno; nelle
quando gli uomini sono d'animo tranquillo e quali se ad alcuno paresse, che io abbia fatto
sereno, non solo giudicano dirittamente, ma vi divisione, o dichiarazioni nuove dintorno al
vono ancora quietissimi. E come quando il l'amore, ricordisi che l'età mia e la profes
mare è da contrari venti combattuto, non si sione e la lunga sperienza che io ho per cer
tissima prova nelle cose d'amore:
può cosa nè più orribile, nè più pericolosa ve
dere; così quando gli uomini sono dai venti Che m'ebbe poco men fin dalle fasce,
delle passioni soffiati, oltra che non si può ve non solo il permettono, ma ancora lo richieg
dere più terribili furie, non possono nè retta gono.
mente giudicare, nè quietamente vivere: e per Che amore sia, che cosa egli sia, e quale
che l'amore è la più potente delle passioni,
quinci è che perturba ancora maggiormente; (1) Canz. IV, Stanza VII, Parte IV.
(2) son. CXXXVII, Parte I.
(1) Son. XCII, Pate 1. (3) son. LXXXVIII, Parte I.
LEZIONE TERZA
196
egli sia, hanno molti molto lungamente e dot di tutte, cioè Dio, del quale non possiamo altro
tamente dichiarato: ma perchè egli sia, cioè intendere veramente se non che intendere non
perchè egli fosse a tutte le cose dato, e in som lo possiamo. La seconda è, che tutte le cose, es
ma la cagione finale, la quale come è ultima sendo imperfette e manchevoli, come detto ave
in ordine, così è la prima di dignità e princi mo, desiderano naturalmente la loro perfezione,
pale di tutte l'altre (conciossiachè tutte l'al ed interezza: e la perfezione ed interezza loro
tre sono fatte, e si desiderano per lo fine so non è altro che assomigliarsi a Dio, quanto
lo) non hanno molti, che io sappia, dichiarato. alla natura di ciascuna conviene il più. La
E di qui viene senza dubbio, che tutti coloro terza ed ultima cosa è, che tutte le cose, come
che hanno scritto d'amore, ne hanno varia sono manchevoli, e come desiderano la perfe
mente scritto, facendolo ora buono, ed ora reo, zione loro naturalmente, così hanno ancora
ora dolce, ed ora amaro, e conseguentemente dalla natura, la quale non manca mai nelle
ora più che tutte l'altre cose lodandolo, ed cose necessarie, un mezzo, mediante lo quale
ora più che tutte l'altre biasimandolo; come possono la loro perfezione, e conseguentemente
coloro, i quali non dalla natura propia di lui, la loro beatitudine, conseguire. E questo mezzo
ma secondo gli affetti loro, il giudicavano: è senza dubbio nessuno l'amore, e per questo
perchè chi dolce e felice provato l'avea, il lo solo, e non per altro sta ferma la terra, ed i
dava come buono e come utile: e chi per lo cieli si muovono; per questo corre l'acqua,
contrario infelice ed amaro provato l'avea, come producono le piante, e generano gli animali:
reo e dannoso il biasimava. E perchè quasi e per ridurre infinite cose in poche parole,
sempre per la varietà delle cose umane acca tutto quello che fanno tutte le cose, lo fanno
de, che ora felicemente, ed ora infelicemente solo per amore, cioè per conseguire la perfe
s'ami, di qui viene che un medesimo ora se zione ed ultima felicità. E di qui potemo trarre
ne loda ed ora se ne biasima, come si può l'universalissima e verissima diffinizione d'a-
vedere in tutti coloro, che in tutte le lingue more. Il quale non è altro che un appetito dato
scritto n'hanno, e più nel Petrarca, che negli dalla natura a ciascuna cosa d'assomigliarsi a
altri. E di vero pare strana cosa a chi non sa Dio quanto può il più, per conseguire la perfe
la cagione, onde è che tutti gli amanti più di zione e beatitudine sua. Nè è dubbio alcuno,
tutti gli altri si dolgono ed hanno più di tutti che tutte l'altre cose, dall'uomo in fuori, con
gli altri continua passione; non dico solo quelli seguono sempre il lor fine, se impedite non
che infelicemente amano, della quale infelicità sono: perchè sempre le cose gravi vanno in
non si può trovare miseria maggiore, ma di giù, se non hanno chi le ritenga, e le leggieri
quegli ancora, i quali nell'amare sono felicis all'insù; e come l'erbe, i frutici e le piante
simi. E quello che maggior cosa pare, è, che producono sempre i fiori e frutti loro, cosi
dove tutti gli altri infermi con tutti i rimedi tutti gli animali o terrestri o acquatici generano
e con tutti gli argomenti procurano di ricove sempre che impediti non sono; e così conse
rare la loro salute, gli amanti soli ciò non fan guono sempre il fine e la perfezione loro, e
mo, perchè, come disse Properzio: s'assomigliano in quel modo, che possono a
Solus amor morbi non amat artificem. Dio. Solo l'uomo quanto più doverebbe ciò
fare per la nobiltà sua, tanto meno il conse
Anzi quanto più miseri sono e più dolorosi, o gue. Il che gli avviene per lo avere egli la li
maggiormente straziare si vedono, tanto più bertà dell'arbitrio, cosa che altrove, che in
ostinati stanno; e quasi gareggia ciascuno di lui, secondo i filosofi, non si trova. Onde è da
esser il più infelice, come se di ciò gli si do sapere, e di qui si scioglieranno tutti i dubbi,
vesse corona: nè mai alcuno se ne trovò, an che l'uomo solo, essendo quasi un picciol
cora che fosse, o essere gli paresse il più sven mondo, ha in sè tutte le maniere degli amori,
turoso di tutti gli altri, il quale non dico cer cioè il naturale, l'animale ed il razionale: ma
casse, ma desiderasse di liberarsi da amore, di questi tre il suo propio è il razionale, come
cioè di non amare più. Desidera bene ciascuno più degno: perchè l'uomo è uomo, non per
di liberarsi da quelle pene, noie e angosci e l'anima vegetativa, che egli ha comune colle
che amore porta seco, ma da amore no; e non si piante, nè per la sensitiva, che egli ha comune
accorge che desidera quello che essere non può con gli animali: ma per l'intellettiva, che è
in verun modo, perchè amare senza amaro non propio sua; ha dunque l'uomo tutti gli amori,
si può, se non in un modo solo. ma principalmente il razionale. E perchè il ra
E perchè in questo consiste tutta la diffi zionale si divide in cinque spezie, come ve
coltà non solo di questo sonetto, ma di tutte demmo di sopra, è da sapere che in una sola
le questioni d'amore, non ci parrà fatica in di loro si può amare senza amaro; perchè solo
tanto alta e malagevole materia, e dalla quale l'amore celeste ovvero divino non pure non
sola si può maggior utilità trarre, che da tutte ha noia nessuna, ma è di tutte le gioie ripie
l'altre insieme, distenderci alquanto, da altis no; in tutti gli altri, ancorchè siano tutti
simo capo necessariamente cominciando. Biso naturali, sono infinite pene, e forse più nel
gna dunque che sappiamo principalmente tre cortese ed onesto, che in tutti gli altri, seb
cose, la prima delle quali è, che in tutto l'uni bene è il più lodevole e più maraviglioso, dal
verso non si trova cosa nessuna, la quale sia celeste in fuori, per le cagioni che altra volta
perfettº, cioè, a cui non manchi alcuna cosa da dichiararemo. E se alcuno dubitando, di man
una in fuori, e questo è il Facitore e mantenitore dasse: Come è possibile che essendo Iuesti
amori naturali, non siano buoni e dilettosi; si gli uomini sono più filosofi e conseguentemente
risponde, che essendo naturali, non possono es più perfetti, tanto più cercano e si dilettano
sere se non dilettosi, e buoni come naturali: delle cose belle, non avendo altra via, non che
perchè la natura mai non fa, anzi mai non può migliore di questa per levarsi da terra; la qual
fare cosa che buona non sia. Ma l'errore ed cosa hanno molti scrittori, così poeti, come
il difetto viene da noi, perchè cotali amori prosatori, spinti dalla forza della verità, detto
negli animali sono buoni e dilettosi come loro senza sapere quello che si dicessero.
naturali; ma negli uomini no: perchè l'uomo Ma perchè i misteri d'amore, come sono
è uomo solo, come s'è detto, per l'anima in meravigliosissimi, così sono infiniti, e non se
tellettiva, e l'anima intellettiva, essendo im ne verrebbe a capo mai, diremo solo, che tutti
mortale, non può di cose mortali dilettarsi. E coloro che amano, se vogliono amare senza
di qui viene, che chi non ama intellettiva passione e tormento, rimirino bene le bellezze
mente, cioè d'amore celeste e divino, non mortali, ma non le amino, se non quanto me
può mai essere contento, anzi non può non diante quelle s'alzino a contemplare e godere
essere discontento. E di qui viene ancora che le divine, le quali sono non pure senza alcuna
tutti gli amanti Perottiniani, e che amano pena, ma danno abbondantissimamente tutte le
d'altro amore, che di celeste, sempre si dol gioie. E perchè questo è piuttosto dono divino
gono, e non sanno le più volte di che. La che opera umana, chi non può ascendere tanto
qual cosa non è altro, se non che l'intelletto, alto, saglia almeno all'amore cortese ed onesto,
essendo divino, e dovendo di sua propia na nel quale sebbene è dolore e passione, è però
tura alzarsi al cielo, si vede abbassarsi a ter d'un'altra sorte dolore e passione, che negli
ra: onde non può non dolersi. E quello che altri e tanto degno di tutte le lodi, quanto gli
cercano gli amanti, e non sanno che sia, nè altri si possono, per avventura, scusare, e mas
come, o dove trovarlo, non è altro che la na simamente il civile ed umano; ma non già lo
tura dell'intelletto, la quale la sua beatitudine dare. Diremo ancora, che da queste cose si può
e perfezione cercando sempre, sempre vorreb cavare agevolissimamente tutto il sentimento
be alzarsi al cielo, e però cerca sempre il bel di questo presente sonetto, e sciogliere tutte
lo. E la ragione e, perchè essendo egli nel la dubitazioni che in esso, anzi in tutta la ma
corpo umano, come in una prigione, e desi teria d'amore nascere possono: perchè quel
derando, come tutte l'altre cose, anzi tanto che sentiva il Petrarca era amore, ed era cosa
più, quanto è più nobile di tutte l'altre, la buona, essendo naturale; e l'effetto aspro e
perfezione sua; e non potendo conseguirla, se mortale non veniva dall'amore, ma da lui che
non mediante l'amore ; ed essendo l'amore amare non sapeva; volendo che le bellezze ter
desiderio di bellezza, è costretto ad amare le rene, che devono essere strumento e scala alle
cose belle, ogni volta che belle gli pajono, o celesti, gli servissero come divine. Ed era cosa
buone, perchè bello e buono, secondo i filo ria, non l'amore che egli portava a Madonna
sofi, si convertono; perchè tutto quello che è Laura, onde ogni tormento gli era dolce; ma
bello, è ancora necessariamente buono, ed al il non sapere egli in che modo, o quello che
l'opposto tutto quello che è buono, è ancora amare si dovesse. Ardeva a sua voglia, perchè
bello di necessità. Cerca adunque l'intellet l'intelletto nostro non può non amare le cose
to nostro le cose belle, non per fermarsi in belle; ma piangeva poi e si lamentava, perchè
quelle ; ma per salire mediante le bellezze non poteva la perfezione sua ed il suo fine con
terrene, che sono ombra di bellezza, alle di seguire mediante le bellezze umane. Ardeva
vine che sono vere bellezze. E perchè la bel ancora mal suo grado, cioè conosceva l'intel
lezza si trova in tre cose, ne' corpi, nelle letto suo non poter, così amando, conseguire il
voci e negli animi, quinci è che queste tre fine suo: e però non gli valeva il lamentarsi;
cose quando insieme, e quando di per sè si ma bene valuto gli sarebbe, se non il lasciare
amano: ma coloro soli sono senza miseria, anzi le bellezze umane, almeno servirsi di loro a
felicissimi, i quali amano gli animi soli. E per quello, a che elleno buone sono, cioè a conoscere
chè la bellezzza è cosa incorporea, quinci è le celesti e fruirle. Diffinì ancora l'amore, del
che non si può veramente godere, se non con quale s'intende in questo sonetto, divinamente;
l'animo; e di qui nasce ancora, che gli amanti perchè non è altro che una morte; concios
mai di rimirar le cose amate non si saziano; siachè l'amare quello che non si debbe, o nel
e nel rimirarle, sebbene hanno infinita con modo che non si debbe, non è altro che am
tentezza, e sentono tal gioia e tanta, che niuno mazzare l'intelletto, il quale, nato a salire al
può, non che comprenderla, crederla che pro cielo, non sente più vera morte, che essere in
vata non l'abbia: desiderano nondimeno sem terra ritenuto; e si chiama morte viva, perchè
pre quello che da loro che non lo conoscono, l'amore, come amore, non è morte, ma vita;
è chiamato un non so che ; il qual non so e così in quanto è naturale, è vita, ma in quanto
che non è altro che lasciare le bellezze mor è nell'uomo, che è uomo per l'intelletto, è
tali e poggiare alle divine: perchè in quelle morte; e per la medesima cagione, cioè come
sole consiste la perfezione e beatitudine loro. amore e come naturale, è dilettoso, ma come
Ben è vero che l'intelletto nostro non potendo male usato, si chiama male. Consentiva il poeta
intendere nulla senza il senso, ha bisogno delle ad amore, cioè come a cosa buona e natura
bellezze terrene, mediante le quali desto ed le, e si doleva, come dice egli, a gran torto:
incitato saglia alle celesti: onde è che quanto perchè non d'amore s'aveva a dolere, ma di
198 LEZIONE TERZA
sè medesimo, che l'amore male usava, e po molto disio, che d'alcuna speranza pascendo;
teva assai in lui, ancora che nol consentisse: non osando nè ancora questo mio giustissimo
giacchè non possiamo non consentire alle cose ed ardente desiderio farvi sentire. Ma inteso poi,
buone e naturali, sebbene poi non rettamente che la Lezione fatta già da me sopra la Gelosia
usandole, non vorremmo consentire. e indiritta a M. Lucantonio Ridolfi, il quale io
Fra questi contrari venti e queste perturba non meno per le molte sue virtù propie, che per
zioni umane era in quel modo e per quelle la nobiltà de' suoi maggiori ed antichissima ami
ragioni che di sopra si disse, a tale condotto il stà nostra, amo grandemente ed osservo, dispia
poeta nostro, che egli stesso non sapendo quello ciuta non v'era, avendovene egli, del che gli sarò
che volesse, tremava a mezza state ed ardeva perpetualmente obbligato, fatto, già sono più anni
il verno. Il che non vuole altro significare, se passati, graziosissimo dono, presi ardimento di
non che non potendo saziarsi delle bellezze volervene una indirizzare ancora io. Poscia con
terrene, e non sapendo alzarsi alle celesti, ri siderata meglio l'altezza di voi e la mia bas
maneva in dubbio fra caldo e freddo, cioè fra sezza, e quanto sia grande la differenza, che è
speme e timore, ed in somma tra vivo e morto. tra me e M. Lucantonio Ridolfi, me ne stetti
Vivo, perchè la vita dell'intelletto è la con senza mandarla. Ultimamente, essendo il reveren
templazione, della quale è cagione l'amore, e dissimo nè mai bastevolmente lodato monsignor
dell'amore è cagione la bellezza; morto, per Lenzi, vescovo di Fermo e mio signore osservan
chè in luogo di contemplar le bellezze divine, dissimo, venuto Nunzio di Sua Beatitudine a
contemplava le mortali, le quali come ne deb cotesta Maestà Cristianissima, ritornai nel pri
bono dar vita, innalzandosi a quelle del cielo, miero proponimento: sì per lo aver io di nuovo
così ne possono, anzi sogliono bene spesso ar inteso, non pure la moltitudine delle rare virtù,
recare morte a chiunque, troppo di loro in ma la grandezza della incredibile benignità del
vaghitosi, in elle si ferma. Conchiudiamo dun cortesissimo animo vostro, e sì per non vivere
que, che tutti gli amori, essendo naturali, sono più lungamente tra cotanta speranza e così fatto
buoni, ma non tutti a tutte le cose indistinta timore. Alle quali cose s'aggiugneva, che la let
mente convengono: onde sebbene tutti si ritro tura, la quale io intendo di dedicarvi, non già
vano nell'uomo, un solo però e non più, cioè con isperanza di premio alcuno, cosa dalla na
il celeste e divino è quello che propiamente tura ed usanza mia lontanissima: nè anco per
gli si richiede: mediante lo quale rivoltosi a rendervi più onorata: del che, nè voi avete bi
Dio, che è solo perfetto, ed a lui divenuto si sogno, nè io sono tale, che possa ciò fare; ma
mile, comincia ad avere in questa breve ca solo per mostrarvi in qualche parte, con quel
duca vita mortale grandissima arra e certissima modo che so e posso migliore, il divotissimo af
di quella felicità e beatitudine, che egli nella fetto e l'affezionatissima divozione dell'animo
celeste e sempiterna spera ed aspetta. E qui mio verso le rarissime, anzi singolari qualità
sarà, nobilissimi e graziosissimi Ascoltatori, così vostre , favellando d'amore onesto e di celeste
del ragionar nostro, come dell'ascoltar vostro bellezza, non pareva, che ad altra persona più
la fine. convenevolmente, che alla vostra inviare si do
-
vesse. Nella quale una per ispeziale dono di
Dio e della natura si vede insieme con ogni
LEZIONE QUARTA bontà ogni bellezza congiunta.
soPRA ALCUNE QUISTIoNI D' AMORE

Lezione D'AMoRE FATTA DA MEssER BENEro ETTo

ALLA NON MEN DOTTA CHE GENTILE VARCHI PUBBLICAMENTE NELLA VIRTUosissIMA Ac

E VIRTUOSA DAMIGELLA CADEMIA FIORENTINA.

MARGHERITA DU BOURG Con tutte quante le cose generanti sono di


DAMA DE GAGE lorpropia natura più nobili e più perfette di tutte
quante le generate; così nè più nè meno tutte
BENEDETTO VARCHI quante le cagioni sono, molto magnifico e pruden
tissimo Consolo, dottissimi Accademici, e voi tutti,
Gli è già gran tempo passato che io, bellissima Uditori giudiziosissimi, più perfette per sua na
tura medesima e più nobili di tutti quanti gli
e virtuosissima Donna, avendo più volte di vari effetti loro. La bellezza genera ed è cagione
luoghi inteso e da diverse persone quanti fos dell'amore: è dunque l'amore men nobile e
sero e quanto grandi i beni, che oltra a quelli men perfetto della bellezza. Ma dall' amore
della natura e della fortuna nel gentile e pru solo e non da niuna altra cosa procedettero,
dentissimo animo vostro si ritrovavano, comin procedono e procederanno sempre tutti i beni,
ciai a desiderare ardentissimamente di farmivi, o d'anima, o di corpo, o di fortuna, che in
se non caro, almeno conto. Nè sapendo io in tutti i luoghi, per tutti i tempi e da tutte le
che modo, ne con qual maniera ciò accon
cose s'ebbero, s'hanno e s'aranno mai; dun
ciamente fare mi potessi, trovandomi tanto, non que niuno ingegno, niuna lingua, niuno inchio
solo di luogo, ma eziandio di grado e d'ogni
altra qualità lontano, m andava più tosto del stro nè fu, nè è, nè mai sarà che possa nè
scrivendo, ne parlando, nè pensando tanto al
SULL' AMORE 199
tamente, degnamente e gratamente nè lodare, ziano: la bellezza, la bellezza sola e non altro
nè onorare, nè ringraziare la bontà, la sapienza nè stanchezza mai, nè fastidio non arreca; anzi
e la cortesia di questo grandissimo e potentis quanto più o si possiede, o si mira, tanto più
simo Demone, che non sia basso, indegno ed cresce e di possederla sempre e di sempre mi
ingrato, se a quello si vorrà risguardo avere o rarla il desio. Chi può mai o così spesso, o
che merita egli come beneficiante, o che do tanto da vicino rimirare una cosa bella, e mas
vemo noi come beneficiati. Perciocchè, che il simamente se è da lui con ogni esperienza co
cielo si mova, n'è prima e principale cagione nosciuta, cioè amata, che egli, non dico o si
amore, ed il muoversi il cielo fa che la terra sazi mai, o si stanchi nel riguardarla, ma che
stia ferma: dal movimento del cielo come padre, non pianga sempre a caldi occhi e non sospiri
e dalla quiete della terra come madre nascono, ciascuna volta che di vederla gli è tolto?
erescono e si mantengono tutte le cose, tanto le Oimè, perchè sì rado
viventi, come son le piante e gli animali, quanto Mi date quello ond'io mai non son azio (1)?
le mancanti di vita, come son tutte l'altre cose
sotto il cielo, che animali o piante non sono. gridò quel poeta felicissimo, del quale niuno
Anzi non pure tutte le cose che da Dio e dalla mai nè seppe meglio, nè più leggiadramente
natura si fanno, si fanno solo mediante l'amo cantò i profondi misteri d'amore:
re; ma ancora tutte quelle che parlano e che Io non porla giamai
operano tutti gli uomini. Le quali cose stando Immaginar, non che narrar, gli effetti,
così, niuno è che io creda, discretissimi ed in Che nel mio cor gli occhi soavi fanno.
gegnosissimi Ascoltatori, nè tanto materiale, nè Tutti gli altri diletti
di sì grossa pasta, come volgarmente si dice, Di questa vita ho per minori assai:
il quale non sappia quanto, come e perchè quel E tutte altre bellezze in dietro vanno.
fiore, quella luce e quella grazia, che bellezza Pace tranquilla, senza alcuno affanno,
toscanamente si chiama, di cui l'amore è figliuo. Simile a quella, ch'è nel cielo eterna,
lo, debba essere non dico amata e lodata so Muove dal loro innamorato riso;
lamente, ma ammirata ancora ed onorata sì da Così vedessi io fiso
tutti gli uomini in generale, e sì da coloro par Come Amor dolcemente gli governa,
ticolarmente, i quali o per divina grazia, o per Solo un giorno da presso,
propia virtù meglio la conoscono degli altri, Senza volger giammai rota superna;
e per conseguenza più perfettamente la frui Nè pensassi d'altrui, nè di me stesso,
scono. Perciocchè sebbene tutti gli uomini co E'l batter gli occhi miei non fosse spesso (2)!
noscono in alcun modo e conseguentemente
amano alcuna beltà; non è però da dubitare Della quale stanza ardirò io dire, senza tema
di dovere essere presuntuoso tenuto, non tro
che quanto ciascuno è più perfetto, tanto ezian varsi nè nella greca lingua, nè nella latina al
dio più conosce le beltadi e più le ama; anzi trettanti versi, i quali con cotal materia nè
non può trovarsi, amorosissimi Ascoltatori, nè quanto alla grandezza e gravità delle sentenze,
più manifesto segno a conoscere un animo no nè quanto alla dolcezza e leggiadria delle pa
bile, nè meno fallace argomento che l'amore.
role, non dico la trapassino, ma l'aggiungano:
Conciossiacosachè chiunque ama, ama necessa anzi a grandissima pezza le s'avvicinino.
riamente la bellezza; chiunque ama la bellez Ma tornando al proponimento nostro, egli
za, è necessario che la conosca; e ciascuno è
di necessità tanto o più o meno d'animo no non si trova gran fatto niuno, il quale o sopporti
volontieri, o confessi liberamente da alcuno esse
bile e perfetto, quanto egli o meno o più re vinto in alcuna cosa, se non dalla bellezza so
la bellezza conosce; perchè la bellezza è real la: anzi in ella quanto è più vinto ciascheduno,
mente, come dicono i filosofi, cioè in sostanza,
tanto maggiormente non solo il sopporta e con
e quanto alla propia natura sua, il medesimo fessa, ma se ne vanta eziandio e se ne gloria,
che la bontà: laonde come in qualunque cosa come in mille altri luoghi, ed in questi vera
di qualunque maniera, quantunque laida e soz mente benedetti versi apertamente si conosce:
za, si ritrova necessariamente alcun bello, così
ancora vi si ritrova necessariamente alcun Benedetto sia 'l giorno, e'l mese, e l'anno
buono. E quinci è che quanto alcuna cosa è E la stagione, e'l tempo, e l'ora, e 'l punto,
più bella, tanto è ancora migliore e conseguen E'l bel paese, e 'l loco, ove io fui giunto
temente più amabile. Chi è colui, amabilissimi Da duo begli occhi, che legato m'hanno (3);
Ascoltatori, il quale, se per caso riscontra, o stu con tutto quello che in tutto questo dolcissimo
diosamente ritrova alcuna cosa che bella sia
e leggiadrissimo sonetto seguita. Ma che bisogna
veramente, o che da lui bella si giudichi, non ch'io tenti o di volere annoverare tutte le stelle
si senta in un subito prima commovere tutto del cielo ad una ad una, o di dover mostrare
e quasi destarsi, poi come stupefatto non l'am che il Sole di Luglio a mezzo giorno riluce?
miri ed onori, e finalmente non la desideri?
Ditemi, per vostra fe, amatissimi ed amantissimi
Ha la bellezza, la quale non è altro che un Ascoltatori, non sarebbe egli o giustamente ri
raggio dello splendore della luce e bontà di preso, o più che ragionevolmente deriso chiun
Dio, tanta forza in tutte le cose, che nessuna
può nè piacere agli occhi, nè dilettare l'animo (1) Petr., Canz. VI, Stanza V, Parte I.
senza lei; tutte l'altre cose a lungo andare cd (2) Canz. VI II, Stanza V, Parte 1.
in processo di tempo o ne stancano, o ne sa (3) Son. XXXIX, Parte I.
-oo LEZIONE QUARTA
que per acquistar tesoro, o conseguire onori, o ed in somma la natura, che ancora volgarmente
alcuna altra così fatta grazia da alcuno impetra si dice quod quid est, della cosa. Del che se
re, andasse tutti i giorni e tutte le notti alta guita manifestamente, e di necessità, che niuna
mente lamentandosi, sempre piangendo, sem cosa, non avendo se non una forma sola, possa
pre pregando, sempre sospirando, di sè, di avere più d'una sola diffinizione; le quali cose
colui, del mondo, del cielo, e della " essendo verissime, hanno dato materia ad alcuni
rammaricandosi? E pur si vede che cotai cose di dubitare, dicendo: L'amore è una cosa sola;
e molte altre assai di queste maggiori, non solo dunque ha una forma sola; dunque non può
senza riprensione o derisione alcuna, ma ezian avere più d'una diffinizione sola; dunque non è
dio con pietà e compassione, anzi bene spesso vera quella diffinizione datagli da noi, diversa da
con incredibile lode ed onore tutto il giorno tutte l'altre, nella precedente Lezione. E tanto
da tutti gli amanti per la bellezza si fanno. più essendo stato in altri luoghi diversamente
Ora se le bellezze corporali che vere bellezze diffinito da noi l'amore, ed in altro modo da
non sono, ma simulacri e sembianze, o piut Aristotile, che da Platone; anzi da Platone me
tosto ombre di bellezze, cagionano negli alti desimo si trovano in vari luoghi varie diffini
cuori e spiriti generosi cotanti effetti, ed hanno zioni d'amore. A questa dubitazione conce
quaggiuso cotali privilegi, che avemo da credere, dendo tutte le sopraddette cose, si risponde
altissimi ed ingegnosissimi Ascoltatori, che ab agevolmente, dicendo: l'amore esser nome equi
biano in sè e producano in noi le bellezze voco, cioè significare varie e diverse nature;
dell'anime, le quali tanto più degne sono e anzi, come dicemmo nel proemio di detta Le
più perfette di quelle dei corpi, quanto le ter zione, amore è la più universale e generale
rene cose e transitorie delle celesti e sempi cosa, che si ritrovi: onde si può diffinire ora
terne men perfette e men degne sono? Che in universale, come facemmo noi allora; ed
poi delle bellezze angeliche ? le quali sole ora in speziale. E perchè le spezie sono più,
come da Dio, ottimo e grandissimo, immediate e diverse, perciò se gli possono, anzi se gli de
procedenti, sono le vere e propie bellezze. vono più e diverse diffinizioni attribuire: le
Oh felici dunque, e non tre volte o quattro o quali cose perchè più chiare si facciano, è da
sei, ma infinite volte felici e beati tutti colo sapere, che nell'uomo solo si ritrovano cinque
ro, i quali dalle bellezze dei corpi a quelle spezie, ovvero maniere d'amore, due estreme,
degli animi, elevandosi, e da quelle degli animi e tre mezze. I due amori estremi si chiamano
a quelle degli angeli sormontando, e quivi an demoni, cioè nè al tutto dii, nè affatto uomini,
cora non fermandosi; ma sagliendo a Colui, il ma tra l'una natura, e l'altra; e il primo dei
quale se non è bello, è nondimeno di tutte le quali, il quale è ottimo e divinissimo s'appella
bellezze, come di tutte l'altre cose principale il demone buono, perchè sempre ci desta, ed
e vera cagione, contemplano in lui, e contem invia, ci scorge e ci conduce alla contempla
plando fruiscono l'ultima loro perfezione, cioè zione delle cose divine, ritraendoci dalle mor
iutta la felicità e tutta la beatitudine che pos tali; il secondo il quale è pessimo, e mortalis
sono gli uomini, mentre che in questa brevissima simo, si noma il demone cattivo: perchè ri
e miserissima morte vivono, conseguire! La qual traendoci sempre dalle cose celesti e sempiterne,
beatitudine e felicità, affine che meglio s'in ci tira e spigne alle terrene e cadevoli: e que
tenda e più agevolmente si consegua, verremo sti due demoni sono quelli che i Gentili no
oggimai, innamoratissimi Ascoltatori, poscia che minano Genj, dati a ciascuno nel suo nascimen
aremo prima da Dio l'alta sua grazia, e poi to; e noi cristiani li diciamo Angeli, dandone
da voi la cortese vostra udienza umilmente a ciascuno due, l'uno buono che al bene ne
richiesto, alla dichiarazione di quelle amorose indirizzi, e l'altro reo che al male ne torca. I
quistioni che da noi nella precedente Lezione quali due o Demoni, o Genj, o Angeli si possono
promesse vi furono. per avventura pigliare per le due anime che
Tutte le cose che sono, sono mediante la in noi contrarie si ritrovano: cioè, l'intelletti
loro forma, perchè la forma è quella, dice il va, la quale è celeste ed immortale; e la sen
Filosofo, la quale dà l'essere alle cose; la forma sitiva, la quale è mortale e terrena. Tra que
in ciascuna cosa non può essere se non una; sti due amori estremi, se ne ritrovano tre mez
dunque ciascuna cosa è una mediante la sua | zi, i quali perchè non sono in noi sempre, co
forma: e perciò diceva Aristotile che questo me i due primi, e perchè si vanno mutando,
numero sette, non era propiamente nè quat ora crescendo ed ora scemando e talvolta man
tro e tre, nè cinque e due, nè sei ed uno, i cando, non si chiamano demoni, ma affetti,
ma propiamente sette, mediante la forma sua. cioè latinamente perturbazioni e toscanamente
E perchè ciascuna cosa non è veramente altro, con parola greca, passioni. Il primo de'quali
che la forma sua, quinci è che ciascuna diffi (il quale è più presso al primo demone che al
nizione di ciascuna cosa (essendo il medesimo l'ultimo) tosto che avemo veduto alcuna bel
la diffinizione, e 'l diffinito; perchè tanto si lezza corporale, ci spigne ed induce a contem
gnifica questo termine solo, ovvero parola: ani plare la bellezza spirituale; onde si chiamò
male, quanto questi tre insieme: sostanza ani amore divino, e questo è propio de'filosofi e
mata sensitiva) non fa altro, che spiegare, e d'altri uomini contemplativi: il terzo (il quale
notificare la forma della cosa diffinita, chia è più presso all'ultimo demone, che al primo)
mata dai filosofi moderni quidità, cioè (perchè veduto che avemo alcuna bellezza corporale,
ognuno intenda) l'essenza, ovvero la sostanza, ci desta e muove la parte concupiscevole, e
SULL'AMORE ºnor

non contento del viso, dell'udito, vorrebbe al l'anima, cioè le virtù e le scienze nel bello
tatto condescendere: e questo, perchè è d'uo dell'anima, cioè in un animo, il quale sia da
mini dati a piaceri carnali, fu chiamato amore natura atto e desideroso ad apprendere così
ferino: il secondo (il quale è in mezzo del le dottrine, come i costumi, nelle quali due
contemplativo e del ferino) si contenta nel di cose sole consiste la perfezione e beatitudine
letto, che dal vedere ed udire e conversare umana. E per questa cagione dice il medesimo
con la cosa amata si trae: e perchè è da uo Platone, che coloro che vogliono generare il
mini attivi, se gli diede il nome d'amore uma bello dell'anima, amano quelle cose, che più
no. E così secondo questa divisione, sono cin perfette sono, e naturalmente di migliore in
que amori nell'uomo, il demone buono, l'a- gegno e piuttosto le belle che l'altre: perchè
more contemplativo, l'amore umano, l'amore non si potendo vedere la bellezza dell'anima, se
ferino e il demone cattivo. I primi duoi sono non per la bellezza del corpo, le giudicano a
buoni e lodevoli per sè : i due ultimi, tristi e ciò più atte; di maniera però, che se alcuna
biasimevoli, non per sè, ma secondo le circon cosa, come molte volte avviene, fosse bella
stanze, cioè come, quando, perchè, dove, e d'animo, ma non già di corpo, più si deve
da chi sono usati; quello che resta nel mezzo, amare da cotali amadori, che una, la quale, per
se si risguarda a due sopra sè, è piuttosto bia lo contrario, fosse bella di corpo, ma non già
simevole e reo, che buono e lodevole; ma se di animo. Il secondo amore, il quale cerca di
si ha risguardo agli altri due, che sono sotto produrre il bello del corpo nel bello corpo
lui, è piuttosto buono e lodevole che reo e rale, è di quegli uomini, i quali non la mente
biasimevole. E se ad alcuno paresse, che que avendo pregna, ma il corpo, vanno dietro al
sta divisione fosse o troppo lunga, o troppo piacere carnale; onde cotale amore è appellato
larga, si può racconciare, e restringere in que volgare; e questi, dice il medesimo Platone,
sta maniera: Niuna cosa si può veramente ama amano piuttosto le cose meno perfette, che le
re, la quale non si conosca; solo gli animali perfette, ed in somma più i corpi, che gli ani
razionali propiamente conoscono; dunque gli mi, più gli sciocchi che i prudenti; dove gli
uomini soli amano veramente: e perchè non altri all'opposto amano più gli animi, che i
basta conoscere alcuna cosa chi vuole amarla, corpi, e più i prudenti che gli sciocchi.
ma è necessario, che la conosca, come buona, Conchiudendo dunque diciamo, che non po
quinci e che solo le cose buone o per buone tendo essere alcuna Venere senza amore, ed
giudicate, amare si possono. E perchè i beni essendo due Veneri, è ancora necessario che
sono di tre sorti senza più: utili, dilettevoli ed siano due amori; l'uno celeste, come s'è det
onesti, ne segue necessariamente, che non si to, ottimo e lodevolissimo per sè, e l'altro
possono trovare più maniere d'amori, che tre: volgare. Le quali cose diligentemente s'avver
amore utile, amore dilettevole ed amore onesto. tano e mandino alla memoria, perchè ci ser
Ma perchè l'intendimento nostro è favel viremo di loro nello sciogliere le quistioni amo
lare di quello amore solamente, il qual pro rose, alle quali metteremo mano, tosto che
cede ed è cagionato dalla bellezza, ristringendo aremo detto, che Platone degli antichi fu il
ancora più questa divisione, diremo, che se primo, che non solo favellasse d'amore, e sco
condo i Platonici, l'anime nostre hanno due prisse i profondi suoi misteri altamente, ma ne
lumi ciascuna, uno naturale e nato insieme favellasse e gli scoprisse, benchè molte volte
con esso lei, e l'altro divino ed infusole da oscuramente, con tanta non solo dottrina, ma
Dio. E questi due lumi congiunti insieme, sono eloquenza che egli merita d'essere non pure
come due ali, colle quali possa da terra levar lodato infinitamente, ma infinitamente ammi
si. E fu dalla divina provvidenza ordinato, che rato. Dopo Platone inſino al tempo de'padri
l'anima umana padrona di sè medesima potesse nostri (cosa da non potersi se non con fatica
usare ora l'uno e l'altro lume insieme, ed ora eredcre) di tanti serittori così di versi, come
ciascuno di per sè dall'altro; perchè se sem di prosa, e tanto nella lingua greca, e latina,
pre usasse amenduni, la generazione umana quanto toscana, niuno che sappia io, scrisse
mancarebbe; il che essere non può, secondo d'amore, se non se prima Dante con alcuni
i filosofi. Quando dunque usa il miglior lume, antichi, e poi il Petrarca. Indi il primo che
cioè il divino e infuso, ama d'amore contem seguitasse le vestigia di lui così altamente im
plativo, e si rivolge alle cose celesti: ma quando presse, fu M. Marsilio Ficino, il quale nel suo
usa il secondo lume, cioe il naturale e con Comento sopra il Convivio di Platone, scrisse
giunto, si rivolge alle cose terrene ed esercita tante cose, e tanto dottamente che se io mi
le facoltà del generare per riempiere la terra conoscessi degno di giudicarlo, affermarei che
d'animali razionali. E questo è quello, che di egli mostrò più dottrina in quel contento e
ceva Platone, che essendo l'uomo composto di maggior lode meritò che tutti gli altri insieme
corpo e d'anima, così l'anima, come il corpo fatto non aveano infino a quel tempo (i). Dopº
sono pieni e pregni; e ciascuno di loro desi
dera di partorire, ed è a ciò fare da amore (1) Marsilio Ficino, fiorentino, nato nell'anno 1433, morte
nell'anno 1499 è il più celebre fra platonici italiani. Sin da
stimolato: e ciascuno di questi amori non è giovinetto s'affezionò alle dottrine di Platone, di cui poscia
altro che desiderio di produrre il bello nel tradusse e commento tutte le opere insieme a quelle dei seguaci
bello. Ma il primo amore, il quale si chiama di lui più famosi, come a dire di Proclo, di Plotino, di Por
celeste, e si ritrova solo negli uomini d'altis firio, di Janblico e d'altri, a quali aggiunse la traduziºne di
simo ingegno, cerca di produrre il bello del alcuni scrittori sacri favorevoli a Platone."
2
pure alcuni
VARCHI
202 LEZIONE QUARTA
il Ficino trattò d'amore il conte Giovanni Pi tare tutti coloro che scritto n' hanno, come
co, chiamato per soprannome, e non indegna certo vorrei, nè tutti lodarli, come forse do
mente, Fenice, quasi un solo e non più, non vrei: dico forse, perchè a me pare che alcuni,
Pico, ma Fenice si ritrovasse (1). E ne trattò come Ovidio in quel libro che egli scrisse e
in lingua fiorentina sopra il Comento della can intitolò dell'arte dell'amare, meritino piuttosto
zone d'amore di Girolamo Benivieni (2), così molti biasimi, che poche lodi, favellando del
ordinatamente e dottamente, che ben mostrò l'amore volgare solamente, e di quello ancora
che egli era non men buon teologo, che dotto piuttosto secondo la feccia della plebe, che
filosofo. Al Pico successe M. Francesco de'Cat altro. Nè tacerò ancora, che la lingua nostra
tani da Diaccetto (3), il quale nel suo Pane va in questa parte come non solo più ricca,
girico, ed altrove dove favellò d'amore, fece ma ancora senza comparazione più onesta lun
chiaro quanto egli nelle cose platoniche fosse ghissimo spazio a tutte l'altre dinanzi. Ma
addentro penetrato. Nel medesimo tempo, o tempo è di venire alle promesse quistioni, le
poco dopo, compose i suoi tre libri degli Aso quali per oggi saranno tre.
lani M. Pietro Bembo, nei quali, se la dot I. Qual sia più nobile, o l'amante o l'amato.
trina, la quale ad ogni modo non fu nè pic II. Qual sia più forte e più possente pas
ciola, nè indegna di tanto uomo, avesse all'elo sione, o l'amore, o l'odio.
quenza corrisposto, non dubitarei affermare, che III. Se ogni amato necessariamente riami;
la lingua toscana avesse anch'ella il suo Platone, le quali fornite, sarà ancora fornita la presente
Ultimamente venne in luce il Dialogo di Filone odierna Lezione.
Ebreo, diviso in tre libri; nei quali si trat
ta, benchè alcuna volta oscuramente, o con QUISTIONE PRIMA
fusamente, così a lungo delle cose d'amore e
così veramente, che io per me lo prepongo a Qual sia più nobile, o l'amante o l'amato.
tutti gli altri. Nè si pensi alcuno che io non
sappia quello che S. Tommaso ed altri teo Dubitarono anticamente molti, e oggi dubi
logi ne scrivessero; ma non posso nè raccon tano non pochi qual sia più degna cosa, e per
conseguenza più lodevole e maggiormente de
opuscoli di vario argomento, mostrando in tutti i suoi scritti siderabile o l'amare, o l'essere amato; ed in
un grande acume d'ingegno e un più grande ossequio a Pla somma chi nell'amore meriti maggior pregio e
tone. E gran danno che certo stile enigmatico e misterioso ren dimostri maggior perfezione, o colui il quale
da spesso oscuri e talvolta anche ridicoli i suoi concetti. Ven ama, o colui il quale è amato. In questa du
ne egli assai favorito da Cosimo, da Pietro e da Lorenzo bitazione furono i pareri e sono, come in tutte
de' Medici. Di quarantadue anni si rende prete, e per coman l'altre cose diversi; perciocchè si ritrovano
do di Pietro de' Medici prese a spiegare pubblicamente in Fi
renze le opere di Platone. Egli era già stato ascritto a quella alcuni che pigliano la parte dell'amante, ed al
celebre accademia platonica, che venne instituita in Firenze da cuni stanno da quella dell'amato. Coloro, i
Cosimo e perfezionata da Lorenzo de' Medici. Tutti i suoi quali difendono l'amante essere superiore al
contemporanei sono concordi a lodarne non meno l'ingegno e la l'amato, fondano questa loro opinione nè non
dottrina che la bontà. (M.)
solo sopra l'autorità d'uomini eccellentissimi,
(1) Questi è il celebre Giovanni Pico della Mirandola 5
ma ancora in ragioni, secondo loro, assai ga
nato da signori della Mirandola nel 1463, morto in Firenze gliarde.
nel 1494. E nolo ch'egli fu tenuto come uomo meraviglioso
per ingegno, memoria e dottrina: ma nessuno legge oggidi le Quanto alle autorità allegano Platone, il qual
sue opere, perchè riboccano di proposizioni strane ed assurde, Platone, siccome amò insieme con Socrate
nè sono fiorite d'alcuna grazia di stile. L'alterigia e la va onestissimamente, così ancora scrisse d'amore
nità andavano del pari nel Pico coll'erudizione. Di ventitre verissimamente. Or egli in quella orazione,
anni condottosi a Roma per dar prova del suo sapere, espose nella quale Fedro, bellissimo giovane e da lui
al pubblico duecento proposizioni appartenenti alle scienze più castissimamente amato, loda grandissimamente ,
disparate, proferendosi pronto a disputare sopra ognuna di esse. amore, dice espressamente, che l'amatore è
Per codeste sue proposizioni chhe a patire qualche molestia
per parte del papa Innocenzo VIII, ma fu da Alessandro VI più divino che l'amato non è, e n'arreca per
dichiarato innocente del reato d'eresia che gli veniva ap esempio e testimonio il giudizio stesso degli
posto. (M.) Dii medesimi, i quali maggiormente onorano
(2) Girolamo Benivieni, cittadino fiorentino, vissuto fino Achille, che per vendicare Patroclo suo ama
al 1542, è chiamato in altro luogo dal Varchi il secondo ri dore ucciso da Ettore, ancora che sapesse di
storatore della poesia italiana. Fu amico al Ficino ed al Pico, certo di dover morire, elesse piuttosto la morte
che, conosciutare l'integrità, si serviva di lui per soccorrere ai che lasciare l'amante non vendicato e vivere
Poveri di Firenze. Ebbe molta intimità col celebre fra Giro
lamo Savonarola, di cui onorò sempre la memoria, e a cui senza lui: il che non fece Alceste, la quale
difesa scrisse due opuscoli di compagnia col fratello Girolamo per lo grande amore che al suo marito por
canonico di S. Lorenzo in Firenze. L'argomento dei versi tava, elesse anch'ella di morire; cosa che nè
del Benivieni è comunemente l'amor divino, da lui rivestito
il padre di lui, nè la madre fare vollero. E
colle fantasie di Platone. Il Benivieni è introdotto dal pro
ºr Rosini fra personaggi del suo romanzo: Luisa Stroisi.
adunque secondo l'autorità di Platone, e per
(3) Cattani Francesco da Diacceto detto il Giovine per di testimonianza degli Dii, i quali mandarono
stinguerlo da un altro scrittore dello stesso nome e della pa Achille nei campi elisi, ed Alceste no, più ono
ºrº medesima, che fu vescovo di Fiesole, ebbe gran fama come rabile l'amante, che l'amato non è.
Platºnico e come dotto in tutte le scienze. Scrisse molte opere Quanto alle ragioni, noi per maggior bre
italiano e in latino. Il Varchi ne dettò la vita, che fu stam vità cl agevolezza riducendole tutte in scn
º in Venezia coi tre libri d'amore del Diacceto medesimo. tenza ad un sillogismo solo, diremo cosi. Tutte
SULL' AMORE 2o3

le cose agenti, cioè che fanno, sono più de se fosse alcuno, il quale dubitasse o movesse
gne che le pazienti, cioè che soffrono; l'amante instanza contra la proposizione maggiore, di
è agente e l'amato è paziente: dunque l'a- cendo non parer vero che tutti gli agenti siano
mante è più degno dell'amato. La proposi più nobili de'pazienti, conciossiachè molti agenti
zione maggiore non ha dubbio alcuno, essendo operano molte volte in cose più degne, che
noto per sè, che il fare è più nobile che il essi non sono, come per atto d'esempio, quando
patire: la proposizione minore è anch'ella il fuoco abbrucia le legne, o cuoce alcuno ani
nota, perchè amante è participio attivo, che male; sappia che il fuoco in tal caso, essendo
significa fare, ed amato participio passivo, che agente, è come tale necessariamente più degno
significa patire; onde seguita necessariamente delle legne e dell'animale, sebbene l'animale
che la conclusione sia vera, cioè l'amante es e le legne semplicemente considerate, ed as
sere più nobile dell'amato. solutamente, sono del fuoco più degne. Ma che
Coloro che stanno dalla schiera contraria, al risponderemo a Platone? Crederemo noi che
legano anch'essi loro autorità e ragioni. Quanto un uomo tanto dotto, anzi un ſilosofo tanto
all'autorità, Filone Ebreo, a cui per mio giu divino, e più di tutti gli altri non meno in
dizio si può nelle cose d'amore tanto credere, bene amando, che in bene scrivendo d'amore
quanto a chi si voglia altri, tiene manifesta esercitato, s'ingannasse così di leggieri, ne sa
mente, che in amando non l'amante sia più pesse quale l'amante fosse, e quale l'amato?
degno, ma l'amato. Quanto alle ragioni si ser Io per me (tengano gli altri quello che vo
vono della medesima proposizione maggiore, gliano) duro tanta fatica a poterlo credere, che
cioè che le cose agenti sono più delle pazienti nol credo: nè credo ancora come alcuni, che
perfette, ma niegano la minore, provandola Platone intenda in quel luogo dell'amore re
falsa, perchè nell'amare non l'amante è l'agente, ciproco, o vero scambievole, cioè degli amanti
come essi dicono, ma il paziente. E l'amato felici, i quali amando sono riamati, come Pa
dall'altro canto non è il paziente, ma l'agente: troclo: nel qual caso essendo un medesimo l'a-
perchè l'agente è sempre colui che muove, ed mante e l'amato, onde ciascuno d'essi viene ad
il paziente colui che è mosso: ora chi non sa esser due e secondo alcuni quattro, si può dire
che quello che muove è l'amato, e quello che che l'amante sia ancora agente e per conse
è mosso l'amante? Onde manifestamente se guenza più degno. Ma crederò piuttosto che
guita, che l'amato, come movente e generante Platone, secondo la distinzione fatta da noi di
l'amore, sia l'agente, e per conseguenza più sopra, favelli in quel luogo dell'amore non vol
nobile, e l'amante, come mosso e ricevente l'a- gare, ma celeste, nella quale specie d'amore
more, sia il paziente, e per conseguenza meno pare che gli amanti amino si può dire, quasi
perfetto. in quel medesimo modo, o almeno a similitu
Alla prova della loro ragione si risponde age dine di Dio, cioè, non per cagione loro prin
volissimamente in questo modo, esser ben vero, cipalmente, ma per benefizio degli amanti, es
che amare ed amante, secondo i gramatici, sono sendo il principale loro intendimento generare
attivi, che significano fare; ed amari ed amato cosa simile a loro, cioè produrre in un bello
passivi, cioè che significano patire: ma secondo i | animo belle virtù e belle scienze. Diciamo dun
filosofi, cioè secondo la verità, la bisogna staque conchiudendo, che nell'amor volgare che
tutta altramente; perchè amare, come ancora | cerca generare il bello corporale nel bello cor
vedere, udire, intendere, e molti altri somi- | porale, gli amanti sono inferiori agli amati;
glianti, non significano azione, perchè non fan ma nell'amor celeste, il quale cerca di pro
no, cioè non muovono, ma passione, perchè durre il bello spirituale nel bello spirituale, gli
son mossi e ricevono: e ricevere non si chia amanti sono agli amati superiori. E ciò basti
ma fare, ma patire, come nel secondo libro | quanto alla prima quistione.
dell'Anima mostrò apertamente il Filosofo. E
così resta verissima la conchiusione, che l'a- QUISTIONE SECONDA
mato sia l'agente, e per conseguenza più no
bile.
Quale sia più forte e più possente passione,
E a chi dubitando dicesse la sperienza di. o l'amore o l'odio.
mostrare il contrario, cioè gli amanti esser co
loro, i quali travagliano sempre senza mai ri
posarsi, dove gli amati quasi sempre riposano; Vie più che 'ndarno da riva si parte,
onde diceva Orazio, oltre tutti gli altri poeti: Perchè non torna tal qual ei si muove,
Chi pesca per lo vero, e non ha l'arte.
Me tuo, longas pereunte noctes
Lydia, dormis. Questo utilissimo avvertimento e verissimo
posto da Dante nel decimoterzo Canto del Pa
si risponde prima, che tutto il travagliare de radiso, altro significare non vuole, se non quello
gli amanti sono per lo più non azioni, ma pas stesso che più volte è da noi stato in vari luoghi
sioni; poichè tutto quello che fanno gli amanti a diversi propositi detto: e ciò è che senza la
è da loro fatto, come mossi e spinti non da logica nessuno può cosa niuna sapere; può bene
altro che dalla cosa amata. Nè sia chi dubiti, chi che sia avere retta opinione d'una qual
che tutto quello che fa, dice e pensa un amante, che cosa, ma scienza no: ed in somma pote
pensi, dica e faccia in vigore e per virtù d'a- mo bene, per avventura, senza la logica sapere
more, ed insomma spinto dalla cosa amata. E alcuna cosa, ma non già sapere di saperla; il
2o4 LEZIONE QUARTA
che è poco meno che non saperla. E di qui naturali; perciò che non creda alcuno, che o
nasce, senza alcun dubbio, che tutti coloro, i il fuoco arda le legne, o l'acqua spenga il fuoco
quali o scrivono o favellano senza cotale arte, per odio, ma solo per amore; perchè il fuoco
oltre che non servando metodo nessuno, non non cerca di disfare le legne per odio che porti
intendono alcuna volta lor medesimi, non che loro, ma solo per amore che porta a sè; de
siano dagli altri intesi, dicono bene spesso cose siderando ciascuna cosa naturalmente non solo
non pur contrarie alla verità, ma eziandio a di mantenersi, ma di crescere; e così diciamo
sè medesime repugnanti; come e ad alcuni av dell'acqua e di tutte l'altre cose somiglianti.
venuto, i quali hanno non solamente diman
dato quale è maggior passione e più veemente QUISTIONE TERZA
o l'amore o l'odio, ma risoluto ancora che
l'odio prevaglia all'amore. La qual dimanda e Se ogni amato necessariamente riama.
risoluzione non è, si può dire, altro che di
mandare prima qual sia più lucente e di mag Quanto la quistione precedente era facile e
gior possanza o il sole o l'ombra; poi risol chiara, tanto è oscura la presente e malagevole.
vendo in favor dell'ombra dire, che ella più Trovansi alcuni, i quali come credono, così af
luce e più può, che il sole stesso non fa. Do fermano, che chiunque è amato, sia costretto
vemo di ndue sapere per intendere non la ve a riamare; di maniera che, secondo costoro,
rità di questa quistione, la quale è per sè chia niun amante si ritrova, al quale l'amato scam
rissima, ma per conoscere l'inganno che l'a- bievolmente non porti amore. Ed a ciò pro
more e l'odio sono due passioni contrarie, cioè vare allegano l'autorità di Dante, il quale, fa
che s'oppongono l'una all'altra, ma privati vellando della Coppia da Rimini, disse in que
vamente, non altramente che il bene ed il sta maniera:

male. Dovemo ancora sapere che le privazioni, Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
come il male, l'ombra, l'odio ed altre cotali Mi prese del costui piacersi forte,
non operano per sè cosa nessuna, ed in som Che, come vedi, ancor non m'abbandona (1).
ma sono nulla; ma tutto quello che sono e che
operano, sono ed operano in virtù del loro A questa autorità si possono aggiugnere al
abito; perchè il male non opera nulla, se non cune ragioni assai verisimili e gagliarde. La pri
ma è cotale: l'amore nasce da similitudine: La
in virtù del bene; nè può essere male alcuno similitudine non è altro che una medesima na
che in qualche bene fondato non sia: nè è
dubbio che ogni odio procede da alcun amore, tura in più cose: dunque quella similitudine
come da sua cagione, onde l'odio è effetto di che invita e sforza l'amante ad amare l'amato,
invita anco e sforza l'amato ad amare l'amante.
amore; del che seguita, che amore gli sopra
stia, non potendo alcuno effetto trovarsi più La seconda in questo modo: L'amare alcuno
non è altro che torre sè stesso a sè medesimo,
forte e più possente, come nel proemio si disse, come dice tante volte il Petrarca, e darsi al
della sua causa.
Niuno dunque nè può dubitare, nè deve, trui, cioè all'amato; dunque gli amanti non
che l'amore semplicemente molto più possa, sono di sè propri, ma degli amati; dunque gli
che l'odio non può, ed alle autorità e ragioni amati amano gli amanti; e vale questa conse
che dalla parte contraria s'allegano, più che guenza: perchè ciascuno ama naturalmente ed
agevolmente si può rispondere. L'amore, di ha care le cose sue. La terza è questa: Tutti
cono essi, si converte più volte in odio, che gli amanti hanno l'immagine della cosa amata
l'odio non fa in amore; dunque l'odio vince nel cuore scolpita:
l'amore, dunque è più possente di lui. Coloro Che fe” non Zeusi o Prassitele o Fidia,
che dicono così, par bene ad alcuni che di Ma miglior mastro e di più alto ingegno (2).
cano qualche cosa, ma in verità non dicono E non disse il Petrarca intendendo della sua
nulla, o non intendono quello che dicano; per Laura?
che mai non potrebbe l'odio vincere l'amore
e stargli di sopra, se non fosse l'amore. Fanno Ch'io l'ho negli occhi, e veder seco parme
dunque ciò coloro che cangiano l'amore in odio, Donne e donzelle, e sono abeti e faggi (3).
in virtù e per cagione d'amore; perchè chiun Il che testifica medesimamente in più e di
que tramuta l'odio in amore, lo tramuta solo versi luoghi. Da questo nasce che l'animo del
e sempre per un altro maggiore amore che l'amante, anzi l'amante stesso è quasi uno
egli porta o a sè o ad altri, non altramente specchio dell'amato; onde diceva il medesimo
che i luoghi illuminati non divengono mai pri Petrarca:
vati di lume, se non mediante la luce, cioè,
quando se ne parte il sole. Ed agli esempi al Ma quante volte a me vi rivolgete.
legati nel Boccaccio della Elena e dello sco Conoscete in altrui quel che voi siete (4).
lare (1) ed in molti altri luoghi, non si niega
Da questo nasce, che riconoscendo l'amato sè
che gli sdegni e gli odi non producano molti stesso nell'amante, è forza che lo riami. A
ed indegnissimi casi e terribilissimi effetti, ma
s'afferma ciò non procedere da odio, ma da
C1) inferne, Canto V.
amore. La qual cosa si vede ancora negli agenti (2) San. LXXXVI, Parte I.
(3) Son. CXXIV, Parte I.
(1) Boccaccio. Decamerone. Giornata VIII, Novella VII. (1) Canz. VI, Slanza l V, Parte I.
SULL' AMORE ao5

queste ragioni si può aggiugnere prima quello alcuno non vuole altro dire, che desiderargli
che dicono gli astrologi, cioè che la scambie e procacciargli ogni bene, e niuno non può,
volezza dell'amore nasce dalla somiglianza della solo che sia naturalmente disposto, non amare
natività, o veramente dallo scambiamento dei coloro, i quali o lo beneficano, o di benefi
luminari, cioè del sole e della luna, onde se carlo s'ingegnano. Ora qual beneficio si può o
l'amante avrà, nascendo il sole, esempigrazia maggiore dare, o più desiderevole, che introa
nel Montone, e la luna nella Libra, e l'amato durre in alcuno così buoni costumi, come buone
avrà nella sua natività il sole nelle Bilance e lettere, e brevemente non men buono farlo,
la luna nell'Ariete, tra costoro sarà l'amore che dotto? Ma nell'amore volgare non è ne
scambievole, e in altri modi che ora raccon cessario, che l'amato riami sempre; perchè
tare non occorre. Secondariamente si può ag sempre, che cessano le cagioni, cessano ancora
giugnere quello che dicono i fisici ed i mora gli effetti. Ed a chi opponesse che Dante fa
li, cioè, coloro amarsi scambievolmente, i quali vella in quel luogo dell'amore, crediamo
avranno una medesima complessione, saranno si possa rispondere in due modi: prima che
allevati ed ammaestrati a un modo, ed altre Dante pose cotal sentenza in bocca non solo
cose simiglianti. Dalle quali autorità e ragioni di donna, ma di tal donna, la quale essendosi
pare, che si possa veramente conchiudere la col cognato congiunta, si può credere, che ciò
parte affermativa; cioè ogni amato necessaria più per iscusazione di sè stessa e della sua
mente riamare. morte dicesse, che per altra cagione. Poi, che
Ma dall'altro lato è la sperienza in contra ancora nello amor volgare corrisponde molte
rio, la quale dee più sola valere, che tutte le volte l'amato all'amante, anzi è quasi neces
autorità e ragioni insieme; perciocchè si tro sario, che all'amante, se già non fosse per
vano molti, i quali amando non solo non sono sona del tutto vile ed abbietta, o da alcuna
amati, ma avuti in odio. La quale specie d'in altra enorme colpa e macchia segnata, si porti
felicità trapassa di grandissima lunga tutte lealcuna affezione dall'amato; perchè, conside
altre miserie umane. E se fosse vero che ogni rando che egli pure l'ama, non può fare in
amato riamasse, che bisognava che Perottino qualche modo di non riamarlo; sebbene poi
tanto lungamente ed amaramente si querelasse? considerando la cagione principale, perchè egli
E perehè tutti i poeti di tutte le lingue, nè l'ama, non solo molte volte non lo riama, ma
meno il Petrarca degli altri, si dolgono tanto alcuna volta gli porta odio. E può bene stare,
e rammaricano delle loro donne? Non disse che un medesimo in un medesimo tempo porti
M. Francesco: ad una medesima persona e odio e amore in
Non prego già, nè puote aver più loco, sieme, ma secondo diversi rispetti: nè si pos
Che misuratamente il mio cor arda ; sono queste cose minutamente risolvere senza
Ma che sua parte abbia costei del foco (1)? molte distinzioni e quella divisione d'amore
in cinque spezie fatta da noi nella prima Le
E che bisognava, che egli altrove così dicesse: zione. Le quali cose non volendo io, nè po
Ma poi vostro destino a voi pur vieta tendo replicare, conchiuderò brevemente, che
L'essere altrove, provvedete almeno, nell'amor volgare, non è necessario, che ogni
Di non star sempre in odiosa parte (2)? amante sia riamato, se non nel modo sopra
detto; ma nell'amor celeste, l'amato non solo
Oltra le cose dette, chi non sa, che fra l'ami non può amare l'amante, ma eziandio è tenuto
cizia e l'amore è questa differenza? che nel e costretto a ciò fare, per quelle ragioni e ca
l' amistà si ricerca necessariamente l' amore gioni, che demenica che viene, a Dio ed alle
scambicvole, cioè che l'uno amico ami l'altro benignità vostre piacendo, nella Lezione seguen
di necessità, dove nell'amore questa condizione te reciteremo. -

non è necessaria. Ma che più? Non fa Platone


stesso distinzione tra quello amore, che egli
chiama semplice, cioè quando l'amante ama
solo, nel qual caso lo chiama morto; e quello LEZIONE QUINTA
che egli chiama scambievole, quando l'amante 1NTo RNo A vARIE QUIstioN1 D'AMoRE
ama accompagnato, nel qual caso dice che ha
due vite ? A volere sciorre questa malagevo
lissima dubitazione e salvare tante autorità e
ragioni, tanto l'une all'altre contrarie, è ne LEzioNE D'AMoRe pr M. BENEDETTo vARCHI, Let TA
cessario, per mio avviso, perchè da niuno è DA LUI PUGLICAMENTE NELL'ACCADEMIA Flournº
stato che io sappia, sciolta questa dubitazione, TINA
e necessario, dico, servirsi un'altra volta della
distinzione fatta di sopra, e dire che nell'a- PROEMIO
more celeste è verissimo che l'amante sem
pre e necessariamente è riamato; e la cagione Socrate, il quale quanto fu deforme ed igno
e, perchè tutti gli uomini amano naturalmente bile di corpo, tanto ebbe bello e nobile l'a-
coloro, da chi sanno cssere amati; perchè amare nimo, dovendo, instigato da Fedro bellissimo
giovane e da lui santissimamente amato, favel
(1) Son. XLI I, Parte I. lare contra amore, quasi approvare volesse
(2) Son. XLI, Parte 1. quello, che da Lisia oratore era in disfavore
2o6 LEZIONE QUINTA
degli amanti stato in una scritto delle snc ora VI. Se alcuno può innamorarsi, o amare senza
zioni, nella quale egli pretendeva d'avere ef speranza. - -

ficacissimamente provato, che i giovini piut VII. Se amore può essere senza gelosia.
tosto a coloro dovessero, i quali non gli ama VIII. Se alcuno può solo per fama e d'u-
no che a quelli che innamorati ne sono, com dita innamorarsi.
piacere ed essere amici; si turò coprendosi il
capo, e fasciandosi col mantello, per non QUISTIONE QUARTA
vedere, credo, e non esser veduto da persona
miuna, vergognandosi di dover dire, ancora che Se ch v nque è amato,
ciò facesse per maggiormente poi riprovarlo, è tenuto di dover riamare l'amante.
quello che egli non sentiva e che vero non era.
Ma per qualunque cagione ciò si facesse, certo Come l'operare presuppone l'essere, perchè
sºn fu da lui fatto senza grandissimo misterio: niuna cosa può operare, la quale non sia, così
perciocchè chiunque biasima Amore o da vero, o l'essere presuppone l'operare, perchè niuna
da motteggio, biasima Dio medesimo; e chiunque cosa è, la quale non operi, e tutte le cose che
biasima Dio, o è del tutto stolto, o in estremo gra operano, operano ad alcun fine, e il fine di
do di malvagità. E sebbene ognuno può cotale tutte le cose non è altro che conseguire la
sceleratezza per somma o malizia, o stoltizia perfezione, e conseguentemente la beatitudine
commettere, niuno però si ritrova, che possa di loro: e la beatitudine di tutte le cose, è co
ciò le dovute pene sostenere: perchè qual sup noscere e fruire la lor cagione, cioè Dio. De
plizio può darsi o tanto grande, o tanto grave a siderano dunque tutte le cose di conoscere e
chi Dio bestemmia, che picciolo e leggiero non fruire Dio; ma a pervenire a questo ultimo ed
sia? Non dicono gli antichi teologi che Omero eccellentissimo fine, camminano per varie vie,
per lo avere egli sparlato contra Amore, e e usano diversi mezzi, tanto che d'uno in al
scritto male della sua divinità, perdette la vi tro fine giungono al supremo. È ben vero, che
sta; nè mai, perchè stando nella falsa opinione essendo i fini, come fini, tutti buoni, e non
sua ostinato, non volle ridirsi, la ricuperò; essendo i beni più che di tre maniere, o di
dove Stersicoro, a cui era il medesimo per la fortuna, o di corpo, o d'animo, o volemo dire
medesima cagione avvenuto, accortosi dell'er onesti, dilettevoli ed utili, ciascuno che opera
ror suo, e tanto lodato Amore, quanto prima è necessario che per uno operi di questi tre.
biasimato l'aveva, la riebbe? E di vero io Onde si vede quasi sempre, che chiunque ope
per me nè so, nè credo che si possa non che ra, cerca nel suo operare alcuna cosa diversa
trovare, immaginare maggior cecità di mente, da quella che egli opera; perchè chi edifica
che sciogliere la lingua contra la maestà di Co una casa, per atto d'esempio, o una nave, non
lui, il quale solo è di tutte le cose così cele fa ciò per fare o una nave, o una casa, ma per
sti e sempiterne, come terrene e mortali, fa servirsene ad alcuno altro fine. Solo nell'amo
citore dirò, o conservadore? o per più vera re, e di qui si può conoscere l'eccellenza e
mente dire, l'uno e l'altro insieme. Ma a noi, maggioranza sua, perchè l'amore non ha altro
i quali nè lo disprezzammo mai, nè lo vitupe guiderdone che l'amore, colui che opera non
rammo, anzi infino da più teneri anni, come cerca diverso fine da quello che egli opera;
suoi divotissimi servi e umilissimi soggetti, lo cioè, per essere più agevolmente inteso, chiun
magnificammo sempre ed onorammo; ed ora que ama mosso da amore, non opera ad altro
più che mai ciò facciamo, rendendogli quelle fine, non cerca altro, che amore, cioè d'es
grazie, non che alla grandezza sua si conven sere amato; perchè il fine di tutti gli amanti
gono ma che alla picciolezza nostra sono pos è principalmente l'essere riamati; il qual fine
sibili, non fa luogo di velarci la testa, o al se da tutti e sempre si consegue, o no, fu da
tramente nasconderci ; anzi vorremmo essere e noi abbondevolmente nella passata Lezione di
doveremmo allo scoperto e sotto il cielo stesso, chiarato.
affine di poter vedere ed esser veduti da cia Resta ora che dichiariamo, se ogni amato è
scuno, e da lui massimamente, benchè Dio e tenuto per debito a riamare l'amante, come
per conseguenza Amore operando in tutti i luo pare che n'accenni quel proverbio: ama chi
ghi, ed ancora in ciascuna parte vede ogni cosa, t'ama; il quale nondimeno esser fatto antico
ascolta tutto quello che da tutti gli uomini non e uscito fuor d'uso ed in somma non più os
solo si dice colla lingua, ma si pensa col cuore. servarsi, testimoniò, sono dugento anni passa
Laonde sicuri, che egli non pure dalla terza ti, M. Francesco Petrarca: la qual cosa chi
spera, ma dal più alto ciclo oda e per avven bene considerasse, troverebbe, per avventura,
tura gradisca che un suo basso sì, ma antichis ciò essere stato cagione in gran parte ed es
simo servo, indottamente forse e con rozze pa sere ancora delle infelicità di quelli tempi e
role, ma fedelmente certo di lui ragioni e con di questi. Ma perchè noi in questa dubitazione
sincera volontà, verremo, l'ordine nostro se chiarissima non volemo dire nulla di nostro,
guitando e la promessione fatta attendendo, a ma solo recitare l'opinione d'altri, diciamo,
proporre oggi e risolvere queste amorose altre che Platone in tutto il suo Convivio ed in al
quistioni: tri luoghi assai, non pare che altro intenda
IV. Sc chiunque è amato è tenuto di dover principalmente e voglia inferire, se non che gli
riannare. amati e debbano e siano tenuti a riamare; e ciò
V. Se nell'amore oncsto si sentono passioni, dice tanto espressamente, e con sì chiare ed effi
SULL' AMORE 2o7
caci parole, che quando non v'aggiugnesse ancora Tantum aevi longingua valet mutare vetusta.
le ragioni, come fa, meritarebbe d'essere non solo Come coloro, i quali o per la rozzezza del
creduto, ma ringraziato, mostrando ciò non meno
l'ingegno loro, o per la corruttela di questi
essere, anzi più orrevole ed utile all'amato, nostri più che infelicissimi tempi, e tal volta
che all'amante. Onde in quella orazione, nella giudicando gli altri dalla loro natura medesi
quale Fedro loda amore, dice in questa ma ma, si fanno a credere, che tutti gli amanti
niera: A un giovinetto non può cosa nessuna amino d'amor volgare solamente; il quale se
avvenire migliore, che un ottimo amatore (per non per sè, almeno per accidente, cioè se
dire ancora le parole sue); ed a un amatore condo le circostanze merita bene spesso tanti
dall'altro lato non può cosa migliore accade biasmi e riprensioni, quanto il celeste, del quale
re, che un amato ottimo: e soggiugnendo la favelliamo, lodi ed ammirazioni. E per dar fine
ragione di ciò, dice: che due cose è necessario qualche volta a questa materia della quale non
abbia chiunque deve menare la vita sua or si verrebbe a capo mai, chi volesse tutto quello
revolmente e con lode; e ciò sono: vergognarsi che da tanti uomini tanto dotti e santi, così
di fare le cose brutte e biasimevoli, cd essere antichi come moderni, e non men greci che
pronto ed invogliato alle cose oneste e lode latini raccontare, recitaremo solamente le pa
voli. E queste cose, dice egli, non la nobiltà, role formali, che pose nel fine del suo Pane
non le ricchezze, non gli onori possono, o più girico M. Francesco da Diacceto, per sopran
tostamente, o meglio dare agli uomini, che nome il Pagonazzo, a differenza dell'altro Mes
l'amore; perciocchè niuno che veramente ami, ser Francesco pure da Diacceto, e medesima
oserà in modo alcuno fare cosa vergognosa, per mente filosofo, benchè di minor fama, chiamato
non venire in disgrazia dell'amato: e niuno il Nero (i), le quali sono queste: » Per la qual
amato per non divenire vile all'amante, eleg » cosa qualunque non vede il vero amatore
gerà mai far cosa, che onorevole non sia. Onde » dovere essere infra gli uomini in grandissimo
soggiugne, che se in modo alcuno si potesse, o r pregio e massime appresso della cosa amata,
una città fare o uno esercito parte. d'amati » non intende quanto le cose divine sono più
e parte d'amanti, costoro, ancora che pochi di » eccellenti e degne di più venerazione che
numero, vincerebbono combattendo tutti gli n l'altre; nè alcuno impetra grazie maggiori
altri. Ed in un altro luogo dice, che dove co » nè riporta maggior doni dagli Dei, che la
tali amori son vietati, ciò essere avvenuto o cosa amata, quando ardentissimamente ria
per la cattività de'legislatori, o per l'iniquità » mando è parata a sottomettere ogni pericolo
e violenza dei principi e dappocaggine del sud in grazia del suo amatore; imperocche con
diti; e questo avvenire massimamente appresso n l'amatore abitano gli Dii, che non meno ac
le nazioni barbare, e dove regnano le tirannidi cettano l'osservanza e la venerazione della
per vietare che non divengano acuti e gene m cosa amata in verso l'amatore, che i voti e
rosi; dove dice ancora, che i padri danno in » sacrifizi fatti a se; onde in questa vita, ed
guardia i loro figliuoli de maestri, perchè vie » in quell'altra la ricompensano di grandissimi
tino loro il favellare con gli amanti; la qual » premi. Ma quando la cosa amata ha in odio
cosa appresso noi, dice egli, cioè appresso gli s» il suo amatore, diventa ricetto di tanta umi
Ateniesi è tanto brutta che nulla più. E breve » seria e di tanta infelicità, che molto meglio
mente Platone vuole, che come da questo amore » gli sarebbe essere o brutto animale, o insen
procedono infiniti beni, così dal contrario pro » sato sasso; anzi piuttosto al tutto non essere
cedano infiniti mali; onde M. Marsilio Ficino m nata. Nessuna cosa arreca agli uomini mag
dice nel suo comento, fra molte altre non o giori incomodi, che l'odio delle cose divi
meno vere che dotte, queste parole. » Chiunque » ne, dalle quali pende ogni bene, ogni mise
» ama deve essere riamato ipso jure, come si » ria nell'universo; perchè essendo formato in
» dice, cioè solo perchè egli ama, e perchè la » sulla dissimilitudine di esse, è necessario
» natura e la ragione portano, che chiunque » che scompagnandosene, invece sia accompa
» ama sia amato ». E soggiugne, che qualun » gnato da tutti i mali. Chi adunque ha in
que amato non riama l'amante è degno non » odio l'amatore, essendo alieno e ribelle dalla
pure d'una morte sola, ma di tre; perciocchè » divina bonta, è amico delle cose contrarie.
viene a farsi ladro, omicida e sacrilego, cioè » In prima si fa servo di quelle perturbazio
rubatore di cose sacre, e conseguentemente » ni, le quali arreca seco l'imperio de' sensi,
merita la forca come ladro, il ceppo come » quando la ragione è addormentata, come se
omicida, ed il fuoco come sacrilego: e aggiu » a guisa delle piante, tenga il capo in terra,
gne più oltre ancora, che essendo infame e pro » avendo volto i piedi verso il cielo: dopo ne
fano, può essere da ciascuno senza alcuna pena
perseguitato ed ucciso, come pubblico malfat. a lodare i tempi nostri, per questo li loderemmo, ch'abbiano
tore. E so bene che queste cose a molti par spenta affatto quella strana specie di scienza speculativa, che
traeva ingegni della portata del Ficino e del Varchi a ammi
ranno ridicole ed a molti false; e chi dubita serirsi fra siſatte stravaganze. (M.)
che non s'abbiano a trovare di quelli che non (1) Questi è quel Messer Francesco Cattani da Diacceto, che
solo di riprensione le giudichino degne, ma an: fu Vescovo di Fiesole, e che accennai in una nota antecedente.
cora di gastigo (1)? Perchè questi fosse soprannomato il Nero, e l'altro, di cui qui
cita il Varchi un lungo tratto del Panegirico d'Amore, fosse
(1) A noi, uomini del secolo XIX, non che ridicole, co detto il Pagonano, ne lo so, nè saprei indovinarlo. Saranno
deste cose paiono pazze. E se per nessun altro titolo avessimo forse soprannomi accademici. (M )
no8 LEZIONE QUINTA
» viene un altro male, perchè non conoscendo cavato nondimeno, o imitato da Dante, il quale
» alcuna cosa rettamente, pieno di false opi nelle seconde rime del primo libro nella sua
» nioni, diventa stolto e bugiardo; non altra Vita Nuova disse:

» mente che avvenga a quelli, i quali da con O voi, che per la via d'amor passate
» tinui sogni beffati, in mezzo al sogno ſini Attendete, e guardate,
» scono la lor vita. Da queste furie, mentre è S'egli è dolore alcun, quanto 'l mio, grave (1);
» vivo, dormendo o vegghiando, se egli è da
s, dire esso mai vegghiare, rimordendolo la co essi le raccontano e si dolgono non solo con
» scienza, è perturbato. Ma dopo la morte su tutti gli uomini, ma ancora col cielo stesso e
so bito da ministri della divina giustizia me con tutte le stelle, come si vede nel sonetto:
so nato innanzi al gran Giudice, ode l'or
Quando il Sol bagna in mar l'aurato carro (2)-
si rendo giudizio, sè essere dato in potestà dei
so crudelissimi demoni ; de quali una parte Anzi quello che merita più, non vo dir riso,
» lo affligge col rappresentargli nella fantasia ma compassione, si lagnano ancora e le rac
» ogni orribile spezie di paura, un'altra parte contano a quelle cose, che non pure ajutare
» con intollerabili pene corporali lo tormenta. non li possono, ma nè udire:
» Ma sopra tutti i mali, due sono grandissimi,
» l'uno è una certa molestia interiore, la quale o poggi, o valli, o fiumi, o selee, o campi,
si procede dalla discordia dell'anima in sè me O testimon della mia grave vita
» desima, simile a quel dolore che è nel corpo, Quante volte m'udiste chiamar morte (3).
» quando per la discordia di tutti gli umori gridò il Petrarca; ed altrove:
s, pessimamente è disposto; l'altro di gran lunga Odil tu, verde riva
» più grave, essa divinità penetrante in ogni
» loco; la presenza della quale per cagione E presta ai miei sospirsi largo volo,
» della interiore dissensione a nessun modo può Che sempre si ridica
» sopportare. Imperocchè come gli occhi cispi Come tu m'eri amica (4).
» per la presenza del lume sentono gran do Da questi esempi ed infiniti altri, che da
º lore, ed i sani si confortano, così l'anima tutti i poeti di tutte le lingue addurre si po
» giusta sente gaudio e dolcezza; la ingiusta trebbono, mossi alcuni, anzi spaventati dinnan
» sente una molestia che vince ogni molestia dano, se ciò procede solamente nell'amor vol
» per la presenza della divinità. Da questi gare, o pur ancora nel celeste. Alla qual du
» mali ed ancora maggiori molto per volontà bitazione volendo risolutamente rispondere, bi
» divina è afflitto chi ha in odio il suo ama sognerebbe far di nuovo la divisione d'amore;
» tore, il quale diventa partecipe di altrettanti perciocchè se volemo naturalmente e da veri
» beni, se, dimessa ogn'altra cura, solo pensa filosofi favellare, egli si può, dell'amore, che
» notte e giorno esercitarsi in ogni spezie di alle donne si porta intendendo, amare onesta
» virtù, acciocchè fatto simile a lui sia degno mente e virtuosamente, e desiderare di con
º ricetto di tanto lume.
giugnersi con la cosa amata; anzi è impossi
bile, che nell'amore umano, cioè, quando al
cun uomo ama alcuna donna ancora di buono
QUISTIONE QUINTA
amore, che cotale amore sia perfetto, se non
vi si ritrova la totale ed intera unione, cioè,
Se nell'amore onesto si sentono passioni. se come si congiungono prima gli animi, non
si congiungano ancora i corpi. Perchè tutto il
Il veleno della vipera, ha, dicono i fisici, composto, cioè la forma e la materia ed in
cotal natura e questa proprietà, che coloro, somma l'anima, e 'l corpo sono tanto uniti
che sono dalla vipera morsi, non vogliono a mentre viviamo, che niuna cosa è più una, che
Patto niuno scoprire la passione loro ed il tor essi si siano ; onde come il corpo non ſa nulla
mento che sentono, se non a quelli, che pro da sè, non essendo il fare della materia, ma
vato l'hanno, tenendo per cosa ferma, che della forma, così l'anima, sebbene è suo pro
tutti gli altri nol potrebbono mai credere, e pio il fare come forma, non però si può dire,
se ne farebbono, per avventura, beffe. Il simile che faccia da sè cosa niuna, ma tutte insieme
appunto dovrebbono gli amanti fare, anzi molto col corpo per la colleganza, che hanno le sen
più, quanto i morsi d'amore sono più acuti timenta e tutte le potenze dell'anima insieme.
e più possenti di quelli della vipera. Ed essi Da queste cose, chi bene le intende, nasce
per l'opposto fanno tutto il contrario; per apertamente la soluzione del dubbio, perchè
ciocchè dove non doverebbono raccontare le o cotale amore è scambievole, o no; e come
pene loro, se non a quelli, i quali o sentis Platone direbbe, o vivo, o morto. Se non è
sero o sentito avessero le forze d'amore, come scambievole, cioè, che l'amante non sia ria
fece il Petrarca quando disse: mato, certa cosa è, che tutte le passioni, che
O anime gentili ed amorose, si possono trovare, non agguagliano questa una
S alcuna ha l mondo, e voi, nude ombre e polve,
(1) Dante Rime, lib. I, Ballata I.
Deh restate a veder quale è 'l mio nale (1)! (2) Son. CLXVIII, Parte I.
(3) Canz. VI, Stanza 111, Parte I.
(1) Son. CX, Parte I. (4) Cana. X, Stanza IV, Parte 1.
SULL' AMORE 209
sola, come testimonia tante volte il Petrarca, Perchè quanto questo amore è più perfetto,
e tutti gli altri, che per prova lo sanno; onde tanto più sente la sua mancanza, e maggior
furono alcuni, che credettero, che tutte quelle dispiacere se ne prende; onde se non è scam
pene, che i Gentili davano all'anime ree dopo bievole, trapassa tutti i dolori; se è scambie
la morte, fossero quelle, che sentivano vivendo vole, oltra che non può sempre fruire la
gli innamorati. Ma se l'amore è scambievole, cosa amata, come si desidera, se non per
e che da amendue le parti si trovi eguale amo altro, per le bisogne civili ed opportunità na
re per egual causa, o per diversa, credono molti, turali che nol comportano, egli, cioè l'amante,
che in questo amore siano tutti i diletti senza se non perde, scambia sè stesso e diviene un
noja veruna. La qual cosa è falsissima; perchè altro, cioè l'amato. E ciò non può farsi, come
posto che gli animi, essendo spiritali, e senza si è detto, senza dolore; per non dir nulla che
corpo, si possano penetrare l'un l'altro e con sebbene non si desidera il congiugnimento del
seguentemente trasformarsi insieme, non però corpo, si desidera però quello che senza il
possono cosi fare i corpi, i quali per lor na corpo non può essere, cioè vedere e udire l'a-
tura ricercano ciascuno vari siti e diversi luo mato, il che non si possendo fare tuttavia, e
ghi. E di qui nasce una inquietudine quasi tuttavia desiderandosi di fare, è forza che n'ap
continua, come conosce chiunque sa, che amore porti doglia. E a chi domandasse: Non può an
-
-
non è altro che desiderio di godere con unio cora una donna essere di questo medesimo
ne la cosa o bella, o stimata bella; il che non amore amata ? rispondiamo senza alcun dubbio
vuole altro significare, se non che l'amante si di sì, benchè questo e più raro avvenga, e con
trasformi nella cosa amata, con desiderio che maggiore malagevolezza si faccia. Perciocchè
ella in lui si trasformi. La qual cosa perchè pare, anzi è la natura degli uomini cosi fatta,
non si può fare interamente, non può ancora che piuttosto caggiono dal bene al male che
essere cotale amore senza quasi continuo man non salgono dal male al bene; onde è più age
camento e dispiacere; perchè gli amanti, an vole scendere da uno amore più perfetto in uno
cora che molte volte non sappiano quello che meno perfetto, che fare il contrario; e se al
si cercano, non cercano altro mai, che tras cuno, considerate bene queste cose, conchiu
formarsi l'uno nell'altro, cioè che l'amante desse cosi: Tutti gli uomini amano, tutti gli
divenga l'amato, e l'amato l'amante. E di qui amori umani sono pieni di tormenti, o almeno
si può conoscere quanto amore sia possente e non sono senza passione, dunque tutti gli uo
stia a tutte quante l'altre cose di sopra; per mini o sono tormentati, o non sono senza do
che egli non si trovò mai, nè può trovarsi al lore; risponderemmo ciò essere verissimo, e non
cuno così povero, così vile, così brutto e fi essere questa appresso i filosofi maggior mera
nalmente tanto colmo di tutte le miserie e ca viglia che si sia quella di veder correre i fiumi
lamità umane, il quale o voglia, o possa desi verso il chino. E a chi dicesse: Dunque la Natura
derare di scambiare se con alcuno altro; seb ci ha prodotti solo, perchè triboliamo, rispon
bene fosse colui il più ricco, il più nobile e il derei, che ella ci ha uomini prodotti tanto no
più bello di tutto il mondo. Vorrebbe bene bili e tanto perfetti, quanto ella sapeva e po
- cangiare lo stato suo e tutte l'altre cose con teva il più, e in somma più eccellenti in tutte
colui, ma sè no; e la cagione è, perchè l'es le cose di tutti gli altri animali, e conseguen
sere è tanto nobile cosa e tanto propia a cia temente la più degna e mirabil creatura che
scuno, che niuno può desiderare di non es sia, e che possa essere sotto il cielo; ma uo
sere. E chi si scambiasse con un altro, per mini però, cioè sottoposti a tutte l' umane
derebbe l'essere: e sebbene quell'altro essere passioni, non meno molte che grandi. E di
fosse più perfetto e più nobile, non perciò que uesto non ci potemo dolere, nè dovemo punto
tarebbe chi lo scambiasse; perchè uno che si i lei; ma bene e potemo e dovemo infinita
scambiasse, non sarebbe più lui, ma quello al mente ringraziarla dell'averci ella fatti tali,
tro, e così arebbe perduto l'essere suo. Il che che possiamo e dovremmo mediante l'amore
non solo non si può fare, ma nè ancora de di queste bellezze mortali, le quali amare senza
siderare, se non se negli amanti in quel modo amaro non si possono, a quelle divine solle
che s'è detto. E ciò s'avvertisca bene; per varci, nelle quali, come ne insegna il santis
che scioglie un dubbio non picciolo, che può simo romito di Lavinello, non solo non si tro
nascere dalle cose dette, cioè se in quello amo va dolore nessuno di nessuna maniera, ma
re onesto, che ai giovini si porta, dove natu tutte le gioie compitamente. E se alcuno mi
ralmente non si può e ragionevolmente non si dimandasse se io credo che senza queste bel
dee desiderare il congiugnimento del corpo, si lezze mortali, cioè non amando nè uomini nè
ritrovi passione e dolore. Molti credono di donne, si potessero conoscere le bellezze immor
no, ma la verità è in contrario; e la cagione tali e salire all'amore divino; gli risponderei;
che come cristiano non ho dubbio nessuno di
si può, per avventura, cavare dalla sentenza
del filosofo messa da Dante in questi tre versi: sì; anzi, come dissi pur testè, è questa via del
l'amare cose terrene molto pericolosa, perchè
Ed egli a me: ritorna a tua sentenza molto più agevolmente, non dico potemo, ma
Che vuol quanto la cosa è più perfetta, solemo trasmutarci in fiere che divenire an
Più senta 'l bene, e così la doglienza (1). geli. E chi non sa, che la contemplazione delle
cose divine ed il considerare, non che l'imi
(1) Inferno, CantoVI. tare la vita del Precettore e Salvatore nostro,
vArchII V, 1. 27
2 lo LEZIONE QUINTA
può quasi nuovi Paoli rapirne al Ciclo, e per che egli non conosce ; nè basta il conoscere
conseguente farne beati? Ma come filosofo di alcuna cosa a volerla amare, ma bisogna co
rei, che non potendo l'anima nostra intender noscerla, cioè giudicarla come bella, ovvero
nulla senza le sentimenta della vista, ed essendo buona, cioè gioconda e dilettevole. Nè basta
il sentimento più nobile di tutti gli altri, come ancora questo, che bisogna di più avere spe
quello che ha l'obbietto suo più nobile, e non ranza di poterla conseguire: perchè all'amore
si potendo vedere quaggiù cosa alcuna più precedono sempre e di necessità tre cose; il
bella e più dilettevole, che una bella crea conoscere, il giudicare, e lo sperare. E per
tura, niuna via può nè più agevolmente , nè che meglio s'intenda, nissuno può naturalmente
meglio introdurci alla cognizione e fruizione del disposto quelle cose o cominciare, o seguire, le
le bellezze invisibili ed incorporce, che la quali egli non pensa di poter al suo fine con
cognizione e l'amore di queste corporee e durre; perchè altramente vano sarebbe cotal
visibili, quando però sono conosciute e con desiderio, e vane tutte l'operazioni che per
seguentemente amate da ingegni nobili ed ele esso si facessero. La qual cosa non tollera la
vati, che di quello solo si contentano, che i natura.
modesti uomini ed in somma filosofi, non che All'autorità del Petrarca, quanto alla prima
cristiani contentare si deono. E sebbene an rispondiamo che quello che non è, non può
cora in cotali amori sono passioni veementis desiderarsi, e tanto meno quello che non può
sime, sono però tanto lodevoli e da dovere es essere; e conscguentemente non si può vivere
sere desiderate, quanto quelle dell'amor vol del disio, quando non v'è la speranza. Ma egli
gare biasimevoli e da dovere essere abborrite. favellò come poeta, e come innamorato; e forse
gli pareva così, ma di certo non era, come
QUISTIONE SESTA dimostra egli stesso in più luoghi, come là:
Se alcuno può innamorarsi, o amare senza spe Che più m'arde il disio, -

ranza,
Quanto più la speranza m'assicura (1),
Questa dubitazione ha, come può ciascuno perciocchè quanto è maggiore la speranza di
vedere e contiene in sè due capi; il primo dei dover conseguire checchè sia, tanto è ancora
quali è, se alcuno può innamorarsi senza spe più grande il desio, cioè l'amore. Ed altrove
ranza, cioè se può desiderare alcuna cosa, senza volendo mostrare che mancherebbe l'amore
sperare di poterla ottenere. Il secondo è, se disse, che mancherebbe la speranza:
alcuno può amare senza speranza, cioè se es Perchè con lui cadrà quella speranza,
sendosi innamorato e mancandogli poi la spe Che ne fe” vaneggiar sì lungamente (2).
ranza, può seguitare l'amore: oppure è ne
cessario, che mancando la speranza manchi an e altrove:
cora l'amore. Sono alcuni che credono che
Sarem fuor di speranza e fuor d'errore (3);
senza speranza si possa cominciare ad amare,
cioè innamorarsi e per conseguenza continuare e medesimamente:
l'amore; alcuni altri pensano, che niuno possa Di speranza m'empieste e di desire (4);
da principio innamorarsi senza speranza, ma in
namorato che egli è, ancora che mancasse la e in un altro luogo:
speranza, non per questo mancare necessaria Agguaglia la speranza col desire (5).
mente l'amore. E non si fondano, ch'io sap
pia, nè quei primi nè questi secondi, se non Ma qual più chiaro, che quando dice: -

sopra un'autorità del Petrarca: i primi alle Vivo sol di speranza, rimembrando.
gano questi versi: Che poco umor già per continua prova
Lasso, che desiando Consumar vidi marmi e pietre salde (6)?
Vo quel, ch'esser non puote in alcun modo, Alla seconda autorità diciamo esser necessa
E vivo di dislo fuor di speranza (1); rio, che qualunque volta mancano le cagioni,
i secondi allegano quell'altro: manchino ancora gli effetti; onde mancando la
speranza, manca l'amore di necessità. Nè la
Piaga per allentar d'arco non sana (2). similitudine dell'arco alla piaga è buona; per
Quasi che come una ferita non guarisce, nè chè oltra che tutti gli argomenti fatti per si
diventa minore, se quell'arco, onde uscì lo militudine zoppicano, come dicono i loici, la
strale, che la fece si rompesse, o divenisse fie piaga non pende, fatta che è, nè nell'essere,
vole; così l'amore che da speranza cominciò, nè nel conservarsi dall'arco, come fa amore
non debba per lo mancare la speranza, man dalla speranza. È ben vero, che di tutti i mali
care ancora esso. Ma noi crediamo, che l'una che del vaso uscirono di Pandora, la speranza
e l'altra di queste dubitazioni sia chiarissima
e che niuno possa nè cominciare ad amare, nè (1) Ballata VI, Parte I.
proseguire l'amore senza speranza; perchè (2) Son. XIX, Parte I.
niuno ama, come s'è più volte detto, quello (3) Son. Ci 1, Parte I.
(4) Son. I, Parte II.
(1) Canz. VIII, Stanza VI, Parte I. (5) Canz. l I, Stanza III, Parte II.
(2) Son. LXI, Parte I. (6) Son. CCVI, Parte I.
SULL' AMORE 21 l

sola fu l'ultima, anzi avendo ella coperchiato e non disse il Boccaccio chiaramente in una
il vaso, si rimase nel fondo;esimilmente quando delle sue Ballate:
la giustizia e gli altri di ritornandosi per le S'Amor venisse senza gelosia?
nostre scelleratezze in cielo, abbandonarono la
terra, solo la speranza non si partì. Voglio dire Ma perchè questa dubitazione fu lungamente
che sempre la speranza, come volgarmente si da noi trattata nella lezione che facemmo già
dice, è verde, ed ogni uomo volentieri ingan
in Padova sopra il dottissimo e leggiadrissimo
sonetto che fece Monsignor M. Giovanni della
nando sè mcdesimo crede e spera quello, che
cgli vorrebbe; e sebbene il Petrarca disse al Casa della gelosia, la quale lezione si trova
trove:
impressa, non ci pare da dover dire altro in
questo luogo, se non che quanto è più grande
Che 'l disir vive, e la speranza è morta (1): l'amore, tanto è ancora maggiore la gelosia,
non perciò si dee credere, che così fosse, per favellando dell'amor volgare: non che ancora
chè la speranza è tanto propia dell'amore che nel virtuoso e contemplativo non si trovi ge
egli stesso chiama più volte Madonna Laura losia, ma è d'un'altra spezie, tanto più no
la sua speranza, come là; bile, quanto è più nobile detto amore. E per
chè ragionammo altrove lungamente se si può
Che mi conducon per più piana via amare con termine, ovvero con tempo, non
Alla speranza mia (2). replicaremo al presente cosa nessuna di cotal
Ed altrove fa dire ad Amore : dubbio.

Chè mirando ei ben fiso quante e quali QUISTIONE OTTAVA


Eran virtuti in quella sua speranza (3).
lº che volle altro significare il reverendissi Se alcuno può solo per fama e d'udita
innamorarsi.
mo Bembo in tutto quel dotto, e maraviglioso
sonetto, il cui cominciamento è:
Dico Aristotile e dice vero, come fa sempre,
Speme, che gli occhi nostri veli e fasci , che coloro, i quali a poche cose hanno risguar
se non che mentre che la speranza non si parte, do, agevolmente pronunziano, e, come noi di
rimane ancora l'amore? ciamo, aprono la bocca e favellano; e a me
non parrà fatica di replicare "che nella
precedente lezione fu da noi detto; cioè che
QUISTIONE SETTIMA senza la logica niuno nè può, nè deve trattare
alcuna cosa scientificamente; ed il desiderio che
Se amore può essere senza gelosia. io ho di giovare agli altri uomini, mi spigne a
dire in benefizio loro quello che in mio tacere
Se gli uomini volessero o nel muovere le dovrei. E questo è ricordare a coloro che non
sanno logica, che essi non sanno cosa nessuna;
quistioni, o nel risolvere le mosse, credere al
cuna volta più alla prova di sè stessi, che al e così possono e debbono decider i dubbi loro
l'autorità e parole altrui, non si lascerebbono rettamente o determinare l'altrui quistioni ve
così di leggieri trasportare a creder più la men ramente, come può o debbe o un legnaiuolo
zogna, che la verità. Chi è quegli, il quale se dirizzare i legni senza la squadra, o un mura
mai ha amato, non sappia che come senza spe tore tirare le pareti diritte senza l'archipen
ranza non si può amare, così senza gelosia zolo. E questo ho detto, perchè tutti coloro
amare non si può? Che se il Petrarca mostrò che hanno trattato, se per fama si può inna
morare, senza fare o dubitazione o distinzione
nel sonetto, che comincia: Amor, che incende 'l
nessuna, dicono affermativamente di si; il che
cor d'ardente zelo, d'aver amato senza gelosia,
dicendo: è tanto vero, quanto è vero che l'orecchie co
noscano i colori, del che non è nulla più falso.
L'altra non già, che 'l mio bel foco è tale, Essi allegano primieramente l'autorità del Pe
Ch'ogn'uom pareggia (4), trarca, che disse:
il disse per mostrare maggiormente la castità Digli: Un che non ti vide ancor d'appresso,
di Madonna Laura. E Virgilio, nel cui quarto Se non come per fama uom s'innamora (1).
libro dell'Eneide sono maravigliosamente de Nè s'accorgono, che in quel luogo il poeta non
scritti quasi tutti gli effetti e gli accidenti del intende dell'amore dilettabile, e che da bellezza
l'amor civile, disse: procede, ma dell'amore di benevolenza e d'a-
Omnia tuta timet, mistà. Perchè diceva Santo Agostino: Noi pos
siamo voler bene alle cose, che vedute non
favellando di Didone, cioè in sentenza: avemo, ma non già amarle. Allegano di poi la
Teme ogni cosa, ancor che sia sicura. novella di Gerbino, d'Anichino e di Lodovi
co (2); e quello che par loro non solo più
(1) Son. IX, Parte II. (1) Canzone a Cola di Rienzo. Parte IV, Canz. II,
(2) Canz. 1X, Slanza V, Parte I. Stamaa V Ill.
(3) Canz. V 11, Stanza X, Parte 11. (2) Boccaccio. Decamerone, Giornata IV, Novella IV, e
(4) Soa. CXXX, Parte I. Giornata VII, Novella VII.
º i2 LEZIONE QUINTA
forte argomento, ma dimostrativo, Gianfrè Rudel e poco di sotto: - -

Signor di Blaia, e gran dicitore in rima di quei Ed aperta la via per gli occhi al core.
tempi, il quale dicono che avendo inteso ce
lebrare da molti Romei, che d'Antiochia torna E crediamo noi, che Dante, che seppe, e disse
vano, la Contessa di Tripoli, se ne innamorò di ogni cosa, non sapesse ancora, e dicesse que
maniera che avendola amata e celebrata lungo sta, quando disse prima ne sonetti:
tempo, senza averla veduta mai, ed all'ultimo Io maladico il dl, ch'io vidi in prima
messosi in viaggio per andarla a trovare, in La luce del vostrº occhi traditori (1):
fermò; pure condottosi per mare a Tripoli così ed in un altro sonetto:
malato, ed essendo da lei stato visitato, si mori
nelle braccia sue lietissimamente; onde il Pe Quella ferita la qual ricevei
trarca disse: Nel tempo, che de' suoi occhi si mosse
Gianfrè Rudel, ch'usò la vela e 'l remo Lo spirito possente, e pien d'ardore,
A cercar la sua morte (1). Che passò dentro si, che 'l cor percosse
Alle quali tutte cose rispondiamo, che il sen ed in un altro più chiaramente:
tire lodare un uomo, o una donna di virtù,
può bene, anzi deve fare, che siamo loro favo Amore è uno spirito, ch'ancide,
revoli, benevoli e amici, ma che l'amiamo di Che nasce di piacere e vien per guardo?
amore dilettabile, no. Similmente quando sen E poi eziandio nell'opera grande, quando nel
tiamo lodare alcuno o alcuna di bellezza ed trentesimo primo canto del Purgatorio disse:
altre lodevoli maniere, ciò può bene fare in Posto t'avem dinanzi agli smeraldi
noi alcuna impressione, che così sia, ma i farci Onde Amor già ti trasse le sue armi,
crederlo risolutamente no; e così possiamo bene
e nel ventesimottavo del Paradiso:
trarne una certa notizia, la quale sia princi
pio di benevolenza, ma amore vero non già : Così la mia memoria si ricorda,
onde ci possiamo muovere a desiderare di ve Ch' io feci, riguardando ne begli occhi,
dere con gli occhi quello, che con la lingua Onde a pigliarmi fece Amor la corda.
udito avemo. Nè è vero, che se la cosa lodata
non riuscisse tale, ehente c'era stata dipinta, Ma perchè le autorità appresso i filosofi non
o noi immaginata l'evevamo, ad ogni modo vagliono senza le ragioni, e producono sola
l'amassimo. E tutto diciamo non tanto secon mente fede ed opinione, ma non certezza e
do il giudizio nostro, il quale non preferiremmo dimostrazione; dovemo sapere, che ciascuno
a nessuno, quanto credendo alla sperienza, la de cinque sentimenti ha il suo obbietto pro
quale chi ha fino a qui fatto, o farà per l'av pio e particolare, e se più fossero stati gli ob
venire, troverà così essere, come noi diciamo; bietti, più sarebbono stati i sensi; onde come
oltra che tutti i poeti di tutte le lingue ciò l' occhio non riceve, o giudica i suoni, così
testimoniano. l' orecchie non ricevono e giudicano i colori;
e non essendo la bellezza, secondo Aristotile,
Si nescis, oculi sunt in Amore duces: altro che quella grazia, che dalla proporzione
di più membra con soavità di colori nasce e
disse Properzio. E Virgilio nella Bucolica: risulta; e secondo Platone, un certo splendore,
Ut vidi, ut perii, ut me malus abstuli error: che rapisce a sè l'animo di chi lo conosce, e
consiste nella leggiadria delle linee e de' co
ed Ovidio nelle Epistole: lori; chiara cosa è, che niuno può niuna cosa
Tuno ego te vidi, tunc coepi scire quid esses, giudicare bella, se prima non la vede, e per
Illa fuit mentis prima ruina meas. chè l'amore è desiderio di bellezza, niuno può
senza la bellezza innamorarsi. Onde è manife
Crnthia prima suis miserum me coepit ocellis, sto, che come un cieco nato non può giudi
cominciò il medesimo Properzio l'opera sua. – care de'colori, così non può propiamente in
Ma chi lo testimonia più chiaramente, e a cui namorarsi, sebbene Marziale disse assai fred
deve maggior fede acquistare, che al Petrarca damente:
stesso il quale in mille luoghi l'afferma R Non
disse egli favellando agli occhi: Plus credit nemo, quam tota Codrus in urbe:
Principio del mio dolce stato rio (2): Cum sit tam pauper, quomodo? caecus amat.
ed altrove: E per meglio ancora dichiarare quanto, non
diciamo, sieno, ma crediamo essere dalla verità
Per lei sospira l'alma, ed ella è degno, lontani tutti coloro che sentono altramente,
Che le sue piaghe lave (3)? non basta a doversi di corporale bellezza in
E che vuol dire: namorare, il vedere la donna amanda, per dir
cosi, ma bisogna vederla da vicino; nè è ba
Che i bei vostrº occhi, Donna, mi legaro (4)?
stante il da vicino vederla, che è di bisogno il
(1) Trionfo d'Amore, Capitolo IV. vedere gli occhi di lei; nè questo anco è ba
(2) Canz. VI, Stanza Il, Parte I. stevole che fa di mestieri il vedergli aperti,
(3) Canz. II, Stanza V, Parte I.
(4) Son. III, Parte I. (1) Rime di Dante, Lib. II, Son. X.
SULL'AMORE 2 13

come voleva far Cimone di quelli d' Ifigenia. E Messer Angelo da Montepulciano:
Nè anco questo è abbastanza, perchè è neces
sario vedere la pupilla degli occhi; nè il ve O bello Dio, ch'al cor per gli occhi spiri
dere la pupilla degli occhi sarebbe sufficiente, Dolce dislo d'amaro pensier pieno.
se non si riscontrassero quella dell'amante e E niuno amante, se vorrà il vero confessare,
quella dell'amanda l' una coll'altra; nè il negherà, che la sua amata da prima benigna
riscontrarsi insieme le pupille sarebbe assai, e cortese non se gli dimostrasse; onde disse
ma conviene ancora ed è forza, che in elle o Tibullo :
sia in vero, o paja all'amante, che sia un certo
che di benignità e d'amorevolezza verso di lui Semper ut inducas blandos offers mihi vultus:
che dimostri, che ella se non accetta, almeno Post tamen es misero tristis et asper, Amor :
non rifiuta d'essere amata. E allora finalmente ed il Petrarca:
che tutte concorrono queste cose, nasce e si
crea l'amore, e non mai prima. Non che dove
Mentr'io portava i be' pensier celati,
C' hanno la mente disiando morta,
e quando concorrono tutte queste cose, si crei Vidivi di pietate ornare il volto,
di necessità e nasca sempre l'amore, ma dove Ma poi ch'Amor di me vi fece accorta,
si genera l'amore, sempre e necessariamente Furo i biondi capelli allor velati,
queste cose concorrono tutte, le quali però E l'amoroso sguardo in sè raccolto (1).
possono e sogliono molte volte tutte quante in
uno stante concorrere. Nè sia alcuno, il quale ed altrove più chiaramente:
si faccia a credere leggiera cosa fare o pic Gli occhi soavi, ond'io soglio aver vita
ciolo guiderdone addimandare, quando egli al Delle divine loro alte bellezze
cuna donna amorosamente risguarda; percioc Furmi in su 'l cominciar tanto cortesi (2).
chè tanto è far questo, quanto addimandarle
d'essere riamato; ed essere riamato non vuole E che altro vuol significare:
altro dire, se non che ella non solo accetti Felice agnello alla penosa mandra
l'anima dello amante, ma eziandio le doni la Mi giacqui un tempo (3).
sua. E quando alcuno dice, come Ovidio:
soggiugnendo:
Non me ut ames oro, sed te ut amare sinas, Così rose e viole
dice da motteggio. E molto più veramente, sic Ha primavera, e 'l verno neve e ghiaccio?
come anco più leggiadramente, disse M. Fran
cesco a Madonna Laura: E chi allegasse il palafreniere d'Agilulfo (4)
consideri che egli era palafreniere, e che il
Ma poi vostro destino a voi pur vieta Boccaccio scriveva novelle, e anco per quello
L'essere altrove, provvedete almeno che si può giudicare, il suo non era de' più
Di non star sempre in odiosa parte (1). santi amori del mondo.
Nè mai favellò alcuno scientificamente d'amo E poi che tanti, dietro la sua autorità, cre
re, il quale dagli occhi dell'amata per gli oc dono piuttosto ad altrui la bugia che a sè me
chi dell'amante nascere nol facesse; perchè desimi il vero, non mi parrà fatica distendermi
oltra Virgilio, che disse generalmente: in questa alquanto più che nell'altre quistioni
d'amore non ho fatto, e dire che dalle cose
. . Uritgue videndo narrate agevolmente conoscere si può non es
Foemina.
sere possibile, che alcuno in rimirando il ri
e spezialmente di Dido prima nel primo libro: tratto d'alcuna donna, la quale egli mai ve
duta non abbia, ancora che fosse o gli paresse
Expleri mentem nequit, ardescitgue tuendo. bellissima, di lei s'innamori, se non se forse
e poi nel quarto: d'amore dipinto; e quello che diciamo delle
pitture, diciamo ancora delle sculture. E ben
• . . . Pendetgue iterum narrantis ab ore; sappiamo di Pigmalione, e quello che ad alcune
statue di marmo avvenisse; ma cotali si chia
Museo (2) si antico e sì gran sacerdote d'Amore, mano furori e non amori. E chi dubitando di
non gli bastando aver detto particolarmente cesse, nelle pitture e sculture essere i colori,
che Leandro, tosto che vide Ero, e per gli e perciò le loro bellezze potere trapassare per
scambievoli sguardi e cenni conobbe, che ella gli occhi al cuore, risponderemo che nell'amore
del suo amore accorta s'era: Nè io sognava, del quale si favella, s'ama non solo l'anima,
soggiunse generalmente, che l'occhio è la via ma prima e più l'anima che il corpo, dove
di Cupido, e che da colpi degli occhi discende nelle sculture e pitture sono i corpi soli, in
ne cuori amore. Il che il Petrarca disse, come quel modo che vi sono; onde in tutti gli amori,
di sopra ponemmo: se non se forse nel ferino, avverrebbe il mede
Ed aperta la via per gli occhi al core
(1) Ballata I, Parte I.
(2) Canz. XVI, Stanza II, Parte I.
(1) Son. XLI, Parte I. (3) Canz. XVI, Stanza I V.
(2) Intende del poeta Museo, cui è attribuito il poema, nel (4) Intende della nota novella del Boccaccio, in cui si
quale è narrata la pietosa storia di Ero e Leandro. (M.) narra delle fortune amorose di codesta palafreniere. (M.)
- i 4 LEZIONE QUINTA
simo. E a chi replicasse che altri non s'inna l meno virtuoso che bello conosciuto, v'ho quella
mora nè delle pitture, nè delle statue che rap affezione portato sempre, e quello onorerenduto
presentano e mancano di vita, e per conse che voi medesimo vi sapete. Le quali cose tanto
guente di anima, ma delle donne rappresentate ho io fatto per l'addietro più volentieri, e farò
da quelle, le quali vivono e conseguentemente per l'innanzi, quanto voi più alla natura vostra
hanno anima; si risponderebbe che le statue, ii che a miei meriti risguardo avendo, le avete oltra
oltra che non rappresentano l'anime più che ! quello che io, non dico sperava, ma desiderava,
tanto, mancano di movimento; e per conse gradite sempre e avute care. Laonde sapendo io
guenza chi le mira, nolle mira in guisa che le i che voi, come di tutte l'altre virtù e dottrine,
luci si riscontrino ; e quando bene si riscon così del leggere le cose amorose e massimamente
trassero, non si mostrerebbono benigne e cor nella nostra lingua scritte, grandemente vi dilet
tesi; e quando cortesi e benigne si dimostras tate, ho voluto una delle mie Lezioni Accademiche
sero, non può credere colui, se è di sano in indirizzarvi, la quale son certissimo che dispia
telletto, che si dimostrino a lui; e se dalla be i cere non vi debba, se non per cagione delle cose
mignità del volto e guardatura degli occhi, che in ella dette e trattate sono, almeno per amor
prendesse speranza che anco a lui dolci ed di colui, il quale, presente voi e ascoltante, le
amorevoli mostrare si dovessero, in cotal caso disse e trattò. State sano, e amatemi per l'avve
generarebbe in sè un certo principio e quasi nire, come fatto avete per lo passato. Addio.
origine d'amore, come s'è di sopra detto, ma
amore vero non già. E se pure alcuno si tro
vasse tanto ostinato che volesse credere a ogni
modo, o sè medesimo o altri, essersi al grido
innamorati, sappia ciò essere stato non cosa LEzioNE DI MEssEn BENEDETTO VARCHI, NELLA QUALE
ordinaria nè naturale, ma mostro e capriccio, sI DICHIARANo ciNQUE QUIsTioNI D'AMoRE: LETTA
DA LUI PUBBLICAMENTE NELL'AccADEMIA -rlonen -
ovvero ghiribizzo suo; e i filosofi debbono di
quelle cose trattare, le quali, non di rado TINA LA QUARTA DoMENICA D'APRILE, DELL'Asso
MDLIV,
o non mai, ma il più delle volte avvengono.
Ma conchiudendo oggi mai questa ultima du
bitazione, e per conseguenza la presente Le
zione per togliere finalmente a voi dell'udire PROEMIO
ed a me del dire la fatica, diciamo che niuno
può per fama nè per udita innamorarsi, ma è Sa ognuno, prudentissimo Consolo e dot
necessario prima vedere con gli occhi propri
quello che amare si dee, poi giudicarlo bello, tissimi Ascoltatori, che quelli e sono veramente,
ed ultimamente avere speranza di poterlo, quan e avventurosi senza fallo chiamare si possono,
do che sia, conseguire. i quali o in quei tempi nascono, o in quei luo
ghi menano la vita loro, che o alla natura d'essi
-
o ai costumi non sono contrari. Non sa già
ognuno, penso io, quello che coloro fare deb
bano, a cui nè l'una è toccata, nè l'altra di
LEZIONE SESTA queste due cose. Perciocchè molti sono stati
di quelli, i quali hanno non solamente credu
soPRA ALCUNE QUISTIONI D' AMORE to, ma per regola dato e universale ammaestra
mento, che si debba cedere ai tempi e acco
modarsi, come essi dicono, ai luoghi, posti tutti
BENEDETTO VARCHI
gli altri risguardi da un lato. Il qual consiglio
può essere, per avventura, che sia utile ripu
tato, ma onesto, che io creda, no. E cotali
AL MolTo MAGNIFICO E SUo SEMPRE OSSERVANDISSIMO
forse prudenti, che non voglio dire astuti, chia
mare si potranno, ma buoni non già ; concios
M. LODOVICO CAPPONI siacosachè tutto quello che da tutti gli uomini
o si fa o si dice, per niun'altra cagione e nes
suno altro fine si debba nè fare, nè dire, se
Grandissime forze negli alti cuori e generosi non per l'onesto; e tutte le cose che oneste
hanno le bellezze de'corpi, ma vie maggiori senza sono, non solo con lode fare si possono, ma
alcun dubbio quelle degli animi. Ora quando non si possono non fare senza biasimo; nè può
l'una e l'altra di queste due cose o per ispeziale usanza alcuna nè così lunga, nè tanto pre
dono di Dio, o per sommo beneficio di natura, scritta trovarsi, la quale o alla natura delle
insieme si congiungono, e colla grazia del corpo cose possa, o alla verità debba pregiudicare e
le virtù dell'animo s'accompagnano, come in andare innanzi. E molti credono, e di questi
voi manifestamente si vede, Messer Lodovico mio cotai sono io medesimo, che la maggior diffe
carissimo, questi cotali, i quali però in tutti i renza che tra coloro si trovi, i quali sono uo
tempi e per ogni paese furono radissimi, meritano mini veramente, e coloro i quali sono uomini
per mio giudizio d'essere molto più che come solamente col nome, sia questa, che quelli per
uomini amati ed onorati. E di qui è nato, che lo più l'apparenze e l'ombre, e questi il vero
io avendovi infino da' vostri più teneri anni non seguono e la natura; e dove quelli solo all'u
SULL' AMORE 2 15

tilità intendono, questi altro non risguardano Il rebbe di sano intelletto. Alcune altre per lo
che l'onesto, non quello che si fa, ma quello contrario sono tanto dubbie di lor natura c tanto
che fare si doverebbe attendendo. E pare, non incerte, che provare dimostrativamente non si
che ragionevole, necessario, che fosse questo, possono, e queste tali si chiamano da filosofi
che un tempo, e che ancora oggi alcun paese problemi neutri, perchè per l'una parte e per
si ritrovi, nel quale più siano i buoni che gli l'altra si possono ragioni addurre o autorità,
altri non sono. E se bene io per me non so ma non tali che conchiudano necessariamente,
nè quando ciò fosse, nè dove, non è però che come sarebbe per atto d'esempio, e parlando
non potesse, anzi non dovesse essere; e tengo come filosofo, questa quistione, se il mondo
bene per fermo, che quando mai stato non fosse ebbe principio o no, nella quale molte cose si
ciò, nè mai essere potesse, che l'onesto sia ad possono dire e pro e contra, ma niuna tale
ogni modo da dovere essere a tutte l'altre cose che dimostri, cioè che necessariamente con
di qualunque maniera senza alcuna compara chiuda. Tra questi due estremi si ritrovano al
zione preferito; dico da coloro ancora, i quali cune cose, le quali si possono e si debbono
o l'utile cercano o il dilettabile, o l'uno in da filosofi provare, ma diversamente però, e
sieme con l'altro: perchè come niuna cosa fu con diversi mezzi, perchè sapere una cosa non
mai nè utile veramente, nè dilettevole, la quale è altro che conoscerla mediante le sue cagio
cziandio onesta non fosse, così le cose oneste ni, e ninna cosa si può sapere veramente, la
sono sempre e di necessità dilettose, e profit quale non sia necessaria ed eterna; dal che
tevoli tutte. Diciamo dunque, conchiudendo, seguita, che solo nelle scienze che sono vera
che sebbene i tempi presenti e gli odierni co mente scienze, cioè nelle quali di cose eterne
stumi sono in molte cose, per non dire in tutte, e veramente necessarie si tratta, come nella
corrottissimi, e massimamente nelle faccende metafisica, ovvero scienza divina, nella fisica,
d'amore, le quali come sono più comuni e più ovvero naturale, e nelle matematiche si pos
degne, così più importano che tutte l'altre, sono le dimostrazioni, cioè i sillogismi dimostra
non per tanto debbono o non darsi al bene tivi, ed in somma le conchiusioni necessarie
amare, o non seguire il perfetto amore tutti ritrovare, perchè la dimostrazione e l'induzione
sono i veri e soli mezzi e strumenti nelle scienze
coloro, i quali, o per consentimento di destino
o per eccellenza d'ingegno, o per l'una cosa dimostrative; e questi s'insegnano dal filosofo
e per l'altra, sono a ciò fare o soli, o più de in quella parte della loica, che si chiama giu
gli altri, o necessariamente tirati, o volonta dicativa. Alcune altre si possono bene, e deb
riamente condotti, sicuri che come i biasimi bono provare, non già mediante la dimostra
del volgo e i morsi degli uomini o invidiosi, zione, la quale sola ingenera scienza, cioè fa
veramente e con infallibile certezza sapere; ma
o malvagi non sono vituperi ma onori, così i
danni, che di cose oneste seguono, non danni, mediante il sillogismo topico, il quale non in
ma guadagni si chiamano appo coloro, i quali genera scienza, ma opinione cioè probabilità e
verisimilitudine, e in somma fa, non che noi
il vero dal falso, e il buono dal reo, o per
natura, o per iscienza conoscono. Laonde tutti sappiamo, che elle siano necessariamente così,
pieni d'ottima speranza, e nella incomparabile ma che crediamo probabilmente che così siamo;
potenza di colui che tra gli uomini regna e e di questo fu trattato dal filosofo in quella
tra gli Dei, confidandoci, verremo oggi a di parte di loica che inventiva, ovvero trovativa
chiarare in questo nostro ragionamento con si chiama. D'onde seguita, che in tutta la ſi
losofia morale, in tutta la medicina e breve
buona e cortese licenza vostra cinque amorose mente in tutte l'arti e in somma in tutte le
quistioni le quali sono queste: cose, dalle scienze in fuori, non solo non si ri
IX. Se si può amare più d'uno in un tempo trovi, ma nè anco ritrovare si possa alcuna ve
medesimo.
X. Se alcuno può amare più altrui che sè ra e certa dimostrazione. Nè per questo pos
stesso. siamo dire, o che non siano così, o di non sa
XI. Se alcuno si può innamorare di sè me perle, perchè le cose s' hanno a sapere secondo
desimo. che sono e non altramente: e le cose, che non
XII. Se alcuno amante può, solo che voglia, sono necessarie, non si possono come necessarie
non amare. sapere; anzi diceva Aristotile, che così è er
rore ricercare nelle morali la dimostrazione,
XIII. Se l'amore può sanarsi in modo alcuno.
come contentarsi nelle matematiche della pro
babilità.
QUIstIONE NONA Queste cose o non sapute, o non avvertite
da molti, sono cagione, che coloro che scrivono,
spesse fiate non sanno muovere i dubbi, non
Se si può amare più d'uno in un tempo che risolverli; e dove potrebbono, anzi do
medesimo.
vrebbono usare la dimostrazione si servono di
alcuna ragione probabile, o verisimile, e dove
Delle cose che nell'universo si ritrovano, sono s'avrebbono a contentare del verisimile e del
alcune tanto certe e manifeste per sè medesi probabile, vogliono le dimostrazioni. Nè è cosa
me, che non si debbono provare, perchè, come alcuna che maggior danno arrechi, o che più
chi volesse negare che il sole luccsse, sarebbe dimostri ingegno non atto a filosofare, che il
stolto tenuto, così chi volesse provarlo, non sa non saper conoscere tra le cose chiare, e quelle
a 16 LEZIONE SESTA

che provare o dimostrativamente, o verisimil favellando dell'amistà virtuosa e perfetta ; e


mente si debbono. Tornando dunque a quello, questi molti non sono, secondo alcuni, più che
a cui cagione avemo queste cose raccontate, trc, e niuno dubita che questo è il numero
diciamo, che sebbene tanto è possibile che al perfetto, oltra il quale non può essere vera
cuno ami più d'uno in un tempo medesimo, amistà, sebbene alcuni aggiungono il quarto.
quanto è, che alcuno in un medesimo tempo Allega Aristotile di questo suo detto più ra
vada in due luoghi diversi, o abbia due anime gioni, e fra l'altre che l'amistà perfetta con
medesime, furono nondimeno, e sono moltis siste in eccesso e soprabbondanza, cioè che
simi, che ciò non pur credono essi, ma vogliono l'amore sia tanto grande, quanto possa essere
ancora, che altri il creda, mossi a ciò fare parte il più; il che essendo, così pare a me, che la
da ragioni e parte da autorità. Le ragioni d'al vera amistà consista piuttosto fra due soli, che
cuni sono tali, che non le giudicando degne di fra quattro, perchè l'eccesso, ovvero trapassa
tanta e così orrevole udienza, sono stato per mento non può essere ordinariamente più d'un
non recitarle, perchè a chi dice: La volontà è solo. Ora se volendo mostrare Aristotile, che
libera, dunque può volere quello che ella vuole, l'amistà non può essere tra molti, e per provar
dunque può amare più d'uno in un medesimo questo allega l'amistà dilettabile, cioè l'amore,
tempo; rispondiamo (per lasciare indietro, che pare che voglia inferire che niuno può amare più
non la volontà secondo i Peripatetici è libera, d'uno; ma ponendo da parte Aristotile in questa
ma l'intelletto) che l'anima nostra razionale materia, e considerando non solo i detti di Pla
può intendere tutte le cose, ma essendo legata tone, ma gli effetti stessi d'amore, che cerca
con questi sensi, non ne intende in un mede amore altro che unione? Che desiderano altro
simo tempo più d'una, e il corpo può andare gli amanti, che liquefacendosi penetrare l'uno
in diversi luoghi, ma non già in un tempo me l'altro, e in somma trasformarsi e divenire un
desimo. Ma lasciando stare cotali argomenti e solo? Ora qual'unione farebbe, e qual trasfor
venendo a quelli che secondo il giudizio nostro, mazione se s'amassero molti? Oltra ciò l'amore
si potrebbono fare, se non veri, apparenti, di non è moto ; come può dunque muoversi cosa
ciamo così: Se il bello e il buono sono so nessuna a diversi luoghi in un tempo medesi
stanzialmente una cosa medesima, e chiunque mo, se non per accidente? Oltra ciò, se l'amante
vede e conosce alcuna cosa buona, è costretto vive nell'amato, se sempre pensa di lui, o di
necessariamente a desiderarla, ne segue, che lui favella, come si potrebbe ciò di due fare
chi vede e conosce alcuna cosa bella, è neces in un tempo medesimo? Più oltra, rallegrarsi
sariamente a desiderarla costretto, e amore non e attristarsi sono contrari; i contrari non pos
è altro che desiderio del bello, onde chi vede, sono stare in un subbietto medesimo, a un me
e intende molti belli, li desidera di necessità; desimo tempo: dunque è impossibile, che s'ami
dunque gli ama: dunque in un medesimo tem perfettamente più d'uno. Perchè poniamo che
po si può amare più d'uno. E per dirlo ancora sia quello ch'esser può, che uno degli amati
più brevemente, il fondamento e la cagione stia bene, o gli sia favorevole, e l'altro faccia
d'amore è la bellezza: la bellezza può in molti il contrario: dunque in un medesimo a un me
ritrovarsi, ed essere da un solo conosciuta: dun desimo tempo sarà dolore e letizia; questo è
que da un solo in un tempo medesimo si pos impossibile, dunque è impossibile che s'ami
sono più begli amare, perchè sempre che le più d'uno. E finalmente nessuno può essere
cause si moltiplicano, si moltiplicano ancora più d'uno; dunque non può amare perfetta
gli effetti. Quanto all'autorità allegano quella mente più d'uno; perchè chi ama, non cerca
d'Ovidio in tutta quella elegia, il cui princi altro che diventare l' amato, e che l'amato
pio comincia così: divenga lui. E a chi dicesse, che gli amanti
sono sciolti da tutte qualitati umane per an
Tu mihi, tu, certe memini, Graecine, negabas tico privilegio d'amore, si risponderebbe, che
Unum posse aliquem tempore amare duas. molte cose, che non sono negli altri, si ritro
Per te decipior, per te deprehensus inermis, vano negli amanti, ma quello che in niuno ri
Ecce duas uno tempore solus amo. trovare si può, non si può anco negli amanti
ritrovare. E a chi dubitando dicesse, se alcuno
Allegano ancora l'elegia del nostro M. Luigi mirasse due beltà tanto simili, che le giudi
Alamanni, nella quale imitando Ovidio si la casse amendue degne d' essere amate egual
menta, che non avendo più d'un cuore sia mente, che farebbe in questo caso? si rispon
costretto ad amare in un medesimo tempo, de, che non può avvenire realmente, ma che
così Cinzia, come Flora. Per isciogliere questa se pure avvenisse non amerebbe nè l'una, nè
dubitazione, o piuttosto per dichiararla più l'altra; come dichiarò Dante quando disse:
agevolmente, replicaremo che niuna cosa può
amarsi, se prima non solo non si conosce, ma Infra duo cibi distanti, e moventi
si conosce per buona; e perchè ogni bene è D' un modo, prima sì morria di fame,
Che libero uomo l'un recasse a denti:
o onesto, o dilettabile, o utile, di qui nasce
che le spezie degli amori, ovvero amistà sono Sì si starebbe un agno in fra due brame
tre, senza più onesta, dilettosa e profittevole. Di fieri lupi, egualmente temendo,
Nell'onesta, dice Aristotile, non si possono Sì si starebbe un cane in tra due dame (1).
trovare molti amici, cioè che uno non può es
sere in un medesimo tempo amico a molti, (1) Paradiso, Canto IV.
SULL'AMORE 2 17
E se alcuno fondatosi sopra la sperienza,
migliore e più saldo fondamento che trovare QUISTIONE DECIMA
si possa, dicesse dubitando, che pure si tro
vano alcuni che amano grandissimamente più Se alcuno può amare più altrui, che sè stesso.
d'uno, si ricordi che noi favelliamo in questo
luogo dell'amore che nasce di beltà, e che la Hanno così Dio e la natura, i quali soli er
beltà è di due maniere: corporale che nasce rare non possono, ordinato, che come niuna
da'corpi, e spiritale che nasce dall'anime. Ora, cosa è tanto falsa, che non abbia in sè alcuna
se alcuno amasse l'anima e 'l corpo insieme parte di verità, così niuna sia tanto vera, che
egualmente, o più il corpo che l'anima, è im in lei alcuna falsità non appaja: e di qui na
possibile che ami più d'uno; ma chi amasse sce che di tutte le cose si può e pro e contra
l'anima sola, cioè le virtù e la sapienza, ov probabilmente disputare. Qual proposizione può
vero più l'anima che il corpo, potrebbe amare trovarsi più chiara, più certa, e che meglio, e
più d'uno, e per dirlo più chiaramente, tutti più agevolmente con diversi mezzi provare e
coloro che desiderano generare il bello corpo dimostrare si possa, che questa? cioè che tutte
rale nel bello corporale, non possono amare più le cose amano grandissimamente sè medesime,
d'uno; e se fanno altramente, hanno il nome e per conseguenza non possono cosa alcuna più
dell'amare, ma non già l' effetto. Ma coloro amare, che loro stesse, e nientedimeno piut
che desiderano generare il bello spiritale nel tosto infiniti, che molti si trovano, i quali cre
bello spiritale, possono più d'uno amare, come dono e affermano il contrario tutto 'l giorno,
fecero e Socrate, e Platone, e alcuni altri, i mossi per quanto io stimo più dall'autorità e
quali quanto più rari si trovano, tanto sono de dagli esempi, che dalle ragioni. Perchè leggendo
gni di maggiore piuttosto ammirazione che lode. essi o sentendo raccontare tanti nobili uomini
E cosi è manifesto, se come e quando possiamo e valorosi in tutte quante le nazioni e per
più d'uno amare. E alla ragione allegata di tutti i secoli, avere volontariamente eletto la
sopra da noi, si dice, esser ben vero, che chi morte, o per la patria, o per li parenti e amici
vede alcuna cosa bella, o che bella gli paja, loro, si credono che cotali uomini forti e de
è costretto a desiderarla, come buona, ma non gni di tutti gli onori amassero meglio la pa
già ad amarla, perchè oltra che vi si ricerca tria e i parenti loro o gli amici che sè stessi.
la speranza, come si disse nella Lezione pas E per istare nella materia proposta, qual amante
sata, vogliono i teologi, che noi per lo avere si trova, il quale non dica, e non creda d'amare
l'arbitrio libero, possiamo, ancora che di ne più la cosa amata, che sè medesimo? Che can
cessità nascesse, o seguirlo, o lasciarlo, come tano altro tutti i poeti amorosi in tutte le lin
più a noi piace. La qual cosa fu da Dante di gue, e più Dante e il Petrarca che ciascuno
chiarata teologicamente in questo terzetto: altro? Quanti si sono o morti, o lasciati mo
Onde poniam, che di necessitate rire per amore? E chi non crederebbe, che
Surga ogni amor, che dentro a voi s'accende, uno che per salvare la vita a un altro elegge
di morire egli, non volesse meglio a colui che
Di ritenerlo è 'n voi la potestate (1). a sè stesso?
Quanto all'autorità d'Ovidio e dell'Alamanni, Ma lasciando gli esempi, che sono infiniti e
diciamo che favellarono poeticamente, o non grandissimi, pare ancora che molte ragioni e
intesero di quello amore, del quale da noi si fermissime si possano addurre a provare il me
favella; e quando per autorità dovesse valere, desimo, perchè, come avemo detto più volte,
sa ognuno, che oltra infiniti altri, il Petrarca niuna cosa può amarsi, la quale non sia ve
solo è bastantissimo a mostrare il contrario; e ramente buona o tenuta buona: dunque quanto
il nostro Martello nelle sue dottissime stanze
alcuna cosa è migliore, tanto maggiormente si
e leggiadrissime disse: debbe amare; dunque ciascuno debbe più amare
Nessun può far di quei ch'al mondo sono i migliori di sè, che sè medesimo. Oltra ciò
A più d'una di sè gradito dono: quali uomini sono più biasimati e ripresi, che
soggiugnendo incontamente: coloro i quali amano sè stessi? Anzi si dice
E poco il don, ch'un di se stesso face ; pubblicamente e sempre si disse che tutti i
vizi hanno origine dall'amore di sè stesso:
Ma non dà poco mai chi dà quel c'have. dunque se gli amanti di sè stessi sono ripresi
Non negherei già, che non si potessero rimirare e biasimati, coloro che amano più che sè gli
più bellezze e ancora prenderne diletto rimem altri, saranno lodati e commendati da ciascu
brando, e quasi mirando una similitudine della no. Puossi ancora mescolando le ragioni e gli
bellezza della cosa annata, come artifiziosamente esempi insieme dire, che ciascuna parte ama
mostrò M. Francesco in tutto quel vago e più il suo tutto, che sè medesima, onde il
pictoso sonetto, il quale ha il suo comincia braccio, per cagion d'esempio, per salvare il
mento così: tutto e riparare la testa, s'espone naturalmente
Movesi il vecchiarel canuto e bianco (2). a perdere sè stesso, e un buon cittadino più
E questo basti, se mai per avventura non v'è ama il suo comune che il bene proprio, e molti
troppo paruto quanto alla prima quistione. padri più i figliuoli che sè stessi. Ma che più º
Non comandano le leggi divine, che Dio più
(1) Purgatorio, Canto XVIII. amare si debba da ciascuno che ogni altra
(2) Son. XII, Parte I. cosa ? Dunque cotale proposizione pare non
VARCIit V, la 28
2 18 LEZIONE SESTA

solamente vera, ma tanto vera, che il suo con per altra cagione, lo fa solo per l'amore che
trario pare impossibile. E nondimeno la verità egli porta a sè stesso, cercando o di conseguire
è che tutto quello, che da tutte le cose, in alcun bene, o di fuggire alcun male, che in
tutti i luoghi e per tutti i tempi si fa, si fa tal caso ha ragione di bene. E chi dicesse qual
solo, e principalmente per l'amore di sè stes può trovarsi maggior male che la morte, sap
so: la qual cosa può ciascuno in sè medesimo pia che il lasciare di far l' opere buone, e com
sperimentare. E s'alcuno o non sapesse, o non mettere alcuna enorme scelleraggine, e in somma
volesse credere a sè medesimo, nè alla spe mancare del debito dell'uomo dabbene e per
rienza degli altri, creda a queste ragioni, parte dere l'onore veramente, e non come oggi si
dimostrative e parte probabili. Tutte le ca usa, è peggio che mille morti.
gioni sono migliori che i causati, e tutti i prin Quanto alle ragioni, la prima è contra la
cipi dei principiati: l'amore di sè stesso, come sperienza, dunque non è vera, perchè se così
dice il Filosofo, è cagione e principio di tutti fosse i padri e le madri amerebbono più gli
gli altri amori: dunque è migliore: dunque altrui che i propri figliuoli, ogni volta che
deve ciascuno più sè amare, che gli altri. E quelli fossero dei loro migliori, la qual cosa
c'è ancora una proposizione topica, la qua è falsissima; il che si può ancora provare per
le si pronunzia dai loici in questa maniera: le cose naturali, nelle quali se non è propia
Propter quod unum quodque et illud magis; mente amore, è nondimeno cosa simile, e pro
cioè in sentenza chiunque ama alcuna cosa per porzionata all'amore, anzi, per avventura, è
cagione d'alcun'altra, ama più quell'altra, on più vero amore, conseguendo senza mai errare
de i padri amando i maestri per cagione dei il suo fine sempre. Ora, sebbene il di sopra,
figliuoli, amano più i figliuoli. Ora ciascuno cioè il luogo superiore sotto i concavo della
ama tutto quello, che egli ama per cagione di luna è migliore e più nobile di tutti gli altri
sè: dunque ama più sè. Oltra ciò l'amore si sotto il cielo, non però nè l'aria, nè l'acqua,
fonda sopra la cognizione, sopra l'unione e nè la terra amano più quello che il suo pro
sopra la similitudine. Ora ciascuno conosce prio, benchè manco nobile e perfetto, perchè,
meglio sè, ed è più unito a sè e più simile a sè, se il luogo del fuoco è migliore semplicemente
se così si può dire, che a ciascun altro: duu del centro, non è però migliore alla terra; onde
que ama più sè, che ciascun altro. E poi non diciamo che l'amore nasce da alcuna conve
si dice egli di due, che s'amano grandemente nienza o similitudine naturale; onde dove non
che hanno un medesimo animo, e una mede è cotal convenienza e similitudine naturale non
sima volontà ? Idem velle et iden nolle, diceva è amore. E però non vale quella proposizione
Sallustio, è la vera amicizia; ed il Petrarca maggiore, che ogni cosa quanto è migliore,
disse d'amore: - tanto più si debba amare da ciascuno, anzi

Al quale un'alna in due corpi s'appoggia (1). quanto una cosa è più congiunta, o più simile,
tanto più s'ama per le ragioni dette. E chi
Ora niuno è più uno e medesimo di sè stesso: non sa che ciascuno più ama le cose sue, quan
miuno vuole e disvuole, come egli fa, non che tunque vili, che l'altrui ben pregiate? per
meglio. Ma chi vuol vedere per certissima spe non dir nulla che gli uomini vivono per la
rienza, che ognuno ama più sè, che qualunque maggior parte più secondo il senso, come te.
altro, consideri questo: che se a lui stesse di stè si dirà, che secondo la ragione.
poter dare il maggior bene, che sia a chi egli Per isciogliere il secondo argomento è neces
volesse, posto che niuno dovesse saperlo, cia sario di sapere che come l'uomo ha due anime,
scunº lo darebbe a sè stesso. E perchè il mag la sensitiva e la razionale, cosi ha ancora due
gior bene che possa pensarsi, non che deside amori verso sè medesimo, il sensuale e il razio
rarsi, è la felicità, niuno può eleggere di far male. Il sensuale, perchè è proprio degli animali,
beato più tosto un altro, che sè, perchè cia se non è regolato dalla ragione, divenuto preda
scuno desidera per natura sopra tutte le cose delle passioni, cerca indifferentemente qualsivo
assomigliarsi a Dio, quanto può il più; e Dio glia utile e qualsivoglia diletto, non distin
non solamente è, ma è beatissimo. Resta dun guendo i buoni dai rei, nè i lodevoli da quelli,
que, che niuno possa amare niuna cosa più di che
. blmeritano biasimo ; e per recare le mille
-

se stesso; il perchè rispondendo agli esempi ed | in una, questo solo c'induce non solo a par
autorità allegate per la parte contraria, dicia tirci dalle buone opere, per non durare fati
mo senza alcun dubbio, che tutti coloro, che ca, ma ancora a commetterne dell'inique per
morirono volontariamente per la loro patria, conseguire alcun piacere; e questo è quello
amarono più so stessi, che la patria, come di amore di sè medesimo, il quale tanto si bia
sotto si vedrà nel rispondere alle ragioni. Si sima da ciascuno e collo voci e nelle scrit
milmente tutti gli amanti amano più principal. ture. Il secondo amore, col quale l'uomo ama
mente, oliº gli armati, in quel modo però, che sè medesimo, si chiama amore razionale, e que
di sotto si dichiarerà. I poeti cantano quello
sto è quello, che pon freno a tutte le vili o
che credono forso vero, ma non già quello che ree voglie nostre, regge tutte le passioni e fa
in verità è Chi elegge di morire egii, perchè che gli uomini cccellenti non solo non fug
un altro viva, ama più sè, che colui chi si gono fatica nessuna per virtuosamente operare,
lascia morire o aneide se stesso per amore, o ma corrono tutti i rischi volentieri, e sotten
trano a tutti i pericoli spontaneamente per
(!) Sva, 8 A i t, Parte I. ; acquistarsi gloria cd onore. Di questo amore
SUI,Lº AMORE 2 19

non può tanto dirsi che non sia poco, perchè non raccontaremo altramente. Solo reciterc
è solo degli uomini grandi, anzi quanto cia mo quell'antico elegantissimo epigramma senza
scuno è maggiore e più virtuoso, tanto più ama In0nne :

di cotale amore sè medesimo. Per questo s'of


fersero alla morte i Deci, i Fabi, gli Scipioni Hic est ille suis nimium qui credidit undis,
e tanti altri: per questo amano gli amanti i Narcissus vero dignus amore puer:
lor veri amati, e brevemente come dall'altro Cermis ab irriguo repetentem gramine ripam,
hanno origine tutti i mali, così da questo pro Ut per quas periit, crescere possit aquas.
cedono tutti i beni. Dona un uomo liberale, tradotto da noi in questa maniera:
combatte un forte, astiensi un temperato e Questi e Narciso, il lei garzon, ch' all' onde
finalmente pospone all'onesto tutte l'utilità e
Troppo credette, e di sè stesso vago
tutti i diletti suoi chiunque arde d'amore così S accese sì, che sè medesmo altronde
fatto; e ciò facendo par bene, che egli ami Cercando, seguio'nvan sua propria immago:
più coloro a cui egli dona, o che egli difende, Perchè venuto fior sempre le sponde
o per cui mette la vita; ma nel vero non fa, Orna di fiume o rio, come presago,
perchè ama più, non dico la gloria e l'onore Che quanto gli fur già crudeli e rie,
principalmente, ma l'onesto, d'onde l'onore Tanto or l'acque gli son cortesi e pie.
e la gloria nascono, che egli non fa tutte l'al
tre cose, e amando l'onesto opera virtuosa Dal quale per avventura, trasse il Boccaccio un
mcnte, e per conseguenza ama principalmente suo madrigale assai piacevole, dove mostra che
la virtù e non coloro; per cui opera virtuo la sua donna, a guisa che Narciso fece, s'era
samente. E che ciò sia vero, un uomo d'onore di sè medesima innamorata. Il Petrarca an
non commetterebbe cosa alcuna per amico cora accennando questo medesimo, disse in un
nessuno, che potesse in verun modo macchiar luogo:
lo e fargli perdere l'onore: dunque ama più Quella che sol per farmi morir nacque,
sè che qualunque altro. Nè sia chi creda, che Perchè a me troppo ed a sè stessa piacque (1).
la parte, come dicono alcuni, ami più il tutto,
che sè medesima, nè uno individuo più la sua E in un altro luogo più chiaramente lasciò
scritto:
spezie, che sè stesso, se non perchè mancando
il tutto, mancarelbe anco la parte, e non si Se forse ogni sua gioia
Nel suo bel viso e solo
trovando la spezie, cioè l'uomo, non si trove
rebbono ancora gli individui, cioè i particola E di tutto altro è schiva (2);
ri, e se il braccio ripara la testa, lo fa prin ma chiarissimamente in quel dotto e maravi
cipalmente non per riparar la testa, ma per glioso sonetto, il fine del quale dice così:
salvare sè: e niuno padre potendo vivere egli,
Certo, se vi rimembra di Narcisso,
concederebbe la sua vita a figliuoli; e il me
desimo dico degli amici; e se pure ciò faces Questo e quel corso ad un termine vanno,
sero, lo farebbono non naturalmente, cioè non Benchè di sì bel fior sia indigna l'erba (3).
per quel primo amor sensuale, ma per quel Le quali cose, con altre molte che a tal pro
secondo razionale ad alcuno più nobil fine, e posito allegare si potrebbono, sono poetica
in somma più lo farebbero per l'amore di sè mente dette e non secondo la verità. Percioc
stessi, che per quello de' figliuoli. che, sebbene si ritrovano alcuni, i quali, o
Quanto all'ultima ragione che Dio si debba essendo, o parendo loro d'essere begli e av
amare sopra tutte le cose, ci rimettiamo a teo venenti, s'invaghiscono di loro medesimi tanto
logi, a quali soli e non ad altri s'aspetta il fa che hanno quasi per male, che altri li guardi,
vellare e determinare di cotali cose. A noi basta temendo forse di non essere a loro stessi tolti,
aver provato, che tutti gli amori umani hanno non però cotali sciocchezze si chiamano amo
principio, mezzo e fine dall'amor proprio, perchè re, ma melensaggine, degna non meno di riso,
tutti cominciano da cotale amore, e in cotale che di compassione, come volle mostrare il
amore forniscono, e conseguentemente, che al Boccaccio nella novella della Ciesca. Ma tor
cuno non può amare più altrui, che sè stesso. nando al dubbio, nessuna cosa può operare
in sè medesima: dunque niuno può di sè in
namorarsi; e se amare significa desiderare, co
QUISTIONE UNDECIMA me può alcuno desiderare quello che egli ha,
-
essendo il desiderio delle cose che mancano i
Se alcuno si può innamorare di sè medesimo. E se l'effetto d'amore è unire e trasformare,
come può alcuno più unirsi seco e più tras
formarsi in sè medesimo di quello, che egli
Credono molti, che la favola di Narciso non è? Senza che l'amore è nome relativo, perchè
fosse per altro finta, se non per mostrare, che sempre chi ama, ama alcuna cosa: è dunque
si trovano di coloro, i quali di sè medesimi si necessario, che dov'è l'amante, sia l'amato e
innamorano; la quale favola essendo notissima, cosi per lo contrario; e niuno può essere
si per quello che anticamente ne scrisse Ovidio
leggiadrissimamente, e sì per quelle stanze che (1) Canz. XVII, Stanza VI, Parte I.
da Ovidio cavate, non meno leggiadramente di (2) Canz. X, Stanza IV, Parte I.
lui, fece novellamente M. Luigi Alamanni, (3) Son. XIX, Parte I.
22o LEZIONE SESTA

amante e amato, se non secondo diversi ri


spetti. Niuno può dunque di sè medesimo in QUISTIONE DECIMATERZA
namorarsi.
Se l'amore può sanarsi in alcun modo.
QUISTIONE DUoDECIMA Che l'amore, favellando del volgare, sia una
Se alcuno amante può, solo che voglia, non amare. infermità così di mente, come di corpo, non è
niuno, che ne possa dubitare, anzi non pure
Può, per avventura, guardarsi alcuno di non è malattia, ma malattia tanto grande, che be
ammalare, o di non esser ferito, non può già me spesso se ne muore, onde il Petrarca disse:
ammalato o ferito che egli è guarire a sua po E se non fosse la discreta aita
sta, e col volere solo: così nè più, nè meno Del Fisico gentil, che ben s'accorse,
potemo, per avventura, guardarci nel principio L'età sua in su 'l fiorire era fornita (1).
da amore, il quale non si vince se non fug
gendo, ma liberarcene no. E se alcun dicesse Né volle altro dimostrare il Boccaccio, nella
novella di Girolamo e della Salvestra. E ben
questo consistere solo nel volere, sappia che
tutte l'altre passioni lasciano libera la volontà; dubbio se cotal morbo può sanarsi, perchè non
solo l'amore, la prima cosa, la lega e fa serva: pure il Petrarca disse:
Onde a me, in questo stato . quando il primo strale
Altro volere o disvoler m'è tolto (i); Fece la piaga, ond'io non guarrò mai (2).
diceva il Petrarca. E che vogliono altro signi E altrove:
ficare quelle parole d'Orazio: L'alto signor dinanzi a cui non vale
Quae me subrpuit mihi, Nasconder, nè fuggir, nè far difesa (3).
usate dal Petrarca e da tutti gl'innamorati tante Ma ancora Apollo stesso disse, che pure è Dio
volte? come quando disse: della medicina: -

Che me stesso perdei, Hei mihi quod nullis amor est sanabilis herbis,
Nè più perder dovrei (2) ? Nec prosunt domino, quae prosunt omnibus artes!
Altrove egli dice: E Medea, che fu sì grande medichessa e incan
tatrice, disse:
Non prego già, nè puote aver più loco
Che misuratamente il mio cor arda, Me miseram, quod amo non est medicabilis herbis!
Ma che sua parte abbia costei del foco (3). Destituor prudens artis ab arte mea.
Onde tutti coloro, i quali amando, pensano Il che testimonia ancora Properzio quando dice:
di potere a lor voglia disnamorarsi, sono disna Omnes humanos sanat medicina dolores:
morati, cioè non amano o veramente s'ingan
Solus amor morbi non amat artificem.
mano. Come può alcuno non volere quello
che egli vuole? come non essere dove egli è, E nientedimeno l'amore secondo i medici e
o partirsi da sè stesso? Il che si vede in tutto una passione somigliantissima all'umore melan
quel vago sonetto: I dolci colli, ov'io lasciai comico, e ne pongono la cura come delle tre
me stesso (4). L'ali che usa amore, sono di ma malattie: onde Rasio vuole che ora si digiuni
miera, che'l fuggir dinanzi a loro non val niente. per guarire dell'amore, e ora si beva tanto che
Può bene alcuno amando desiderare di non
si divenga chhro; e sopra tutto si devono far
sentire quelle pene, che amore reca seco, ma tutte quelle cose che ne insegnò Lucrezio,
di non amare no.
quando disse:
Oh ego ne possim tantos sentire dolores, Sed fugitare decet simulacra, et pabula amoris,
Quam vellem in gelidis montibus esse lapisl Absterrere sibi, atque alio convertere mentem,
Stare vel insanis cautes obnoaia ventis. Et jacere umorem collectum in corpora quaeque,
Naufraga quam vasti tunderet ora maris!
con tutto quello che seguita ; benchè a lui
disse Tibullo leggiadramente, ma non meno niente giovarono, perchè prima impazzò per
leggiadramente il Petrarca: amore, di poi uccise sè stesso. Ovidio che scrisse
Ma io, che debbo altro che pianger sempre il libro del rimedio dell'amore, racconta molte
Misero e sol, chè senza te son nulla? cose, e tra l'altre dice:
Ch'or foss'io spento al latte ed alla culla, Ocia si tollas, periere cupidinis arcus:
Per non provar dell'amorose tempre (5).
onde il Petrarca:
(1) Canz. III, Stanza l II, Parte IV. Ei nacque d'ozio e di lascivia umana (4):
(2) Canz. XV, Stanza V, Parte I.
(3) Son. XLII, Parte I.
(4) Son. CLV, Parte I. (1) Trionfo d'Amore, Capitolo 11.
(5) Canz. VI, Stanza IV, Parte I. (2) Son. LXVI, Parte I.
(3) Son. CLXXXi l I, Parte I.
Q4) Trionfo d'Amore, Capitolo I.
SULL'AMORE ant

e in un altro luogo: fornisca con gli anni, ciò avviene, perchè di


Successore novo tollitur omnis amor: venta d'amore amistà, la quale è più nobile
e più perfetta secondo Aristotile; e fa credere
onde il Petrarca disse: a molti che ciò non sanno, che l'amore non
vi sia più quando egli v'è e maggiore e più
Cotale ha questa malattia rimedio perfetto. Ma tempo è omai da dover dare così
Come d'asse si trae chiodo con chiodo (1).
alle orecchie vostre, come alla lingua mia riposo.
Dice ancora che prescintissimo rimedio è il
dimenticarsi la cosa amata: onde il Petrarca
disse:

E s'amor se ne va per lungo oblio (2): LEZIONE SETTIMA


Il che è poco meno che dire: Chi vuol guarire sopRA ALTRE QUIsrloNI D'AMoan
d'amore, non ami. Il più certo rimedio e più
-
possente è un giusto e valoroso sdegno, per lo
quale un cuor gentile non rivolgerà, come molti
fanno l'amore in odio; il che senza cagione A M E 8 S E Il
più che grande è cosa bruttissima, anzi non
finirà d'amare la cosa amata, ma solo d'odiare B E RN A RD O VE C C III E T TI
sè stesso, come generalmente ne mostrò il Pe
trarca in tutto quello non men vago, che sde GENTILUoMo FIORENTINo
gnoso sonetto:
Io non fui d'amar voi lassato un quanco (3);
LEzioNE DI M. BENEDETTo vARCHI, NELLA QUALE si
E di qui si può vedere che la possanza d'amore DICHIARANO seTTE AMonosE QUIsTioNI: LETTA DA
è così fatta, che null'altra potenza può spe LUI PUBBLICAMENTE NELL'AccADEMIA FIonENTINA.
gnerla, o almeno più agevolmente, che amore
stesso, come si vede nella fine di questo anti
chissimo e bellissimo epigramma, il quale è La più onesta, la più dilettevole e la più
questo: - -

utile cosa che fare dagli uomini si possa, è ar


Quodfaculam praefersPhileros, quanilopusnobis? recare giovamento agli altri uomini; perchè
Ibimus: haec lucet pectore flamma satis. ciascuno tanto è più a Dio somigliante, e per
Ista nam potis est vis saeva extinguere venti, conseguenza più onorevole e laudabile agli
Aut imber Coclo candidus praecipitans: altri e più felice e beato per sè, quanto egli
At contra hunc ignem Veneris, nisi si Venus ipsa è di migliore e più gran giovamento cagione.
Nulla est, quae possit vis alia opprimere. Arrecare giovamento agli uomini altramente
tradotto da noi in questa guisa: non si può che facendo loro bene: i beni come
s'è tante volte detto, non sono più che di tre
A che, Filero mio, farne anzi luce? maniere: della fortuna, del corpo e dell'ani
Non fa mestiero a noi d'accesa face: mo. Dunque in tre modi e non più, si possono
Ben n'andarem, che dal mio cor traluce gli uomini beneficare, o nell'animo, o nel cor
Purtroppo, oimè! la fiamma che mi sface; po, o nelle facoltà. Ma perchè l'animo è più
Cotesto foco poi soltanto luce, degno infinitamente e più pregiato di tutte
Mentre fier vento pioggia nol disface: l' altre cose che sotto il cielo si ritrovano,
Ma questo, che m'accese in petto Amore, quinci è che infinitamente maggior lode me
Null'altra forza ammorzar può ch'Amore. ritano e maggiore onore coloro, i quali agli
animi giovano. E perchè i beni dell'animo sono
E perchè la speranza è quasi come l'umore le virtù, e le virtù sono di due maniere o mo
dell'olio ai lucignoli delle lucerne, come man rali, sotto le quali si comprendono tutti i buoni
cando l'olio si spegne il lume, così mancando costumi, o intellettuali, sotto le quali si con
la speranza si spegne l'amore. Ma perchè l'in tengono tutte le scienze; di qui nasce che in
tendimento nostro non è di favellare princi due modi senza più si può a qualunque ani
palmente dell'amor volgare, il quale, se non mo giovamento recare, o col mostrargli il buo
altro lo spengono gli anni, perchè parten no, mediante il quale la perfezione e felicità
dosi la cagione, parte ancora l'effetto, e la attiva conseguire possa, o coll'insegnargli il
bellezza non può durare molto, diremo che vero, mediante il quale la perfezione e felicità
nel celeste non avviene così, perchè quanto speculativa consegua. E perchè il vero, il quale
scena la bellezza del corpo con gli anni, tanto sotto le scienze si comprende, è più nobile e
cresce quella dell'animo, onde dura sempre più perfetto del buono, il quale nelle virtù si
cotale amore, se già ancora le bellezze del contiene (1); conciossiacosachè nelle scienze
l'animo non mancassero, o si convertissero in
vizi. E se a molti pare, che ancora questo amore
(1) Non è mestieri, crediamo, di far accorto il Lettore
della vanità, per non dire assurdità di codesta sentenza. La
(1) Trionfo d'Amore, Capitolo III. inetta filosofia scolastica facea spesso velo al giudizio del buon
(2) Canz. III, Stanza IV, Parte I. Varchi, e, come altrove notammo, lo traea a dir cose inde
(3) Son. LIII, Parte I. gne del suo ingegno c della sua dottrina. (M.)
222 ILEZIONE S ETTIMA

principalmente e non nelle virtù consiste la come niun figliuolo non nasce senza padre:
beatitudine umana, di qui viene che coloro, i tutti gli amori sono effetti: dunque tutti gli
quali le scienze insegnano, il maggiore bene amori hanno cagione come tutti i figliuoli
fizio fanno a mortali che fare si possa. Ma per hanno padre. Le cagioni d'amore sono due,
chè alle scienze senza le virtù pervenire non perchè negli uomini (e il medesimo si deve
si può, è necessario prima le virtù apparare intendere delle donne) in rimirando alcuna
e poi le scienze; perchè niuno può essere ve cosa, o che sia o che paja bella, si desta l'ap
ramente dotto, il quale non sia prima vera petito concupiscibile, e cominciasi a desiderarla;
mente buono. E perchè la virtù consiste nel e quel desiderio cagiona l'amore, e questo amo
mezzo tra il poco e il troppo, cioè nell'allon re si chiama carnale e lascivo come nato nella
tanarsi egualmente dagli estremi, fuggendo così parte voglievole, per desiderio di godere cor
il mancamento, come la soprabbondanza, ed poralmente la bellezza corporale; e cotale
in somma nel sapere gli affetti dell'animo e amore, sebbene, essendo egli naturale, non è
le perturbazioni ovvero passioni temperare; cattivo per sè medesimo, nè biasimevole, può
però fa mestiero che conosciamo cotali pas nondimeno, anzi suole e biasimevole e cattivo,
sioni, le quali, come male usate, divengono vizi, mediante le circostanze, divenire. E di questo
così, debitamente raffrenate, si fanno virtù. E favellano quasi sempre tutti i poeti, così Greci,
perchè tra le passioni, l'amore è di grandissi come Latini e Toscani ancora molte volte;
ma lunga la maggiore e più possente di tutte dandogli bene spesso tutti quei biasimi che
l'altre: conciossiachè dall'amore principalmen egli merita, e alcuna volta quelli, che meno se
te e nell'amore, quasi fiumi dal mare, si par gli convengono; e di questo stesso intese il
tono tutte, e tutte ritornano le passioni; perciò Petrarca nel Trionfo dell'Amore, e M. Guido
noi desiderando di giovare il più e il meglio Cavalcanti nella sua dottissima ed oscurissima
che sapevamo, pigliammo a trattare d'amore. Canzone; e brevemente questo amore è figliuo
E perchè quando si può in un tempo medesimo lo dell'appetito sensuale, e conseguentemente
insegnare le scienze colla virtù, o la virtù con più da animali che da uomini.
le scienze, non si può nè immaginare ancora, L'altra spezie d'amore non nasce dall'ap
nè migliore utilità, nè maggiore, diemmo co petito sensitivo, e non è figliuolo del desiderio,
minciamento a trattarne per via di quistioni; anzi lo cagiona e ne è padre: perchè quando
e così piacendo a Dio di prestarne favore, ed gli uomini d'alto affare rimirano con gli occhi
a voi, nobilissimi Ascoltatori, udienza, seguiremo dell'intelletto alcun animo bello, cioè pieno
oggi di fare, dichiarando queste sette amorose di virtù o di scienze, o soggetto capevole o
quistioni ad una ad una: dell'une, o dell'altre, si muovono subitamen
XIV. Se l'amore può essere regolato dalla te, non a desiderarle con l'appetito, ma ad
ragione. amarle con la ragione; perche conoscendo, che
XV. Se l'amore viene da destino o da ele cotali doti ed eccellenze sono degne d'essere
zione. -
amate ed onorate, si muovono ad amarle e
XVI. Se i morti possono amare o esser amati. onorarle. E da questo conoscimento nasce in
XVII. Se l'amore può star fermo in un me essi il desiderio di trasformarsi in loro, e che
desimo stato senza crescere o scemare. I elleno in loro si trasformino; e questo amore,
XVIII. Qual sia miglior cosa e più degna o perchè non è nato dal desiderio, ma dalla ra
l'amicizia o l'amore. gione, mediante la quale ha cagionato il desi
XIX. Chi ama più o i giovani o gli attempati. derio, è infinite volte più degno dell'altro.
XX. Se l'amore si può simulare o dissimu Laonde per isciogliere questa quistione, dico
lare, e quale è più agevole di queste due cose. no alcuni, che nel primo amore cagionato da
chi vuole, e non da chi discorre, non ha luo
QUISTIONE DECIMAQUARTA go alcuno la ragione; e però si chiama volga
re, lascivo, disonesto, e con altri nomi somi
Se l'amore può essere regolato dalla ragione. glianti; e per provare il detto loro, cioè che
cotale amore non può da ragione regolarsi, al
Se l'amore abbia alcuno rimedio, o no, cioè legano quello che Terenzio disse nella com
come, quando e perchè si possa, o non si possa media l' Eunuco:
sanare, fu da noi nell'ultima delle cinque Here, quae res in se, neque consilium, neque
quistioni della passata Lezione lungamente di modum
sputato. Lasciati da parte gl'incantesimi, dei Habet ullum, eam consilio regere non potes:
quali non trattano i filosofi, e la favolosa rupe dove soggiunse:
di Leucade, dalla quale chiunque nel mare si Haec si postules
gettava, come dicono che Saffo fece, guariva
d'ogni amore, o piuttosto di tutti i mali in Ratione certa facere nihilo plus agas,
un tratto e subitamente, - resta ora che nella Quam si des operam, ut cum ratione insanias.
prima di questa vediamo, se la ragione può, La qual sentenza chiuse il Bembo nella fine di
non dico spegnere e torre via del tutto, ma quel sonetto, il cui cominciamento è : Cola
regolare in parte e modificare l'amore. La quale mentre voi siete in fresca parte, dicendo:
disputazione, perchè meglio intendere si possa, Perchè veggiate in me siccome avvegna
divideremo un'altra volta l'amore in due spe Di quel che Roma ne teatri udi, a,
zie, dicendo così Niuno effetto è senza cagione, l Che ragione e consiglio Amor non degna.
SULL' AMORE 223

Niuna dunque dubita che questa maniera di più sfrenato, e più a cotale ragione contumace
amore, non solo non soggiaccia alla ragione, ma e ribellante, tanto è per conseguenza più de
la sforzi, e la vinca: onde cantò il gran gno e più perfetto; e gli amanti di cotale amore
Poeta: piuttosto divini, che umani meritano di essere
Omnia vincit amor et nos cedamus amori. chiamati; onde quanto lodare si possono da
gli altri uomini, tanto onorare ancora si deb
Ma in quello amore, in cui per lo essere dalla bono ed ammirare.
ragione nato, e non prodotto dall'appetito, non
cade indegnità nessuna, credono molti indu QUISTIONE DECIMAQUINTA
bitatamente, che mè sia, nè essere possa cosa
alcuna, che non regga e non governi la ra Se l'amore viene da destino o da elezione.
gione; la qual cosa è tanto falsa, quanto quelle
che sono falsissime; perchè ogni amore quanto Credono alcuni, che coloro, i quali s'inna
è maggiore, tanto meno obbedisce alla ragione, morano, non per elezione s'innamorino, ma
anzi tanto più le comanda: la qual cosa come per destino, cioè non ispontaneamente, ma di
nella prima spezie d'amore è degna di qua necessità; e perciò provare allegano l'autorità
lunque biasimo, così nella seconda merita tutte del Petrarca; il quale nella fine di quel So
le lodi, come in diversi sonetti, a diversi pro netto, che comincia: Parrà forse ad alcun che
positi, secondo diversi amori testimoniano i in lodar quella, dice:
Rimatori Toscani, e vie più Dante e il Pe
trarca, che gli altri. E se alcuno dubitasse e Lingua mortale al suo stato divino
dicesse: Pare impossibile che dove non regna Giugner non puote: Amor la spinge, e tira
la ragione, cosa alcuna si ritrovi, che debba Non per elezion, ma per destino (1).
lodarsi, o star bene, sappia che si trovano di E nella fine medesimamente di quell'altro:
due maniere ragioni. L'una delle quali perchè Qual donna attende a gloriosa fama, disse al
si trova ordinariamente in tutti gli uomini, medesimo proposito:
chiamarono umana, e questa è quella, che non L'infinita bellezza, ch'altri abbaglia
solo cerca e provvede di tutte le cose, che
non tanto all'essere, quanto ancora al bene Non vi s'impara, che quei dolci lumi,
essere sono necessarie, ma eziandio fugge ed S acquistan per ventura, e non per arte (2).
abborre tutte quelle che così all'essere, come Ed altrove disse:
al bene essere sono contrarie. Mediante questa . ch'i' non era degno
ama ciascuno più la salvezza ed i comodi di Pur della vista, ma fia mia ventura (3).
sè, della patria e delle cose sue, che dell'al
trui, fugge tutti i pericoli, guardasi da tutti E molto più chiaramente nel Trionfo della
i rischi, non entra nè a fare cosa nessuna, nè Morte, dove aveudo Madonna Laura detto que
a dire, che ragionevolmente nuocere gli possa ste parole :
per modo alcuno. L'altra ragione, o piuttosto Duolmi ancor veramente, ch'i non nacqui
questa medesima, fatta da sè stessa diversa, Almen più presso al tuo fiorito nido,
perchè non si trova se non in pochissimi di Ma assai fu bel paese, ond'io ti piacqui ;
moltissima virtù, cioè in quegli uomini, che Che potea il cor, del qual sol io mi fido
più che uomini divenuti s'avvicinano agli Volgersi altrove, a te essendo ignota,
Dii, detti dagli antichi eroi, chiameremo eroi Ond'io fdra men chiara, e di men grido:
ca; e questa è quella, per la quale gli uomini Messer Francesco le risponde:
d'eccellentissimo valore , chiamati nell'altre
lingue Ercoli, e nella nostra Cavalieri erranti, Questo no, risposi io, perchè la rota
posposti tutti i diletti e tutti gli utili propri, Terza del ciel m alzava a tanto amore,
faticano, solo perchè gli altri riposino, muo Ovunque fosse, stabile ed immota (4).
jono quando e dove bisogna, solo perchè gli Queste autorità con molte altre, le quali al
altri vivano, e finalmente, per acquistare a sè legare si potrebbono, fanno credere, che non
fama ed onore, e più tosto per esercitare la l'elezione ed il consiglio nostro, e la disposi
opera della virtù, onde l'onore e la fama na zione de'cieli facciano, che gli uomini s'inna
scono, concedono a tutti gli altri tutte le cose. morino, ed il medesimo delle donne diciamo,
A questa ragione e non ad altra, come più Dall'altro lato, leggendosi in molti luoghi, eho
nobile e più perfetta, ubbidiscono i veri aman molti maturamente e con deliberato consiglio
ti, i quali, per conseguirla cosa amata e tras ad amore si donarono, disaminando prima fra sè
formarsi in lei, come in cosa migliore e più stessi, e discorrendo chi del loro amore fosse
perfetta di loro, travagliano la notte e il giorno, degno, e colui e colei eleggendosi (come volle
al caldo e al gielo, col corpo e con l'animo, il Boccaccio nella Novella di Gismonda, figliuo
nella città e per li boschi, cantando e pian la del Principe di Salerno, mostrare) pare, che
gendo, col pensiero e con l'opere, come tante non il destino, ma l'elezione ad amare chiun
volte in tanti luoghi, con tanta dottrina e leg
giadria ne fa tanto alta e tanto vera testimo (1) Son. CLXXXIX, Parte I,
nianza il nostro Poeta. Conchiudiamo adunque, (2) Son. CClil, Parte I.
che l'amore non può nè debbe dalla ragione (3) Son. XXXIX. Parte II.
umana regolarsi o modificarsi; anzi quanto è (4) Trionfo della Morte, Cap. II,
224 LEZIONE SETTIMA

que ama, conduca : onde credono alcuni, che Nè so bene anco, che di lei mi creda (1).
l'amore, ora dal destino proceda, e talvolta
dall'elezione. Ma noi brevemente diciamo non E secondo questa medesima opinione favellano
cssere possibile, che questa dubitazione si di tutti coloro, i quali dicono, che l'anime di
chiari, se prima non si dichiara la dubitazione coloro, i quali non furono riamati, o che s'an
del fato, la quale essendo malagevolissima e cisero per amore, perseguitano sempre le per
sone amate: onde Dido minacciando Enea gli
tirandosi dietro di necessità la questione della diceva:
libertà dell'arbitrio e quella della predesti
nazione, non dee trattarsi, nè in questo tempo, Omnibus umbra locis adero, dabis, improbe,
nè in questo luogo, nè da me. Perciò diremo poenas.
solamente, che secondo coloro, i quali levando Onde è manifesto, che avendo odio, hanno an
il libero arbitrio, tengono il fato, cioè dicono che cora di necessità amore, perchè, come dicem
tutte le cose, o che avvengono, o che si fanno, mo, tutti gli odi nascono da amore: la qual
si fanno ed avvengono di necessità, l'amore pro cosa è tanto chiara che niuno, da coloro, che
cede dal destino, e niuno può fuggire d'amare n' hanno dubitato in fuori, ne dubiterebbe:
quello che ab eterno fu destinato che amasse. benchè essi non dicono di dubitarne, ma essere
Ma secondo coloro , che concedendo il libero falsissimo. Infelici se lo credono, perchè sono
arbitrio, tolgono il fato, cioè dicono, che tutto ignoranti; e più infelici se noi credono, ma il
quello che da tutti gli uomini si fa, si fa spon fanno per farlo credere ad altri, perchè sono mal
taneamente, e perchè vogliono così ; l'amore vagi! Ma lasciando costoro nella loro o ignoranza,
procede da elezione e ciascuno può e amare o malvagità stare, diciamo quanto alla seconda
e non amare, secondo, che più gli aggrada; e parte di questa dubitazione, che come la co
così dovemo credere noi cristiani, essendo le mune opinione è che i vivi possano amare i
altre opinioni di filosofi, e questa certezza di morti, così la verità è il contrario, scrmpre fa
teologi. Ma secondo coloro che credono, che vellando, secondo i filosofi, perchè quello, che
delle cose, che si fanno, alcune se ne facciano
necessariamente e del fato, e alcuno volonta
non è, amare non si può; oltra che chi sa, l
che cosa amore sia, sa ancora che i morti non
riamente dell'arbitrio nostro, l'amore può pro possono essere amati veramente. E a chi di
cedere ora dal destino e talvolta dall'elezione, cesse il Petrarca amò Madonna Laura ventuno
anni vivendo, e dieci poi che fu morta, rispon
QUISTIONE DECIMASESTA diamo ciò non essere stato veramente amore;
perche come si può godere quella bellezza,
Se i morti possono amare, o essere amati. che non è? ma amore ſinto e immaginato, fa
Come secondo i teologi non si dee dubitare,
vellando di quello amore che è di bellezze
corporali desiderio: perchè quello che desidera
che i morti possano amare i vivi, così appresso solo le bellezze incorporee, non solo può essere
i Peripatetici non può dubitarsi ciò essere fal il medesimo dopo la morte appo noi, ma do
so; e così sarebbe sciolta questa quistione assai vrebbe crescere, come è chiaro per le ragioni,
agevolmente, perchè ai teologi dovemo credere che mostra Dante, quando nel trentesimo capi
noi e non a filosofi. Fu bene opinione ancora tolo del Purgatorio induce Beatrice a dirgli
tra i filosofanti gentili, che l' anime nostre nel
queste parole, degne di dovere essere non solo
partirsi dal corpo non si spogliassero affatto di considerate da tutti gli amanti, ma ubbidite:
tutti gli affetti umani e massimamente dell'amo
re. La quale opinione ſu divinamente posta Sì tosto, come in sulla soglia fisi
Di mia seconda etade e mutai vita,
da Virgilio nel sesto libro, quando avendo
detto: Questi si tolse a me, e diessi altrui,
Quando di carne a spirto cra salita,
Iſinc metaunt, cupiuntgue, dolent, gaudent pue, E bellezza e virtù cresciuta m' era,
raec auras
Fui a lui meno cara e men gradita,
Respiciunt clausae tenebris, et carcere cacco, E volse i passi suoi per via non vera.
soggiunse poi del pari divinamente: Immagini di ben seguendo false
Che nulla promission rendono intera.
Non tamen omne malum miseris, nec funditus
onlnes E se alcuno dicesse, che ancora dopo la morte
il Petrarca, favellò molte volte delle bellezze
Corporeae excedunt postes,
corporali come se viva stata fosse Madonna
con quel che seguita. E secondo cotale opi Laura, sappia, che l'amore è in un certo mo
nioni favellò, per avventura, il Petrarca quan do immortale; perchè quella inumagine della
do disse:
cosa amata, la quale passando per gli occhi si
.S'io credessi per morte essere scarco scolpisce per mano d'amore nel cuore, o vero
Del pensiero amoroso, che m' atterra, nella fantasia dell'amante, rimane sempre viva, e
Con le mie mani avrei già posto in terra sempre è da loro con gli occhi della mente
Queste membre noiose e quello incarco (1). vcduta; e però disse il Petrarca:
b noi le
E talora dubitando disse, favellando della Onde morte m'assolve, amor mi lega (2),
morte:
(1) Canz. IV, Stanza V, Parte I.
(1) Son. XXIII, Parte I. (2) Son. XXX 1X, Parte II,
SULL' AMORE 225

“E così è manifesto in qual modo, e per qual del celeste e filosofico, tanto in questo ad
cagione i morti possono amare i vivi ed essere
Aristotile superiore, quanto più è degno l'a-
da loro amati. mor divino, che l'umano. Dice dunque Ari
stotile, anzi prova, che l'amistà è più nobile
non solo dell'amore utile, ma ancora dell'a-
QUISTIONE DECIMASETTIMA
mor piacevole e dilettoso ; e la più gagliarda
Se l'amore può star fermo in un medesimo stato ragione pare che sia questa, che gli amici - e
senza crescere o scemare. " sempre si intende de' veri, perchè gli altri si
chiamano, ma non sono amici; onde disse quel
Coloro che agguagliano l'amore non solo a poeta:
una febbre, ma a una febbre continua, onde Caetera fortunae non mea turba finit.
si vede manifestamente, che è nel sangue, di
e Dante:
rebbono, che come le febbri hanno principio,
accrescimento e stato e declinazione, così an L'amico mio e non della ventura (1); -
cora avesse l'amore. Ma coloro che sanno, che
amore è un moto spiritale, sanno che egli non vogliono
sè stessi, bene
ma diagli
loroamici, per cagione
non dove
medesimi; di
gli amanti
può fermarsi; perchè non sarebbe più moto, vogliono bene agli amati, non per cagiºne de
ma quiete, e per conseguenza cesserebbe l'a- gli amati stessi principalmente, ma di sè me
more. Onde noi diciamo, per quanto possiamo desimi. Quello è più nobile atto, che ſquesto
giudicare (perchè cotali quistioni da niuno si
trattano, che sappiamo noi) essere impossibi non è; dunque gli amici sono più nobili, più
le, che in uno che ama, o non cresca sempre,
degni e migliori che gli amanti, La qual cosa
o non iscemi l'amore; perchè così è movi non dee negarsi, nè può, intendendosi dell'a-
mento l'andare innanzi, come il tornare in more volgare; ma nell'amore virtuoso e dei
filosofi pare che avvenga il contrario; perchè
dietro. E sebbene tutti gli amanti dicono, che essi amano più il bene degli amati, che, il lor
il loro amore è al colmo giunto, e tanto è proprio; dunque ne segue, che siano più de
grande, che più crescere non può, dicono per
avventura quello che credono, ma non già gni e migliori degli amici. Certa cosa e che
molto più non solo di quantità, ma di qualità
quello che è; perchè l'amore può crescere in fanno i veri amanti per gli amati, che i veri
infinito, ed a quello che è infinito, si può ag amici per gli amici. Nè creda alcunº, che sia
giugnere sempre: ma non può già l'amore sce
marsi in infinito, perchè diverrebbe odio; onde men raro un buono amante, che un bºººº
amico; e quando altro non fosse, il buono
si può agguagliare non alla quantità non con
tinua, la quale scema in infinito, ma alla di amore cagiona sempre la buona amiciº Pº
screta, la quale in infinito cresce. E per que chè allora che fornisce il nome dell'amanº»
comincia, come si è detto altra volta, quello
sto disse, non solo leggiadria, ma dottis
simamente il Petrarca: dell'amico.

Io amai sempre, ed amo forte ancora, QUISTIONE DECIMANONA


E son per amar più di giorno in giorno (1).
Ed a chi di mandasse, onde nasce questo o Chi ama più o i giovani, º gli attempati.
crescere, o scemare d'amore, si rispondereb
be, da varie cagioni così da parte della cosa Come tutti gli uomini sono più delle donne
amata, come da quella dell'amante. E tra molte perfetti, per lo avere essi la complessione piu
calda, così tutti i giovani ordinariamente fanno
sentenze che disse Omero, non meno vere che
dotte, a noi piace sommamente quella, la quale meglio tutte le cose, che i vecchi, per lo eº
in sentenza dice: che l'intelletto umano è tale sere eglino più caldi; onde nºn credo, che
ogni giorno, quale i cieli lo dispongono. sia da dubitare, che i giovani, intendendo di
quelli, che sono nel fiore dell'età, non amino
più degli altri, intendendo dell'amor volgare:
QUISTIONE DECIMOTTAVA anzi, quanto a loro, pare che ciò si convenga»
tanto agli altri si disdice; come mostrº tante
Qual sia miglior cosa e più degna volte il Petrarca, come là :
o l'amicizia, o l'amore.
E se il tempo è contrario a i bei desiri,
Aristotile nell'ottavo libro dell'Etica e in Non fa che almen non giunga al mio dolore
a
--
parte del nono tratta dell'amicizia aristoteli Alcun soccorso di tardi sospiri (2) 3
- camente, cioè con incredibile dottrina, ordine e altrove:
ed eloquenza, e ne tratta lungamente, dove
dell'amore fa brevissima menzione. La cagione
In questo passa il tempo, e nello specchio,
della qual cosa potrebbe per avventura esse Mi veggio andar ver la stagion contraria
re, perchè egli intende sempre del volgare e A sua impromessa ed alla mia sperº (3).
libidinoso, dove Platone, che favellò poco del
l'amicizia ed assai dell'amore, intende sempre (1) Inferno, Canto II.
(2) Son. IX, Parte I.
(1) Son. LVI, Parte 1. C3) Sou. CXVI, Parte I.
V A Iit.li i V. 1,
29
2 o6 LEZIONE SETTIMA
Ed il Bembo medesimamente disse: se non sono una medesima, come volle Aver
rois, non possono cagionare, che uno abbia
Se tutti i miei primi anni a parte a parte, miglior giudizio d'un altro. Sono dunque di
Ti diedi. Amor, nè mai fuor del tuo regno versi gli uomini secondo la diversità di quella
Posi orna, o vissi un giorno, era ben degno, virtù, che si chiama negli uomini cogitativa,
Ch'io potessi, attempato, omai lasciarte: e nelle bestie, come assai meno perfetta, esti
avendo scritto nel sonetto di sopra, non meno mativa. Hanno dunque coloro il giudizio più
leggiadramente, che dottamente, tutta questa perfetto, i quali hanno la disposizione della
sentenza in questa maniera: cogitativa migliore; ma i giovani hanno la co
Mentre di me la verde abile scorza gitativa più perfetta de vecchi, perchè hanno
i fantasmi più perfetti: dunque hanno ancora
Copria quel dentro pien di speme e caldo,
Vissi a te servo, Amor, si fermo e saldo, migliore e più perfetto il giudizio. E se questo
e contra alla sperienza, non e che non sia
Che non ti fu a tenermi uopo usar.forza: vero per sè , ma per accidente accade il con
Or che ”l volger del ciel mi stempra e sforza trario; perchè ricercandosi nel giudizio l'aver
Con gli anni, e più non sono ardito e baldo, veduto e provato molte cose; il che i giovani
Com'io solca, nè sento al cor quel caldo, non hanno fatto per lo più, ed i vecchi si, ne
Che, scemato, giammai non si rinforza: seguita, che il giudizio d'un vecchio sia per
stendi l'arco per me, se vuoi ch'io viva:
accidente migliore; senza che, sebbene i gio
Ne ti dispiace aver chi l alte prove vani hanno la cogitativa migliore, tuttavia per
Della tua certa man racconti e scriva.
la molta abbondanza del sangue sono molto
Non ho sangue e vigor da piaghe nuove inchinevoli all'ira e ad altre passioni, che im
Sofferir di tuo strale; omai l'oliva
pediscono il giudizio. Ne mancano di quelli
Mi dona, e spendi le saette altrove. che fanno cotali distinzioni, dicendo che il
E chi dicesse, che il legno, quanto è men ver giudizio d'un giovane quanto al discorrere ed
de, più arde, si potrebbe rispondere, come fece al trovare, è per la caldezza del cervello più
nella fine del sonetto sopra allegato, il Bembo perfetto, ma quanto al giudicare no; perche
ad' Amore: il giudicare vuole esser tardo e considerato,
Arsi al tuo fuoco, e dissi: Altro non chero, il che ricerca freddezza; la qual cosa più nella
Mentre fisi verde e forte; or non pur ardo cogitativa de'vecchi si ritrova, che in quella
Secco già e fral, ma incenerisco e pero. de giovani. E chi vuole vedere tutto quello
che della giovanezza si può dire poeticamente
E la risposta che fece M. Alberto da Bologna e non senza verità, legga quelle stanze del
a Madonna Margherita de Glisolieri è vera nostro Messer Lodovico Martelli, che comin
in quella parte, che agli antichi uomini sono ciano: Nella più fresca etade e più fiorita.
naturalmente tolte le forze, le quali agli amo CI
rosi esercizi si richieggono. Non so già come
approvare si debba quello che segue: non è QUIstiONE vENTESIMA
perciò loro tolta la buona volontà; nè tutte
le donne, quando merendano, cominciano a Se l'amore si può simulare o dissimulare,
mangiare il porro dalle frondi. Ma nell'amore e quale è più agevole di queste due cose.
casto e sincero più amano senza alcun dubbio
e meglio gli attempati, perchè, come dice il Che uno, il quale non ami, simuli l'amore,
Filosofo nel settimo della Politica, le forze cioè faccia le viste d'amare, pare a me, che
sono ne' giovani, e la prudenza ne'vecchi. non solo sia possibile, ma agevole e consueto
Onde il Petrarca, il quale e seppe ed espresse in questi tempi. E bene, a giudizio mio, piut
i segreti d'amore tutti quanti, fece quel ma tosto impossibile che malagevole, dissimulare
raviglioso sonetto, che comincia cosi: Tutta l'amore, cioe amando, farle viste di non essere
la mia fiorita e verde etade ; nel qual dice: innamorato. E come può essere, che alcuno,
ardendo tutto, non faccia alcun segno che egli
Presso era il tempo, dove Amor si scontra abbrucia ? Non disse Ovidio nelle Pistole:
Con castitate, ed agli amanti è dato
Sedersi insieme, e dir che loro incontra (1). Sed male dissimulo, quis enim celaverit ignem,
E ben disse Maestro Alberto, che gli uomini Lumine qui semper proditur ipse suo?
antichi meglio conoscono, che i giovani quello Ed il medesimo, nella medesima opera, al me
che sia da essere amato. E se alcuno dubitas desimo fine, così disse:
se, parendogli che ciò sia contrario a quello
che pur testè fu detto da noi, che i giovani Perfide sensisti, quis enim bene celat amorem?
facevano meglio tutte le cose, che gli altri, Eminet indicio prodita flamma suo.
sappia ciò essere vero per sè; ma avvenire il
contrario per accidente. E perchè questa ma Come può uno, che si nutrica o vive di sguar
teria, la quale è non men bella che utile, si di, non andare ad involarli, se non può averli
altramente ? Conosce alcuna volta l'amante di
comprenda meglio, dovemo sapere, che l'a-
nime, cioè gli intelletti, essendo tutte sorelle, passare il dovuto termine, e niente di meno
non vuole non passarlo:
(1) Son. XLVII, Parte II. Quis enim modus adsit amori?
SULL' AMORE 227
E quando volesse mille volte, non potrebbe: come l'altro Petrarca (1) testificò in quel com
passionevol sonetto :
Lasso! Amor, mi trasporta ov'io non voglio ;
Se voi sapete, che 'l morir n'è doglia, -
diceva il nostro Poeta : Però che da noi stessi ne diparte - - -

E ben m'accorgo, che 'l doversi varca, Sapete, ond'è, che quand'io sto in disparte
Onde a chi nel mio cor siede monarca, Di madonna mi preme ultima doglia.
Sono importuno assai più, ch'io non soglio (1). E brevemente, come può alcuno non sentire
infinito dolore, stando da sè stesso e dalla me
con quello che segue. Anzi, non è cosa alcuna, desima vita lontano? Le quali cose tutte, mo
né tanto gioconda, nè tanto preziosa, che uno strano apertamente, che niuno che ami dad
amante vero non lasciasse mille volte l'ora
dovero, può celare, anzi non iscoprir l'amor
per vedere una volta sola, e ben da lontano, suo; il che fare, è tanto commendabil cosa,
un giro solo degli occhi della sua donna, come quanto il fingere d'amare è degno di biasimo;
testimonia di se stesso, in questi versi il Pe il che però nè a ognuno riuscirebbe, ne con
trarca : -

tutte le persone. Nè sia chi creda, che questo


Nè mai stato gioioso, intensissimo desiderio d' essere con la cosa
Amore o la volubile fortuna, amata, si ritrovi solo negli amanti volgari;
Dieder a chi più fur nel mondo amici, perciocche si ritrova ancora medesimamente
Ch'iº nol cangiassi ad una ne'cortesi; anzi tanto maggiore, quanto l'a-
Rivolta d' occhi, onde ogni mio riposo mor casto è più degno dell'impudico: e con
Vien, com'ogn' arbor vien da sue radici (2). seguentemente meno si può celare l'amor pio,
che il lascivo, e meno si deve; anzi dice Pla
I quali versi, o io sono al tutto fuori d'ogni tone, esser cosa più preclara amare palesemen
buon sentimento, o eglino sono tali, che niuno te, che di nascoso, e chi altro fa, si mostra
può, non dico lodarli, ma tanto ammirarli che piuttosto astuto che prudente, più ingannatore
basti; e credo che niuno crederebbe, che si che amante.
potessero, non che trapassare, agguagliare, se E così avemo questa settima ed ultima que
dopo questi, non si leggessero questi altri: stione, e con ella la presente Lezione fornito;
Quanta dolcezza unquanco parendoci, che le venti questioni disputate da
Fu in cor d'avventurosi amanti, accolta noi in quattro Lezioni, debbano bastare, non
Tutta in un loco, a quel ch'i sento, è nulla, ostante che alcuni n'abbiano delle altre mosse,
Quando voi alcuna volta le quali o non sono intese da me, o non sono
Soavemente tra il bel nero e 'l bianco questioni, parte per esser chiare per sè me
Volgete il lume, in cui Amor si trastulla: desime, parte per non fare a proposito. Per
che coloro che dimandano, se il mondo sta
E credo, dalle fasce e dalla culla,
Al mio imperfetto, alla fortuna avversa, rebbe meglio, o peggio senz' amore, non dicono
Questo rimedio provvedesse 'l cielo. nulla; perchè tanto è, quanto se dicessero, se
Torto mi face il velo è meglio, che il mondo sia, o non sia : il che
E la man, che sì spesso s'attraversa, è impossibile. E coloro che dimandano, quali
Fra 'l mio sommo diletto siano più degli effetti d' amore o i buoni, o
E gli occhi, onde di e notte si rinversa i rei, non s'accorgono, che non distinguendo
altramente, è come se dimandassono di tutti
Il gran desio, per isfogare il petto,
Che forma tien del variato aspetto. gli effetti del mondo, quali sono più o i buoni,
o i cattivi, perchè tutti nascono d'amore. Co
Se i poeti Greci, o i Latini hanno con tanta loro che dimandano, se uno avaro può amare,
leggiadria tanta dolcezza, voglio lasciare ch'al o non sanno che cosa è amore, o non inten
tri il giudichi ; non voglio già lasciare che Dante dono quello che dicono, se già non favellas
in una sua sestina fu, come suole sempre, mi sero dell'amor buono, che non s'apprende se
racoloso in mostrare quanto desiderava di ve non negli animi nobili, quali gli avari non sono,
dere, non che la donna, o l'ombra di lei, l'om Coloro che cercano di sapere, chi è più co
bra sola de panni suoi dicendo: stante in amore, o l'uomo, o la donna, mo
Ma ben ritorneranno i fiumi a i colli, strano, che mal sappiano che in tutte le cose
Prima che questo legno molle e verde l'uomo è naturalmente più della donna per
S'infiammi, come suol far bella donna, fetto. Coloro che dimandano, chi più agevol
Di me, che mi torrei dormire in pietra mente si fa a credere d'esser amato o l'uo
Tutto il mio tempo, e gir pascendo l'erba, mo, o la donna, non sanno, che la materia
Sol per vedere u suoi panni fanno ombra (3). appetisce naturalmente la forma, cioè le cose
imperfette le perfette; onde più deono amare
Non può conoscere alcuno, il quale non abbia la donna gli uomini, che all'opposto; e per
provato il dolore della morte, quanto sia gran ciò gli uomini meritevolmente si persuadono
passione il trovarsi lontano dalla cosa amata, di esser amati con più agevolezza, che le donne
non fanno. A chi vuol sapere qual sia maggior
(1) Son. CLXXIX.
(2) Ganz. VII, Stanza III, Parte I. (1) Intende anche qui, come altrove, il Cardinale Bembo.
(3; Rime di Daule, Lib. lll, Scstina I. (M.)
228 LEZIONE SETTIMA
prova d'amore o far l'uomo di savio pazzo, tali. Nelle immortali, che sono tutte quelle,
o di pazzo savio, non è noto, che dall'abito le quali s' innalzano dall' elemento del fuoco
si può venir alla privazione per più vie, per in su, non si trovano nè generi, nè spezie, ma
che un vivo può morire in diversi modi, ma individui soli e anco questi non propriamente,
dalla privazione all'abito non si torna, e per non si trovando e non si potendo trovare più
ciò non possono i morti risuscitare. Ed il vino d'una luna, nè più d'un sole, ed essendo cia
diventa scuna stella diversa da ciascuna altra. Nelle
più modicercone
si può (1) in piùritornare,
in vino modi, e ma
forse in
dive
mortali, le quali sono tutte quelle, che s'ab
nuto una volta aceto, mai più non ritorna bassano dal concavo della luna in giù, si
vino: e certo maggior fatica è racconciare il trovano molti generi, moltissime spezie ed in
vino guasto, che guastare il buono. Ma per non dividui quasi infiniti. Le spezie, essendo elleno
moltiplicar in infinito, ed essere a voi di te. come i numeri, sono tra loro differenti: per
dio ed a me di fatica cagione, daremo fine ciocchè niuna se ne ritrova, la quale sia della
al presente ragionamento, ringraziando prima medesima dignità: ma sempre o più nobile, o
l'infinita bontà di Dio e poi l'infinita beni meno perfetta di qualunque altra. Circonda
gnità generalmente di tutti, e particolarmente dunque l'universo e comprende col suo cir
di ciascuno di voi. cuito, il quale è, secondo la credenza dei
maggiori e più antichi filosofi, l'ottavo del
cielo chiamato il firmamento, nel quale tutte
scintillano le stelle fisse; e secondo l'opi
LEZIONE OTTAVA nione de maggiori e più moderni astrologi,
il decimo, e secondo la certezza di tutti i teo
DI ALCUNE QUISTIONI D'AMoRE E di UN PAsso logi o antichi, o moderni il cielo empireo. Cir
DEL PURGATORIO DI DANTE.
conda dunque l'universo e comprende col
suo circuito non solamente quasi infinite cose,
ma ancora quasi infinitamente tra sè differenti.
Il che diede a molti grandemente, che dubi
AL REVERENDISSIMO tare, non già chi colui fosse, il quale l'avesse
o prodotto ab eterno, come vogliono i filosofi
MONSIGNOR BECCATELLI gentili, o generato, anzi creato con tempo, co
me tengono i teologi cristiani, essendo egli sta
ARCIVESCOVO DI RAUGIA, to senza alcun dubbio così secondo gli uni,
come secondo gli altri il grandissimo ed otti
mo Dio: ma bene come egli avesse ciò fatto;
LETTURA DI BENEDETTo vARCHI soPRA QUE'vERsi conciossiacosachè per quella universale veris
DI DANTE, NEL D1C1AssETTESIMO CANTo DeL PUn sima proposizione filosofica: Da uno, in quanto
GAToano, I QUALI coMINCIANo : vÈ caEA ron, và uno, non può procedere se non uno, cioè una
CREATURA MAI , Ec. LETTA DA LUI PUBBLICA
cosa sola senza più : non s'accorgendo costoro
mENTE NELL'AccADEMIA FIoRENTINA L'ULTIMA che in Dio, sebbene egli è non solamente uno,
DoMENICA D'Agosto L'ANNo MDLxiv. ma uno semplicissimamente e in interamente
perfettissima unità, si contengono però unitis
simamente in un modo eminentissimo, e non
PARTE PRIMA pure indicibile da noi, ma inimmaginabile tutte
quante le cose e che furono e che sono e che
PROEMIO
mai saranno, dovunque, quantunque e comun
que si furono, si sono e si saranno. E questo
è quello che volle significare, anzi che signi
Di tutte le cose, che furono o prodotte ab ficò divinissimamente il divinissimo poeta Dan
te, quando fingendo d'aver rimirato nel primo,
eterno o generate con tempo, nessuna, molto ed ineffabile valore, scrisse:
magnifico ed eccellente Consolo, dottissimi e
giudiziosissimi Accademici e voi tutti, nobilis Nel suo profondo vidi che s'interna
simi e onoratissimi Ascoltatori, non solamente Legato con amore in un volume
non è, ma eziandio non può essere nè mag Ciò, che per l'universo si squaderna (1).
giore, ne migliore, nè più bella, nè più mara Per non dir nulla che le cose dell'universo,
vigliosa che l'universo. L'universo , fuor del sebbene sono tante e così diverse, procedono
quale non è nulla, abbraccia e contiene den nondimeno tutte da uno solo, e in un solo
tro sè tutte le cose non pur che sono ma che tutte circolarmente ritornano : e sono di ma
essere possono. Le cose, che in esso, il quale niera ordinate tra loro, e talmente si colle
è uno animale vivissimo, intendentissimo e gano insieme, e dipendono necessariamente
perfettissimo si racchiudono, sono di due guise l'una dall' altra, ch' elle si possono, anzi si
e maniere, o eterne e conseguentemente im debbono mediante cotale ordine, dipendenza
mortali, o temporali e Conseguentemente mor e collegamento chiamare una sola e non più:
come dimostrò non meno veramente, che dou
(1) Cercone si dice al vin guasto, perchè in divenir sif
fatto movesi, gira e si volta. (M.)
(o Paradiso, canto XXxiii.
SUI,L'AMORE 279
tamente il medesimo divinissimo Dante, quan mi ingegni: tra quali risplende, non altra
do per bocca di Beatrice, cioè della santissima mente che il sole tra le stelle, quel non meno
teologia disse: virtuoso e dotto che eloquente, nè meno elo
quente che dotto e virtuoso messer Piero Vet
. . . . . Le cose tutte quante
tori (1): ho voluto trattare non in particolare,
EIanno ordine tra loro; e questa è forma, avendo ciò fatto altre volte, ma generalmente,
Che l'universo a Dio fa somigliante (1).
ed in universale della più utile, della più gio
Del quale ordine favellando ancora nel decimo conda, della più onesta e della più alta ma
canto del Paradiso lasciò scritto con non mi niera, che trovare si potesse; dichiarando uno
nore verità, che dottrina, come fu da noi di di coloro, i quali più altamente e più leggia
chiarato altra volta : dramente scrivono, che tutti gli altri, e ciò
Quarato per mente, e per occhio si gira; sono i poeti : e tra poeti uno, il quale di va
Con tanto ordine.fe, ch'esser non puote rietà e di profondità di tutte le dottrine, avan
Seraza gustar di lui, chi ciò rimira. za per giudizio nostro e con grandissimo van
taggio tutti gli altri poeti di tutte l'altre lin
Nè è dubbio alcuno che questo è quell'ordine gue; e in quel luogo stesso, nel quale egli
secondo Aristotile, principe de Peripatetici, il medesimo ne trattò e più lungamente e più
quale ne dimostra a chi bene il considera, la dottamente e più veramente quasi senza com
somma potestà, la somma sapienza ed il som parazione alcuna, che veruno altro poeta o
mo amore del primo principio di tutti i prin toscano, o latino, o greco, o lirico, od eroico,
cipi. Ho detto, secondo Aristotile, perchè Pla o tragico si facesse giammai: cioè di quel co
tone, suo precettore, sebbene vuole, come si munissimo, giovevolissimo e santissimo spirito,
può vedere nel Timeo, che tutto l'universo il quale colla sua forza, colla sua virtù e colla
dipenda dal primo principio, exiandio come da sua possanza lega, penetra, e vivifica tutte le
cagione efficiente, nondimeno pone immedia cose di tutto il cielo, e di tutta la terra. Nè
tamente dopo il primo ente uno intelletto, sia alcuno di voi, prudentissimi e graziosissimi
chiamato mondo intelligibile, nel quale sono Ascoltatori, il quale si maravigli, che io dopo
tutte le idee, e per conseguenza fu, ed è, e sarà tanti anni e in così grave ctà sia salito in que
sempre la cagione esemplare, e, come noi di sto onoratissimo luogo: ed a questa forse agli
remmo, il modello di tutte le cose che furono, altri non diſſicile, ma a me certamente fatico
sono e saranno prodotte. E così secondo que sissima e malagevolissima impresa posto mi sia,
sto modo, da un solo, cioè dalla prima intel avendo colui, che muove tutte l' altre cose,
ligenza non procede immediatamente se non mosso ancora me. Conciossiachè il sommo e
un solo, cioè questo intelletto, ovvero mondo sincero amore, che io porto scambievolmente,
intelligibile. Ora perchè nessuno agente volon è già gran tempo, per le sue ottime qualità e
tario opera mai cosa nessuna, se non mosso singolarissime virtù, al molto magnifico ed cc
da alcuna cagione, dubitarono molti, e non cellente messer Baccio Valori, dottore del
irragionevolmente, qual fosse quella cagione, l' une e dell'altre leggi (2), mi spinse, tosto
la quale o dovesse, o potesse muovere la ca che io non senza grandissimo piacere intesi
gione di tutte le cagioni. E finalmente ritro lui di concorde parere di tutta questa nobile
varono ciò essere stato l'amor solo. L'amor e virtuosa compagnia essere stato eletto a Con
solo indubitatamente, e non altro fu quello, che solo della famosissima e felicissima Accademia
mosse ab eterno:
nostra, mi spinse, dico, a liberamente e libe
L'amor che move il sole e l'altre stelle (2). ralmente tutto quello che per me si potesse,
offerirgli. La qual cosa conobbi poco appresso
L'amor solo, solo l'amore, amorosissimi ed
essere stata fatta da me troppo volonterosa
amorevolissimi Ascoltatori, fu ed è, e sarà sem
mente e con maggiore amorevolezza, che giu
pre cagione non solamente della produzione, dizio. Posciache, per tacere del cosi dotto e
ma eziandio della conservazione di tutto l'u-
buono, come reverendo messer Antonio Beni
niverso mondo e di tutte le cose, che in tutto vieni (3), e di tanti altri, i quali insin qui con
l' universo mondo si contengono. Conciossia tanta dottrina ed eloquenza hanno chi orato,
cosa che se non fosse amore, non sarebbe cosa
e chi letto, e di coloro i quali da qui innanzi
nessuna : perchè, oltra che si dissolverebbe e
disunirebbe, e per conseguente mancherebbe
sono qual per leggere, e quale per orare, il
tutta questa macchina mondana, il primo Mo (1) Piero Vettori, fiorentino, nato nel 1499, morto nel
tore non moverebbe; ed un punto solo, che
1585, fu uomo di meravigliosa dottrina, che tutto si diede
restasse di muovere il primo Motore, tutte a promuovere e perfezionare i buoni studi. Dalla scuola di
quante le cose di tutto quanto l' universo si lui uscirono i più valorosi scrittori fiorentini del cinquecento.
corromperebbono incontamente, anzi divente L'opera sua italiana più pregiata, è il libro della Coltra
rebbero un nonnulla. Laonde, dovendo io, ami zione degli Ulivi. (M.)
cissimi e accortissimi Ascoltatori, favellare oggi (2) Boccio Valori, gentiluomo fiorentino, ebbe gran parte
alle vicende politiche della sua patria, e fu amico ai più chiari
in questo famosissimo e celebratissimo luogo, ingegni dell'età sua. ll Varchi assai ne parla nella sua Storia.
nel mezzo di tanti e tanto sublimi e chiarissi
( Ml.)
(3) Quest'Antonio Benivieni deve aver fiorito nel seco
(1) Paradiso, Canto I. lo XIV. D'un medico fiorentino di questo nome fanno men
(2) Paradiso, Canto XXXIII. -
vioue il Mazzucchelli ed il l'iraboschi. (M.)
a3o LEZIONE OTTAVA

primo, che si facesse sentire in sn questa cat trovandosi, secondo la sua meravigliosissima
tedra, per inanimire gli altri, benchè in me finzione, nell'altro emispero, sopra la monta
adoperò contrario effetto, fu messer Giovam gna del Purgatorio nel quarto girone; ed es
battista Adriani Marcellino (1); nel quale uno, sendosi fermato, perchè il sole già andava sotto,
oltra la perfetta cognizione di tutte e tre le e di notte non si poteva montare suso, diman
lingue più belle, ed oltra la facondia più che pa dò Virgilio qual peccato si purgava in quel
terna, essendo stato messer Marcello suo pa luogo; ed avendogli Virgilio risposto, che
dre il più eloquente uomo de' tempi suoi, ri quivi ritto – Si ristorava l'amor del bera scemo,
splendono lucidissimamente quasi tutti gli abiti cioè, si purgava l'accidia: essendo allora tanto
cosi morali, come intellettivi. E per testimo presti e solleciti di là, quanto erano stati pi
niare di lui con verità e da buon senno, quello gri e infingardi que peccatori in questo mondo
che egli disse di me o per cortesia, o per di qua: soggiunse che voleva, perchè egli non
giuoco, è il Marcellino tanto nelle virtù dei perdesse tempo, e potesse meglio intendere
costumi, quanto nelle scienze delle dottrine quali erano ed onde nascevano tutti e sette i
se non singolare, certamente rarissimo; onde peccati mortali, dichiarargli tutta la quiddità e
meritevolmente si può con pace e sopporta natura loro. E cominciò con principio altissi
zione di tutti gli altri chiamare il fiore e l'o- mo sì, ma necessario: Nè Creator, nè creatura
nore di questa nostra fioritissima ed onoratis mai, ec.
sima brigata. Ma lasciando queste e molte al Creare. Questo verbo, secondo i grammatici,
tre cose che dire si potrebbono da uno dei è termine : secondo i loici, sebbene si piglia
lati, prego divotamente il divino ed eterno generalmente e con largo significato per ge
Amore, che gli piaccia per sua grazia conce nerare, significa propriamente produrre di nuo
dermi del suo favore; e voi , amantissimi ed vo alcuna sostanza senza alcuna materia pree
amatissimi Uditori, che vogliate per bontà e sistente, e per dirlo con manco parole e più
benignità vostra chetamente, come solete, e chiaramente, creare è fare di nonnulla qual
cortesemente ascoltarmi. che cosa. Il che appresso tutti i filosofi, come
testifica Aristotile, è del tutto impossibile per
quelle ragioni e cagioni, le quali racconta
Nè creator, nè creatura mai, leggiadrissimamente Lucrezio nel primo libro,
Cominciò ei, figliuol, fu sanz' amore, dove dice:
O naturale, o d' animo; e tu 'l sai.
Lo natural fu sempre senz' errore: Nam si de nihilo fierent: ex omnibus rebus
Ma l'altro puot'errar per mal obbietto Omne genus nasci posset: nil semine egeret.
O per troppo, o per poco di vigore. Ma appresso i sacri teologi, secondo i quali,
Mentre ch'egli è ne' prini ben diretto, come buon cristiano, favellò Dante, Dio può
E ne secondi sè stesso misura, creare, anzi creò di nonnulla il cielo e la
Esser non può cagion di mal diletto. terra. È ben vero, che Dio solo, e nessuno
Ma quando al mal si torce, o con più cura, altro ha, come onnipotente, facoltà di creare;
O con men, che non dee corre nel bene; onde egli solo, e nessuno altro si può chia
Contra 'l Fattore adovra sua fattura. mare Creatore. Il perche tutte l'altre cose,
Quinci comprender puoi: ch'esser conviene fuori solamente Dio, come create da lui, si
Amor sementa in voi d'ogni virtute; possono chiamare e si chiamano creature, ora
E d'ogni operazion, che merta pene. semplicemente e senza alcuno aggiunto, come
fece in questo luogo Dante, ed ora con alcuno
aggiunto per più chiara spressione come o in
Questi versi e massimamente i tre primi sono tellettuali, o razionali, o irrazionali, o insensi
pregni di tanta e così profonda dottrina, che bili, o con alcuno altro epiteto. Significa dun
io per me porto fermissima opinione, che non
se ne trovino altrettanti in nessuno poeta di que questo verbale Creatura comunemente qua
lunque cosa, la quale sia creata, o prodotta,
qual si voglia lingua, i quali si possano, non e per conseguente ogni cosa sia qual si voglia,
dico agguagliare a questi, ma comparare; se eccetto Dio. E sebbene Dante la ristrinse qui
non se forse que quattro di Virgilio nel sesto alle creature razionali sole, cioè agli uoumini,
dell'Eneide:
non è che l'amore, del quale intendiamo di
Principio coelum ac terras, camposque liquentes, favellare, non si ritrovi universalmente in tutte
Lucentenque globum lunae, titaniaque astra le cose, dalle picciole alle grandi. La qual
Spiritus intus alit, totosque infusa per artus cosa aſfine che meglio, e più chiaramente in
Mens agitat molem, et magno se corpore miscet. tendere si possa, porremo l'ordine degli enti,
cioè di tutte le cose, che sono, dividendo tutte
Per maggiore intelligenza de' divini versi
le sostanze, o corporee, o incorporali, delle
del nostro divino poeta è da sapere, che Dante
quali si compone sostanzialmente tutto l'uni
verso ne' loro generi, i quali sono dieci e
(1) Giovambattista Adriani, figliuolo a Marcello, va fra non più.
gli scrittori più rinomati del secolo XV1. Scrisse le Storie
de' suoi tempi, che noi abbiamo in questa Biblioteca Enci I. La Materia prima.
clopedica accompagnate alle Storie Fiorentine del Segni. II. I Quattro Elementi.
Marcello Adriani ottenne singolarmente gran fama per le sue III. I Misti imperfetti.
traduzioni di Plutarco. (M.) IV. I Misti perfetti.
SULL' AMORE 23 i

n. V. Le Piante. sta distinzione si possono intendere molti luo


a VI. Gli Animali bruti, ovvero irrazionali. ghi difficilissimi d'Aristotile e del suo gran
a VII. Gli Animali razionali, cioè gli uomini. dissimo Comentatore. Voglio ancora che sap
e VIII. I Corpi celesti. piamo, che il potere la materia prima trapas
IA. L'Anime de Cieli, cioè l'Intelligenze. sare dalla potenza all'atto, cioè diventare tutte
A. L'Ente di tutti gli Enti, cioè Dio. le cose, fa che ella tutte le appetisce. Ma per
a De'quali tutti favellaremo per ordine a uno chè molle può conseguire e possedere tutte in
giº a uno con quella brevità e chiarezza, che sa sieme, e a un tratto (perchè ciascuna cosa,
sia premo e potremo maggiori. non potendo essere più d'una, non può avere
a più d'una forma sola) le consegue e pos
GR AD O P R I MO siede a una a una, di mano in mano. E quinci
è che il mondo, senza mancar mai, ogni giorno
r Materia Prima. muore e ogni giorno rinasce. Perchè tutte le
iº cose generabili e corruttibili, mediante la ma
Il puro non ente, cioè quello che è priva l teria prima, la quale sola di tutte le cose sotto
rº zione d'ogni ente e che non ha essere nes la luna e immortale, si generano e corrom
sºno e in somma che è veramente e sempli pono successivamente a ciascuna ora, anzi in
ºrmente nulla, non si può comprendere per la ogni punto. E questo è quello, che intendeva
sua infinita imperfezione da intelletto nessu il Filosofo, quando disse, che la materia pri
sº nº; siccome il suo contrario, cioè il puro en ma desiderava la forma, come la femmina il
º che è Dio per la sua infinita perfezione da maschio: cioè come l'imperfetto il perfetto. E
"ºnº intelletto comprendere non si può. così è chiarissimo che nella prima materia si
lìºpo il puro non ente, il quale non è in luogo ritrova amore: benchè tale amore sia il più
ºno, la più bassa, la più ignobile e la più imperfetto, il più ignobile e il più basso non
i "perfetta cosa che sia e che esser possa, è solo che sia, ma che essere possa.
la materia prima. Perciocchè sebbene di lei
º si può dire veramente che ella sia pura G RA D O SE CON D O
"nte nulla, perchè di nulla non si può com
lºrº cosa nessuna: e della materia prima che I quattro Elementi.
sl antichi chiamarono caos, ovvero caosso,
º confusione, si compongono tutte le cose Dopo la materia prima seguono i quattro
sublunari di questo mondo inferiore; egli non elementi: fuoco, aria, acqua e terra (1): i quali
º può anco dire veramente che ella sia qual benchè si chiamino corpi semplici, perchè non
º º, essendo il suo essere mezzo tra l'es- -

sono composti d'altri corpi prima di loro, nè


º e il non essere, avendo il suo essere in in altri corpi prima di loro si risolvono, anzi
ºrma, cioè non essendo, ma potendo es compongono essi prima, come parti, tutto il
i" º che è cagione che ella sia diffici mondo inferiore, e poi mediante le mistioni
º º potersi intendere; conciossiachè tanto loro tutte le cose, che nel mondo inferiore si
º ºndono le cose e non più, quanto elleno ritrovano: sono nondimeno composti di mate
" in atto. Ma per dirne alcuna cosa Se ria e di forma, cioè della materia prima, e
º che la materia presente richiede, dove della loro propria forma sostanziale, la quale è
" ºpere che la materia prima, come non quella, che li fa essere, e perciò si chiama atto,
"ºrarsi mai, nè essere senza alcuna for cioè perfezione: il qual atto e la quale forma
"lºrchè allora quello, che non è in atto, sostanziale è la più imperfetta perfezione, che
ºrebbe in atto (onde Aristotile, il quale fu tra tutte le sostanze ritrovare si possa, con
" che conoscesse e dichiarasse la na ciossiachè ella tenga in qualche parte d'acci
ilº di lei, avendola distinta dalla privazione: dente. Sono gli elementi in un certo modo
l " aveva fatto Platone, diceva ora che mortali, corrompendosi e generandosi conti
º prima si conosceva per negazione, nuamente l'uno nell'altro perchè come del
º tite di
º dicendo non quello, che ella era, ma quello -

l gº che ela non era, ed ora per analogia, cioè per


- - - -
l'acqua si fa fuoco, così il fuoco diventa acqua;
e in un certo modo immortali, perchè, secondo
º
":" e rispetto alle forme): così si può
intelletto spogliata di tutte le
i filosofi, come sempre furono, così sempre sa
ranno ed hanno sì grande amore di conservare
cioè i " per se, e informe, ciascuno se medesimo, che, come l'acqua e la
º la forma " osì rispetto, ne considerazione terra discendono, sempre che impedite non so
prºpria e' " " entità, cioè ha una sua no, per ritrovarsi ne'luoghi loro, ne'quali na
º diversa i" are natura e sostanza divisa turalmente si mantengono: così l'aria e il fuoco
"chiude in se " e la
composto, e non (il quale è più perfetto e come forma di
a Ma se si e potenza alcuna, ne privazione.
A º considera come ella è capace di tutte (1) Ognuno sa, che tutta quella dottrina, di che qui fa
º le -

, i" e in tutte a guisa di Proteo si può si gran mostra il nostro buon Varchi, è, per cosi dire, sfu
mata, dopo le scoperte della Fisica e della Chimica moder
o "ºre, allora ella è solamente potenza, na. Ad ogni modo, franca certo la spesa di conoscerla, non
",
zione, lm " inpuò essere; e conseguente
-

Se necessariamente priva
e
-
foss'altro, per poter tener dietro al corso che seguirono a
gradi a gradi le scienze speculative e naturali. Nè d'altra
cosa no perocche il potere avere una qualche
parte, si puo metter dubbio che in essa l'ingegno umano
º º altro che il non averla. E con que non abbia dato gran prova della sua acutezza. (M.)
a32 LEZIONE OTTAVA

tutti gli altri, e per conseguente ha maggiore è necessario sapere prima di che e poi dove
e più perfetto amore) salgono sempre. E amano si facciano.
tanto ciascuno il suo proprio e naturale luo Quanto al primo capo, cioè di che si gene
go, che se la terra per possibile o impossibile rino, avemo a presupporre quello che ne mo
si levasse. ed abbandonasse il centro suo ed uni stra il senso che per virtù dei raggi solari si
versale, l'acqua per sua natura non si parti levano sempre, così dalla terra e massimamente
rebbe del luogo suo, nè abbandonerebbe il suo quando ella è bagnata, come dall'acqua al
centro: e il medesimo farebbe il fuoco, se l'a- cuni aliti, ovvero fumi, i quali si chiamano
ria si levasse ella. E ben vero che amano tanto propriamente esalazioni. Di queste esalazioni
la conservazione dell'universo, e per consc quelle, che si generano dalla terra, sono calde
guente di se stessi, che per riempiere il vuo e secche: calde per cagione dell'agente, cioe
to, mortalissimo nimico della natura, se si le del sole, e secche per amore della materia,
vasse qual si è l'uno degli elementi, il fuoco, cioè della terra; e sono somigliantissime al
e l'aria contra la propria inclinazione e na fuoco, e si chiamano col nome del genere esa
tura loro, andrebbono all'ingiù, e la terra e lazioni. Quelle, che si generano dall'acqua, e
l'aria monterebbono verso il cielo. E con tutto sono calde e umide, somigliantissime all'aria,
che essi siano grandissimamente nemici l'uno si chiamano propriamente vapori, sebbene si
all' altro, può nondimeno in loro assai più pigliano alle volte dagli scrittori l'uno per l'al
dell'odio l'amore. Onde si mescolano in mo tro. Dalle esalazioni si generano tutte le im
do, ed uniscono insieme, che della mescolanza pressioni ignite ovvero focose, come le saette,
e unione loro si generano tutte le cose mon i baleni, le lance, le travi, le colonne, le fa
dane. E quanto è maggiore l'unione e l'ami celline ardenti, le capre saltanti, le stelle ca
cizia loro nel mescolarsi ed unirsi l'uno col denti, le palle di fuoco, e altre cotali impres
l'altro: tanto è più nobile e più perfetto il sioni, che si veggono talvolta nell'aria. Da'va
misto e composto, che ne risulta in tanto, che pori si generano le nugole, le pioggie, la gra
quando la mistione e la complessione giungono gnuola, la neve, la brina, e altre simili a queste.
al sommo, si genera un corpo così perfetto, Alcune se ne generano ancora d'esalazioni e di
rimosse o refratte, o adeguate tutte le loro vapori insiememente, come le comete. E così le
contrarietà e imperfezioni, che egli diviene esalazioni, come i vapori sono di due generi; per
atto e capace a ricevere la più nobile forma, ciocchè si compongono ora di corpi semplici,
che sia sotto il cielo, cioè la forma dell'uomo, e talvolta di corpi misti: nel primo caso non
la quale è l'anima nostra intellettiva. Hanno sono differenti da loro elementi essenzialmen
dunque gli elementi non solo amore, ma odio, te, ma solo per accidente: nel secondo sono
e amano tanto più della materia prima, quanto differenti nell'un modo e nell'altro. L'aria, dove
eglino sono più nobili e più perfetti di lei. elle si fanno, si divide tutta in tre parti, cioè
nella prima, nella seconda e nella terza re
GR A D O T E R Z O gione. La prima, ovvero inferiore, la quale è
calda e umida di sua natura, comincia imme
I Misti imperfetti. diate dalla superficie dell'acqua e della terra,
e fornisce dove forniscono di riflettersi i raggi
Nel terzo ordine degli enti si pongono i Misti del sole, dal quale è ancora riscaldata. Ed è
imperfetti. Chiamansi imperfetti tutti que mi questa prima regione alcuna volta maggiore,
sti, i quali non hanno una forma sostanziale come la state, quando i raggi si riflettono più
propria, la quale dia loro l'essere; ma riten lontani, e alcuna volta minore, come il verno,
gono solamente le qualità e le forme di que quando i raggi si riflettono più dappresso.
gli elementi, dei quali sono composti, o per La terza, ovvero suprema regione, la quale è
meglio dire mescolati. E questi sono di due a noi l' ultima e al fuoco prima, ed è calda
maniere: perchè alcuni ritengono la forma di e secca come il fuoco, comincia immediate sotto
uno elemento solo, e degli altri nonnulla, o l'elemento del fuoco, e fornisce dove fornisce
molto poco; tanto che si possono chiamare il movimento del primo mobile, il quale tira
più tosto tinti o imbrattati di loro, che com seco il fuoco, cioè alle sommità de' più alti
posti o mescolati, quali sono le pioggie, le ru monti: e questa è sempre d'una medesima gran
giade, la cenere e altre cose così fatte. Alcuni dezza, e si suole dividere in due parti: nella
altri sono composti e compatti, per dir così, superiore, la quale è poco meno che fuoco,
di più elementi congiunti ed ammassati insie e nella inferiore, la quale è inen calda. La
me, i quali par bene che abbiano, ma vera seconda regione, la quale per lo essere ella
mente non hanno alcuna forma sostanziale, che tra l'una e l'altra di queste due, si chiama
sia loro propria, quali sono la gragnuola, la mezza, comincia dalla parte disopra, dove for
neve, la brina e altri cotali. E generalmente nisce la terza, e fornisce dalla parte disotto,
tutte le impressioni, che si fanno non pure dove termina la prima: e per la cagione teste
sotto la terra e nella sua superficie, come i detta, è alquanto maggiore il verno che la
fonti e molti di quelli, che si chiamano con state. Questa regione del mezzo ha le sue qua
voce arabica minerali e mezzi minerali, ma lità, secondo Aristotile, fredde e umide; il
ancora in tutta l'aria, sono e si chiamano mi che come esser possa, è più che difficilissimº
sti imperfetti: i quali perchè si generano di a potersi intendere; perchè se l'aria non è di
materia diversa, e si fanno in diversi luoghi, sua natura fredda, come vogliono molti, e tra
SULL' AMORE 233

su questi Galeno, ma calda e umida, onde le può cielo, e per conseguente fanno che l'aria non
venire la freddezza ? Dalla regione superiore si volge più in giro colla prima vòlta, cioè col
da no, conciossiacosachè ella sia calda; nè ancora corso e rivolgimento del primo cielo, e che
a dalla inferiore per la medesima cagione. E che conseguentemente in essa montagna, sopra detta
e sia fredda, lo dimostra il senso, al quale nes porta non si generavano più alterazioni, né
sono non può contrastare, ne debbe, perchè impressioni alcune, disse:
as in lei si generano le impressioni fredde, come Libero è qui da ogni alterazione
a è la gragnuola e la neve: e che ella sia umi Di quel che 'l cielo in sè da sè riceve i
da, lo dimostra il senso medesimo, perchè in Esser ci puote e non d'altro cagione.
ella si generano le nugole; e sebbene vi si Perchè non pioggia, non grando, non neve,
generano ancora le saette e i baleni, che sono Non rugiada, non brina più su cade,
impressioni calde e secche, le quali si generano Che la scaletta de tre gradi breve.
nella regione suprema, ciò senza alcun dubbio Nuvole spesse non pajon, nè rade,
le avviene per accidente. Per isciogliere que Non coruscar, nè figlia di Taumante,
sto dubbio e tor via questa veramente mala Che di là cangia sovente contrade.
gevolissima difficoltà, hanno molti molte cose Secco vapor non surge più avante,
detto: ma noi, perchè, oggi sono otto dì, se Ch'al sommo de tre gradi, ch'io parlai:
ne disputò copiosamente sopra questa stessa Dov'ha 'l Vicario di Cristo le piante.
cattedra, diremo solamente con brevità quello
che giudichiamo, se non più presso al vero, Questi versi, i tre primi de'quali non pare
almeno più discosto dal falso. Diciamo dun che siano stati intesi da alcuno degli spositori,
a que, che le cagioni di cotale frigidità, secondo pare a me, che non solo imitino, ma adeguino,
anzi vincano, come avemo dimostrato altrove,
rº l'eccellentissimo filosofo, messere Lodovico Boc
it radiferro, mio onoratissimo precettore, sono que leggiadrissimi versi di Lucrezio, nel prin
lº due: una privativa e l'altra positiva. La pri cipio del terzo libro, tratti dal sesto dell' U
lissea:
tº vativa è, che ella, essendo nel mezzo, è lontana
cosi dal movimento del cielo dalla parte diso Apparet Divum numen, sedesque quietae,
pra, come dalla reflessione de'razzi dalla parte Quas neque concutiunt venti nec nubila nimbis
disotto: onde non può essere, nè da quello, nè Aspergunt, neque nix acri concreta pruina
g da questa riscaldata. Ma perchè le cagioni priva Cana cadens violat, semperque innubilus aether
º live, non essendo le privazioni natura nessuna, Integit et large diffuso lumine ridet.
giº non operano cosa alcuna, bisogna trovare una Di queste medesime alterazioni, favellò an
"one positiva; la quale è questa, che come cora nel ventottesimo Canto, per bocca della
dalla terra s'elevano molte esalazioni calde e Contessa Matelda, volendo mostrare che il
secche, così dall'acqua s'elevano molti vapori
ſºldi e umidi. Le quali esalazioni e i quali vento, il quale pareva che traesse nel Paradiso
terrestre, dove fu posto Adamo, non era esa
Vºlºri, mentre che tirati da razzi del sole sal
lazione, nè vapore, ma il movimento dell'ul
º all'ultima regione, sono parte ritenute timo cielo ; onde le frondi degli alberi per
º li, e parte scacciati. Le esalazioni per lo tale moto, non vento, non si poteano volgere,
Pº, perchè sono conformi a lei, sono ricevute, se non da uno de'lati, cioè da oriente verso
"apori, perchè sono contrari, sono scac occidente; come si volge per suo naturale
ºi; e così sono costretti tornarsene indietro, corso l'ultimo cielo. Disse dunque:
"scenderebbono insino donde partirono : ma
il ine della prima regione dell'aria, essendo Perchè 'l turbar, che sotto da sè fanno
º contrari ancora a lei, non li vuole ri L'esalazion dell'acqua e della terra,
º, ma gli scaccia e li ripigne in su. Il Che quanto posson dietro al calor vanno,
Pºche eglino si vanno aggirando continua All'uomo non facesse alcuna guerra,
" nella seconda regione: e perchè sono Questo monte salì ver lo ciel tanto,
frddissimi a predominio, come dicono i filo E libero è da indi ove si serra.
ancora che siano nati di caldo, la ren
sofi, Or perchè 'n circuito tutto quanto
" in gran parte frigidissima. E se alcuno L'aer si volge colla prima volta,
"i Se l'essere fredda le è cosa fuori Se non gli è rotto il cerchio d'alcun canto i
la natura sua: dunque le è violento: dun In questa altezza, che tutt'è disciolta
Nell'aer vivo, tal moto percuote,
" non può essere perpetuo; si risponde, che
ella non è alterata tutta, ma in gran parte: E fa sonar la selva perch'è folta.
"e ciò non le è violento semplicemente, ma Quanto sia grande e perfetto l'amore di que
ºdo un certo che, e cotaie violento non sti misti, ancora che imperfetti, è manifesto
“"onveniente che sia perpetuo. pur troppo non solo per le pioggie che cag
queste impressioni ed alterazioni meteo giono si ruinose, tosto che sono generate, per
" cioè sublimi, e che si generano nelle andarsene a ritrovare il luogo loro: ma ancora
eteree sopra il capo nostro, favellò e molto più per li tremuoti. E non si ved'egli,
º divinamente, come suole nel ventune che l'acqua caduta in terra, si ristrigne subi
" Canto del Purgatorio; dove volendo mo tamente in se e si rappallozzola, non tanto
per assomigliarsi alla tondezza del suo tutto,
e, che la porta, d'onde s'entra nel Pur
ºiº, era più alta della sommità degli altis quanto perchè la virtù unita ha maggior forza,
simi
e per conseguente può resistere assieme
- - - - -

º monti, i quali rompono il movimento del o


VARCHI V. 1.
234 LEZIONE OTTAVA
a checchè offendere la potesse e durare più corpi umani, così se ne possono generare al
lungamente nel suo essere, il quale è da tutte cune ſiate nell'aria. E sebbene Aristotile si
le cose, sopra tutte le cose, per l'amor che fece beffe nella Meteora d'Anassagora, il quale
hanno a sè stesse, desiderato ed avuto caro ? non solamente disse, ma predisse, che doveva
cadere dal cielo una pietra, dicendo che ella
G RA D O QUARTO non v'era nata, come affermava Anassagora,
ma stata portata da forza di venti, ed era ca
I misti perfetti. duta, quando uno de venti contrari era rimaso
perditore; egli fece ciò, perchè dicevano co
A'misti imperfetti succedono nel quarto luogo tale pietra essere grandissima, e come racconta
i perfetti, che sono quelli, i quali, secondo i Plinio nel secondo libro, d'una carrata. Non
migliori filosofi, oltra la complessione che ri è già da credere, che si possano generare nel
sulta in loro dalla mistione degli elementi, di l'aria gli animali perfetti, come vogliono al
che sono composti, hanno una loro propria cuni: onde Averrois, quel grandissimo Arabo,
forma sostanziale, come si vede nelle pietre ad uno, che gli disse d'aver veduto piovere
preziose e in tutte le maniere e miniere dei un vitello vivo dal cielo, rispose che egli non
metalli, i quali nascono tutti di zolfo, come era piovuto, ma caduto. Conchiudiamo dunque
d'agente e di padre, e d'argento vivo, come essere verissimo, che i misti perfetti tra tutte
di paziente e di madre. E che nelle pietre le cose insensibili e per conseguenza morte,
siano tutti e quattro gli elementi, o tutte e hanno amore, se non più degno, meno igno
quattro le virtù e qualità loro, è manifestis bile degli altri. E chi non sapesse provare ciò
simo per sè medesimo; perchè come potreb altramente, provi che abbiano odio, come si
bono elleno essere sì dure, quanto si vede nei vede tra la calamita e l'aglio, ed avrà l'in
diamanti, se non avessero della terra ? come tento suo: non si trovando odio nessuno, il
sarebbono si chiare, se non tenessero d' acqua? quale in su qualche amore fondato non sia.
Come si traslucide e trasparenti, se non par
tecipassero d'aria? e come finalmente avreb GR AD O QUINTO
bono il lustro e luccicherebbono, come fanno,
se in loro non fosse del fuoco? E il medesimo Le piante
possiamo dire de metalli, tra quali, quanto
l'oro è più perfetto, tanto l'amore e l'amici Tra le cose aventi l'anima sensitiva e le
zia degli elementi, onde egli è composto, è mancanti d' ogni anima, sono nel quinto grado
maggiore e migliore. E che eglino abbiano, oltra le piante, cioè l' erbe e gli alberi; sotto i quali
la complessione, nata in loro dalle prime qua comprendiamo i frutici. Gli arbori senza dub
lità degli elementi, un'altra forma loro pro bio sono più degni dell'erbe e de'frutici, e
pria, il che alcuni niegano, si può provare tra gli arbori medesimi, se ne trovano alcuni
così : Quelle cose, le quali hanno diverse forze di tanta perfezione, che pare in un certo modo,
e diverse operazioni, hanno forme e nature che s'accostino alla natura degli animali, ed
diverse, e in somma sono differenti di spezie: alcuni altri, per lo contrario, di tanta imper
i metalli hanno diverse virtù ed operazioni : fezione, che non si può discernere, se sono
dunque hanno diverse forme e mature, e in radici o metalli. Hanno l'anima vegetativa,
somma sono differenti di spezie. E che le gem mediante la quale si nutriscono, crescono e
me, o pietre preziose, abbiano amore, non do generano cosa a loro somigliante. Onde Ari
vrà gran fatto negare alcuno di coloro, i quali stotile, sebbene non le chiamò animali, come
le credono si possenti, che facciano amabile fece alcuna volta Platone, perchè non sentono,
chiunque o le porti in dito, o le tenga ad nè si muovono di movimento locale, ne hanno
dosso. Ma qual maggiore, qual più certo, qual il destro e il sinistro, ma solo il disopra e il
più meraviglioso, non dico segno, ma miracolo disotto, le chiamò nientedimeno animale o ani
d'amore, che quello che porta il ferro alla manti; il che non vollero fare gli Stoici al
calamita e la calamita al ferro? Del quale, contrario di coloro, i quali, dando loro il sen
quanto è più nascosa ed occulta la cagione, timento, le facevano più nobili degli animali,
tanto è più aperto e manifesto l'effetto. Non dicendo che esse aveano generalmente più lun
vediamo noi il ferro muoversi verso la calamita ga vita di loro, come si può vedere chiarissi
e la calamita ancora verso il ferro, ancora che mamente in molti, e massimamente nella palma
fra loro un grossissimo porfido tramezzandoli, e ne' cipressi. Il che avviene loro, non per lo
si interponga, come se avessero e spirito e essere più degne, ma per altre cagioni che
gambe? Tutti i misti perfetti, come tutte l'al sono fuora del proponimento nostro. Intorno
tre cose, si muovono generalmente, e vanno a che per ora basta sapere, che tutte le cose
a dirittura a trovare i loro luoghi con incre animate di qual si voglia anima, sono più no
dibile celerità, e con incredibili forze s'op bili e più perfette di tutte le inanimate, e
pongono a qualunque cerca o disfarli, o di per questa cagione hanno amore, non solamente
struggerli. Ne è meraviglia, essendo vero, se più degno e più perfetto, ma ancora più ma
non in tutto, in parte, quello che raccontano nifesto: e il medesimo diciamo dell'odio. Non
non solo gli altri scrittori, ma gli storici stes amano le piante non pure sè medesime, come
si. cioè, che alcuna volta piovano delle pietre: tutte l'altre cose, ma ancora la terra come
perciocche, come se ne generano talvolta nei loro madre, e il cielo come loro padre ? E
SULL'AMORE 235
non si vede egli, con quanto amore abbracciano con quello esempio volgarissimo della saetta,
le viti gli olmi e con quanto odio fuggono le la quale va dirittamente a ferire il bersaglio,
medesime i cavoli? Tra le mortine (1) e i mela non per sua virtù propria, ma in virtù del
grani, non bisogna che sia conformità e con l'arciere che la saetta. Avendo dunque la na
venienza grandissima, poichè v'è grandissimo tura fatto le piante, nelle quali non è distinto
amore? Le cagioni delle quali cose, riferiscono il maschio dalla femmina, e volendo fare nel
molti agli influssi celesti e alle proprietà occulte. sesto grado gli animali bruti, ne' quali oltra
Ma perchè, secondo i Peripatetici, non si con cotale distinzione e oltra tutte le perfezioni
cedono cotali proprietà, è necessario cercare che si trovano nelle piante, si ritrovasse an
d'altre cagioni; il che alla materia presente cora il sentimento, il movimento locale ed il
non s'appartiene. E qui, piacevolissimi e pa destro e sinistro; e parendole questo troppo
zientissimi Ascoltatori, con buona licenza di gran salto, fece nel mezzo, tra le piante e gli
vostre benignissime Signorie, porrò fine, es animali, alcuni viventi: perchè ancora le piante
sendo già di buona pezza passata l'ora, così si dicono avere la vita, come mostrò Dante
alla fatica e stanchezza mia, come al disagio e quando scrisse: -

fastidio vostro, riserbando la dichiarazione degli


Come per verde fronda in pianta vita (1).
altri cinque gradi degli Enti, alla domenica che
verra» ed altrove quando chiamò le quercie vive tra
vi (2). I quali viventi non fossero, nè del tutto
piante, nè del tutto animali, ma mezzi tra gli
uni e l'altre: i quali i Greci componendo, se
condo la felicità della lor lingua, due nomi in
PARTE SECONDA sieme, chiamarono Zoofiti, cioe animali e piante,
come se noi dicessimo animali piante, o ve
ramente piantanimali. Tali sono le spugne ma
rine ed alcuni altri, i quali propriamente non
G R A D O S E S T O hanno soltanto quel sentimento, senza il quale
non si può vivere, cioè il tatto, ma largamente
Gli animali bruti. hanno ancora il gusto e l'odorato. E per mezzo
Le cose della natura sono ordinatissime tutte.
di questi trapassò la natura agli animali per
fetti, i quali hanno sangue e si generano, o
E per ciò disse il Filosofo, che la natura non mediante il congiugnimento del maschio e della
salta, cioè non trapassa da uno estremo a un femmina, o di materia putrefatta e corrotta,
altro, se non per lo debito o per li debiti Degli animali si possono fare moltissime divi
mezzi. E perchè la natura non intende e non sioni; ma noi, non ricercando la materia no
conosce cosa nessuna, e opera tutto quello stra più oltre, diremo solamente che alcuni
che ella opera senza sapere che si faccia, e sono aerei, alcuni marini ovvero acquatici, ed
opera necessariamente, cioè, non può non ope alcuni terrestri: e tutti qualunque siano, non
rare, ogni volta che l'agente e il paziente sono si generano e non albergano, se non in due
in debita disposizione e distanza: quinci è che elementi soli: in mare ed in terra, benchè
il fuoco arde ed abbrucia, sempre che impe alcuni, i quali perciò si chiamano grecamente
dito non è, tutte le cose combustibili, cioè che pirausti, si dicono generarsi e vivere nel fuoco
di loro natura sono atte ad abbruciare. E di
elementare, non nel nostro, nel quale vive la
qui nacquero due dubbi; l'uno, come non in salamandra, e non è veramente fuoco. E nel
tendendo e non volendo mai la natura male
mondo nuovo, tra l'altre infinite maraviglie,
alcuno, ma sempre bene, il fuoco naturalmente non conosciute dagli antichi, s'è ritrovato nel
abbruci e consumi ciò che egli può : al che l'isole delle Moluche, sotto l'equinoziale, un
si risponde agevolissimamente, che il fuoco non uccello chiamato da quelle genti di que paesi
abbrucia per far male, operando tutti gli agenti, Manucodiata; il quale solo di tutti gli altri,
tutte le cose ad alcuno fine, ed essendo ogni contra la sentenza d'Aristotile, è senza piedi:
finc, come fine, non che buono, ottimo ; ma e solo si genera, si nutrica e abita sempre
per convertire in sè e nella natura sua le cose nell'aria: ha il corpo e il bccco quasi come
combustibili, e conseguentemente mantenersi e la rondine: ma le penne cosi dell'ali, come
conservare il suo essere, il più che egli può. della coda molto maggiori, piuttosto a guisa
E questo è senza dubitazione il principale in d'aquila o di pavone, benchè senza gli occhi,
tendimento, dal quale però nasce, ma per ac che di sparviere: e mai non si vede, se non
cidente, la distruzione ed il disfacimento delle quando, essendo morto nell'aria, cade giù in
cose combustibili. L'altro e, come la natura, terra, o nel mare.
non conoscendo, possa ordinare, dicendo Ari Ora, comunquemente si sia, tutti gli animali,
stotile, che l'ordinare è cosa da uomo saggio: o terrestri, le spezie de'quali sono quasi in
al che medesimamente è agevolissima la ri
sposta, dicendo ciò farsi da lei, non come da (1) Purg. Canto XVIII.
lei, ma come retta e guidata da Colui che (2) Siccome neve tra le ricettari
regge e guida tutte le cose; come si dimostra Per to dosso d'Italia si congela,
Soffiata e stretta da li centi schiavi
Purg. Canto XXX. – Dosso d'Italia chiama qui Dante
(1) Mortina e mortine suona lo stesso che mortella. (M.) gli Apcnuiui. (M.)
236 LEZIONE OTTAVA
finite, o marini, i quali sono, se non più per curio, il tre volte massimo (1), che l'uomo è
fetti, certo di più spezie e maggiori, e per un grandissimo miracolo. Ed è gran cosa a
conseguenza di più lunga vita, o veramente pensare, che in un mondo si picciolo capano
aerei, hanno così l'amore, come l' odio tanto tante e così gran cose; anzi che egli o sia, o
maggiore e più degno delle piante, quanto possa essere tutte le cose: conciossiachè me
sono ancora più perfetti. E ciò non solo verso diante il senso possa essere tutte le cose sen
sè medesimi, cercando tutte le cose a loro gio sibili, e mediante l'intelletto tutte le intelli
vevoli, e tutte fuggendo le nocevoli, ma an gibili. Nè si può dubitare che tutte le cose
cora verso i figliuoli, e verso le loro spezie mortali siano fatte a cagione e per benefizio
medesime: e quello che è più, verso le spezie di lui, dacchè sa che tutte le cose men buone
diverse, come si dice, che il delfino ama l'uo e meno perfette sono fatte, come dice il Filo
mo, ed il basalisco l'odia tanto, che solo guar sofo nella Politica, per le cose migliori e più
dando, l'uccide. Ed in alcuna dell'Isole Nuove, perfette. E non dice il medesimo Filosofo nel
si ritrovano serpenti di terribilissima vista, i primo della Scienza Divina, che la natura me
quali amano i fanciulli guatandoli fisamente, desima è alcuna volta serva e ancella degli
come si dice del ramarro. E non s'è egli tro uomini ? Ma che dico io le cose mortali ? Le
vato de'cani, i quali per lunga consuetudine immortali ancora e i cieli stessi servono all'uomo,
si sono domesticati e accompagnati co' lioni, e se non principalmente, almeno secondariamen
de'lupi cogli agnelli? Amano dunque tutti te. Perchè tutte e sette l'intelligenze muovo
gli animali o terrestri, o marini, o aerei che no i loro orbi, principalmente per imitare la
essi si siano, come ne dimostra quella leggia bontà della prima, onde elleno dipendono, co
drissima stanza del reverendissimo Cardinale me da cagione efficiente, finale e formale: poi
Bembo:
secondariamente per le cagioni delle cose in
feriori, che tutte hanno l' essere e il conser
Pasce la pecorella i verdi campi,
E sente il suo monton cozzar vicino: varsi da loro, e per conseguente degli uomini,
i quali sono, come io ho detto, il fine di tutte
Ondeggia, e parche'n mezzo all'acque avvampi loro.
Colla sua amata il veloce delfino :
Per tutto ove il terren d'ombra si stampi, Ma quello che èè il maggior miracolo di
tutti i miracoli, è che l'uomo mediante gli
Sostien due rondinelle un faggio, un pino,
abiti delle virtù e delle scienze, può copulare
e quello che segue. Il medesimo ne dimostrò, l'intelletto possibile coll'agente, cioè fare che
con non minore leggiadria, Lucrezio nel prin siano un medesimo, e conseguentemente che
cipio del suo primo libro con que versi vera egli intenda senza discorso, e cosi sia tutte le
mente lucreziani:
cose non più in potenza, ma in atto, non al
Mam simulac species patefacta est verna diei tramente che le intelligenze stesse. E in que
Et reserata viget genitabilis aura Favoni; sta copulazione consiste, secondo quel non mai
bastevolmente lodato Arabo Averrois, cioè, fi
Aeriae primum volucres te, Diva, tuumque
Significant initum perculsae corda suavi. gliuolo di Rois, chiamato altramente Alulide Ro
Inde ferme pecudes persultant pabula loeta, saceo (2), l'ultima perfezione, e per conseguente
E rapidos tranant amneis: ita capta lepore, la suprema felicità e beatitudine umana; poi
Illecebrisque tuis omnis natura animantum chè in ella si vede, s'intende e si fruisce l'ultimo
Te sequiturcupide quo quaque inducere pergis. bene intuitivamente ea faccia a faccia. Le quali
tutte cose sono state dette da me così breve
Denique per maria ac montes fluviosque rapaces,
Frondiſerasque domos avium, camposque vi mente, perchè dimostrano tutte insieme e cia
renteis, scuna di loro, che nella spezie umana si tro
Omnibus incutiens blandumperpectora amorem, va il maggiore e il migliore amore, che tro
Bfficiº, ut cupide generatim soecla propagent. vare si possa in cosa alcuna sotto il cielo. Per
che l' uomo solo, tra tutte le creature o mon
dane o celesti, ha l'arbitrio libero, ed è ca
G RA D O S E TT I M O pevole delle virtù e delle scienze: mediante
le quali egli può, come io ho detto pur teste,
Gli Animali razionali. copulare l'intelletto possibile e l'agente, e
divenire quasi Dio. E per questo diceva quel
Il fine di tutti gli enti di questo mondo sot medesimo Arabo, che un uomo che sappia e
tano, chiamato da filosofi la spera delle cose uno che non sappia, sono equivoci, cioè si
attive, cioè che fanno e delle passive, cioè che possono bene chiamare uomini, ma non sono,
sono fatte, è senza alcuna dubitazione nel set
timo ordine, l'uomo. Onde la natura fatto che (1) Intende Mercurio Trismegisto, veneratissimo in Oriente,
ella ebbe l'uomo, trovandosi al sommo della come autor primo di tutta la sapienza egizia. Alcuni de Pa
scala, e non potendo salire più su nel mondo dri della Chiesa Cristiana, e fra gli altri S. Cirillo Alessan
elementare, si fermò. E non dice anco la sacra drino, hanno citato qualche tratto delle opere attribuite a
Bibbia, che Dio, fatto che egli ebbe l'uomo, questo antichissimo filosofo. (M.)
si riposò º E di vero l'uomo tra tutte le cose (2) Qui il nostro buon Varchi non si chiarisce gran fatto
profondo in erudizione arabica. Il vero nome di Averroe e
generabili e corruttibili ha il più nobile e il Rosed Ebn Abulvalid Mohammed, e ſu figlio non di Rois,
piu perfetto corpo, e la più perfetta e più no ma di Ahmed di Cordova. – Vedi il Dizionario Storico
bile anima che essere possa. È bene disse Mer l degli autori arabi del famoso Giambernardo de Rossi. ( M.)
SULL'AMORE
237
perchè hanno solamente il nome comune, ma chè non sono sensibili, cioè non si possono
non la sostanza. E il gran Filosofo diceva nella comprendere con alcuno sentimento, e per
Politica, che come l'uomo buono è il migliore conseguenza non sono intelligibili: conciossia
animale che sia: così il reo è il più cattivo: che l'intelletto nostro non può intendere cosa
e l' essere l'uomo o buono, o reo, viene, co alcuna, la quale non sia nella virtù fantastica,
me tutti gli altri o beni, o mali, solamente ovvero immaginativa, e nella fantasia non può
dall' amore. essere cosa alcuna, la quale non le sia stata
porta da alcuno de'cinque sentimenti: si ri
G RA D O O TT A VO sponde, che di tutti i cieli non sono sensibili,
se non le stelle, le quali sono la più densa
I Corpi celesti. parte del suo orbe. Ma perchè le stelle non
si movono da loro stesse, essendo ne' loro orbi,
Le cose generabili e corruttibili, che sono ovvero cieli quasi come nocchj o nodi in ta
tutte quelle del mondo inferiore, sono diverse vole, è necessario che siano portate da loro
e differenti dalle ingenerabili e incorruttibili, cieli, ovvero orbi: e così si prova, non col
che sono tutte quelle del mondo superiore : senso, ma colla ragione mediante il senso, che
e nondimeno si congiungono insieme e s'uni i cieli sono. E se non fossero, e non amassero
scono di maniera, mediante l'amore, che di l'uno l'altro, che cosa sarebbe? O donde
tutte si fa un animale perfettissimo, vivissimo arebbero l'essere ed il conservarsi tutte le
e intendentissimo. E perchè l'uomo è in mezzo cose? Ora se i cieli col movimento e col lu
dell'une e dell'altre, conciossiachè quanto al me loro generano e conservano tutte le cose
corpo egli sia generabile e corruttibile, e inferiori, chi sarà colui che nieghi, che eglino
quanto all'intelletto ingenerabile ed incorrut non le amino? Non amano i padri i figliuoli ?
tibile: quinci è, che dopo l' uomo, cloè l'u- non le cagioni i loro effetti ? non gli artefici
mana spezie, seguitano nell'ottavo ordine i
le loro opere? E chi dubitando dicesse: dun
corpi celesti. I quali non sono composti di ma que i corpi celesti, che sono tanto nobili, e
teria e di forma, come e nel modo che sono così perfetti movono ed influiscono per cagio
tutti gli altri, e conseguentemente sono inge ne delle cose mondane tanto ignobili e così
nerabili e incorruttibili, non solamente secondo imperfette ? Rispondiamo, che fanno ciò non
il tutto, come sono i quattro elementi, ma principalmente ma secondariamente, come s'e
eziandio secondo le parti. Sono questi corpi detto di sopra: perchè prima cercano di ubbi
puri e semplici, immuni ed esenti da ciascuna dire e di servire al sommo bene, che è la pri
alterazione: non sono nè gravi, nè leggieri, ma intelligenza: e poi per imitare la virtù
non caldi, non freddi: hanno il più nobile e ed agguagliarsi quanto possono alla bontà di
semplice moto che sia, cioè il locale e circo lei, rivolgono l'amore loro verso le cose di
lare, la più nobile e semplice figura, cioè la quaggiù, il quale è tanto maggiore e più per
tonda, perchè sono tutti sferici essenzialmente, fetto di tutti gli altri amori detti insino qui,
non come gli elementi, che sono sferici per quanto essi sono maggiori e più perfetti degli
accidente: hanno la più nobile e semplice altri corpi.
qualità, cioè il lume. Girano sempre, e sem:
pre stanno fermi, perchè mai non escono di G R A D O N O N O
luogo. Sono secondo Platone e Aristotile otto
appunto i cieli; quelli de sette pianeti, ed il L'Anime de'cieli.
cielo stellato: e ciascuno è tanto più nobile e
più perfetto, quanto più s'avvicina all'ottavo, Infino a qui in tutti gli otto gradi passati
perfettissimo e nobilissimo di tutti gli altri. Du s'è favellato sempre di corpi, o di cose cor
ibitano alcuni se vivano, non considerando, che poree, le quali sono composte necessariamente
se non avessero vita, non potrebbono essere di materia e di forma, ancora che la materia
producitori, come sono, di tutte le cose cosi de corpi celesti non sia della medesima ra
animate, come inanimate, e che nessuno ba gione, che quella de corpi sensibili e terreni:
cherozzolo si ritrova tanto vile, il quale non ma ora salendo al nono grado, avemo a trat
fosse molto più degno di tutti loro. Hanno cia tare di forme semplici, astratte e separate da
scuno la sua anima, cioè la sua intelligenza, ogni materia, non solamente intelligibile, come
la quale, secondo i migliori filosofi, non gli le matematiche, le quali, tutto che si possono
informa, cioè non è la forma loro, e in som immaginare, non però possono essere senza
ma non dà loro l'essere, ma gli assiste, cioe dà materia sensibile. E queste si chiamano co
loro il movimento non altramente che il noc munemente intelligenze, le quali sono di due
chiere nella nave. E benchè dell' intelligenza ragioni, celesti e sopra celesti. Delle celesti
e del cielo, ovvero orbe suo si faccia una cosa s'aspetta favellare a due artefici; perche il
sola, più veramente una, secondo alcuni, che provare che elle sono, non cadendo elleno
non si fa della materia e della forma: nondi sotto il senso, è ufizio del filosofo naturale:
meno si possono intendere separati l'uno dal il che egli fa mediante il moto; ma il dichia
l'altro, cioè il corpo senza l'intelligenza, come rare quello che elle sono, s'appartiene al fi
facciamo noi al presente: il che i filosofi chia losofo soprannaturale, ovvero divino, cioè al
mano seclusa intelligentia, cioè rimota l'intelli metafisico. Delle sopracelesti tratta il teologo,
genza. E se alcuno nega “e questi corpi, per e perciò noi, lasciate le sopracelesti, che sono
238 LFZIONE OTTAVA

proprie della santissima teologia, tratteremo scuna il suo cielo, cioè siano la sua forma e gli
delle celesti, secondo la filosofia Peripatetica, diano l'essere. La qual cosa, secondo i Peripa
non ci parendo che si debba, quando bene si tetici, non è vera, perchè elle assistono sola
potesse, mescolare l'una coll'altra, essendo mente, cioè non danno loro l'essere, ma il
la teologia inspirata da Dio, e la filosofia tro movimento. E perchè molti dicono, che le in
vata dagli uomini. telligenze movono i loro orbi per modo di de
Dico dunque che le sostanze astratte e se siderio, cioè, come le cose amate movono le
parate da ogni materia, le quali sono primi amanti, e molti, che elle movono effettualmente
perfettissimi enti, e si chiamano ora anime e come vere motrici: noi crediamo, che l'una
de'cieli, e ora motori celesti, sono nè più nè e l'altra di queste opinioni sia verissima. Di
meno quanti sono i cieli o veramente gli orbi, ciamo bene, che in movendo, non si movono
perchè ciascuna intelligenza muove un orbe. E nè per sè, nè per accidente: il che non dee
perchè gli orbi, secondo gli astrologi antichi, parere strano a chi sa, che elleno sono, come
erano solamente otto, il cielo stellato e gli al s'è detto, fuora di luogo. Dubitasi qual sia la
tri de sette pianeti, però, secondo Aristotile, cagione e il fine, perchè movano, e si rispon
non sono più che otto le intelligenze; e se de principalmente per cagione di loro stesse
più orbi si trovassero, come si trovano secondo e per lo fine universale, cioè per assomigliarsi
gli astrologi moderni il nono ed il decimo, più quanto sanno e possono il più al Sommo Bene,
intelligenze sarebbe necessario di porre, come e imitare la sua bontà, e secondariamente per
fece Dante, quando favellò della Fortuna. E queste cose inferiori. Onde disse Aristotile nel
a chi dimandasse, dove queste beate e divine principio della Meteora, che questo mondo
menti si ritrovano, si risponde, che elle non inferiore era necessario che si continuasse col
sono nè in luogo, nè in tempo, ma fuora del superiore, perchè potesse ricevere le virtù e
l'uno e dell'altro; sebbene, essendo ciascuna gli influssi celesti, e in somma potesse essere
la perfezione del suo orbe, ella si dice essere retto e governato da lui. Il nome d'intelli
in tutto lui, ma più nella circonferenza estre genze e d'intelletti mostra che elle intendono:
ma, perchè quivi apparisce maggiormente la ma l' intendere loro è altramente che il no
sua virtù, essendovi il moto più veloce. Sono stro non è; e quello che pare più meraviglioso,
ciascuna differente l'una dall'altra, e quella è che quanto ciascuno di questi intelletti su
che è di mano in mano più vicina all'ottavo premi intende manco cose, tanto è più per
cielo stellato, è più nobile e più perfetta del fetto. Onde Saturno, perchè non intende se
l'altra, perchè le cose superiori e contenenti non la prima intelligenza e sè stesso, è più
sono come forme, e conseguentemente più de perfetto, che Giove e ciascuno degli altri: e
gne, che le inferiori e contenute. Onde la Luna la Luna, perchè intende sè e tutti gli altri so
per lo essere ella l' ultima e la più bassa, è pra sè, è se non più ignobile, certo meno no
meno perfetta e meno nobile di tutte l'altre. bile di tutti gli altri. E perchè le cose eterne,
Onde Alessandro Afrodiseo, quel grandissimo come non ebbero mai principio, così non deb
e verissimo Peripatetico, soleva dire, che tale bono avere mai fine, affermano non pochi, che
era la Luna verso le cose celesti, quale la le intelligenze non hanno cagione efficiente,
Terra verso gli elementi, e la chiamava la terra cioè chi le facesse: il che è falsissimo, perche
celeste. Ben è vero che alcuni vogliono (e di tutte furono fatte in tempo, cioè causate dal
questo parere sono ancora io), che questa re primo intelletto, e tutte da lui dipendono, co
gola fallisca nel Sole, il quale, sebbene è sotto me da cagione non solo efficiente, ma finale
i tre superiori, Saturno, Giove e Marte, non e formale. Ma il volere disputare ciascuna delle
però è inferiore a loro di nobiltà, anzi molto cose, che io ho dette semplicemente e risolu
superiore, come ne dimostrano le operazioni tamente, ricercherebbe lunghissimo tempo:
sue, essendo egli, come disse Dante, basti per ora di sapere, che sebbene di que
ste sostanze immateriali, che sono e si cnia
Lo ministro maggior della natura (1): mano cagioni ora superiori, e quando seconde,
anzi perchè egli, come disse il medesimo filo si potrebbono intendere alcune cose: come che
sofo piuttosto che poeta, anzi filosofo e poeta in loro non è nessuno accidente; che la loro
insieme: intellezione è la loro sostanza; che elleno non
discorrono componendo e dividendo, cioè af
E su e giù del suo lume conduce (2); fermando e negando: nondimeno l'intelletto
Fu posto in mezzo dell'animale grande, co umano è, come testimonia Aristotile, nell'in
me il cuore in mezzo dell'animale piccino. E tendere le cose astratte, come l' occhio del
sebbene questi sette pianeti si chiamino stelle pipistrello nel voler rimirare i raggi del sole.
erranti, cioè vagabonde, elle vagano bene mo La quale diſficoltà non procede già da loro,
vendosi, ora verso Settentrione, ed ora verso che sono intese in atto, ma dalla natura del
Austro, non uscendo però del Zodiaco ; ma l'intelletto nostro, che non intende, se non
non errarono giammai, ne mai erreranno. mediante i fantasmi, che sono le spezie delle
Credono alcuni, che queste menti superne i cose sensibili riservate nella fantasia; e le cosc
che si chiamano talvolta Angeli, informino cia astratte, non avendo materia, non producono
spezie. Ma per venire finalmente al proponi
(1) Paradiso, Canto X. mento principale, la perfezione delle intelli
(2) Purgatorio, Canto I V. genze consiste nello amore, mcdiante il quale
SULL' AMORE 239
amano, in un modo non conosciuto, nè da po- tali, anzi tutte le cose che si trovano in tutto
tersi conoscere da noi, sè primieramente e il º l'universo, sono assai meno che nulla verso
Primo Bene, e l'uno e l'altro: poi per acci lui, il quale è tanto perfetto da sè solo e senza
dente tutte le cose che sono generate e man l'universo, quanto coll'universo insieme. Laon
tenute da loro, mediante l'amore; del quale de, sebbene sarebbe il migliore tacitamente e
amore veramente divino favellò divinamente con secretissimo e santissimo silenzio adorarlo,
il cardinale Bembo nelle sue Stanze : nondimeno sforzati dal debito dell'uffizio no
stro e dalla promessione fattavi, ne ragiona
Amore è graziosa e dolce voglia,
remo alquanto, secondo che da lui medesimo
Che i più selvaggi e più feroci affrena: ci sarà conceduto. Perchè, che Dio sia (ancora
Amor d'ogni viltà l'anime spoglia, che Diagora il negò, e Protagora lo mise in
E le scorge a diletto e trae di pena :
Amor le cose umili ire alto invoglia, forse) è per sè stesso più che manifestissimo.
Le brevi e fosche alluma e rasserena: Perchè se Dio non fosse, il quale è quegli che
è, non sarebbe cosa nessuna. E oltra le ra
Amore è seme d'ogni ben fecondo,
E quel ch'informa e regge e serba il mondo. gioni de filosofi e dei teologi, niuna nazione
fu mai tanto barbara, che non credesse Dio
Però che non la terra solo e 'l mare,
essere, ancora che non sapessero quello che
E l'aere e 'l foco e gli animali e l'erbe, si fosse. E come io confesso, che in molte delle
E quanto sta nascosto, e quanto appare
Di questo globo, Amor, tu guardi e serbe: cose celesti non si può avere certa e fermis
sima dimostrazione, così niuno che creda ad
E generando fai tutto bastare
Con le tue fiamme dolcemente acerbe: Aristotile, può negare, che non sia meglio il
Ch” ancor la bella macchina superna sapere delle cose divine, ancora che poco e
Altri che tu, non volge e non governa. probabilmente, che delle terrene molto e di
Anzi non pur Amor le vaghe stelle mostrativamente; e aſfine d'essere più chiari
E'l ciel di cerchio in cerchio tempra e move; e più distinti, procederemo per capi.
Ma l'altre creature via più belle, CAPO PRIMO
Che senza madre già nacquer di Giove,
Liete, care, felici, pure e snelle,
Quello che Dio sia.
Virtù, che sol d'Amor discende e piove,
Creò da prima, ed or le nutre e pasce,
Onde 'l principio d'ogni vita nasce. La quiddità, cioè l'essenza e la natura, e in
somma la sostanza delle cose semplici e in
G R A D O D E C I M O
complesse, come le chiamano i loici, non si
può conoscere, se non mediante la definizione.
Le definizioni si fanno tutte del genere e delle
L'Ente degli enti. differenze: Dio è sopra tutti i generi e sopra
tutte le differenze: dunque la sostanza e la
Se Aristotile, il quale seppe tutto quello natura di Dio non si può conoscere. E forse
che umanamente può sapere un mortale; se
per questa cagione cercarono molti d'inten
Platone, il quale fu divino e insegnò ad Ari derlo per negazione, rimovendo da lui tutto
stotile ventitrè anni; se Socrate, il quale fu quello che egli non fosse, dicendo: Il primo
maestro di Platone e il miglior uomo del ente e il primo principio di tutti gli enti, cioè
mondo, e tutti coloro, i quali filosofarono ve di tutto l'essere, e insomma la prima sostanza
ramente, non dubitarono di confessare, che di ed il primo intelletto, il quale è prima cagione
Dio non si poteva sapere altro, se non che e ultimo fine di tutte le cose, non può essere
egli sapere non si poteva, nè da nessuno altro accidente: non può essere materia: non può
intelletto essere inteso, se non dal suo mede essere corpo: non può essere forma corporea,
simo; se Dante, il quale fu Dante, nell'ul o vero materiale: non può essere intelletto,
timo Canto del Paradiso disse, primamente nè intelligenza, nel modo che sono gli altri
mentre egli stava rimirando intelletti e intelligenze : e così di tutte l'al
. . . . . . . . . . . il raggio tre cose, che al primo ente non si convengo
Dell' alta luce che da sè è vera ; no. Ma perchè questa cognizione non può es
Da quinci innanzi il mio veder fu maggio sere perfetta, non dichiarando la quiddità, cioè
Che 'l parlar nostro, ch'a tal vista cede, quello che Dio sia, ma quello che egli non è,
E cede la memoria a tanto oltraggio , tentarono alcuni di definirlo più propriamente,
poscia quando ebbe giunto: e per cose più essenziali, dicendo, Dio essere
esso essere essente, ovvero esistente per sè
L'aspetto suo col valore infinito, medesimo, cioè non contratto o ristretto ad
continuò dicendo: alcuna natura, ovvero essenza, cioè non es
sente per participazione o dipendenza alcuna;
Omai sarà più corta mia favella, ma per sè proprio e contenente in se tutta la
Pure a quel ch'io ricordo, chè d'infante, perfezione di tutto l'essere. Dissero ancora, Dio
Che bagni ancor la lingua alla mammella, essere esso uno, esso buono ed esso vero: ma
che deono fare gli altri di minore sapere? e considerando lui essere non queste cose sem
tra gli altri, io che so nulla? Chi vuole inten plicemente, ma eminentemente, e sopra tutte
dere Dio, bisogna che sia Dio; e tutti i mor e cagione di tutte, dissero, Dio essere sopra
24o LEZIONE OTTAVA
esso essere, sopra esso uno, sopra esso buono l'altrui, le quali, se noi volessimo allegare e
e sopra esso vero. E altri dissero Dio non es. dichiarare tutte, non basterebbono parecchie
sere nè ente, ne uno, nè buono, nè vero: ma lezioni, non che l'ultima parte d'una sola.
essa essenza, essa unità , essa bontà ed essa Però diciamo che tutte le cose, oltra l'essere
verità, dal quale procedessero tutti gli esseri, loro sensibile, che è quello il quale hanno in
tntte le unità, tutte le bontà e tutte le verità. sè stesse, n” hanno un altro intelligibile, il
Dissero ancora Dio essere grandissimamente quale è quello che hanno nell'intelletto di
intelligente, anzi essa intelligenza grandissima chiunque l'intende: e quanto è più nobile quello
mente vivente, anzi essa vita: principio, mezzo intelletto che l'intende, tanto hanno esse più
e fine di tutti i principi, di tutti i mezzi e nobile l'essere intelligibile, il quale essere in
di tutti i fini, che furono, sono e saranno mai. telligibile è senza contrasto più perfetto del
E per ciò lo chiamarono massimamente inſini l'esser sensibile. Onde questa cattedra, per
to, o piuttosto essa infinità: e perchè l'infi cagione d'esempio, ha più nobile essere, prima
mito non si trova in atto, e denota imperfe nel mezzo, poi nel senso comune, poi nella
zione, eccetto che in Dio, e il finito perfezio fantasia, e da ultimo nell'intelletto di chi l'in
ne: però lo chiamarono massimamente finito, tende, che ella non ha in se medesima. Per
o piuttosto essa finità, e per conseguenza mas chè l'essere in sè medesima è sensibile e ma
simamente perfetto. E sebbene sono in lui teriale, e l'essere nel mezzo, nel senso comu
tutte queste cose, e tutte l'altre di tutto l'u- ne, nella fantasia e nello intelletto è intelli
niverso, delle quali egli è origine, fonte e ra gibile e immateriale. Conciossiacosache le sen
dice, è nondimeno semplicissimo e purissimo timenta ricevono le similitudini e i simulacri
atto: nel quale non è potenza e imperfezione delle cose chiamate da filosofi spezie spiri
alcuna: anzi esso è assoluta ed in tutti i modi tualmente, cioè senza materia: altramente, chi
perfettissima perfezione: perchè tutte le cose vede il fuoco si cuocerebbe, e chi l'acqua
che sono in lui, vi sono in modo, che elle s'immollerebbe. Queste medesime forme o spe
sono lui solo. E in lui solo solamente la quid zie, quando sono intese dall' intelletto della
dità e l'essenza sono una cosa medesima, senza Luna, hanno più nobile essere, che nell'intel
differenza nessuna: e solamente in lui solo non letto umano, e in quel di Mercurio più, e più
si trova composizione alcuna di nessuna ma in quello di Venere: e così di mano in mano
niera, come nell'altre intelligenze, le quali tanto, che nell'ultimo e primo intelletto, hanno
hanno tutte un certo che di composizione, es il più perfetto essere che possano avere. E que
sendo composte d'atto e di potenza, e tutte sto voleva significare il Filosofo quando disse,
dipendono da lui, come da cagione eſficiente, che tutte le forme erano in potenza nella prima
finale e formale, perchè la forma e il fine materia, e in atto nella prima forma, cioe in
nelle cose eterne sono una cosa medesima. Dal Dio. E così, sebbene Dio intende se solo, non
che segue, che chi dà il fine alle intelligenze, per questo non intende l'altre cose, anzi le
dà loro la forma; e chi dà la forma, e l'agen intende tutte in un modo tanto perfetto, che
te. Dio dunque solo è cagione senza cagione, nessuno può intendere, come ei le intende, se
e per conseguenza più nobile e più perfetto non egli stesso: perchè la scienza sua non viene
infinitamente, non dico di qual si voglia più dalle cose, come la nostra, e non ha per op
perfetta e più nobile intelligenza, ma di tutte posto la ignoranza, ma e cagione d'esse; e in
quante insieme. lui la scienza e l'essenza, l'intelletto e l'in
telligibile sono una cosa medesima, in un modo
CAPO SECONDO non saputo, nè da potersi sapere da noi a patto
nessuno. E però disse Dante, di cui non fu
Quello che Dio intenda. mai poeta, che più sapesse:
L'intendere è la più nobile e la più per Colui, lo cui saper tutto trascende (1).
fetta operazione, che si possa fare: onde co E se trascende il tutto, trapassa anco gl'intel
loro che levano l'intendere dal primo intel letti divini: dunque per l'argomento del mi
letto, lo privano della maggiore nobiltà e per nore trapassa anco gli uomini: dunque e me
fezione; e perchè l'intendere e in due modi, glio il tacere, che dirne, non dico poco, ma
o in potenza, come quando altri dorme, o in nulla; e imitare Dante, il quale in questa me
atto, come quando speculiamo; l'intendere desima sentenza, per questa medesima cagione
è nel primo intelletto nel secondo modo, in disse:

tendendo egli sempre senza intermissione nes oh quanto è corto il dire, e come fioco
suna. È ben vero, che Aristotile, trattando Al mio concetto ! e questo, a quel ch'io vidi,
questa quistione nel duodecimo della prima È tanto, che non basta a dicer poco (2).
Filosofia, al testo del commento 5 1 , dice che
il primo intelletto non intende se non se stes (1) Inferno, Canto VI1.
so: ma intendendo solo sè stesso, intende tutte (2) Paradiso, Canto XXX111.
le cose, che furono, sono e saranno. Il che,
come essere possa, dubitarono molti, e molto
furono discordi l'uno dall'altro; allegando
molte e diverse ragioni ed autorità, così per
difendere l'opinione loro, come per oppugnare
SULL'AMORE 24 i
to. Onde dottissima fu quella circonscrizione
CAPO TERZO di Dante:

Colui che mai non vide cosa nuova (1).


Come Dio muova e perchè.
Quanto al dubbio, se Dio ha provvidenza,
Credono alcuni, che il primo motore non e come, furono alcuni, come Democrito che 'l
muova, nè come forma perficiente formalmente mondo a caso pone, i quali la negarono in
il suo orbe, il che è vero; nè come forma tutto e per tutto, e nelle cose celesti e nelle
assistente, il che è falso. Perchè egli muove terrene ; onde Lucrezio, seguitando Epicuro,
il primo mobile e tutti gli altri cieli da oriente il quale fu ogni altra cosa che epicureo, scrisse
in occidente in ventiquattr'ore: non solamente que versi, tanto falsi, quanto belli:
come amato e desiderato, ma eziandio effet Quod si fam rerum ignorem primordia quae sint:
tualmente e come agente. E se alcuno dubi Hoc tamen ex ipsis caeli rationibus ausim
tando, dimandasse per qual cagione egli muo Confirmare, aliisque ex rebus reddere multis
ve, non avendo bisogno di cosa nessuna; si ri Nequaquam nobis divinitus esse paratam
sponderebbe, e secondo Aristotile, e secondo Naturam rerum, tanta stat praedita culpa (2):
Platone, perchè egli è buono; e chi è buono Alcuni altri vogliono che la provvidenza di Dio
non ha invidia; e chi non ha invidia, comu non sia se non d'intorno alle cose incorrutti
nica largamente i suoi beni a tutti coloro che
ne sono capevoli. Onde, come il Sole illumina bili, e che non passi il cielo della Luna. Altri
tutte le cose, ma non tutte lo ricevono in un
che ella si stenda ancora alle cose corruttibili,
non già negli individui, per la molta imperfe
medesimo modo; perchè ogni cosa che ne ri zione che in loro si ritrova, ma solamente se
ceve alcuna altra, la riceve secondo la natura
e capacità del ricevente, e non secondo la ca condo la spezie. Ora noi, per risolvere questa
pacità e natura di quello che è ricevuto: così lunghissima e difficilissima quistione, brevissi
mamente e agevolissimamente diciamo, che
il Bene di tutti i beni, largisce la sua virtù a
tutte le cose, ma non tutte sono capaci di
provvedere non significa altro, che indirizzare
le cose nell'ordine e fine loro, e l'eseguire
riceverla a un modo medesimo: ma chi più e
chi meno. Non è già cosa alcuna, nè si bassa,
cotale ordine, si chiama governare: del che
nè si vile, che non sia partecipe della sua gra segue necessariamente, che Dio provvegga e
governi tutte le cose, così terrene, come ce
zia, quanto ella ne può capere. Onde Arato lesti: e tanto in particolare, quanto in uni
da Giove cominciò il principio delle sue ope
re, ed il Cantor de bucolici carni scrisse: versale, in quel modo appunto, che egli le
intende e conosce; il quale è tanto eccellente
Ab Jove principium Musae: Jovis omnia plena. e sopra la capacità umana, che solo esso e
nessuno altro intelletto intendere lo può. E
E questo volle significare Dante, come dichia però cristianamente favellò il nostro cristianis
rammo altra volta in quel principio altissimo sino poeta e teologo, quando disse:
e veramente degno del Paradiso: State contenti, umana gente, al quia,
La gloria di Colui che tutto muove, Che se possibil fosse saper tutto,
Per l'universo penetra e risplende Mestier non era partorir Maria (3).
In una parte più, e meno altrove. Dalla previdenza e provvidenza di Dio, se
gue la predestinazione, della quale lasceremo
CAPO QUARTO determinare a sacri teologi, di cui ella è ma
teria propria, non volendo io esser uno di co
Se Dio provveda e in che modo. loro che vogliono
. . . . . . . sedere a scranna,
La cagione che fa che molti s'ingannino nel
l'intendere le cose soprannaturali e divine, è Per giudicar da lungi mille miglia
che eglino le giudicano secondo l'intelletto Con la veduta corta d'una spanna (4).
umano, il quale essendo in potenza, è con im
perfezione. Onde, dipendendo ciascuna sua (1) Purgatorio, Canto X.
(2) Purgatorio, Canto III. – I migliori testi hanno que
cognizione da fantasmi, e i fantasmi da' sensi, st'altra lezione nel secondo verso: Che se potuto aveste ve
non le può, essendo elleno libere da ogni mate der tutto. (M.)
ria, intendere perfettamente. E quello che l'in (3) Lucret de Natura Rerum, lib. III. – Il Vare
telletto comprende delle cose immortali, non dice, che Epicuro fu ogni altra cosa che epicureo, riferendosi
può esprimere lingua umana con parole mor all'opinione di quelli, i quali si studiarono di liberare questo
tali. Il perchè è necessario usare molte volte, filosofo dall'avere insegnata quella abbietta dottrina, che la
felicità ripone nel solo soddisfacimento de'sensuali appetiti, e
ora metafore ed ora modi impropri di favel nella perfetta noncuranza d'ogni non materiale idea. ( M.)
lare. Ecco, egli si dice, che Dio prevede tutte (4) Paradiso, Canto XIX.
le cose: prevedere significa vedere innanzi:
Dio, essendo tutte le cose in lui, anzi, essendo
egli tutte le cose, ed essendo fuori e sopra il
tempo, le vede tutte insieme a un tratto, in
un attimo medesimo, con una vista sola. E
così è presente a lui il futuro, come il passa
V Ali Clil V, 1. 3i
242 LEZIONE OTTAVA SULL'AMORE
sono moltissime non agevoli, nè disutili du
CAPO QUINTO bitazioni, noi per compimento di questa ma
ieria e più chiara intelligenza di sì alto piut
Se e quale amore è in Dio. tosto teologo, che poeta, non mancaremo di
dichiararle altra volta, o a bocca, o per iscrit
Se Dio intende, se Dio muove, se Dio pre tura, concedendoloci la Maestà dell'Altissimo,
vede e provvede, se Dio finalmente è sempli tutte quante.
cissimamente buono, intanto che tutte l'altre
cose, eccettuato lui, eviandio le intelligenze
stesse, chiamate da Platone gli Dii minori, si
possono a comparazione di Dio chiamare cat LEZIONE UNA
tive; nessuno non può, nè dee dubitare, non
che negare, che in Dio non solamente sia amore DELLA POETICA IN GENERALE
il più perfetto ed il più nobile che immagi.
nare si possa, ma che egli stesso sia tutto amo
re. Perchè l'amore di Dio è l'essenza di Dio:
l'amore di Dio è la cagione dell'essere, della IL pnt McIpio DeLLe LezIoNI DI BENEDETTo VAR
bontà e della perfezione di tutte le cose; di cr11 sopra A 11, CANzoN1ERE DI MESSER FRANcesco
maniera che se l'amore di Dio non fosse, non PETRARCA, NEL QUALE si TRATTA DELLA PoETICA
sarebbe nè perfezione, nè bontà, nè cosa nes 1N GENERALE, RECITATA DA LUI PUBBLICAMENTE
suna in luogo veruno. Di tutti gli affetti umani, NELL' Accan EMIA FIor ENTINA LA seconda bo
due soli senza più se ne ritrovano in Dio : MENICA D'orToBRE, L'ANNo MDLIII.
l'amore e il gaudio, i quali in lui non sono
affetti, cioè accidenti, ma sostanze : percioc
chè, ciò che e in Dio, è Dio, e conseguente Siccome tutte le cose che sono, dall'ele
mente sostanza. E come amerebbe tutto il mento del fuoco in su, furono ab eterno, se
mondo spirituale, tutto il mondo corporale, se condo i Peripatetici, per se medesime, ed a
Dio non amasse? Ogni altra cosa può Dio, cagione di loro stesse principalmente prodotte
fuori solamente, che non amare sè stesso, es (ma secondo i teologi cristiani si debbe tenere
sendo in lui l'amante e l'amato un medesi che avessero principio, come ebbero); così dal
mo; il quale amore chiamano i filosofi natu l'altro lato tutte quelle che dal cerchio della
rale, non perchè sia naturale, come è il na Luna in giù si ritrovano, furono, illustrissimo
turale nell'altre cose, dove non è elezione; e reverendissimo Monsignore, magnifico ed ec
ma perchè tutte le cose che sono in Dio, vi cellentissimo Consolo, dottissimi e giudiziosis
sono (come s'è tante volte detto) in modo simi Accademici, e voi tutti, nobilissimi e cor
così eminente ed eccellente, che non si può tesissimi Ascoltatori, a pro ed in benefizio
non che dichiarare colle parole, immaginare' degli uomini da Dio fatte e dalla Natura: e
colla mente a mille migliaia di milioni di mi gli uomini stessi non per altra cagione, ne ad
glia. E però Dante, il quale avea detto nel altro effetto generati furono, se non perchè
principio della sua opera: eglino la loro perfezione ed il lor fine procac
Tempº era dal principio del mattino; ciarsi ed acquistare vivendo potessero; e l'ul
E 'l sol montava su con quelle stelle, timo fine e la somma perfezione dell'uomo
Ch'eran con lui, quando l'amor divino non è altro, che la felicità e beatitudine sua;
e la sua beatitudine e felicità altro non è, che
Mosse da prima quelle cose belle (1):
l'avvicinarsi al primo Vero ed al vero Ente,
disse nella fine poi che egli ebbe dirizzato gli cioè a Dio ottimo e grandissimo, e farsi a lui,
occhi al primo Amore e ficcato il viso per la quanto si possa il più, somigliante. La qual
luce eterna, di maniera che vi consumò la cosa nè in altro modo potemo, nè per altra
veduta:
via conseguire, se non coll'imitare le opera
Oh quanto è corto il dire, e come fioco zioni di lui. E perchè la propria operazione
Al mio concetto, e questo, a quel ch'io vidi, di Dio è conoscere e contemplare sè medesi
E tanto che non basta a dicer poco. mo, e conoscendo sè medesimo, conoscere in
O luce eterna, che sola in te sidi, siememente tutte le cose, quinci è , che gli
Sola te intendi, e da te intelletta, uomini, per assomigliarsi a lui e conseguente
Ed intendente te ami ed arridi (2). mente divenire perfetti e felici, furono a ri
E qui, candidissimi ed umanissimi Uditori, trovare le scienze costretti, il fine delle quali
avendo io dimostrato in quel modo che ho è l'intendere e il contemplare: e perchè le
scienze non si possono compitamente appren
saputo migliore, che in tutte le cose dell'uni dere o almeno dirittamente usare senza le vir
verso, dalla più vile e bassa alla più alta e
tù, però
pregiata, cioè dalla prima materia, alla prima la filosofiafurono necessitati a ritrovare eziandio
forma si ritrova amore, sarà il fine, così del morale, il fine della quale non è
mio dire, come dell'ascoltare vostro. E perchè sapere solamente, ma sapendo, virtuosamente
ne versi di Dante e nelle cose dette da me operare.
E perchè l'uomo non è composto della sua
(1) luſerno, Canto I. forma sola, cioè dell' anima, ma ancora della
(2) Paradiso, Canto XXXIII. materia, cioè del corpo, di qui venne, che bi
LEZIONE UNA DELLA POETICA IN GENERALE 243
sognò che si ritrovassero ancora l' arti, così ma molti altri, anzi tutti quelli, i quali in tutta
le più nobili, come le manco degne. E perchè la materia di tutta la poesia, o sono, o essere
le scienze tanto le speculative, quanto le at possono in alcun modo.
tive non possono senza alcun mezzo, ovvero Della quale promessione affinchè niuno di
strumento appararsi, fu necessario che si ri voi si maravigli, umanissimi Ascoltatori, o co
trovassero di più alcune dottrine, ovvero di me arrogante e presuntuoso me ne riprenda,
scipline, o facoltà, o altramente che chiamare sappia, che ciò compiutissimamente ed in po
si debbano, le quali, come serve la squadra chissime parole fare si potrebbe solo col di
per conoscere il diritto dal torto ai legnaiuoli, chiarare, che cosa la poetica sia. Perciocchè
o ai muratori l'archipenzolo, così ne più ne la definizione di qual si voglia cosa non solo
meno servissero esse a filosofi per conoscere leva e toglie, come ne insegna il Filosofo, tutte
nelle speculative il vero dal falso, e nelle at le dubitazioni, le quali nella cosa definita o
tive il buono dal cattivo. E tutte queste cotali sono, o essere possono, ma ancora le cagioni,
si chiamano grecamente logiche, perchè favel d' onde corali dubitazioni nascevano, ne scuo
lano di parole, e da filosofi latini, perche sono pre sempre e ne dimostra.
fatte dalla ragione, e raddirizzano l' intelletto Ma perchè molte fiate suole avvenire, che
nostro, razionali. le definizioni, come testimonia il medesimo
Ne è dubbio alcuno, che, come ciascuna filosofo, meno s'intendono e più malagevol
scienza o facoltà, qualunque sia, fa o imme mente che le cose definite non fanno, noi,
diatamente, o con mezzo perfetta e conse per esser più chiari e meglio da ciascuno in
guentemente beata l'anima umana; così cia tesi, avemo pensato di dovere tutto questo
scuna arte, sia qual si voglia, è o necessaria presente odierno ragionamento nostro in due
all'essere, o utile al benessere del corpo; di parti principali dividere. -

maniera che tutte quelle o scienze, o arti che Nella prima delle quali dichiareremo tutte
ciò non fanno, non si possono nè arti chia quelle cose, le quali, per trovare la vera e
mare, nè scienze, se non se equivocamente e perfetta definizione della poetica, giudicarem
col nome solo: anzi dirò più oltre, che tutte o utili o necessarie. -

quelle, le quali in vece d'arrecare giovamento Nella seconda porremo la definizione della
alla vita, le apportano nocimento, deono es poetica in genere, e mediante quella risolve
sere non meno biasimate e fuggite dagli uo remo alcuni dubbi non meno begli ed utili,
mini, che vietate e punite dalle leggi. che malagevoli. La qual cosa faremo volen
Laonde fu anticamente, ed oggi ancora è tieri per ubbidire a chi può comandarne e
grandissima disputazione non solo tra gli uo soddisfare in alcuna parte al debito nostro,
mini idioti e volgari, ma eziandio tra i filo ma non già senza onesto rossore e più che
sofi, se la poesia, la quale necessariamente ragionevole vergogna, posciachè vediamo, che
sotto alcuna delle tre divisioni fatte di sopra in questo luogo fra tanti altri chiarissimi in
da noi si contiene, fosse o di danno, o d'uti gegni e quasi lunni di tutte le scienze, facoltà
lità al vivere umano, e per conseguenza, se i ed arti così umane come divine, risplende oggi
poeti si devono o lodare, o biasimare. E come colla sua onoratissima schiera, non altramente
si trovarono di molti, i quali tanto e nobile, che tra l' altre lucidissime stelle un più bel
e profittevole, e degna di lode la credettero, sole, l'illustrissimo signor Francesco di Mcn
che eglino, innalzandola infino al cielo, a tutte dozza, reverendissimo cardinale di Burgos, nel
l'altre facoltà ed arti e scienze la proposero; quale uno, come fu sempre quella nobilissima
così non mancarono di coloro, i quali tanto casa di tutte le virtù abbondantissima, tanti
per lo contrario e vile, e dannosa e biasime sono i beni dell'animo, e più e maggiori di
vole la riputarono, che eglino se non come quelli del corpo e della fortuna, quanto sono
infame e vituperosa, certo come contraria e ancora e migliori e più degni. E se non che
nociva al pubblico ed alla quiete comune dalle la molta modestia sua ed il poco sapere mio
loro città e rupubbliche la sbandirono. lo mi vietano, e massimamente nella presenza
Il perchè considerando io, discretissimi Ascol di lui, cominciandomi dalla santissima teologia,
tatori, d'essere stato dal signor Luogotenente sua principale professione, e dalla filosofia, poi
e magnifici Consiglieri del felicissimo e pru dallo studio delle leggi così sacre, come civili,
dentissimo Duca Principe nostro, per parti e dalla perfetta cognizione della lingua tanto
colare ordine e speziale commissione di Sua greca quanto latina, per lasciare da parte le
Eccellenza illustrissima, non già per alcuno virtù ed altre facoltà e spezialmente la poe
mio merito, ma solo per grazia di lui eletto sia, nella quale è eccellentissimo, mostrerei,
a dovere sporre nella nostra lingua ed inter che in lui solo tutte quelle doti fioriscono, le
pretare in questa famosissima Accademia il Can quali in uomo mortale piuttosto desiderare si
zoniere di messer Francesco Petrarca, il quale possono, che ritrovare.
fu non solamente poeta, ma ottimo e celebra Ma perchè quanto mi sfidano queste cose
tissimo poeta, giudicai non disconvenirsi a l'u- da una parte, tanto m' assicura dall' altra il
fizio mio, anzi massimamente richiedersi di sapere io, oltra l'incredibile benignità ed amo
dovere, prima che più avanti si procedesse, revolezza sua, che egli in questo luogo non
sciogliere in luogo di principio e di prefazione, per apparare, ma per onorarlo è venuto (del
per quanto però si distendessero le debolissi che sempre si potrà tener buona e gloriarsi
me forze mie, non pure questo dubbio solo, con esso mcco infinitamente questa Accademia
|
244 LEZIONE UNA
felicissima) con sua e vostra buona licenza , la voce poetica e l'azione stessa, cioè l'ediſi
Uditori graziosissimi, darò oggimai, se non ar cazione, ed a questa corrisponde la voce poc
ditamente, certo con isperanza di dover tro sia: e la cosa fatta, cioè l'edifizio, ed a que
vare perdono, cominciamento, chiamato prima sta corrisponde la voce poema, sebbene la poe
umilmente il santissimo nome di Colui, da sia si piglia molte volte per lo poema. Dalle
cui solo tutte le grazie procedono, e pregato quali cose si vede manifestamente, che poeta
caramente le umilissime cortesie vostre della non vuole dire altro nè in greco, nè in latino,
solita benigna attenzione loro, a quanto avemo nè in toscano, se non fattore; onde chiunque
oggi promesso di voler dire. - fa, checchè egli si faccia, si potrebbe chiamare
poeta: se non che gli antichi così greci, come
PARTE PRIMA
latini, i quali seguitarono ancora i toscani,
chiamarono col nome del genere, cioe poeta
per una certa eccellenza e maggioranza sola
La definizione non è altro che un parlare, mente coloro, i quali i versi e le poesie facevano.
il quale brevemente e per cose essenziali ne
dichiara la quiddità e natura della cosa che si PARTICELLA PRIMA

definisce, e ciascuna definizione si compone


sempre di due cose senza più : del genere, Venendo ora alla prima particella, dico che
come materia, e della differenza come forma; non può sapersi sotto qual parte di filosofia
onde le definizioni dovrebbono essere tutte la poetica riporre si debba, se prima la filo
di due parole solamente. Ma noi, perchè non sofia tutta nelle sue parti non si divide: la
conosciamo le differenze delle cose, se non in qual cosa brevissimamente faremo in questa
menomissima parte, poniamo quasi sempre in maniera,
luogo della differenza più accidenti massima La filosofia comprende sotto sè e contiene
mente propri; onde la prima parola di cia tutto l'ente, cioè tutte le cose che sono qua
scuna definizione è sempre il suo genere, e lunque e dovunque siano, e perciò come l'ente,
tutte l'altre qualunque siano servono in iscam così ancora essa si divide principalmente in
bio della differenza. Ora volendo noi trovare due parti: in reale ed in razionale. La filo
la definizione generale della poetica, la quale soſia reale, la quale è quella che tratta delle
Aristotile, il quale noi intendiamo di seguitare, cose, si ridivide medesimamente in due parti:
non definisce, è parte necessario e parte utile, in contemplativa, ovvero speculativa e in pra
che prima si dichiarino alcune cose; e perciò tica, ovvero attiva. La speculativa si divide in
divideremo per maggiore agevolezza, e più tre parti: in metafisica, cioè scienza oltra na
chiara distinzione questa prima parte in tre turale, in fisica, cioè naturale, e nelle quattro
particelle. matematiche: aritmetica, musica, geometria ed
Nella prima dichiareremo sotto che parte di astrologia.
filosofia si contenga la poetica, e conseguente L' attiva si divide in due parti: in agibile,
mente se ella è o arte o scienza, ed in qual ed in fattibile. Sotto l'agibile si comprende
grado di nobiltà porre si debba. tutta la filosofia umana, ovvero civile, la quale
Nella seconda mostreremo qual sia il sub contiene l'etica, l' economica e la politica.
bietto suo, cioè d'intorno a quali materie si Sotto la fattibile si comprendono tutte l'arti
maneggi, ed oltre ciò di quale strumento si meccaniche.
serva, La filosofia razionale, la quale favellando di
Nella terza ed ultima porremo l'intendi parole e non di cose, non è veramente parte
mento e fine suo, cioè perchè fosse ritrovata, della filosofia, ma strumento, comprende sotto
e per conseguenza quale sia e quanta l'uti se non solo la loica (intendendo per loica la
lità della poetica. Ma perchè in tutte le scien giudiziale) e la dialettica (intendendo per dia
ze bisogna primieramente intendere i termini, lettica non tanto la topica, quanto eziandio
ed in tutte le dispute fuggire sopra ogni cosa la sofistica e la tentativa ) ma ancora la ret
l'equivocazione, cioè di scambiare i significati torica, la poetica, la storica e la grammatica.
de vocaboli e pigliare un nome per un altro, Le quali non caggendo ne sotto alcuno dei
però dichiareremo la prima cosa questi quat tre abiti speculativi, nè sotto l'abito agibile,
tro termini, ovvero nomi: poeta, poetica, poe ne sotto il fattibile, non si possono chiamare
sua e poema. veramente nè scienze, nè arti, ma piuttosto
Dovemo dunque sapere, che questo verbo strumenti e facoltà. Onde si vede manifestissi
greco notely significa propriamente nella lingua mamente che la poetica non è propriamente
toscana, fare. Onde tanto viene a dire poe nè arte, nè scienza, ma facoltà: e se si chiama
tica, quanto fattiva, ovvero che fa; la qual arte, si chiama non perchè sia veramente arte,
cosa affine che meglio s'intenda, diremo, che ma per lo essere ella stata sotto precetti ri
in tutte le cose che si fanno, sono ordinaria dotta e sotto regole. Oltrachè, come que
mente necessarie, senza la materia di che elle sto nome scienza largamente preso comprende
fanno, quattro cose almeno: colui che la ancora tutte l'arti e facoltà, così questo no
fa, come esempigrazia, nell'edificare l'archi me arte comprende tutte le facoltà e scienze.
tetto, al quale risponde proporzionalmente la Vedesi ancora da questa divisione, che la poe
voce poeta: l'arte mediante la quale si fa, tica, quanto al grado della nobiltà, come e
cioe l'architettura, ed a questa corrisponde sopra tutte l'arti, così è inferiore a tutte le
DELLA POETICA IN GENERALE 245
e scienze tanto attive, quanto contemplative, male. E perchè l'ente razionale non è altro,
º non essendo ella scienza, ma facoltà ; e tra le che l'orazione, ovvero il parlare, manifesta
a facoltà come ha sopra di sè la loica, la dia cosa è, che ciascuna delle facoltà razionali
lettica e la rettorica, cosi ha sotto di se la avrà per subbietto alcuna parte del parlare.
º storica e la grammatica; onde come il poeta Ora ciascuno parlare è in uno di questi cin
º e più nobile del grammatico e dello storico, que modi: o vero, e questo s' appartiene al
cosi e men degno del loico, del dialettico e loico, cioè al dimostrativo; o probabile, c
del retore. Ben è vero, che la dialettica, la questo s' appartiene al dialettico, cioe al to
s loica e la poetica sono quasi una medesima pico; o pare ben probabile, ma in vero non
e cosa, non essendo differenti sostanzialmente, e, e questo s'appartiene al sofista; o è per
ma per accidente; e cosi il dialettico, il re suasivo, cioè fa fede, ed ingenera non iscienza,
i - tore e il poeta si posson mettere in un me ma opinione, e questo s'appartiene al retore;
a desimo grado di nobiltà e d'onore. o è finto e favoloso, e questo s'appartiene al
º Dalle cose dette si può cavare un corolla poeta. Onde come il loico usa per suo mezzo
rio ovvero giunta e vantaggio, il quale è, che il più nobile strumento, cioè la dimostrazione
essendo la poetica o parte, o spezie della loica, ovvero il sillogismo dimostrativo; cosi usa il
Pisliando per loica tutta la filosofia razionale, dialettico il sillogismo topico; il sofista il so
º nessuno può essere poeta, il quale non sia fistico, cioè apparente ed ingannevole: il re
loito: anzi quanto ciascheduno sarà miglior tore l'entimema, e il poeta l'esempio, il quale
º loico, tanto sarà ancora più eccellente poeta. è il meno degno di tutti gli altri. E aduu
, º la cagione è, perche niuno può conoscere que il subbietto della poetica il favellare finto
la parte, il quale non conosca il tutto; ne e favoloso, ed il suo mezzo o strumento l'e-
può alcuno sapere la spezie, se prima non sa sempio (1).
il genere: perchè chi non sapesse quello che E se chicchessia dubitando dicesse, che le
animale fosse, mai quello che l'uomo è, sa facoltà razionali non hanno subbietto alcuno
Pere non potrebbe. determinato, ma servono comunemente a tutte
Non voglio lasciare d'avvertirvi innanzi che l'arti e scienze, come si vede della dialettica
trapassi alla seconda particella, che tutte le e della rettorica, gli si risponderebbe ciò es
cose dette si debbono intendere, quando si sere verissimo, ma essere gran differenza,
ºilera il poeta propiissimamente e nella quando alcuna facoltà s'insegna, e quando ella
º strettissima significazione, perchè conside s'adopera e mette in atto; perchè nel primo
ºlo largamente ed in quel modo che dichia caso hanno subbietto determinato, come la loica,
ºmo di sotto, come la poesia contiene in la dimostrazione, la rettorica, l'entimena, e
º tutte l'arti e tutte le scienze, e conseguen così dell'altre dette di sopra. Ma nel secondo
"nte avanza di grandissima lunga ciascuna caso, cioè quando ci serviamo del subbietto
di loro, cosi il poeta sorvola tutti gli altri ar
loro, come di strumento, ed in somma quando
º, ed a tutti gli altri scienziati sta di so le mettiamo in opera e ci serviamo di loro,
º, arrecando maggiore, non solamente di passando dalla potenza all'atto, non hanno
lº, ma profitto a mortali come si vede dei subbietto alcuno determinato , cioè non ser
º º Omero e Pindaro, dei latini Virgilio ed vono a una scienza, o arte sola, ma vagano
Orazio, dei toscani Dante e il Petrarca. per tutte, per dir così, ed in tutte adoperano.
Oltrachè non dovemo credere, che la retto
PARTICELLA SECONDA rica, la poetica e la storica siano cosi logiche
e razionali, come la loica e la dialettica; per
ºme tutte l'arti hanno alcuno subbietto, ciocchè, sebbene possono trattare generalm
"ºrº materia, di che elleno i lavori fanno te di tutte le materie, si ristringono nondi
º ºpere loro, come i legnaiuoli, verbigrazia, meno per lo più e nella maggior parte alle
i legni ed i fabbri i ferri, così hanno tutte le cose civili; onde Aristotile diceva, che la ret
riente alcuno subbietto, del quale elle trattano; torica era composta della dialettica e della
º e di tanta importanza il subbietto nelle politica. E chi dubita, dovendo la poetica imi
ºe, che da lui e dal modo del conside tare, come di sotto si vedrà, le azioni, gli aſ
ºdo, viene loro principalmente tutto quello, fetti ed i costumi umani, che ella non abbia
ce hanno di buono e d'onorabile. Perché bisogno dell'etica e della politica? Onde tanto
ºna scienza è una, perchè il subbietto s'inganna chiunque si fa a credere di poter essere
"º uno: ciascuna scienza e o reale, o ra poeta senza la filosofia morale e civile, quanto
ºle, secondo che il subbietto di lei e o uno, che si credesse di poter dipignere senza co
ºnale, o reale: ciascuna scienza e o più lori e senza pennello. Non si possono già rego
A
"ile o meno perfetta, secondo che il sub lare queste facoltà me come le scienze, ne come
bietto e o più o meno nobile e perfetto egli l'arti, non essendo esse nè arti propriamente,
"so. Volendo dunque noi trovare il sub nè scienze, ma tra l'une e l'altre; onde hanno
lº della poetica, ed il modo col quale si come alcune cose delle scienze, ed alcune delle arti,
"filosofia
di trattarlo, dovemo considerare, che tutta si può vedere manifestamente nella sto
a razionale ha per subbietto l'ente
-
- " che è necessario, che ciascuna (1) Qui, come in quasi ogni tratto di queste Lezioni mo
strasi il Varchi devotissimo alle scolastiche distinzioni tanto
" parti della filosofia razionale abbia per in fatto di filosofia, come in fatto di retorica; ma della lor va
"lietto alcuna delle parti dell'ente razio uta non è mestieri tale accolto il giudizioso lettore. QM.)
246 LEZIONE UNA

ria, nella poetica e nella rettorica ancora, le essendo il corpo e l'anima unite insieme, cioè
quali lasciano dopo se alcuna opera, cioè la una cosa sola, chiunque serve al corpo, viene
storia, il poema e le orazioni; il che non av di necessità a servire ancora all'anima ; onde
viene nelle scienze, nè speculative, nè attive; l'arti meccaniche, se non per se, almeno per
e questo basti della seconda particella. accidente inducono la felicità. Dico per acci
dente secondo l'opinione degli Stoici, i quali
PARTICELLA TERZA volevano, che solamente nell'anima consistesse
la felicità ; onde essi, ancora che uno fosse
Tutte le cose che operano così naturalmente, nel toro di Falaride tormentato, lo chiamavano
come per elezione, operano per lo fine, per felice, solo che fosse buono. Ma secondo Ari
chè il fine diceva il Filosofo, è quello, che stotile che vuole, che la felicità sia l'aggre
muove l'agente. Conciossiachè dal fine comin gato di tutti i beni, uno che non è sano, non
ciano, dal fine dipendono e nel fine terminano può essere totalmente felice.
tutte le cose. Onde sebbene il fine è l'ultimo Ma tornando alle scienze, dico di nuovo,
che si consegua, è però il primo che si desi che tutte intendono e insegnano la perfezione
dera e si cerca di conseguire, e lui conseguito, e beatitudine dell'uomo, ma variamente e per
tutti i movimenti cessano subitamente. Hanno vie diverse; verbigrazia il filosofo contempla
dunque tutte le scienze e tutte l' arti il lor tivo coll' insegnare le cose: l'attivo coll' in
fine; ma vi è questa differenza, che le scienze segnare i costumi: le leggi col comandare: il
hanno l'entità , l' unità e la perfezione loro rettorico col persuadere: lo storico col narra
dal subbietto principalmente, e l'arti princi re: il poeta finalmente coll' imitare ovvero
palmente dal fine; onde si potrebbe per av rappresentare: e tutti si servono generalmente
ventura concordare la quistione tra Scoto e della grammatica, della dialettica e della loica;
S Tommaso (1), se la nobiltà si deve pigliare e senza tutte e ciascuna di queste cose e in
dal subbietto o dal fine. In qualunque modo possibile, che un uomo consegua il suo fine,
si sia, volendo noi al presente trovare qual cioè La felicità. Il che si prova brevemente
sia il fine della poetica, ci ricorderemo di cosi: la felicità umana consiste, come si pro
quello, che si disse pur testè nel proemio, vò, e dichiarò altra volta lungamente, nella
cioè che tutte le cose che sono sotto il primo copulazione dell'intelletto nostro possibile col
cielo, furono fatte ed ordinate per cagione del l'agente: la copulazione ovvero congiugnimento
l'uomo, cioè per aiutarlo a conseguire la per e unità di questi due intelletti non può farsi
fezione e beatitudine sua. Laonde essendo la senza la perfezione dell'anima: l'anima non può
poesia una di quelle cose che sono e si fanno divenire perfetta, se non mediante le scienze
sotto il cielo, non possiamo errare dicendo, che speculative: le scienze non si possono perfet
il fine della poesia è fare l'uomo perfetto e tamente sapere, o a buon fine indirizzare senza
felice: anzi è tanto chiaro, che l' ultimo fine le virtù morali: ciascuna di queste ha biso
di ciascun poeta è di condur l'uomo alla sua gno d'alcun mezzo e strumento, cioè delle fa
felicità, che niuno nol può nè 'l debbe negare. coltà razionali; dunque dal primo all'ultimo,
Ed a chi dubitando dicesse: A questo modo come si dice, tutte fanno e tutte intendono
tutte l' arti avranno un medesimo fine; dun la perfezione dell'animo e conseguentemente
que saranno tutte una medesima, e non più, la felicità. È adunque il fine del poeta far
ne diverse: si risponde, che non solo tutte perfetta e felice l'anima umana, e l'uffizio
l'arti, ma ancora tutte le scienze e tutte le suo imitare, cioè fingere e rappresentare cose
facoltà hanno un medesimo fine, cioè far per che rendono gli uomini buoni e virtuosi e per
fetta e felice la vita umana, ed in questo conseguente felici.
tutte quante sono una cosa medesima ; ma la Le quali cose aſline che meglio s'intendano
differenza loro consiste nella diversità del modo e si conosca più chiaramente quanto s'in
di fare conseguire cotale felicità. Perciocchè gannano i volgari, e con quanto danno del
alcune fanno perfetta l'anima nostra imme mondo, dovemo sapere, che in due modi si
diate e con più nobile strumento, e ciò sono possono ordinariamente far gli uomini buoni:
le scienze speculative; alcune mediatamente e o col rimoverli da vizi, o con l' accendergli
con men degno strumento, come le scienze alle virtù. Ed amendue queste cose si possono
attive; alcune più ancora mediatamente e con in più modi fare; verbigrazia coll' insegnare,
più nen nobile strumento, come le facoltà, e che cosa sia vizio e che cosa sia virtù, e que
così tutte tendono ad un fine solo, ma diver sto s'aspetta al filosofo morale, cioè all’etico,
samente e per varie vie. E chi dicesse: L'arti come si vede, che fece Aristotile nel Libro
fattibili, cioè le meccaniche, che servono al de' Costumi, cioè nell' Etica, la quale Etica
corpo, mancano di questo fine; direbbe parte quinto perverrà ad essere intesa ed osservata
vero, e parte falso: vero, se intendesse prin dagli uomini e massimamente da Principi, tanto
cipalmente e per sè: falso, se intendesse se perverrà il mondo a essere buono (favellona
condariamente e mediante il corpo, perchè turalmente e per via umana) e per conseguenza
essendo il corpo strumento dell'anima, anzi felice. Possonsi ancora rimuovere i vizi e in
trodurre le virtù, mediante il gastigar gli uni
(1) Duns Scoto, illustre teologo e filosofo inglese, fiori nel e premiar l'altre; e questa e opera e utlizio
secolo X111, e fu soprannomato il Dottor sottile. Da lui ebber
nome gli Scotisti, siccome dal celebre S. Tommaso d'A- delle leggi, le quali in tutto, e per tutto di
quino s'intitolarono i Tomisti. (M.) pendono dalla politica, la quale il medesime
- DELLA POETICA IN GENERALE 247
Aristotile trattò con tanta arte, ingegno e dot i fanciulli e bene spesso i grandi le favole, an
trina, che fu cosa più tosto sopra naturale, cora che inverisimili e senza arte e ornamento
che umana. Rimuovonsi ancora dai vizi gli uo nessuno raccontate; e quanto a ciascuno dis
mini e induconsi alle virtù, quando sentono piaccia l'udir quelle cose non che il vederle,
o biasimare quegli o lodare questi da uomini le quali state gli siano di alcun danno e di
dotti ed eloquenti, come sono gli oratori, e come grandissimo dolore cagione, e così quelle, che
si vede, che fece Marco Cicerone divinamente cgli pensa, che dolore grandissimo o danno
nel Libro degli Uffizi, libro da dovere essere apportare gli debbano. Io per me non posso
scritto in lettere d'oro e apparato a mente indovinare chi colui sia , il quale leggendo
da tutti gli uomini. In nessuno di questi modi l'Inferno di Dante, non prenda in estremo
sbigottisce da vizi e infiamma alle virtù il poe orrore e abbominazione tutti i vizi, e per lo
ta, ma solo, o principalmente coll'imitare, cioè contrario leggendo il Paradiso, non arda tutto
col fingere e rappresentare, introducendo, per d' infinito desiderio di divenir giusto e pio,
atto d'esempio, ora un uomo vizioso, il quale l'uno per fuggire quelle pene, e l'altro per
degno supplizio sortisca delle scelleraggini sue; fruire quei gaudi ombrati, anzi dipinti con si
ora un virtuoso, al quale degni premi delle bei colori dal poeta. Ma qual cosa si può imma
sue virtù o da Dio, o dagli uomini rendnti ginare men credibile, che questa, e pur è ve
siano. E questo pare a me, che sia il più eſſi rissima, che in leggendo alcuna poesia come,
cace modo che usare si possa per ammendare per cagione d'esempio, la morte del Conte Ugo
e correggere la vita, sì perchè gli uomini o lino in Dante. sentiamo in un medesimo tem
non possono, o non vogliono durar fatica e po due contrari, tristizia e piacere, diletto e
metter tempo in apparar le scienze o le vir noia? Donde potemo immaginare quel che fa
tù, dove nel veder rappresentare, o leggere le remmo se le vedessimo recitare e rappresen
cose poetiche non solo non è fatica alcuna, tare in tragedia, la quale Aristotile tiene, con
ma diletto grandissimo; e sì perche la natura tra l'opinione di Platone, che sia la più per
dell'uomo e altiera e non vuole parere d'es fetta e più nobile maniera di poesia, che si
sere o sforzata dalle ragioni, o persuasa dalle ritrovi. Potemo dunque conchiudere, che il
parole a fare, o non fare quello che fare o poeta ha il più nobil fine che possa essere, e
non fare doverebbe, e insomma non rifiuta fa l'uffizio suo, se non col più nobile stru
molte volte d'ardarne, ma ha ben sempre per mento e modo che sia, almeno col più utile.
male d'essere menata. E coloro, che dicono, che 'l fine del poeta e
Oltra ciò, chi è colui, il quale non sappia, dilettare, come pare che dica molte volte Ari
quanto si commuovano gli animi umani nel ve stotile non intendono del vero e ultimo fine,
der rappresentarsi alcuna cosa o spiacevole, o perchè il poeta non vuol dilettar ordinaria
terribile sotto spaventevoli e abbominevoli for mente per dilettare solo, ma per giovare di
me? Non si raccapricciano gli uomini, quando lettando. E bene conchiuse Orazio, quando,
sentono ricordare, non che quando veggono favellando qual fosse il fine del poeta o di
aspidi, botte, tarantole e altre cosi fatte cose lettare, o giovare, disse:
sozze e nocevoli? Anzi ha tanta forza questa Merta ogni lode chi l'utile e il dolce
rappresentazione, che non solo ci fa abborrire Mesce (1).
le cose per loro natura nocevoli e sozze, ma
ancora le belle e giovevoli, solo che sotto con Ma troppo lungo sarebbe e troppo avrebbe
traria forma rappresentate ci sieno. Qual nome che fare chi volesse o lodare il fine nella poe
si può pensare più vago, o che cosa più bella sia , o raccontare i maravigliosi effetti di lei.
e più salutevole significhi che Lucifero ? E Laonde non essendo questo per oggi nè l' uf
nondimeno sa ognuno, poi che sotto altra spe fizio, ne l'intendimento nostro, ed essendo
zie cominciò a rappresentarcisi, quanto spia le utilità, che di lei trarre si possono, per le
cevole e fastidioso giunga agli orecchi ed al cose dette manifestissime, non si potendo ne
l'animo. E per lo contrario quelle cose, che immaginare ancora utilità nè maggiore, nè
sono moleste e fastidiose di lor natura e da migliore, che quando in una cosa onesta s'ac
doversi odiare e fuggire, ci si possono in mo cozza il diletto e 'I profitto insieme, trapasse
do rappresentare per tal cagione, che ci piac remo alla seconda ed ultima parte principale.
ciano e dilettino. Qual cosa è naturalmente
più nemica dell'uomo, che le serpi Eppur (1) Omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci. – Ho r.
disse Dante: Art. poet. – Certamente queste dottrine del Varchi, chi le
intenda nel loro più intiero significato e le sceveri dalle sco
Da indi in qua mi fur le serpi amiche (1). lastiche sottigliezze, debbono parere sapienti assai, fondate in
natura e in ragione e nella più giusta idea del ministero poe
Qual più rea e tremenda della morte? Eppur tico. Che altro hanno detto sul fine della poesia i romantici
disse il Petrarca. nostri italiani? (M.)
E dolce incominciò farsi la morte (2).
E chi non sa quanto possa naturalmente il
finto rappresentare, consideri quanto muovano
(1) Inferno, Canto XX.
(2) Souetto LXXXVII, Parte II.
LEZIONE UNA
o di rado, se già non si servissero dell'imita
pARTE SECONDA zione, cioè andassero ne componimenti loro
imitando i componimenti de'poeti buoni; per
a . • - - -

Tutte le scienze e tutte l'arti, anzi general chè in tal caso è come si servissero dell'arte.
mente tutte le cose, eccetto solamente la virtù, Anzi non si può far cosa di maggiore utilità,
possono da chi vuole male e perversamente che andar considerando l' opere de' maestri
usarsi, in guisa che niuna cosa è nè tanto perfetti, e cercare d'accostarsi a quelle, come
utile, nè tanto lodevole, la quale disonestis si vede che i dipintori fanno e gli scultori; ma
sima, disutilissima e biasimevolissima, se non i è ben pericolo, che coloro, i quali non hanno
per sè, almeno per accidente non divenga; l'arte, e sono senza dottrina, ancora nel volere
anzi quanto ciascuno ente è più perfetto e imitare pecchino, non conoscendo molte volte
più nobile per sè medesimo, tanto si cangia nè quali cose, nè come imitare si debbano
e corrompe la natura sua e diventa peggiore. Possono ancora queste parole sporsi altramente
E per questo diceva il Filosofo, che come un se non con verità, mai non senza utilità dicen.
buono e giusto uomo era il più perfetto ani do, che elle vogliano significare quella diffe
male e il più giovevole, che si trovasse, così renza, la quale si trova ne poeti nell'imita
un reo e ingiusto era il più norevole e il più re: perchè possono imitare una cosa medesi
imperfetto. Ma perché ciascuno possa conoscere ma, verbigrazia le azioni dei re. e colle me
per sè medesimo la vera e propria natura della desime cose, verbigrazia, col verbo esametro;
poetica, porremo mediante le cose dette la sua ma fanno ciò diversamente, perchè alcuna volta
generale definizione in questo modo: La poe favellano essi sempre, come fece Esiodo e Vir
tica è una facoltà, la quale insegna in quai gilio nella Georgica: alcuna volta fanno, che
modi si debbe imitare qualunque azione, affetto sempre favelli altri, come fece il medesimo se
e costume, con numero sermone ed armonia, guitando Teocrito nella Bucolica, e come fa
mescolatamente o di per sè, per rimuovere gli quasi sempre il Petrarca. Alcuna volta parte
uomini dai vizi e accendergli alle virtù, affine favellano essi, e parte introducono altri a fa
che conseguano la perfezione e beatitudine loro. vellare, come fece sempre Omero e Virgilio
In questa definizione sono in potenza e vir nell'Eneide, e il Petrarca ne' Trionfi e Dante
tualmente racchiuse tutte le soluzioni di tutti nella Commedia. Nella qual cosa dovemo sa
i dubbi, i quali possono nascere nella materia pere. che quanto meno, favella il poeta, tanto
della poesia, laonde noi, per agevolmente at e l'imitazione maggiore, e conseguentemente
tendere la nostra promessa, l'andremo dichia più lodevole il poema, come testè si potrà
rando di parola a parola. Ma perchè favellia vedere.
no della poetica in genere e infinite sono le Imi re significa in questo luogo rappresen
cose, le quale sopra ciascuna d'esse si potreb tare, ed è molto da dovere essere notata que
lono arrecare, non racconteremo se non quel sta parola, perche il proprio e principale uf
le, che ci parranno o più necessarie, o più uti ſizio e artifizio del poeta è imitare, onde chi
li, massimamente avendone parlato altra volta i vuol conoscere, se uno è poeta, o no, guardi
e altrove scrittone lungamente. se egli imita, o no. E chi vuol conoscere quando
Diciamo dunque che questa parola facoltà alcuno è o migliore, o peggiore poeta d'un
è il genere della poetica, e ne dimostra, che altro, consideri chi più di loro, o meglio ini
ella non è nè scienza, nè virtù, nè arte pro ti, e da quello e non da altro deve giudicare
priamente, ma facoltà, cioè mezzo e strumento, propriamente l'essenza del poeta: perchè tutti
e brevemente che ella cade sotto la filosofia ; i poeti imitano: e vale questa conseguenza,
razionale, e sotto quella si debbe riporre nel anzi è necessaria: Il tale è poeta; adunque il tale
luogo che di sopra si disse. – La qual insegna. imita; ma non vale già: Costui imita; dunque
Queste parole mostrano, che in questo luogo costui è poeta, perchè ancora i pittori, gli scul
si definisce l'arte, non l' azione, cioè la poe tori, i ricamatori e molti altri artefici imitano,
l
tica, e non la poesia, o il poema, non ostan nè perciò sono poeti, se già non intendessimo
te che queste voci alcuna volta si confonda pocti propiamente, cioè fattori. E adunque
no, e tanto vaglia l'una, quanto l'altra, per i'imitazione, ovvero rappresentazione il genere
che l'uso del favellare porta cosi. Onde seb prossimo di tutti i poeti e di tutte le poe
bene l'architettura e la cosa architettata son . sie; perchè tutti i poeti sono imitatori e tutte
diverse, si dice nondimeno, quando si vede le poesie sono imitazioni, perchè tutti e tutte
alcun bello edifizio: Questa è una bella ar convengono nell'imitare, e in quanto a que
chitettura, perchè dall'architettura viene tutto sto non hanno differenza nessuna, perchè cosi
quello, che nelle cose architettate si ritrova; imitano i tragedi, come gli epici, ovvero eroici
e i movimenti, come dice Aristotile, sono nelle e i comici e i lirici e gli elegiaci e tutti gli
cose mosse. – In quai modi, cioè come, e con altri. Ma la differenza può essere in tre modi
qual metodo, cioè via, modo e ragione, e in e non più, perchè: o imitano cose diverse; o
somma con qual'arte. Senza la quale arte non con cose diverse; o con modo diverso: come
si faccia a credere nessuno di potere essere ne insegna nel principio della sua divina Poe
poeta buono, non che perfetto; e coloro, i quali tica divinamente Aristotile.
compongono per forza d'ingegno, e, come noi Ma perchè molti potrebbono dubitare di
diciamo, di fantasia, possono bene alcuna volta cendo: Se l'imitazione è necessaria al poeta
fuggire il biasimo, ma acquistar lode non mai, a questo modo nè Esiodo sarà poeta tra Gre
DELLA POETICA IN GENERALE 249
ci, quando egli insegna il modo di coltivare non pare, che dica semplicemente, che Em
la terra, nè medesimamente Virgilio nella più pedocle non fosse poeta, ma che fosse più to
perfetta opera che egli facesse, cioè nella Geor sto filosofo, che poeta. In qualunque modo,
gica, perchè essi non imitano; e per lo con sono alcune poesie, le quali a patto nessuno
trario, se l'imitazione è quella che fa il poe non possono essere senza il verso, come per
ta, Luciano tra i Greci ne' suoi Dialoghi, ben cagione d'esempio, le tragedie, perchè nella
chè siano in prosa, e Cicerone medesimo in sua definizione cade il verso, come si vede in
molte delle sue opere, e il Boccaccio altresì quelle parole che usò Aristotile quando le de
nel suo Centonovelle saranno poeti e non ora finì, dicendo con parlare soave. Ma la distin
tori; a costoro si risponde agevolmente, e si zione fatta di sopra da noi può sciogliere que
confessa lor tutto quello che essi dicono ; sta, e tutte le difficoltà somiglianti.
cioè, che coloro che non imitano, sebbene scri Qualunque azione. Se i poeti hanno a imi
vono in versi, non sono poeti, e coloro che tare è dunque necessario, che imitino coloro,
imitano, sebbene scrivono in prosa, sono poe che fanno alcuna cosa; e perciò si pone nella
ti, perchè non il verso è quello che fa il poe definizione questa parola azione, e si dice qua
ta, ma l'imitazione; e queste cose sono tanto lunque, perchè ogni azione si può imitare, o
chiare e vere appo gli intendenti, quanto false veramente a dinotare, che di ciascuna persona
o dubbie appresso il volgo. Onde Aristotile di si può far poema, cioe imitare l'azione; perchè
ceva, che Empedocle sebbene aveva scritto in i tragici, verbigrazia, imitano le azioni illustri
versi, non era poeta, ma filosofo, il che mede dei re e altri gran personaggi: i comici al
simamente si può dire di Lucrezio appresso i l'opposto imitano le azioni, private delle per
Latini. E chi traducesse Onero o Virgilio in sone basse ed umili; o così degli altri. Non fu
prosa, non sarebbe oratore, ma poeta, come già senza grandissimo avvertimento posto azione
chi traducesse in versi Aristotile non sarebbe nel numero del meno, non azioni in quello
poeta, ma filosofo. E coloro che dicevano, che del più, perchè niuno poeta può in una poe
Lucano avendo scritto le guerre civili tra Ce sia, o poema solo imitare più, che una sola
sare e Pompeo nel modo, che le scrisse non azione d'una persona sola. Onde Omero, che
era poeta, ma istorico, dicevano il vero; e non fu il padre e il maestro di tutti i poeti, nel
è dubbio, che così il Sanazzaro nella sua Ar l'Iliade si propose a cantare d'Achille solo,
cadia, come il Bembo ne' suoi Asolani, dico e d'Achille non tutta la vita e azioni sue, una
ancora fuora de'versi, non sono altro propria una sola, cioè l'ira e lo sdegno contro Aga
mente, che poeti. Anzi quel libro stesso del Bem mennone, onde cominciò:
bo, che s'intitola le Prose, sono veramente Cantami, o Diva, la dannosa e lunga
poesia, perchè imitano col parlare, e ciocche Ira d'Achille di Peleo figliuolo.
imita col parlare, è poesia. Ed in somma tutti E nell'Odissea non raccontò tutti i fatti di
quegli, i quali scrivono versi senza imitare, Ulisse, ma solo una azione, cioè tutte quelle
possono per avventura chiamarsi versificatori cose che gli erano avvenute, dacchè, presa
o dicitori in rima, ma poeti no. E tutte que Troia, si partì, infino che ritornasse a Itaca
ste cose si debbono intendere quando si favella sua patria, e di ciascuna di queste azioni fece
del poeta strettissimamente e propiissimamen
te; la qual cosa affine che meglio si compren ventiquattro libri. Virgilio similmente, il quale
a giudizio nostro non cede ad Omero, se non
da, dovemo sapere, che la poetica e conseguen di tempo, non istette a raccontare tutti i casi
temente i poeti si possono considerare in tre di Enea, ma quelli solamente, che gli avven
modi: 1.º Propiissimamente; ed in questo caso nero in una sola azione, cioè dacchè fu arsa
sono necessarie due cose; prima l'imitazione, e Troia sino a che venne in Italia a edificare
poi il verso, e l'uno senza l'altro, o l'altro senza una città.
l'uno non è bastevole; e in questo modo scris Dante medesimamente, il quale, per quanto
se Omero tutte l'opere sue, e Virgilio la Bu possiamo conoscere noi, passò non solo di dot
colica e l'Eneide, e il Petrarca e Dante l'o-
trina tutti gli altri, ma ancora d'invenzione
pere loro. 2.º Propiamente; ed in questo caso e di disposizione, raccontò con nuovo modo,
basta la imitazione sola senza il verso, e in e non forse biasimevole di sè stesso non più
questo modo sono poeti Luciano, Cicerone nei azioni, ma una sola, cioè il viaggio fatto da
suoi dialoghi, il Bembo, il Sanazzaro e più lui in otto giorni dall'Inferno al Paradiso.
di tutti il Boccaccio nel Decamerone. 3.º Co
Onde non so come si possa scusare messer Lo
munemente; ed in questo modo si chiamano dovico Ariosto, il quale cominciò l'opera sua:
poeti tutti coloro, che scrivono in versi, an
cora, che non imitino, e così Empedocle, Lu Le donne e i cavalier, l'arme e gli amori,
crezio e Lucano e molti altri sono poeti. Ed Le cortesie, l'audaci imprese io canto.
in vero pare, che la poesia richiegga il verso, con tutto quello che seguita; poi soggiunse
sì perchè la Musica è parte di lei, e si per nella seconda stanza:
chè, come ne dimostra Aristotile, l'origine sua Dirò d'Orlando in un medesimo tratto.
venne da due cagioni amendue naturali; la
prima è l'attitudine che hanno naturalmente E se alcuno dicesse, che anco Virgilio propose
gli uomini d'imitare e contraffare; la secon più cose, e usò il numero del più, dicendo:
da, il diletto, che prendono della armonia, L'arme canto e 'l grand'uom, che da paesi
come si vede ancora ne fanciulli; e Aristotile Venne primo di Troja, 3
2
VAitulli v. i.
» o - LEZIONE UNA

si risponde ciò non essere somigliante, perchè come dichiarammo nella Lezione del tempo (1);
in una azione d'un uomo solo possono inter onde quello che noi diciamo fiorentinamente
venire più guerre, non che battaglie, come a tempo, si disse in latino da Virgilio, come
avvenne ad Enea. Onde si può benissimo pro si vede in quel verso dell' Egloga settima:
porre nel numero plurale, come fece Lucano, Tum vero in numerum Faunosque, ferasque
e come si vede aver fatto ai di nostri messer videres.
Luigi Alamanni, dicendo:
E se alcun dimandasse quello che ha da fare
Narrerò di Giron l' alte avventure. nella definizione della poetica, il numerº preso
“Ma perchè di questo s'è altrove favellato, non in questo significato, sappia, che oltre che il
diremo qui altro. numero contiene il verso, perchè il verso è
Affetto. Come gli scultori e dipintori imitano parte di numero, gli antichi usavano di rappre
principalmente il di fuori , cioè i corpi; così sentare i poemi loro alla mutola coi gesti ed
i poeti principalmente imitano il di dentro, atti del corpo solamente, il che essi chiama
eioè gli animi, o piuttosto gli affetti degli ani vano saltare ; onde si trova spesse volte nei
mi, come l'amore, l'odio, l'ira, il dolore, buoni autori: La tal tragedia fu saltata, cioè
l'allegrezza, e tutte l'altre perturbazioni del. recitata e rappresentata co'cenni; e se queste
l'animo, che noi, come fanno i Greci, chia cose paiono a molti incredibili e false, diasene
miamo passioni: e queste son quelle, che fanno la colpa a loro o a questi sccoli noiosi. Per
l'orazione patetica, cioè affettuosa. Altramente chè la verità è cosi; anzi si legge che Cice
favella un amante, altramente uno che abbia rone e Roscio facevano a gara, provando chi
odio; ed un medesimo altramente quando è fosse più eloquente o Cicerone colle parole,
irato, altramente quando no, e così di tutti gli o Roscio con gli atti; perchè in quanti modi Ci
altri. Ora senza la cognizione di queste passio cerone esprimeva alcuna sentenza colle parole,
ni, delle quali Aristotile trattò copiosamente in tanti la rappresentava Roscio coi gesti ; e
nel libro secondo della Rettorica, non si posso quel modo di saltare le tragedie ed altri poemi,
no nè fare le poesie, nè intendere i poeti. avevano i Latini, come infinite altre cose, dai
Costume. Per costumi s'intende in questo Greci preso.
luogo gli abiti degli animi, cioè quelle diffe Sermone. Il sermone è voce articolata, e si
renze, che sono da una persona a un'altra, conviene solamente all' uomo, onde è posto in
per cagione o del sesso. o della condizione, o questo luogo a differenza dei gesti e dell'ar
della professione, o della età , o de paesi, o monia; ed anco di qui si può torre, che le
per altre cagioni. Perciocchè altri costumi poesie si possono fare senza verso.
hanno gli uomini, ed altri le donne: altri i li Ed armonia. Hanno la musica e la poetica
beri che i servi, i giovani che i vecchi, i let grandissima amistà, anzi piuttosto parentado
terati che i soldati, i Greci che i Latini, o l'una coll'altra; e perchè anticamente si re
Toscani, e così di tutti gli altri, come ne di citavano i poemi non solamente coi gesti e
mostra Orazio dottamente nella sua Poetica. colla voce, ma eziandio con gli strumenti, come
Con numero, sermone cd armonia. Queste sono lire, flauti ed altri tali, però è necessario porre
quelle tre cose diverse tra sè e differenti di questa parola nella definizione della poetica,
genere, colle quali imitano i poeti, cioè imi cioè armonia; la quale non è altro che una
tano o col numero, o col sermone, o coll'ar concordanza di diverse voci discordanti, e si
monia, delle quali si potrebbono dire molte gnifica così la musica degli strumenti, come
cose; ma avendo già scritto lungamente nel quella della voce umana, la quale si chiama
Commento della Poetica (1), e non lo permetten. propriamente melodia, ed è soavissima di tutte
do la brevità del tempo, diremo solo, che il nu l'altre.
mero si piglia in questo luogo, per quello che Mescolatamente o di per sè. Sono necessarie
queste parole, come tutte l'altre di questa de
i Greci chiamano ritmo, e noi volgarmente
nelle moresche, ne balli, nel cantare, nel suo finizione; perciocchè i poeti imitavano alcuna
volta con tutte e tre queste cose insieme: al
nare tempo. Quando uno, o non balla, o non
canta, o non suona a tempo, cioè non osserva cuna volta con due di loro; e questo ancora
la battuta, ed esce fuori della misura, noi di in due modi, perciocchè alcuna poesia l'usava
eiamo che egli non va a tempo, e ciò non insieme in un medesimo tempo, ed alcune,
senza ragione e verità, perchè il numero con come la tragedia e commedia, in diversi tempi,
siste nella proporzione de'moti locali, ed il cioè in varie parti.
tempo non è altro che la misura del moto, Per rimuovere gli uomini da vizi. Ha così la
Natura ordinato, che in tutte le cose, sia un
modo solo di bene e perfetto operare, e gli
(1) Pare certo che il Varchi abbia tradotta e commentata errori siano infiniti; perchè chi trae, esempi
la Poetica d'Aristotile. Ciò si raccoglie da quel tratto che si grazia, a mira e non coglie nel bersaglio, non
troverà nella Lezione seguente, dove dice: S'io non mi fossi ha il fine suo conseguito, nè può altramente
sono già molti anni in traducendo e commentando la Poetica conseguirlo, che col ferire nel segno, ma può
d'Aristotile esercitato non mezzanamente. E di queste mate bene errare in mille modi, perchè ogni volta
rie poetiche era egli intendente assai secondo le opinioni dei
tempi suoi, essendo in quella stagione uno dei grandi studi
ehe teneva occupati i letterati; il che si vede dalle molte
Pe che ne furono in quel secolo composte. (M.)
(1) Questa Lezione nè fa stampata, nè si trovò
noscritti molti lasciati dal Varchi.
fra ma
(M.)
l
ſa
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DELLA POETICA IN GENERALE 2 o i

ehe non percuote nel segno, dia dove si voglia, dottrina ed ancora eloquenza, sebbene o per
sempre è errore. Può nondimeno essere e mag non s'allontanar tanto dagli altri, parendogli
giore errore, e più picciolo, secondo che più per avventura aver fatto assai, o per alcuna
o meno si discosta dal luogo destinato, onde altra cagione, non lo condusse a quella perfe
degli imberciatori colui e solo tenuto buon zione, che forse poteva e certo doveva. A co
sagittario, il quale colpisce nel segno ; tutti stui successe poi il nostro messer Luigi Ala
gli altri sono o più o meno tenuti buoni ar manni col suo Giron Cortese, del quale,
cieri, secondo che più o meno s'accostano, o sebbene è tenuto da molto inferiore, a me
s'allontanano dal luogo, dove per ferire ave nondimeno pare, e massimamente nelle parti
vano la mira posta. Così avviene nei poeti, sostanziali, non solo eguale, ma molte volte
perchè quelli soli meritano tutte le lodi, i superiore (1). Nè pensi alcuno, che a dir ciò
quali rimovono gli uomini da vizi, o gli accen altro mi muova, che la verità, cioè il credere
dono alle virtù, gli altri poi, secondo che più io di dire il vero, dicendo così, che se altra
o meno ciò fanno, deono essere più o meno mente credessi, altramente direi. Nè sia chi
lodati e tenuti in pregio; ma quegli i quali, mi stimi tanto, o folle, che io pensi di poter
invece di giovare alla vita e render gli uomini gli (2) quel grido levare, che egli s'ha meri
buoni, fanno il contrario, meritano quella pena tissimamente colle sue virtù e fatiche acqui
medesima, che un medico, il quale in vece di stato, o tanto maligno, che quando potessi bene,
sanare l'infermo con salutifere pozioni, l'uc il volessi. Anzi, può tanto in me l'amore della
cidesse con pestifero veleno, anzi tanto mag verità, che non ostante, che io sappia quello
giore, quanto nuoce peggio chi ammazza l'a- che di me s'è detto infin qui d'intorno a
nima, che chi uccide il corpo. E benchè i poeti questo fatto, e quello che sia per dirsene da
siano di varie sorti, o piuttosto abbiamo di molti per l'avvenire, ho voluto nondimeno
versi nomi, come elegiaci, lirici, comici, eroici, dire ancora in questo luogo pubblicamente
tragici, e ciascuno possa essere perfetto nel quello che ho privatamente detto altrove, nella
suo genere, benchè sia dagli altri diverso (il qual cosa può essere ripigliato il giudizio mio
che non avviene negli oratori) hanno nondi e deriso, ma non già la volontà: perchè io non
meno tutti quanti un fine medesimo, tante dico che così sia, ma che così mi pare. E come
volte detto da noi, di giovare agli uomini; e nel Furioso non mi piacciono alcune cose, così
tutti quelli che non fanno questo, non sono alcune ne desidero nel Girone; nè per questo
poeti; e tutti quelli che fanno il contrario, si dee credere che, o manchino nel Girone, o
meritano non solamente biasimo, ma gastigo, non siano nel Furioso tutte quelle che essere
se già il fine che li movesse ed il modo del vi deono, essendo più ragionevole e più veri
farlo, non fosse buono, perchè dal fine s'hanno simile che erri io, che si siano ingannati essi;
a giudicare principalmente tutte le cose. E oltra che il giudicare non s'appartiene a ognu
sebbene questi tali non si possono chiamare no, e quanto è agevole il dire, tanto è diffi
poeti, nè debbono, se non come un uomo cile il fare. A pochi, e forse a niuno, è lecito
morto o dipinto dicesi uomo, nondimeno, per affermare : Il tale ha errato, o la tal cosa sta
che il volgo li chiama così, noi li compren male. Può bene ciascuno, molti deono dire :
deremo sotto questi quattro nomi, perchè de A me pare, che il tale abbia errato, o la tal
gli empi, che meritano il fuoco, non ne par cosa non mi pare che stia bene. Concedasi a
da ragionare: plebei, ridicoli, disonesti e ma ognuno dire: Le figure del tale o scultore, o
ledici. pittore, non mi piacciono, ma a pochissimi af
Chiameremo poeti plebei tutti quelli, che fermare, che elle buone non siano.
senza arte, o giudizio, o dottrina scrivono Ma, tornando alla materia nostra, ridicoli
solo per piacere alla plebe e far ridere il diremo tutti quei poeti, che scrivono per cian
volgo, dicendo tutto quello che viene loro cia e da motteggio; e questi siano di due ma
non solo nella mente, ma in bocca. E tra que niere, perchè alcuni credevano di far bene, e
si metterò io per la maggior parte il Mor non sapevano più in là, come il Burchiello e
gante (1), non ostante, che sappia in quanto Antonio Alamanni (3), ne' suoi Sonetti, sebbene
pregio fosse, e sia ancora oggi tenuto da molti. vi si trovano alcune volte alcuni spiriti ed al
Non niego già, che non se gli convenga alcuna cuni tratti da non dover essere dispregiati del
lode, sì per altro e si massimamente, perche
s'alzò alquanto da coloro, i quali innanzi a (1) L'universale ha ben altrimenti giudicato, che il no
lui avevano in quel genere scritto; se scrivere stro messer Benedetto, il quale in questo particolare si lasciò
si può chiamare così fatto modo, quale si vede far velo al giudizio da quell'affetto, ch'egli aveva all'A-
in mille di loro. Il che fa, che l'Ariosto me lamanni, col quale egli avea tenuto la stessa parte nelle tur,
rita infinita commendazione, avendo usato nel bolenze politiche della sua patria. Pochi sono che sappiano
suo poema ed arte ed ingegno e giudizio e avere l'Alamanni scritto un Giron Cortese; e non c'è parte
del mondo civile, in cui non sia nel debito onore l' Orlando
dell'Ariosto. (M.)
(1) Intende il Morgante Maggiore di Luigi Pulci; del (2) Intende all'Ariosto. (M.
qual poema, che in ordine di tempo tiene il primo luogo fra (3) Non è chi non sappia del Burchiello barbiere e delle
i poemi di cavalleria o romanzeschi, una sentenza recarono i sue poesie burlesche. Antonio Alamanni, fiorentino, visse
piu illustri critici ben più benigna di codesta del Varchi. verso la metà del 14oo: compose varie poesie in istile gio
E certo dal lato dell'invenzione e dell'affitto, esso è tale coso e una rappresentazione sacra, intitolata la Conversione
che potrebbe disputare il primato al Furioso medesimo, ( M.) di Santa Maria Maddalena de' Pazzi. (M. )
252 LEZIONE UNA
tutto, e massimamente da coloro, i quali di tullo, che ebbe il soprannome di dotto e fu
cotali componimenti si dilettano. Alcuni altri sì leggiadro, è tanto disonesto in molti luoghi,
conoscevano quello che facevano, ed avrebbono quanto egli è bello.
saputo fare altramente, ma il cattivo uso o Maledici sono tutti quelli, i quali, non per
giudizio o altra cagione che io non so, se già riprendere i vizi, come fanno i satirici, o ad
non fosse quella che dice il Berni stesso di altro buon fine, ma o per loro cattiva natura,
sè medesimo, cioè per non durar fatica, li torse o per odio, o per preghi, o per danari, o per
a quel genere, nel quale, se si potesse meritar sollazzo, scrivono male d'altrui; e quelli, dice
lode, io per me la giudicherei tutta del Berni; Aristotile, s'hanno a scacciare dalle repubbli
e se si nasce poeta per burla, a mio giudizio, che bene ordinate, perchè chi s'avvezza a dir
ei nacque per quella poesia; e chi crede, che male, s'avvezza anco a farlo, e chi offende
egli non avesse saputo altramente fare, credo uno colle parole, l'offenderebbe anco, se po
che s'inganni, perchè aveva dottrina ed in tesse, co' fatti. Molti credono, che questi tali,
gegno, e nell'altre cose buon giudizio. Confesso come poco di sotto si vedrà, fossono cagione,
bene, che pensò poetar daddovero nel Bojar che Platone non volesse poeti nella sua repub
do (1), e si credette superare l'Ariosto, come blica; e come sono infami e puniti per le
dicono molti, egli mostrò di non avere nè giu leggi, così ancora in la politica sono disono
dizio, nè ingegno, nè dottrina. Tra questi si ratissimi, se già non dicessero il vero, mossi
potrebbono mettere i Capitoli del Mauro (2); da buona causa o da altra giusta cagione.
se non che in molti s'alza più che non pare L'accendere gli animi alle virtù. Sebbene,
si convenga a quel genere, e sono più somi. come Orazio dice, la sapienza prima è man
glianti alle Satire dell'Ariosto, le quali som care di pazzia, così il mancare de' vizi è gran
missimamente mi piacciono; e se egli avesse parte di virtù; tuttavia ciò non basta all'uomo
Orazio piuttosto imitar voluto nei Sermoni, dabbene e d'onore; perchè, come chi non fa
che il Berni ne Capitoli, poteva acquistarsi male, non può essere ripreso; così chi non
non picciolo grido in quella maniera di poe opera bene, non merita nè lode, nè onore. E
sia, perchè aveva dottrina, giudizio ed ingegno. però fu aggiunta questa parola alla definizione,
E, per non averlo a dir più, dico per sem perchè le cose non furon fatte per non ope
pre, non che così sia, ma che così mi pare. rare, il che è privazione, ma per operare ed
Messer Agnolo Firenzuola, mentre che volea esercitare le virtù, che è abito. È ben vero,
far da motteggio e daddovero, o mescolare che meglio è starsi, che non far nulla; e seb
l'un coll'altro, non fece nè davvero, nè da bene nelle definizioni non si debbono porre
burla perfettamente, la qual cosa non è riu metafore, o parole traslate, tuttavia noi abbiamo
scita, che sappia io, se non a monsignor della usato accendere, sì perchè è tanto più noto,
Casa e già a Lodovico Martelli, benchè non quanto il proprio, e si per mostrar la forza
con quella nè facilità, nè felicità del Berni. Al della poesia, la quale piuttosto accende ed in
Molza ancora, che ingegnosissimo era e dotto, fiamma, che non mena e conduce, come si
ed esercitato molto, non venne fatto esser vede in Dante, che nell'Inferno rimove dai
poeta burlesco con tutto che provasse. Ed io vizi, e nel Paradiso accende alle virtù.
porto ferma opinione, che chi non è nato in Affine che perseguano la perfezione e beati
Firenze, o almeno stato in Firenze assai, non tudine loro. Questo è, come si è già tante volte
possa in questo genere divenire eccellente; il detto, l'ultimo fine non solo della poetica, ma
quale però credo che sarebbe stato bene, che di tutte le facoltà, arti e scienze: anzi tutto
come col Berni nacque, e da lui si noma, e quello che fanno e dicono tutti gli uomini, lo
per lui si figura, così con lui si fosse ancora dicono e lo fanno per questo fine solo. Onde
spento; e questo per avventura voleva inten potrebbe agevolmente e con ragione dubitare
-
dere egli, quando biasimò la poetica. chicchessia, qual fosse la cagione, che Platone,
I disonesti, sotto i quali comprendo ancora filosofo tanto buono e tanto dotto, volendo
gli sporchi, non solo non si dovrebbero per ordinare una repubblica perfetta, non vi volesse
mettere, ma punire; ed in questo si può non dentro poeti, anzi ne mandasse fuori quelli che
poco gloriare la lingua nostra, la quale non vi fossero. A questo dubbio, rispondono alcuni,
ebbe mai alcuno poeta grande e lodevole, il che Platone non bandi della sua repubblica,
quale fosse disonesto come si vede, che ebbe se non i comici, la qual cosa non esser vera
la latina, oltra Ovidio e Gallo (se di Gallo dimostrano le parole sue proprie, che sono
sono l'elegie, che sotto il suo nome si leggo generali. Altri dicono che egli non diede bando
no) mentre disonesti furono Properzio ancora alla poetica, ma a poeti, come quelli i quali
e Tibullo in alcuni luoghi: ma che più ? Ca male l'usavano, e questo ancora non riputiamo
vero, perchè egli, sebbene alcuna volta loda
(1) Intende dell'Orlando Innamorato, poema di Matteo Omero, lo biasima ancora; e pure niuno fu
Boiardo, rifatto dal Berni. (M.) mai, a giudizio ancora d'Aristotile, nè mag
(2) Giovanni Mauro, della famiglia de Signori d'Arcano giore poeta, nè migliore: e poi egli avrebbe
nel Friuli, nacque verso il 149o. Amicatosi in Roma col
Berni, diedesi a scrivere in quel genere di poesia, che questi
cacciati i poeti cattivi, e non i poeti sempli
avea posto in tanta voga. Mori in Roma nel 1536. Le Rime cemente. Altri vogliono che egli si movesse a
di lui sono comunemente aggiunte a quelle del Berni; ben ciò fare per lo giusto sdegno, che aveva con
degne d'andar loro, se non del paro, almen dappresso, si per tro Aristofane, il quale pregato e pagato da
la lo leggiadria, che per la soverchia loro libertà. (M.) coloro, i quali portavano invidia a Socrate suo
DELLA POETICA IN GENERALE - a53

maestro e gli volevano male per le bontà e egli non durerà, nè metterà a divenire mez
virtù sue, gli fece una commedia contra, chia zano o buono poeta. E con tutto ciò credia
mata le Nugole, che ancora oggi si legge, la mo, che a volere giugnere al sommo ed es
quale fu cagione che Socrate, uomo santissimo sere ottimo poeta, sia di maggiore ed ingegno,
e sapientissimo, prima fosse preso come ereti e dottrina e fatica, che a divenir perfetto ora
co, e poi, non volendo egli nè difendersi da tore, cioè a quel grado che ciascuno lo tenga
sè, nè lasciare che Platone o altri lo difen per perfetto; sebbene per avventura non può
desse, morto; ma nè anco questa ci pare la arrivarsi a quella ultima perfezione, perchè le
vera cagione, conciossiacchè la cattività dei parole non aggiugneranno mai a concetti, e
tristi non debba far danno all'innocenza dei così sempre sarà più perfetta l'idea d'un ot
buoni. Nè mancano di coloro, che dicono, timo maestro, che l'ideato. E quinci è, che i
che egli, come nell'ordinare la sua repubblica grandi ingegni rade volte, e forse non mai si
s'ingannò in moltº altre cose, le quali erano contentano, e sempre cercano più oltra di
parte impossibili e parte ridicole (il che prova quello che hanno trovato; il che si vede non
Aristotile nel secondo libro della Politica lun solamente ne poeti e negli oratori, ma ezian
gamente) così s'ingannò ancora in questa di dio negli scultori e ne dipintori, ed in tutte
tor via e levare i poeti. Ma noi pensiamo, l'altre arti nobili e d'ingegno. E ben vero,
rimettendoci sempre a più giudiziosi di noi, che come testifica Orazio, agli oratori e quasi
che Platone, considerando la malvagità degli a tutte l' altre arti si concede lo essere mez
uomini, i quali pare, per non so che stelle zano, ma a poeti no: il che viene perchè la
maligne, s'appiglino piuttosto e più volentieri poetica non è necessaria, e le cose senza le
al male, che al bene, oltra l'uso, che infino quali si può fare, si deono fare eccellentissi
ne tempi suoi in Atene era corrottissimo, per mamente, o lasciarle stare. Nè sia alcuno che
levar via l'occasione di favellare degli dii favo creda, che il non essere ella necessaria le tolga
losamente, e come non pure d'uomini, ma d'uo di dignità, anzi gliene accresce in infinito, per
mini appassionatissimi, giudicasse ben fatto di chè la metafisica, come è la manco necessaria
non riceverli nella sua città, ancorachè per scienza che sia, così è la più nobile.
altro li credesse per avventura buoni ed ono Con questa pare che sia appiccata un'altra
rabili. Il che dimostrano le parole usate da quistione; e questa è, se egli è vero quello,
lui, nel dar loro non brutto, ma orrevole com che si dice comunemente e con autorità di
miato, come a persone sacre ed innocenti. E grandissimi uomini, cioè che i poeti nascano
ben può essere, che alcuna cosa sia per sè e gli oratori si facciano. Al che ci pare da
buona ed utile, ma rispettivamente non buona dire, che così nascono gli oratori come i poe
e dannosa: come si vede ancora degli oratori, ti, e così si fanno i poeti come gli oratori; né
i quali non pur una volta, ma più furono cac per questo voglio inferire, che molti non na
ciati non d'una finta città sola, ma di molte scano più atti alla poesia, che all'oratoria;
e vere; nè perciò se ne deve gittare la colpa ma che ancora molti più atti nascono all'o-
alla rettorica, ma a coloro, che la rettorica ratoria, che alla poesia; e per esser meglio
male usarono. -
inteso, dico, che chi non è nato atto alla poe
Ma, per dire quello che alla mente ci sov sia, non sarà mai buono poeta, ma ne anco
viene di mano in mano, dubitano molti qual sarà oratore buono, chi non è nato all' ora
sia di maggior fatica, la prosa, o il verso; e toria. Credo bene, che, data la parità di due,
pare, che Cicerone, uomo piuttosto divino che che non siano nati atti nè alla poetica, nè
umano, risolva egli questo dubbio, dicendo, alla rettorica, o piuttosto che abbiano eguale
che i poemi si portavano colle carra, e le ora attitudine all'una ed all'altra, il farsi eccel
zioni colle spalle, quasi dicesse, che molti più lente sarà più malagevole, come si disse testè,
erano i poeti, che gli oratori. Nè sia chi creda al poeta, che all'oratore. Quello che voglio
con Giovenale e non so chi altri, che Cice dire è, che oltra la natura, bisogna l'arte: l'arte
rone non sapesse far versi, perchè egli li fa bisogna, dico, oltra la natura : chè senza la
ceva eccellentemente (1). Nientedimeno, perchè natura non si può fare cosa alcuna, perchè ella
egli, non solo nell'Orazione che fece in favore dà i principi, i moti, i semi, o altramente che
d'Archia poeta, ma in molti altri luoghi, loda dobbiamo chiamarli a tutte le cose. Ma chi è
ed ammira la poesia, noi diremo liberamente eccellente in qual si voglia scienza o arte,
l'opinione nostra, la quale è, che amendue, deve saperne maggior grado all'arte, compren
cioè le prose ed i versi, essendo cose eccel dendo sotto l'arte lo studio e l'esercitazione,
lentissime, siano ancora di fatica incredibile, sebbene senza la natura non può farsi. Che
ricercandosi nell'une e nell'altre, oltra l'arte, le terre grasse facciano assai biade, è dono della
studio ed esercitazione quasi infinita; e che natura, ma che le facciano buone, è opera e
più fatica durerà uno e maggior tempo met diligenza dell'arte; ed è più che vero quello
terà a divenire mezzano o buono oratore, che che sogliamo dire comunemente per proverbio:
Chi si fa beffe dell'arte, l'arte si fa beffe di
lui ; e Virgilio disse, che la fatica indomabile
(1) Qui il Varchi si chiarisce troppo devoto a Marco
Tullio: quanto al giudizio sui versi di Cicerone, pare a me
vinceva tutte le cose. Tutto quello che voglio
che l'autorità d'un poeta latino possa tenere in bilico quella conchiudere è, che la natura ha bisogno del
d'un critico toscano; onde terrei piuttosto per Giovenale che l'arte, e l'arte ha bisogno della natura. E se
pel Varchi, (M.) uno mi dimaudasse quale farebbe meglio, e
254 LEZIONE UNA DELLA POETICA IN GENERALE
uno che avesse l'arte e non si fosse esercita tissimamente, e più che in tutti gli altri, quasi
to, o uno che mancando dell'arte, avesse com senza comparazione, per nostro giudizio, in
posto assai, direi, che non penso, che questo Dante. Trattando dunque la poetica di tutte
caso si possa dare così appunto, avendo tutti le cose cosi divine, come umane, avendo tanto
se non altramente, da natura qualche poco sublime, desiderato e degno fine, e conseguen
d'arte, pure io per me crederei, che se non dolo nel più bello, utile e dilettevole modo
meglio, manco male facesse colui, il quale fosse che esser possa, viene a contenere in sè ne
esercitato, perchè l'arte è dell'universale, ed i cessariamente tutte le scienze, tutte le arti e
componimenti sono particolari; anzi ho io co tutte le facoltà insieme; donde è più nobile,
nosciuto di quelli, i quali hanno inteso e fa più piacevole e più perfetta di ciascuna di
vellato dell'arte benissimo, ma non già scritto loro di per sè: dunque merita senza alcun
secondo l' arte. Ed a chi dicesse: Chiunque dubbio maggior meraviglia come facoltà, e mag
fa bene senza arte, fa bene a caso, e chi fa gior lode come arte, e maggiore onore come
bene a caso, non merita lode; risponderei, che scienza di tutte quante l'altre facoltà, arti e
l'esercitazione, se ella è coll'imitazione, non scienze. E qui rendendo umili grazie, prima
si può chiamare senz'arte, e se è senza imi alla somma clemenza e maestà dell'Altissimo,
tazione, se fosse in un ingegno e giudizio buo poi alle benigne cortesie e pazientissime orec
no, potrebbe produrre di bellissimi frutti, dove
chie vostre, porrò omai a questo ragionamento
l'arte senza l'esercitazione piuttosto non farà, fine. -

che faccia cosa fuori d'essa; sicchè si ritorna


alla dubitazione di sopra, perchè bisogna l'arte
e l'esercitazione insieme, come conchiuse an
cora Orazio.
Ma perchè l'ora è tarda, e questa materia
è, se non infinita, lunghissima, e noi avendone
L E ZI O N I C IN QUE
oggi generalmente trattato, potremmo un giorno DELLA POESIA
esaminare meglio e disputare i capi più prin
cipali più particolarmente; non diremo al pre
sente altro, se non che, avendo in fin qui fa
vellato della poetica non poeticamente, cioè
non finitamente, nè favolosamente, ma dettone LEZIONE PRIMA
tutto quello che pensiamo che sia la verità,
aggiugneremo ancora questo d'averne nuda Io E L L E PARTI D E LL A P O E SI A
mente favellato, così dalla parte nostra, perchè
non avemo cercato d'ornarla, come dalla sua,
perché non l'avendo divisa nelle sue parti
nè sostanziali, nè quantitative, se non per ac LEzioNE DI BENEDETTo vARCHI, NELLA QUALE si
cidente e senza dichiararle, avemo non altra divide LA PoesiA NELLE SUE PARTI , LETTA DA
mente fatto, che talvolta i dipintori, quando LUI PUBBLICAMENTE NELL'ACCADEMIA FIoRENTI
mostrano uno schizzo, o gli scultori una bozza NA, LA PRIMA DoMENICA DI DICEMBRE, L'Anno
mostrano delle loro figure. E se paresse ad al MDLlil, -

cuno, che io troppo lodata l'avessi, sappia che


io n ho manco detto di quello che ne credo,
PR O E MI O
e questo ho fatto, perchè l'ho puramente e
ne' suoi termini semplici considerata, e final
mente non da oratore, ma da filosofo; che ben
so ancor io, che anticamente i filosofi, anzi i Fu non dubbia opinione del maggior uomo
teologi stessi erano i medesimi che i poeti, e che mai, secondo il giudizio de' migliori filo
che Pindaro dice, che tutti coloro, i quali sofi, in questa luce prodotto fosse, e questi fa
non amano le Muse, sono da Dio odiati. Aristotile, che tutte quante le cose di tutto quan
Ma chi volesse la poetica dalla sua gran to questo mondo inferiore fossero, magnifico e
dezza e da quella altezza giudicare dove l'hanno reverendo Viceconsolo, onoratissimi Accade
i divini ingegni colle mirabili opere loro con mici, e voi tutti, Ascoltatori nobilissimi, non
dotta, conoscerebbe manifestissimamente, che solamente state infinite volte per l'addietro,
delle tre facoltà, le quali, libere da tutte le ma eziandio infinite volte dovessero essere per
materie, si maneggiano intorno a tutte le cose, l'innanzi ; di maniera che niuna scienza, niuna
e ciò sono la dialettica, l'oratoria e la poeti facoltà e niuna arte si ritrova in luogo nes
tica, se non solo la poetica, certo più ancora suno, la quale e non sia già stata, e non debba
ancora essere infinite volte. Anzi tutte le cose
che la rettorica, non si trasforma in quelle
cose, delle quali tratta, ma fa che elle in lei che da tutti gli uomini, per tutti i luoghi e
si trasformino ; di maniera, che la poetica in tutti i tempi furono o fatte, o dette, o pen
quanto allo strumento, ha la filosofia raziona sate, erano state e pensate e dette e fatte
le, quanto al subbietto, non solo la filosofia infinite volte prima, e infinite volte e pensate,
attiva, ma eziandio la speculativa; come si può e dette e fatte saranno poi, in guisa che mis
chiaramente vedere in Omero, ed in Virgilio, suna cosa in niuno modo ne è, nè fu, nè sara
le trattarono molte volte cose altissime al mai sotto il cielo, la quale intinite volte nota
LEZIONE PRIMA DELLA POESIA 255

sia stata per lo passato, e non abbia ad essere pio avuto, e conseguentemente non dovendo
infinite volte per l'avvenire (1). aver fine mai, quale è quella cosa la quale o
Questa opinione come a chi nella filosofia possa negarsi essere stata infinite volte, o non
esercitato non e, pare non solo falsa e im debba credersi infinite volte dovere essere, non
possibile, ma ridicola: così a coloro che sono che potere? Conciossiachè tutte quelle cose,
in essa esercitati, è non solo vera e possibile, che essere possono, è, secondo i filosofi, neces
ma necessaria. Laonde, come i volgari si ri sario che siano: perciocchè altramente invano
dono bene spesso di chiunque cotali cose o sarebbe e di soverchio cotale potenza. Ora
che alcuna cosa vana sia o soverchia nell'u-
dice, o crede: così i filosofi sempre non si ri
dono già, ma bene portano a chiunque o le niverso, nè Dio il permette, nè il tollera la
niega, o non le crede, compassione. Percioc natura. Per le quali cose non solo potemo cre
chè, essendo il mondo eterno ed infinito, cioè dere, giudiziosissimi Ascoltatori, ma dovemo
non avendo mai secondo i Peripatetici princi ancora, Firenze medesima, la Cupola stessa,
questa Accademia propia, non che la stampa
(1) Qui il Varchi, per servile devozione alle dottrine Pe e l'artiglierie e questa cattedra qui, sopra
ripatetiche, cadde in un gravissimo errore; poichè suppo la quale sono già tante fiate, quantunque in
nendo, secondo i principi d'Aristotile, il mondo stato ab eter degnamente, salito, essere state infinite volte
no, e che non abbia avuto mai principio, nè sia per aver secondo i filosofi, e infinite volte secondo i
fine, vuole che in buona filosofia si creda, che tutte le cose medesimi dover essere.
che ora si ritrovano nel mondo, siano già state infinite volte, E questo è quello, che voleva, per avven
e infinite debbano essere in avvenire. Egli è ben vero, che
dopo si protesta, camminar la bisogna tutt'al contrario se
tura Platone, uomo divino piuttosto che uma
condo la teologia, a cui, com'egli dice, devono prestar fede no, significare in dicendo, che dopo l' anno
tutri i cristiani: ma codeste parole non sono certo un ba grandissimo, cioè dopo la rivoluzione d'anni
stevole e valido correttivo. Laonde fra Tommaso Buontnse trentaseimila dovevano tutte tornare le cose
gni, dell'ordine de' Predicatori, che per ordine del Padre medesime. Ma le innondazioni così dei popoli
Inquisitore di Firenze rivide quest'opera, suggeri che non barbari, come dell'acque, e talvolta le pesti
si permettesse la stampa del principio di questa Lezione, o lenze, o gli incendi, o altre così fatte ruine
pure (il che fu fatto nell' edizione del Giunti) vi si stam
passero accanto alcune sue glosse marginali, che riprendono
spegnendo, se non universalmente in tutto il
e confutano una tal dottrina. Il Vanchi, come faremo os mondo, certo in una provincia intera tutte le
servare a suo luogo, cercò nella Lezione seguente di ridurre memorie di tutte le cose, fanno che elleno
siffatta dottrina a un senso cattolico, ma con un rigiro di pajano sempre nuovamente o trovate, o fatte;
parole e di sottigliezze, che non riescono a salvare Aristo dove nel vero piuttosto, o ritrovate, o rifatte
tile e i suoi seguaci. Ecco intanto il voto del Padre Buonin chiamare si dovrebbono secondo i filosofi. Dico
segni e le sue glosse: già più volte secondo i filosofi, perciocchè io
Padre molto reverendo Inquisitore. so bene, Uditori ingegnosissimi, che secondo i
teologi, a quali dovemo credere noi cristiani,
Non permetterei che le prime tre facce segnate da lato la bisogna sta tutta per lo rovescio; percioc
con la linea si stampassero; perchè contengono errore intol chè, avendo il mondo secondo loro, cioè se
lerabile in filosofia, che le cose abbiano a tornare infinite condo la verità, avuto principio, e dovendo per
volte. La vera filosofia non repugna alla verità; oltra che conseguenza aver fine, niuna cosa può essere
falsamente attribuisce tal opinione ad Aristotile , perchè in
nuno dei suoi libri disse mai questa menzogna. E se pur quaggiù nè eterna, nè infinita.
V. P. R. concede che si stampino, faccia che in margine si Per venire oggimai al proponimento nostro,
stampino le glosse da me fatte, acciò i manco scienziati non - dico, che tanto secondo l'opinione de filosofi
restino ingannati. gentili, quanto secondo la certezza de teologi
lo fra Tommaso Buoninsegni di propria mano. cristiani, chiunque vorrà diligentemente, e con
diritto occhio risguardare, vedrà in tutte le
Glossa 1. alle parole del Varchi: Questa opinione, ec. cose, le quali, o si generano dalla natura, o
Questa opinione non si lesse giammai in Aristotile, nè
dai suoi principi si conclude necessariamente, ancora che egli sono fatte dall'arte, i principi primi essere
Pºngº il mondo eterno, perchè è impossibile, che in qualsi. sempre piccioli e debilissimi, e quasi da non
voglia rigiramento di tempi ritornino giammai gli istessi mo doverne sperare a grandissima pezza quello,
vimenti de cieli numeralmente, dato che specificamente tor che sorgere di loro e risultarne in processo
ºre pºtessero, supposta l'eternità del moto; onde mai non ritorne di tempo si vede. Chi crederebbe, pruden
ranno li medesimi effetti lmente. Codesta fu pinione del
tissimi Uditori, che di sì poco seme e non
Giandone, con poca ragione fondala, repugnante alli principi animato, quanto vedemo, potessero, per la
della vera filosofia, la quale essendo vera scienza, non può
da quella derivare una ºpinione così stolta e ridicola, da sciare ora molte altre cose e quasi infinite
non attribuire a un tanto filosofo. da parte stare, nascere, oltra tante erbe, fru
Glossa 2. alle parole: Laonde, come i volgari, ec. tici e piante, tutti gli animali, i quali cotanti
Non si può veramente dire, che agli esercitati nella vera e così strani e così diversi, parte adornano l'a-
slosofia rºtaie opinione sia vera e necessaria, anzi falsa e ri ria, parte riempiono il mare e parte ricno
dicola, Perchè da una vera scienza, quale è la filosofia non prono la terra? E per dire delle cose dall'in
si può dedurre falsità alcuna; conciossiachè dal vero non si gegno umano ritrovate e per mezzo dell'arte
deduca se non vero, come insegnò Aristotile.
Glossa 3. alle parole: Conciossiache tutte quelle cose, ec. fatte, chi può senza grandissima maraviglia
Ragione frivola, nè è vero, che ogni potenza si riduca a considerare, che con sì poche lettere, quanti
l'atto nell'istesso individuo; olirachè il ritornare l' istesse non sono a gran pena i mesi, che in due anni
º in individuo non è fattibile per aatura, ma solo per mi si contano, non solo tutte le cose di tutto l'u-
racolo di Dio. (M.) niverso, ma ancora tutti i pensieri di tutti gli
256 LEZIONE PRIMA
uomini tanto agevolmente e tanto perfettamente l'animo grande, o pure una scintilla sentirono
si scrivano e manifestino ? della vera virtù, la quale altro premio non ha
Tutte le facoltà e scienze, Uditori graziosis che la lode e l'onore, amassero così grande
simi, tutte l'arti così di mano, come d' inge mente e onorassero i poeti?
gno, e brevemente tutte le cose, che poi creb Ma che dico io degli uomini? i quali mor
bero alte e onorate, videro il loro principio tali essendo e cadevoli, altra via non hanno
basso e senza gloria. Usciti gli uomini delle ad eternarsi, nè altro mezzo per conseguire
spelonche non edificarono case o palagi di la immortalità, che la poesia, posciachè gli dii
pietre o di marmi, ma intesserono capanne stessi, non dico, non isdegnarono, ma gradirono
di terra e di giunchi: non si vestirono di seta sopra tutti gli altri coloro, i quali le lor lodi
e d' oro, ma si coprirono d' erbe e di frondi. poeticamente, cioè con divini versi e immor
Chi dubita, che non colle picche combatte tali concenti celebrarono, come possono am
vano quei primi uomini, nè cogli spiedi, ma piamente manifestarne appo i Greci gli anti
colle canne e colle pertiche ? ne s' armavano chissimi e nobilissimi poeti Lino e Orfeo, e
di ferro o d'acciaio, ma si cignevano di appo gli Ebrei il sapientissimo re e santissimo
cuoio o di pelli? Prima furono i borghi, che profeta Davidde. E se questo odierno secolo
le città : anzi le ghiande, che il grano. Roma è o tanto cieco che egli non vegga, o tanto
stessa finalmente, la quale a tutte le cose mor infermo che non sostenga, o tanto corrotto che
tali andò di sopra, ebbe da due pastori, per non voglia sì chiara, sì gioconda e sì salute
non dir ladroni, l'origine sua. vole luce, dolgasi di sè stesso, increscagli di
Non è dunque, non è, discretissimi Ascolta lui medesimo, pianga insieme con le sue colpe
tori, che alcuno o possa riputar vile la poe le sue sventure, certissimo che il sole ha la
sia, come ho sentito, che molti fanno, per lo medesima virtù sempre, e così risplende quan
avere ella picciolo principio e debile avuto, do è fosco e turbato l'aere, come quando è
essendo da coloro nata, i quali dal desiderio tranquillo e sereno il cielo. Il perchè, avendo
tratti dell'imitare e dalla dolcezza dell'armo noi nel principio e prefazione nostra favellato
nia, andavano ex tempore, o, come noi diciamo, della poetica generalmente, oggi, la medesima
improvvisamente cantando: o debba maravi materia seguitando, divideremo, cortesissimi
gliarsi, che ella da sì basso inizio e ignobile Ascoltatori, col nome dell'ottimo e grandissi
cominciamento a tanta altezza salisse e a così mo Dio e favore dell' umanissime benignità
fatta eccellenza, che niuno guiderdone può vostre, la poesia nelle sue parti, e le dichia
nè maggiore venire, nè migliore a l'opere lo reremo a una a una, con quella agevolezza e
devoli degli uomini valorosi, che l' essere da ordine che sapremo maggiore, tutte quante.
alcuno poeta cantate e fatte immortali. Onde
nacque quel nobile, e veramente generoso so Nessuna scienza mai, nè nessuna arte fa
spiro il quale al sepolcro d'Achille cantato vellano di cose particolari, ma sempre d'uni
da Omero, fece Alessandro, quando disse: versali. E la cagione è, oltra che tutte le scienze
sono sempre di cose necessarie ed eterne, e
O fortunato, che si chiara tromba non mai di contingenti e corruttibili, che, es
Trovasti, e chi di te sì alto scrisse ! (1). sendo i particolari infiniti, non possono essere
E di vero tutte l'altre cose, chi ben consi sotto regole ridotti; e quello che sotto regole
dera, o toglie la fortuna, o spegne la morte, non può ridursi, è impossibile che s'appari;
o consuma il tempo: solo i poemi, i poemi e quello che con s'appara, non si sa. E ben
solo nè da forza di fortuna, nè da violenza di vero, che non essendo gli universali altro, che
morte, nè da lunghezza di tempo non si tol i particolari universalmente considerati, chi sa
gono, non si spengono, non si consumano glam gli universali, viene a sapere in un certo modo
mai. Jamque opus exegi (disse quello ingegno ancora i particolari. Perchè chi sa, esempi
sissimo poeta nella fine della sua grandissima grazia, che tutte le mule sono sterili e sa che
opera), e noi vedemo oggi per la sperienza questa sia mula, sa anco, che questa è sterile.
passati già più che mille e cinquecento anni, Ma perchè gli universali, non essendo altro
essere stato verissimo, quod nec Jovis ira, nec che concetti fatti dall'anima nostra, s'appren
ignis. – Nec poterit ferrum, nec edax abolere dono solo coll' intelletto, dove i particolari,
4 ettastas, essendo cose reali, si conoscono col senso;
Pandolfo mio queste opere son frali quinci è ch' a volere essere perfetto artefice,
A lungo andar; ma il nostro studio è quello, verbi grazia, buon medico, si ricerca l'una
Che fa per fama gli uomini immortali (2). cosa e l'altra, cioè la scienza, la quale è de d
gli universali, e la sperienza, la quale è dei
E maraviglieremoci ancora o che il popolo particolari; perchè, oltra che non si medica
romano, benchè più all' armi dato, che alle mai l'universale ovvero la spezie, cioè l'uo
lettere, si levasse da sedere tutto e s'inchi mo, ma sempre il particolare, ovvero l' indi
nasse riverentemente a Virgilio, entrando egli viduo, cioè donna Berta o ser Martino, chi
nel teatro? o che tutti coloro, i quali per sapesse, che le carni leggiere, per atto d' e
tutti i secoli e in tutte le nazioni o ebbero sempio, sono agevoli a smaltire, e non sapesse
quali fossero le carni leggiere, non potrebbe
servirsi di cotale scienza ; e chi per lo con
(1) Petrarca, Son. CXXXV, Parte I.
- (2) Son. XII, Parte III, indiritto a Pandolfo Malatesta. trario sapesse per prova, che le earni degli
l
DELLA POESIA 257
uccelli sono leggiere, ma non sapesse che le poetica d'Aristotile, senza il quale non saprie
carni leggiere si smaltiscono agevolmente, non muovere un passo, esercitato non mezzana
potrebbe servirsi anch'egli di cotale sperien mente in cotal materia, non arei osato d' en
za: onde si può indubitatamente conchiudere, trare in così grande impresa, la quale in ve
che a un perfetto artefice sia necessaria la rità non è da doversi pigliare a gabbo. Ma
teoria e la pratica insieme, cioè la scienza e perchè alcuni si sono maravigliati, che io, do
la sperienza. vendo definire la poetica, non pigliassi la de
Laonde, essendo io stato eletto a dovere finizione, che le dà Diomede Grammatico (1),
interpretare il Petrarca, e considerando che e nº, so chi altri, son costretto a fare in
quando leggessi ora uno de' suoi Sonetti, e iscusazione mia, e soddisfacimento loro alcune
quando una delle Canzoni, come s'è fatto in parole, le quali intendo, che mi debbano ser
fin qui, non produrrei quel frutto che io de vire a più cose e per sempre. Dico dunque,
sidero di produrre, perchè chi non sa prima che tutti coloro, i quali in qualunque lingua
l' universale, non può sapere il particolare, o scrissero, o scrivono, usarono e usano uno
conciossiacosachè chi non sa che sia uomo, di questi due modi; il primo de' quali è, che
non può sapere che sia nè Piero, nè Giovanni; essi dicono tutte quelle cose, le quali o paiono
e chi non sa, che cosa è poesia, e in quante vere a loro, o sono state scritte da alcuno au
parti si divide, non può sapere nè qual sia tore, donde essi le traggono per vere, senza
quella del Petrarca, nè sotto che parte cag farvi sopra fatica alcuna o considerazione,
gia: avemo giudicato esser ben fatto, innanzi anzi bene spesso non si curando, non ch'altro,
che alle parole del testo si venga, dichiarare d'intenderle e senza fare distinzione, se quello
primieramente in generale tutte quelle cose, scrittore, da cui le pigliamo, è antico o mo
le quali alla facoltà e materia poetica s'ap derno, filosofo o retore, sacro o gentile, no
partengono, poscia disputare particolarmente bile o plebeo, approvato dagli uomini dotti o
e risolvere, per quanto sapremo e potremo rifiutato, e finalmente seguono l'autorità sola;
noi, tutte le difficoltà, tutte le quistioni e tutti o seppure vi pensano e vi discorrono sopra,
i dubbi, che nell'arte poetica e dottrina della non sanno, o non si ricordano di quello ter
zetto di Dante:
poesia in qualunque modo e per qualunque
cagione sono, o essere possono, che sappiamo Vie più che 'ndarno da riva si parte,
noi. E in ciò fare seguiremo, per essere e più Perchè non torna tal qual ei si muove,
brevi e più agevoli, l'ordine della natura, Chi pesca per lo vero, e non ha l'arte (2).
cioe cominciaremo dalle cose più universali e
meno perfette, e verremo di mano in mano E per dirlo, ch'ognuno intenda, chi crede di
alle meno universali, e per conseguente più poter sapere cosa alcuna senza la loica è in
perfette. Ed useremo per lo più il metodo e quel medesimo errore, che se egli credesse di
dottrina risolutiva, cioè dichiareremo prima poter camminare senza piedi. E so bene, che
il tutto generalmente, e poi ciascuna delle a molti paiono queste cose iperboli o para
parti spezialmente; di maniera che tutti co dossi, e dette o per accrescere la verità, o per
loro, a cui non parrà fatica l'ascoltare, po dir cose fuora d'opinione; eppure sono tanto
tranno da sè medesimi dar giudizio di tutte vere e tanto chiare agli intendenti, che io te
i - - - - - - - -

le cose poetiche, e conseguentemente risol mo più di coloro, i quali si maraviglieranno,


versi per loro stessi quali siano, e per che ch' io l'abbia dette, come se fossero dubbie,
cagioni maggiori e migliori poeti, o i Greci, o negate da alcuno: e tutto quello, che ho
o i Latini, o i Toscani, e tra i Toscani quale detto infin qui, intendo aver detto in quanto
avanzi l'uno l'altro, o Dante il Petrarca, co alle cose. Ora quanto alle parole, l'opinione
me crediamo noi, in altro modo però e per mia è, che quanto si scriverà o favellerà più
altre cagioni che non sanno alcuni : o il Pe copiosamente e più ornatamente, secondo però
trarca Dante, come affermano molti ; e simil la materia proposta, tanto s'acquisterà mag
mente qual conto tenere si debba de' poeti gior lode, e si farà profitto migliore; ma per
ignobili e di volgo; e a chi si deve più lode che lo scrivere, non che il favellare leggiadra
dare e maggiore obbligo avere dagli uomini, mente, è opera di molto tempo, studio e fa
o a messer Lodovico Ariosto nel suo Orlando tica, e molti o non vogliono, o non possono
Furioso, o a messer Luigi Alamanni nel suo
impiegare la fatica, il tempo e lo studio loro
Girone Cortese, i quali due tengono oggi senza º in ciò, crederei che almeno si dovessero guar
contrasto il principato nell' ottava rima ; il dare di non peccare contra i precetti e le re
qual modo di poetare si crede da molti, che gole della grammatica. E sebbene io concede
nella nostra lingua corrisponda all'esametro, ov rei, che una gioia fine e preziosa, in qualunque
vero eroico nella latina: della qual cosa faremo al modo e materia legata fosse, e da piacere e da
suo luogo disputazione particolare, come di tutte tener cara, crederei ancora, tutto che non sia
l'altre cose, le quali giudicheremo o utili o molto solenne lapidario (3), che quanto più
necessarie a bene intendere la materia della poe
(1) Questo Diomede Grammatico fiori presso il VI secolo
sia le quali sono tante e si diverse, e si malage dell' era volgare. Si hanno di lui tre libri intitolati: Delle
voli, ch'a me sarebbe molto più caro l'averle i parti dell'orazione e del vario genere de retori. (M.)
a udire da altri, che altri dovesse da me udirle. (2) Paradiso, Canto XI I 1.
E per fermo, se io non mi fossi, sono già (3) La parola lapidario qui è presa nel suo senso proprio
molti anni, in traducendo e commentando la di gioielliere. 33 ( M.)
-
ai bil V , la
258 LEZIONE PRIMA

fine fosse e più preziosa, tanto meglio si do tassare alcun particolare; la qual cosa, sebbene
vesse o in più fine e più preziosa materiale conosco ora potersi in quel modo interpretare,
gare; o dovendosi pur legare in materia men è nondimeno tanto dal vero lontana, che io
mobile, legarla se non in argento, almeno in oserei di giurare santamente di non avervi,
piombo o in ferro. non che altro, pensato. Anzi dirò più oltre,
L'altro modo è di coloro, i quali cosa nes che io dissi cose, e dinanzi a tante e tali per
suma non iscrivono senza prima pensarvi e sone le dissi, che, se ad altro fine, che per
senza fondarsi non tanto sopra l'autorità, dire la verità, dette le avessi, rimaneva infa
quanto sopra la ragione; e seppure si servono me e disonorato ancora io, come sanno gli in
dell'autorità, non si servono gran fatto, se non tendenti, nè mi sarei potuto scusare col di
di quella di coloro, i quali essendosi sopra la re, che faceva ciò per zelo, che s'ammendas
ragione fondati, sono da tutti stati, o almeno sero. Perciocchè ne ognuno si debbe ripren
dalla maggior parte degli uomini, o dalla mi dere, perché egli s'ammendi, nè da ognuno,
gliore accettati e ricevuti, come sono nelle nè in ogni luogo. Ma di molte cose, che
medicine Ippocrate e Galeno, e nella filosofia a questo proposito mi sovvengono, parte se
Platone e Aristotile, del quale scrisse Aver condo i filosofi, e parte secondo i teologi, ne
rois: Il grandissimo maestro nostro non disse voglio solamente cinque le più brevi raccon
mai cosa nessuna senza fortissima ragione. E tare, e di grandissimo contento e tranquillità
questo modo, il quale chiamiamo scientifico, a chi le considera. La prima è che alla bel
ci siamo ingegnati noi in fin qui, e c'ingegne lezza e perfezione dell'universo si ricercano
remo, Dio concedente, di seguitare per l'av non solo le cose belle, ma ancora le brutte,
venire, avvertendo di non dire cosa nessuna non solo le buone, ma ancora le ree. La se
senza ragione, o almeno senza autorità d'al conda: niuno fa mai ingiuria nessuna a veruno
cuno autore approvato e spezialmente d'A- per fargli ingiuria, perchè il fare ingiuria ad
ristotile : alcuno è male, e niuno elegge di fare male, se
non ingannato dalla ignoranza, se già non fosse
Che'n quella schiera andò più presso al segno, o mentecatto, o di perduta speranza; nel pri
Al quale aggiugne a cui dal cielo è dato (1). mo caso de quali non ingiuria nessuno, e nel
secondo sè medesimo. La terza: come nessuno
E in quelle cose, dove non avessimo nè l'una bene rimase mai non rimunerato o da Dio, o
nè l'altra, ne faremo avvertiti, o diremo quel dagli uomini, così niuno male rimase mai non
tanto che giudicheremo, se non più vero, certo punito, o dagli uomini, o da Dio. La quarta:
più probabile e meno falso, secondo gli am nessuno può essere ingiuriato mai veramente,
maestramenti loici e filosofici, confessando li o disonorato da altri, che da sè stesso (1). La
beramente l'ignoranza nostra; perciocchè il quinta ed ultima : a niuno, ancora che grave
non sapere non e ne vergognoso, ne riprensi mente offeso e oltraggiato o di parole, o di
bile, nascendo noi tutti del tutto ignoranti , fatti, in mille modi e a mille torti, è lecito,
ma solo il non cercare di sapere, o il darsi non che offendere o oltraggiare alcuno per ven
a credere di saper quello, che l'uomo non dicarsi, ma nè ancora, non dico cercare, ma
sa, ingannando, più che altrui, sè stesso, nè si desiderare la vendetta, se egli vuole essere non
ricordando, che coloro i quali sanno assaissi dico nè cristiano, nè filosofo, ma uomo: per
mo, non sanno si può dir nulla verso quello, chè chiunque fa cosa alcuna studiosamente
che sapere si potrebbe e forse dovrebbe. brutta , o disonesta, per qualunque cagione
Laonde io per me sono fermato, e così pro egli se la faccia, perde l'onore: e chi perde
metto ingenuamente, e così se Chi può non l'onore, il quale deve più che mille vite sti
mi privi del bene dell'intelletto, e mi faccia marsi, è infame; e chi è infame, non che sia
il più infelice uomo che viva, attenderò infal uomo, veramente deve essere più odiato dagli
libilmente di seguire l'ordine in fin qui da me uomini veri e più fuggito che le serpi non sono.
tenuto, di non dir mai cosa alcuna, la quale Ma perche di questa materia male oggi con
io non creda che vera sia, senza lasciarmi o grandissimo danno e vergogna del secolo in s
trasportare dall'odio, solo che me ne accor tesa e peggio osservata, e di cui non può per
ga, o traviare dall'amore, pure che io il co fettamente trattare altri che il filosofo morale
nosca, di persona veruna. Donde possono aper o politico, avemo altra volta l'opinione nostra
tamente conoscere quanto s'ingannino coloro, detto, lasciatala per ora dall'una delle parti,
i quali si pensano, che io cerchi o d'abbas verremo a pregare con tutto il cuore tutti voi
sare la lingua Greca e la Latina, per innal insieme, e ciascuno di per sè, prima che non
zare la Toscana, o scemare la gloria dell'A- vogliate altro sentimento alle mie parole da
riosto, per accrescere quella dell'Alamanni, re, che quello che elle suonano, sicuri che

avvilendo il Furioso per far pregiato il Cortese, quando mi paresse, che altramente si conve
o cotali altre sciocchezze e gherminelle da nisse o al debito mio, o all'utile vostro, niuno
uomini o malvagi del tutto, o affatto stolti; e rispetto mai dal giusto mi potrebbe, nè dal
vie più coloro, se più si può, i quali hanno l'onesto rimuovere; poi, che tutto quello che
creduto, che io facessi la divisione de poeti
e biasimassi i maledici, solo per mordere e (1) Questa sentenza, che racchiude un senso cosi profondo,
è di San Giovanni Grisostomo: Nemo laeditur nisi a seme
(1) Petrarca, Trionfo della Fama, Capitolo Il I. tipso: Nessuno è offeso, se non da sè stesso, (M.)
DELLA POESIA s59
dico, crediate essere detto da me, solo per dai Greci Auletica (1), è manco nobile di quel
soddisfare all'obbligo dell'uffizio mio e gio l'altra maniera, che si fa mediante le corde,
vare a voi in quel poco che so e posso, e non come anticamente nelle cetere, onde si chia
per notare o riprendere alcuno, e massima mava Citaristica, sotto la quale si compren
mente di questa onoratissima brigata, e in ispe deva ancora la Lirica; ed oggi si vede nelle
zie colui, il quale mi fu in così nobile uſfizio lire, nei liuti, nei gravicemboli e in tutti gli
e così faticoso dato per collega; anzi per me altri strumenti così fatti.
glio dire, fu, siccome io, eletto per dovere Nè è dubbio alcuno, che di questi tre stru
con gli studi e fatiche sue non minore utilità menti, de quali si servono nelle loro imita
arrecare, che diletto. Del quale si per non p - zioni tutti i poeti, il sermone o sia in prosa
rere, che io voglia così tosto di quelle lodi o sia in versi è più nobile e più degno degli
rimunerarlo, che egli così abbondevolmente altri due. Perchè le parole rappresentano im
e così cortesemente non per mio merito mi mediatamente i concetti, i quali ci rappresen
diede, ma per sua mercè, e sì perchè mi tano le cose stesse, dove gli atti e i gesti non
parrebbe di soverchio ogni lode, che da me ci rappresentano immediate i concetti, ma me
se gli desse, avendolo voi già tante volte e con diante le parole, cioè sprimono prima e ci si
tanta non solo frequenza e attenzione, ma am gnificano in quel modo che possono le paro
mirazione ascoltato, mi tacerò al presente, e le, e poi mediante quelle i concetti, e me
me ne passerò oggi mai con buona grazia e li diante i concetti le cose, le quali sono l'ultime
cenza, senza più digressioni fare, a seguitare la che s'apprendono, e le prime che d'apprendere
materia incominciata e pagarvi parte di quello si cercano. Similmente il suono di qualunque
di che per l'uffizio e promessione mi vi sono, maniera sia, non rappresenta primamente e
non so se buono, ma bene prontissimo e lea senza mezzo i concetti, ma secondamente e
lissimo debitore. mediante le parole, che da esso suono, in quel
modo che si può, si comprendono.
Da questo discorso si possono cavare princi
Il principale uſfizio e artifizio di ciascun palmente tre cose non meno utili, che belle.
poeta è imitare, ovvero rappresentare. Rappre La prima delle quali è che i poeti hanno una
sentare, ovvero imitare non si possono da poe cosa comune, nella quale eglino convengono
ti, se non coloro che operano: operare pro tutti, e questa è l'imitazione; perchè tutti i
piamente non può nessuno, il quale non sia di poeti sono imitator , cioè rappresentatori, e
ragione dotato : nessuno animale è di ragione conseguentemente tutte le poesie sono imita
dotato, se non l'uomo; dunque l'uomo solo zioni, cioè rappresentazioni; onde tutti quelli
può essere imitato. Ma perchè i poeti non poeti e tutte quelle poesie, i quali e le quali
hanno a imitare gli uomini, ma le cose dagli non imitano e non rappresentano, non si pos
uomini fatte, diremo, che tutti i poeti deb sono veramente nè poeti chiamare, nè poesie.
bono imitare, cioè imitando e contraffacendo La seconda è, che tutti i poeti fanno tutte
rappresentare le operazioni degli uomini. Ma le imitazioni e poesie loro colle tre cose dette
perchè gli uomini non operano senza affetti, di sopra, cioè sermone, numero e armonia;
e ciascuno opera secondo l'uso, grado, età e ma alcuna volta mescolatamente e alcuna volta
natura sua; quinci è, che ogni buon poeta deve di per sè. La qual cosa, acciocchè meglio s'inten
tre cose senza più imitare: le azioni, ovvero da, dovemo sapere, che alcune poesie si fanno,
operazioni, gli affetti, ovvero passioni, e i co ovvero alcuni poeti imitano con una sola di que
stumi di chicchessia. ste tre cose, alcuna volta con due, e alcuna volta
Ciascuna di queste tre cose può essere imi con tutte e tre. Perciocchè alcuni imitano col
tata, spressa e rappresentata dai poeti in tre sermone solo, come si vede in quella spezie
modi soli e non più, cioè con tre strumenti di poesia chiamata dai Greci Epopeia, cioè fa
solamente: col sermone ovvero parlare, col citrice per parole, i poeti delle quali si chia
ritmo ovvero numero, e coll'armonia ovvero mano Epici e latinamente Eroici. Alcuni imi
musica. Il sermone può essere in due modi o tano col numero solo, e questi sono tutti co
loro, i quali imitano i costumi, gli affetti e le
sciolto, cioè prosa; o legato, cioè verso, come
dichiareremo più lungamente, quando dispu azioni degli uomini col saltare, cioè co'cenni,
taremo la questione, se per essere poeta basta atti e gesti. Alcuni imitano con due di que
la imitazione sola, oppure oltra l'imitazione ste, verbigrazia col numero e coll'armonia in
si ricerca ancora il verso. Col numero ovvero sieme, e questi sono tutti coloro, i quali usano
ritmo si può imitare in un modo solo, cioè quella maniera di poesia, che di sopra dicem
saltando, il che non vuol dire altro, che con mo chiamarsi Auletica e Citaristica, sotto le
i movimenti del corpo, i quali consistono nei quali si comprendono ancora la lirica, e quella
gesti, negli atti e nei cenni. L'armonia com delle fistole; perciocchè questi tali poeti usa
prende due cose: il canto e il suono. Il suono vano nelle poesie e imitazioni loro non sola
è di due maniere, perchè si fa o mediante, le mente l'armonia, ma ancora il numero, cioè
corde, o mediante il fiato o spirito umano, co non solamente suonavano, ma saltavano ancora.
me anticamente nelle tibie e nelle fistole ov Alcuni finalmente imitavano con tutte e tre;
vero zampogne, ed oggi ne flauti, pifferi, trom
oni, cornette ed altri stromenti somiglianti; (1) Auletica dalla voce greca avÀos, tibia o flauto
e questa sorte di musica, la quale si chiama i onde avant ns, suonato di flauto o auleda. QM. e
26o LEZIONE PRIMA
queste cose parimente, usando non solamente dal saltare e dal sonare, così sono diverse di
il numero e l'armonia, ma eviandio il sermo genere, cioè sono d'un'altra natura cotali
ne, perchè non solo movevano variamente il imitazioni. Onde due poeti, i quali imitassero
orpo e a tempo, nelle quali cose consiste il una medesima materia, ma con diverse cose,
rumero; ma cantavano ancora di ragione (1), cioè l'uno col sermone e l'altro col numero,
come noi diciamo, e per canto figurato, nel ovvero col numero e coll'armonia, sarebbono
che consiste l'armonia; e perchè le cose, le diversi di genere, cioè di diversa natura; e
quali cantavano, erano composte misuratamente tanto più sarebbono diversi poi, se usassero
e in versi, veniva a esservi ancora il sermone diversi strumenti e imitassero cose diverse. Si
legato. E tutte queste tre cose usavano quei milmente uno il quale imitasse alcuna cosa,
poeti, che grecamente si chiamavano Ditiram esempigrazia le azioni illustri dei principi,
bici, i quali erano quelli che imitavano i sa sarebbe diverso di genere da un altro, il quale
cerdoti di Bacco col cantare e col saltare, la imitasse alcuna altra cosa diversa, esempigra
poesia de quali era piena di parole composte zia le azioni famigliari delle persone private,
e lunghe, chiamate da Latini sesquipedali, cioè ancorachè le imitasse con quel medesimo stru
d' un piede e mezzo, e da noi per avventura mento, cioè col parlare, o col saltare, o col so
paroloni; onde anche essa si chiamava con nare; e tanto più poi se oltra l'imitare cose di
una parola composta, e lunga e sesquipedale Di verse, le imitasse ancora con diverso mezzo.
tirambipoetica. Usava ancora tutte e tre queste Medesimamente uno il quale imitasse la me
cose quella guisa di poesia, la quale si chia desima cosa, che un altro, e col medesimo stru
mava pur grecamente Nomi, cioè leggi ovvero mento di lui, ma non la imitasse nel medesimo
modi, i quali non erano altro, che alcune can modo, sarebbe diverso da lui, se non di gr.
zoni di varie maniere composte sotto certi nere, come quegli di sopra, almeno in qual
tuoni e misure a cotal poesia atti e convene che modo; come per atto d'esempio, se al
voli. E di più usavano tutte tre queste cose cuno cantasse tutte le medesime cose che
le tragedie e le commedie, con questa diffe cantò Virgilio, e le cantasse col medesimo
renza però, che i poeti ditirambici e i nomici strumento di lui, cioè col verso esametro, ma
usavano tutte tre queste cose insiememente non le cantasse poi nel modo medesimo che
in un tempo medesimo, dove i tragici e i co fece egli, ma con diverso, cioè non le cantasse
mici le usavano separatamente e in diversi col modo comune, come fece Virgilio, il quale
tempi, cioè in diverse pºsti de componimenti è quando il poeta parte favella egli e parte
loro, usando ora l'una d'esse e quando l'al introduce altre persone a favellare; ma le can
tra. La terza e ultima cosa è, che essendo tutti tasse o col modo esegetico cioe narrativo, il
i poeti imitatori e tutte le poesie imitazioni, quale è quando il poeta favella egli sempre
seguita necessariamente, che quanto a questo e non mai altri, come fece il medesimo nella
tutti i poeti e tutte le poesie siano una cosa Georgica, se non se alcuna volta per acciden
medesima senza avere alcuna differenza o di te; o le cantasse col terzo modo chiamato dai
stinzione tra loro. Del che seguita, che tutte Latini pur grecamente drammatico, cioè fatti
le differenze e distinzioni, che sono veramen vo, il quale è quando il poeta non favella mai
te o essere possono tra i poeti e tra le poe egli, ma fa ad altre persone favellare sempre,
sie, dipendano tutte principalmente dall'imi come fece il medesimo nella Bucolica, e co
tazione e non da altro; da che seguita, che in me si vede nelle tragedie tutte, e nelle co
tre modi e non più possono i poeti essere di medie, e in tutte le poesie, che si rappresen
versi e differenti l'uno dall'altro. Il che così tano in iscena e recitando. Sarebbono dunque
si prova: Tutti i poeti hanno ad imitare: questi due poeti differenti, e diversi l'uno dal
l' imitazione non può essere diversa e diffe l'altro, se non di genere, come s'è detto, al
rente, se non in tre modi; dunque i poeti meno di modo; e questa è la minor differenza
non possono più che in tre modi essere diversi e diversità che possa essere, come la maggiore
e differenti. Ma per meglio essere intesi di sarebbe quando due fossero, i quali imitassero
ciamo in questa maniera: I poeti deono imi e cose diverse e con diverso strumento e in
tare, è dunque necessario, che imitino o con modo diverso.
cose diverse di genere, o cose diverse di ge Onde è da sapere, che coloro, i quali pi
nere, o in modo diverso. Può essere dunque gliano ad imitare lea medesime cose, come per
differente ciascuno poeta, e diverso da ciascuno cagion d'esempio scrivere poeticamente le

altro in uno di questi tre modi: o perchè egli guerre, o alcuna altra materia, non possono
inita con cose diverse: o perchè egli imita essere l'uno dall'altro, se non in tre maniere,
cose diverse: o perchè egli imita in modo differenti, e ciò sono o collo strumento e non
diverso. nel modo: o nel modo e non collo strumento:
Le quali cose faremo più chiare mediante gli o collo strumento e col modo insieme. Nel
esempi. Uno, che imiti alcuna cosa col sermone primo caso può darsi per esempio una trage
è diverso da un altro, il quale imiti quella me dia recitata colle voci e una saltata, cioè rap
desima cosa col numero ovvero coll'armonia. presentata co gesti: nel secondo un poema
Perche come il favellare è diverso di genere eroico dammatico e uno esegetico o comune,
e una tragedia saltata. Coloro i quai Pigliano
(1) Cantar di ragione, suona: cantare secondo le giuste ad imitare materie diverse, possono essere dife
norme della musica o del contrappunto. (M.) ferenti in tre modi: colle cose, collo strumento
DELLA POESIA o61

e nel modo, e di questº può essere esempio e tanto saranno le maniere delle poesie, onde
un pocma eroico comune o esegetico, e una vengono ai poeti cotali nonni; e ciò sono:
commedia saltata. Collo strumento, e non nel
modo, come si vede in un poema eroico dram I. Gli Eroici,
matico e in una commedia saltata: nel modo, II. I Tragici,
e non collo strumento quale è un poema eroico III. I Comici,
mmile e basso, come la Bucolica, e uno alto e IV. I Lirici,
sublime come l'Eneide: collo strumento e nel V. Gli Elegiaci,
VI. I Satirici,
modo insieme, e così in tutto quello, che pos
VII. I Bucolici e
sono discordare, verbicausa un poema eroico
non drammatico, e una commedia saltata, per VIII. Gli Epigrammatici.
dare esempi più simili e più agevoli che sa
perno (1). Di ciascuna spezie de quali favellaremo par
Da queste cose si può agevolmente conosce ticolarmente secondo l'ordine, col quale rac
re, per venire omai al principale intendimento contati gli avemo, il quale è più tosto ordine
nostro, che le proprie e vere spezie della poe di dottrina che di dignità, come nella seguente
sia sono quelle sei, che Aristotile nel principio Lezione intenderete; e finita l' ora potrà cia
pose della sua Poetica; e ciò sono: scuno che vorrà, per se medesimo agevolmente
conoscere,

I. L'Epopeia, -- 3 -
II. La Tragedia,
III. La Commedia,
IV. La Ditirambica,
LEZIONE SECONDA
V. L' Auletica e
VI. La Citaristica.
DEI POETI EROICI

Alle quali aggiunse poco di poi quella delle


fistole ovvero zampogne, e quella dei nomi
ovvero leggi, non ostante che gli uomini vol LEzioNE DI BENEDETTo vARCHI, NELLA QUALE si
gari, come testimonia il medesimo filosofo, RAGIONA DE' PoErt Ertoici , LETTA DA LUI pu B
errino intorno a ciò in due maniere: prima Bllo AMENTE NELL'AccADEMIA rion ENTINA, LA se
perchè chiamano poeti tutti quelli, i quali scri, coNDA DoMENICA DI DICEMBRE, L'ANNo Molini.
vono in versi, ancora che non imitino: poi
perchè, volendo essi distinguere le maniere
dei poeti, non le distinguono dall'imitazione, Fra quelle proposizioni grandissime, che i
come fare si doverebbe, ma dai versi; cioè Greci chiamano assiomi cioe degnità, e i La
fanno differenti i poeti l'uno dall'altro secondo tini proloqui ovvero prefati, e i Toscani prin
le diverse guise di versi da loro usati; la qual cipi ovvero notizie prime, e noi Fiorentini di
cosa si può meglio nella lingua Greca inten ciamo volgarmente massime; l'abito e la scienza
dere e nella Latina, che nella Toscana, per delle quali s'appella da filosofi col nome del
chè eglino chiamano poeti epici, ovvero eroici genere intelletto; e queste sono tutte quelle,
tutti coloro, i quali scrivono in verso esame le quali per lo essere per sè stesse note, s'in
tro; elegiaci tutti coloro, che scrivono col tendono subitamente da ciascuno, senza che
verso elegiaco; jambici coloro che scrivono egli vi discorra sopra, o sappia altro che i ter
con versi jambici, i quali sono di più maniere, mini loro, cioè le significazioni delle parole,
e così di tutti gli altri. Onde noi, prima che colle quali si sprimono: tra queste, dico, gran
venghiamo alla particolare trattazione delle dissime proposizioni, come è quella che ogni
maniere dei poeti e versi toscani, tratteremo tutto è maggiore della sua parte, n'ha una
in comune e generalmente delle maniere dei principalissima di tutte l'altre, la quale si pro
poeti e versi così greci, come latini, quanto nunzia da loici in questa maniera: Di ciascuna
nondimeno e alla presente materia, e a chi ne cosa si può dire veramente, che ella o è, o
favella in genere e per agevolare la via a in non è; cioè di qualunque cosa è vera o l'af
tendere meglio i toscani, si conviene. Diciamo fermativa o la negativa, che in sentenza non
dunque, che diversi autori divisero diversa vuole altro significare, se non che il vero non
mente le spezie delle poesie, e per conseguenza è, nè può essere mai in cosa nessuna più che
dei poeti, facendole chi più e chi meno. Noi uno. Onde, conciossiache il vero non è nelle
parendoci che queste bastino e siano più atte cose stesse, ma nelle parole, che esse cose per
al proponimento nostro, diremo, che le ma mezzo de'concetti ne rappresentano, chi di
miere e i nomi de poeti, secondo che comu cesse, per atto d'esempio, disgiuntivamente le
nemente e da' volgari si chiamano, sono otto stelle essere o pari o caffo, direbbe necessa
riamente vero; ma chi dicesse copulativamente
le stelle essere in numero pari e le stelle es
(1) Questo tratto nell'edizione del Giunti è de' più intral
ciati per l' eteroclita punteggiatura: io mi sono studiato di sere in numero impari, direbbe necessariamente
radditizzarla alla meglio; ma non credetti che francasse la falso: perchè non essendo il vero, se non uno,
spesa d'introdurre nel testo alcun cangiamento, dacchè vi si se elleno son pari, viene a essere necessaria
discorre solo di vane distinzioni scolastiche. (M.) mente falso che siano caſſo, e così per lo con
a6a LEZIONE SECONDA -

trario: perchè, non essendo il vero più che non gli porga e somministri la fantasia, ovvero
un solo, è impossibile che una cosa medesima immaginazione. E di qui venne, che Dante
si possa con verità e affermare e negare; e in - dottamente, come suole sempre, volendo de
somma, se ella è pari, che ella sia non pari; scrivere la potenza fantastica ovvero virtù
e il medesimo diciamo di tutte l'altre cose e immaginativa, e mostrare che l'intelletto uma
proposizioni somiglianti. no ovvero la ragione nostra non può ne in.
Da questa proposizione mossi, per quanto io tendere, nè discorrere senza lei, disse non
stimo, alcuni prudenti uomini e ingegnosi, hanno meno da buon filosofo, che da leggiadro poeta
sopra quello dubitato, che fu da noi la dome nel ventinovesimo Canto del Purgatorio :
nica passata nel proemio detto della nostra Le La virtù ch'a ragion discorso ammanna,
zione, discorrendo per avventura così : O il
mondo è eterno, o egli non è eterno: se eter cioè la fantasia che serba e prepara all'intel
no, dunque non è vero, che egli cominciasse letto i simulacri e le sembianze delle cose, o,
e debba finire, come affermano i teologi, la come disse egli medesimo, gli idoli, cioè le
cui sentenza noi chiamammo verità e certez forme e in somma le similitudini, ovvero im
za: se non è eterno, dunque è falsa l'opinione magini de'sensibili, mediante le quali possa
dei Peripatetici, i quali pongono che egli non discorrere e intendere; il che non e altro che
avesse principio mai, e che mai non debba quello che dicono i Latini moderni: Oportet
aver fine. Conciossiache queste due cose ri intelligentem phantasmata speculari. E dunque
necessario a chi vuole o discorrere o inten
pugnano l'una all'altra, nè possono stare in
sieme per modo alcuno; d'onde seguita di ne dere, risguardare i fantasmi, cioè servirsi delle
cessità o che i teologi s'ingannino eglino, il spezie delle cose, le quali sono riserbate nella
che non è da dire, o che i filosofi non dicano fantasia, chiamate da Averrois e da Dante
essi il vero, il che non par da credere; ep stesso intenzioni, e volgarmente ora pensieri,
pure certa cosa è, che non essendo il vero ora concetti e talvolta immaginazioni.
più d'uno, come s'è più volte detto, come Ora nè la fantasia, nè alcuno altro de'sensi
non possono essere tutti e due falsi, così non interiori, può avere in sè spezie, o idea, o
possono tutti e due esser veri. forma, o intenzione alcuna, la quale non gli
A questa dubitazione giudiziosamente fatta sia stata porta e somministrata da alcuno dei
e a tutte l'altre somiglianti, non solo si può cinque sentimenti esteriori, ciascuno de quali
agevolissimamente, ma si dee ancora inconta ha bisogno della presenza dei sensibili, cioe
nente rispondere e dire senza alcuna o dimora, non sente e non comprende cosa nessuna, la
o difficoltà, l'opinione de filosofi essere falsa, quale egli o non vegga, o non oda, o non odo
e la certezza de'teologi verissima; di maniera ri, o non gusti, o non tocchi. E di qui nasce,
che chiunque o credesse altramente o dicesse, che l'intelletto non può intendere veruna cosa,
sarebbe senza alcun fallo non solo di ripren senza l' hic e 'l nunc, come dicono i filosofi,
sione degno, ma eziandio di gastigo; e cosi cioè senza il luogo e il tempo, e brevemente
rimane sciolta questa dubitazione. Ma perchè senza quantità, e in somma che non sia sen
dallo scioglimento di lei, quasi da un capo sibile, ovvero sensata, o almeno proceduta dai
dell'Idra mozzo, ne nascono subitamente tre sensi, e per mezzo loro nella fantasia venuta.
altre, bisogna procedere alquanto più oltre; Il che dichiarò il medesimo Dante, colla me
perciocchè potrebbe dire chicchessia: Prima desima dottrina e leggiadria, quando nel quarto
Canto del Paradiso disse:
egli non pare nè possibile, nè ragionevole, che
cotanti filosofi, di cotale ingegno e dottrina e Così parlar conviensi a vostro ingegno,
si grandemente lodati e ammirati dalla mag Perocchè solo da sensato apprende
gior parte degli uomini, e tra questi Aristo Ciò che fa poscia d'intelletto degno.
tile stesso, s'ingannassero tutti ; poscia se pure E favellando al medesimo proposito nel dicias
s'ingannarono, a che perdere dunque tanto settesimo Canto del Purgatorio:
tempo e gittar via sì gran fatica con tante vi
gilie e spese in intenderli e appararli? e ul Chi muove te se 'l senso non ti porge?
timamente a quale effetto non pure allegare E altrove ancora non meno leggiadramente,
le loro autorità, ma ancora tenerne conto e nè meno dottamente disse al medesimo pro
magnificarle ? posito:
A voler rispondere a questi tre dubbi e a
Vostra apprensiva da esser verace
tutti gli altri, che da questi tre così fatti na Tragge intenzione, e dentro a voi la spiega
scere possono, bisogna sapere che la scienza Sì che l'animo ad essa volger face (1).
de filosofi è umana e naturale, e quella dei
teologi soprannaturale e divina; e a volere in E così abbiamo dimostrato, che tutto quello
tendere questo, bisogna sapere, che i filosofi che i filosofi fanno, viene loro principalmente
non possono affermare cosa nessuna, nè deono, dal senso e non dalla ragione; e di qui e, che
la quale o non detti la ragione, o non dimo quando il senso e la ragione discordano, non
stri il senso. Dalla ragione dunque e dal senso alla ragione si debbe credere, ma al senso. E
viene ai filosofi e non da altro tutto quello per questo, diceva quel grande Arabo, che al
che sanno; ma chiara cosa è, che la ragione lora erano veri i sermoni dimostrativi, quando
umana, ovvero l'intelletto nostro non può nè
discorrere, né intendere cosa nessuna, la quale (1) Purgatorio, Canto XVIII.
DELLA POESIA 263
si concordavano colle cose sensate; e volgar seguitando Epicuro, in questa convenne, e co
mente si dice, che la sperienza è la maestra minciò la narrazione della maravigliosa opera
di tutte le cose, della quale Dante favellando sua da questa proposizione universale negativa:
disse: Nullam rem nihilo gigni divinitus unquam (1).
Ch'esser suol fonte ai rivi di vostre arti (1), La quale proposizione, insieme con molte al
E Lucrezio, in favore de'sensi, disse, che chi tre somiglianti, come è che il moto non ab
ripugna a sensi, distrugge il credere. bia avuto principio, nè debba aver fine mai,
Nam contra sensus ab sensibus ipse repugnat e per conseguente il mondo essere eterno, sono
El labefactat eos unde omnia credita pendent (2). vere appresso i filosofi, i quali non avendo al
tra chiave, che apra loro la verità, se non il
Da queste cose seguita manifestamente e di senso, nè altro lume che li guidi, se non il
necessità, che ogni volta che il senso s'inganna naturale, sono costretti a così credere: dove
e erra egli, erri ancora e s'inganni la ragio appresso i teologi sono falsissime, perciocchè,
ne: seguitane medesimamente, che dovun avendo essi altri principi e diversi mezzi, è
que non può arrivare il senso, non possa an non pur convenevole, ma necessario, che ab
cora arrivare la ragione; perchè tutte quelle biano ancora altre conclusioni, e conseguente
cose che il senso non può sentire e compren mente diversa scienza. Anzi, come la scienza
dere, non può discorrere, nè intendere l'in di Dio è equivoca, cioè d'un'altra natura con
telletto, nel quale non è mai cosa niuna, la quella de filosofi, perchè il sapere di Dio ca
quale prima nel senso stata non sia. E queste giona le cose, e quello de filosofi è dalle cose
due cose, cioè che dove non aggiugne il sen cagionato; così la scienza de teologi, non s'a-
so, non aggiunga la ragione, e che errando cquistando, come l'umana, mediante la dimo
egli, erri ancora ella, fece Dante, non meno strazione, ma per grazia divina, non è della
dotto teologo e buono, che grave poeta e leg medesima spezie di quella de filosofi. ma tanto
giadro, dichiararsi a Beatrice, cioè alla Teolo più nobile e più perfetta, quanto le cose ce -
gia, nel secondo Canto del Paradiso dicendo: lesti e quelle che da Dio procedono, sono più
Ella sorrise alquanto, e poi: S'egli erra perfette e più nobili delle mortali e di quelle
L'opinion, mi disse, de mortali, che dagli uomini vengono (2). E questo ancora si
Dove chiave di senso non disserra, fece dichiarare Dante da Beatrice a nostro con
Certo non ci dovrien pugner gli strali forto e utilità, quando nell'ultimo Canto del
D'ammirazione omai, poi, dietro a sensi Purgatorio l'introduce a dirgli queste parole:
Vedi che la ragione ha corte l'ali. Perchè conosca, disse, quella scola,
Il qual luogo dichiarando noi già nel Conso Ch'hai seguitata e veggia sua dottrina,
lato nostro, sopra la quistione della macchia Come può seguitar la mia parola,
della Luna (3), disputammo lungamente, se il E veggia vostra via dalla divina
senso può ingannarsi, e conchiudemmo di no, Distar cotanto, quanto si discorda
ogni volta che non manchi di quelle tre con Da terra il ciel che più alto festina.
dizioni, che a ciascuna sensazione necessaria Dove Beatrice riprende Dante, mostrandogli,
mente si richiedono, e ciò sono: l'organo ov che avendo seguitato la dottrina de filosofi,
vero strumento sano, il mezzo naturalmente non poteva seguitar la sua, cioè quella dei
disposto, e l'obbietto o vero sensibile in pro teologi, la quale è tanto differente dalla filo
porzionata distanza; altramente ne seguirebbe, sofia, ed è tanto più degna, quanto è più alto
che mai cosa alcuna sapere non si potesse, il cielo, e per conseguenza più veloce e più
come ancora testimonia altamente Lucrezio, nobile della terra. E per mostrare ancora più
dicendo nel primo libro:
Corpus enim per se communi, deliquat esse (1) De Rerum Natura, lib. I, v. 151.
Sensus, quo nisi prima fides fundata valebit, (2) Ogni avvisato lettore avrà notato la vanità e fiacchezza
delle ragioni qui addotte in propria giustificazione dal Var
Haud erit occultis de rebus, quo referentes chi, il quale, per tema di venir meno alla sua fede di peri
Confirmare animi quicquam ratione queamus (4). patetico, va girando e rigirando in un circolo viziosº, che lo
trae in contraddizione con sè medesimo. E di vero o egli
Ma in qualunque modo ciò sia, basta a noi,
che tutta la scienza de filosofi ha l' origine e tiene di proposito per le verità insegnate dalla teologia, e
deve necessariamente trovar false ed assurde le proposizioni
principio suo dalle sentimenta, onde, perchè aristoteliche: o tiene da queste, e non c'è modo di poterle,
il senso non mostra, che di nulla si possa far cosi come suonano nel suo stesso dettato, conciliare con quel
qualcosa, non può dettarlo ancora la ragione; le. In questa stessa lezione ed altrove afferma il Varchi non
e però disse Aristotile : Tutti i filosofi si sono poter essere il vero che un solo: come dunque non si riduce
accordati, e convengono in questo, che di non egli a confessare, senza tanti sutterfugi, che vere essendo le
nulla non possa farsi qualcosa; onde Lucrezio, dottrine teologiche, sono, senza più, insussistenti le massime pe
che in molte cose discordò da tutti gli altri, ripatetiche? Nè già poteva rimoverlo dal fare quest'esplicita
dichiarazione il timore di recare oltraggio alla filosofica verità,
la quale in ultimo debbº esser tuttº una colla teologica: perchè
(1) Paradiso, Canto X. anche la retta filosofia non ammette punto siffatte proposizio
(2) De Rerum Natura, Lib. I, v. 694. ni. Da ciò bisogna conchiudere, che non c'è cosa più irragio
(3) Questa opinione non è stampata, e non si trovò fra i nevole e pericolosa della servitù de sistemi, la quale è tanto
manoscritti del Varchi. (M.) nemica al vero che tragge di frequente in inganno anche gli
(4) De Rerum Natura, lib. 1, v. 423. intelletti più lucidi e sani. (Ml.)
264 LEZIONE SECONDA
chiaramente, che le operazioni di Dio non cag i teologi medesimi, l'intelletto, certissimo e
giono sotto le leggi della natura, e per conse sicurissimo che le cose di Dio non si possono
guenza che la scienza divina non è obbligata, intendere dagli uomini, se non quando e quan
come l'umana, a quelle tre condizioni che to e come alla sua Maestà piace. E per certo,
dicemno di sopra ricercarsi in ciascuna sen come disse Dante:
sazione, cioè in tutte le operazioni che da Matto è chi spera, che nostra ragione
sensi si fanno, massimamente dove Dio opera Possa trascorrer l'infinita via,
immediate e senza strumento, come nel cielo, Che tiene una Sostanza in tre Persone.
disse nel trentesimo Canto del Paradiso, di sè
State contenti, umana gente, al quia,
medesimo :
Chè se possuto aveste veder tutto,
La vista mia nell'ampio e nell'altezza Mestier non era partorir Maria ;
Non si smarriva . ma tutto prende a E desiar vedeste senza frutto
Il quanto e 'l quale di quella allegrezza, Tai, che sarebbe lor desio quetato.
Presso e lontano, lì nè pon, nè leva, Ch'eternamente è dato lor per lutto.
Che dove Dio senza mezzo governa, l'dico d'Aristotile e di Plato,
La legge natural nulla rilieva. E di moltº altri. E qui chinò la fronte,
Dichiarate queste cose, vengono a essere E più non disse, e rimase turbato (1).
sciolte, o almeno agevoli a potersi sciorre tutte E nel secondo caso, deve ciascuno sapere, che
e tre le dubitazioni poste di sopra, perchè a lui credere tocca, se vuole esser salvo, e non
quanto alla prima diciamo, che i filosofi gen giudicare; e qual si voglia di noi deve dire
tili s'ingannarono tutti, non già nel lume na a sè medesimo quel terzetto, degno veramente
turale, ma nel soprannaturale, il quale non ha di dovere essere non solo sopra i limitari delle
nessuno da sè, ma si dà solo per grazia e a porte, ma eziandio nel mezzo dei cuori scritto
chi lo chiede, ed essi nol conoscendo, chiedere e scolpito:
nol potevano. Quanto alla seconda rispondia Or tu chi se', che vuoi sedere a scranna ,
mo, non solo non si perdere nè il tempo, nè
la fatica, nè la spesa a studiare i filosofi, ma E giudicar da lungi mille miglia
Con la veduta corta d'una spanna (2)?
non potersi. umanamente favellando, nè spesa
alcuna, nè fatica, nè tempo impiegare più lo Ma perch'io non fo professione di teologo,
devolmente, nè in cosa più onorata. E questo nè conosco aver 'quel lume che a favellare
non è contra la teologia, anzi le è grandissi delle cose divine si richiede, per non mettere
mamente utile, onde quasi tutti i teologi così la falce nell'altrui biade, come si dice, mi
gli antichi, come i moderni, e tanto i Latini, rimetto così in queste cose, come in tutte le
quanto i Greci, sono grandissimi filosofi stati. altre, a sacri teologi, tanto approvando o ri
Quanto alla terza, tutti gli scrittori e i teologi provando, quanto alla cristiana Chiesa e alla
medesimi, allegano molte volte e si scrvono del santissima religione nostra conviene e consuo
le autorità dei filosofi, e ciò non senza ragione; na. E così me ne passarò oggi mai a dichiarare,
perchè se sono vere e concordano colla religione, secondo che promisi le maniere dei poeti e
come fanno il più delle volte, tanto maggior dei versi così greci e latini, come toscani.
mente e tanto meglio si manifesta la verità;
--
se sono false, tanto più agevolmente si cono
sce così l'oscurità de filosofi e i dubbi loro,
come la chiarezza e certitudine de' teologi; e Favello sempre secondo i filosofi. I poeti
se sono dubbie, perchè non si debbono affer chiamati dai Greci epici, cioè facitori per pa.
mare mai, se non se e in quanto convengono role, ovvero per versi, e in somma imitatori
colla fede e consuonino con la Scrittura Santa, col sermone, e dai Latini eroici, perchè fa
riferendosi a quella, non possono nuocere. Ed vellano ordinariamente di re, di principi e
anche questo ci volle Dante insegnare, quando di uomini valorosi e d'altre persone illustri,
nel diciottesimo Canto del Purgatorio, intro che si chiamano dai Latini, ma grecamente
duce Virgilio a dirgli in questa maniera: eroi, ovvero semidei (perchè essendo più che
uomini, mediante la virtù loro, e meno che
Ed egli a me: Quanto ragion qui vede, dii essendo mortali, sortirono cotal nome quasi
Dir ti posso io, da indi in là t'aspetta mezzi tra gli uni e gli altri) sono tutti quelli
Pur a Beatrice, ch'è opra di fede. i quali cantano, perchè così si chiama lo scri
E se chicchessia, come è più sottile e più vere di cotali poeti, e cantando, rappresen
curioso uno che un altro, dicesse: Le ragioni tano nelle loro poesie le azioni fatte dagli uo
che s'allegano dai filosofi, sebbene non sono, mini grandi, così nell'ozio della pace, come
paiono nondimeno alcuna volta tali e tanto ne travagli della guerra, sebbene la guerra
gagliarde, e di maniera s'imprimono altrui pare più atto e più proprio soggetto dei poeti
nella memoria, che non lasciano poi, che al eroici, dando loro se non più onesta, più lo
tri o intenda, o creda quelle dei teologi; dico data e più profittevole, certo più ampia, più
nel primo caso, che chi è vero cristiano, deve alta e più dilettevole materia. E in somma gli
semplicemente intendere, e contra il suo in
tendere proprio, intendere ed accettare indu (1) Purgatorio, Canto III.
bitatamente la verità, e cattivare, come dicono (2) Paradiso, Canto X I X.
- DELLA POESIA - 265

eroici, ovvero dattilici, che così ancora li chia Questi cantò gli errori e le fatiche
mano i grammatici da quel piede che dattilo Del figliuol di Lierte e della Diva;
ha nome, senza il quale non può per l'ordi Primo pittor delle memorie antiche
mario farsi alcun verso eroico, imitano tutte
ne' quali versi non poteva nè lodarlo più, nè
le azioni, le quali hanno grandezza e dignità, descriverlo meglio. E nei sonetti volendo 1
o umane o divine che siano ; e non si pos tissimamente commendare la sua tanto casta
sono servire, se non d'una maniera sola di quanto bella Madonna Laura scrisse, accom
versi, cioè dell'esametro, il quale altro non pagnandola con Orfeo e con Virgilio:
vuol dinotare, che di sei misure, ovvero piedi.
E fu ben degno, che a così chiare materie, e Che d'Omero degnissima e d'Orfeo,
così nobili si usassero i maggiori versi e i più E del Pastor ch' ancor Mantova onora,
alti che si trovassero; le quali cose ne dimo Ch'andasser sempre lei sola cantando (1);
strò non meno leggiadramente, che brevemente avendo prima detto nel sonetto di sopra, ac
Orazio, quando nella sua dottissima e utilis
compagnandola con Virgilio solo :
sima Arte Poetica lasciò scritto:
Se Virgilio ed Omero avesser visto
Res gestae regumque ducumque et tristia bella, Quel sole, il qual vegg'io con gli occhi miei,
Quo scribi possent numero monstravit Homerus. Tutte lor forze in dar fama a costei
Avrien posto, e l'un stil con l'altro misto (1).
Dove è da avvertire, che non solo i poeti eroici E nel quarto Capitolo pur della Fama volendo
o epici non hanno a scrivere le azioni umane mostrare d'avere a favellare di cose grandi e
in quel modo che fatte furono, ma in quel importantissime, disse, accompagnandolo con
modo, nel quale era o possibile, o verisimile, Orfeo solo :
o necessario che si facessero ; ma ancora tutti
gli altri poeti non deono considerare per lo Opra non mia, ma d'Omero e d'Orfeo.
più come le cose si fanno dagli uomini, ma E il reverendissimo Bembo nelle sue divine
come fare si doverebbono, ancorachè si con stanze, volendo, dopo la Duchessa d'Urbino,
ceda loro molte cose, eziandio fuori della na lodare la signora Emilia Pia quanto si poteva
tura, non che del ragionevole o verisimile, ac più, disse:
ciocchè possano arrecarne non solo più utilità
alla vita mortale, ma ancora maggior diletto Donna real degnissima d'impero,
E che di sola voi cantasse Omero.
e ammirazione agli uomini.
In questo genere fu il primo appresso i E il dottissimo Molza, dovendo fare un degno
Greci Omero, primo, dico, non solo di tempo, principio a quelle sue gravissime stanze sopra
ma ancora di grado, perciocchè i suoi poemi il ritratto della bellissima e castissima donna
sono pieni si di tutti i buoni costumi e lode Giulia Gonzaga, cominciò in questa maniera:
voli usanze, e si di tutte le dottrine e scienze;
onde non pure Orazio diceva, che ne” libri di Se così dato a vostri tempi Omero
Avesse il ciel, come v ha fatto bella.
Omero si poteva meglio apparare la filosofia
civile e i buoni costumi, che in quelli dei fi E messer Giovan Giorgio Trissino nel nono
losofi; ma ancora S. Basilio proponeva ai suoi libro della sua Italia liberata, della quale par
discepoli la poesia d'Omero, come uno spec leremo al luogo suo, scrisse d' Omero:
chio, nel quale rilucessero tutte le vie così Quel è 'l divin da voi chiamato Omero.
da fuggire i vizi, come da conseguire le virtù.
Ma s' io volessi tutte le cose raccontare che Ma prima Dante, il quale non lasciò cosa
ne scrivono non tanto i Greci medesimi, e spe alcuna, o utile, o bella, o onorata la quale
zialmente Aristotile così nella Poetica, dove egli non dicesse, dovendo nel quarto canto
lo chiama divino e lo prepone più volte a dell'Inferno introdurre Virgilio, che gli mo
tutti gli altri, come in tutte l'altre sue opere, strasse Omero, disse così:
nelle quali lo allega e si serve alcuna volta
Mira colui, ch'ha quella spada in mano,
della di lui autorità a provare ancora cose al Che vien dinanzi a tre sl come Sire.
tissime della natura; quanto eziandio tutti gli
scrittori latini così di prosa, come di versi, Quegli è Omero, poeta sovrano:
L'altro è Orazio satiro che viene,
non che non mi bastasse quell'ora sola, la Ovidio è 'l terzo, e l'ultimo è Lucano.
quale per dover ragionare con voi in questo
luogo assegnata ne fu, ma nè ancora un anno E nel vigesimosecondo Canto del Purgatorio
intero sarebbe a sufficienza, non che d'avanzo. introduce Virgilio, il quale dovendo a Stazio
Laonde, lasciati tutti gli autori così greci, co rispondere, che di Terenzio, di Cecilio, di
me latini da una delle parti, diremo che mes Plauto e di Varrone dimandato l'aveva, usa
ser Francesco Petrarca, dovendo far di lui queste parole :
menzione, disse nel terzo Capitolo del Trionfo
della Fama: Costoro e Persio ed io, siam con quel Greco,
Che le Muse lattar più ch'altro mai.
. . . . . . E quell'ardente
Vecchio, cui fur le Muse tanto amiche, (1) Sonello CXXXV, Parte I.
Ch'Argo, e Micena e Troja se ne sente, (2) sonetto CXXXIV, Parte I. 34
Vaht.tii V, i.
266 LEZIONE SECONDA
E benchè appresso i Greci fossero di molti vincere non tanto gli scrittori latini, quanto i
altri, i quali scrissero in versi esametri, ed in greci, scrisse questo distico celebratissimo:
istile eroico, e ancora oggi se ne ritrovino
alcuni, come Esiodo, Arato, Licofrone, nulla
Cedite, Romani scriptores, cedite Graii:
di meno così fece di loro Omero: Nescio quid majus nascitur Iliade.
Puossi ancora e forse si deve considerare,
Come fa 'l Sol delle minori stelle (1). che Virgilio non solo compose e abbracciò
Appresso i Latini ottenne il primo luogo fra nell'Eneide sola, secondo che si può giudi
tutti i poeti eroici e ottiene senza dubbio care chiaramente da più cose, ancndue le
nessuno Virgilio, il quale fu tanto dotto, tanto opere d'Omero cioe l'Iliade e l'Ulissea, ma
grave, tanto eloquente e tanto ogni cosa, che ancora nella Georgica superò senza dubbio
alcuni lo fanno maggiore d'Omero, alcuni mi nessuno Esiodo, e nella Bucolica pareggiò Teo
nore e alcuni eguale; sopra la quale contro crito secondo alcuni, e secondo alcuni altri
versia chi volesse dare sentenza finale e non nol vinse. La qual cosa a noi non pare che
far sua la lite, avrebbe uopo non solo di più possa affermarsi senza dichiarare come diremo
lungo tempo, ma di troppo maggiore ingegno, ne poeti bucolici, o che la gravità romana
dottrina e giudizio che non ho io. Tuttavia non lo permettesse, dalla quale Virgilio non
poi che il debito dell'ufizio mio non solo per s'abbassò, come fece Teocrito, o che la po
mette, ma richiede che io non quello che è, vertà della lingua gliel vietasse, non avendo
ma quello che a me pare liberamente pro per avventura nè tante voci rusticane, nè
nunzii, dico che l'opinione mia è, che tutte certi modi di favellare villeschi e da conta
e tre le sentenze sopra dette siano vere, cioè, dini, come si vede, che ebbe anticamente la
che in alcune cose Virgilio trapassi Omero, greca, e oggi ha la toscana e particolarmente
in alcune l'adegui, e in alcune non l'arrivi. la fiorentina. In qualunque modo Virgilio solo
E per venire alquanto più al particolare, dico può opporsi, e in certo modo contrappesarsi
che, considerate tutte le parti dell'uno e del a Omero, a Esiodo e, a Teocrito, tutti e tre
l'altro e compensata l' una cosa con l'altra, poeti grandissimi, come si legge in quel leg
penso, checchè se ne dicano Macrobio e al giadrissimo epigramma, di cui non si sa l'au
cuni altri, che Virgilio non sia minore, nè tore, ma ben si conosce che è antico e di
meno maraviglioso d'Omero, se non in quanto mano di buon maestro:
fu dopo, e non solo apparò da lui, ma ne i Maeonium quisquis Romanus nescit Homerum
-
cavò parte imitando e parte traducendo così
nelle sentenze, come nelle parole, e ancora Me legat, et lectum credat utrumque sibi:
quanto all'arte piuttosto assaissime cose, che Illius immensos miratur Graecia campos,
molte. La qual cosa come lo fa di gran lunga At minor est nobis, sed bene cultus ager.
minore di lui (il che non credo, che niuno Hic tibi nec pastor, nec curvus deerit aratore
possa negare), così credo, che ciascuno debba Haec constant Graiis singula, trina mihi.
confessare, che quella gravità e onestà e uma Nè sono mancati di quegli che hanno, per in
nità, per dir così, che in lui si ritrova sempre, nalzar Virgilio, detto che in lui si trova mag
lo fa in qualche parte maggiore. E se alcuno giore arte, che in Omero; una dovevano anco
dicesse ciò essere da tempi avvenuto e dalla dire, che in Omero si trova più agevolezza e
diversità delle lingue, conciossiacosachè Vir maggior naturalità, per così dire, che in Vir
gilio nella maggior grandezza fiorisse dell'im gilio. -

perio Romano e in sul colmo a punto della Ma perchè niuno può oggi a nostro giudizio
lingua latina, dove ad Omero non toccò nè quantunque dotto ed esercitato, non che io,
l'uno, nè l'altro, glielo concederei volontieri, darne vero, certo e perfetto giudizio per lo
e direi, che in Virgilio, qualunque se ne fosse essere, se non altro, spente le lingue, nelle
la cagione, non si trovano alcune minuzie, per quali essi scrissero, è necessario a chi errar
dir così, e certe bassezze e particolarità, co non vuole, riportarsene a quel giudizio, che
me in Omero e massimamente nell'Odissea; di loro fecero gli antichi. Che se io volessi in
le quali cose, come io non biasimo che siano questo luogo tutto quello addurre, che in te
nell'uno, ricercando per avventura così o stimonianza della grandezza e perfezione di
quei tempi, o quella lingua, o quel vivere, Virgilio si trova scritto, ancora chè non finis
così lodo che nell'altro non siano per le con se l'Eneide, non ne verrei a capo così per
trarie cagioni. E se alcuno allegasse Quinti fretta e però più presto onorandolo col pen
liano, uomo dotto e di gravissimo giudizio, il siero, che lodandolo colle parole, reciteremo
qual pare, che giudichi Virgilio piuttosto solo quello, che di lui i due maggiori Toscani
presso a Omero, che pari, rispondiamo, che e più lodati lasciarono scritto. E prima il Pe
ciascuno può a suo senno credere, e che Pro trarca, oltra quello che di sopra s'allegò, se
perzio, che fu a miglior tempi di lui, ebbe guendo i versi raccontati allora, dove loda
diversa opinione, perchè favellando dell' E Omero, soggiunse:
nride innanzi che fosse compita, non che uscita A mano a man con lui cantando giva
fuori, giudicando che cotale opera dovesse Il Mantovan, che di par seco giostra (1).
(1) Petrarca, Sonetto CLXIII, Parte I. – I migliori
test hanno - Quel che fa 'l di delle minori stelle. (M.) (1) Trionfo della Fama, Capitolo III.
DELLA POESIA 267
E altrove disse: Nè gli bastando quello che gli aveva esso ine
desimo detto nel primo Canto, quando lo vide:
Virgilio vidi, e parmi intorno avesse
Compagni d'alto ingegno e da trastullo, Oh ! se tu quel Virgilio, e quella fonte,
Di quei, che volentier già 'l mondo elesse. Che pande di parlar sì largo fiume?
L'uno era Ovidio, e l'altro era Tibullo, Risposi io lui con vergognosa fronte,
L'altro Properzio, che d'Amor cantaro così poi seguita :
Fervidamente, e l'altro era Catullo (1),
O degli altri poeti onore, e lume,
E il Trissino dopo i versi allegati di sopra Vagliami 'l lungo studio e'l grande amore
seguita così, accennando Virgilio, come Che m' ha fatto cercar lo tuo volume:
Quel che attinge acque con sl larghi vasi. Tu sei lo mio maestro e 'l mio autore
Tu se' solo colui, da cu' io tolsi
Ma Dante, il quale tanto affezionato gli fu e Lo bello stile, che m'ha fatto onore;
tanto l'ammirò, che non solo si mandò alla
memoria tutta l'Eneide, come si vede in quel non gli bastando, dico, questo, introduce nel
verso : settimo Canto del Purgatorio Sordello da Man
tova, il quale riconosciutolo, e abbracciatolo
Ben lo sai tu, che la sai tutta quanta (2). umilmente ove il minor s'appiglia, e facendo
ma riconosce ancora tutto il suo scrivere da gli come a cittadino e maggior suo onore e
lui; e così lo propone ad imitare, e lo chiama festa, gli dice pien di letizia e d'ammirazione:
or poeta per eccellenza, or l'antico poeta, ora O gloria de' Latin, disse, per cui
alto dottore, or fido duce, or caro pedagogo, Mostrò ciò che potea la lingua nostra;
or maestro, or dolce padre e or più che pa O pregio eterno del loco ond'io fui,
dre, e talvolta signore, chiamato ancora suo Qual merito, o qual grazia mi ti mostra ?
conforto, suo consiglio, suo soccorso, suo au S io son d'udir la tua parola degno,
tore, e non meno spesso sua scorta, sua guida, Dimmi, se vien d'Inferno, o di qual chiostra:
suo compagno, suo duca, e in più altri modi,
come si vede in quel verso : E questo ancora poco parendogli, induce Sta
zio nel vigesimoprimo del Purgatorio, il quale
O sol, che sani ogni vista turbata (3); non sapendo, che quivi Virgilio fosse, dice a
Dante in cotal guisa :
e in quell'altro:
Al mio ardor fur esca le faville (1),
Se fede merta nostra maggior Musa (4);
Che mi scaldar della divina fiamma,
e in quell'altro: Onde sono allumati più di mille;
Ed io rivolto al mar di tutto il senno (5); Dell'Eneide dico, la qual mamma
Fummi, e fiammi nutrice poetando :
e in quell'altro: Senz' essa non fermai peso di dramma.
O tu, ch onori ogni scienza ed arte (6); E per essere stato di là, quando
Visse Virgilio, assentirei un sole
descrivelo ancora per vari modi, come quando
; disse:

E quel che m'era ad ogn'uopo soccorso (7);


Più ch'io non deggio, al mio uscir di bando.
E quell'altro terzetto nel quale non poteva
nè maggiormente, nè più degnamente lodarle
e altrove: di sua bocca propria:
O anima cortese Mantovana,
E quel savio gentil, che tutto seppe (8); Di cui la fama ancor nel mondo dura,
e altrove : E durerà, quanto il moto, lontana (2).
Disse il Cantor de' Bucolici carmi (9) ; e poco di poi, conosciuto che l'ebbe (3), l'in
troduce non più a dire, ma a fare, cioè a chi
e altrove:
narsi in terra per abbracciargli per riverenza
Onorate l'altissimo Poeta (io); i piedi, onde soggiugne:
e altrove:
Già s'inchinava ad abbracciare i piedi
Rispose del magnanimo quell' ombra (11); Al mio dottor, ma ei gli disse: Frate,
Non far, che tu se'ombra, ed ombra vedi,
Ed ei seguendo, or puoi la quantitate
(1) Trionfo d'Amore, Capitolo IV.
(2) Inferno, Canto XX. Comprender dell'amor, ch'a te mi scalda,
(3) Ibid., Canto XI. Quando dismento nostra vanitate
a (4) Paradiso, Canto XV. Trattando l'ombre, come cosa salda (4).
(5) inferno, Canto V.
(6) inferno, Canto l V. (1) In molte edizioni leggesi seme invece di esca; ma
(7) Purgatorio, Canto XVIII. questa lezione del varchi sembrami da preferirsi. (M.)
(8) Inferno, Canto V11. (2) Inferno, Canto II.
(9) Purgatorio, Canto XXII. (3) intende, conosciuto ch'ebbe Virgilio il poeta Stasie
(io) lnferno, Canto IV. di cui parlò più sopra. (M.)
(11) 1bid., Canto li. (4) Purgatorio, Cantº XXI.
268 LEZIONE SECONDA
a Le quali cose tanto più vi recito volen Domizio Afro, e secondo alcuni Alcinoo in un
tieri, quanto, oltra 'l vedere con quale at suo epigramma testimonia Virgilio dopo Omero
tenzione le ascoltate, mi pare con esse di fu il primo, ma s'accostò molto più a Ome
mostrare, com'abbiano i poeti a esser fatti, ro, che gli altri non fecero a lui. L'epigram
perchè se questo non si chiama imitare le azio ma è questo: - -

ni, gli affetti ed i costumi degli uomini, non De numero vatum siguis seponat Homerum
so io per me, che cosa si debba dire imitare, Proximus a primo tum Maro primus erit.
o in che modo si possa o più o meglio rap Et si post primum Maro seponatur Homerum,
presentare. E con tutte queste cose non vo Longe erit à primo quisquis secundus erit.
glio lasciar di dire, che come Omero ebbe
molti Zoili e morditori, che lo ripresero e bia Tra quali potemo credere, che Ovidio come
simarono infinitamente, così non mancarono a di tempo, cosi ancora d'ingegno fosse il pri
Virgilio dei Bavi e dei Mevi, che lo laceras mo nella sua opera grande, la quale seguitando
sero, e insino al vivo trafiggessero, chiaman Partenio Clio intitolò, ma grecamente le l ras
dolo con vari non lodati nomi, tanto che in formazioni, opera non meno dotta e utile, che
fino a non so che grammatico gli compose un bella, e piacevole; la quale non ha molto, che
libro contra. Furono ancora di coloro, che messer Lodovico Dolce assai acconciamente, e
raccogliendo i suoi furti, cioè le cose, che aveva non senza lode tradusse in ottava rima e stam
tolto non solo da Partenio Pisandro, Apollo pò, e ora la traduce di nuovo il chiarissimo
nio da Rodi e massimamente da Omero, ma messer Domenico Veniero, il quale seguirà,
ancora dai Latini, come da Ennio, Livio An come ha cominciato, e l'altre stanze risponderan
dronico, Nevio, Lucrezio e Catullo, lo chia no ad alcune che veduto ho, come si può, anzi
marono ladro e rubatore degli altrui versi. Ma si dee di tale uomo credere, io per me non
che più ? Non iscrive Svetonio, che Caligola dubito, che Ovidio non debba essere tanto
imperadore, chiamandolo pubblicamente uomo bello nella lingua toscana quanto egli è nella
senza ingegno e quasi di niuna dottrina, ebbe latina (1). Dopo Ovidio seguitò Lucano da Cor
in animo di fare ardere tutte l'opere di lui dova, nipote di Seneca, il quale fatto da Ne
e scancellare tutte le immagini e ritratti suoi rone uccidere non potè fornire d'ammendare
di tutte le librerie? Il che era appunto l'op la sua Farsaglia, che così chiamò i libri scritti
posito di quello, che aveva Augusto fatto, il da lui delle guerre cittadine tra Cesare e
quale volle piuttosto rompere la potestà e Pompeio, favoreggiando sempre, e lodando la
maestà delle leggi, che lasciare che s'ardesse parte migliore. A Lucano successero di quelli
l'Eneide, come aveva Virgilio stesso nel te le cui opere si trovano, prima Stazio, il
stamento comandato, che fare si dovesse. quale scrisse la Tebaide, cioè le guerre di
Ma lasciato Virgilio, la cui propria lode è, Tebe in dodici libri, e la dedicò a Domiziano
che nessuno possa nè lodando accrescerlo, nè imperadore, e avendo cominciato l'Achilleide,
biasimando diminuirlo, diciamo che innanzi a revenuto dalla morte non potè finirla; di
lui scrissero tra i Latini eroicamente alcuni poi Silvio Italico, di nazione spagnuolo, il quale
altri, oltra Livio Andronico detto di sopra, scrisse in diciassette libri la seconda guerra
dopo il quale fu Ennius ingenio magnus et punica, ovvero cartaginese, e visse medesima
arte rudis, il quale fu tanto da Scipione amato, mente nel tempo di Domiziano; come ancora
benchè di lui cantò con ruvido carme, che egli Valerio Flacco, il quale gli dedicò la sua Ar
nel suo sepolcro medesimo fu a canto a lui gonautica, ed ultimamente ne tempi d'Onorio
sotterrato, come testimoniano quei due versi e d'Arcadio visse Claudiano, il quale non fu
d'Ovidio: fiorentino, come fu detto non ha molto sopra
Ennius emeruit, Calabris in montibus ortus
questa cattedra, ma d'Alessandria, città d'Egitto,
come testimonia messer Piero del Riccio nella
Contiguus poni, Scipio magne, tibi. sua vita, anzi come dice egli stesso di sè me
Di costui non si trovano se non alcuni versi, desimo. Tra costui (il quale fu poco in
allegati da vari autori, e massimamente da Ci manzi, che i Goti inondassero l'Italia, e scrisse,
cerone, i quali nel vero sono pieni d'una oltre l'altre opere, il Rapimento di Proser
troppo antica rozzezza, ma hanno però in pina in versi eroici, tradotto oggi in versi sciolti
quella loro ruvidità de'concetti e delle sentenze da messer Marc'Antonio de Cinuzzi assai fe
assai buone; onde dicono, che Virgilio diman licemente), e Virgilio, che fu nel fiore della
dato già quello che egli faceva, soleva rispon lingua romana non è altra somiglianza, dice
dere che sceglieva l'oro dal fango d' Ennio. il Pontano nel suo Dialogo chiamato l'Antonio
Scrissero ancora innanzi a Virgilio alcuni al
tri, le cui opere non si trovano, ma furono (1) Non sappiamo, se questa traduzione delle Met fosi
tutti senza dubbio alcuno da Lucrezio supe del Veniero venisse mai o in tutto o in parte pubblicata: la
rati, il quale Lucrezio, se così veramente scritto pregiatissima dell'Anguillara ha fatto porre in obblio anche
avesse, come egli scrisse con eloquenza e con quella del Dolce, infaticabile scrittore, con ognun sa, e be
leggiadria, non è da dubitare (ancora che M. nemerito singolarmente per le sue molte traduzioni dal latino. -
Tullio e Quintiliano pajano sentire altramente) Domenico Veniero, patrizio veneto, fiori circa la metà del
secolo XVI. Reso attratto delle membra e costretto a giacer
che si poteva secondo molti chiamare perfetto. sempre nel letto, cercò un sollievo negli studi, e molle poesie
Dopo Virgilio scrissero medesimamente mol compose, parte nello stile giocoso, parte nel petrarchesco. Fu
ti, ma molto lontano da lui, perchè come egli ad introdurre gli acrostici nella poesia italiana. (M.)
DELLA POESIA 269
non meno utile, che dotto, se non che ciascuno della lingua latina saper grado e rendere in
di loro cominciò la sua narrazione di una di finite grazie all'uno e all'altro, perchè può
zione d'una sillaba sola e che forniva in X ; dirsi loro duoi essere stati principal cagione,
Virgilio così: che non si spegnesse del tutto e morisse sì
Vix e conspectu Siculae telluris in altum
utile e tanto onorato linguaggio, e più tosto
che spento del tutto e già da più anni morto
Vela dabant laeti (1). risorgesse per loro e risuscitasse.
E Claudiano: Dopo questi due primi successero degli al
tri con maggior felicità di mano in mano, tanto
Dux Herebi quondam tumidas exarsit in iras che al tempo de' padri nostri sorse finalmente
Praelia moturus Superis (2). pur nella Toscana messer Giovanni Ponta
Avendo noi infin qui tutti quelli poeti eroici no, il quale non solo tutti i moderni si lasciò
raccontato, i quali, mentre che visse e si fa dietro, ma raggiunse gli antichi, e oltre le molte
vellò la lingua latina, fiorirono, non sarà se e belle opere che compose, e massimamente º
non bene dire ora, che uscita fuor d'uso e l' Urania e le Meteore in verso eroico, diede
quasi spenta del tutto la favella romana per principio a quella bella scuola e dottissima
la venuta dei Goti e altre nazioni Barbare Accademia di Napoli, onde usciron poi, quasi
nell'Italia, il primo che dopo tanti anni osò come si suol dire, del cavallo trojano, tanti
e fece prova di scrivere eroicamente in lati uomini e così grandi; e primo di tutti messer
no, il qual parlare non solo era disusato già Jacopo Sannazzaro, la cui opera eroica, che
molte centinaia d'anni, ma del tutto morto, egli chiamò la Cristaide, ovvero del Parto della
fu, per quanto si può congetturare, Dante, il Vergine, merita che tutti i Cristiani gli deb
qnale cominciò la sua opera grande in versi bano rendere come a pio e buono, e tutti gli
eroici COS1 : altri come a dotto e giudizioso, infinite grazie;
non ostante che Erasmo, uomo grandissimo, sia
Infera Regna canam (3).
di diverso parere, e preponga a cotale opera,
Nella qual cosa fare tanto si può per avven se più con poco giudizio che con maligno non
tura lodare l'ardimento suo, quanto si deve vorrei dire, non so che versi di non so qual
biasimare il giudizio; perciocchè, se egli così frate mantovano. Fu nel medesimo tempo mes
seguitato avesse, il nome suo sarebbe quasi ser Michele Marullo di Costantinopoli, nel
prima morto, che nato; o di certo non arebbe quale, essendo egli sventurosamente nella Ce
l'apparita passata nell'uccellatoio, dove ora cina affogato, fecero grandissima perdita le
avendo in quella lingua scritto, colla quale fa Muse latino, non avendo egli alla sua opera
vellava, è chiarissimo per tutto il mondo, aven cominciata in verso esametro e intitolata il
do a sè e alla sua patria fama eterna e a tutti Principe, dar compimento potuto (1). Vivono og
gli altri diletto incredibile e ineffabile giova gidi di quelli, i quali, per giudizio de' più dotti,
mento arrecato. non pure adeguano gli antichi, ma gli avan
Il secondo, che tentò il verso eroico latino zano; ed io per me non istò punto in dubbio,
fu messer Francesco Petrarca, che scrisse l'A- che la Sifilide di messer Girolamo Fracastoro,
frica, non sapendo, che altri prima di lui a non soverchi e vantaggi tutti i poeti latini an
miglior tempo scritta l'avesse pure in versi tichi, eccetto i tre primi, Lucrezio, Catullo e
esametri; e racconta egli stesso d'avere in ella Virgilio, col quale nondimeno giostra alcune
tanto tempo speso e durato tante fatiche, e volte, anzi tutte del pari; per non dir nulla
tante notti vegghiato e con tanti sudori, che al presente delle opere pure eroiche di mes
muove di sè grandissima compassione. E non ser Girolamo Vida, degne di dover essere piut
dimeno se egli non avesse i componimenti to tosto ammirate che lodate. E s'io non sono
scani scritto, certa cosa è che nè anco in Fi uscito fuor d'Italia, nè ho tutti quelli d'I-
renze si saprebbe oggi chi il Petrarca stato si talia raccontati, non è, che io non creda, che
fosse, dove ora non è luogo, nè per l'avvenire ancora nelle altre provincie non si trovino eroici
sarà tempo, nel quale non sia e non debba degni d'essere raccontati; ma io non li sa
essere sommissimamente lodato e onorato. De pendo, non posso nominarli; e anco sarei per
vesi nondimeno da tutti gli studiosi e amatori avventura, se non molesto, troppo lungo. Tut
tavia non voglio già lasciare indietro messer
(1) Eneid., lib. I, v. 34. Aonio Paleario (2), il cui poema dell' Immor
(2) De Raptu Proserpinae, Lib. I, v. 32. talità dell'Anima molto vien commendato da
(3) Nella lettera di frate Ilario, monaco di Corvo, ad
Uguccione della Faggiuola, tradotta dal Perticari nell'Apolo
gia di Dante, è introdotto l'Alighieri a parlare cosi : ” Al (1) Chi desidera notizia del Pontano, del Marullo e degli
altri poeti qui nominati, consulti la Storia della Letteratura
lorchè da principio i semi di queste cose, (cioè il disegno di
scrivere il suo poema) in me infusi forse dal cielo, presero Italiana del Tiraboschi, T. 111 della nostra edizione, pag. 209
e seguenti. (Ml.)
a germogliare, scelsi quel dire, che più n' era degno: nè so
lamente lo scelsi; ma in quello presi di subito a poetare cosi: (2) Aonio Paleario nacque in Veroli nella campagna di
Roma verso il 15oo. Piolesso eloquenza in vari studi d'Ita
Ultima regna canam fluido contermina mundo,
Spiritibus quae lata patent: que praemia solount lia e da ultimo in Milano, dove succedette al Maggiorasio.
Pro meriti, cuicumque suis. Più volte egli venne accusato d'eresia per avere in alcuna
sua opera posti in luce i trasoudini della corte romana. Da
Ma quando pensai la condizione dell'età presente . . . . al
lora quella piccioletta lira, onde armavami il fianco gittai; ed ultimo, citato a Roma, vi fu dall'inquisizione condannato, e
il 3 luglio 157o appiccato ed arso. (M.)
un'altra ne temperai conveniente all'orecchio de'uoderni ». (M.)
27o LEZIONE SECONDA
gli intendenti; e anco è da credere, che siano º ancora indubitatamente falso. Laonde qualun
non pochi, i quali parte abbiano composto, que tiene, che la medicina, per atto d'esem
ma non ancora divulgate le lor poesie, e parte pio, sia arte, come ella veramente e, non dee
compongano tuttavia, ma non abbiano ancora per cagione alcuna, ne può mai giustamente
finite, come ho inteso di messer Piero Ange biasimarla: può bene, e forse dee alcuna volta
lio da Barga, oggi professore nelle buone let coloro biasimare, i quali la Medicina esercita
tere tanto greche, quanto latine nello Studio no, e ciò per due cagioni e in due tempi può,
di Pisa; il quale di quattro libri che s'è pro e dee fare: o quando essi non la sapendo e
posto a scrivere eroicamente dell'arte e studio dandosi a credere di saperla, l'adoperano male,
della Caccia, n' ha due finiti e va seguitando il che viene da ignoranza, ovvero quando sa
il restante ad imitazione non tanto d'Oppiano pendola o non sapendola, a reo fine studio
greco, e d'alcuni altri, che della medesima samente e a bella posta la torcono ; il che da
materia trattarono, quanto della Georgica di malvagità procede. Il medesimo diciamo del
Virgilio, come si può conoscere dal principio l'Astrologia, e di tutte l'altre o scienze, o
e proponimento suo, il quale è questo: arti, o facoltà, e per conseguente della Poe
Quae bona venetur pubes: quas cornibus armet sia; anzi in questa per avventura più che nel
Alma feras: manuum digitos quibus addataduncos l'altre suole ciò avvenire; conciossiachè in
Natura: et quarum solers tueatur acuto ella non solo possono errare i poeti stessi o
IDente genus, quantosque canes producat ad usus per ignoranza, non sapendo l'arte poetica, o
Expediam: et srlwas jam nunc atque antra re per malvagità, malamente usandola, ma ezian
cludam. -
dio tutti coloro, i quali, leggendo o interpre
tando i poeti, o per non sapere, o per non
Gli altri, parte per essere notissimi, come volere, non gli interpretano, nè li leggono
Maffeo Vegio, che aggiunse il terzo decimo li in quel modo, nè con quella discrezione, che
bro dell'Eneide di Virgilio, parte per non sa leggere e interpretare non pure si possono, ma
perli io, e parte per altre cagioni si lascieran si deono.
no; e però porremo fine oggimai a raccontare E di qui nacque, per quanto stimare si può,
de' poeti eroici così antichi, come moderni, e che per tutti i secoli e in tutte le lingue si
tanto greci, quanto latini. Resterebbe ora che trovarono di coloro, i quali non solamente non
io venissi a ragionare degli eroici toscani; ma ricevettero i poeti, ma scacciarono ancora la
perchè di questi dovemo favellare più di sotto poesia, non altramente facendo che Licurgo,
lungamente e particolarmente, non diremo ora il quale, veduto che il vino, coloro che di
altro, se non che la lingua nostra quanto al soverchio e prestamente il beveano, inebbriava,
l'altezza e gravità de poemi eroici, se non volle far piuttosto con poco giudizio e mol
trapassa la latina e la greca, certamente, per tissimo danno tutte le viti tagliare, che intro
quanto potemo giudicar noi, non è inferiore durre per legge che il vino adacquare si do
né all'una, nè all'altra. Ma tempo è omai di vesse. E perchè il mondo fu sempre, come si
dover dare alla mia lingua e all'orecchie vo dice ancora volgarmente, a un modo medesi
stre riposo, mo, cioè che in tutti i tempi e per tutti i
-e-ste
paesi furono di quelli che biasimarono le cose
buone e ben fatte, e di quelli per lo contra
rio che le ree e mal fatte commendarono,
LEZIONE TERZA Plutarco Cheroneo, filosofo di dottrina, di
bontà e di giudizio singolare, tra l'altre sue
D E L V E R SO E RO I C o TOSCAN o bellissime e utilissime operine (chè così s'in
titolano) ne scrisse una al tempo di Traiano
imperadore ottimo e felicissimo, di cui egli fu
precettore, la somma e intenzione della quale,
LEzioNE DI BENEDETTo vARCHI, NELLA QUALE si non è altro che insegnare in qual modo si
TRATTA PRIMA SE I TOSCANI HANNO IL verso esa debbono i poeti ai giovani dichiarare, accioc
METRo, Poi QUAL siA NELLA LINGUA toscanA IL chè possano e diletto trarne e profitto senza
vERso ERoico, LETTA DA LUI PUBBLICAMENTE alcuno nocimento; opera per certo lodevolis
NELL'AccADEMIA FioRENTINA, L'ULTIMA DOMENICA sima e degna di dovere essere da ciascuno, che
DI DICEMBRE, L'ANNo MDLIII. della poesia si diletta, alla memoria mandata.
Ma perchè ne ognuno può leggere Plutar
co, avendo egli nella sua lingua, cioè greca
Se egli è vero quello, il che è verissimo, mente scritto, tutto che si ritrovi ancora nella
e questo è che ciascuna scienza, arte e facoltà latina tradotto; nè io debbo tutta quella ora,
fosse per uso nostro e ad utilità degli uomini che assegnata ne fu, nel recitare l'altrui cose
ritrovata; egli è anco vero, che chiunque bia quantunque giovevoli, consumare, ho giudi
sima qual si voglia o scienza, o arte, o facoltà, cato ben fatto, si per soddisfare al mio de
implica contraddizione, cioè afferma cose con bito, e si per compiacere alla voglia di molti,
trarie, e che non possono insieme stare; e in i quali desiderano, che più particolarmente da
somma dice, che una cosa medesima in un me noi si dichiari e più evidentemente che per
desimo tempo e sia, e non sia; il che, essendo lo addietro, quali siano quei frutti e utilita
manifestamente impossibile, viene ad essere che in leggendo i poeti cavare si possono, di
DELLA POESIA 271
dovere in luogo di prefazione, filosoficamente non fosse ancora buono e virtuoso, non po
procedendo, un brevissimo discorso fare sopra trebbe veramente scienziato chiamarsi, ma equi
questa materia, cominciando così: vocamente, cioè non arebbe gli effetti, ma il
Tutti gli uomini per lor natura, anzi pure nome solo di scienziato; perciocchè non po
tutte le cose appetiscono generalmente, quanto trebbe il fine suo e la sua perfezione, cioè la
sanno e possono il più, uno stesso bene, cioè felicità e la beatitudine umana, alla quale tutti
il bene universale, il quale è Dio ottimo e nasciamo, conseguire. E se avesse, oltra la dot
grandissimo, e in ispezie alcun bene partico trima, ancora bontà, ma non eloquenza, sa
lare, mediante lo quale possano l'universale rebbe a ogni modo se non utile del tutto,
conseguire. Ora tutti i beni particolari, che certo difettoso e manchevole molto; percioc
desiderare dagli uomini si possono, sono di che non potendo egli ne piacere, ne giova
tre maniere senza più, cioè di fortuna, di corpo mento recare a mortali, per lo che fare siamo,
e d'animo. I beni di fortuna, che ne dà la si può dire, principalmente nati, verrebbe a
ventura, sono fuora di noi, come nobiltà, ric essere di quella virtù privato, la quale fa più
chezze e stati, e non possono ordinariamente per cari gli uomini e più li rende a Dio somi
la lezione dei poeti acquistarsi, e molto meno glianti, che nessuna altra. E così avemo ve
quelli del corpo, che ne dà la natura, i quali duto, che niuno può essere veramente elo
sono bellezza, gagliardia e sanità. Solo dunque quente, il quale non sia ancora e buono e
- beni dell'animo, i quali soli sono veri beni dotto; e niuno per lo contrario può essere ve
e s'acquistano mediante lo ingegno e industria ramente dotto, il quale non sia eziandio buo
di ciascuno, e ciò sono eloquenza, virtù e no e non debba essere eloquente.
dottrina, si da tutti gli altri buoni scrittori, e Resta che vediamo ora il terzo ed ultimo
si massimamente da poeti si cavano. membro, cioè, se alcuno può essere buono e
Bisogna dunque, perchè niuno può ad altrui virtuoso senza eloquenza e senza dottrina: della
dare quello che egli non ha, che i poeti buoni qual cosa, come non pensiamo, che alcuno du
e perfetti siano eloquenti, virtuosi e dottrinati; biti, cioè come crediamo, che ciascuno sappia
altramente mai da loro trarre o imparare, non di sì; così non crediamo, che ognuno sappia
si potrebbe nè leggiadria di parole, nè bontà di ciò la cagione, la quale è, che non solo la
di costumi, nè scienza di cose. E se chicches dottrina e l'eloquenza si possono male e per
sia, dubitando dimandasse: Come? non può versamente usare, ma ancora tutte l'altre cose,
alcuno essere eloquente, e non essere nè buono, come dicemmo nel nostro proemio, eccetto la
ne scienziato ? Rispondiamo risolutamente di virtù sola.
no; di no risolutamente, e senza alcuna du Dunque, potrebbe alcuno dire, a un poeta
bitazione rispondiamo; perciocchè l'eloquenza basta solamente esser buono senza altra o elo
senza la bontà non è e non può chiamarsi a quenza, o dottrina. Al che si risponderebbe
patto nessuno eloquenza, ma o astuzia, o ma ciò bastargli quanto all'essere buono, ma non
lizia, o per alcuno altro più grave nome e più già quanto all'essere poeta buono, perchè, come
scellerato. Ed è tanto lontano che la Rettorica, dice il Filosofo nel libro dell' Interpretazione,
cioè l'arte del bene e copiosamente favellare uno che fosse musico e fosse buono, non per
sia, se non è accompagnata dalla bontà dei questo sarebbe buon musico; e la cagione è,
costumi, o utile o lodevole, che egli non è, perchè nei poeti, oltra la bontà, la quale non
ne si ritrova in luogo alcuno cosa nessuna, la dimeno assai più sola che tutte l'altre cose
quale più dannosa di lei, e più biasimevole insieme doversi stimare affermiamo, si ricer
chiamare, non dico, si possa, ma si debba. E cano ancora e l'eloquenza e la dottrina; per
per questo il maggior retore e maggiore ora che i poeti non hanno a insegnare solamente,
tore che mai fosse, lasciò scritto in quelle ma a dilettare ancora e a muovere. Ma come
stesse opere, che egli tante e si leggiadramente si può o muovere, o dilettare senza l'eloquen
dell'arte rettorica e facoltà oratoria compose: za? Certo non punto più che insegnare o dot
L'oratore è un uomo buono, il quale sappia fa trina senza scienza, o bontà senza virtù.
vellare (1). Non può dunque l'eloquenza essere Di queste cose si conosce manifestamente ,
senza la bontà. Vediamo ora se può senza la che l'utilità, la quale del leggere i poeti si
dottrina trovarsi, e rispondiamo medesimamente trae, è non solo la maggiore, ma ancora la
di no; conciossiachè le parole furono per ispri migliore che si possa quaggiù, non dirò avere,
mere le cose ritrovate, onde quantunque siano ma sperare, alla quale s'aggiugne il diletto. E
belle e ben poste, se non significano o bei con perchè il diletto è di tre ragioni: d'animo, il
ºtti, o buone sentenze, e in somma se non quale chiamaremo intellettuale: di corpo, il
c'insegnano o virtù per farci buoni, o scienza quale chiamaremo sensuale: e dº anima e di
Per renderne dotti, si deono chiamare piut corpo insieme, il quale chiamaremo misto, ov:
tºsto ciarla (come fiorentinamente si dice) che vero comune, dovemo sapere, che ne poeti
“lºquenza. E colui che ciò fa non buono ora soli, o certamente più nei poeti, che in tutti
ºre, merita d'essere nominato, ma gran ciar gli altri scrittori, si ritrovano tutte e tre que
latore. ste maniere di diletti insiememente; percioc
Dall'altro canto uno, il quale fosse scien chè l'armonia delle parole che s'odono, delle
quali non può più dolce musica ritrovarsi, di.
ºiatissimo e esercitato in tutte le dottrine, se
(1) Cicerone De Oratore.
letta propriamente il corpo, e l'utilità delle
cose che s'intendono, diletta propriamentº
f

272 LEZIONE TERZA -

l'animo. Ma perchè le parole non possono se intendere, o escrcitare desiderano. Laonde noi,
pararsi dalle cose, come di sopra si disse, per agevolare quanto possiamo questa diſſicol
e le cose non possono senza le parole spri ta, raccontaremo prima brevissimamente gli ar
mersi; quinci è che l'une per l'altre e l'al gomenti e le ragioni, onde si muovono a cosi
tre per l'une dilettano a un medesimo tempo credere questi cotali.
così l'anima, come il corpo; dalle quali cose Dicono dunque essere cosa certissima, che
nasce quella incredibile e giocondissima am infino a Dante questa lingua non aveva eroici
mirazione, che nel leggere i buoni poeti, trag avuto, e che Dante stesso non fu eroico: il
gono gli uomini giudiziosi tanto maggiore, quan che pruovano sì per le parole nostre mede
to sono e migliori i poeti ed essi più dotti. sime che dicemmo, gli eroici essere quei poeti,
Conchiudiamo dunque finalmente, che tutto i quali le azioni illustri dei gran principi e le
quello che si può o profittevole, o dilettevole, battaglie cantavano ; il che si vede che Dante
da un nobile ingegno e generoso spirito in non fece; e sì per l'autorità di lui stesso, il
questa vita desiderare, solo nella lezione dei quale intitolò l'opera sua Commedia, avendo
poeti, o più quivi che altrove, abbondevol a un bisogno rispetto, che 'l suo stile non ag
mente e perfettamente si ritrova. Laonde, aven giugneva per avventura alla grandezza dell'e-
do noi questo discorso compito, trapassaremo roico, e spezialmente di Virgilio, il poema del
oggimai a seguitare la materia nostra della quale fece chiamare a lui medesimo non solo
Poetica, cominciando da un altro principio in tragedia, ma alta tragedia, come si vede i -
questa maniera : quei versi del ventesimo Canto dell'Inferno:
Euripilo ebbe nome, e così 'l canta
Contra miglior voler, voler mal pugna; L'alta mia tragedia in alcun loco ;
Oud io, contra 'l piacer mio per piacerli, Ben lo sai tu, che la sai tutta quanta.
Trassi dell'acqua non sazia la spugna (1). Quanto al Petrarca, dicono esser chiaro, che
Era l'intendimento nostro di dovere, forniti egli fu lirico, come dimostra ancora il nome
gli eroici, trapassare a poeti tragici e comici, dell' opera sua ; ed a chi allega i Trionfi, ri
e così agli altri di mano in mano. Ma questo spondono, che quel poema non pure non ade
mio buon volere è stato da un altro migliore gua, ma non arriva a gran pezza al Canzoniere,
vinto: perciocchè avendo noi nell'ultime pa dove se fosse eroico, doverebbe trapassarlo. Del
role della passata Lezione detto, che quanto Boccaccio recitano l'autorità del reverendis
alla grandezza e gravità dell'eroico, la lingua simo Bembo, il quale, favellando dei versi da
toscana, se non vinceva la greca e la latina, lui composti e per conseguente della Teseide
non era nè all'una, nè all'altra inferiore, m'è scritta in ottava rima, disse nel primo libro
all'orecchie pervenuto, che alcuni non solo delle sue Prose, modestamente in ciò e con
niegano questo, ma affermano eziandio, che verità, dannandolo assai apertamente, conoscer
ella non pure non ha poeti eroici infino qui si, che egli solamente nacque alle prose.
avuto mai, ma nè per l'avveaire ancora può Dopo questi tre capi e principi della lin
averne: conciossiachè ella, oltra l'altre cose, gua, non sorse alcuno inſino a' tempi nostri,
manchi del verso esametro, senza il quale non il quale meritasse d'essere poeta, non che croi
può poema alcuno eroico comporsi. E perchè co, chiamato: perchè Fazio Uberti e il Ber
questi tali si muovono a ciò credere dalle linghieri, i quali scrissero della Cosmografia in
stesse parole e medesime sentenze nostre, e terza rima (1), si può appena dire, che scri
sono non meno giudiziosi che dottrinati, e vessero in versi, non che fossero poeti. E mes
amici cosi nostri, come della verità. c'è paruto ser Matteo Palmieri, ottimo e riputato citta
di dovere, si per lo debito dell'uffizio nostro dino, fu di grandissima lunga in tutte le cose
e si per comune utilità di tutti quelli, che delle a Dante inferiore (2). E quelli che scrissero
cose poetiche prendono diletto, rispondere loro, poi in romanzi le battaglie, i quali furono molti,
non ostante che in ciò fare, saremo costretti tra quali Luigi Pulci nel Morgante maggiore
e dal giuramento da noi fatto e dalla consue
tudine nostra di dire liberamente e senza ri (1) Fazio degli Uberti, fiorentino, sali in fama sul princi
spetto, o risguardo alcuno di persona veruna pio del secolo XIV. Egli è autore del Dittamondo, poema
tutto quello, che non sia, ma che giudiche in terza rima, nel quale (ad usar le parole di Filippo Villa
ni, che ne scrisse la vita) imitando Dante, tratto del sito e
remo essere la verità: la quale è tanta nelle investigazione del mondo; . . . e molte cose ridusse apparte
cose, che oggi dovemo trattare, dubbia e ma nenti a verità storica e a varie materie secondo la distinzione
lagevole, che tutti i primi padri e maestri del delle ragioni e dei tempi, le quali pienamente compiono la
l'idioma toscano, sono diversi e differenti tra Cosmografia. – Francesco Berlinghieri, fiorentino, uno degli
loro. E dove gli uomini grandi discordano tra accademici platonici, vissuto nel secolo XV, di 25 anni prese
sè, malagevolmente si può quello che vero sia a scrivere in terza rima un ampio ed intero trattato di geo
o trovare, o affermare: e massimamente in grafia, che fu stampato in Firenze verso l'anno 148o. (M.)
(2) Matteo Palmieri, che tiene un onorato seggio fra i no
cose, le quali, se ben paiono leggiere e di poco stri scrittori di cose politiche pel suo libro della Vita Civile
momento, sono però gravissime a chi bene le (da noi stampato nel tomo VI di questa Bibl. Enciclop. ital.)
considera ed'importanza grandissima a coloro,
scrisse a imitazione di Dante un poema in terza rima diviso
che la lingua toscana e la facoltà poetica o in tre libri, e intitolato Città di Vita, di cui si hanno copie
a penna in varie biblioteche, e di cui vennero pubblicati al
(1) Purgatorio, Canto XX. cuni tratti per cura del dotto Canonico Bandini. (M.)
DELLA POESIA 273
e Luca suo fratello nel Ciriffo Calvaneo (1), tutti i raccontati fossero eccellentissimi stati
tenevano il principato, non furono da noi nella in tutte l'altre cose, non perciò si possono
prefazione nostra tra poeti, non che tra buoni eroici chiamare nell'opere loro, avendo io detto
poeti ricevuti. Di messer Agnolo Poliziano, coll'autorità d'Aristotile, che gli eroici non
uomo di molte lettere e giudizio, per lo non possono altro verso usare che l'esametro , il
avere egli fornita l'opera sua e anco peccato quale è il più grave e il più stabile di tutti
nella lingua alcuna volta, non vogliono che gli altri; mancando di lui la lingua toscana.
tra gli eroici s'annoveri (2). Laonde, dovendo noi alle costoro ragioni e
Ora, favellando de tempi nostri, il primo autorità rispondere, è necessario, che dichia
che acquistasse grido di lodato poeta, dietro riamo due cose: l'una, se i Toscani hanno il
l'orme del signor Matteo Maria Boiardo, fu verso esametro: l'altra qual sia nella lingua
messer Lodovico Ariosto; il quale, tutto che toscana il verso eroico: le quali due quistioni
da noi assai commendato fosse, fu nondimeno fornite, fornirà ancora l'odierno ragionamento
in alcune cose, non dico ripreso, ma notato: nostro: perchè dalla dichiarazione di loro na
onde, per nostro giudizio medesimo, non si deb. scerà in gran parte lo scioglimento di tutti i
be, dicono essi, nè anche a Latini agguagliare, dubbi proposti, e il restante al suo luogo pro
non che preporre a Greci. A costui successero prio più lungamente si dichiarerà.
e al suo tempo e depo molti altri; ma niuno
di quelli che avemo letti noi, pare che lo ar QUIstiONE PRIMA
rivi, non che trapassi, se non se il nostro messer
Luigi Alamanni nel suo Giron Cortese (3). E Se i Toscani hanno il verso esametro.
perchè anco in lui, per nostro giudizio, si de
siderano alcune cose, non può dirsi, che noi Chiunque sa, che cosa sia appo i Latini verso
siamo pari, non che superiori, nè ai Greci, nè esametro, e conosce le maniere de'versi to
ai Latini. Restaci l'opera di messer Giovan scani, sa ancora, favellando propiamente, che
Giorgio Trissino da Vicenza, scritta da lui in i Toscani non hanno il verso esametro; per
versi sciolti con questo titolo: L' Italia libe chè lasciando stare l'altre cose, cotal verso
rata da Goti: la quale, sebbene è lodata da ha, come ne dimostra il suo nome, sei misure
pochissimi meno che mezzanamente e da molti ovvero piedi, la qual cosa non ha verso al
infinitamente biasimata e quasi derisa, a me cuno toscano: se non se forse quella maniera
pare nondimeno, che a quanto a quello che è di versi ritrovata da monsignor messer Claudio
proprio del poeta, ella meriti tanta lode, anzi Tolomei, della quale favellaremo liberamente
tanta ammirazione, quanta altra poesia, che di sotto: del che seguita, che ciascuno verso
sia dopo Omero stata scritta e dopo Virgilio (4). esametro abbia almeno tredici sillabe ordina
E dove molti si ridono di lui, che confessa riamente. Dico così, perchè se i piedi fossero
d'aver penato vent'anni a comporla, a noi tutti spondei, sarebbe di dodici, il che rade
pare, che ciò a gran giuſdizio porre e attri. volte, o piuttosto non mai viene in uso; e il
buire se gli debba, e tanto più che quasi in maggior numero ordinariamente sono diciasette
tutte l'altre opere sue, così di versi, come sillabe: dico ordinariamente, perchè se i piedi
di prosa forse per averle egli con minor tempo fossero tutti dattili sarebbe diciotto. Onde fra
e studio fatte, ci pare ogni altro che il Trissi diciotto e diciasette ordinariamente, e fra do
no, cioè con poco giudizio e senza molta dot dici e diciotto straordinariamente si ravvol
trina. Aggiungono alle cose dette, che quando gono e racchiuggono tutti i versi esametri.
Ora chi non sa, che il maggior verso che ab
(1) Luca Pulci, oltre il Ciriffo Calvanco, scrisse pure il biano i Toscani, è ordinariamente d'undici sil
Diadeo d'Amore, altro poema romanzesco, alcune Epistole labe, e per lo straordinario, cioè quando è a
in terza rima e alcune Stanze per la famosa giostra di Lo sdrucciolo di dodici ? E così il nostro verso
renzo de' Medici. (M.)
maggior non arriva si può dire al minor de'La
(2) Intende qui il Varchi parlare delle celebri Stanze sulla tini; e di qui viene che chi traduce o versi la
giostra di Giuliano de' Medici, che il Poliziano lasciò im
perfette, ma che non pertanto, checchè l'autor nostro insinui, tini o greci in versi toscani, non può quasi mai
vanno fra i più preziosi gioielli dell'italica poesia. (M.) tradurre verso per verso, ma gli bisogna cre
(3) Il Varchi durò pertinacemente in quest'errore, d'ante scere, cioè mettere una medesima sentenza in
porre il Giron Cortese al Furioso, sebbene ne fosse posto in più versi, che i greci, o i latini non sono,
deriso da molti de' suoi contemporanei, e singolarmente da donde egli la traduce, dico quando ancora
quell'arguto ingegno del Lasca. (M.)
l'altre cose fossero pari.
(4) il Trissino si propose nel suo poema d'imitare Omero;
ma appunto perchè ci volle troppo imitare, fu imitatore non Ma perche s'intenda meglio la differenza
troppo felice, e la copia riusci di molto inferiore all'originale. che è tra versi greci e latini da una parte
Egli non avverti che la diversità dei tempi e delle lingue ri e i toscani dall'altra, e si conosca quello che
chiedeva ugualmente che diversa fosse la tessitura dei raccon per nostro avviso ha in errore condotto tutti
ti, delle descrizioni, delle parlate e per attenersi al modello coloro che si fecero a credere, che i versi esa
d'Omero, egli inseri nel suo poema narrazioni troppo minu metri e si potessero e si dovessero accomodare
te, e lauguide e fredde orazioni. Al che aggiungendosi la ma
tura del verso non sostenuto dall'armonia della rima e di suono e introdurre ancora in questa lingua, non ci
troppo uniforme, n'e avvenuto, che dopo una fatica di venti
parrà fatica dichiarare brevissimamente quelle
anni, ch'egli impiegò in comporlo, benchè esso per la dottri cose, che con grandissimo tempo e studio ave
na, per l'eleganza e per altri pregi sia non poco stimato, mo apparate; cioè quello in che convengano
appena nondimeno ritrova ora chi lo legga. (M.) e disconvengano i versi toscani dai versi
3,
latini:
V Attiliil V, 1.
274 LEZIONE TERZA
e quando dico i latini, intendo ancora dei lo contrario, perchè ancora nella prosa, pro
greci, i quali nel medesimo modo si fanno, se nunziandosi alcuna sillaba breve o più breve,
bene alquanto più agevolmente che i latini, ed alcuna lunga o più lunga, vi è necessaria
si per la copia della lingua, e si ancora per mente il numero, ma non già il verso, ovvero
alcune licenze, che a loro, come ancora a noi metro ; non che anco le prose buone non
sono concedute: dalle quali i Latini, come debbano avere il lor numero e quasi metro:
severi e forse troppo schifi, per non dire ma perchè è d'un'altra ragione, metro ov
schizzinosi, si guardarono. vero numero,

Dico dunque per cominciare da primi fon Vedesi dunque, che i Latini non hanno prin
damenti, che ciascuna sillaba in tutte le lin cipalmente armonia, ma ritmo, ovvero nume
gue ha necessariamente tre cose: lunghezza, ro, così ne' versi loro, come nelle prose. Dico
altezza e larghezza: le quali, come ciascun principalmente, perchè secondariamente hanno
vede, sono tutte e tre le dimensioni ovvero anche l'armonia, come si vedrà meglio, detto
misure che trovare si possono. E perchè la che avremo che i Toscani per lo contrario
voce, sebbene non è propiamente corpo, si fa non hanno principalmente numero, ovvero
nondimeno nell'aria, la quale è corpo; qninci ritmo, ma armonia, cioè non considerano nel
è, che ogni sillaba necessariamente ha tutte fare i lor versi la prima dimensione delle sil
le misure che hanno tutti i corpi, cioè lun labe, cioè la lunghezza, ma la seconda, cioè
ghezza, come s'è detto, profondità e larghez l'altezza, ovvero profondità ; e in somma non
za: perchè, se si scrive, le ha in potenza, e si regolano con quantità delle sillabe, ma colla
quando si proferisce, le ha in atto. Ora i La qualità degli accenti, i quali non si servendo
tini, i quali cavarono i loro versi dai Greci, noi del circonflesso, sono duoi: il grave che
consideravano in ciascuna sillaba principal risponde al breve nella sillaba, e l'acuto che
mente la lunghezza, cioè secondo che era o risponde al lungo, perchè della larghezza in
lunga o breve; il che essi conoscevano natu questo luogo non occorre di favellare. Onde
ralmente, perchè se era breve, la pronunzia in nessuna dizione toscana può pronunziarsi
vano brevemente, e con un tempo solo, come accento acuto, se non sopra quella sillaba che
si fa nella musica, verbi grazia, una semimi sia lunga di natura; e ciascuna dizione ha ne
nima; e se era lunga, la proferivano lunga cessariamente una sillaba lunga e non più, e
mente e con due tempi, come si fa nella mu sopra quella si pronunzia, o si pone l'accento
sica una minima: di maniera che ciascuno acuto; e tutte l'altre sono sopra queste, per
conosceva, tosto che sentiva pronunziare al che si pronunziano gravemente, e non vi si pone
runa dizione, quali sillabe erano lunghe e quali accento nessuno, ma vi s'intende il grave; il
brevi, come conosciamo noi quale accento è quale non si segna mai, se non quando si pone
acuto, e quale è grave: benche così le brevi, in luogo dell'acuto, nella conseguenza delle
come le lunghe erano di più ragioni, cioe parti, come fanno ancora i Greci. Ma qui nè
brevi, più brevi e brevissime; o lunghe, più si possono, ne si devono tutte queste minuzie
lunghe e lunghissime, come si vede ancora e sottigliezze dichiarare (1): basta che il verso
nella musica: il che loro avveniva secondo toscano, facendosi d'alto e basso, ovvero d'a-
l'asprezza e moltitudine delle consonanti, che cuto e grave, genera armonia: la quale non è
detta sillaba accompagnavano o prima o dopo, altro che una consonanza risultante di più
cioè o dinanzi, o di dietro la vocale, che fa voci acute e gravi, ovvero alte e basse: e se
ceva cotal sillaba. condo che detta consonanza è più o meno
Dalle quali cose seguita, che i versi latini non vaga e perfetta, tanto il verso sara o più o
hanno principalmente armonia, ma ritmo, cioè meno bello e sonoro. Ed anco in questi arre
numero, il quale nasce dalla misura del veloce e cano pienezza e sonorità le lettere consonanti,
del tardo. E per essere meglio intesi, diciamo, sccondo che sono o più di numero, o più aspre
che il ritmo ovvero numero è quella propor di suono, come si sente in quel verso:
zione, che si ritrova fra due moti locali, uno Non dell'Ispano Ibero all'Indo Idaspe (2);
veloce e l'altro tardo, come si vede nel bal
lare, nel cantare, nel sonare e nel favellare e in quell'altro:
così in prosa, come in versi, e come si sente Spezza a tristi nocchier governi e sarte;
ancora nel polso; perchè, trovandosi in tutte e talvolta ancora per cagione del dittonghi,
queste cose il veloce e il tardo, cioè l'andare, come si vede in quel verso:
ovvero il farsi o più tosto o più adagio, è
necessario vi si trovi ancora il moto, perchè Laura, che 'l verde lauro e l'aureo crine;
il veloce e il tardo sono differenze del moto; e in quello:
e dove è il moto più tardo e veloce, è ne. Dall'aureo albergo dell'aurora innanzi.
cessario che sia ancora il ritmo, ovvero nu
mero; e secondo che la proporzione sarà o mi (1) Viva Dio che anch'egli, il dottissimo messer Bene
gliore o più cattiva, così sarà il numero ne detto nostro, trova che codeste sono minuzie e sottigliezze!
più nè meno, e conseguentemente il verso, o Noi più arditi, eravamo per chiamarle inezie e miserie. (M.)
(2) Questo e i versi seguenti sono quasi tutti del Var
più o meno alto e sonoro; perchè il verso chi stesso, di Dante o del Petrarca. Non ho creduto apporci
chiamato da Latini grecamente metro, cioè
il riscontro de'luoghi, ove si trovano, poichè l'autore h cita
misura, è parte del numero: onde, dovunque solo pel suono e per la materiale struttura, non già per la
e metro, e ancora numero; ma non già per loro significazione. (M.)
DELLA POESIA 275
E 'l medesimo diciamo della prosa: nella quale Onde è da sapere, che niun verso è verso,
non si considera la quantità delle sillabe, cioè cioè non genera la debita armonia, se egli,
se sono brevi o lunghe principalmente, ma la oltra l'avere undici sillabe, non ha ancora due
qualità degli accenti, cioè se sono gravi o accenti acuti, almeno l'uno in su la decima
(e questo non può mai fallare) e l'altro in su
; acuti, cioè alti o bassi. Dico principalmente,
perchè si considera secondariamente anco il
tempo, cioè la lunghezza o brevità delle sil
labe, ma per rispetto degli accenti, secondo
la sesta, o almeno in sulla quarta, e questo
anco non falla mai, se non se per avventura
in quel verso nel primo Capitolo della Fama:
i quali si regolano i Toscani, così nelle prose E le mitre con purpurei colori:
loro, come nei versi: i quali, favellando ora
degli interi, e non di quelli che rotti o spez se già non si pronunziasse in sulla quarta e
zati si chiamano, deono sempre e necessaria in sulla ottava così :
mente avere l'accento acuto sopra la decima
E le mitre con purpurei colori;
sillaba, la quale è sempre innanzi all'ultima:
perchè tutti cotali versi sono d'undici sillabe ovvero in sulla sesta e in sull'ottava così:
ordinariamente. Dico ordinariamente, perchè E le mitre con purpurei colori.
l'accento acuto ha tanta forza, che quando
si pone sopra l'ultima sillaba, il verso in co E quando gli accenti in amendue queste sedi,
tal caso non è più che dieci sillabe, come si cioè quarta e sesta si pongono, ne diviene più
vede in questi ed in molti altri cosi del Pe bello il verso e più sonoro: anzi generalmente
trarca, come di Dante: quanti più accenti acuti ha ciascuno verso,
Lo die in guardia a san Pietro: or non più no; tanto ha maggior suono, come si vede in quel
verso :
Abraam Patriarca e David Re;

i quali in un certo modo può dirsi, che ri Neve, or, perle, rubin, due stelle, un sole;
spondano agli spondaici latini. E quando l'ac e più in quello del Petrarca:
cento acuto non è nè sopra l'ultima sillaba,
nè sopra la penultima, ma sopra l'antepenul Fior, fronde, erbe, ombre, antri,onde, aure soavi,
tima, cioè sopra quella che precede la penul e in quell'altro:
tima, il verso viene ad essere di dodici sil
labe; e si chiama sdruccioloso, ovvero a sdruc Rodano, Ibero, Ren, Senna, Albia ed Ebro;
ciolo, come si vede nel principio del quindi i quali però, perchè sono piuttosto strepitosi
cesimo Canto dell'Inferno:
che sonori, si debbono fuggire, e andare con
Ora con porta l'un dei duri margini. temperando l'acuto col grave e il grave col
l'acuto, secondo che la materia, della quale
E così di tutti gli altri somiglianti, i quali si si scrive, richiede; come si vede in quei versi:
possono a dattilici della lingua latina aggua
gliare. E di questi non volle usare il Petrarca, Gigli, calta, viole, acanti e rose;
perchè quel verso de Trionfi: E rubini e zaffiri e perle ed oro
Scopro, s” io niro nel bel vostro volto,
L' un di virtute, e non d'amor mancipio,
non è sdrucciolo, come hanno creduto, e così come ancora si vede in questo verso dello in
pure quell'altro: gegnosissimo messer Claudio Tolomei, nel quale
sono artifiziosissimamente undici sillabe in dieci
Qual Scizia m'assicura o qual Numidia; dizioni, e tutte coll'accento acuto;
e così di tutti gli altri che sono d'undici Fior, fronde, erbe, aria, antri, onde, armi,
sillabe. arco, ombra, aura;
E sopra queste tre maniere di versi si po
trebbono molte cose e molto notevoli dichia verso audace. Ma il verso è giusto, pure che
rare: ma, perchè non s' appartiene ciò fare non manchi almeno di due acuti, cioè in
in questo luogo, diremo solo, che gli accenti sulla decima, come s'è detto, ed in sulla se
acuti hanno tanta forza e cotal preminenza sta, o almeno in sulla quarta, come quello:
in tutti i versi che non bastano undici sillabe
Nel quinto gioro non abitrebbe ella;
a fare il verso, ma si ricerca di più, come an
cora ne'latini le cesure, che gli accenti acuti perchè chi pronunziasse quel verso del Pe
trarca :
siano a luoghi loro posti e nelle debite sedi.
Perchè chi pronunziasse questo verso: Ch'a bei principi volentier contrasti,
Guastan del mondo la più bella parte, in questa guisa,
in cotal maniera: Ch'a bei principi volentier contrasti:
Guastan la più bella parte del mondo; avrebbe, mutato un accento solo, disciolto
avrebbe col mutamento d' un accento solo l'armonia e conseguentemente guasto il verso.
ogni suo concento ed armonia del tutto gua
Perchè chi non conosce quanto è languido e
sto e levata via; e così diciamo di tutti gli cascante quel verso del Petrarca,
altri somiglianti. D'un fresco e odorifero laureto
276 LEZIONE TERZA
poichè non ha la quarta sillaba acuta ? E così e in quell'altro:
quell'altro:
E Laodomia e il suo Protesilao;
L' odorifero e lucido Oriente,
e in quello:
sebbene ha ancora la quarta acuta, solo per
che ha due voci sdrucciole. E chi può, che ben Com' Euridice Orfeo sua senza rime;
vada, quell'altro pronunziare, il quale non par e in quell'altro:
che si regga in piè, solo perchè la sesta non
è acuta; E seco Ippomenès, che fra cotanta;
Disse: Io Seleuco sono, e questi è Antioco; e in quello:
se già quella parola Antioco non si facesse di O usato di mia vita sostegno;
tre sillabe: facendo diventare quello i vocale il quale è forza, che si pronunzi o coll'ac
consonante, o non si levando una sillaba nel cento acuto sopra la quarta, dicendo cosi:
principio, per farlo medesimamente trisillabo,
come usa di fare alcuna volta il medesimo, O usato di mia vita sostegno,
come in quel verso: o veramente che si separi quella sillaba mia
Ecco Cin da Pistoia, Guitton d'Arezzo; dal suo sostantivo in questo modo:
e in quell'altro: O usato di mia vita sostegno.
Milziade, che 'l gran giogo a Grecia tolse. E così quello ancora:
Onde per ciò fuggire molte volte si pronun L'altra è Penelopè; queste gli strali;
ziano le parole altramente e con altri accenti
di quello che fare si doverebbe : perchè chi d'onde il reverendissimo Bembo, il quale ebbe
non sa che i Toscani pronunziano ordinaria sempre il Petrarca e nel cuore e dinanzi agli
mente Commedia e Tragédia, coll'accento occhi, disse ad imitazione di lui:
acuto in su l'antepenultima, e niente di meno O Ercole, che travagliando vai.
a volere, che questi versi di Dante stiano bene:
Disgiugnesi ancora, e dividesi alcuna volta
Che la mia Commedia cantar non cura; per cagione dell'accento alcuna particella con
e quell'altro: tra l'uso comune, come si vede in quel verso
di Dante:
L'alta mia Tragedia in alcun loco,
Non sono sì terribilmente Orlando
bisogna pronunziarli coll'accento acuto sopra
la penultima. E così quell'altro: e alcuna volta si divide e disgiugne la parola
stessa, come in quel verso:
Flegias, Flegias tu gridi a voto:
Cotanto gloriosamente accolto.
e quegli altri:
La qual cosa fece ancora il Petrarca quando
Diogenes, Anassagora, e Tale, disse prima ne sonetti;
Empedocles, Eraclito e Zenone;
E perchè naturalmente s'aita;
e così quello:
e poi ne Trionfi;
Poi è Cleopatràs lussuriosa.
Come chi smisuratamente vuole.
E quell'altro pur di Dante favellando di Cer
bero: Il che imitò ancora ingegnosissimamente il se
Con tre gole caninamente latra; condo Petrarca, quando disse in quella sua
dolente e maravigliosa Canzone:
e quell'altro :
E grido: o disavventuroso amante.
La gente, che per gli sepolcri giace: E alcuna volta per lo contrario è necessario
e quell'altro più duro di tutti gli altri, e che per cagione dell'accento, cioè per generare
per niun modo par verso, se colla pronunzia mediante gli accenti la debita armonia, e fare
grandemente non s'ajuta : che il verso non zoppichi, come dicono i La
tini, o più tosto, secondo i Toscani, non di
Non per far, mà per non far ho perduto;
scordi, congiugnere due parole insieme, che
ponendo l'accento acuto contra la pronunzia ordinariamente si pronunziarebbero disgiunte,
ordinaria sopra la sillaba quarta, cioè sopra come si vede in quel verso:
la particella ma. Le quali cose si ritrovano
ancora in messer Francesco Petrarca, come in Questo è divino spirito, che ne la;
quel verso: e in quell'altro:
Enone di Paris e Menelao; Mossimi, e 'l Duca mio si mosse per lis
e in quello:
e in quell'altro pur di Dante:
Che fe non Zeusi, o Prassitele, o Fidia; i voi soltre,
Che andate pensando
DELLA POESIA 277
E in somma nel pronunziare i versi, si deve
aver cura più agli accenti acuti che ad altro, DE' TERzETTI.
come a quelli nel proferire de' quali consiste
tutta l'armonia. E chi crederebbe che nella Questa maniera di versi chiamati ora ter
nostra lingua, non pur due, come chi dicesse: zetti, ora ternari e quando terzine, i quali
Nobilissimamente innamorato, ovvero: Leggia non sono altro, che versi d'undici sillabe rin
drissimamente favellando; il che posson fare terzati: onde si dicono volgarmente terze rime,
ancora i Latini, tanto nell'esametro, quanto e da alcuni per lo collocamento loro si chia
nel pentametro, come in quei due versi: mano catene, e da messer Antonio di Tempo (1)
serventesi ha in favor suo prima Dante, che
Lamentabantur Constantinopolitani scrisse la sua opera grande in cotali versi, e
Bellozophonteis sollicitudinibus;
fu il primo, che, volendo eroicamente scrive
ma una parola sola potesse con dovuto mo re, li provò, credendoli senza alcun dubbio
do pronunziata comporre un verso ? Eppu eroici; onde disse favellando a Virgilio:
re si vede che chi pronunziasse debitamente Tu se lo mio maestro e 'l mio autore;
e con li suoi accenti questo avverbio: Mise Tu se solo colui, da cu' io tolsi
ricordiosissimamente, come fece, non ha guari, Lo bello stile, che m'ha fatto onore (2).
assai piacevolmente, e con meraviglia di molti
messer Andrea de Mancini da Montepulciano, Ora non avendo Virgilio scritto con altro verso
nell'ultimo verso d'una stanza, arebbe ciò fatto. nessuua delle sue tre opere, che con l'esame
Ma l'intendimento nostro non è favellare tro, e dicendo Dante d'aver tolto il suo stile
nè del numero, nè degli accenti, mediante i da lui, certa cosa è, che prese la terza rima
quali si compongono i versi, e tanto meno, per eroico. Poi messer Francesco Petrarca, il
avendone favellato per bocca di messer Mi quale o seguitando Dante, o pure per propio
chele Barozio assai acconciamente messer Ber giudizio suo scrisse i Trionfi in terzetti, i quali
nardino Tomitano ne' suoi Ragionamenti della Trionfi senza alcun dubbio sono poesia eroi
lingua toscana (1); sicchè noi avendo lunga ca; c come Dante divise le sue Cantiche in
mente dichiarato, prima che questa lingua non Canti, così il Petrarca divise i suoi Trionfi in
ha il verso esametro, poi qual sia la differenza Capitoli. Questi due furono seguitati da Fazio
tra i latini versi e i toscani, trapassiamo alla Uberti, dal Berlinghieri e dal Palmieri, e da
seconda disputazione. tutti gli altri, che dopo loro in terza rima
eroicamente poetarono, come fece ancora Ni
QUESTIONE SECONDA colò Machiavelli in amendue i suoi Decennali (3).
E di vero l'autorità de due occhi della nostra
Qual sia nella lingua toscana il verso eroico. lingua debbe molto potere; dalla quale mossi
per avventura prima monsignor Pietro Bembo
Come niuno dubita, che al poema eroico si e poi messer Trifone Gabrieli (4), amenduoi
convenga la più grave materia e la maggiore, Veneziani, amenduo dotti, a mendui giudiziosi,
che trovare si possa ; così confessa ciascuno, ma più quasi senza comparazione il Bembo,
che il più grave verso che sia ed il maggiore tennero, che con questo verso si dovessero
gli si debba dare. Dubitano bene molti e fanno scrivere eroicamente le poesie. Ed io per me
grandissima disputazione e contrasto, quale si non solo saprei riprendere, ma non potrei non
debba chiamare nella nostra lingua cotal ver lodare chi ciò facesse, non ostante e l'auto
so, d'intorno alla quale materia si ritrovano rità, e le ragioni di coloro, che dicono che
principalmente tre opinioni. La prima delle il terzetto, avendo le rime frequenti e l'una
quali vuole che i terzetti, ovvero la terza ri propinqua all'altra, tanto scema e toglie la
ma siano in questa lingua i versi eroici: la grandezza e la gravità, quanto cresce e giugne
seconda è che le stanze, ovvero l'ottava rima dolcezza e leggiadria. Perciocchè così nel Pe
trarca, come in Dante si vede ciò non avere
corrisponda all'eroico nella latina: la terza
ed ultima tiene che i versi sciolti, ovvero senza impedito, che non dicessero grandissime cose
rima rappresentino essi gli esametri. E perchè gravissime con dignità, oltra che, come al suo
ciascuna di queste opinioni si fonda in al luogo si dirà, non il verso è quello che prin
cuna ragione, e ha dal suo l' autorità di cipalmente dia la gravità e la grandezza, ma
grandissimi uomini, noi, lasciando che ognuno
a quella s'appigli, che più gli aggrada, le re (1) Questo messer Antonio di Tempo fu il primo a scrivere
citeremo tutte e tre, senza darne altro giudi in italiano intorno all'arte Poetica. Vedi quello che dolta
mente ne scrive il Tiraboschi nel tomo l I della sua Sto
zio, che dire sinceramente il parer nostro.
ria ec., pag 457 della nostra edizione. – A tutti è noto
poi, che Serventesi chiamavansi nella poesia Provenzale le
(1) Bernardino Tomitano, oriundo di Feltre, ma nato in composizioni di tema patetico od amoroso. (M.)
Padova verso il 15o6, fu filosofo, medico, poeta, gramma (2) lnferno, Canto I.
tico, e in tutte queste parti di letteratura ottenne gran nome. (3) Di questo poema in terzine del Machiavelli appena
I quattro Libri della Lingua Toscana, citati qui dal Varchi, degnano parlare anco i più diligenti suoi biografi. (M.)
sono l'opera sua più stimata. (M.) (4) Trifone Gabrielli, patrizio veneto, fu uomo assai dot
to, e non meno celebre per la sua probità che pel suo sa
pere, onde fu detto dal cardinale Valerio il Socrate Veneto,
e venne lodato molto ancora dal Bembo. (M.)
-
278 LEZIONE TERZA
il soggetto e le sentenze. E a coloro, che ri le vestigia de' buoni autori così greci, come
fiutano cotale misura per eroica per lo essere latini, e massimamente Omero, come pare,
necessario chiudere a ogni tre versi la sen che testimoni egli medesimo, quando favellando
tenza, e dicono questo arrecare grande inco ad Achille, disse:
modità, divenendone il poema aspro e duro e
con poca grazia, quasi non si possa il poeta Lascia tacere un pò tua maggior tromba,
ora in istretto raccogliere, ora in largo disten Ch' io ſo squillar per l' Italiche ville (1),
dere, secondo che la qualità del soggetto, o s'alzò tanto da tutti gli altri, che dinanzi a
l'impeto della Musa lo trasporta, si può ri lui furono, che se gli altri che dopo lui ven
spondere, prima ciò non esser vero, come per nero, si fossero tanto da lui alzati, non ci ac
molti esempi tanto di Dante, quanto del Pe cadrebbe ora quale fosse lo stile eroico dispu
trarca si può manifestamente conoscere; poi tare; ancorachè nelle sue Stanze o per non
dire, che non avendo questa lingua, nè il mi averle egli fornite e conseguentemente ammen
glior verso, nè il maggiore, è costretta per date, o per la corruttela di quei tempi, o per
servirsi del suo, a usare quello che ha. Nè gli altre cagioni, si ritrovino alcune cose, che più
esempi d'Omero e di Virgilio fanno del tutto tosto macchie rassembrano entro un bel viso,
a proposito; perchè scrissero in diverse lingue che néi. Dopo lui seguirono molti altri; ma
ambidue, nelle quali non l'armonia faceva i l'Ariosto per giudizio comune ha infin qui
versi, come nella nostra, ma il numero, come nel suo Furioso ottenuto la palma; dietro il
di sopra s'è lungamente dichiarato. E perchè quale ha il grido messer Luigi Alamanni nel
molti credono, che nelle rime, che di terzo suo Girone, benchè noi, come al suo luogo
in terzo verso si pongono sia vizio, quando faremo manifesto, siamo di diverso parere.
non si fornisce la sentenza in un ternario so Basta per ora, che tutti coloro, i quali ten
lo, ma si trapassa nell'altro, diciamo ciò, a gono che l'ottava rima sia il verso eroico,
giudizio nostro non solo ne ternari, ma in allegano in pro e per favore della loro opi
qualunque altra maniera di rime, eziandio nei nione l'autorità di costoro: alle quali si può
sonetti, nelle stanze e nelle canzoni stesse, non aggiugnere sì quella di messer Gandolfo Po
essere vero, ancora che quasi sempre s'usi al nini, il quale scrisse le Pompe Funerali del si
tramente, mossi a ciò dire dall' autorità di gnor Luigi Gonzaga con ottava rima, e si
Pindaro, il quale spessissime volte negli inni quella di messer Francesco Bolognetti, il quale
suoi, che altro non sono che canzoni a modo scrive il suo poema eroico, intitolato da lui
nostro, usa ciò fare. E infin qui basti aver Costante Pio e al nostro eccellentissimo Duca
detto delle terzine. indiritto con questa maniera medesima di ver
si; e sì ancora di quelli, che sappiamo noi,
DELLE STANZE, oltre messer Lodovico Dolce, quella del clia
rissimo e dottissimo messer Domenico Venie
Messer Giovanni Boccaccio, il quale aven ro, il quale, volendo a beneficio comune e
dosi proposto altissimo tema e soggetto degno per arricchire la nostra lingua le Trasforma
di stile eroico, ritrovò le stanze (1) per no zioni d' Ovidio tradurre in Toscano, le tra
bilmente vestirlo, si servi dell' ottava rima duce medesimamente in istanze. Le quali, seb
in que' dodici libri, che intitolati da lui la bene hanno le rime spesse e vicine, come an
Teseide, si ritrovano ancora oggi: nella fine cora i terzetti, da quali non son differenti, se
de quali pare, che si vanti d'essere egli il non ne duoi versi ultimi, mostra nondimeno
primo stato, il quale di scrivere battaglie in la sperienza, che sono attissime, non solo a
versi eroici avesse nella lingua volgare osato; qualunque materia bassa e mezzana, ma an
per lo che se gli deve, sebbene l'opera molto cora a tutte l'altissime, come può chiaramente
felicemente non gli successe, non picciola glo vedersi in tante stanze da tanti vari autori
ria. Dietro costui, ma dopo lungo tempo e di tanto diverse materie composte; tra le qua
spazio seguirono molti, i quali col medesimo li, quasi amaranti tra più bei fiori, risplendono
verso le battaglie e altri avvenimenti scrissero quelle del reverendissimo Bembo. Ed io per
così d'armi, come d'amore, ma tanto lontani me, sebbene ancora nell'ottave rime si desi
non solo dall'artifizio de poeti, ma dalle re dera alcuna cosa, non le giudico punto nè
gole de grammatici, che non volendo noi di
re, che eglino ogn'altra cosa furono, che poe
meno degne, nè manco nobili che le terze:
anzi agli orecchi mici paiono e più grandi e più
l
ti, passeremo a raccontare, che il primo, che sonanti. Di maniera che quando bene fossero
meritasse in questa maniera di scrivere e lode più naturali e più agevoli, che l'altre, come
e ammirazione, fu il Poliziano; il quale, es mostrano quelli, che improvvisamente dicono,
sendo dotto e giudizioso, lasciate in gran parte non per questo a giudicio nostro sarebbono
le parole e i modi della plebe, e seguitando da dovere essere dispregiate; conciossiacosache
questo, quando l'altre cose siano o pari, o
(1) Qui il Varchi prende abbaglio; chè le stanze furono maggiori, non le dee più vili fare e meno care
da altri adoperate prima del Boccaccio, e fra gli altri da dell'altre: di maniera che quanto a me, sti
Franco Sacchetti in quel suo leggiadro poemetto eroicomico,
che s'intitola la Guerra delle giovani con le vecchie, che noi merei più per ventura l'uso degli autori mo
pubblicammo nel volume XIX di questa nostra Biblioteca derni, che l'autorità degli scrittori antichi,
Enciclopedica ltaliana. Ma forse a tempi del Varchi il ma
noscritto del Sacchetti giaceva dimenticato. (M.) (1) Lib. I, Stanza VI.
DELLA POESIA 279
quando volessi opera eroica in questa lingua del secondo libro della sua Poetica tiene, che
comporre. E quanto al dovere ad ogni otto solo il verso senza rima e si possa opporre e
versi il sentimento fornire, dico, che quando si debba all'esametro, facendolo sopra tutti
fosse necessario, o mi tornasse comodo tra gli altri dolce, puro, leggiadro, altero e chia
passare alcuna volta dall'una nell'altra stan ro; onde scrive con molti altri questi versi
za, non mi guarderei da ciò fare per l'auto propri:
rità di Pindaro allegata di sopra.
Contra lo stil continuo, in quella vece,
DE' vERsi scioLTI. Che già gli antichi usdr le sei misure,
Porrem le rime senza rima: queste
Siccome tra Latini è dubbio chi fosse il
Sono oltra l'altre chiare, pure ed alte:
ritrovatore de'versi elegi, di maniera che an E chi non v' ha l'orecchie in tutto nuove,
cora pende la quistione: così non è certo fra Altra lettura, altro cantar non vuole.
i Toscani che colui fosse, il quale primo i
versi sciolti, ovvero senza rima ponesse in uso. In qualunque modo si sia, quasi tutti cole
Conciossiacosachè alcuni cotale ritrovamento di ro, i quali di greco hanno, o di latino poeti
messer Giovangiorgio Trissino dicono che fu, eroici in volgare tradotto, gli hanno in questo
e alcuni a messer Luigi Alamanni l'attribui verso, forse più grave, ma certo più agevole,
scono, allegando si molte altre delle sue ope sebbene assai difficile, e men dolce di tutti
re, e si principalmente la Coltivazione. Noi di gli altri, tradotto; come si vede, che fece mes
ciò, non sapendone la certezza altro non di ser Lodovico Martelli il quarto di Virgilio: il
remo, eccetto che se per conghiettura a va cardinal de' Medici il secondo, ed ultimamente
lere avesse, penderemmo nella parte del Tris monsignor de'Minerbetti vescovo di Arezzo il
sine si per lo essere egli alquanto più antico nono, indirizzandolo a noi: messer Bernardino
stato e prima fiorito dell'Alamanni: e sì per Daniello la Georgica: messer Marcantonio Ci
che mi ricorda che già, essendo io fanciullo, nuzzi il Rapimento di Proserpina scritto da
con Zanobi Buondelmonti e Nicolò Machiavel Claudiano: messer Bernardo Tasso la favola
li, messer Luigi essendo garzone andava all'orto d'Ero e di Leandro, composta da Museo no
de'Rucellai (1), dove insieme con messer Cosimo l bile e antico poeta Greco: messer Alessandro
e più altri giovani udivano il Trissino, e l'os Piccoluomini le due orazioni d'Ajace, e d'Ulisse
servavano più tosto come maestro o superio del decimo terzo libro delle Trasformazioni di
re, che come compagno o eguale. Ma per non Ovidio: messer Dionigi Lippi e messer Cammil
fare alla verità pregiudizio alcuno, lasciata lo Buonpigli la Zanzara di Virgilio: messer
Alberto Lollio e messer Lelio Bonsi il Moreto
questa lite indecisa, diremo solo, che messer
Jacopo Nardi in una commedia usò già molto del medesimo e molti altri; i quali parte ora
prima, che alcuni di questi duoi, secondo, che non mi sovvengono, e parte non ho letti an
c'è pure oggi stato da Francesco Guidetti ri cora. E per non frodare alcuno del giudizio
ferito, cotal maniera di versi. Ma o l'uno o nostro, avvenga che debolissimo, dirò che io,
l'altro di loro, o amendue, o tutti e tre che come non loderei chi lasciasse le rime per
si fossero delle rime senza rima ritrovatori, iscrivere in versi sciolti, così non biasimerei chi,
eglino sono stati più tosto seguiti da molti, dopo l'essersi nelle rime esercitato, compo
che lodati dagli altri ; conciossiacosachè la nesse da sè, o traducesse da altri in questa
maggior parte, non che leggere cotali versi maniera di versi alcuna opera eroica, o mate
con piacere, non pure par udirli senza fasti ria pastorale, come fece già giudiziosamente
dio: dico di quelli eziandio, che, come non messer Annibale Caro, e leggiadramente nella
mancarono di dottrina, cosi abbondarono di traduzione della prima Egloga di Teocrito.
giudizio. E per tacere degli altri, messer Tri Ma di questo verso, nel quale giudichiamo,
fone Gabrieli, alla cui bontà e amorevolezza che a volere a quella perfezione condurlo,
ha non piccola obbligazione la lingua nostra, della quale lo crediamo capevole, faccia me
non solamente li riprovava, ma diceva non es stieri di maggior fatica e diligenza, che molti
sere versi: la qual sentenza o non è da noi per avventura o non hanno fatto, o non pen
bene intesa, o ella è manifestamente falsa. sano che fare si debba, si tratterà più parti
Dall'altro lato si trovano alcuni, i quali non colarmente, quando disputeremo in qual ma
solamente gli approvano, ma li prepongono a niera diversi se debbano le tragedie comporre.
tutti gli altri, e massimamente nelle composi Basti per ora, che dalle cose dette può age
zioni eroiche: e tra questi è messer Geronimo volmente cavarsi, che i Toscani più tosto ab
Muzio, uomo per nostro parere di non minor bondano ne' versi eroici, avendone di tre ma
dottrina che bontà, e così raro di giudizio in niere, che eglino ne manchino. E non ostante
molte cose, come felice d'ingegno, checchè questo, messer Claudio Tolomei già più volte,
se ne dicano alcuni (2). Costui nel principio per onorare l'ingegno, la bontà e le molte
sue e grandissime virtù, da me nominato, per
(1) Negli orti de' Rucellai, siccome è noto, raccoglievansi fuggire la troppa licenza e libertà dei versi
i membri della famosa Accademia Platonica Fiorentina, sotto
la presidenza del celebre Bernardo Rucellai, filosofo, filologo sieme e teologo ed uno degli uomini più laboriosi che fioris
e raccoglitore d'antichità. (M.) sero nel secolo XVI. La sua Poetica, che da' contemporanei
(2) Girolamo Nuzio, padovano, che per vezzo d'antichità fu accolta con gran plauso, anche al presente si può leggere
cangio il suo cognome in quello di Muzio, fu cortigiano in con frutto. (M.)
28o LEZIONE

sciolti, e schifare la secchezza, per così dire, e riconoscono il numero latino, nè vi sentono la
la strettezza delle terze rime; c in somma non toscana armonia; di maniera che io avviso,
giudicando, che verso alcuno d'undici sillabe, che quanto in molte altre cose è il nostro idio
qualunque fosse, potesse per la cortezza e bas ma alle fatiche e vigilie di messer Claudio
sezza sua alla dignità e gravità dell'eroico per grandissimamente tenuto, tanto in questa, per
venire, ritrovò, sono già più anni, prima alcune non dire più oltra, disobbligato gli sia.
catene e certi legamenti di rime variate, le Ma lasciando di ciò a più dotti e a più eser
quali furono poi o con pari ingegno ritrovate, citati più vero giudizio dare, e tornando donde
o con maggiore animo usate e prodotte in luce partimmo, diciamo che alcuni antichi profes
da messer Bernardo Tasso, dove sono le ri sori e gran maestri della lingua portano opi
me, ma tanto lontane, che non si sentono; le nione, che chi un poema eroico componesse
quali sono più di tutte l'altre comuni, cioè in quella misura della canzone del Petrarca,
d'undici sillabe, approvate da messer Claudio, la quale comincia:
il cui giudizio può ciascuno e seguire e fuggi Nel dolce tempo della prima etade (1)
re, secondo che più o lo stima migliore, o lo
tiene manco buono. Certo a noi pare, per dire e facesse di quel verso che v'è spezzato, un verso
ancor di questo liberamente l'opinione nostra, intero od in alcun'altra somigliante, s'acquista
che quelle fatiche, le quali non giovano al ria con immortale gloria perpetuo nome. E qui,
l'anima, o non dilettano il corpo, e breve essendo parte sciolte e parte agevoli a potersi
mente che non sono necessarie, nè utili, siano sciogliere per le cose dichiarate tutte le dubi
tutte soverchie, e possono più tosto essere tazioni proposte da noi nel principio di questa
scusate alcuna volta, che lodate. Lezione, riserbando le più propie e più par
Poi nè questo modo ancora per lo picciolo ticolari soluzioni, e massimamente quanto alle
numero delle sillabe a messer Claudio piacen grandezze di Dante e del Petrarca a più op
do, ritrovò di quivi a poco una nuova misura portuni luoghi, oggi mai porremo e al dir no
di versi e un modo non più udito di poetare stro e al vostro ascoltare fine.
in questa lingua, del quale ne fu un libro
in Roma stampato l' anno 1539 intitolato La
nuova poesia Toscana, dove si leggono molti
esametri e pentametri con altre guise di versi
al modo latino toscanamente composti, dei LEZIONE QUARTA
quali sallo Dio, che io per me non so, che DELLA TRAGEDIA
dire mi debba : poichè ancora oggi quando
sono stati da tutto il mondo apertamente ri
fiutati e derisi, non pure li difende, ma li
celebra, gli ammira e mette innanzi a tutti LEzioNE DI BENEDETTo vARCHI, NELLA QUALE si
gli altri messer Claudio solo, chiamando colo RAGIONA DELLA TRAGEDIA, LETTA DA LUI PUB
ro, che così non fanno non ignoranti, ma osti BLICAMENTE NELL'AccADEMIA FIoRENTINA, LA
nati; quasi conoscano il vero, ma non vogliano PRIMA DoMENICA DI QUAResIMA, L'ANNo MDLIII.
o per invidia, o per malignità confessarlo (1).
Pure costretto dalla promessione mia, dirò, PRO E MI O
non per ricoprire la gloria di lui (il che non
posso, nè voglio, nè debbo fare) ma per
iscoprire non già l'ostinazione, ma bene l'igno Chiara cosa è, che fra tutte le cose di
ranza mia, che mai cosa alcuna all' orecchie tutto l' universo, solo l'uomo, così secondo i
non mi pervenne nè meno giudiziosa di que teologi, come secondo i filosofi, ha, molto ma
sta, nè più in materia grave ridicola. E posso gnifico e reverendissimo Viceconsolo, dottissi
affermare veramente, che mai non li lessi (che mi Accademici, e voi tutti, Ascoltatori pre
gli ho per discredermi e provare di sgannarmi stantissimi, quella nobilissima sostanza, e per
più volte letti) che non mi paresse come o fettissima natura, che da Aristotile fu ora in
veder ballare donne non pur vecchie e sozze, telletto possibile e ora materiale, e quando
ma zoppe e sciancate, o sentir cantare uo altramente chiamata; mediante la quale tanto
mini se non sordi e mutoli, certo ſiochi e a tutti gli altri terreni animali soprastiamo,
scilinguati. E in somma gli orecchi miei nè vi che niuno nè può nè dee divino chiamarsi ed
immortale, se non l'uomo. Chiaro è ancora,
(1) Claudio Tolommei, sanese, è celebre ne' fasti della che, come l'obbietto della volontà è solo il
letteratura del secolo XVI. Il suo pensiero di ridurre i versi bene, così quello dello intelletto è solo il vero;
italiani al metro ed all'armonia de' latini, ebbe allora alcuni più chiaro è poi, che tutti gli uomini insieme
seguaci: poi combattuto da più altri e dalla sperienza medesima
riprovato, cadde presto in dimenticanza. L'opera, in cui egli
e ciascuno di per sè di conoscere il vero na
lo espose, venne in luce nel 1539, e s'intitola: Versi e re turalmente desiderano; chiarissimo finalmente
gole della Poesia Nuova. Secondo siffatte regole s'avevano a che il vero non e, né può essere in cosa nes
fare i versi di piedi spondei e dattili ed altri usati già dai suna, se non un solo.
latini. Ne servano d'esempio due versi del medesimo To Le quali cose considerando, molti si fanno
lommei:
grandissima meraviglia, come avvenire possa,
Ecco il chiaro rio: pieno eccolo d'acque soavi:
Erro di verdi erbe carca la terra ride.
(M.) (1) Canzone I, Parte I.
DELLA
PoEsIA 281
che, non essendo la verità più d'una, e de dal cielo il sole; perchè come senza il lume
siderando per natura tutti gli uomini di sa del sole non può cosa alcuna in verun luogo
perla, essi non pure non convengono sempre da nessuno occhio vedersi, così senza la luce
in ella, ma quasi sempre disconvengono; con della filosofia non può in alcun luogo ninna
ciossiachè, oltra quello che ancora proverbial cosa da veruno intelletto perfettamente com
mente si dice che quanti sono gli uomini, tanti prendersi. E per questo diceva quel grande
sono eziandio i pareri, la sperienza, della quale Arabo, secondo maggior segretario della natu
non è cosa alcuna nè più vera, nè più certa, ne ra (1), che un uomo filosofo e uno il quale fi
dimostra tutto il giorno, che quello che ad al losofo non sia, sono equivoci, cioè non con
cuno pare vero, è da alcuno altro che falso sia vengono tra loro in altro che nel nome solo,
giudicato, e quello che uno estima che buono come ancora un cavallo, benchè sia o dipinto,
sia, è da un altro per reo tenuto. E chi non sa, o morto, si chiama cavallo, e nondimeno al
giudiziosissimi Ascoltatori, che molti biasimano tro di cavallo non ha che la voce sola, cioè
molte volte alcuna cosa come laida e sozza, il nome di cavallo. E questo è quello, che
la quale molti altri lodano come orrevole e messer Giovanni Boccaccio non meno con dot
bella? Ma che più ? Non vediamo noi spesse trina e giudizio, che con arguzia e leggiadria
fiate, che un uomo medesimo una medesima fece dire a messer Guido Cavalcanti, singolare
cosa ora segue e agogna, come piacevole, ed filosofo e poeta di quei tempi, nella nona
ora come spiacevole fugge ed abborre? E, per Novella della sesta Giornata, quando egli so
conchiudere il tutto in brevi parole, niuna praggiunto da messer Betto Brunelleschi e al
cosa fu mai in luogo nessuno, nè mai, per tri di sua brigata tra quelle arche e sepol
quanto stimo, sarà nè tanto nobile e perfetta, ture di morti che già in sulla piazza di
la quale non sia stata infinite volte da infi S. Reparata presso la porta di S. Giovanni si
niti uomini biasimata, nè tanto imperfetta e vedevano, e infestato sollazzevolmente da loro,
ignobile, la quale da infiniti uomini infinite che uomini idioti e non letterati erano con
volte stata lodata non sia. importune dimande, queste parole rispose:
Per le quali cose niuno prudente nè dee se Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò
maravigliarsi, nè può giustamente dolersi, che che vi piace ».
trovandosi molti i quali commendano i poeti Ne vorrei però che alcuno di voi, ingegno
e la poesia infinitamente, si trovino ancora sissimi Ascoltatori, o si pensasse che tutti gli
molti, i quali infinitamente la poesia e i poeti uomini letterati, cioè che sanno le lingue so
vituperino; perciocchè questo non avviene nelle lamente o greca o latina o toscana che siano,
cose poetiche solamente, ma eziandio in tutte fossero ancora filosofi, o non credesse che gli
l' altre. Qual diletto può trovarsi maggiore, uomini idioti, cioè coloro che le lingue non
qual più utile e più lodevole ristoro, qual più sanno, non potessero essere ancora essi filo
onesto e onorato ricreamento a un animo ben sofi; posciachè la filosofia non nella cognizione
composto, che un concordevole concento di delle lingue, ma nella scienza delle cose con
più voci discordevoli unite, o veramente di più siste principalmente; onde, come chi sapesse
suoni, o dell' une e degli altri insieme? E tutti gli idiomi che sono al presente, e che
nondimeno sono di quelli, i quali, non che mai furono, non perciò si potrebbe, se le cose
prendano nè diletto, ne ristoro, nè ricrea ancora non sapesse, chiamare filosofo, ma solo
mento alcuno della musica, odiano mortalmente interprete e turcimanno: così dall'altro lato
qualunque maniera d'armonia; e cosi fuggono chiunque le cose sapesse, ancora che niuno
essi ogni dolcezza e soavità di tutte le melo linguaggio intendesse se non il suo proprio,
die, come gli altri uomini lo strepito del fra anzi ancora che mutolo fosse, sarebbe filosofo.
casso dei venti o l'asprezza degli stridori delle Nè è dubbio alcuno, che più vale una cosa sola,
seghe fuggirebbono. Similmente non ha alcuno che mille parole mille volte non fanno; sebbene
onde o maravigliare si possa, o iniquamente sia vero che anticamente non erano, e oggi
sopportare debba, se quel poeta, che da lui non dovrebbono essere disgiunte nè la dottrina
e bellissimo e d'ogni lode degnissimo riputato, dall'eloquenza, nè l'eloquenza dalla dottrina.
a un altro non pare così, anzi bene spesso Ma per tornare oggimai alla materia nostra
tutto il rovescio; perciocchè questo non solo e sciogliere la dubitazione proposta, dico, che
nei poeti, ma in tutti gli altri scrittori, anzi fu opinione d'alcuni filosofanti, che tutta que
in tutte le cose, come pur testè si disse, av sta macchina mondana, la quale universo si
viene parimente. chiama, tutto che grandissima, tutto che piena
Ma potrebbe dire chicchessia, che sa bene di moltissime e quasi infinite spezie, ciascuna
e conosce cotali cose essere verissime, ma non diversa dall'altra, sia nondimeno un solo ani
ne sa gia, nè conosce il perchè (il che sapere male tanto bello, tanto buono e tanto perfet
e conoscere vorrebbe) onde questo procede ? to, quanto possa non so se immaginarsi, ma
A costui si risponde, che il rendere la cagione bene essere il più ; onde, come nell'uomo e

; di ciò, come ancora dell'altre cose tutte quan


te, solo alla filosofia s'aspetta; anzi non è al
in tutti gli altri animali che dal filosofo pic
tro la filosofia, che il sapere di qual si voglia (1) Averroe, come altrove si notò. Il Varchi lo chiama
cosa vera rendere indubitata ragione; talchè secondo maggior segretario della natura in confronto d' Ari
chi la filosofia dal mondo togliesse, farebbe stotile, a cui altri diedero l'onorevole predicato d'interprete
il medesimo, e forse peggio, che chi levasse della natura. (M.)
v A fit iii V, la 3o
28 e LEZIONE QUARTA
cioli mondi chiamati furono, sono alcune parti ciuolo o l'ingiuria del pallone o la pazzia dei
o più nobili, o più necessarie ed alcune meno, sassi ? E nondimeno parte n'avemo veduto ai
cosi medesimamente nel mondo grande addi di nostri, e parte ne vediamo ancora oggi in
viene. Perchè, come le cose dall'elemento Firenze? E questo perchè? Perchè altro, pru
del fuoco in su, sono tutte eterne, tutte per dentissimi Ascoltatori, se non perchè anco que
fettissime e tutte beatissime, ma qual più e ste erano necessarie nell'universo, e a noi
qual meno, secondo che più o meno al Faci toccò di doverle avere.
tore e Conservadore loro s'avvicinano; così Ma perchè cotale opinione non solo non è
quelle dal cielo della luna in giù, sono per cristiana, ne per conseguenza vera, ma ripu
lo contrario cadevoli, imperfettissime e mise gna eziandio così agli Aristotelici, come a Pla
rissime tutte, ma qual meno e qual più, se tonici, i quali tengono, che tutti i mali che
condo che meno o più dal Facitore e Con da tutti gli uomini si fanno, si facciano sola
servadore loro s'allontanano : laonde, come mente per ignoranza e per conseguente pro
lassuso è infinita pace, infinita gioia e infinita cedano tutti da imperfezione e mancamento
tranquillità, così sono quaggiù sempre guerre, di giudizio: noi essendo il favellare del giu
sempre nole, sempre miserie. dicio non meno lunga e dotta, che utile e dif
E per conchiudere finalmente il proponi ficile materia, e nella quale molti, per nostro
mento nostro, dovemo sapere: prima che nes avviso, ingannati si sono, riserbando il ciò fare
suna cosa può essere, la quale nell'universo nel principio della seguente Lezione, daremo
non si ritrovi; poi, che nessuna cosa è nell'u- ora, nobilissimi Ascoltatori, la materia nostra
niverso, la quale o utile non sia, o necessaria seguitando, a quanto oggi intendiamo di do
in qualche modo o all'unità o all'ornamento vere in questo onoratissimo luogo all'umilis
o alla perfezione di lui; perchè, se l'universo sime cortesie vostre ragionare, col favore di
per essere perfetto, deve tutte le cose conte Dio e buona licenza di voi, cominciamento.
nere, una sola che gli mancasse, farebbe che
egli non fosse più nè universo, nè perfetto; Avendo noi nell'ultima Lezione nostra così
e quello che considerato da per sè, pare o del poema, come de' poeti eroici assai lunga
dannoso, o soverchio, è rispetto all' universo mente trattato, seguita ora che del poema e
considerato o giovevole o necessario. E di qui dei poeti tragici, secondo l'ordine da noi po
nasce, Uditori ottimi, che, come furono e sa sto, trattare dobbiamo; la qual cosa aſfine che
ranno sempre degli uomini buoni, così sempre con maggiore ordine e per conseguenza più
furono e saranno sempre de'rei, e conseguen agevolmente si faccia, raccontato che avremo
temente dei mezzani, cioè nè del tutto buoni, in brevi parole, quando, dove, da chi e per
nè affatto malvagi; e come quelli nascono per chè fosse la tragedia ritrovata, porremo la sua
giovare a sè ed agli altri, così questi per nuo definizione, e l'andremo parola per parola
cere agli altri ed a sè. dichiarando, poi dividendola nelle sue parti
Qual opinione si trovò mai o tanto falsa e cosi quali, come quante, dichiareremo ancora
ridicola, che non fosse da alcuno creduta e quelle ad una ad una, e ultimamente, se il
difesa, o tanto vera e certa che non fosse da tempo ne basterà, raccontati i poeti tragici
chicchessia negata e derisa ? Qual fu mai o cosi greci e latini, come toscani, moveremo
migliore uomo o più onesto o più amabile e risolveremo alcuni dubbi non men belli che
di Platone ? Eppure non solo anticamente, ma necessari d' intorno a questa materia.
poco sopra i tempi nostri si trovò messer Gior. Dovemo dunque sapere, che Omero, di quelli
gio Trapezunzio, il quale, in una lunghissima che si sanno, fu il primo, il quale, se non fece,
opera che contra gli scrisse, dice quello di lui diede il modo come fare si potessero e doves
che al più reo uomo e più disonesto e più sero tanto le tragedie, come si può vedere in
vituperoso che mai fosse sarebbe di soverchio amendue le sue opere, Iliade e Odissea, quanto
stato. Qual mai più dotto e più ingegnoso di ancora le commedie, come dimostrava quel
Aristotile? E nondimeno, oltra molti altri già l'altra sua opera allegata da Aristotile e chia
morti, vivono oggidì di quelli, i quali hanno cose mata Margite, la quale oggi non si trova più.
di lui non solo dette, ma scritte e pubblicate, Erano dunque anticamente di due maniere
che al più grosso e materiale uomo, anzi al più poeti: i primi, i quali erano persone gravi e
tondo e ignorante idiota che mai, non dirò nella si dilettavano di cose alte, lodando nei versi
Grecia madre e nutrice di tutte le buone arti loro e ringraziando la grandezza e beneficenza
e liberali discipline, ma sotto il più strano degli dii, si chiamavano eroici, e da questi
clima in qualunque più erma e incolta contra nacque ed ebbe origine la tragedia: i secondi,
da si ritrovasse, troppo disdicevoli sarebbero. i quali uomini leggieri erano, di cose vili e
Ma che vo io ricercando, Uditori singolaris basse dilettandosi e di dire male d'altrui, si
simi, cose tanto e antiche di tempo e lontane chiamavano per questo jambici, quasi ontosi e
di luogo ? Quali si possono pensare più bar maledici, e da questi ebbe origine e nacque
bare usanze, non che trovare, e più da ogni la commedia, quella, dico, commedia maledi
non dirò cristianità, ma civilità rimote, che o
l'iniquità dello scangè (1) o la licenza dell'or cenzioso nell'orciuolo, d'ingiurioso nel pallone, di pazzo nei
sassi, non ho potuto indovinarlo. Pare che il Varchi alluda
- (1) Lo ºsti è una sorta di drappi di seta di color can
a foggie di vestire ed a giuochi che s'erano introdotti a tempi
tººle - Che ci potesse esser d'iniquo nello scangè, di li | suoi. (M.)
DELLA POESIA 283

ca, che fu poi antica chiamata. L'una e l'al | nale, quanto uomo, chi vuole sapere che cosa
tra di queste due poesie, cioè la tragedia e la i tragedia sia, stia attento.
commedia, fu da prima, come in tutte le cose Dice dunque il filosofo: La tragedia è una
suole avvenire, molto rozza e manchevole; imitazione. Questa parola imitazione è il genere
come quelle che nuovamente erano e quasi al di questa definizione, perchè, come s'è detto
l'improvviso nate, del cui nascimento due fu tante volte, tutte le poesie sono imitazioni;
rono le cagioni e amendue naturali: la prima dunque la tragedia essendo poesia, e ancora
fu, perchè gli uomini sono naturalmente atti di necessità imitazione, come l'uomo, essendo
nti
all'imitazione, e prendono maraviglioso diletto animale, viene a essere ancora necessariamente
'la dello imitare e contraffare checchessia; la se sostanza animata sensibile.
conda fu la dilettazione non picciola, che porta D'alcuna azione. Queste parole con tutte
seco l'imitazione della natura, e così il nume l'altre che seguitano in questa definizione, sono
ro, come l'armonia, e in somma tutta la mu poste in luogo della differenza; e disse azione,
sica. Andarono dunque crescendo e avanzan perchè i poeti non hanno a imitare gli uomini,
dosi a poco a poco l'una e l'altra, e massi ma quello che gli uomini fanno, cioè le azioni
mamente la tragedia, la quale, come migliore, ed operazioni loro: disse alcuna nel numero
trovò chi maggiormente la favori; e così di del meno, perchè, come si dichiarò di sopra,
mano in mano ora aggiugnendovisi alcuna cosa e meglio si dichiarerà di sotto, nessuno poeta
necessaria, ora levandosene alcuna soverchia, può prendere ad imitare in un'opera sola più
venne a tale corretta e aiutata prima da Eschi che una sola azione d'un uomo solo, e chiun
io, e poi da Sofocle, che come perfetta e aven que ha fatto per l'addietro altramente, o farà
te il pieno suo, si fermò. E queste cose ba per lo avvenire, se ad Aristotile e ai buoni
stino quanto al sapere perchè, come, da chi, poeti antichi si debbe fede prestare, ha er
dove e quando fosse trovata e compita la tra rato sempre e sempre errerà.
gedia; onde verremo a definirla. Grave, cioè alta, severa, grande e in som
ma di persone illustri e riguardevoli; e disse
CHE COSA TRAGEDIA SIA così, perchè mediante questa parola grave ov
vero prestante, volle distinguere e separare la
Questo nome Tragedia che i Greci dicono, tragedia, nella quale s' introducono re, duci
Texyw&ia, ha più e diverse etimologie ovvero e altri personaggi cotali, l'opere de'quali sono
derivazioni. Ma perchè quando le cose s'in gravi, alte, degne e di grandissimo momento,
tendono, i nomi poco o nulla importano, di dalla commedia, nella quale s'inducono a fa
remo, che la tragedia o sia detta da quel becco, vellare persone private e basse, le azioni delle
che si dava in guiderdone da prima a colui quali sono leggiere, ordinarie e di non molta
che cantando vinceva, come pare, che testi importanza.
monii Orazio, quando nella Poetica dice: Eperfetta. Disse così, perchè, come si dichiarò
Carmine qui tragico vilem certavit ob hircum; di sopra, la tragedia cominciò improvvisamente
ed ebbe principio da bassi inizi, e di mano
º o sia chiamata così dal vino che si dava per
giunta ai cantori d'essa; o sia nominata dalla
in mano s'andò alzando, tanto che facendosi a
poco a poco migliore e più intera, giunse fi
º feccia, colla quale gli istrioni, innanzi che nalmente alla sua perfezione; e perchè di
Tespide le maschere ritrovasse, si tignevano questa intende Aristotile, però disse perfetta.
il volto per non essere conosciuti, come pare Puossi ancora dire, che dicesse così per di
che testimonii il medesimo Orazio nella mede stinguere la tragedia ancora più dall'epopeia.
sima Poetica, dicendo: nella quale è bene un'azione sola principale;
Ignotum tragica genus invenisse Camoenae ma mediante gli episodi ve ne sono più, non però
Dicitur, et plaustris verisse poemata Thespis, principali, ma aggiunte; onde non si può dire, che
Quae canerent, agerentgue peruncti fecibus ora; l'epopeia abbia un'imitazione d'un'azione sola
così perfetta, come ha la tragedia.
o altronde che il nome suo traesse, a noi ba La quale abbia magnitudine. Aggiunse queste
sta sapere, che ella fu da Aristotile definita parole, perchè altro è essere perfetto e altro
in questa maniera: La tragedia è una imita avere magnitudine ovvero grandezza ; concios
zione d'alcuna azione grave e perfetta, la quale siachè una cosa, la quale abbia il principio,
abbia magnitudine, e sia fatta con sermone soa il mezzo e il fine, è perfetta ed intera, ancora
ve, operando ciascuna spezie nelle sue parti se che sia menomissima, come si vede eziandio
paratamente, e che non per modo di narrazione, nelle cose naturali tanto inanimate come in
ma mediante la misericordia e il terrore induca la un granello di panico o di miglio, quanto ani
purgazione di cotali passioni. Questa definizione mate, come in un moscherino ed altri cotali
quanto è vera e perfetta, come d'Aristotile, tanto animaluzzi. Bisogna dunque che la tragedia
è ancora, come d'Aristotile, scura e malagevole; abbia una grandezza ragionevole, cioè che
ma noi dichiarandola a parte a parte, c'inge non sia tanto nè picciola, ovver corta, nè
gneremo d' agevolarla: e perchè nella defi grande, ovvero lunga, che non possa dagli
nizione di qualunque cosa consiste tutta la spettatori o comprendersi colla mente, o rite
quiddità ed essenza, ovvero natura sua, anzi è i nersi nella memoria da chi la legge, per trar
il medesimo la definizione e il definito, per ne quel frutto che di sotto si dirà.
che tanto significa in sostanza animale razio E sia fatta con sermone soave. Queste parole di
284 - LEzioNE QUARTA
chiara Aristotile medesimo, dicendo che intende che sono alla misericordia e al terrore simi
per sermone soave quello, nel quale si ritrova glianti, cioè che così commuovano l'animo,
numero, armonia e melodia, significando per come quelle fanno; o piuttosto si dee inten
numero e armonia il verso, e per melodia il dere generalmente di tutte le passioni così
canto dei cori e la musica, benchè alcuni vo irascibili, come concupiscibili. Perche nel vero
gliono, che per numero si debba intendere nel sentire recitare le tragedie ed ancora nel
quel modo di saltare col quale gli antichi così leggerle, sebbene principalmente ci moviamo
Greci, come Latini, usando atti, gesti e cenni, a compassione udendo l'altrui sventure, e ci
rappresentavano le tragedie. Dicono ancora al spaventiamo veggendo gli atroci casi che in
cuni che di questo luogo si trae manifestissima quelle occorrono, perchè il propio della tra
mente che nelle tragedie si ricerca di neces gedia è indurre cose terribili e spaventose,
sità il verso, il che è verissimo, massimamente nondimeno ancora tutte l'altre passioni v'han
favellando il filosofo della tragedia propiissi no luogo, perchè le cose che più affliggono i
mamente; ma non è gia vero, secondo noi, mortali sono il perdere l'onore, la vita, i fi
che in tutte le maniere di poesia siano neces gliuoli, gli amici, gli stati ed altre così fatte
disavventure; e queste possono occorrere e si
sari i versi, se non in quel modo che di sotto
al suo proprio luogo dichiareremo. possono sostenere in più modi e per diverse
Operando ciascuna spezie nelle sue parti se vie e varie cagioni e persone, di maniera che
paratamente, Tutte queste parole non sono nessuna disgrazia rilevata può accadere alla
meno difficili nel greco, ancora che Aristotile vita umana, la quale nelle tragedie in qual
stesso le dichiari, che nel latino e nel tosca che modo non si ritrovi, onde s'appari o fug
no; e noi crediamo, che vogliano significare, gire i vizi o seguitare le virtù. E chi è que
come spongono ancora i più o dotti e giudi gli che veggendo alcun re, o altra segnalata
ziosi che trovandosi diverse maniere di poesie persona per troppa ira, o per troppa superbia
(conciossiachè alcune usino il numero, l' ar o avarizia, fare quello che non dovrebbe, e
monia e il sermone, come si dichiarò di so sentendonelo prima avvertire o biasimare, e
pra, insiememente e ad un tempo medesimo, poi considerando quello che di ciò gli avvie
come facevano i ditirambi, e alcune di per ne, e che il pentirsi da sezzo nulla gli vale,
sè, l'una dall'altra) Aristotile voglia mostrare non si spaventi in guisa, che prendendo in
in questo luogo che nelle tragedie s” usi il orrore cotali vizi, non si temperi in parte, o
numero, l'armonia o la melodia, cioè il verso s'astenga del tutto da loro? Similmente chi
e la musica, ma non già insiememente e a è colui, che a misericordia non si muova, e
un tempo medesimo; ma separatamente, cioè conseguentemente non impari ad avere corn
in diverse parti, servendosi ora del verso, e passione agli aſſlitti e divenire pietoso, scac
quando del canto, come dichiarammo di so ciata da sè ogni crudeltà, quando o vede, o
pra. Nè sia alcuno che si meravigli, se repli legge alcun caso di misericordia e di compas
chiamo più volte le cose medesime, o diciamo sione degno? Oltra che considerando l'altrui
quelle stesse che hanno dette degli altri, per disgrazie, tollera più agevolmente le sue, e
chè trattando le medesime cose, e non essen massimamente veduto che caggiano maggiori
do la verità più d'una, è necessario che fac e in maggiori persone che le sue, e ch'egli
ciamo l'uno e l'altro. non è; per non dire, che teme ancora per
E che non per modo di narrazione. Tutti i cotali esempi, e si guarda dal commettere o
poeti o favellano essi, o introducono altri errori o scelleratezze, se non per altro per
che favelli; e questa è una delle tre diffe timore della pena o paura della vendetta, se
renze de' poeti, come di sopra si dichiarò. non degli uomini, di Dio. E questo basti
Ora certa cosa è, che nelle tragedie, come quanto alla definizione della tragedia: però
ancora nelle commedie, mai non favella il verremo alla divisione.
poeta, nè solo, nè con altri, come fa nell' e
DELLA DIVISIONE DELLA TRAGEDIA
popeia; e perciò disse il Filosofo non per mo
do di narrazione, cioè non narrando il poeta,
ma recitando gli istrioni. Definita la tragedia e dichiarata la sua de
Ma mediante la misericordia e il terrore in finizione, resta che la dividiamo nelle sue
duca la purgazione di cotali passioni. In que parti; e perchè le parti sono di due maniere
ste ultime parole pone il Filosofo'il principale qualitative, per dir così, e quantitative,
dire

intento ed ultimo fine della tragedia, il quale no prima delle qualitative, le quali sono
non è altro che indurre gli uomini mediante quelle che fanno la tragedia quale è, cioè che le
le virtù alla perfezione e beatitudine loro. Ma danno la forma e l'essere; onde si chiamano dai
perchè questo è il fine generalmente di tutte filosofi parti essenziali. Dico dunque, che consi
l'arti e scienze, non che di tutte le poesie, derando Aristotile la tragedia, non come si com
egli per distinguere la tragedia da tutte l'al pone dal poeta, ma come si recita dagli istrio
tre, disse che il suo fine era per mezzo della ni, la divise in sei parti, chiamate da lui ap
misericordia e del terrore indurre la purga parato, melodia, dizione, sentenza, costumi e fa
zione, cioe purgare gli animi, e in somma li vola. E la cagione è, perchè dovendosi la tra
berarli di cotali passioni; intendendo per cotali gedia recitare, bisogna di necessità la scena,
passioni non la misericordia ed il terrore, co gli istrioni e tutte l'altre cose, che a reci
me par che vogliano alcuni, ma tutte quelle tare una tragedia fanno di mestiero, le quali
DELLA POESIA 285

si comprendono tutte sotto il nome di ap be, cioè fatto quello che è proprio ufizio della
parato. Bisogna secondariamente la musica, tragedia; e brevemente si potrebbe, per av
la quale fu da lui chiamata melodia, perchè ventura chiamare poeta, ma non già tragico o
era di voci umane e per conseguente dolcis buono poeta; dove uno il quale trovasse e
sima. Dopo questa è necessario, che gli istrio disponesse bene la favola, dato che l'altre
ni, dovendo recitare, favellino o in prosa o in parti non così perfette fossero, aria nondime
versi, e questo si chiama dizione, benchè nella no l' intento suo conseguito, cioè fatto una
tragedia si ristrigne, come si disse di sopra, tragedia. E il medesimo si deve intendere del
al verso solo. E perchè niuno può favellare, l'epopeia, cioè ne poeti eroici; e queste cose
che non sappia prima, e non abbia nella mente si notino bene, e si mandino alla memoria,
quello che egli vuol dire, fu necessaria la perchè sono di grandissimo momento e ci ser
quarta parte chiamata sentenza. E perchè tutte viranno a molte cose. Resterebbe ora che io
le cose che si dicono sono o buone, o ree, e dividessi la favola, e dichiarassi quale è sem
procedono o da virtù o da vizi, si pone la plice o doppia, che cosa sia peripezia e agni
quinta parte chiamata i costumi, E perchè zione e infinite altre cose; ma l'intendimento
tutte queste cose non servono ad altro che ad nostro non e trattare dell' artifizio della tra
imitare e sprimere alcuna azione d' alcuno gedia, si perchè favelliamo della poetica ge
grande uomo, fu necessaria la sesta ed ultima neralmente, e si perchè molto più tempo bi
parte, cioè la favola. Delle quali tutte favel sognerebbe di quello che n'è conceduto, con
la remo a una a una, rivolto l' ordine, cioè ciossiacosachè quasi nella tragedia sola consumi
cominciando dalle più perfette di mano in Aristotile, del quale niuno scrisse mai più bre
mano in questa maniera : vemente, poco meno che tutto quello che si
I. Favola, - trova scritto da lui della poetica, per non dir
II. Costumi, nulla, che avendo di queste cose scritto altrove
III. Sentenza, particolarmente, non ci pare necessario repli
IV. Dizione, carle.
V. Melodia e DEI COSTUMI
VI. Apparato.
Dopo la favola, base e fondamento, anzi
DELLA FAVOLA
forma e anima, come s'è detto, della trage
dia seguono i costumi; e questi sono quelli
La prima e principale parte, anzi, per dire che fanno l'orazione morata, ovvero costuma
come Aristotile, la forma cioè l'anima della ta, cioè, che dimostrano quali siano coloro che
tragedia, è la favola, la quale non è altro che favellano buoni o rei, avari o liberali, se ama
quello che volgarmente si chiama l'invenzione, no o odiano, quello di che si dilettino, quello
cioè l' ordine e la composizione delle cose, che fuggano, e infinite altre circostanze, le
delle quali principalmente si scrive, come nel quali sono d'importanza incredibile; perchè
l'Iliade d'Omero l'ira d'Achille, e nell'Odis altramente si dee descrivere un giovane o sol
sea la ritornata d'Ulisse a Itaca sua patria; dato, altramente un vecchio o mercatante ;
in Virgilio la navigazione d'Enca da Troja in altri pensieri, altre parole, altri costumi e fi
Italia ; in Dante il viaggio suo dall'Inferno al nalmente altri fatti hanno gli uomini innamo
Paradiso. Nè si meravigli alcuno, che io trat rati che quelli che innamorati non sono ; e
tando della tragedia ponga gli esempi dell'e- questi sono diversi, secondo la diversità degli
popeia, perchè ciò è da noi studiosamente amori. Questa parte ben intesa e ben trattata
fatto, si perchè cotali esempi sono più chiari dai poeti, come in Omero, in Virgilio, in Dante
e noti a ciascheduno, e si massimamente per e nel Petrarca si vede, li fa non solo lodati,
mostrare, che tutto quello che di queste pri ma ancora maravigliosi ; perchè mediante lei
me quattro parti della tragedia si dice, si dice ora fanno piangere, ora inducono riso, talvolta
ancora e si debbe intendere dell'epopeia. Ed riempiono di speranza, e altre ſiate di timore;
e tanto vero che la favola, cioe l'azione che
e sempre nondimeno insegnano o quello che
si piglia ad imitare e in somma la principale fuggire, o quello che seguire in questa vita si
materia di cui si scrive, sia la più degna e debba. Nè si può immaginare quanto sia grande
la più nobile parte che da questa, se non il diletto, che di leggere le orazioni morate
sola, certo più che da tutte l'altre insieme traggono gli uomini giudiziosi; e se il tempo
s' ha a conoscere prima, se alcuno è poeta o e l'ufizio nostro concedessero che io allegassi
no, poi se è buono poeta o cattivo. E chi vuol e producessi nel mezzo gli esempi dei poeti,
giudicare fra due poeti qual sia migliore, non cosi greci e latini, come toscani, credere che
solo non ha miglior via di questa, ma non ha, ciascuno per sè stesso conoscesse quanto in
si può dire, altra che questa sola; perchè, co questa parte a tutti gli altri scrittori stiano
me testimonia Aristotile, se alcuno facesse una di sopra i poeti. E questo pare che volesse
tragedia, la quale avesse tutte l'altre parti significare Orazio in tutta quella parte, la
egregiamente composte e ordinate, e, come
quale comincia:
volgarmente si dice, con tutte l'appartenenze
e solennità, e mancasse poi nel contesto ed Aetatis cuiusque notandi sunt tibi mores (1).
argomento delle cose, cioè nella favola sola,
egli l'intendimento suo conseguito non areb (1) Hor. Epist. de Arte Poelica.
286 LEzioNE QUARTA
sputaremo al suo luogo, stiamo dalla parte
bis1,LA sentenza contraria, in quel modo e per quelle ragioni
che diremo allora.
Quello che Aristotile volesse intendere per
questa parola Staveia, che i Latini traducono DELLA MUSICA E DELL'APPARATo
sententia, è assai dubbio. ben chiaro che
ella propriamente presa, significa uno dei quat Di queste due ultime parti, perchè l'una
tro sentimenti interiori, cioè la cogitativa, chia appartiene ai musici propriamente e l'altra
mata toscanamente il discorso; perchè il te agli architettori, non è nè uſfizio nostro, nè
sto d'Aristotile è non solo difficile, ma scor intenzione favellarne; e in quella vece diremo
retto, nè si può senza pericolo affermare quello che di queste sei parti due appartengono a
che egli propiamente intendesse. Vogliono al quelle cose con le quali s' imita, e queste sono
cuni, che sotto questa parola sentenza si con la melodia e la dizione, e una a quelle in che
tenga quella terza cosa che debbono imitare modo s'imita, e questa è l'apparato; e l'altre
i poeti oltra le azioni ed i costumi, cioè gli tre, cioè la favola, i costumi e la sentenza a
affetti ovvero perturbazioni, cioè le passioni quelle che s'imitano; onde le parti principali
dell'animo, delle quali altramente non fa men vengono a essere quattro, perchè se la trage
zione Aristotile in questo luogo; la quale opi dia non si recitasse, non v'accadrebbe nè la
nione pare a noi che sia verissima. Ma cre musica, nè l'apparato. E infin qui basti delle
diamo bene, che principalmente voglia i con parti qualitative, ovvero essenziali; trapassiamo
cetti significare, e tanto più che quello che ora l'altre.
i Greci dicono evysia, cioè nozione, ovvero
concetto si scambia alcuna volta con la parola DELLE PARTI DELLA TRAGEDIA QUANTITATIVE
èiaveia. E chi non vede quanto alta cosa i
concetti sono, non solo necessarissimi al poeta, Come ogni genere si divide nelle sue spezie,
ma da dovere essere grandissimamente consi così ogni tutto si divide nelle sue parti; onde,
derati, perchè mediante loro non pure si di come la tragedia, considerata come genere, si
mostrano gli uomini o stolti, o saggi, ma an divide in quattro spezie, delle quali non avemo
cora quello che approvano o riprovano, e se a favellare al presente, così considerata come
sono contenti o discontenti, se placidi o adi un tutto, si divide nelle sue parti. Ma perchè
rati? E ciò secondo alcuni volle Orazio signi le parti sono di due maniere, quali e quante,
ficare in tutti quei versi, il primo de quali o volemo dire formali e materiali, avendo noi
Coinuncia :
infin qui delle formali, ovvero specifiche e in
somma essenziali, favellato, resta che delle ma
Intereritmultum Davus ne loquatur, an heros (1). teriali favelliamo, o veramente integrali, nelle
quali si divide la tragedia, come un tutto con
DELLA D1ZIONE
siderata. E queste sono, secondo Aristotile,
quattro principalmente:
Perchè i concetti sono comuni, come dice I.- Prologo,
il Filosofo nel libro dellaInterpetrazione, con II. Episodio,
ciossiachè così si rappresenta un cavallo, verbi III. Esodo e
grazia, per cavallo a Turchi e a Saracini, co IV. Corico.
me a Cristiani, e così pure un lione, lione e Delle quali a una a una brevissimamente fa
non asino a Latini e a' Toscani, come a Gre velleremo.
ci; quinci avviene, che molti si trovano, i
quali hanno ottimi concetti e sentenze bellis DEL PROLOGO

me, ma non sanno poi o sprimerle ornata


mente con la lingua, la quale è interprete Il Prologo, secondo che si piglia il Prologo
dell'animo, o scriverle leggiadramente con la nelle tragedie, è tutta quella parte, la quale
penna, la quale rappresenta le parole, e per è innanzi al Coro, cioè tutto quello che si re
le parole i concetti, e mediante i concetti le cita o si legge, innanzi che il Coro comincia
cose che son quelle che principalmente si con favellare, perchè i Cori ordinariamente prima
siderano. È dunque necessaria al poeta la di favellano e poi cantano. Dunque tutto quello
zione, sotto la quale si comprende tutto quello che si dice innanzi che favelli il Coro, si
che si favella, o si scrive in tutte le lingue o in chiama Prologo, il cui uſizio è dichiarare l'ar.
verso o in prosa. E ben vero, che molte pa. gomento della tragedia, se non apertamente e
role e molte locuzioni, ovvero modi di faveldel tutto, di maniera però che gli spettatori
lare, e molte figure si concedono a poeti e o i lettori, comincino ad intendere di quello
massimamente ai greci, che non si concede che trattare si debba.
rebbero a prosatori. E sebbene questa parte
è posta dopo la sentenza, tuttavia è gran dub DELL'EPIsoDio
bio quale nei poeti prevaglia e vada innanzi,
perchè molti credono che i concetti facciano L'Episodio è una parte tutta, ovvero intera
Più il poeta che le parole. E noi, come di della tragedia, la quale è fra i canti tutti, ov
vero interi dei Cori, chè così lo definisce Ari
(1) Ho . De Arte Poetica. stotile: cioè l' Episodio nelle tragedie si chiama
DELLA POESIA 287
ed è tutta quella parte, la quale è tra l'un | di gravità di parole, come che in ciò ancora
canto del Coro e l'altro, cioè tutto quello peccasse alcuna volta nel troppo, lo riprende
che si dice da che ha fornito di cantare il come rozzo nelle più cose e incomposto. Dopo
Coro, a che comincia un'altra volta a can Eschilo seguono prima Sofocle, e poi Euripide,
tare; onde chiaramente si vede, che in ogni benchè vivessero in un tempo medesimo. Fra
tragedia vengono ad essere di necessità più questi due non volle Quintiliano giudicare chi
episodi, cioè ingressi, ovvero entrate, perchè i migliore poeta fosse, dicendo, che la grandezza
Cori cantano più volte, e tutto quello che è di Sofocle è ancora da coloro biasimata, che
tra l' un Coro e l'altro, si chiama Episodio. lo prepongono, come più alto, a Euripide, il
quale è, come dice egli, più utile agli oratori.
DELL'Esodo Aristotile, che loda più volte ora l'uno e ora l'al
tro, e alcuna volta li riprende, dice nientedi
Esodo, cioè esito, ovvero uscita, è una parte meno che Euripide, sebbene in alcune cose si
tutta, ovvero intera, dopo la quale non si può dire che non le disponesse bene, è però
trova più che il Coro canti, cioè l'esito è quella più tragico di tutti gli altri. Cicerone loda
parte, la quale è dopo l'ultimo canto del Coro, molto Euripide, e in una lettera scritta da lui
insino alla fine della tragedia. a Tirone dice, che ogni suo verso gli pare una
sentenza. Virgilio volendo lodare Pollione, che
moena Coral Co
s'era dato a scrivere tragedie, disse nella Bu
colica:
Corico si chiama tutta quella parte della
tragedia, la quale appartiene al Coro, e que Sola Sophocleo tua carmina digna cothurno.
sta si divide in due parti; perchè la prima ve Dalle quali cose, si può vedere che amendue,
nuta, ovvero entrata del Coro, cioè quando benchè in diversa maniera di dire, meritarono
fornito il Prologo, comincia il Coro a favella pari lode e infinita.
re, si chiama Parodo, l'altra parte si chiama
Stasimo, cioè stabile, ovvero stato; e questa DEI TRAGICI LATINI

è un canto del Coro, nel quale non si usa di


mutar il piede, nè anapesto, nè trocheo, le In tutta la lingua latina non si trova alcuno
quali cose non si possono, nè si debbono di poeta tragico, eccetto Seneca (1), e anco egli da
chiarare al presente; e però passaremo a dire molti non è approvato molto. Noi confessiamo
d'un'altra parte della tragedia chiamata Crommo. che egli non fiori in quel tempo, che fioriva
la lingua latina, ma alquanto dopo; nientedi
DEL CROMMO meno ci pare, che non solo non debba essere
biasimato, come alcuni fanno, ma grandissima
Oltra le cinque parti di sopra raccontate, mente lodato. E poichè quelle tragedie scritte
se ne trova un'altra chiamata grecamente Crom anticamente dai Latini, innanzi che la lingua
mo, cioè lamentazione, ovvero compianto, la venisse al colmo, non si trovano e la Medea
qual parte non è generale, ma particolare, cioè d'Ovidio, tanto da Quintiliano lodata, andò a
non è comune a tutte le tragedie, ma ad al male, solo Scneca fa che i Latini non man
cune, secondo che o richiede la materia, o cano del più perfetto poema che sia, come di
piace al componitore della tragedia. E questo sotto diremo nel luogo suo.
Crommo, ovvero lamentazione, non è altro che
un pianto, ovvero cordoglio che fa il Coro in
sieme con gli altri istrioni, condolendosi d'al
cuno fiero caso o acerbo avvenimento, che sia LEZIONE QUINTA
nella tragedia accaduto; onde si vede, che il
Crommo è sempre nell'esodo, cioè nell'ultima DEL GIUDIZIO E DE' PoETI TRAGICI
parte della tragedia.
DE' TRAGICI GRECI
LEzIoNE DI BENEDETTo vARCHI, NELLA QUALE SI
Sebbene appresso i Greci e in quei primi rAGIoNA PRIMA DEL GIUDIzio, Poi De PoETI TRA
tempi e dopo di mano in mano furono molti, GICI, LETTA DA LUI PUBBLICAMENTE NELL'Acca
che al componimento delle tragedie si diedero, DEMIA FioRENTINA, LA seconda DoMENICA DI
e assai ne scrissero, nondimeno tre soli vera QUAREsIMA, L'ANNo MDLIII.
mente furono quelli, i quali tanto risplendet
tero, che abbagliarono e oscurarono tutti gli
altri. E di tutti e tre per buona sorte nostra Sebbene egli non è necessario, che dove
si ritrovano ancora oggi alcune tragedie, dico non si trova l'uno dei contrari, intendendo
alcune, perchè se volemo a quelle che scris di quei contrari, i quali hanno mezzo, si ri
sero, e per nostra rea sorte si perdettero, ri
(1) Le tragedie che portano il nome di Lucio Anneo Sene
sguardo avere, sono pochissime. Il primo di ca, nè ad un solo, nè ad autori di egual merito vengono dai
costoro quanto al tempo fu Eschilo, anzi a lui critici attribuite. Pare certo, che Seneca il filosofo abbia com
da Quintiliano il ritrovamento della tragedia posto la Medea, l' Ippolito e le Troadi: le altre si assegnanº
si attribuisce ; il quale lodandolo d'altezza e l al padre di lui Marco Anneo e ad altri scrittori. (M.)
288 LEZIONE QUINTA
trovi l'altro, perchè dove non è il bianco, non il premio di ciascun bene è, secondo loro,
è di necessità il nero, e quello che non è buono, quel piacere, quel diletto e quel contento, che
non è necessariamente cattivo: tuttavia chi di fare le cose buone si trae; la pena di cia
manca dell'uno contrario, si può dire che par scun male, quel dispiacere, quella noia e quel
tecipi in un certo modo e possegga dell'altro. tormento, che d'aver male e iniquamente ope
Onde, come il mancare di stoltizia è il primo rato si sente. Conciossiacosache possibile non
grado della sapienza, come Orazio disse, e l'u- è, che chi bene opera, non s'allegri, e chi
scir d'affanno è, come disse quell'altro nobi male, non s'attristi; e s'alcuno dicesse, che
lissimo poeta, gran parte di gioia, così il du si trovano certi o tanto perversi, o tanto osti
bitare è non solo gran parte di prudenza, ma nati, che si compiacciono eziandio e si con
ancora il primo grado, che conduca al sapere; tentano nel male, e non possono, nè vogliono,
perchè, non ostante che il dubitare, conside non che dolersi, pentirsene, sappia ciò essere
rato propriamente, sia, presupponendo egli igno naturalmente impossibile. Possono bene costoro
ranza, cattivo o almeno non buono, nondimeno infingersi e mostrare altramente di quello che
rispettivamente considerato, cioè come egli è è; ma che il giudizio di loro medesimi, e quello
via e principio e quasi scala all'apparare e che dai teologi il rimorso della coscienza si
all'intendere, è buono e lodevole: onde du chiama, non li punga e tormenti, fare non pos
bitare di ciascuna cosa è, diceva il Filosofo, sono ; e in somma è possibile, che ingannino
profittevole. gli altri, ma loro stessi no. E quando pure si
La qual cosa dire ho voluto, per commen trovasse alcuno o per natura, o per costume,
dare coloro, i quali prudentemente hanno e in disposizione tanto innaturale e tanto infe
dottamente sopra quello dubitato, che da noi lice, a costui non si potrebbe nè maggiore
fu la Domenica passata nel proemio detto della pena, nè più convenevole, che quella trovare
nostra Lezione; e cioè che, se vero fosse, che della perversità e ostinazione sua medesima;
tutte le cose, le quali in tutto l'universo si come ne dimostrò altamente il poeta fiorentino
trovano, fossero necessarie o utili o all'unità nel quattordicesimo Canto dell'Inferno, quando,
o all'ornamento, o alla perfezione dell'univer avendo Capaneo quelle empie e orribili parole
so, come dicemmo noi, ne seguirebbe, oltra detto, che Giove, ancorachè lo saettasse di
molte altre cose, il maggiore assurdo e incon tutta sua forza, non potrebbe averne vendetta
venevole che essere possa. E questo è, che allegra, soggiunse così :
quella virtù, la quale tutte l'altre contiene, e
Allora il duca mio parlò di forza -

senza la quale non può reggersi l'universo, Tanto, ch'io non l'avea sì forte udito:
cioè la giustizia si leverebbe. E perchè la giu
stizia consiste non meno nel premiare i buoni, o Capaneo in ciò che non s'anmorza
che nel punire i rei, si torrebbono via in un La tua superbia, sei tu più punitos
Nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
tempo medesimo due cose, le quali sole non Sarebbe al tuo furor dolor compito.
pure sostengono, ma fanno ancora bello l'u-
niverso, il premio e la pena: perchè come gli Potrebbesi ancora in un altro modo rispon
uomini non si deono punire, se non delle cose dere, dicendo che non solo non seguita da cotale
non solamente mal fatte, ma fatte male stu opinione, che i rei non debbano gastigarsi, e
diosamente e a bella posta, come si dice, così i virtuosi essere premiati, ma tutto il contra
a premiare non s'hanno se non delle buone rio; perchè chi si debbe più agramente gº
operazioni fatte da loro volentieri e di loro stigare e punire, che colui il quale da Dio fu
spontanea volontà. Ora da cotale opinione se e dalla Natura fatto e prodotto, solo perchè
guita, chi ben considera, prima che niuna cosa mediante le sue iniquita e scelleratezze gasti
sia cattiva in luogo nessuno, poichè nessuna gato e punito fosse ? E chi merita dall'altro
se ne faccia da niuno spontaneamente, ma tutte canto d'essere maggiormente riconosciuto e
di necessità. E cosi niuna scelleraggine, per
guiderdonato di colui, che dalla Natura e da
lasciar da parte il premio, la quale o si dica, Dio fu solo prodotto e fatto, perchè egli, me
o si faccia, deve essere, non che gastigata, ri diante le sue buone opere e virtù, riconosciutº
presa, anzi in un certo modo meritarebbe lode e guiderdonato fosse? Che anzi anche quelle
e onore, della quale non si può nè immagi menti beatissime, le quali i cieli intendendo,
nare ancora cosa alcuna, nè più iniqua, nè muovono e s'allegrano ancora esse quando o
più dannosa. -
si rimunerano i buoni giustamente, o giusta
Questa dubitazione, anzi opposizione, ha mente si puniscono i rei. E perciò disse Dante,
nella prima vista, come exiandio molte altre il quale disse ogni cosa:
non poco del verisimile, ed è tale, ch'uom più E cortesia fu lui l'esser villano (i);
saggio di me ingannato avrebbe. Ma, o san
tissima filosofia, altissimo e preziosissimo dono e in un altro luogo più chiaramente :
di Dio, quanto dei tu essere amata, onorata e
ammirata da tutti gli uomini ! Per rispondere Qui regna la pietà quando è ben morta.
dunque a così fatta obbiezione, bisogna sape Chi è più scellerato di colui,
re, che secondo i filosofi, come mai non si ſa Ch'al giudizio divin passion comporta (2)?
bene alcuno, il quale non sia subitamente ri
munerato, così nessuno male si commette mai, (1) Inferno, Canto XXXIII.
il quale di subito punito non sia ; perciocche (2) inferno, Canto XX.
DELLA PoEsIA o8o
Ma che bisogna per provare, che le cose o vellare del giudizio, come è altissima e mala
iniquamente, o scelleratamente fatte punire si gevolissima materia, cosi è ancora bellissima e
debbano, allegare gli autori cristiani, quando maravigliosamente utile, perchè la mente no
i gentili ancora nelle cose o scelleratamente, stra, cioè l'intelletto umano è tanto libero e
o iniquamente dette che ciò fare si debba, di sè medesimo signore, e tanto sicuro da ogni
comandano? E Omero, nel cui poema tutti violenza, che generalmente si crede da ognuno,
gli esempi e ammaestramenti si trovano, i quali che egli non possa da cosa nessuna essere co
possano o accendere gli animi alle virtù, o ri stretto, nè necessitato; onde nacque quel dotto
muoverli da vizi, introduce a questo effetto e leggiadrissimo sonetto del nostro fiorentino
nel secondo libro dell'Iliade uno chiamato poeta:
da lui Tersite, il quale, siccome era bruttis
simo e contraffatto di corpo, così aveva pes Orso, al vostro destrier si può ben porre
simo animo e niquitoso a meraviglia; perchè, Un fren, che da suo corso indietro il volga,
non sapendo egli fare altro, nè volendo, at Ma 'l cor chi legherà, che non si sciolga
Se brama onore, e'l suo contrario abborre (1)?
tendeva solo, non per altro fine che per dir
male, a mordere tutti gli altri, e tutto quello E per questa medesima cagione fu altrove dal
che da tutti loro o giusto, o ingiusto si faceva medesimo poeta non meno dottamente, che
riprendere; e lo fa massimamente d'Achille e leggiadramente detto:
di tutti gli altri più valorosi nemico e maldi
cente. Laonde avendo egli una volta con vil Chi pon freno agli amanti e dà lor legge?
Nessuno all'alma; al corpo, ira ed asprezza:
lane parole e dispettose ripigliato Agamennone, Questo ora in lei, talor si prova in noi (2).
induce Ulisse, il quale era prudentissimo e co
raggioso, non solo a minacciarlo e vietargli, E nondimeno non è ciò del tutto vero, perchè
che mai più in cotal maniera favellare non il giudizio solo, solo il giudizio fra tutte le
dovesse, ma a batterlo ancora sconciamente cose fa forza, favellando sempre secondo i filo
con lo scettro e romperlo tutto. La qual cosa sofi, alla mente, e violenta, per dir così, l'in
dall'esercito intesa, e veduto lui come vile e telletto. Conciossiachè quando il giudizio giu
da poco, non fare altro che piangere e vana dica alcuna cosa esser buona, l'intelletto non
mente rammaricarsi, finge che tutti ebbero ciò può, ancorachè fosse cattiva, non desiderar
tanto caro, e cosi fattamente se ne rallegraro la e seguirla come buona; e per lo contrario,
no, che saziare non potendosi, benedivano le quando il giudizio giudica alcuna cosa esser
mani ad Ulisse, più di questa opera sola, che rea, l'intelletto è forzato mal grado suo, an
di tutte l'altre insiememente, le quali erano corachè fosse buona, odiarla e fuggirla come
grandissime, ringraziandolo. cattiva. Il perchè dovendo noi favellare del
Ma quando queste cose così non fossero, giudizio (e voglia Dio che giudiziosamente!)
come sono, ci dovemo ricordare, che io dissi, mostreremo prima, ciò non essere stato da noi
che cotale opinione, non solo non era cristiana, fatto senza cagione, anzi senza necessità, per
e conseguentemente esser falsa, ma ripugnava chè avendo noi nelle passate Lezioni detto li.
eziandio così agli Aristotelici, come a Plato beramente il parer nostro, e avendo animo di
nici, i quali tengono, che tutti i mali, che da dover fare il medesimo nelle Lezioni future,
tutti gli uomini si fanno, si facciano solamente (benchè per la cagione che di sotto si dirà,
per ignoranza, e per conseguente procedano ci siamo in parte mutati) di tutte le poesie e
tutti da imperfezione e mancamento di giudi di tutti i poeti, di cui ragionare ci occorresse;
zio, del quale giudizio, avendo noi di dovervi e volendo oltra questo insegnare agli altri, per
favellare promesso, tempo è che la promessione quanto sapessimo noi, in che modo e da chi
nostra attendiamo, in questa maniera comin si dovessero così le poesie, come i poeti giu
ciando. dicare, giudicammo esser necessario trattare
Mai non si trovò in tutto l'universo, nè mai alcuna cosa del giudizio. Onde per procedere
in tutto l'universo si troverà, uno individuo, più ordinatamente, e più agevolmente, che po
cioè alcun uomo particolare, il quale non fosse temo, dichiareremo con quella brevità che sa
in alcuna cosa dissomigliante da tutti gli altri premo maggiore queste tre cose:
individui della sua spezie, così quanto all'ani I. Che cosa giudizio sia;
mo, sebbene tutte l'anime sono sorelle, come II. Di quante maniere giudizi si ritrovino;
quanto al corpo. La differenza e diversità dei III. Quante parti e quali siano quelle che
corpi ne dimostra la natura nella differenza e giudicano.
diversità dei volti; perciocchè mai non furono CHE COSA GIUDIZIO SIA
e mai non saranno due visi tanto l'uno al
l'altro somiglianti, che non siano in alcuna
cosa dissimili; il che più agevolmente negli
Come egli non è dubbio, che il giudizio si
fa da una virtù, ovvero facoltà e potenza del
uomini si conosce, sebbene in tutti gli altri l'anima umana, così attive cioè che fanno, co
animali avviene il medesimo. La diversità e
differenza degli animi, si conosce dalla diversità me passive cioè che ricevono, non è certo,
e differenza del giudizi, perciocchè mai non (1) Sonetto X. Parte IV ad Orso dell'Anguillara, che
furono e mai non saranno due uomini tanto erasi doluto col Petrarca di non potersi trovare ad una giostra.
somiglianti d'intelletto, che non fossero nel ( M.)
giudicare in alcuna cosa differenti. Laonde fa (2) Son. CLXVII. Parte I, 3 -

VARCHI V, I, -
29 o 1 EzioNE QUINTA
avendo l'anima nostra di due sorti potenze, conseguentemente meglio ne saprà giudicare;
sotto quale di queste due si debba il giudizio perchè, come s'è già detto più volte l'appren
riporre. Conciossiacosachè molti e grandi uo dere e il giudicare sono il medesimo, cioè, che
mini credano e affermino, che il giudicare sia tale giudica ciascuno, quale egli apprende. E
azione; la qual cosa, secondo i migliori filosofi, per questo disse il Filosofo, che i ciechi non
vera non è, perchè il giudicare non è altro potevano dei colori giudicare; e per la mede
in effetto, che conoscere o apprendere ; l'ap sina ragione di tutti gli altri sensi somiglian
prendere, o conoscere non è azione, secondo temente; onde chi arà il senso dell'udito, e,
i filosofi, ma passione, perchè chi conosce, non come noi diciamo, orecchio migliore, giudi
fa, ma riceve; onde ancora il viso, l'udito e cherà più perfettamente dei suoni. Ed a chi
tutte l' altre sentimenta non sono attive, ma dicesse: Dunque il giudizio giudicando nè più,
passive, perchè chi vede e ode, non fa, ma nè meno che il senso gli porga, mai non s'in
riceve; e ricevere non è altro, che patire. gannerà ; rispondiamo ciò essere verissimo, so
Bene è vero, che cotal patire si chiama im lo che vi siano quelle tre condizioni, che in
propiamente passione, perchè non è corrutti in ogni sensazione, come avemo più volte det
va, ma perfettiva; come dichiarammo altra to, necessariamente si ricercano, perchè altra
volta sopra quelle parole del Filosofo: Lo in mente molte volte s' inganna; come si vede
tendere è un certo patire. Diciamo dunque, in coloro, che guardano cogli occhiali gialli, o
che giudicare non è altro, che un certo pati con quei vetri triangolari, che fanno vedere le
re, cioè una passione perfettiva, la quale non meraviglie, e in coloro, i quali avendo la feb
è altro, che ricevere, e in somma comprendere bre, giudicano tutte le cose amare. Aver dun
e conoscere alcuna cosa; e il giudizio non è que buon giudizio, quanto alle cose sensibili,
altro, che comprensione d'alcuna cosa, se sen non è altro, che avere buone sentimenta; e
sibile del senso, se intelligibile, dell'intelletto, avere buone sentimenta procede, secondo i
come meglio s'intenderà di sotto. medici, da buona complessione, e secondo gli
astrologi, dalla costellazione del cielo. E per
DI QUANTE MANIERE GIUDIzs si TRoviNo chè molti credono, che molti degli animali
bruti avanzino, quanto alla perfezione dei sen
Come tutti gli animali bruti hanno dalla ma timenti, gli animali razionali, come i cani
tura per conservazione dell'esser loro alcune quanto all'odorato, e i lupi cervieri quanto
inclinazioni, e quasi avvedimenti, mediante i alla vista, seguirebbe di ciò, che avessero mi
quali quello che seguir debbono, come utile glior giudizio ; benchè il giudizio non è pro
e quello che fuggire come dannoso, conosco priamente, se non negli uomini, i quali non
no; così gli uomini hanno ancora essi alcune solo comprendono, ma ancora compongono, e
cognizioni per instinto di natura, onde presero dividono, cioè discorrono, il che non fanno
il nome loro chiamate da filosofi ora antici essi. Non voglio già, che alcuno creda, sebbene
pazioni, e ora naturali informazioni; quasi che io ho detto di sopra che il giudicare delle
dalla natura stessa ci vengano, e non per no cose sensibili s' appartiene ai sensi, che ciò si
stro studio s' acquistino. E questo è quello, debba intendere dei cinque sensi esteriori,
che i teologi chiamano con nome greco sinde perchè essi veramente non giudicano nè l'oc
resi, cioè conservazione; e per più chiaro e chio dei colori, nè il gusto dei sapori, e cosi
volgato nome coscienza, mediante la quale an degli altri; ma solo il senso comune giudica
cora senza altra dottrina o esercitazione co di tutti i sensibili, secondo però che dai sen
nosciamo, se non quello, che è bene o male, timenti esteriori porti, e somministrati gli so
almeno che il bene seguir si dee e il male no; onde vale quell'argomento : ll tale ha
fuggire. E questo chiamano alcuni giudizio, ov buono odorato, dunque giudica bene, e s'in
vero giudicatorio naturale, del quale non in tende degli odori. E questo basti quanto al
tendiamo di favellare al presente; e però tra giudizio delle cose sensibili. Quanto a quelle
passeremo all'ultima parte. delle cose intelligibili, dovemo sapere, che
Aristotile nel terzo capitolo del primo libro
QUANTE PARTI E QUALI siENo QUELLE dell' Etica, dice che ciascuno giudica bene
CHE GIUDICANO,
quelle cose che egli conosce, e colui che
le conosce tutte, giudica bene di tutte; la
Tutte le cose che sono, sono o sensibili, qual cosa non vuole altro significare, che
cioè che si comprendono dai sensi, o intelli quello che avemo detto di sopra, e di più
gibili, cioè che si comprendono dall'intellet che, quanto all' arti e alle discipline, cia
to; del che seguita, che il giudicare quelle scuno giudica bene quella, che egli bene me
cose, che dai sensi si comprendono, sia uſizio diante la dottrina o esercizio o esperienza
e operazione del senso; e giudicare quelle, conosce; e chi tutte bene le conoscesse, bene
che dall'intelletto s'apprendono, sia opera di tutte giudicherebbe: onde, come nelle in
zione e ufizio dell'intelletto; onde seguita, fermità si debbe ai medici ricorrere e a loro
che due sono le parti, ovvero potenze e vir credere, cosi in tutte l'altre arti ai loro arti
tù, che giudicano: il senso e l' intelletto; sti, e il medesimo diciamo delle scienze.
onde non essendo il giudicare altro che ap Ma perchè queste cose potrebbono per av
prendere, chiunque arà miglior occhio, meglio ventura parere troppo generali, discenderemo
apprenderà l'obbietto visibile cioè i colori, e alquanto più al particolare, dicendo, che anco
- -
DELLA POESIA 29

in queste servono i sensi, sì gli esteriori, e si dell'anima nostra e tutti gli strumenti di tutte
massimamente gli interiori, come la fantasia e l'arti, e finalmente tutte le cose siano per lo
la cogitativa, perchè, come di sopra si disse, più limitate e a un ufizio solamente, e ope
l'intelletto umano non può intendere cosa nes razione determinate ad alcuno luogo e tem
suna, che dalla fantasia non gli venga; e la po, solo il giudizio senza l'imitazione o di
fantasia non ha cosa alcuna, che da'sensi este stinzione alcuna in tutti i luoghi, in tutti i
riori somministrata non gli sia; onde il giu tempi e brevemente in tutte le cose e a tutte
dizio, quanto alle cose intellettuali appartie le persone non solo è utile, ma eziandio ne
ne, non è altro che il consenso, che egli fa cessario; onde, come volgarmente si dice, che
prima delle due premesse, poi della conchiu il sale è di tutte le vivande il condimento,
sione del sillogismo pratico; benchè chi con così potemo dire, che il giudizio è quello, che
cede le premesse, cioè la maggiore proposi tanto le parole quanto le cose condisce tutte
zione e la minore, concede ancora ordinaria e fa saporite. Onde si veggono molti, i quali,
mente la conchiusione. E in questo modo per tutto che letterati siano, perchè mancano di
avventura si potrebbe concedere, che il giu giudizio, sono ogn'altra cosa, che letterati te
dicare fosse, come dice non solo Alberto Ma nuti, o almeno ogn'altra cosa fanno, che quel
gno, ma Averrois, potenza attiva. E perchè me le, che i letterati fare dovrebbono. E per
glio intendiamo, diremo, che la volontà nostra chè Quintiliano dice, che il giudizio non può
non segue, ne fugge cosa alcuna, la quale il appararsi, se non come il gusto e l'odorato,
giudizio non abbia giudicata essere buona, o significando, che il giudizio n' è dato dalla na
cattiva ; e il giudizio non giudica nessuna co tura, si debbe intendere del giudizio dei sen
sa che la ragione o il discorso non abbia di si, perchè quello dello intelletto non solo si
liberato; e il discorso ovvero la ragione non può insegnare, ma non può non essere inse
dilibera cosa alcuna senza conferire e discor gnato ; cioè qualunque volta s'insegna, esem
rere; e conferire e discorrere non si può cosa pigrazia, l'arte poetica, s' insegna ancora
alcuna, la quale non si consideri e si cavi parimente e di necessità il giudicare cosi dei
dalla memoria, ovvero fantasia; e nessuna cosa poeti, come de poemi. Ma quello che fa, che
è nella fantasia, ovvero memoria, che non sia molti, ancora che sia loro insegnato il giudi
stata conosciuta e intesa, mediante alcuno dei zio non l'apparano, è la imperfezione dei senti
sensi esteriori; onde si vede manifestamente menti interiori, e massimamente della cogita
non solo la perfezione, ma la difficoltà del tiva; e in somma vengono a mancare di quel
giudizio, e di qui viene: giudizio naturale, che di sopra si disse: onde
di cotali uomini si suol dire volgarmente per
Che i perfetti giudizi son sì rari,
proverbio, che hanno poco obbligo con la na
E d'altrui colpa altrui biasmo s'acquista (1). tura. E divero, come uno, che naturalmente
E per venire ancora un poco più al partico sia giudizioso, può ancora senza studio nes
lare, diremo, che come in tutte l' altre cose, suno e senza lettere avanzare in molte cose
così nella poetica niuno può giudicare per gli studiosi e i letterati; così questi, quantun
fettamente, il quale non intenda perfetta quedotti e esercitati, se mancano di quel giu
mente l'arte poetica; e questo non può fare dizio naturale, senza il quale non può stare,
niuno da sè (sebbene da natura sono alcuni o non è mai perfetto il giudizio accidentale e
più atti alle poesie, che alcuni altri, mediante acquistato mediante gli studi, non provano
quel giudizio chiamato di sopra da noi natu mai troppo, anzi bene spesso sono ridicoli e
rale) ma bisogna, che egli abbia o udito da uccellabili ancora agli uomini idioti. E chi sa
altri, o studiato da sè cotale arte. E perche quanto bella, quanto utile e quanto necessa
niuno non ne scrisse mai più dottamente di ria virtù sia quella, che dai Toscani uomini
Aristotile, dal quale cavò Orazio la sua, è ne fu discrezione chiamata, sa ancora quanto ne
cessario intendere quello che Aristotile ne cessario, utile e bello sia aver giudizio, perchè
scrisse. Non niego già, che non solo in quella queste due virtù sono più tosto differenti nel
d'Orazio, ma ancora in quella del Vida, e nome, che nella cosa, ancorachè la discrezione
similmente in quella del Daniello e del Muzio, pare, che più, in non so che modo, si maneggi
l'una in sermone sciolto e l'altra in versi senza intorno alle cose agibili e fattibili, cioè nella
rima toscanamente scritte, non possano moltissi prudenza e nell'arti, che nelle scienze e nel
me cose e bellissime appararsi. Bisogna oltra giudizio delle cose intelligibili, dove ha poco o
ciò avere non pur letti, ma considerati, se non nulla che fare. Ma che bisogna più dire del giu
tutti, gran parte dei poeti così greci e latini, co dizio? Non conosce ognuno per le cose dette,
me toscani, e quello che non poco gioverebbe, che chi ben giudica, bene elegge; e chi bene
essersi ancora esercitato in comporre in varie elegge non commette mai errori; onde per lo
lingue diversi componimenti, insino a tanto contrario chi mal giudica, male elegge ; e chi
che tutte le cose, o la maggior parte e più male elegge, male opera? E questo intendeva
necessaria in una lingua sola, se non perfetta Platone, quando diceva, che tutti gli ignoranti
mente, almeno abbastanza si ritrovassero. erano cattivi, cioè che tutti coloro che pecca
Dalle cose dette assai agevolmente può co vano, peccavano per ignoranza, cioè per non
noscersi, che, comecchè tutte l'altre potenze sapere eleggere, giudicando, che quello, che
cattivo è, sia buono, e allo 'ncontro quello che
(1) Petrarca, Sonctto LV, Parte 1. è buono sia cattivo, l'erche niuno può eleggere
293 LEZIONE QUINTA
il male come male, ma o come bene, o come Non mancano dall'altra parte molti, ai quali
minor male, che in tal caso ha e tiene luogo più Sofocle piace, che Euripide, allegando tra
di bene, non ostante, che il Petrarca segui l'altre quella sua tragedia chiamata Edipo Ti
tando Ovidio, dicesse: ranno, quasi, secondo alcuni, che sia padrona
e signora di tutte l'altre tragedie. E Virgilio
E veggio il meglio ed al peggior m'appiglio (1). volendo lodare Pollione, il quale s' era dato
Ma perchè di queste cose avemo trattato altra a comporre tragedie, disse nella Bucolica,
volta lungamente, e in questo luogo medesi quasi Sofocle fosse il primo e maggiore:
mo e nell'Accademia privata, porremo fine
a questa parte; e tornando alla materia nostra Sola Sophocleo tua carmina digna cothurno
lasciata, favellaremo dei poeti tragici così greci Noi non saremo tanto più tosto folli, che
e latini, come toscani. presuntuosi, che osiamo di traporre il giudi
zio nostro fra tanti e così grandi autori: solo
toEI POETI TRAGICI GRECI diremo, che l'uno e l'altro, per giudizio no
stro, merita, benchè in diversa maniera di di
Sebbene appresso i Greci e in quei primi re, infinita lode o più tosto meraviglia.
tempi, o negli altri, di mano in mano furono
molti, i quali allo scrivere tragedie, si diedero DEI TRAGICI LATINI
e assai ne composero, nondimeno tre soli tra
tutti gli altri, veramente soli, furono quelli, In tutta la lingua latina non si ritrova al
i quali tanto risplendettero, che abbagliarono, cuno poeta tragico, eccetto Seneca, e anco
e oscurarono tutti gli altri. E di tutti tre que egli da molti non è approvato molto. Noi con
sti, per la Dio grazia e nostra buona fortuna, fessiamo, che egli non fiori in quel tempo, che
si ritrovano ancora oggi alcune tragedie, dico fioriva la lingua latina, ma alquanto dopo, nien
alcune, perchè se volemo a quelle che scris tedimeno ci pare, che non solo non debba es
sero, e per nostra rea sorte si perdettero, sere biasimato, come alcuni fanno, ma gran
risguardo avere, sono pochissime. Il primo di dissimamente lodato. E poichè quelle trage
costoro quanto al tempo, fu Eschilo, anzi a die scritte anticamente dai Latini, innanzi che
lui da Quintiliano il ritrovamento della trage la lingua venisse al colmo, non si trovano,
dia s'attribuisce ; e lodandolo d'altezza e di e la Medea d'Ovidio tanto da Quintiliano lo
gravità di parole, come che ancora in ciò al data andò male, solo Seneca fa, che i Latini
cuna volta peccasse nel troppo, lo riprende non mancano del più perfetto poema che sia,
come rozzo e incomposto (2). Dopo Eschilo se come di sotto diremo nel luogo suo. Non fa
guono prima Sofocle e poi Euripide, benchè vello dei moderni, perchè sebbene so molti
vissero in un tempo medesimo. Tra questi due averne fatte non m'è toccato a vederle, salvo
non volle Quintiliano uomo giudiziosissimo giu però quelle due tradotte con tanta grazia ed
dicare chi di loro miglior poeta fosse; disse eloquenza, che aggiuntovi l'arte, e il giudizio
bene che la grandezza di Sofocle è ancora da dello autore stesso niuna lode può darsi loro
coloro biasimata, i quali, come più alto, ad da me, che non sia minore del merito.
Euripide lo prepongono, il quale Euripide è,
secondo lui, agli oratori molto più utile e da DEI TRAGICI TOSCANI

essere più imitato che Sofocle. Aristotile loda


più volte ora l'uno e ora l'altro, e tal fiata gli Era l'intendimento nostro quando da prin
riprende amendui; nientedimeno dice in un cipio questa materia cominciammo, di favel
luogo d'Euripide, che egli sebbene in alcune lare liberamente tutto quello, che di coloro
cose non dispose e ordinò bene, e però tra intendevamo o antichi o moderni, o Greci,
gicissimo, per esprimere la parola greca; la o Latini o Toscani, o vivi o morti, che si fos
quale, se s'intende propiamente, cioè più tra sero, de'quali favellare ci occorresse, non ostan
gico di tutti gli altri, non è dubbio, che si te che Quintiliano non avesse ciò fare volu
deve per lo giudizio del più giudizioso uomo to, tacendosi di coloro che vivevano, come an
che mai fosse, a Sofocle, non che agli altri cora fatto aveva pria di lui Cicerone. Ma poi
preporre. Ma se quella parola vuole, come che all' orecchie pervenuto m'è che molti
molti credono, significare più affettuoso, cioè, molto si dogliono, non solo per cagione di co
che movesse più gli affetti, e massimamente loro, i quali da noi totalmente approvati non
la misericordia e la passione, non seguirà, che sono, quanto ancora per conto di quelli che
egli dinanzi a Sofocle porre si debba sempli noi sommissimamente lodiamo, ho mutato in
cemente, ma solo in questa parte. Cicerone questa parte proponimento, e non favellerò da
medesimamente loda molto Euripide si altro qui innanzi, o poco, se non di coloro, i quali
ve, e sì in una lettera scritta da lui a Tiro non sono più, e anco nel favellare di questi
ne, dove dice, che ogni suo verso gli pare una andrò per avventura alquanto più rattenuto e
sentenza allegando tra l'altre questa: rispettoso, che fatto per avventura non arei.
Molto è nemico a debil corpo il freddo, Dico dunque dei toscani poeti quello che Ora
zio disse dei latini.
(1) Canzone XVII. St. VIII. Parte 1. Nil intentatum nostri liquere poetae.
(2 Egregiamente il Foscolo paragonò Eschilo a un bel
rovo inſotato sovra un monte deserto. (M.) Perché lasciando da parte l'eccellentissimo
DELLA POESIA 293
messer Sperone Speroni Padovano e il dot
tissimo messer Giovambattista Cinzio Ferrare
se, i quali, la Dio mercè, vivono ancora, il D I SC O R SO
primo che scrivesse tragedie in questa lingua
degne del nome loro, fu, per quanto so io, DELLA BELLEZZA E DELLA GRAZIA
messer Giovangiorgio Trissino da Vicenza, la
cui Sofonisba è da uomini dottissimi grandis -

simamente commendata e da molti ammirata;


e io per me quanto alla favola ed ancora in
TRATTATO DI M. BENEDETTo vARCHI, NEL QUALE
molte cose dell'arte, non saprei se non lo
darla, ma in molte altre parti, e spezialmente si disputa, se LA GRAZIA PUò stARE seNzA LA
d'intorno alla locuzione non saprei, volendola Bellezza, E QUAL PIù DI QUEsTE Due sia DA
DESIDERARE -
lodare, da qual parte incominciar mi dovessi.
Dopo il Trissino fece messer Giovanni Rucel
lai, uomo nobilissimo e di grandissima spetta
zione, la sua Rosmunda, la quale molti cele
brano infinitamente; ma noi non l'avendo di A MONSIGNOR LEONE ORSINO
fresco veduta, non potemo altro dirne, se non
che quando già la leggemmo, non ci parve, e vescovo di raegius (1).
massimamente quanto alle parole, degna di
tanto grido. In questo tempo medesimo o poco
dopo fece Alessandro de' Pazzi la sua Didone,
la quale non avendo potuto vedere, non sa Vetra Signoria mi domanda di due dubbi,
pemo che dirne, eccetto che quando nel tem primieramente se la grazia può stare senza la
po fu da lui fatta e a noi mostrata, oltra la
misura de versi di dodici sillabe, e ancora
bellezza: secondariamente, qual più di queste
due sia da desiderare, o la bellezza o la gra
di tredici che a pochissimi piaceva, vi notam
mo infino in quel tempo molti errori d'intor zia. Il primo dubbio è malagevolissimo; ed
no alla lingua. Crediamo bene, che avendo egli
io non oserei parlarne così all'improvviso, se
non mi ricordassi d'averne favellato altre volte
la Poetica d'Aristotile latinamente tradotta,
ne Problemi d'Amore e sopra la traduzione
ed essendo si può dire suo proprio far pro di quel nobilissimo Epigramma di Catullo che
fessione di poesia, e particolarmente della tra
Comincia :
gica, perche tradusse ancora latinamente l'E-
dipo Tiranno, crediamo dico, che quanto al Quintia formosa est multis, mihi candida, longa:
l'arte meriti commendazione.
Ilecta est
Dopo costoro scrisse Lodovico Martelli la
sua Tullia, nella quale secondo il giudizio no il quale tradusse ancora ed allegò a questo
stro passò tanto tutti gli altri, quanto alla proposito medesimo il dottissimo Pico, conte
leggiadria ed ornamento delle parole, che, della Mirandola, nel terzo libro del suo Com
se l'altre parti e massimamente la favola ri mento sopra la sesta stanza. Dico dunque più
spondessero a questa, io ardirei dire, che poca per desiderio, ch'io ho di piacere a V.S. che
invidia dovrebbe avere in questa parte la no
con credenza di soddisfarle, che lo scioglimen
stra lingua o alla latina, o alla greca; e non to di questo dubbio consiste nel sapere che
posso non maravigliarmi, che uno spirito tanto cosa sia bellezza, e che cosa sia grazia; e que
desto e uno ingegno tanto elevato, aggiuntovi sto non si può sapere con miglior modo o più
la cognizione delle lingue, la quale tutto che sicuro, e certo mezzo che mediante la deſini
fosse da lui dissimulata, vi si conoscea non zioni loro. Onde presupponendo, che V. S.
piccola, si lasciasse trasportare da non so che intenda della bellezza naturale corporale, (dico
a fare una tragedia di persona, sopra la quale naturale rispetto alla divina, e rispetto alla bel
non poteva per la scelleratezza sua cadere nè lezza che si vede ne corpi artificiali) la bel
compassione, nè misericordia, proprio e prin lezza non è altro che una certa grazia, la quale
cipal fine della tragedia. E per dire universal diletta l'animo di chiunque la vede e cono
mente tutto quello che di questa materia in sce, e dilettando lo muove a desiderare di go
tendo, mi pare quando leggo non che l'altre derla con unione, cioè, a dirlo in una parola,
tragedie nella lingua loro, ma l'Antigone di lo muove ad amarla. La grazia è una certa
Sofocle, tradotta da messer Luigi Alamanni in
toscano, o ancora l' Ecuba e l' Ifigenia d'Eu qualità, la quale appare e risplende nelle cose
ripide tradotte prima in latino, poi toscana graziose, ovvero graziate.
mente da messer Lodovico Dolce, che noi, se
non manchiamo della tragedia, non siamo però (1) Nell'edizione dei Giunti non si trova quest'indirizzo i
noi l'abbiamo tolta dalla Prefazione all'Ercolano di Monsi
º quella perfezione arrivati, che per avventura gnor Bottari, dove si leggono queste parole. « Questo tratta
si potrebbe, e senza dubbio si dovrebbe, » tello si trova manoscritto nel Codice 127 in 4." della Li
», breria Strozzi (in Firenze), ove si vede che fu fatto in ri
» sposta a Monsignor Leone Orsino, Vescovo di Fregius; ed
- - - - - - - - - - - - - - - s, è il medesimo, che da alcuno vien riportato nella vita del
(manca il fine) » Varchi come non mai stampato, o (Ml.)
294 DISCORSO
Da queste definizioni si cava, che dovunque drissimo allegato da me di sopra, il quale noi
è bellezza, quivi necessariamente è ancora gra traducemmo già e commentammo; il quale com
zia, ma non già per l'opposito dovunque è mento se avessi trovato, come non ho , forse
grazia, quivi è ancora bellezza necessariamente, avrei, se non meglio, certo più lungamente
siccome dovunque è uomo, quivi è ancora di soddisfatto alla dimanda e desiderio di V. S.
nccessità animale, ma non già all'incontro. E La traduzione di esso, perchè mi rimase nella
così pare a me che sia sciolto e dichiarato il memoria la vi manderò volentieri tale, quale
primo dubbio: perchè io direi che la grazia è, ancorachè discordi in non so che da quella
può essere e stare senza la bellezza, favellando del Pico, il quale ne lasciò due versi senza
di quella che si chiama così volgarmente nel tradurre perchè non gli facevano, penso, a bi
modo che si dichiarerà di sotto, sebbene la sogno; ed io non per contendere con ingegno
bellezza, intendendo ora della vera, non può sì grande, ma per imitare sì buon giudizio ed
stare, nè essere senza la grazia. E dalla solu apparare da si perfetto maestro ancora nelle
zione di questo primo dubbio si vede manife cose minime, li tradussi tutti di nuovo in que
stamente la soluzione del secondo. Chi non sta maniera:
vorrebbe più tosto la bellezza, nella quale ne
cessariamente si ritrova la grazia, che la gra Quinzia a molti par bella, a me par bianca,
zia sola, e di per sè? Dico bene, se fosse pos Grande, dritta, ben fatta, e finalmente
sibile ritrovarsi bellezza senza grazia, ch'io Parte per parte in lei nulla non manca;
per me vorrei più tosto esser graziato che Ma 'l tutto non è bello interamente,
bello; e così credo che vorrebbero tutti quelli Perch'ella d'ogni grazia è fatta manca,
che tengono la bellezza potere stare senza la Ne pur un gran di sal la fa piacente:
grazia. E questi per la maggior parte dicono, Lesbia è bella ch' è bella tutta, e sola
che la bellezza non è altro che la debita pro Tutte le grazie a tutte l'altre invola (1).
porzione e corrispondenza di tutte le membra
tra loro; e così vogliono che la bellezza con Vede V. S. come egli confessa che in lei
sista e risulti nella debita quantità e dalle è la qualità e il colore, dicendo bianca, e
convenevoli qualità delle parti, aggiuntovi la la quantità dicendo grande, e cosi tutte l'altre
dolcezza o soavità de'colori. E di questa sen parti a una a una spicciolate, come noi di
tenza par che sia Aristotile, il gran filosofo, e ciamo: nè però vuole, ch'ella sia bella, non
nel terzo della Topica e nella Rettorica ed an avendo grazia che alletti e tiri gli animi. Ma
cora nell'Etica ; dove egli non vuole, che una qui si potrebbe dubitare meritamente, onde
donna possa essere bella, la quale non sia grande; nasce questa qualità e grazia, della quale noi
la qual sentenza intesa così semplicemente è ragioniamo, la quale senza dubbio non risulta,
senza fallo alcuno contro la sperienza e con come credono molti, dalla misura e propor
tro al senso. Conciossiache, come dice il Pico, zione delle membra convenevolmente colorate.
si vedono tutto il giorno delle donne, le quali E che sia vero questo oltra le ragioni asse
e nella quantità e nella qualità sono benissimo gnate si può vedere manifestamente dalle bel
proporzionate, e tuttavia non sono belle; e lezze che si veggono ne' corpi artifiziati; per
se pure cotali s' hanno a chiamar belle, non ciocchè in essi non procedono dalla materia
sono graziate, e la grazia è quella che ci di propriamente e principalmente, ma dall'arte;
letta e muove sopra ogni cosa: onde molte volte che se ciò fosse, ne seguirebbe ch' ogni me
ci sentiamo rapire più da una donna la quale diocre maestro, avendo del medesimo marino,
sia graziata, ancora chè nella figura e ne co saprebbe contraffare una figura del Tribolo,
lori potesse essere assai meglio proporzionata, pigliando le medesime misure e proporzioni;
che da una la quale, avendo tutte le condi anzi tutte le figure, che fossero d'una mate
zioni sopraddette, manchi al tutto e sia pri ria medesima, e d' una medesima grandezza
vata di quella qualità, che noi grazia e i La appunto, sarebbero belle a un modo. Il che
tini ora venustà chiamano e talora Venere. se fosse V. S. arebbe potuto far fare il suo
Senza che se la bellezza consiste nella pro calamajo e la culla costi senza mandare fin qua
porzione e misura delle parti, come essi vo al Tasso (2). Dovemo dunque confessare che
gliono un medesimo viso, non ci parrebbe ora quella bellezza, che noi diciamo grazia non
bello ed un' altra volta altramente, essendovi nasce da corpi, nè dalla materia, la quale di
la medesima proporzione e colori; e per non sua natura è bruttissima, ma nasce dalla for
dir nulla che niuna cosa semplice e spirituale
non avendo corpo, nè parti, non sarebbe bella, (1) Ecco l'originale di Catullo:
come dicono i Platonici ; e così le scienze, le
virtù, i versi, le prose, l'anime, l'intelligen Quintia formosa est multis: mihi candida, longa,
ze e Dio stesso, non si potrebbero chiamar Recta est. Hoc ego: sic singuia colfieor.
belle, come noi facciamo tutto 'l giorno. Totum illud formosa, nego: nan nulla venustas,
IVulla in tam magno est corpore mica salis.
Ma per tornare al proposito, un corpo il Lesbia formosa est, quae cum pulcherrima tota est,
quale non abbia grazia, ancorachè sia grande, Tum omnibus una omnes surripuit Veneres.
ben disposto ed ottimamente colorato, non si
Carm. LXXXVI. (M.)
può, secondo me, chiamare bello veramente.
E questo, e quello che voleva dir Catullo, a (2) Celebre intagliatore e intarsiatore di que tempi, del
giudizio mio, in quello suo Epigramma leggia quale il Varchi fa uotto altrove. Vedi alla pag. 129. (M.)
DELLA BELLEZZA E DELLA GRAZIA 295
ma, che le dà tutte le perfezioni che in lei e questa, siccome non si può comprendere, se
si ritrovano; onde la bellezza in questi corpi non con la mente, con gli occhi e con gl' o
inferiori così naturali come artifiziali, non è recchi, così non si può godere se non col pen
altro che quella grazia e piacenza, per dir così, siero, col vedere, con l' udire, come testimo
la quale ha ciascuno di loro dalla sua propria nia tante volte in tutti i luoghi, tanto leggia
forma sostanziale o accidentale che sia, nelle dramente il nostro platonico messer France
cose naturali naturale, e nelle artifiziate ar sco, insieme con tutti gli altri Toscani antichi
tifiziata. E perchè la propria forma dell'uo e moderni, e più che qualunque altro, il dot
mo è l'anima, dall'anima viene all'uomo tutta tissimo e reverendissimo monsignor Pietro Bem
quella bellezza che noi chiamiamo grazia; la bo, così ne' suoi divini sonetti, come nelle sue
quale non è altro, secondo Platone, che un dolcissime e leggiadrissime prose. Onde quan
raggio e splendore del primo bene e somma do io dico, che la bellezza non può stare senza
bontà, la quale penetra e risplende per tutto grazia, intendo della bellezza spirituale e pla
il mondo in tutte le parti. Dalla quale opi tonica; ma quando dico che la grazia può
nione non è lontana quella sentenza divina di stare senza la bellezza, intendo della bellezza
Aristotile nel primo libro del Cielo, la quale corporale ed aristotelica, perchè altramente
tolse ed interpretò divinamente Dante nel tanto è grazia, quanto vera bellezza, e non si
principio del Paradiso, quando disse: può trovare l'una senza l'altra mai. E però
è meglio senza dubbio la grazia così intesa che
La gloria di Colui che tutto muove la bellezza falsa e corporale; e per meglio di
Per l'universo penetra, e risplende chiarare questa parte, dove consiste tutto il
In ogni parte più e meno altrove. dubbio, dico che la grazia è vera bellezza del
l'anima, sebbene può stare in un corpo, che
Ma perchè i misteri d'amore sono non me non sia così proporzionato, e, come volgar
no infiniti che divini, onde quanto più se ne mente si dice, bello, non può però stare in
ragiona, tanto più e tanto maggiori cose che uno sproporzionato e sozzo affatto; anzi bene
dire ne restano, noi per venire una volta a spesso si congiugne insieme la grazia dell' a
fine e non entrare in nuove diſficoltà, lascie nimo, che noi chiamiamo veramente bellezza,
remo di dichiarare, onde è che una donna e la proporzione e misura del corpo, ancorchè
medesima, sebbene è graziatissima, non pare il Petrarca dicesse per più innalzare la sua
a tutti così e non muove e diletta ciascuno Madonna Laura :
egualmente, anzi a un medesimo spesse volte
pare diversamente; e molte per lo rovescio, Due gran nimiche insieme erano aggiunte
sebbene non sono cosi graziate, allettano però Bellezza ed Onestà (1).
e rapiscono molti mirabilmente. Non voglio
già lasciare una contraddizione e falsità mani con quel che viene. E che volle significare il
festa, la quale appare nella soluzione del pri maestro di tutti i poeti latini nel nono libro
mo dubbio, e massimamente che in dichiaran della sua Eneide, quando d'Eurialo favellando
disse :
do quella si verrà ancora, s'io non m'inganno,
a dichiarare il sentimento delle parole d'Ari E la virtù, ch' in un bel corpo suole
stotile. La contraddizione è, che io ho detto Venir più grata?
che la bellezza non può essere senza la gra
zia, il che è verissimo; ma che la grazia può E se alcuno mi domandasse, perch'io nella
bene stare senza la bellezza, il che par falso definizione della Bellezza, non ho detto gra
ed impossibile, come vede ciascuno da sè, es zia semplicemente, ma una certa grazia, ri
sendo la bellezza una certa grazia la quale sponderei, per dichiarare meglio di quale gra
muove e diletta l'animo di chi l' intende ; zia intendea, cioè di quella che diletta e muove
onde dovunque è detta grazia, è bellezza an ad amare, conciossiacosachè noi chiamiamo gra
cora, e così per l' opposito. Dovemo dunque zia molte volte qualità che dilettano, ma non
sapere, che la bellezza si piglia in due modi, già muovono ad amare, come quando dicia
uno secondo Aristotile e gli altri, che vogliono mo: Il tale ha grazia nel leggere, ed il tale
ch'ella consista nella proporzione de'membri, nello scrivere: chi negherà che Ciano profu
e questa si chiama ed è bellezza corporale, la miere, così gobbo, non abbia grazia, e come
quale sola conosce e per conseguente ama il noi diciamo volgarmente, garbo in tutte le sue
volgo con gli uomini plebei: e come si conosce cose? Nè però muove, ch'io creda, sebben di
con tutti cinque i sensi, così ancora con tutti letta e piace.
cinque i sensi si gode; e quelli che principal Ma perchè l'ora è tarda, ed io mi sono di
mente amano questa bellezza, sono poco, o niente steso nello scrivere, non mi accorgendo, più
differenti dagli animali bruti. L'altra bellezza ch'io non pensava, mi serberò a dichiarare
consiste nelle virtù e costumi dell'anima, onde più a l'agio, onde viene, che procedendo la
nasce la grazia di che ragioniamo, e questa vera bellezza dalla forma e dall'anima, tutte
e e si chiama bellezza spiritale, la quale e le cose ch'hanno anima non sono, o più tosto
conosciuta e conseguentemente amata dagli non si chiamano belle, e similmente qual sia
uomini buoni e speculativi solamente ; e però la cagione che molti non conoscono il bello,
diceva Plotino, il gran Platonico, intendendo
di questa bellezza che niuno bello era cattivo; (1) Sonetto XIX. Parte I.
296 DISCORSO DELLA BELLEZZA E DELLA GRAZIA
e per conseguente non l'amano, non si po non si possano separare l'una dall'altra, onde
tendo amar quello che prima non si conosce. chi desidera l'una, desidera ancora l'altra pa
Ecco ch'io ho detto a V. S. in quel modo rimente. E queste cose pareva a me, ch'ella
che ho giudicato più agevole prima l'opinione volesse sapere principalmente, se ho ben com
falsa dei volgari, che la bellezza si possa ri preso il sentimento della sua lettera. E per
trovare senza la grazia, detto però in guisa, che non so se mi sono stato troppo lungo, o
che la si possa salvare da ogni menzogna e troppo breve farò scusa dell'uno e dell'altro,
falsità ; e poi la seconda vera, che la bellezza raccomandandomi a lei e a tutti gli altri in
e la grazia siano una cosa medesima, e mai sieme con Luca, e con messer Carlo.

FINE DELLE LEZIONI


L' ERCOLANO

e il comun bene. E siccome colui che meritò di


essere appellato nel tempo della maggior gran
LETTERA DEDICATORIA dezza di Roma, trionfatrice di tutte le nazioni,
DELL° EDIZIONE DI MONSIGNOR BOTTARI padre di essa, avendo i primi suoi anni consu
-
mati negli escreizj più quieti delle filosofiche di
scipline, dopo essere stanco da una lunga e fa
ticosa amministrazione della repubblica, ritornò
ALL” ILLUsTRIss. sig. MARCHEsE cAv. ad essi di buona voglia, e quasi a suo dolce
nido ricoverò di nuovo coll' ali aperte in seno
NERI CORSINI alla filosofia, così V. S. illustrissima dopo tante
gloriosissime e orrevolissime sue legazioni, dopo
CAPITANO DELLE GUARDIE A CAvALLo DELL'A. R. il maneggio d'ardui e rilevantissimi affari, ha
DEL SERENISS, GRAN DUCA DI ToscanA. rivoltati i suoi pensieri alla protezione e al
coltivamento delle nobili arti e delle buone let
tere, laonde per sua cura e industria in gran
parte si vede promossa una grand'opera che il
IV.l dare di nuovo alle stampe il presente lustrerà il secolo nostro, e più la nostra pa
tria; e si ammira il suo gabinetto ornato d'un
Dialogo, opera del famoso messer Benedetto Var
chi, e anche una delle più vaghe e di quelle tesoro pregiatissimo di tanti volumi di stampe,
e di disegni de' più gran valentuomini, e d'una
che più lustro apportano alla nostra favella, ho
determinato di consecrarlo al nome chiarissimo scelta rarissima di libri tutti ottimi, e singolari
d'ogni scienza e d'ogni maniera d' erudizione.
di V. S. illustrissima con questo principal fine,
di dimostrare in cospetto al mondo tutto l'onore A lei adunque per tutti questi capi io doveva
pregiabilissimo che io godo d'essere ascritto nel quest' Opera consacrare e quella diligenza che
numero de' suoi servidori, benchè quanto ricolmo intorno ad essa ho speso, acciocchè V. S. illu
di buona volontà, altrettanto inutile per poco strissima insieme colla persona mia la prenda
potere. Ma conoscendo questa mia insufficienza, sotto la sua efficace e valida protezione, dalla
sì per la grandezza di V. S. illustrissima, e si benigna aura della quale avvalorato, possa, senza
per la tenuità mia, ho pensato in quella ma timore de'fiati maligni, tentare, come ho procu
niera che per me si può, testificarle la devozio rato finora, d'apportare, se mi ſia possibile, al
ne del mio animo; il che non posso fare che con cun comodo alla pubblica utilità, e le fo umi
parole, ed opera d'inchiostro; nè sono, mi cre lissima reverenza.
do, da imputare d'un tributo sì scarso, poichè
Di V. S. illustrissima,
tutto quello che io posso, le dono liberamente.
Io poi ho anche reputata molto conveniente e Umiliss. e Obbligatiss. Servitore
proporzionata offerta per V. S. illustrissima que G. B. (1).
sto elegante lavoro d'un nostro cittadino, dove
delle lingue si ragiona distesamente, e si ancora (1) sotto queste iniziali si nasconde il celebre monsignore
della poetica e della più scelta e fiorita erudi Giovanni Bottari, cosi benemerito delle lettere nostre per le
zione toscana, poichè questi studi sono stati tante correttissime edizioni che procurò de'classici nostri ºrº
tori. (M.)
sempre le delizie sue più gradite ne' suoi primi
anni, e nell'ore dipoi in cui Ella ricreava l'a-
nimo da cure maggiori e da gravissimi e impor
tantissimi affari riguardanti le pubbliche utilità 38
VARCHI V. 1,
L' ERCOLANO
298
lingua, ma oltre a ciò, siccome cosa pubblicata
da noi, i quali niuna cosa abbiamo che dal
LF TT E RA D E DI CATO RI A DE G l UN TI | l'A. V. primieramente non sia, e che del tutto
da essa e dalla sua benignità non riconosciamo.
-

- - -
- - Degnisi pertanto ricevere (qualunque elle si sie
AL stressano -- - 5. no) quelle divotissime offerte che da noi venire
le possono delle fatiche nostre, certissima, come
PRINCIPE DI TOSCANA chè sia, che per niun altro maggior rispetto in
N o S TR 0 sl GN O R e
quelle impieghiamo tanto tempo, e tanto volen
tieri, che per poter servire allo splendore e co
modo della propria patria, e per far cosa grata
all' Altezza della Serenissima Casa vostra, la
Saiono gli ardenti desideri, serenissimo
quale nostro Signore Dio esalti al supremo colmo
Principe, se lungo tempo tollerati si sieno, non
altramente che la sete, ammorzarsi; ma nel pre d ogni felicità.
sente Dialogo delle lingue è avvenuto diritta Di Firenze il dì 3o agosto, 157o.
mente il contrario. Perciocchè, siccome niuna
cosa fu mai da questo secolo disiderata ed aspet Di Vostra Screnissima Altezza
tata con più avidità, ed a niuna altra pareva
che fosse più intento, mentre durò quell'ardore, Umilissimi, e devotissimi servitori
e quella contesa sopra la Canzone del Caro, fra Filippo Giunti e fratelli.
lui e 'l Castelvetro, la quale mosse il Varchi a
-- sca
comporlo, così ora, passato via quel fervore, e
tolta quella occasione quasi del tutto delle menti
degli uomini, dopo molti non pur mesi, ma anni, LETTERA DEDICAToRIA DEL vARCHI
niuna con più prontezza e con maggiore studio A
-
comunemente da tutti gli uomini è stata mai ri
pigliata, in guisa che si vede manifesto che que
sta voglia non era, come l'altre, per lunghezza ALL'ILLUsTRIssIMo
di tempo venuta meno, ma per alcuno spazio ED ECCELLENTISS. SIG. SUO E PADRONE ossERVANDIss,
quasi per istanchezza intermessa e come addor IL SIGNOR
mentata. Perciocchè non prima si divulgò, che
il vero e proprio originale di questo Dialogo DON FRANCESCO MEDICI
(il qual solo di alcune altre copie che più anni
avanti concedute n'aveva) fin dall' istesso Var (1) PRENciPE DELLA Gioventù FioRENTINA
chi, si può dire, negli ultimi giorni della sua E DI QUELLA ei sir NA
vita, quasi presago del suo fine, emendato, e in
UMILE E nevotissimo senvo
molti luoghi ricorretto, e poscia alla sua morte
con tutto l'animo raccomandato a molti amici
B E N E D E T TO VA R C HI
suoi che presenti vi si ritrovarono, e in ispezie
al Rev. P. Don Silvano Razzi, monaco Camal
dolense, lasciato anco da lui insieme col reve
rendissimo monsignor Lenzi, vescovo di Fermo, Tutte le cose che si fanno sotto la Lu
esecutore del suo testamento, era non senza molta na, si fanno, illustrissimo ed eccellentissimo
nostra diligenza, e con spesa e fatica nostra per Prencipe, o dalla natura, mediante (2) Dio,
venuto a noi nelle mani, che in un tempo da o dall'arte, mediante gli uomini. Delle cose
infiniti luoghi in moltissima copia e con gran che si fanno dalla natura, mediante Dio,
dissima istanza per ambasciate e per lettere ci
concorsero i chieditori. Il qual libro, essendo la più nobile e la più perfetta è, senza
oramai nella più bella forma che per noi è stato alcuna controversia, l'uomo, sì in quanto
possibile, pervenuto alla fine della sua impres alla materia sua, cioè il corpo, il quale,
sione, quello (siccome già ne fu alla A. V. dal
l'Autore stesso fatto particolar dono, così ora (1) Il Castelvetro nella correzione di alcune cose del Dia
logo delle lingue di Benedetto Varchi, stampata su Basilea
per opera di noi pubblico divenuto) a V. A. e
nel 1572, a car. 75, critica questo titolo usato già da la
per debito della servitù nostra e con tutta la tini, e tutta questa lettera, ma per lo più troppo sofistica
devozione del nostro animo, quasi riconsegniamo; mente.

poichè egli è suo, non pur come cosa del Var (2) Il Castelvetro nella stessa opera, a car 76, vor
rebbe che il Varchi avesse detto: da Dio, mediante la natu
chi sua creatura e vassallo, non solamente per ra, o dagli uomini, mediante l'arte. Questione di nome.
disposizione di colui che l' ha fatto, non tanto l Il Varchi per natura e arte, intese la prima idea delle
per la preminenza che ella ha sopra la parte cose o divina o umana, che lddio o gli uomini dippoi nellono
la t setuatone.
principale del soggetto, cioè sopra la Fiorentina
DIALOGO º 9

non ostante che sia generabile e corrotti lile essere, nè più perfetto, che, nell'in
lile, come quello degli altri animali, è non telletto umano, quando ella è intesa e ri
dimeno il più temperato e il meglio orga serbata da lui; e quanto è più nobile e più
mizzato, e insomma il più degno e il più perfetto l'intelletto che intende alcuna cosa,
maraviglioso, che ritrovare si possa; e sì tanto ha quella cosa, la quale è intesa, più
massimamente in quanto alla forma, cioè al perfetto e più nobile essere; senza che,
l'anima; conciossiacosachè l'intelletto umano l'essere sensibile, non potendo alcuna cosa
posto (come diceva quel grandissimo Arabo avere se non una forma sola, non può es
Averrois) nel confine del tempo e dell'e- sere se non un solo, dove gl'intelligibili
ternità, come è l'ultima e la men per possono esser tanti, quanti sono gl'intellet
fetta di tutte l'intelligenze divine e im ti, e conseguentemente quasi infiniti; per
mortali, così è la prima e la più nobile chè da quanti intelletti è intesa e riserbata
fra tutte le creature mortali e terrene, Delle alcuna cosa, tanti esseri intelligibili viene
cose che si fanno dall'arte, mediante gli ad avere, e per conseguenza a perpetuarsi
uomini, lo scrivere, non lo scrivere sem quasi infinitamente, e ciò in due modi, di
plicemente, ma lo scrivere copiosamente e tempo e di numero, potendo essere intesa
ornatamente, cioè con eloquenza, è la più da infiniti intelletti infinito tempo; cosa ver
disiderabile da tutti, e la più disiderata ramente divina e oltra tutte le meraviglie
dagl'ingegni nobili, non dico che sia, ma maravigliosa, posciachè quello che non po
che essere possa. La qual cosa, perchè non tette far natura per la imperfezione della
dubito che debba parere a molti come nuo materia, cioè perpetuare gl'individui in sè
va, così ancora strana, e forse non vera, stessi, fece doppiamente l'arte per la per
proveremo chiarissimamente in questa ma fezione dell'intelletto umano. A voler dun
niera. Tutte le cose, qualunque e dovun que che qualsisia cosa consegua la più no
que siano, per lo innato disiderio d'asso bile perfezione e la più perfetta nobiltà, e
migliarsi al facitore e mantenitore loro, insomma la maggior felicità e beatitudine
cioè a Dio ottimo e grandissimo, quanto che si possa, non dico avere in questo
sanno e possono il più, disiderano ciascuna mondo, ma disiderare, è (1) farla eterna; e
sopra ogni cosa l'essere: l'essere è di due a volerla eternare, bisogna farla intendere
maniere, sensibile ovvero materiale e in dagl'intelletti umani; e a farla intendere
telligibile ovvero immateriale; l'essere sen agl'intelletti umani, ci sono tre vie senza
sibile è quello che ciascuna cosa ha nella più, due imperfette, e ciò sono la pittura,
sua materia propria fuori dell'anima altrui, e la scultura, che fanno conoscere solamente
come (per cagion d'esempio) un cane o un i corpi e a tempo, e una perfetta, cioè l'e-
cavallo considerato in sè stesso come canc loquenza, la quale fa conoscere non sola
o come cavallo; l'essere intelligibile è quello mente i corpi, ma gli animi, non a tempo,
che ciascuna cosa ha fuori della sua pro ma perpetualmente. E questo è quello che
pria materia nell'anima altrui, come un volle dottissimamente, e non ineno con ve
cane o un cavallo considerato non in sè rità che con leggiadria, significare Messer
stesso, ma come egli è inteso dall'intelletto Francesco Petrarca (2), quando scrivendo
umano e in lui riserbato, il quale per que al signor Pandolfo Malatesta da Rimini,
sta cagione si chiama da filosoſi il luogo così famoso nelle lettere, come nell'armi,
disse: - -
delle spezie, ovvero delle forme, cioè dei
simulacri e delle sembianze, ovvero simili Credete voi, che Cesare, o Marcello, -

tudini delle cose intese, e per conseguenza O Paolo, od Affrican fusser cotali
ricevute da lui. Di questi duoi esseri, per Per incude giammai, nè per martello?
dir così, non il sensibile, il quale essendo Pandolfo mio, queste opere son.frali o -
A lungo andar, ma 'l nostro studio è quello
materiale, è necessario che quando che sia Che fa per fama gli uomini immortali,
si corrompa, ma l'intelligibile, il quale es
sendo senza materia, può durare sempre, Dunque, se l'essere è la prima e la più
è fuori d'ogni dubbio il più degno, e con degna, e la più non solo desiderevole, ma
seguentemente il più disiderabile; onde un desiderata cosa che sia, anzi, che esser
cane o un cavallo, e così tutte l'altre cose, possa, e l'essere intelligibile e più nobile
hanno più perfetto essere e più nobile nella (1) Qui manca senza dubbio la voce mestieri, o bisogno,
mente di chiunque l'intende, che elleno non o necessario. Oltre l'edizione del Comino, ne ho consulte
l'anno in sè stesse; anzi in tutto questo altre, e avendo in tutte trovata la stessa lezione, non in º
rischiai a introdurre al parola al testo. ( all.),
mondo inferiore nessuna cosa, essendo tutte
composte di materia, puo avere nè più no-, li (2) Peuata, Sonetto LANN111.
3oo L' ERCOLANO

e più perfetto senza comparazione dell'es ponimento del Dialogo fu, che avendo io
sere sensibile, e le belle e buone scritture risposto per le cagioni e ragioni lungamente
ne danno l'essere intelligibile, certa cosa è e veramente da me narrate, alla risposta
che lo scriver bene e pulitamente è la più di messer Lodovico Castelvetro da Modona
nobile e la più perfetta cosa, e insomma fatta contra l'Apologia di messer Annibale
la più disiderevole non solo che facciano, Caro da Civitanuova (1), e mostratala ad al
ma eziandio che possano fare gli uomini cuni carissimi amici, e onorandissimi mag
per acquistare eterna fama e perpetua glo giori miei, eglino, i quali comandare mi
ria o a sè medesimi, o ad altri, e conse poteano, mi " strettissimamente che
guentemente o per vivere essi, o per far io dovessi, innanzi che io mandassi fuori
vivere altrui infinite vite, infinito tempo. cotal risposta, fare alcuno trattato general
E di qui si dee credere che nascesse, che mente sopra le lingue, e in particolare so
gli antichi, così poeti, come prosatori, erano pra la toscana e la fiorentina; e poi così
in tanta stima tenuti, e in così grande ve pareva a me, come a loro, mostrare quanto
nerazione avuti in tutti i paesi, e appresso non giustamente hanno cercato molti, e cer
tutte le genti quantunque barbare; e che cano di torre il diritto nome della sua pro
Giulio Cesare, ancorchè fosse non meno pria lingua alla vostra città di Firenze. È
eloquente che prode, portava una grandis adunque tralle principali intenzioni mie nel
sima, ma lodevolissima invidia a Marco presente libro, il quale io dedico per le
Tullio Cicerone, dicendo essere stato mag cagioni sopraddette a Vostra Eccellenza, la
gior cosa, e vieppiù degna di loda e d'am principalissima, il dimostrare, che la lin
mirazione l'avere disteso e accresciuto i gua colla quale scrissero già Dante, il Pe
confini della lingua latina, che prolungato trarca e il Boccaccio, e oggi scrivono molti
e allargato i termini dell'imperio romano. nobili spiriti di tutta Italia e d'altre na
Onde non senza giustissima cagione affer zioni forestiere, come non è, così non si
mano molti, con assai minor danno perdersi debba propriamente chiamare nè cortigiana,
le possessioni del regni, che i nomi delle nè italiana, nè toscana, ma fiorentina; e
lingue; e che maggiormente deve dolersi la che ella è, se non più ricca e più famosa,
città di Roma e tutta l'Italia delle nazioni più bella, più dolce e più onesta che la
straniere, perchè elleno le spensero sì bella greca e la latina non sono; la qual cosa
lingua, che perchè la spogliarono di sì se io ho conseguita o no, niuno nè può
grande imperio; e io vorrei che alcuno mi meglio, nè dee con maggior ragione voler
dicesse quello che sarebbero gli uomini, e giudicare, che l'Eccellenza Vostra e quella
quanto mancherebbe al mondo, se non fos dell'Illustrissimo padre vostro, sì per l'in
sero le scritture così de prosatori, come dei telligenza e integrità, e sì per l'imperio e
oeti. Queste sono le cagioni, illustrissimo potestà loro; dalla cui finale sentenza, come
ed eccellentissimo Principe, perchè io, senza niuno appellare non può, così discordare
avere alla mia bassezza risguardo avuto, non doverebbe; e nondimeno io per tutto
ho preso ardimento d'indirizzare all'Altezza quello o poco, o assai che a me s'aspetta,
Vostra un Dialogo fatto da me novellamente sono contentissimo di rimettermi liberalis
sopra le lingue. E di vero, se io altramente simamente ancora al giudizio di tutti co
fatto avessi, egli mi parrebbe d'aver com loro, a cui cotal causa in qualunque modo
messo scelleratezza non picciola, percioc e per qualunque cagione appartenere si po
chè, oltra che io sono e servo, e stipen tesse, solo che vogliano non l'altrui auto
diato del sapientissimo e giustissimo non rità, ma le ragioni mie considerare, e più
meno, che grandissimo e fortunatissimo pa che l'interesse proprio, o alcuno altro par
dre vostro, e conseguentemente di voi, la ticolare rispetto, la verità risguardare, come
materia della quale si ragiona, è tale, che giuro a Vostra Eccellenza per la servitù e
ad altri che alla sua, o alla vostra Eccel divozione mia verso lei e per tutte quelle
lenza indirizzare giustamente non si potea. cose, le quali propizie giovare e avverse
Ma considerando io il grandissimo peso delle nuocere mi possono, d'aver fatto io. Re
tante e tanto grandi e così diverse fac sterebbemi il pregarla umilmente, che si
cende che ella nel procurare la salute e la degnasse d'accettare questo dono, tuttochè
tranquillità del suo fiorentissimo e felicis
simo stato di Firenze, e di Siena contino (1) Dell'arrabbiatissima lite che fu tra il Caro e il Ca
vamente regge e sostiene, giudicai più con stelvetro per cagione della Canzone dei Gigli d'Oro, com
posta dal primo, censurata dall'altro, noi narrammo per di
venevole e meno alle riprensioni sottopo steso la storia nella nostra Prefazione al volume Xl di que
sto il mandarlo a voi. La cagione del com sta Biblioteca Enciclopedica ltaliana. ( M.)
DIALOGO 3o i

picciolo e non ben degno della grandezza


sua, volentieri e con lieto viso; ma io sap
DIALOGO
piendo che ella premendo tutte l'orme in
così giovenile età, e calcando altamente DI MESSER BENEDETTO VARCHI
tutte le vestigia di tutte le virtù paterne,
è non meno benignamente severa, che se mese
veramente benigna, la pregherò solo, che
le piaccia, per sua natìa bontà di mante L' E R C O LA N O
nermi nella buona grazia di lei, e di tutta OVVERO
l'Illustrissima ed Eccellentissima Casa sua;
la quale nostro Signore Dio conservi feli AGLI ALBERI
cissima e gloriosissima sempre.
Nel quale si ragiona generalmente delle lingue,
-eo e in particolare della Fiorentina e della To
SCANA.

Le Dubitazioni, e Quesiti principali che si INTER LO CU TOR I - , -

trattano, e risolvono in questo Dialogo,


sono questi: Il Molto Rev. D. Vincenzo Boncusi, Priore
degl'Innocenti
DUBITAZIONI , E messer LElio Bonsi, Dottore di leggi (1).

I. Che cosa sia favellare. -

II. Se il favellare è solamente dell' uomo


III. Se il favellare e naturale all'uomo. D. VINC. Che vi pare di questa villa (2),
IV. Se la natura poteva fare che tutti gli uo messer Lelio ? Dite il vero, piacevi ella ?
mini in tutti i luoghi e in tutti i tempi fa M. LEL. Bene, Monsignore, e credo che a
vellassero un linguaggio solo e colle mede chi ella non piacesse, si potrebbe mettere per
sime parole. -
isvogliato. E pur testè guardando io da questa
V. Se ciascuno uomo nasce con una sua pro finestra, considerava tra me medesimo, che
pria e naturale favella. ella essendo quasi in sulle porte di Firenze
e fatta con tanta cura e diligenza assettare e
VI. Quale fu il primo linguaggio che si fa
vellò, e quando e dove e da chi e perchè coltivare da V. S., debbe arrecare moltissimi
non solamente piaceri e comodi, ma utili a
fosse dato.
quei poveri e innocenti figliuoli, i quali oggi
vivendo sotto la paterna custodia vostra, si
QUESITI
può dire che vivano felici, nè vi potrei nar
I. Che cosa sia lingua.
rare, quanto questa bella vigna, ma molto più
quegli alberi ond'io penso che ella pigliasse
II. A che si conoscano le lingue. il suo nome, mi dilettino si per la spessezza
III. Divisione e dichiarazione delle lingue. e altezza loro, i quali al tempo nuovo deono
IV. Se le lingue fanno gli scrittori, o gli scrit soffiati da dolcissime aure porgerne gratissima
tori le lingue. ombra e riposo , e si per lo esser eglino con
V. Quando, dove, come, da chi e perchè ebbe diritto ordine piantati lungo l'acqua in sulla
origine la lingua volgare.
VI. Se la lingua volgare è una nuova lingua
riva di Mugnone, sopra la "
(come potete
vedere) non molto lontano di qui fu un tempo
da sè, o pure l'antica latina guasta e cor con messer Benedetto Varchi e con messer
rotta. a
Lucio Oradini il luogo de Romiti di Camaldoli
VII. Di quanti linguaggi, e di quali sia com la mia dolce Accademia e 'l mio Parnaso; e
posta la lingua volgare. quello che mi colma la gioia, è l'aver io tro
VIII. Da chi si debbano imparare a favellar vati qui per la non pensata tutti quelli ono
le lingue, o dal volgo, o da maestri, o da ratissimi e a me sì cari giovani, fuori sola
gli scrittori. -

IX. A che si possa conoscere e debbasi giu (1) Vincenzo Borghini, nato in Firenze nel 1513, morto
dicare una lingua essere o migliore, cioè più nel 158o, monaco benedettino, congiunse all'esercizio delle
ricca, o più bella, o più dolce: e quale sia virtù claustrali e cittadine una somma applicazione agli studi.
più di queste tre cose o la greca, o la la Scrisse, oltre alcune minori opere, dodici Discorsi o Disser
tina, o la volgare. tazioni intorno all'antica storia di Firenze, e fu dei depu
tati alla correzione del Decamerone prescritta dal Concilio
X. Se la lingua volgare, cioè quella colla quale di Trento. – Lelio Bonsi, nobile fiorentino, nacque verso
favellarono, e nella quale scrissero Dante, il 1532, fu membro dell'Accademia fiorentina, e mise in
il Petrarca ed il Boccaccio, si debba chia luce un Trattato della Cometa, cinque Lezioni recitate nel
mare italiana, o toscana, o fiorentina. l'Accademia ed un Discorso pel Venerdi Santo. (M.)
(2) intende qui della Villa oggi delta delle Cure, posta
fuori di Firenze un mezzo uglio verso Fiesole.
3o a L' ERCOLANO

mente messer Giulio Stufa e messer Jacopo Bernardino Davanzati; oggi mai questo giorno
Corbinegli (1), in compagnia de quali vissi così sarà per me da tutte le parti felicissimo; e
lietamente, già è un anno passato, nello Stu se la vista non m'inganna, quei due i quali
dio di Pisa; e ciò sono messer Jacopo Aldo alquanto più addietro s'affrettano di cammi
brandini, messer Antonio Benivieni, messer nare, forse per raggiugnerli, sono Baccio Bar
Baccio Valori e messer Giovanni degli Al badori e Niccolò del Nero.
berti; la cortesia de quali e le molte loro D. VINc. Sono dessi ; chiamiamo questi altri
virtù mai della mente non m' usciranno. Per giovani, e andiamo loro incontra; ordinate in
le quali cose non V. S. a me, come dianzi tanto da desinare voi; e voi, messer Lelio mio
mi diceva, ma io a lei sarò dello avermi ella caro, desinato che aremo e riposatici alquan
fatto qui venire perpetuamente tenuto. to, potrete cominciare senza altre scuse, o ci
D. Vinc. Pensate voi, messer Lelio, ciò es rimonie; che vi so dire che arete gli ascol
sere stato fatto a caso e senza veruna cagione? tatori non solamente benevoli, ma attenti, e
M. LeL. Signor no, perchè la S. V. è pru per conseguente docili.
dentissima, e i prudenti uomini non fanno cosa M. LeL. Quando le parrà tempo, V. S.
nessuna a caso, né senza qualche cagione. m' accenni, che io di tutto quello che saprò,
D. Vinc. Di grazia lasciamo stare tante si e potrò, non sono per mancare, checchè av
gnorie, e chiamatemi, se pur volete onorarmi venire mene possa, o debba.
e lodarni, non prudente, ma amorevole; per
ciocche dovete sapere che questi quattro con
alcuni altri giovani miei amicissimi, e per av
ventura vostri, i quali mi maraviglio che non D. VINc. Messer Lelio, le nostre vivande
sieno a quest'ora arrivati, ma non possono non sono state né tante, nè tali, e voi insieme
stare a comparire, avendo inteso del ragiona con questi altri di quelle poche e grosse avete
mento che fece a giorni passati sopra le lin sì parcamente mangiato, che io penso che nè
gue messer Benedetto Varchi col conte Ce voi, ne eglino abbiano bisogno di riposarsi al
sare Ercolani in vostra presenza, e desiderando tramente; però potete, quando così vi piaccia,
grandemente d'intenderlo, mi pregarono stret incominciare a vostra posta. -

tissimamente che io dovessi mandar per voi M. LEL. Tutto quello che a V. R. Signoria e
e operarsi, che vi piacesse in questo luogo, a così orrevole brigata piace ed aggrada, è forza
dove non fossimo nè interrotti, nè disturbati, che piaccia e aggradi ancora a me. Avete
raccontarlo; perchè io, il quale molto disidero dunque a sapere, molto reverendo Signor mio,
soddisfare a cotali persone, ed anco aveva caro e voi tutti nobilissimi e letteratissimi giovani,
d'udirlo, sappiendo qual fosse la cortesia e che il conte Cesare Ercolano, giovane di tutti
amorevolezza vostra , feci con esso voi a si i beni da Dio, dalla natura e dalla fortuna
curtà, e ora colla medesima confidenza vi prego abbondevolmente dotato, passando, non ha
che non vi paja fatica di compiacere e a loro, molti giorni di Firenze per andarsene a Ro
e a me; se già non pensaste che ciò dovesse ma, volle per la somma ed inestimabile aſſe
dispiacere a M. Benedetto; il che io e per la zione che si portano l'uno l'altro, visitare
natura sua, e per la scambievole amistà no messer Benedetto, e benchè avesse fretta e bi
stra, e per l'amore che egli a tutti e a cia sogno di ritrovarsi in Roma con messer Gio
cuno di questi giovani porta grandissimo, non vanni Aldrovandi, ambasciatore de'Signori Bo
credo. lognesi, uomo di singolarissime virtù, starsi
M. LeL. Troppo maggior fidanza che questa tutto un giorno con esso seco; e non l'avendo
non è stata, potevate, Monsignore, e potete, trovato in città, come si pensava, se ne andò
quantunque voglia ve ne venga, pigliare di me, alla Villa sopra Castello, dove egli abita,
il quale nè in questa (la quale però non so nella quale mi trovava ancora io; e perchè
come sia per riuscirmi), nè in altra cosa al giunse quasi in sull'ora del desinare, dopo le
cuna la quale per me fare si possa, nè voglio, solite accoglienze e alcuni brevi ragionamenti
ne debbo non ubbidirvi; e messer Benedetto d' intorno per lo più al bene essere del si
non solo non si recherà ciò a male, ma gli gnor Cavaliere suo padre e di tutti gli altri
sarà giocondissimo, si per le ragioni pur ora di casa sua, spasseggiato così un poco in sul
da voi allegate, e si ancora per quelle che pratello, ch'è dinanzi alla casa, e dato una
poscia nel ragionar mio sentirete. Ma ecco giravolta per l'orto, il quale molto gli pia
venire di quaggiù Piero Covoni (2) Consolo cque, ancorachè vi fosse stato un'altra volta
dell'Accademia, con Bernardo Canigiani, e più giorni col conte Ercole suo fratello, e
commendata con somme e verissime lodi la
(1) Questi è quel Jacopo Corbinegli o Corbinelli, che liberalità e cortesia dell'illustrissimo ed ec
passo in Francia con Caterina de' Medici, di cui era pa cellentissimo signor Duca nostro, il quale così
rente. Visse più anni in Parigi presso il duca d'Anjou, po comoda stanza e così piacevole conceduto gli
stovi dalla regina col carattere di erudito, ed ivi pubblicò avea, ce ne andammo a desinare in su uno
l'anno 1568 la Fisica di F. Paolo del Rosso, cavaliere ge
rºsºlimitano, nel 1577 il libro di Dante De vulgari elo terrazzino, il quale posto sopra una loggetta
quºtia e nel 1595 la Bella Mano di Giusto de'Conti colle con maravigliosa, e giocondissima veduta scuo
Rime di alcuni altri poeti antichi. (M.) pre, oltra mille altre belle cose, Firenze e
(2) Consolo dell'Accademia Fiorentina nel 1559 nel qual Fiesole, dove, fornito il desinare, il quale non
ºunº si tinge fatto questo Dialogo. molto durò, il conte Cesare con dolce, e gra
DIALOGO 3o3

zioso modo verso messer Benedetto rivoltosi, per nome di lui, come egli avea inteso per
cominciò a favellare in questa maniera: cosa certissima, che l'Apologia del Caro era
Deh caro ed eccellente messer Benedetto nelle mie mani, e di più che sapeva che esso
mio, ditemi per cortesia, se egli è vero quello messer Annibale o la stamperebbe, o non la
che messer Girolamo Zoppio e molti altri mi stamperebbe secondochè fosse a ciò fare, o
hanno in Bologna affermato per verissimo, non fare da me consigliato: perchè mi man
cioè voi aver preso la difesa del commenda dava pregando, quanto sapeva e poteva il più,
tore messer Annibale Caro, contra messer Lo che io non solo volessi consigliarlo, ma pre
dovico Castelvetri. Alle quali parole rispose, garlo, ed eviandio sforzarlo, per quanto fosse
subitamente messer Bencdetto. Io non ho preso in me, a doverla, quanto si potesse più tosto,
la difensione di messer Annibale Caro, anco stampare e mandare in luce; della qual cosa
rachè io gli sia amicissimo, ma della verità, egli mi resterebbe in infinita e perpetua ob.
la quale molto più m'è amica, anzi, per me bligazione; soggiugnendo, che la spesa la quale
glio dire, di quello che io credo che vero sia, nello stamparla si facesse, pagherebbe egli e
e ciò non contra messer Lodovico Castelvetri, a tale effetto aver seco portati danari. Parve
al quale io nemico non sono, anzi gli disidero mi strana cotale proposta, e dubitando non
ogni bene, ma contra quello che egli ha con dicesse da beffe, gli domandai se egli diceva
tra messer Annibale scritto; e, per quanto pos da vero, e se messer Lodovico gli aveva, che
so giudicare io, con poca e forse niuna ra mi dicesse quelle parole, commesso; e aven
gione, e certo senza apparente non che vera domi egli risposto, che sì, soggiunsi: Messer
cagione. – Sta bene, soggiunse allora il conte Lodovico ha egli veduto l'Apologia ? e avendo
Cesare, ma io vorrei sapere quai ragioni, o egli risposto di no, anzi che faceva questo
quai cagioni hanno mosso voi a dovere ciò per poterla vedere, gli risposi: Fategli inten
fare. – Poichè vi par poco, rispose allora mes dere per parte mia, poichè voi dite ch'e' m'è
ser Benedetto) adoperarsi in favore della ve amico, e tiene gran conto del mio giudizio,
rità, la quale tutti gli uomini, e spezialmente che non si curi nè di vederla egli, nè di pro
i filosofi, deono sopra tutte le cose difendere curare che altri vedere la possa, e che se ne
e ajutare, quattro sono state le cagioni prin stia a me, il quale l'ho letta più volte e
cipali le quali m' hanno, e, secondochè io sti considerata, che ella dice cose le quali non
mo, non senza grandissime e giustissime ra gli piacerebbono. Al che messer Giovanni to
gioni a ciò fare mosso, e sospinto. La prima stamente replicò: Egli sa ogni cosa per rela
delle quali è la lunga e perfetta amicizia tra i zione di diverse persone che veduta l'hanno
cavalier Caro e me; la seconda, la promes e a ogni modo disidera sopra ogni credere
sione fatta da me al Caro per conto e cagio che ella si stampi e vada fuori. Deh ditegli
ne del Castelvetro; la terza, il difendere in (gli dissi io un'altra volta) da parte mia, che
sieme con esso meco tutti coloro i quali hanno non se ne curi, perciocchè se egli in leggen
composto o in prosa, o in verso nella lingua dola non verrà meno, farà non picciola pruova;
nostra; la quarta ed ultima, non mi pare per e di certo egli per mio giudizio suderà, e tre
ragionevole rispetto, che si debba dire al pre merà in un tempo medesimo. Lasciate di co
sente. – E perchè il conte Cesare pregò messer testo (rispose egli) la cura e il pensiero a chi
Benedetto che gli piacesse di più distesamente tocca, e non vi caglia più di lui, che a lui
e particolarmente dichiarargli ciascuna di quel stesso; e altre così fatte parole. Andate, che
le quattro cagioni, egli in cotal guisa conti io vi prometto (risposi io allora), e cosi direte
novò il favellar suo: Quanto alla prima, sap a messer Lodovico per me, che io farò ogni
piate che la familiarità che io tengo con mes opera che egli sia soddisfatto, non ostante che
ser Annibal Caro, ed egli meco infine da suoi io fossi più che risolutissimo di volermi ado
e miei più verdi anni, è piuttosto fratellanza, perare, come ho fatto infin qui, in contrario.
che amistà, e forse non inferiore ad alcuna E così scrissi tutta questa storia al Cavaliere,
di quelle quattro, o cinque antiche, le quali e rimandandogli l'Apologia lo confortai, e pre
con tanta maraviglia sono raccontate e cele gai a doverla stampare, e far contento il Ca
brate dagli scrittori cosi greci, come latini; stelvetro, allegandogli quel proverbio volgare :
perchè io non potea, nè dovea, ricercandomene A un popolo pazzo, un prete spiritato; e per
egli con tanta instanza, e per tante lettere, chè egli si conducesse a fare ciò più tosto e
non pigliare a difendere le ragioni sue in quel più volentieri gli promisi di mia spontanea
tempo massimamente che egli per le molte e volontà, che rispondendo il Castelvetro (cosa
importantissime faccende dell'illustrissimo, e che io non credeva) piglierei io l'assunto di
reverendissimo cardinale Farnese suo padro difendere le ragioni sue. E perchè non cre
ne, il quale si trovava in Conclave, non aveva diate che queste sieno favole, avendomi messer
tempo di poter rifiatare, non che di rispon Giovambattista Busini (1), amicissimo mio, man
dere alla risposta del Castelvetro. Quanto alla dato da Ferrara una nota di forse sessanta er
seconda, che mi parrà forse maggiore, messer rori fatti nello stampare la sua risposta, molto
Giovanni . . . . il quale per la Dio grazia si nel vero leggieri e per inavvertenza commessi,
trova oggi vivo e sano, mi venne, sono già o de' correttori, o degli stampatori, gli scrissi
più anni varcati, a trovare in sulla piazza del
Duca e salutatoni da parte di messer Lodo | (1) Del Busini e dell'intrinsichezza sua col Varchi, veg
vico Castelvetro molto cortesemente, mi disse gasi quel che ne diccmmo nella Prefazione. (M )
3o4 L' ERCOLANO
che lo dimandasse se le cose dettemi in nome co non dee altro risguardare che il giusto e
suo erano vere, come io credeva; ed egli mi l' onesto, e che mai non si debbe un ben
rispose di sì, e che avea ciò fatto per lo in certo lasciare per un male che incerto sia; e
tenso disiderio che egli aveva di poter rispon s'io nol potei credere inſino che alla presenza
dere e giustificarsi. Quanto alla terza cagione, vostra e di tanti gentiluomini tanti cavalieri
oltre l'avere io detto a messer Giovanni, che me ne fecero in Bologna tante volte con te
io non pensava che niuno potesse rispondere stimonianze ampissima fede, non dee parere
alle ragioni e alle autorità allegate da messer ad alcuno maraviglia, perchè... – Non certo
Annibale contra l'opposizioni del Castelvetro, (rispose il conte Cesare anzi che messer Be
se non se forse colui che fatte l'avea, dico nedetto avesse fornito) e incontamente sog
ancora che tutte quelle parole che egli ri giunse: Non occorre che me ne rendiate altre
prende nella Canzone del Caro e molte altre ragioni, e tanto più che voi sapete che io so
di quella ragione, sono state usate non solo benissimo come andò la bisogna ; ma vorrei
da me ne componimenti miei o di versi o di sapere due cose: l'una, se come a soldati è
prosa, ma eziandio da tutti coloro i quali conceduto combattere coll'arme negli steccati,
hanno o prosato, o poetato in questa lingua, così alle persone di lettere si conviene non
come nel suo luogo chiaramente si mostrerà. solamente disputare a voce ne' circoli, ma ado
E rendetevi certo che se le regole del Castel perare eziandio la penna, e rispondere colle
vetro fossero vere, e le sue osservazioni osser scritture: l'altra, se dell' opere che escono
vare si dovessero, nessuno potrebbe non dico in pubblico con consentimento degli autori
scrivere correttamente, ma favellare senza men loro, può ciascuno giudicare come gli piace
da, e, per non aver a replicare più volte, anzi senza tema di dovere essere tenuto o presun
a ogni passo una cosa medesima, intendete tuoso, o arrogante (1). – Ma io Lelio ho pen
sempre, che io favello secondo il picciolo sa sato, per fuggire la lunghezza e 'l fastidio di
pere e menomissimo giudizio mio, senza vo replicare tante volte quegli disse e colui ri
lere o offendere alcuno, o pregiudicare a per spose, ragionarvi non altramente che se essi
sona in cosa nessuna, prestissimo a corregger ragionatori fossero qui presenti, cioè recitarvi
mi sempre e ridirmi ogni volta che da chiun tutto quello che dissero senza porre altri no.
que si sia mi saranno mostrati amorevolmente mi, o soprannomi, che il Conte, e il Varchi.
gli errori miei. Quanto alla quarta ed ultima, Dico dunque che il Varchi rispose al conte
io desiderava e sperava, mediante gli esempi Cesare cosi : -

di molti e grandissimi uomini così dell'età


nostra, come dell'altre, quello che io ora di
sidero bene, ma non già spero, e se pure lo NUOVI INTERLOCUTORI
spero, lo spero molto meno che io non faceva
e ch'io non disidero. – Tacquesi, dette queste BENEDETTo VARCHI, IL CoNTE CESARE ERcolANo.
cose messer Benedetto, ma il conte Cesare
ripigliando il parlare: Voi m'avete disse, ca VARCHI. Quanto alla prima dimanda vostra,
vato d'un grande affanno, conciossiacosachè dico che solo queste due professioni, l'armi e le
io aveva sentito che molti sconciamente vi lettere (e sotto il nome di lettere, comprendo
biasimavano, i quali si credeano che voi, chi tutte l'arti liberali) hanno onore, cioè deono
a bel diletto, chi a capriccio, chi per mostrare essere onorate; e chiunque ha onore può es
la letteratura vostra, foste o presuntuosamente sere offeso in esso; e chiunque può essere of
entrato in questo salceto, o non senza teme feso nell'onore, dee ragionevolmente avere al
rità; il che veggo ora essere tutto l'opposito, cun modo mediante il quale lo possa o difen
e conosco che niuno non doverebbe credere dere o racquistare: laonde tutti coloro i quali
cosa nessuna a persona veruna senza volere concedono il duello a soldati e a capitani,
udire l'altra parte, e il medesimo direi a co sono costretti di concedere il disputare e il
loro i quali dicono, ciò non essere altro che rispondere l'un l'altro, eziandio colla penna
un cercare brighe col fuscellino e comperar e con gl'inchiostri, agli scolari e a'dottori. E
le liti a contanti. Ma che rispondete voi a ben vero che, come il modo del combattere
quelli che, molto teneri della salute vostra è corrottissimo tra soldati, non si osservando
mostrandosi, dicono che l'avere il Castelvetro più nè legge, nè regola alcuna che buona sia ;
fatto uccidere (1) Messer Alberigo Longo Sa cosi, e forse peggiormente, è guasto il modo
lentino (il che voi da prima non potevate cre dello scrivere, e del disputare tra dottori non
dere) vi doveva render cauto, per farvi matu solamente di leggi, ma ancora (il che è molto
ramente a casi vostri pensare? – Risponderei più brutto e biasimevole) della santissima filo
(rispose subito messer Benedetto) che l'ufizio sofia. Quanto alla seconda, tosto che alcuno
dell'uomo dabbene e il debito del vero ami ha mandato fuori alcuno suo componimento,
egli si può dire che cotale scrittura, quanto
(1) Narra ciò, ma alquanto in dubbio, l'istesso Annibal appartiene al poterne giudicare ciascuno quello
Caro in una lettera alla signora Lucia Bertana, che noi
che più gli pare, non sia più sua. Ma come i
pubblicammo insieme all'Apologia. Vedi il volume XI di ciechi non possono, nè debbono giudicare dei
questa Biblioteca Enciclopedica, pag. 341 ; ove leggonsi tra
l'altre queste parole: Se pure e vera l'imputazione che gli
sento dare universalmente della morte di quello sfortunato nes (1) Cic. de Amic, in princ. Quasi enim ipsos indurilo
v. r . Mlberico. M.) guentes, ne inquam ct inquit sarpius interponeretur.
DIALOGO 3o5

colori, così nè possono, nè debbono giudicare C. Dichiaratevi un poco meglio.


l'altrni scritture, se non coloro i quali o fanno V. Voglio dire che il fine è quello che giuo
la medesima professione, o s'intendono di ca, e che in tutte le operazioni umane atten
quello che giudicano; e questi cotali non pure dere e considerare si debbº; perciocchè sic
non deono essere incolpati nè di presunzione, come molte cose non buone, solo che siano
ne d'arroganza, ma lodati e tenuti cari, come fatte a buon fine, lodare si deono, così molte
amatori della verità e disiderosi dell'altrui buone fatte con non buon animo, sono da es
bene. Anzi crederei io che fosse maravigliosa sere biasimate. Non accadeva al Castelvetro
mente non solo utile, ma onorevole sì gene nè favellare tanto dispettosamente, nè così ri
ralmente per tutte le lingue, e sì in ispezie solutamente le sue sentenze (quasi fossero ora
per la nostra, che qualunque volta esce alcuna coli) pronunziare, dico, quando bene avesse
opera in luce, alcuni di coloro che sanno, la avuto e cagioni e ragioni da riprendere il Caro.
censurassino e di sentenza comune ne dices C. Sì, ma poichè voi sapeste di certo, le ope
sero e anco ne scrivessono il parere e la cen posizioni essere del Castelvetro, e avevate l'A-
sura loro. Ben è vero, che io vorrei che co pologia del Caro nelle mani, non volevate voi
tali censori fossero uomini non men buoni e che ella s'imprimesse? A me par necessario,
modesti, che dotti e scienziati, e che giudicando poichè voi concedete che si possa rispondere
senza animosità non andassero cercando, come colla penna e in iscrittura, che voi giudicaste
è nel nostro proverbio, cinque piè al monto che messer Annibale non si fosse difeso, o bene
ne; ma contentandosi di quattro, e anco tal o a bastanza. a

volta di tre e mezzo, piuttosto che biasimare V. Voi v' ingannate.


quelle cose che meritano lode, lodassero quelle C. Perchè ?
che sono senza biasimo, e insomma, dove ora V. Perchè, oltra l' altre cose non fate la dir
molti si sforzano con ogni ingegno di cogliere vision perfetta.
ragioni addosso agli autori per poterli ripren C. In che modo ?
alere, essi s'ingegnassero con ogni sforzo di V. Perchè egli poteva difendersi e bene e
trovare tutte le vie da doverli salvare. a bastanza, e nondimeno errare nel modo del
Conte. Se cotesto che voi dite, si facesse, la difendersi.
copia degli scrittori sarebbe molto minore che C. Voi volete dire, secondo me, che egli
ella non è. procedette troppo aspramente ; ma se egli fu
V. Voi non dite che ella sarebbe anche il primo ad essere offeso e ingiuriato senza
molto migliore; del che nascerebbe che la ve cagione, non doveva egli offendere e ingiuriare
rità delle cose si potrebbe apparare non solo più l'avversario suo con cagione per vendicarsi?
agevolmente, ma ancora con maggiore certezza. V. Forse che no,
C. Io per me la loderei, e mi piacerebbe C. Io mi vo' pur ricordare che non solo il
che si censurassino ancora degli scrittori an Poggio, il Filelfo, Lorenzo Valla e molti altri
tichi; perchè io ho molte volte imparato una fecero invettive contra i vivi, ma eziandio cone
qualche cosa da alcuno autore e tenutola per tra i morti, i quali non potevano avergli of
vera, la quale poi per l'autorità d'un altro fesi; e se pure offesi gli aveano, co morti non
scrittore, o mediante le ragioni allegatemi da combattono, come dice il proverbio, se non
chicchessia, e talvolta colla sperienza stessa, la gli spiriti.
quale non ha riprova nessuna, ho conosciuto V. E vero, ma voi vedete bene a qual ter
manifestamente esser falsa. Ma, lasciando dal mine si condussero le lettere, e che conto
l'una delle parti quelle cose, le quali si pos tengono i principi dei letterati, i quali, se fanno
sono più agevolmente disiderare che sperare, quelle cose che gli uomini volgari, e talvolta
e più sperare che ottenere, scioglietemi que peggio, non si debbono nè maravigliare, nè
sto dubbio: Se voi siete dell'opinione che dolere d'essere trattati come gli uomini vol
voi siete, perchè non volevate voi che il Caro gari e talvolta peggio.
rispondesse alle opposizioni fattegli dal Castel C. E si vede pure che i soldati che fanno
vetro, come si può vedere nella vostra Lettera tanta stima dell'onore, quando sono offesi, o
stampata nella fine dell'Apologia ? ingiuriati con soperchieria, cercano con sopere
V. Per molte e diverse cagioni. La prima, chieria di vendicarsi.
io non poteva persuadermi che cotali opposi V. E' fanno anche male.
zioni fossero state fatte da vero, nè da per C. Perchè ?
sona tinta di lettere, non che da messer Lo V. Perchè se uno vi tagliasse la borsa, già
dovico, il quale io aveva per uomo dotto e non vorreste voi, nè vi sarebbe lecito tagliarla
giudizioso molto: la seconda, elle mi parevano o a lui, o a un altro per vendicarvi.
tanto parte frivole e ridicole, parte sofistiche C. Che rimedio c'è, se il mondo va così?
e false, che io non le giudicava degne, a cui V. Lasciarlo andare; ma gli uomini prudenti
da niuno, non che da messer Annibale, si do l'hanno a conoscere, o i buoni se ne debbono
vesse rispondere: la terza, elle non erano fatte dolere, e amenduni dove e quando possono
nè con quel Zelo, nè a quel fine che vo' dire ripararvi.
io; oltreche elle mancavano di quella mode C. Pare egli a voi, come a molti, che la ri
stia, la quale in tutte le cose si ricerca, e da sposta del Castelvetro all'Apologia del Caro
tutti gli uomini, e spezialmente da coloro che sia scritta modestamente?
fanno professione di lettere, si debbe usare, V. Non a me, anzi tutto il contrario, per
VARCHI V, i 39
3oti L' ERCOLANO
ciocchè egli ha cercato non pure di difendere vocato o procuratore, ma arbitro, e arbitro lon
e scaricare sè, ma d' offendere e di caricare tano da tutte le passioni; perchè siate certo
in tutti quei modi, e per tutte quelle vie che che tutto quello che io dirò, sarà, se non vero,
egli ha saputo e potuto, Messer Annibale. certo quello che io crederò che vero sia. Ora
C. E Annibale, che fece verso lui? rispondendo alla prima domanda, dico che
V. Il peggio che egli seppe e potè. l'Apologia del Caro, se egli è lecito, come
C. Dunque il Castelvetro ha avuto ragione voi e molti altri si fanno a credere, proce
a render pane per focaccia, e il Caro non si dere cogli avversari in quella maniera, e in
può dolere se quale asino dà in parete, tal somma fare il peggio che l'uomo può, è la
riceve (1). più bell'opera che io in quel genere leggessi
V. Sì, secondo l'usanza d'oggi, ma a me mai: dove la Risposta del Castelvetro mi pare
sarebbe piaciuto che l'uno e l'altro si fosse altramente, e insomma che abbia a fare poco,
più modestamente portato. o nulla con quella e in quanto alla vaghezza
C. Deh ditemi, chi vi pare ch'abbia detto dello stile e in quanto alla lealtà della dot
peggio o il Caro, o il Castelvetro? trina, in quel modo che dichiarerò più aper
V. Il Castelvetro senza dubbio, perchè quel tamente nel luogo suo.
di messer Annibale è altro dire. C. Molto mi piace che voi abbiate cotesto
C. Io non dico quanto allo stile, ma quanto animo di non volere pregiudicare a nessuno, e
a biasimare l'un l'altro. così vi conforto e prego e scongiuro che fac
V. Amendue si son portati da valentuomini ciate, e anco giudico che vi sia necessario il
e hanno fatto l'estremo di lor possa; ma dove così fare; perchè tutto quello che direte, do
messer Annibale procede quasi sempre inge verà esser letto e riletto, considerato e ricon
gnosamente e amaramente burlando, Messer siderato diligentissimamente da molti, i quali
Lodovico sta quasi sempre in sul severo. cercheranno o riprendere voi, o difendere lui,
C. Voi volete inſerire, che messer Annibale e forse biasimare insiememente ambodue, e,
morde come le pecore, e messer Lodovico come se non altro, egli vi doverà voler rispondere,
i cani. poichè ha risposto a messer Annibale.
V. Cotesto non voglio inferire io, perché V. Io pensava bene che m'avesse a esser
tutti e due mordono rabbiosamente, come be risposto non già da lui, ma da alcuno creato,
gli orsi, ma che camminano per diverse strade. o amico suo: ora intendo per lettere di mes
C. Ditemi ancora, qual giudicate voi più ser Giovambatista Busini, che egli vuole rispon
lell'opera o l'Apologia del Caro, o la Rispo dere da sè.
sta del Castelvetro ? Ma guardate che l'amore C. A me era stato detto che messer Fran
non v'inganni, cesco Robertello, il quale legge Umanità in
Che spesso occhio ben san fa veder torto (2); Bologna (1), voleva, se voi difendevate il Caro,
rispondervi egli.
perchè voi dovete sapere che come il Castel V. E a me era stato riferito il medesimo da
vetro è biasimato da molti grandissimamente, persona amicissima di lui e degna di fede; la
come uomo poco buono e poco dotto, così è qual cosa m'aveva indotto nell'opinione che
da molti grandissimamente non meno di bontà io v'ho detta, che non egli, ma altri mi do
che di dottrina lodato. vesse rispondere per lui ad instanza e peti
V. Per rispondere prima all'ultima cosa, io zione sua; il che trovo non esser vero. Essendo
non voglio favellare di messer Lodovico; il ito maestro Alessandro Menchi, mio nipote, a
quale (perchè vorrei che fosse come coloro che Ferrara con maestro Francesco Catani da Mon
lo lodano, dicono che egli è) mi giova di cre. tevarchi, che è quel grande e dabbene uomo
dere che così sia; ma solamente dell'opera che voi sapete, per dover medicare l'illustris
sua, la quale a me non pare che tale lo di sima ed eccellentissima signora Duchessa, mi
mostri, anzi, se non tutto l'opposito, certa disse, tornato che fu, che aveva visitato mes
mente molto diverso, qualunque se ne sia stata ser Lodovico; e tra l'altre cose dettogli, come
la cagione, perchè alcuni l' attribuiscono allo mi pareva cosa strana che alcuno pensasse di
sdegno non ingiustamente preso per le cose che voler rispondere a quelle cose che io non
di lui si dicono nell'Apologia. In qualunque aveva non che dette, pensate ancora, gli fu
modo, io non intendo di voler entrare nella da lui risposto: Il Robertello non ha difeso sè,
vita e costumi di persona, se non quando e pensate come difenderà altri (2)! Dissemi ancora
quanto sarò costretto dal dover difendere la
verità; e allora, per rispondere alla seconda
dimanda vostra, mi guarderò molto bene, come (1) Francesco Robortello, nato in Udine nel 1516, me
rita un posto distinto tra i filologi del secolo XVI. Egli fu
mi avvertite, che l'amore, professore in vari studi d'Italia, pubblico molte opere d'e-
vudizione ed attese a rivedere e porre in luce alcuni classici
Che spesso occhio ben san fa veder torto,
greci, fra gli altri Eschilo e Longino. Fu uomo di spiriti
non m'inganni; e tanto più che io in questo altieri ed iracondi, per modo che ebbe a sostener litigi con
giudizio voglio essere (se ben non sono stato molti dei più valorosi suoi contemporanei, e fra gli altri col
celebre Sigonio. Mori in Padova nel 1567. (M.)
chiamato se non da una delle parti) non av (2) Credo, alludasi all'arrabbiata lite ch'ebbe il Robor
tello col Sigonio; lite provocata da certe urbane censure che
(1) Questo modo è del Boccaccio nella Nov. L. il Sigonio fece d'un meschino opuscolo dell' altro intitolato:
(2) Petrarca, Sou. GCV 1. De nominibus Romanorum. (M.)
DIALOGO 3o7
che il medesimo Castelvetro gli aveva detto, biasimi da tutte le persone intendenti ? Il per
raccontando d'uno che, per difendere il Caro, ſidiare e non voler cedere alla verità; la
si scusava con esso lui d'averlo solamente in quale a ogni modo si scuopre col tempo, di
cinque luoghi ripreso: Io non voglio esser ri cui ella è figliuola. La natura quando produsse
preso in nessuno; il che mi fa credere quello Aristotile, volle, secondo che testimonia più
che prima non credeva, cioè, che egli si creda volte il grandissimo Averrois, fare l' ultimo
che le cose scritte da lui contra messer An sforzo d' ogni sua possa, onde, quanto può sa
nibale siano vere tutte, dove a me pare che pere naturalmente uomo mortale, tanto seppe
tutte, o poco meno che tutte, siano false. Laon l Aristotile, e contuttociò le cose che egli non
de arei caro che non solamente il Robertello, intese, furono più senza proporzione e com
ma tutti coloro che possono, volessero scrivere parazione alcuna, che quelle le quali egli in
l'opinione loro, affinchè la verità rimanesse tese; dunque io, o alcuno altro si doverà ver
a galla e nel luogo suo, e si sgannassino co gognare di non saperne, non dico una, o due,
loro che sono in errore, tra quali, se la Ri o mille, ma infinite ?
sposta del Castelvetro, sarà giudicata dagli uo C. Cotesta ragione mi va, ma mi pare che
mini dotti e senza passione, o buona, o bella, militi contra di voi. -
confesso liberamente esser uno io, e forse il V. In che modo ?
primo. E come che a ciascuno soglia piacere la C. Perchè essendo la risposta del Castelve
vittoria, a me non dispiacerà il contrario, af tro quale dite voi, ella manca di tutte e tre
fermando Platone, il quale, come è chiamato, quelle condizioni poste di sopra; il perchè
cosi fu veramente divino, che nelle disputa. non meritava che le si dovesse rispondere.
º
zioni delle lettere è più utile l'esser vinto che V. Ben dite, e, se da me interamente stato
il vincere. fosse, non se le rispondeva. Erasi determinato
C. Uno a cui chicchessia avesse scritto con che a ogni modo si rispondesse, ma alcuni vo
tra, è egli obbligato sempre a dover rispon levano, in frottola, alcuni, in maccheronea;
dere e difendersi? chi con una lettera sola, chi solamente con
V. Non credo io. alcune postille e annotazioni da doversi scri
C. Quando dunque sì, e quando no? vere nelle margini, e stampare insieme con
V. In questi casi ha ciascuno il suo giudi tutta l'opera: altri giudicavano esser meglio,
zio, e può fare quello che meglio pare a lui e più convenevolmente fatto procedere per
che gli torni; io per me, quando alcuno o via d' invettiva, introducendo alcuno uomo o
non procedesse modestamente, o si movesse da ridicolo, o maledico, o l'uno e l'altro insie
altra cagione che per trovare la verità, o ve me, come giudiziosamente aveva fatto il Caro,
ramente dicesse cose, le quali agl'intendenti e non solo difendere messer Annibale, ma of
fussono manifestamente o false, o ridicole, non fendere ancora il Castelvetro, affermando, ciò
mi curerei di rispondere. non pure potersi fare agevolmente, ma do
C. Voi portereste un gran pericolo di ri versi fare giustamente. Nessuna delle quali
manere in cattivo concetto della maggior parte cose piacendomi, dissi, che io era fermato o
degli uomini. di non rispondere, o di risponder il meglio e
V. A me basterebbe rimanere in buono della nel miglior modo che io sapessi, e potessi; nè
migliore; perchè, quando si può far di meno, perciò era l'animo mio di volere altro fare
mai non debbe alcuno venire a contenzione che quello che io promesso aveva, cioè difen
di cosa nessuna con persona; e non è tempo dere il Caro da quelle diciassette opposizioni
peggio gettato via che quello che si perde in le quali il Castelvetro fatto gli avea; ma ora
disputare le cose chiare contra coloro, i quali non so quello che io mi farò.
C. Perchè?
o per parer dotti, o per altre cagioni, vogliono V. Perchè messer Lodovico ha fatto quello
non imparare, né insegnare, ma combattere e
tenzonare, non difendendo, ma oppugnando la che egli non
poteva, nè doveva fare, cioè ha
verità ; cosa piuttosto degna di gastigo, che di mutato la querela, o almeno accresciutola,
biasimo. perciocchè l'usanza portava, e la ragione ri
C. Presupponghiamo che uno scrivendovi chiedeva che egli, innanzichè entrasse in altro,
contra procedesse modestamente, si movesse a
rispondesse alle ragioni, e autorità del Caro

fine di trovare la verità, e in somma vi ri capo per capo, come il Caro aveva risposto
prendesse a ragione, che fareste voi ? alle sue; e poi, se così gli pareva, entrasse a
V. Ringraziereilo, e ne gli arei obbligo non riprenderlo di nuovo nell'altre cose di per sè
picciolo. dalle prime. Conciossiacosache chi avesse detto
C. Dunque non terreste conto della ver a un soldato che egli fosse codardo e vile,
non potrebbe, contestata la lite, dire, lui essere
gogna?
V. Di qual vergogna? ancora traditore e mancatore di fede, e così
C. Di non sapere; e, se volete che ve la mutare, e ampliare la querela, mescolando e
snoccioli più chiaramente, d'esser tenuto uno confondendo l'una coll'altra, perciocche egli
ignorante. è possibile che uno sia codardo e vile, ma non
traditore, e per lo rovescio sia traditore e
V. Signor Conte, il non sapere, quando non
è restato da te, non è vergogna, ma sibbene, mancator di fede, ma non già codardo; e può
il non volere imparare. Sapete voi è veri " èvolere
quale tutti confessare l'uno e difendere l'altro ;
gogna, e quale è ignoranza, e merita a niuno si debbono impedire nè per via di -
3o8 L' ERCOLANO

retta, nè per obbliqua, non che tirre, le difen tivo giudizio, dicono cose impossibili, e, come
sioni sue. Oltra questo il Castelvetro è pro si favella oggi, un passerotto. E tanto è vero
ceduto nella sua risposta, o a caso, o ad arte che alcuno possa dar buon giudizio di quelle
che egli fatto se l'abbia) con un modo tanto cose le quali egli non intende, quanto è vero
confusamente intricato, e tanto intricatamente che i ciechi veggano.
confuso, che rispondergli ordinatamente è più C. E' mi pare d'intendervi: la diversità
tosto impossibile che malagevole; perciocchè de giudizi nasce dalla diversità de saperi,
oltra l' altre confusioni e sofisticherie, delle perchè quanto ciascuno sa più, tanto giudica
quali è tutto pieno il suo libro, egli o perchè meglio.
paressero più e maggiori i falli di messer An V. Non che egli sappia più semplicemen
nibale, che così gli chiama egli, o per qualche te, ma in quella o di quella cosa, la quale,
altra cagione, lo riprende più volte d'una o della quale egli giudica; perchè può alcuno
cosa medesima in più e diversi luoghi; il che intendere bene una lingua e non un'altra,
come allunga molto l'opera sua, così fa, che essei dotto in questa scienza, o arte e non
non se le possa brevemente rispondere e con in quella, sebbene tutte le scienze hanno una
ordine certo e determinato; la qual cosa è certa comunità e colleganza insieme, di ma
di non poca briga e fastidio a chi ha dell'al niera che qual s'è l'una di loro, non può
tre faccende, e impiega malvolentieri il tempo perfettamente sapersi senza qualche cognizio
in cose di grammatica, le quali non sono cose, ne di tutte l'altre.
ma parole, e che piuttosto si doverrebbono sape C. Io l'intendeva ben così; ma donde viene
re, che imparare, e imparate, servirsene a quello che niuna cosa si ritrova in luogo nessuno
a che elle sono buone, e per quello che furono nè così bella, nè così buona, la quale non
trovate, non ad impacciare inutilmente, e bene abbia chi la biasimi; e per lo contrario nes
spesso con danno sè e altrui; e massimamente suna se ne ritrovi in luogo niuno nè tanto brut
che se mai si disputò (1) dell'ombra dell'a- ta, nè tanto cattiva, la quale non abbia chi
sino, com' è 'l proverbio greco, o della lana la lodi?
caprina (2), come dicono i Latini, questa è V. Dalla natura dell'universo, nel quale,
quella volta, da alcune poche, anzi pochissime come di sopra vi dissi, debbono essere tutte
cose in fuora. le cose che essere vi possono, e niuna ve n'è
C. Del modo col quale possiate rispondere, nè si rea, nè sì sozza, che rispetto alla perfe
potrete rispondere a bell'agio, rispondetemi zione dell'universo non vi sia necessaria, e
bra a quello che io vi dimanderò. non abbia parte così di bontà, come di bel
V. Sibbene. lezza. E perchè credete voi, che tutti gli uo
C. La verità in tutte le cose non è una mini e similmente tutti gli individui di tutte
sola ? le spezie degli animali abbiano i volti vari e
V. Una sola. differenziati l'uno dall' altro, se non perchè
C. E l' obbietto dell'anima nostra, cioè hanno vari e differenziati gli animi? In guisa
dell'intelletto umano, non è la verità ? che mai non fu e mai non sarà, ancorche
V. E. durasse il mondo eterno, un viso il quale non
C. Dunque la verità è naturalmente sopra sia da qualunque altro in alcuna cosa diffe
tutte altre cose dall'intelletto nostro, come rente e dissomigliante; e come si trovano di
sua propria e vera perfezione disiderata ? coloro i quali prendono maggior diletto del
V. Senza dubbio; ma che volete voi infe suono d' una cornamusa o d'uno sveglione,
rire con queste vostre proposizioni filosofiche? che di quello d'un liuto o d'un gravicem
C. Che egli mi par cosa molto strana e bolo, così non mancano di quelli i quali pi
quasi incredibile, per non dire impossibile, gliano maggior piacere di leggere Apuleio o
che l'opera del Castelvetro sia tanto da tanti altri simili autori, che Cicerone, e tengono
lodata e tanto da tanti biasimata, non essen più bello stile quel del Ceo, o del Serafino,
do la verità più d'una, e disiderandola natu che quello del Petrarca, o di Dante. Non rac
ralmente ciascuno; e vorrei mi dichiaraste, contano le storie che Caio Caligola impera
questa diversità di giudizi donde proceda. dore (1), non gli piacendo quello stile, ebbe
V. Il trattare del giudizio è materia non in animo di voler fare ardere pubblicamente
meno lunga che malagevole, per lo che lo tutti i poemi d'Omero; e che egli, non gli
riserberemo a un'altra volta; bastivi per ora piacendo il lor dire, fece levare di tutte le
di sapere che il giudizio del quale intendete, ibrerie tutte l'opere di Virgilio e di Tito
è, come ancora l' intelletto, virtù passiva, e Livio (2)? Non raccontano ancora che Adria
non attiva, cioè patisce e non opera, sebbene no pur imperadore preponeva e voleva clie
cotal passione è perfezione; e che coloro che altri preponesse Marco Catone a Marco Tul
dicono : Il tale è letterato o greco, o latino, lio e Celio a Salustio? Non mancarono mai,
ma non ha giudizio nelle lettere; o il tale in nè mancano, nè mancheranno cotali mostri
tende bene la pittura, ma v ha dentro cat nell'universo.
C. A questo modo, per tornare al ragiona
(1) rrip ovs aztz;. Vedi Plutarco nella vita di
Dinostene. (1) Sveton, in Calig. 34.
(2) Oraz. lib. II, epist. 38. Alter riacatur de lana saepe (2) Elio Sparziano in Adrian.: Ciceroni Catonem, Virgi
arratta. lio Ennium, Sallustio Coelium pratuit.
DIALOGO 3o9
mento nostro, l'ignoranza sola è cagione della gli uomini è sempre molta e molto d'abbas
varia diversità de giudizi umani. sar gli uomini disiderosa, dandosi a credere
V. Sola no, ma principale, perciocchè oltra in cotal modo o d' innalzare sè , o d'avere
l'ignoranza, le passioni possono molto nel almeno nella sua bassezza compagni: per non
l'una parte e nell'altra, cioè così nel lodare dir nulla, che a coloro i quali o sono vera
quelle cose che meritano biasimo, come nel mente, o sono in alcuna cosa tenuti grandi,
biasimare quelle che meritano loda. Coloro pare alcuna volta di poter dire, senza tema
che amano, non solamente scusano i vizi nelle di dovere esser ripresi, tutto quello che vien
cose amate, ma li chiamano virtù , similmente loro non solo alla mente, ma nella bocca. Or
coloro che odiano, non solo giudicano le virtù non s'è egli letto in autore letteratissimo
essere minori di quello che sono nelle cose in tutte le lingue e di grandissima dottrina e
odiate, ma le ruputano vizi, chiamando, verbi giudizio nelle lettere umane (1), in un Dialogo
grazia, uno che sia liberale, prodigo, o scia contra l'imitazione, intitolato Il Ciceroniano,
lacquatore, e uno ben parlante, gracchia o oltra molte altre cose indegne d'un tanto no
cicalone. mo, esser anteposto Fra Batista Mantovano a
C. Ond'è che quasi tutti gli uomini s'in messer Jacopo Sincero Sanazzaro, e poco di
gannano più spesso, e maggiormente in giu poi affermare che egli val più un inno solo
dicando sè stessi che gli altri, e le lor cose di Prudenzio che tutti e tre i libri della Cri
proprie che l'altrui? steide, ovvero del Parto della Vergine?
V. Levate pure quel quasi, e rispondete: C. E trovasi chi dica cotesto ?
perchè tutti amano più sè stessi che altri, e V. Questo appunto che io v' ho detto.
più le loro cose proprie che l'altrui; e per C. E trovasi chi gliele creda?
chè i figliuoli sono la più cara cosa che ab V. Cotesto non so io.
biano gli uomini, e i componimenti sono i fi C. A me pare che egli vi sia quella diffe
gliuoli de componitori, quinci avviene che renza che è dal cielo alla terra.
ciascuno, e massimamente coloro che sono più V. E a me, quella che è dalla terra al cie
boriosi degli altri, nel loro componimenti s'in lo, e più, se più si potesse,
gannano, come dicono che alle bertucce pajo C. Io non mi maraviglio più, che alcuni ten
no i loro bertuccini la più bella e vezzosa gano più bella la Risposta del Castelvetro, che
cosa che sia, anzi che possa essere in tutto l'Apologia del Caro. Ma ditemi, il vero non
il mondo. vince egli sempre alla fine e si rimane in
C. Intendo, ma sonoci altre cagioni della sella (2) ?
diversità de' giudizi ? V. Io per me, come dissi di sopra, credo
V. Sonci. Quanti credete voi che si tro di si.
vino i quali non dicono le cose come le in C. Ditemi ancora, è egli vero che il tempo,
tendono, parte perchè non vogliono dispiacere, come tutte l'altre cose, così muti ancora i
parte perchè vogliono piacere troppo e parte giudizi degli uomini e gli faccia variare ?
ancora per non iscoprirsi, nè lasciarsi inten V. Ben sapete; perchè non pure un uomo
dere? Quanti che dicono solamente, e affer medesimo ha altro giudizio da vecchio, che
mano per vero quello che eglino hanno sentito egli non aveva da giovane; il che però non
dire o vero, o falso che egli si sia ? Quanti è cagionato dal tempo, se non per accidente,
i quali, o seguitando la natura dell'uomo, la ma molti uomini d'una età hanno diverso giu
quale è superba, e pare in non so che modo, dizio in quelle medesime cose che non ave
che più sia inchinata a riprendere che a lo vano molti uomini d' un' altra età.
dare, o pure la lor propria, per mostrare di C. Datemene un esempio.
sapere a quelli che non sanno, o sanno manco V. Dopo la morte di Cicerone e di Vir
di loro, danno giudizio temerariamente sopra gilio, due chiarissimi specchi della lingua la
ogni cosa e tutte le biasimano; e se pure le tina, cominciò il nodo dello scrivere romana
lodano, le lodano cotale alla trista, e tanto a mente, così in versi come in prosa, a mutarsi
malincorpo, che meglio saria che le biasimas e variare da sè medesimo, e andò tanto di
sero? Sono oltre ciò non pochi i quali piglian mano in mano peggiorando, che non era quasi
dosi giuoco delle contese e travagli altrui,
parte si stanno da canto a ridere, e parte uc (1) Intende d'Erasmo di Rotterdam; ma perchè il Varchi
cellando, come si dice, (1) l' oste e il lavo non riporta qui per appunto l'opinione d'Erasmo, soggiugnerò
ratore, danno, per mettergli al punto, ora un le sue stesse parole. Parlando adunque Erasmo del Samazzaro
colpo al cerchio e ora uno alla botte; e quelli dice: Hoc nomine praeſerendus est Pontano, quod rem sacrº
tractare non piguit, quod nec dormitarter eam, neº inammucrte
che non possono all'asino, usano di dare al
basto. Può eviandio molto l'invidia e non tractavit, sed meo quidem suffragio plus laudis erat latº, si
meno l'emulazione, senzachè l'ambizione de materian sacram tractasset al guanto sacratius; qua º º
relevius peccavit Baptista Mantuanus, quannuam et º in
hujusmodi argumentis uberior. Me multis: si carmen hoc
(1) Proverbio, che significa: ingannare il padrone, e il con proferas ut specimen adotescenti, poeti en meditantº: e roscula
tadino; che oste si diceva il padrone del podere, e lavoratore bor: si ut carmen a viro serio scriptum ad pietatem, longe
il contadino che lo lavorava. Qui vale: burlarsi dell'una par praeferam unicum hymnum Prudentianum de Natali Jesu tri
te, e dell'altra. «Questo proverbio è riferito nell'ultima in bus libetlis Accii Synceri.
pressione del Vocabolario della Crusca alle voci Lavoratore (2) Petr., Canz. XXXl V, 6. Vinta l ver dunque, e si ri
e O»le 12. maroa in sella.
31 o L' ERCOLANO -

più quel desso; e nondimeno tutti gli scrit piaggiare e rendersi amico Lorenzo, il cre
tori che venivano di mano in mano, seguita dito, e la potenza del quale erano in quel
vano la maniera dello scrivere del tempo loro, tempo grandissimi.
come quelli i quali o la tenevano per mi V. Troppo sarebbe stata aperta e manife
gliore, ancorchè vi fosse differenza maravi stamente ridicola cotale adulazione, se dagli
gliosa, o, se pur la conoscevano, come con uomini di quella età la buona e vera ma
fessano alcuna volta, pareva loro o di non niera dello scrivere conosciuta si fosse. E il
poter fare altramente, o di non volere. Il me Magnifico, il quale non era meno prudente,
desimo nè più nè meno avvenne nella lingua che egli si fosse potente, n' arebbe preso o
fiorentina; perchè spenti Dante, il Petrarca sdegno, o giuoco, e se non egli, gli altri. Nè
e'l Boccaccio, cominciò a variare, e mutarsi sarebbe mancata materia al Pico di potere
il modo e la guisa del favellare e dello scri veramente commendare Lorenzo, senza biasi
vere fiorentinamente, e tanto andò di male mare non veramente il Petrarca e Dante;
in peggio, che quasi non si riconosceva più; perchè nel vero egli (1) con messer Agnolo
come si può vedere ancora, da chi vuole, nelle Poliziano e Girolamo Benivieni furono i pri
composizioni dell'Unico Aretino, di messer mi, i quali cominciassero nel comporre a riti
Antonio Tibaldeo da Ferrara e d'alcuni al rarsi e discostarsi dal volgo, e, se non ini
tri, le quali sebbene sono meno ree e più tare, a volere o parere di volere imitare il
comportevoli di quelle di Panfilo Sasso, del Petrarca e Dante, lasciando in parte quella
Notturno, dell'Altissimo e di molti altri, non maniera del tutto vile e plebea, la quale as
però hanno a far cosa del mondo nè colla sai chiaramente si riconosce ancora eziandio
dottrina di Dante, nè colla leggiadria del Pe nel Morgante Maggiore di Luigi Pulci, e nel
trarca. Ciriffo Calvaneo di Luca suo fratello, il quale
C. Che segno avete voi che eglino si per nondimeno fu tenuto alquanto più considerato
suadessino che lo stile nel quale essi così lai e meno ardito di lui.
damente scrivevano, fosse o più dotto di quel C. Io ho sentito molti i quali lodano il Mor
di Dante, o più leggiadro di quel del Petrar. gante di Luigi maravigliosamente, e alcuni che
ca? e con quale argomento potrete voi pro non dubitano di metterlo innanzi al Furioso
vare che gli altri il credessero loro? dell'Ariosto.
V. Se essi si fossero altramente persuasi, V. Non v' ho io detto ch” ognuno ha il suo
non avrebbero gran fatto il corrotto e gua giudizio ? A me pare che il Morgante, se si
sto scrivere della loro, ma il puro e sincero paragona con Buovo, col Danese, colla Spa
dell'antica età seguitato: e gli altri, se non gna, coll'Ancroja e con altre così fatte, non
avessino loro creduto, e non si fossero mag so se debba dire composizioni, o maladizioni,
giormente di quel dire, che di quell'altro di sia qualche cosa; ma agguagliato al Furioso
lettati, non avrebbono lasciati dall'una delle rimanga poco meno che nulla, sebbene vi sono
parti gli antichi, apprezzati, letti, lodati e per entro alcune sentenze non del tutto inde
cantati i componimenti moderni, come fecero. gne e molti proverbi, e riboboli Fiorentini
A questo s'aggiugne che Giovanni Pico, conte assai propri e non affatto spiacevoli (2).
della Mirandola, uomo di singolarissimo inge C. Credete che queste opinioni così stratte
gno e dottrina, in una lettera latina la quale abbiano secondo la sentenza di Platone a ri
egli scrisse al magnifico Lorenzo de' Medici tornare le medesime in capo di trentasei mila
vecchio, che comincia (1) : Legi, Laurenti Me anni? -

dices, rithmos tuos, non solo lo pareggia, ma V. Non so; so bene che Aristotile afferma
lo prepone indubitatamente così a Dante, co che tutte l'oppenioni degli uomini sono state
me al Petrarca; perchè al Petrarca (dic'egli) per lo passato infinite volte, e infinite volte
mancano le cose cioè i concetti, e a Dante saranno nell'avvenire.
le parole cioè l'eloquenza; dove in Lorenzo C. Dunque verrà tempo che il Morgante
non si disiderano nè l'une, nè l' altre, cioè sarà un'altra volta tenuto da alcuni più lo
nè le parole, nè le cose. Poi in rendendo le
cagioni di questo suo giudizio e sentenza, rac (1) Nella locuzione il Poliziano ha imitato Dante e ºl Pe.
conta molte cose, le quali non sono approvate trarca, ma essendo d'ingegno altissimo e di una vasta let
nel Petrarca, e molte le quali sono riprovate tura degli antichi poeti, e in ispezie de greci, ha composto
in Dante, delle quali niuna, dice, ritrovarsi in una maniera che ha una vaga novità, e che sente molto
in Lorenzo ; e insomma conchiude che nelle della greca poesia. Il Magnifico e il Benivieni hanno forse
rime di Lorenzo sono tutte le virtù che si preteso di imitare il Petrarca, ma il secondo più rozzamente,
e con un cattivo stile. Anzi questi nelle sue rime spirituali
trovano in quelle di Dante e del Petrarca, non sembra nè pur d'averlo veduto; cotanto elle ne sono di
ma non già nessuno de'vizi. Le quali cose lungi. Parte delle quali rine spirituali per una incredibile igno
egli mai affermate così precisamente non areb ranza e inaudita barbarie sono state ristampate tra le rime
be, se i giudizi di quel secolo fossero stati Burlesche del Berni, poco tempo fa, come se fossero poesie
sani e gli orecchi non corrotti. scherzose e piacevoli, in una edizione che apparisce fatta in
C. Il fatto sta, che egli scriveva coteste cose Usect al Reno; cotale è stato il giudizio e l'intelligenza di
chi ha procurata questa ristampa.
non perchè gli paressero così, ma per voler (2) Anzi piacevolissimi, soggiunge in nota monsignor Bot
tari; ed io son ben lieto di poter confortare coll'autorità di
(1) Epistola 5, a c. 348, t. I dell' edizione di Basilea questo preclaro filologo l'opinione, che sul conto del Mor
del 15,2. gante misi fuori nella nota alla pag. 25. ( d.)
DIALOGO 31 i
devole che 'i Furioso ? e la Risposta di mes C. Io so cotesto ; ma io so anche che voi
ser Lodovico Castelvetro più lodata che l'A- quando eravate in Bologna col reverendissimo
pologia di messer Annibal Caro? vicelegato monsignor Lenzi, vescovo di Fer
V. Verrebbe senza fallo, non dico una volta, mo, mi diceste una volta, andando noi a vi
ma infinite, se quello vero fosse che dice il sitare i frati di San Michele in Bosco su per
maestro de filosofi (1), cioè se il mondo fosse quell'erta, e un'altra me lo raffermaste, spas
eterno, e, come non ebbe principio mai, così seggiando sotto la volta della Vergine Maria
mai non dovesse aver fine. del Baracane, che come chi voleva chiamar
C. Io vi dirò il vero : coteste mi paiono me pel mio proprio e diritto nome, mi doveva
prette eresie e per conseguente falsità. chiamare Cesare Ercolani, e non uomo o ani
V. Elle vi possono ben parere, poichè elle male; così chi voleva nominare propriamente
sono, e dirittamente la lingua, colla quale oggi si ra
C. Perchè dunque le raccontate? giona e scrive volgarmente, l'appellasse fio
V. Perchè, se io non v' ho detto, io ho vo rentina, e non toscana o italica: la qual cosa
luto dirvi che io favellava in quel caso se mi die molte volte che pensare, mentre io leg
condo i filosofi, e massimamente i Peripatetici. geva la risposta del Castelvetro; perchè, oltra
C. E perchè non secondo i teologi? che egli dice nella seconda faccia della quarta
V. Perche le sentenze de teologi essendo carta, che la lingua toscana è la volgare scelta
verità, non che vere, s' hanno a credere e non e ricevuta per le scritture, egli la chiama
a disputare; e se pur s' hanno a disputare, molte ſiate italica (1), e messer Annibale poeta
s' hanno a disputare da quelle persone sola italiano, e spesso ancora usa dire nella lingua
mente, alle quali da loro superiori è stato che nostra ; il che vorrebbe significare, se egli ita
ciò fare debbiano, commesso e ordinato. liana non la credesse, modanese, essendo egli
C. se quei tre che voi avete raccontati di da Modena. Ora io non sapeva, nè so ancora,
sopra, tra quali il Poliziano, come mostrano se la toscana e la lingua scelta e ricevuta per
le sue dottissime Stanze, benchè imperfette, le scritture, perchè egli, scrivendo, la chiami
fu più eccellente, vollero piuttosto imitare il ora nostra e ora italica; e se dicesse che vuol
Petrarca, che eglino l'imitassero; chi fu il porre alle sue scritture nome a suo modo, ol
primo, il quale osservando le regole della trachè ciò per avventura lecito non gli sareb
grammatica, e mettendo in opera gli ammae be, egli doveva chiamare messer Annibale poeta,
stramenti del bene e artifiziosamente scrivere, se non fiorentino (non facendo egli menzione
l'imitò daddovero, e rassomigliandosi a lui alcuna in luogo nessuno, che la lingua sia fio
mostrò la piana e diritta via del leggiadra rentina) almeno toscano: perchè di grazia vi
mente e lodevolmente comporre nella lingua prego che non vi paja fatica, dichiarandomi
fiorentina ? come questa benedetta lingua battezzare e
V. Il reverendissimo monsignor messer Pie chiamare si debbia, sciormi questo nodo, il
tro Bembo Veneziano, uomo nelle greche let quale mi pare avviluppatissimo e stretto molto.
tere e nelle latine e in tutte le virtù che a V. La strettezza e avviluppamento di questo
gentiluomo s'appartengono, dottissimo ed eser nodo, il quale per sua natura è piuttosto cap
citato molto, e insomma, benchè da tutti gli pio che nodo, nacquero da due cagioni prin
uomini dotti sommissimamente, non però mai cipalmente, l'una delle quali è la poca cura
bastevolmente lodato. che tennero sempre i Fiorentini della loro lin
C. Egli mi pare strana cosa che un fore gua propria; l'altra il molto studio che hanno
stiero, quantunque dotto e virtuoso, abbia a posto alcuni Toscani e Italiani per farla loro.
dar le regole e insegnare il modo del bene Ma sappiate, Conte mio caro, che a volere che
scrivere e leggiadramente comporre nella lin voi bene e perfettamente la risoluzione inten
gua altrui: e ho sentito dire a qualcuno che deste di questo dubbio, sarebbe di necessità
egli ne fu da non so quanti de' vostri Fioren che io vi dichiarassi prima molte e diverse
tini agramente, e come presuntuoso e come cose intorno alle lingue; le quali dubito che
arrogante, ripreso. a un bisogno non vi paressero o poco degne
V. Ella non è forse così strana, quanto ella e profittevoli, o troppo sazievoli e lunghe, sic
vi pare: e coloro che così aspramente e fal chè io penso che per questa volta sarà il me
samente lo ripresero, fecero così, perchè così glio che ce la passiamo.
credevano per avventura che a fare s'avesse; C. Voi m'avete toccato appunto dove mi
e la regola di Aristotile è, che egli non si doleva, conciossiacosache io da che fui con
debbia por mente a quello che ciascuno dice, quella lieta e onorata compagnia alla Pieve di
potendo ognuno dire ogni cosa. Ma perchè San Gavino (2) concedutavi dal Duca vostro,
chiamate voi il Bembo forestiero, se egli fu e vi sentii un giorno fra gli altri ragionare
da Venezia, e Vinegia è in Italia ? E pare che sotto l'ombra di quel frascato che copriva la
voi non sappiate che quasi tutti coloro i quali
scrivono o nella lingua, o della lingua volgare,
(1) Cioè messer Annibal Caro.
la chiamano italiana o italica; dove quelli che (2) Luogo vicino a Barberino di Mugello, donde il Var
la dicono toscana sono pochi, e quelli che fio chi inviò l'anno 1546 la sua traduzione di Seneca de' Bene
rentina pochissimi. fizi, alla Duchessa Eleonora di Tvledo; come ho veduto nel
l'originale di mano del Varchi, benchè nella Dedicaloria slan
(1) Arist. lib. VIII, e , 2 e 3 della Fisica. l pata manchi la data.
312 L' ERCOLANO
fonte, parte dalla natura e parte manualmente voi e gli altri (se ad altri voi, o messer Lc
fatto, della bellezza e onestà della lingua, la lio Bonsi, le direte mai) sappiano quale è l'opi
quale voi dicevate essere fiorentina, ma la chia penione mia, e possano coll'altre comparan
mavate, non mi ricordo e non so per qual ca dola, che moltissime e diversissime sono, quella
gione, toscana e alcuna volta italica, arsi d'un eleggere la quale, se non più vera, almeno più
disiderio incredibile d'appararla. Ma come co verisimile parrà loro che sia, non aspettando
loro i quali s'imbarcano senza biscotto, o si io di ciò, non che maggiore, altra lode al
trovano in alto mare senza bussola, non pos cuna, d'avere lealmente e con sincerità pro
sono gran fatto o non morirsi di fame, o non ceduto, e rimettendomi liberamente al giudi
lungamente andare aggirandosi per perduti; zio e diterminazione di tutti coloro i quali
così io, essendo in questo cammino senza quelle sanno di queste cose e più dentro vi sono eser
cose entrato che a ben fornirlo sono necessa citati di me. Per che potete cominciaro a posta
rie, e non avendo chi la via m'insegnasse e vostra.

mostrasse i cattivi passi, non poteva in modo C. Per non perdere tempo, nè usare ceri
alcuno, non che felicemente, compirlo, perchè monie in ringraziarvi, vi propongo primiera
quanto più procedeva innanzi e m'affrettava mente queste sei dubitazioni :
di doverne giugnere al fine, tanto mi trovava I. Che cosa sia favellare.
maggiormente dalla buona e diritta strada, lI. Se il favellare è solamente dell'uomo.
non che dalla destinata e disiderata meta, lon III. Se il favellare è naturale all'uomo.
tano: nè vi potrei narrare, quante dubitazioni IV. Se la Natura poteva fare che tutti gli
e circa il favellare e circa lo scrivere mi na uomini, in tutti i luoghi e in tutti i tempi
scevano, non dico ogni giorno, ma a tutte l'ore, favellassino d'un linguaggio solo e colle me
Laonde, se vi cale di me, come so che vi cale, desime parole.
e se volete fare gran cortesia, come son certo V. Se ciascuno uomo nasce con una sua pro
che volete, o voi mi cavate di questo labirinto pria e naturale favella.
voi, o voi mi porgete lo spago, mediante il VI. Quale fu il primo linguaggio che si fa
quale possa uscirne da me. -
vellò, e quando e dove e da chi e perchè
V. Che vorreste voi che io facessi, non sap fosse dato.
piendo io più di quello che mi sappia, e non
potendo voi soprastare qui e soggiornare più
che questa sera sola? V, II, PARLARE, ovvero FAvELLARE UMANo este
C. Del primo lasciatene il pensiero a me: RioRE, NoN È ALTRo citE MANIFESTARE AD ALCUNo
del secondo m'incresce bene, ma mi baste
I concerti DELL'ANIMo MEDIANTE LE PARoLE.
rebbe per oggi, che voi mi dichiaraste quanto C. Sebbene egli mi pare avere inteso tutta
potete agevolmente e minutamente più, alcune
dubitazioni e quesiti che io vi proporrò di questa diſfinizione del parlare assai ragione
mano in mano, pertinenti generalmente alla
volmente, nondimeno io avrò caro che voi per
cognizione delle lingue, e in ispezie della fio mia maggior certezza la mi dichiariate diste
rentina e della toscana, avendo in ciò fare non samente parola per parola.
al disagio e fatica vostra, ma al bisogno e uti V. Della buona voglia. Io ho detto PARLARE,
ovvero FAvELLARE, perchè questi due verbi
lità mia, risguardo.
V. Così potess'io soddisfarvi quanto vorrei, sono (come dicono i Latini con greca voce)
come vi compiacerò come debbo e quanto sa sinonimi, cioè significano una cosa medesima,
come ire e andare, e molti altri somiglianti:
prò, tanto più che non solo il magnifico mes ho detto UMANo a differenza del divino, con
ser Lelio Torelli (1) ed il molto reverendo priore
degli Innocenti don Vincenzio Borghini, uomini ciossiacosachè gli angeli, secondo i teologi,
favellino anch'essi non solamente tra loro, ma
di bontà e dottrina piuttosto singolare che
rara, m'hanno, che io ciò fare debbia, cal ancora a Dio, benché diversamente da noi; e
dissimamente molte volte richiesto e pregato; il medesimo si deve intendere degli avversari
ma eziandio l'eccellentissimo maestro France loro e nostri: ho detto esteriore, ovvero EsTrin
sco Catani, col quale sono con molti e stret seco, a differenza dello interiore, ovvero in
tissimi nodi indissolubilmente legato. Diman trinseco, cioè interno, perchè molte volte gli
uomini favellano tra loro stessi, e seco mede
datemi dunque di tutte quelle cose che vo
lete, che io vi risponderò tutto quello che ne simi, come si vede in messer Francesco Pe
trarca, che disse:
saperò, senza farvi più solenne scusa o prote
stazione del sapere e voler mio, se non che io, Io dicea fra 'l mio cor, perchè parenti (1) ?
già sono molti anni, ho ad ogni altra cosa va e altrove nella Canzone grande:
rato, che alle lingue; e che tutte quelle cose
che io dirò, saranno, se non vere, certo da E dicea meco, se costei mi spetra (º),
me vere tenute e dette solamente, affinchè
e più chiaramente in tutto quel Sonetto che
C'Oilli la Cia -
(1) Lelio Torelli, nato in Fano nel 1489, fu dollissimo
nella civile giurisprudenza, e benchè mai dalla cattedra non Che fai alma? che pensi (3)?
l' insegnasse, la giovò nondimeno moltissimo co lumi suoi:
oltre moltº opere legali ch” ci diede in luce, attese a fare (1) Sonetto LXXXVII.
una nuova e più esatta edizione delle Pandette, che fu puº (2) Canzone I V, V.
llicata in Firenze dal Torrentino nel 1553. (M ) (3) Sonetto CXVII.
DIALOGO 313
Ho detto MANIFEsTARE, cioè sprimere e dichia V. Perchè i filosofi non vogliono che al
rare, il qual verbo è il genere del favellare l'intelligenze, che così chiamano essi gli Agno»
in questa diffinizione. Ho detto ad alcuno, per. li, faccia di mestieri il favellare in modo al
chè non solo favellavano gli uomini tra sè me cuno, intendendosi tra loro immediatamente, e,
desimi, come pure testè vi dicea, ma eziandio come noi diciamo, in ispirito.
in sogno, e talvolta o a'monti, o alle selve, C. Egli mi pare avere inteso che nelle dif.
come quando Virgilio dice di Coridone nella finizioni non si debbono porre nomi sinonimi,
seconda Egloga : perchè dunque diceste voi PARLARE, ovvero fa
. . . . . . ibi haec incondita solus vELLARE ?

Montibus, et sylvis studio jactabat inani: V. Egli è vero che nelle diffinizioni, parlando
o al vento, onde il Petrarca disse:
generalmente, non si deono mettere nè nonni
sinonimi, ne metafore, ovvero traslazioni; ma
Dopo tante, che 'l vento ode e disperde (1). quando il porvi o queste, o quelli giova ad
o a chi non può o non vuole udire, come alcuna cosa, come esempigrazia, a rendere la
quando il medesimo Petrarca disse: materia della quale si tratta, più agevole, non
solo non è vizio il ciò fare, ma virtù, come
Poi, lasso ! a tal che non m'ascolta, narro si vede che fece Aristotile stesso contra le sue
Tutte le mie fatiche ad una ad una, regole medesime. E devete sapere che alcuni
E col Mondo, e con mia cieca Fortuna, vogliono che tra parlare e favellare, sia qual
Con Amor, con Madonna e meco garro (2). che differenza, non solamente quanto all'eti
Ho detto i concerti dell'Asino, perchè il fine mologia, ovvero origine (1), dicendo che fa
di chi favella è principalmente mostrare di vellare viene da fabulari, verbo latino; il che
fuori quello che egli ha racchiuso dentro nel noi crediamo: e parlare da trapazz) siv, verbo
l'animo, ovvero mente, cioè nella fantasia, greco; il che non crediamo, avendolo i To
perchè nella virtù fantastica si riserbano le scani per nostro giudizio preso come molte
immagini, ovvero similitudini delle cose, le altre voci dalla lingua provenzale; ma ancora
quali i filosofi chiamano ora spezie, ora inten in quanto al significato; la qual cosa a me non
zioni, ed altramente; e noi le diciamo propria pare, usandosi così nello scrivere, come nel
mente concetti, e talvolta pensieri, ovvero in favellare, quello per questo e questo per quello.
tendimenti, e bene spesso con altri nomi. Ho C. Non ha la lingua toscana più verbi che
detto MEDIANTE LE PAnoLE, perchè ancora con questi due per isprimere così nobile e neces
atti, con cenni e con gesti si possono, come saria operazione, quanto è il parlare o il far
vellare?
per istrumenti, significare le cose ; come si
vede chiaramente ne'mutoli tutto'l giorno; e V. Hanne certamente.
meglio si vedeva anticamente in coloro, i quali, C. Di grazia raccontatemegli,
senza mai favellare, recitavano le commedie e V. Eglino sono tanti e tanto vari, che il
le tragedie intere intere, solamente co' gesti, raccontargli e dichiararvegli, perchè altramente
la qual cosa i Latini chiamavano saltare. E chi non gli intendereste, sarebbe cosa, non dico
non sa che chinando alcuno la testa a chi al lunga, e massimamente essendo noi qui per
cuna cosa gli domanda, egli con tale atto ac ragionare tutto quanto oggi, ma che ci tra
consente e dice di sì, onde i Latini fecero il vierebbe per avventura troppo dall'incomin,
verbo annuere: e chi dimena il capo, per lo ciato cammino. Ben vi prometto, che se mi
contrario, dice di no, onde i medesimi Latini verrà in taglio il ciò fare, e se ne arò destro,
formarono il verbo abnuere (3)? Onde nacque e, se non prima, spedite che saranno le qui
che vendendosi un giorno in Roma allo 'ncanto stioni proposte da voi, non mancherò, per
alcune robe del fisco, Cajo imperadore, se quanto per me si potrà, di contentarvi ; ma
ben mi ricorda, veggendo uno il quale, vinto ricordatemi la quistione che seguita.
dal sonno, inchinava il capo, come si fa spes C. Se il favellare, ovvero parlare è solamente
samente, comandò a colui che incantava che dell'uomo.
crescesse il prezzo fuori d'ogni dovere, e volle, V. Solo l' uomo e niuno altro animale pro
secondochè, racconta Svetonio, che colui, quasi priamente, favella.
avesse detto di sì col cainar la testa, pagasse C. Perchè ?
quel cotal pregio. V. Perchè solo l'uomo ha bisogno di far
C. Cotesto fu atto da Cajo e non d'impe vellare,
radore. Ma ditemi, perchè aggiugneste voi, C. La cagione?
quando favellavate degli Agnoli, quelle parole V. La cagione è (2) perchè l'uomo è ani
secondo i teologi? male più di tutti gli altri sociabile, ovvero com
pagnevole, cioè nasce non solamente disidero
(1) Questo verso non è del Petrarca, come per errore di so, ma eziandio bisognoso della compagnia,
memoria dice qui il Varchi, ma del Bembo nel lib. ll, de
gli Asolani. non potendo, ne dovendo vivere per li boschi
(2) Sonetto CLXXXVII. solo e da sè, ma nelle città insieme con gli
(3) Sveton. in Calig. Cap. 38 Notares est, Aponio Sa altri: se già non fosse o grandissimamente per
turnino inter subsellia dormitante, monitum a Cajo praeco
nem, ne praetorium virum crebro capitis motu nutanten sibi (1) II Menagio fa derivare Facellare dal latino Fabellare;
praeteriret: nec incendi finem factum, quoad tedecim gladia e Parlare dal provenzale Parler.
autore, H. S. nonagies ignoranti addicerentur. (2) Ci de I went. lib. 1.
V Aliu.li i V. 1. 4o
3 14 L'ERCOLANO
ſetto, il che si ritrova in pochi: o del tutto come era stato ammaestrato da lui: Ave, Cae
bestia. sar victor Imperatori delle quali parole mara
C. Dunque il parlare fa che l'uomo è ani vigliandosi Cesare, lo comperò un gran da
male civile, ovvero cittadino ? majo; per la qual cosa un compagno di quel
V. No, anzi il contrario; l'essere l'uomo sarto, avendogli invidia, disse a Cesare : Egli
animal civile o cittadino da natura fa che n' ha un altro, fate che egli ve lo porti ; fu
egli ha il parlare. - portato il corvo, e non prima giunto alla pre
C. A cotesto modo le pecchie che hanno i senza d'Augusto, disse, secondo che gli era stato
loro re, e le formiche che vivono a repubbli insegnato : Ave, Antoni victor Imperator. La
ca, e molti altri animali i quali, se non sono qual cosa non ebbe Cesare a male, ne volle
civili, perchè questa parola non credo che che a quel sarto il quale per giucare al si
caggia, se non tra gli uomini, sono almeno curo aveva tenuto il piè in due staffe, si desse
sociabili e gregali, per dir così, hanno bi altro gastigo, che fargli dividere per metà col
sogno del favellare, come si vede in alcuna suo compagno quel prezzo che Cesare pagato
sorte d' uccelli che volano in frotta e nelle gli avea. Soggiugne ancora (1), che un altro
pecore e negli altri animali che vanno a schiera? buono uomiciatto, mosso da cotale esempio, co
V. Ancora a cotesti non mancò la Natura, minciò ad insegnare la medesima salutazione
perciocchè in vece del parlare diede loro la ad un suo corvo; ma perchè egli non l'impa
voce, la quale, siccome è spezie del suono, rava, lamentandosi d'aver gettato via il tem
così è il genere del favellare, mediante la qual po, e i danari, diceva: Opera et impensa pe
voce possono mostrare e a sè stessi e agli al riit. Finalmente avendo imparato, salutò Ce
tri quello che piace e quello che dispiace loro, sare che passava, e avendo Cesare risposto: Io ho
cioè la letizia e il dolore e tutte l'altre pas in casa di cotali salutatori pure assai; il cor
sioni ovvero perturbazioni che nascono da vo, sovvenutogli di quello che solea dire il
questi due. suo padrone, soggiunse: Opera et impensa pe
C. E credete che possano gli animali me riit; per le quali parole Cesare cominciò a ri
diante la voce significare i concetti loro l'uno dere, e lo fece comperare molto più che non
all'altro, o a noi uomini? aveva fatto gli altri. Se queste sono storie e
V. I concetti no, ma gli aſſetti dell'animo, non favole, si può dire che anche degli ani
cioè le perturbazioni sì. mali favellino.
C. Dante disse pure: V. Qual volete voi maggiore o più bella,
Così per entro loro schiera bruna che quel pappagallo che al tempo de'padri
S'ammusa l'una coll'altra formica nostri comperò il cardinale Ascanio (2) in Ro
Forse a spiar lor via e lor fortuna (1). ma cento fiorini d'oro, il quale, secondochè
racconta (3) messer Lodovico Celio, uomo di
V. Dante favellò come buon poeta, e di più molta e varia letteratura, nel terzo capitolo
v'aggiunse, come ottimo filosofo, quella par delle sue Antiche Lezioni, pronunziava tutto
ticella.forse, la quale è avverbio di dubita quanto il Credo non altramente che archbe
zlone, fatto un uomo ben letterato ? E contutto ciò
C. Ditemi un poco, gli stornelli, i tordi, le questo non si chiama, nè è favellare, ma con
putte ovvero gazze, e le ghiandaje, e gli al traffare e rappresentare le parole altrui senza,
tri uccelli i quali hanno la lingua alquanto più non che sprimere i propri concetti, sapere
larga degli altri, non favellano ? quello che dicano; onde a coloro che favel
V. Signor no. lano senza intendersi e in quel modo, eome
C. Lattanzio Firmiano (2) scrive pure nel volgarmente si dice, che fanno gli spiritati,
principio del decimo capitolo della Falsa Sa cioè per bocca d'altri, s'usa in Firenze di
pienza, che gli animali non solamente favel dire: Tu ſavelli come i pappagalli, come quello
lane, ma ridono ancora. che dicono degli elefanti, non si chiama scri
V. Egli non dice, se ben mi rammento, che vere propriamente, ma formare e dipignere
gli animali ne favellino, nè ridano, ma che le lettere.
pare che ridano e favellino. C. Gli auguri antichi e Apollonio Tianeo (4),
C. Io mi ricordo pure che Macrobio (3) nei non intendevano le vis-i degli uccelli ?
secondo libro de' Saturnali racconta come un V. Credo di sì, perchè tutti quelli che sordi
certo sarto, quando Cesare avendo vinto An non sono, le intendono: ma le significazioni
tonio se ne ritornava come trionfante a Roma,
gli si fece innanzi con un corvo il quale disse, (1) Macrob. Saturn. lib. lI, cap. 4.
(2 , ll Cardinale Ascanio Maria Sforza, fratello al troppo
(1) Dante, Purgatorio XXVI. famoso Lodovico il Moro, fu de più generosi protettori delle
(2) Lattana. lib. lil, cap. re. Quum enim (animalia) sua, lettere e delle arti del secolo XV. (M.)
coces propries inter se notis discernunt atque dignoscumt, collo (3) Celio Rodigino lib. lll, cap. ult. Ceterun, ne silebo
qui ridentur: ridendigue ratio apparet in his aliqua, quum de parte hac miraculum insigne nostris visum temporibus. Psitta
mulsis auribus, contractoque rictu, et oculis in lasciviam resa cus hu fuit Ascanii Cardina is Roma e aucis centun compa
lutis, aut homini alludunt, aut suis quisque coniugibus ac fae ratus numnis, qui crticulatissime continuatº perpetuo erºis
tibus propriis. Christianae veritatis rinboluu integre pronuntiaia, perinde
(3) Macrobio ne' Saturn. lib li, cap. 4, il quale nen ac eir peritus enuntiaret. Vedi il Menagio nelle Note al So
dice che fosse un sarto; ma a un sarto segui altro caso qui netto XN XVI l del Casa.
appresso nauralo. (4) Filosliato nella Vita d'Apollonio lib. I.
DIALOGO 3I

delle voci, credo di no, se non in quel modo rebbe che anco quelli animali che pascono a
che s'è detto di sopra. - branchi, e vivono insieme, come le gregge e
C. Che direte voi delle statue d'Egitto, le gli armenti, dovessero avere il parlare.
quali, secondochè alcuni autori (1) affermano, V. Io v'ho detto di sopra che cotesti hanno
favellavano ? in quello scambio la voce, la quale serve loro
V. Non dirò altro, se non che io nol credo. a significare e tra se e agli altri, quanto loro
C. Pur ve ne racconterò una che voi cre abbisogna ; ma gli uomini hanno a sapere e
derete, e non potrete negarla. significare ancora quello che giova e quello
V. Quale? che nuoce, cioè l' utile e il danno, il bene e
C. L' asina di Balaam (a). il male, il bello e il brutto, il giusto e l'in
V. Cotesto avvenne miracolosamente, e noi giusto, e sopra tutto l'onesto; le quali cose
favelliamo secondo l'ordine e possanza della nè intendono, nè curano gli altri animali.
natura. / C. Come no? Lasciando stare le tante e tanto
C. State saldo, che io vi corrò a ogni mo maravigliose cose che racconta Plutarco, scrit
do, e vi farò confessare che non alcune, ma i
tore gravissimo, in quella operetta che egli
tutte le bestie favellano, quandochè sia. scrisse grecamente, e intitolò : Se gli animali
V. Alle mani; dite su. bruti erano dotati di ragione, non sapemo noi
C. Non dice Aristotile che quello che cre che quello elefante che fu mandato nel tempo di
dono tutti, o la maggior parte degli uomini, Papa Lione a Roma, sopra'l quale si coronò (1)
non è mai vano e del tutto falso ? poi l'Abate di Gaeta, non voleva, giunto che
V. Dicelo. - - -
fu al mare, imbarcarsi a patto nessuno, nè
C. Dunque non negherete voi che il giorno mai, per molto che stimolato fosse, si potè
di Befania favellino le bestie. condurre a entrare in nave, infinochè colui
V. Anzi lo negherò, perchè il detto comune che n'era guardiano, non gli promise di do
non dice ciò del giorno di Befania, ma della verlo vestire d'oro e porgli una bella collana
notte: onde possiamo conchiudere con verità al collo e altre cose così fatte?
che il parlare è solamente dell'uomo, e ve V. Io non dico che gli animali bruti non
nire alla terza dubitazione. facciano cose maravigliosissime, come sono i
C. Ditene dunque: Se il parlare è naturale nidi delle rondini e le tele de ragni; e che
all' uomo. non si muovano e ubbidiscano alle parole e
V. Che intendete voi per naturale? a cenni di chi gli minaccia o accarezza, come
C. Se l'atto e l' operazione che fanno gli si vede ne' cani, e ne cavalli; ma dico che
uomini del favellare, viene loro dalla natura, fanno ciò non per discorso, mancando essi di
o pure d'altronde? ragione, ma o per instinto naturale, o vera
, V. Dalla natura senza alcun dubbio. mente per consuetudine. -

C. Per che ragioni ? C. Dichiarate, se vi piace, la seconda ra


V. Per due principalmente. gione. - -

C. Quali? V. La natura ha dato agli uomini gli stru


V. Voi dovete sapere che la natura non dà menti, mediante i quali si favella, dunque ha
mai alcun fine, che ella non dia ancora i mezzi dato ancora il fine, cioè il favellare.
e gli strumenti che a quel fine conducono: c, C. Quai sono gli strumenti, mediante i quali
all'opposto, quantunque volte la natura dà si favella 2
gli strumenti e i mezzi d' alcuna cosa, ella V. Sono molti e importantissimi, perciocchè
dà ancora il fine; perchè altramente così il gran faccenda è il favellare; e come è mala
fine, come i mezzi sarebbono invano; e la na gevole mandar fuori la voce, ma molto più la
tura non fa nulla indarno. loquela, così è agevolissimo corromperla e
C. Credolo; ma vorrei mi dichiaraste un guastarla, non altramentechè veggiano negli
poco meglio l'una e l'altra di queste due oriuoli, ne' quali bisognano molti ordigni per
ragioni. fargli sonare, i quali difficilmente s'accozzano
V. Volentieri; il favellare fu dato agli uo e uno poi che ne manchi, o si guasti, il che
mini, affinchè potessero conversare e prati agevolissimamente addiviene, l'oriuolo si stem
care insieme: il conversare e praticare insie pera e non suona più, o, se pure suona, suo
ne è all'uomo naturale; dunque anco il par na inordinatamente e con tristo suono.
lare gli viene dalla natura. C. Di grazia raccontatene qualcuno.
C. Come vale cotesta conseguenza ? V. Son contento: il polmone, la gola, l'ar
V. Come, come ? Se chi dà il fine, dà i teria, l'ugola, il palato, la lingua, i denti di
mezzi; e il fine del favellare è il praticare e nanzi, la bocca e le labbra: parte dei quali
conversare l'uno coll'altro; e il praticare e sono principali, e parte concorrono come mi
conversare l'uno coll'altro è da natura; dun nistri. -

que anco il favellare, che è strumento e mezzo C. I bruti non hanno ancora essi tutte co
che si pratichi e conversi insieme, è da natura. teste cose?
C. Ho inteso; ma per cotesta ragione par V. Messer no, ma hanno solamente quelle

(1) Tacit. Annal. lib. II, cap. 61. Plin. lib. XXXVI, (1) vedi il Giovio nella vita di Lion X che diffusamente
cap. 7.
racconta questa coronazione dell'Abate di Gaeta, che fu Cam
(2) Num. cap. XXll v. 28. millo Querno, e che i Giovio chiama Baraballo Gaetano.
3 16 L' ERCOLANO
rhe bastano a poter formare la voce, se già C. Se l'uomo ha la potenza del favellare
non sono mutoli, come i pesci, i quali perciò da natura, perchè non favella egli tosto che
mancano del polmone e non hanno, si può egli è nato ?
dire, lingua; chè tutte le lingue non sono atte V. Perchè, oltrachè gli strumenti per la te
n sprimere le parole, ma l'umana solamente, nerezza e debilità loro non sono ancora atti,
o più l'umana che tutte l'altre, così per la è necessario che egli prima oda e poi favelli;
forma, ovvero figura sua, come per alcune al e per questa cagione tutti coloro che nascono
tre qualità. sordi, sono necessariamente mutoli, onde hanno
C. Se io concedo che il parlare sia naturale ben la voce, ma non già la favella, e per que
agli uomini, mi pare esser costretto a conce sto possono ben gracchiare e cinguettare, ma
dere una cosa la quale è manifestamente fal parlare non già.
sissima, e ciò è che tutti gli uomini favellino C. Io ho pur letto che si son trovati di
d'un medesimo linguaggio. quelli i quali favellarono il primo giorno che
V. Come così ? nacquero , e di quelli i quali essendo stati
C. Ditemi: tutti gli uomini non sono d'una molti anni mutoli ebbero poscia la favella.
spezie medesima? V. Cotesti sono casi o mostruosi, o miraco
V. Sono; e tutte le donne ancora. losi, o almeno rarissimi e straordinari, e noi
C. Ditemi più oltra: tutto quello che con ragioniamo di cose naturali e ordinarie; che
viene per natura a uno individuo, cioè a un ben so quello che racconta Erodoto (1) del
particolare d'alcuna spezie, come all'uomo figliuolo di Creso; nè è gran fatto, non che im
divenir canuto nella vecchiaia, non conviene possibile, che alcuni accidenti repentini pro
egli anche di necessità a tutti gli altri indi ducano effetti maravigliosi, e, se non contra,
vidui di quella medesima spezie ? almeno fuori di natura: benchè Aristotile (2)
V. Conviene senza dubbio nessuno, onde Ari nella terza sezione al ventisettesimo problema
stotile (1) volendo provare che tutte le stelle pare che ne renda la ragione naturalmente.
erano di figura rotonda, se ne spacciò molto Ma conchiudiamo oggimai che come il favel
dottamente e con grandissima brevità, dicen lare ci viene dalla natura, così il favellare o
do: La luna è tonda, dunque tutte le stelle in questa lingua o in quell'altra, e piuttosto
son tonde. -
con parole latine, che greche o ebraiche, pro
C. Come sta dunque questa cosa, che il par cede o dal caso, o dallo studio o dalla vo.
lare sia naturale agli uomini, e che tutti gli lontà nostra.
uomini non favellino d'una lingua stessa e C. Quanto alla quarta dubitazione, vorrei
colle medesime parole? mi diceste: Se la natura poteva fare che tutti
V. Dirollovi : il favellare è ben comune e gli uomini favellassino in tutti i luoghi e in
naturale a tutti gli uomini; ma il favellare tutti i tempi d'un linguaggio solo e colle me
più in un linguaggio che in un altro, e piut desime parole.
tosto con queste parole, che con quelle, non V. Dite prima voi a me, se ella, potendo
è loro naturale, ciò fare, dove a farlo.
C. Donde l'hanno adunque? C. Chi dubita di cotesto?
V. O dal caso, nascendo chi in questa e V. Io per uno.
ehi in quella città; o dalla " volontà, C. Come è possibile che voi, il quale sole
e dallo studio loro, apparando piuttosto que vate vivo, e ora solete morto amare tanto,
sta lingua che quella, o quella che questa ; tanto ammirare il reverendissimo cardinal Bem
onde Dante, il quale pare a me che sapesse bo, dubitiate ora di ciò ? Non vi ricorda egli
tutte le cose, e tutte le dicesse, lasciò scritto che il proemio delle sue Prose fatte a mon
nel ventesimosesto Canto del Paradiso queste signor messer Giulio Cardinal de' Medici non
parole: contiene quasi altro che questo ?
Opera naturale è ch'uom favella:
Ma così o così, natura lascia (1) Erodoto I. 1. A) taxoprivs 8: r 5 rst Xso;
Poi fare a voi, secondo che v'abbella. ais 72 o ro» rts II:paio 2)) o7vo 72; R 2 tao,
og arrozreviov, Kooiao; trè» vvv o pio» irriovrz,
C. Se il favellare è proprio e particolare orò ri; rapssanº avuto pi; rx oma:ì 2 ss, s di
dell' uomo, perchè non favella egli, sempre,
siccome il fuoco cuoce sempre, e le cose gravi
ri oi dipips r) nyi:ri aro32visiv o di rai:
ºro; o 3 ovo: 6, i di e ribvrz rò» li i cari»,
sempre vanno allo 'ngiù ? arò dis; re zzi «zx 5 èong: povi» - sars 33,
V. Perchè l'uomo non ha da natura il fa A20 oºpn, uà zritvs Kootzov o ro; a sv 33
vellare, come il fuoco di cuocere e le cose tºro rporov i 357;aro gira di tsro 35;
gravi d'andare al centro; ma ha da natura il ipovse tov ravta Xpovo» ri; zon . « Press la mu
poter favellare, siccome il suo proprio non è raglia andò un Persiano non conoscendo Creso, per ammaz
zarlo. E Creso vedendo colui venirgli incontro, stante la ra
il ridere, ma il poter ridere, perchè altra lamità presente, il disprezzò, non credendo che importasse molto
mente riderebbe sempre, come sempre il fuoco il morire d'un colpo, o in altra guisa. Ma il suo figliuolo
scalda e sale all'insù.
mutolo, allorchè vide il Persiano assaltante, per lo timore e
per la sciagura ruppe il silenzio, e disse: O uomo, non ara
(1) Aristotile, del Cielo lib. II, cap. 11. E che di questa mazzar Creso. E questa fu la prima volta che egli Perlè; e
quistione se ne spacciasse brevemente è vero, ma non già dot dipoi parlò per tutto il tempo della vita sua -.
tamente, come vuole il varchi, perchè, con pace d'Aristoti (2) Altro fallo di memoria del Varchi; poichè in tutti i
le, questo argomento non prova. problemi non pare che Aristotile dica una tal cosa.
DIALOGO 31?
V. Si, mi ricorda: ma io mi ricordo anche e significare Omero (1), padre di tutti i poeti,
voglio a voi ricordare, che io non amai, non quando disse che tale era la mente degli uo
ammirai e non celebrai tanto già vivo, e ora mini ogni giorno, quale Giove, cioè Dio ot
non anno, non ammiro, e non celebro morto timo e grandissimo concedeva loro. Ma dite
il reverendissimo cardinal Bembo, quanto, la mi che bene, o quale utilità seguita dalla va
rara dottrina, l'inestimabile eloquenza e l'in rietà e diversità di tante lingue che antica
credibile bontà sue, e giunte con una umanita, mente s'usarono e oggi s'usano nel mondo?
con una cortesia e con una costumatezza più V. Nell'universo deono essere, come mostra
tosto inudita che singolare; nè per tutte que il suo nome, tutte quelle cose le quali essere
ste cose mi rimasi, nè rimarrei di non dire vi possono ; e niuna cosa è tanto picciola, nè
liberamente quello che a me paresse più vero, così laida, la quale non conferisca e non giovi
quando l'opinione mia discordasse dalla sua. alla perfezione dell'universo; per non dir nul
Ben è vero che sappiendo io per isperienza la che la varietà, se non sola, certo più di
quanto egli era diligente e considerato scrit tutte l' altre cose, ne leva il tedio e toglie
tore, e quanto pesasse e ripesasse ancora le via il fastidio che in tutte quante le cose a
cose menomissime che egli affermare voleva, vo chi lungamente le esercita, suole naturalmente
adagio a credere che in così fatto giudizio in venire. Egli è il vero che se fosse uno idioma
gannato si sia; e perciò presupponendo per solo, noi non aremmo a spendere tanti anni
l' autorità sua, che la natura, delle motidane e tanti in apprendere le lingue con tanta fa
cose producitrice e de' suoi doni sopra esse tica; ma, dall'altro lato, noi non potremmo
dispensatrice, dovesse porre necessità di par per mezzo delle scritture, o volete di prosa,
lare d'una maniera medesima in tutti gli uo o volete di versi, acquistare grido e farci im
mini, rispondo alla dimanda vostra, che ella mortali, come tutti gli animi generosi diside
ciò fare non poteva. rano ; conciossiacosachè i luoghi sarebbono
C. Per qual cagione? presi tutti; e come, per cagione d'esempio,
V. Perchè la natura fa sempre ogni volta Virgilio non arebbe potuto agguagliare Ome
ch'ella può, tutto quello che ella debbe: nè ro, così a Dante non sarebbe stato conceduto
crediate a patto veruno, che ella quando fa pareggiare l'uno e l'altro; e il medesimo
uno stornello, non facesse più volentieri un dico di tutti gli altri o oratori, o poeti che
tordo o altro più perfetto uccello, se la ma in diverse lingue sono stati eguali, o poco in
teria lo comportasse. feriori l'uno all'altro. E chi arebbe mai po
C. Io non ho dubbio di cotesto: ma, quanto tuto nella medesima lingua non dico trapassa
al Bembo, dico che il credere all'autorità le re, ma avvicinarsi collo scrivere o ad Aristo
quali sopra le ragioni fondate non sono, non tile, o a Platone? Perchè conchiudendo, dico
mi par cosa molto sicura, ne da uomini che che la natura non poteva, nè forse doveva
cerchino d' intender la verità delle quistioni. fare per tutto l mondo un linguaggio solo.
V. Voi dite il vero; ma il Bembo allega in C. Se ciascuno uomo nasce con una sua pro
prò del suo detto molte ragioni e molto pro pia e naturale favella, come dicono alcuni,
babili, come può vedere ciascuno che vuole. che è la quinta dubitazione, m'avviso quasi
C. Perchè dunque dubitavate? - per certo quello che voi siate per dirne.
V. Dubitava, perchè quello che non può V. Chc ?
essere, non fu mai e mai non sarà. C. Chc ella è cosa da ridersene e farsene
C. Che volete voi dire ? beffe.
V. Quello che disse Dante, il quale sapea V. Gli altri, come si dice, si sogliono ap
che dirsi, sopra i versi allegati poco fa (1): porre alle tre, ma voi vi siete apposto alla
Che nullo affetto mai razionabile
prima. Come può nascere ciascuno con una
favella naturalmente propia e particolare, che
Per lo piacere uman che rinovella, tutti nasciamo sordi, e per conseguenza mu
Seguendo il Cielo, sempre fu durabile. toli, rispetto all'indisposizione degli strumenti
C. Hovvi inteso: voi volete dire con Dante, che come mezzi a favellare si ricercano? il
che nullo affetto razionabile (chè affetto debbe che è tutto l' opposito della dubitazione. A
dire, e non effetto, come dicono alcuui), cioè, questo si aggingne, che prima fa di mestieri
nessun disiderio umano (perchè solamente gli apparare quello che s'ha a dire e poi dirlo;
uomini , avendo essi soli la ragione, si chia senza che, se ciò fosse vero, non pure la po
mano razionabili, ovvero ragionevoli) può es tenza del favellare, ma il favellare stesso, dalla
sere eterno, cioè durare sempre; anzi per più natura e non dall'arte e industria nostra sa
vero dire non può non mutarsi quasi ogni gior rebbe, e non solamente il principio e i mez
no, perciocchè gli uomini di di in di mutano zi, ma eziandio il fine e il componimento,
voglie e pensieri; e ciò fanno, perchè sono cioè l'atto stesso del favellare e le parole
sottoposti al cielo, e il cielo non istà mai in medesime ci sarebbono naturali; del che di
uno stato medesimo, non istando mai fermo; sopra si conchiuse il contrario. Ora, se quello
onde variandosi egli, è giuocoforza che anco
i pensieri e le voglie degli uomini si vadano (1) Forse allude a quel luogo d' Omero nell'Ulissea lib. 1,
variando: e questo è quello che dovette voler v. 348, x) a ro3: so, ztrto: oat: 0i) oa tv Av
dpa a tv 2) vagia» oro; exx o : benchè qui parli
(1) Paradiso, XXVI. Ouacao de l'octi.
318 L' ERCOLANO
è vero, questo di necessità viene ad essere V. Male potrebbe favellare nella prima lin
falso, perchè sono contrari. e i contrari pos gua del mondo, se non favellasse in lingua
sono bene essere amenduni falsi, ma amendue nessuna,

veri non già. Oltraciò ne seguiterebbe che C. E se s'allevassero più fanciulli insieme
niuno fosse mutolo, ancorchè nascesse sordo; in quella maniera, senzachè sentissero mai
per non dire che questa favella propria e voce umana, favellerebbono eglino in qualche
naturale si sarebbe qualche volta sentita in idioma?
chicchesia; dove ella non s'è mai sentita in V. Qui bisognerebbe essere piuttosto indo
nessuno: argomento certissimo che ella non è. vino, che altro: pure, io per me credo che
C. E dicon pure che Erodoto racconta nelle eglino favellerebbono, formando da se stessi
sue storie (1) di non so qual Re d'Egitto, un linguaggio nuovo, col quale s'intendercb
il quale fece condurre due bambini, tostochè bono fra loro medesimi.
furon nati, in un luogo diserto, e quivi segre C. Restaci la sesta e ultima dubitazione, cioè:
tamente allevargli, senzachè alcuno favellasse Qual fu il primo linguaggio che si farellò, e
loro mai; e che eglino in capo di quattro anni quando, e dove, e da chi, e perchè fosse dato.
condotti dinanzi a lui, dissero più volte que V. Tutte queste cose sono agevoli a sapere
sta parola Beche la qual parola in lingua Fri secondo la certezza de'Teologi Cristiani, per
gia dicono che significa pane: e solo per que ciocchè il primo linguaggio del mondo fu quello
sto argomento fu dichiarato che quelli di Fri del primo uomo, cioè d'Adamo, lo quale gli
gia erano i primi e più antichi uomini del diede messer Domeneddio tosto che egli l'ebbe
mondo. formato nel Paradiso terrestre, o dove egli sei
V. Il Boccaccio arebbe aggiunto ancora, o formasse, affinchè per mezzo delle parole po
di maremma (a), come fece quando volle pro tesse, come si disse di sopra, quei pensieri e
vare che i primi e più antichi uomini del sentimenti mandar fuori che egli aveva dentro
mondo erano i Baronci di Firenze che stavano racchiusi, e insomma palesare ad altri quello
a casa da Santa Maria Maggiore. che teneva celato in sè; perchè non essendo
C. Secondo me, voi volete inferire che quella l'uomo nè tanto perfetto e spirituale quanto
d'Erodoto, (3) non ostantechè fosse padre gli Angeli, nè così imperfetto e materiale co
della storia greca, vi pare più novella che sto me gli animali, gli fu necessario un mezzo col
ria. Ma ditcmi per vostra fede, se un fanciullo quale facesse intendere l'animo e la mente
s'allevasse in luogo segreto e riposto, dove sua agli altri uomini, e questo fu il favellare.
egli non sentisse mai favellare persona alcuna C. Perchè diceste voi, secondo la certezza
in modo niuno, parlerebbe egli poi e in qual de' Teologi Cristiani? -

linguaggio? C. Dissilo, perchè, secondo l'opinione dei


V. Egli per le cose dichiarate di sopra non Filosofi Gentili, e massimamente de' Peripate
parlerebbe in altro linguaggio, che in quello tici, i quali pongono il mondo ab eterno (i),
de” mutoli. nè vogliono che mai avesse principio, non solo
C. E quale è il linguaggio dei mutoli? non si può sapere, ma non si dee anco cerca
V. Lo star cheti o favellare con cenni. re, qual linguaggio fosse il primo; conciossiaché
C. E i mutoli non hanno la voce ? cssendo sempre stato uomini, sempre necessa
V. Si, ma non hanno il sermone, al quale riamente s'è favellato: onde niuno può dire
si ricercano più cose, che alla voce, perche, chi fosse il primo a favellare, nè di qual lin
sebbene , come dice Aristotile, chiunche fa guaggio favellasse. Similmente non si dee cer
vella, ha la voce, non però si converte, che care, nè si può sapere, nè quando, nè dove
chiunche ha la voce, favelli; in quel modo fosse dato quello che mai in nessun luogo par
che tutti gli uomini hanno naturalmente due ticolare, nè in nessun tempo dato non fu.
piedi, ma non già si rivolge, che tutti gli ani Puossi solamente sapere che la natura diede
mali che hanno due piedi, siano uomini. all' uomo il favellare in quel modo e per
C. Non potrebbe egli servirsi della voce, se quelle cagioni, le quali di sopra raccontate si
non altramente, almeno come i bruti? Sollo,

V. Potrebbe, chi ne dubita ? Anzi se avesse C. Io vorrei sapere ancora tre cose d'in
sentito o cantare uccelli, o belare pecore, o torno a questa materia: la prima, quale fosse
ragghiare asini, e, non che altro, fischiare i il linguaggio d'Adamo: la seconda, quanto
venti, o stridere i gangheri, s' ingegnerebbe egli durasse: la terza ed ultima, quando, co
di contraffargli, e potrebbe anco mandar fuori me, dove, da chi, e perchè nascesse la diver
qualche voce, la quale in qualche lingua si sità, e la confusione del linguaggi (2).
gnificasse qualche cosa. V. Quanto alla prima e seconda dimanda
C. Dunque non è vero che egli, come molti vostra, sono varie l'opinioni; imperocchè sono
si fanno a credere, favellasse in quella lingua
che si parlò prima di tutte l'altre del mondo? (1) Una delle tante opinioni d'Aristotile contraria alla no
stra santa Religione, per le quali fu da quasi tatti i Santi
Padri rigettata la sua filosofia.
(1) Erodoto, sul principio del lib. III, narra ciò di Psam (2) Chi ama vedere con profondo senno e soda erudizione
metico Re d' Egitto. discusse codeste quistioni, consulti la Chiave delle lingue del
(2) Bocc. Nov. LVI. de Court Gebelin, il libro della Legislazione primitiva del
(3) Petr Trionf. della Fam. cap. 3. Erodoto di Greca Visconte di Bonald e il Saggio di Linguistica di Carlº No
istoria padre. dici, (M.)
DIALOGO 319
alcuni i quali vogliono che Adamo insieme coi e di più, che quella istessa lingua fu ereditata
suoi discendenti favellasse quella propia lin da figliuoli d' Eber, che diede il nome agli
gua la quale in processo di tempo fu da Eber Ebrei, e rendene anco la cagione, dicendo ciò
nominata prima Eberea, e poi, levatane la sil essere stato fatto, affine che il Redentor nostro
laba del mezzo, Ebrea : e di questa sentenza Gesù Cristo, il quale doveva nascere di loro, usas
pare che fosse Santo Agostino (1) nel terzo se secondo l'umanità della lingua della gra
e quarto capitolo del diciassettesimo libro della zia, e non di quella della confusione (1), onde
Città di Dio: e che questa fosse quella lingua a me pare che questa sia una grandissima e
nella quale Moisè scrisse la legge sopra il Monte manifesta contraddizione, e da non doversi
Sinai, e colla quale favellano ancora oggi tra tollerare a patto nessuno in un uomo di meno
ioro gli Ebrei. Altri dicono che non l' Ebrea, che di mezzana dottrina, non che in un Dan
ma la Caldea fu la prima lingua che si favel te, il quale fu e poeta e filosofo e teologo
lasse; le quali due lingue però sono tra loro singolarissimo. -, -

somigliantissime. Altri scrivono. che, come la V. Aggiugnete ancora e astrologo eccellen


prima terra che fosse abitata (2), fu la Scizia, tissimo e medico.
così per conseguenza la prima lingua fosse la C. Tanto meglio; come sta dunque questa
Scitica: e altri altramente (3), Ne mancano cosa ? Egli è quasi necessario, secondo me,
di coloro i quali vogliono provare che la lin che l'una di queste due opere non sia di Dan
gua la quale oggidi favellano tra loro i Giudei, te : e perchè si sa di certo che la Commedia
non è quella antiea colla quale parlò Adamo, fu sua, resta che il libro della Volgare Elo
e nella quale fu scritta la legge di Moisè, al quenza fosse d' un altro.
legando che Esdra sommo sacerdote degli Ebrei, V. Così rispose messer Lodovico Martclli al
quando, per tema che ella non si perdesse o Trissino.
per qualunche altra cagione, fece dopo la ser C. E il Trissino che gli rispose ?
vitù Babilonica riscrivere la Legge in settan V. Avendo allegato Dante, il quale nel suo
tadue volumi, variò non solamente la lingua Convivio (2) promette di voler fare cotale ope
da quello che ella era anzi la servitù, ma ezian ra, allegò il Boccaccio (3), il quale nella sua
dio mutò l'alfabeto, trovando nuove lettere c vita di Dante scrive che egli la fece.
nuovi punti. Dante, non si contentando, per C. Non sono mica piccioli, nè da farsene
quanto si può presumere, di nessuna di que beffe questi argomenti: ma il libro che voi
ste opinioni, e volendo, sotto colore d' appa dite scritto in lingua latina da Dante trovasi
rarla egli, insegnare altrui la verità, induce egli in luogo alcuno?
nel ventisei canto del Paradiso, allegato già V. Io per me non l'ho mai veduto (4), né
due volte da noi, Adamo stesso, il quale di parlato con nessuno che veduto l'abbia; e vi
mandato da lui di questo dubbio, gli risponde narrerò brevemente tutto quello che io ho da
cosi -
diverse persone inteso di questo fatto: voi poi,
come prudente e senza passione, piglierete
La lingua ch'io parlai, fu tutta spenta
Innanzi che all'opra inconsumabile quello che più vero, o più verisimile vi par
Fosse la gente di Nembrot intenta. rà; ehè io non intendo di volere per relazione
d'altrui fare in alcun modo pregiudizio a chiun
Ora, se Adamo medesimo confessa che la lin che si sia e meno alla verità, la quale sopra
gua che egli parlò, si spense tutta e venne tutte l'altre cose amare e onorare si dee.
meno innanzichè Nembrotto cominciasse a edi Avete dunque a sapere, che messer Giovan
ficare la torre e la città di Babilonia, cer giorgio Trissino Vicentino, uomo nobile e ri
tissima cosa è che la lingua nella quale fu putato molto, portando opinione che la lingua
scritta la Legge, e colla quale favellano gli nella quale favellarono e scrissero Dante, il
Ebrei d'oggidi, non è quella antiea colla quale Petrarca e il Boccaccio, e colla quale favella
favellò Adamo. mo e scriviamo oggi noi, non si dovesse chia
C. Fermatevi di grazia un poco: io mi vo mare nè Fiorentina, nè Toscana, nè altramente
glio ricordare che Dante stesso nella fine del ehe Italiana; e dubitando di quello che gli
sesto eapitolo del primo libro di quell' opera avvenne, cioè di dovere trovar molti i quali
la quale egli scrisse latinamente e intitolò De questa sua opinione gli contraddicessero, tra
Vulgari Eloquentia, dice dirittamente il con dusse, non so donde, nè in qual modo se gli
trario, cioè che con quella lingua che parlò avesse, due libri della Vulgare Eloquenza,
Adamo, parlarono ancora tutti, i suoi posteri
fino all'edificazione della torre di Babello, la (1) Parole del Volgarizzatore di Dante lib. I, cap. 6.
(2) Dant. Conv. car. 61 dell'ediz. di Firenze 1723. ss Di
quale s'interpreta la torre della confusione; questo si parlerà altrove più compiutamente in un libro, ch'io
intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza ».
(o s. Agost Della Città di Dio la xvi, car ultimo, (3) Bocc. Vita di Dant. 26o, su Appresso già vicino alla sua
Ideo prima lingua inventa ese, idest Hebraea. Ma più lunga morte compose un libretto in prosa latina, il quale egli in
mente ne ragiona nel suddetto libro al cap. 11 e non nel titolò De Vulgari Eloguentia s».
lib. XVII, cap. 3 e 4 come per errore di memoria dice il (4) È stampato in Parigi nel 1577, e da Jacopo Corbinel
Varchi. li, che vi fece alcune note, dedicato ad Arrigo lll, Re di
(2) Giustino nel princ. del libr. II. Francia. Ma che questa Opera sia di Dante, vien sostenuto
(3) Vedi il Walton ne' Prolegom. alla Bibbia Poliglotta, dall'eruditissimo e per la sua vasta letteratura famosissimo
spezialmente al cap. 3. E il P. Calmel, e Gio. Clerc in una Monsignor Fontanini Arcivescovo d'Ancira nel lib. l I, del
di citazione sopra questa materia posta avanti il Pentateuco. l' Eloquenza ltaliana.
32o L' ERCOLANO
perchè più o non ne scrisse l'autore d'essi, I renze, lodandola, mi fanno credere che egli
chiunche si fosse, o non si trovano, e sotto il sia suo: ma, dall'altro canto, avendolo io
nome di messer Giovambatista d'Oria Geno letto più volte diligentemente, mi son risoluto
vese gli fece stampare, e indirizzare a Ippolito meco medesimo, che se pure quel libro è di
Cardinal de' Medici; il quale messer Giovam Dante, che egli non fosse composto da lui,
batista io conobbi scolare nello studio di Pa C. Voi favellate enigmi; come può egli es
dova, e, per quanto poteva giudicare io, egli sere di Dante, se non fu composto da lui?
era uomo da poterli tradurre da sè. V. Che so io; potrebbelo aver compro, tra
C. (1) A che serviva al Trissino tradurre e vato o essergli stato donato. Ma, per uscire
fare stampare quell'opera? de'sofismi, i quali io ho in odio peggiormente
V. A molte cose; e fra l'altre a mostrare che le serpi, il mio gergo vuol dir questo, che
che la lingua vostra, cioè la bolognese, era la se quel libro fu composto da Dante, egli non
più bella lingua e la più graziata di tutta fu composto nè con quella dottrina, nè con
Italia. quel giudizio che egli compose l'altre cose e
C. Voi volete la baja, e dubito che non ag massimamente i versi e in ispezie l'opera gran
giugniate poi, come poco fa diceste che sog de, cioè la Commedia: perciocchè oltra la
giunse il Boccaccio, o di maremma. contraddizione della quale avete favellato voi,
V. La baja volete voi: Dante o qualunche vi se ne trovano dell' altre e di non minore
si fosse l'autore di quei libri, scrisse così, importanza, e vi sono molte cose parte ridico
anzi quanto lodò la lingua bolognese, tanto le e parte false, e insomma tutta quella opera
biasimò la fiorentina. -

insieme è, per mio giudizio, indegna, non che


C. Guardate che egli non si volesse vendi di Dante, d'ogni persona ancorachè mezzana
care, col tor loro la lor lingua propia, dell'e- mente letterata.
silio che a torto, secondochè testimonia Gio C. Di grazia ditene qualcuna.
van Villani nelle sue storie (2) , gli fu dato V. Ecco fatto: primieramente egli, per non
da Fiorentini. andar troppo discosto, dice nel primo capitolo
V. Io non so, nè credo cotesto: so bene che che i Romani e anco i Greci avevano due
egli scrisse che il volgare illustre non era nè ſio parlari, uno volgare, il quale senza altre re
rentino, nè toscano, ma di tutta Italia; anzi, gole imitando la balia s'apprendeva, e uno
quello che è più, scrive che i Toscani per la grammaticale, il quale se non per ispazio di
loro pazzia insensati, arrogantemente se l'attri tempo e assiduità di studi si poteva appren
buivano, e molte altre cose dice peggiori che dere; poi soggiugne, che il volgare è più no
queste non sono, come intenderete poco º, - bile, si perchè fu il primo che fosse dall'u-
presso quando m'ingegnerò di chiaramente mo mana generazione usato, e si eziandio perchè
strarvi che la lingua, della quale e colla quale d'esso, o veramente con esso tutto il mondo
si ragiona, è, e si dee così chiamare, lingua ragiona e sì ancora per essere naturale a noi,
fiorentina, come voi Cesare Ercolani. dove quell'altro è artifiziale,
C. Egli mi pare ognora mille (3) d'intendere C. Sicuramente, se egli dice coteste cose,
le ragioni che avete da produrre in mezzo so abbia pur lodato Bologna quanto egli vuole,
pra cosa tanto e da tanti in contrario credu io non crederò mai che di bocca di Dante
ta e disputata; ma seguite intanto il ragiona fossero uscite cotali scempiezze, e non sarebbe
mento vostro.
gran fatto che la disputa che nacque tra mes:
V. Io, perchè udiate piuttosto quello che ser Lionardo d'Arezzo, uomo per altro ne'suoi
tanto desiderate, non voglio dire ora altro d'in tempi di gran dottrina; e' Filelfo, fosse uscita
torno a questa materia. di qui; ne so immaginare, come alcuno si possa
C. Ditemi, vi prego, innanzichè più oltra dare a vedere di far credere a chiunche si sia
passiate, se voi credete che quell'opera del che i Romani favellassero toscanamente (i),
l'Eloquenza Volgare sia di Dante, o no. come facciamo noi, e poi scrivessero in lati
V. Io non posso non compiacervi, e però no, o che i Greci avessero altra lingua che
sappiate che dall'uno dei lati il titolo del li. la greca.
bro, la promessa che fa Dante nel Convito e v. Non disputiamo le cose chiare, e ditemi
non meno la testimonianza del Boccaccio e che Dante, se cotale opera di Dante fosse, con
molte cose che dentro vi sono, le quali pare traddirebbe un'altra volta manifestissimamente
che tengano non so che di quello di Dante, a sè medesimo, perciocchè egli nel Convito (º),
come è dolersi del suo esilio e biasimar Fi il quale è opera sua legittima, afferma indu
bitatamente, e più volte, che il latino e più
nobile che il volgare, quanto il grano più che
(1) il Doria nella lettera al Cardinale de' Medici dice le biade, facendo lungamente infinite scuse,
che quest' Opera fu tradotta da Dante medesimo, e che egli
solamente la pubblicava: ciò fu in Vicenza nel 1529 – in perchè egli comentò le sue Canzoni piuttosto
torno al libro del Volgare Eloquio di Dante leggasi ciò che in volgare che in Latino.
con tanta dottrina ne scrisse il conte Giulio Perticari. (M.) C. Io per me, senza volerne udir più, mi
(2) G. V. lib. IX, cap. 135. – Anche su questo pro
posito si consulti l'Apologia dell'Amor patrio di Dante del
medesimo Perticari. (M.) (1) Dante quivi non dice che i Romani favellassero tosca
(3) Cosi leggesi anche nell'edizione Cominiana. Ma que namente, ma che nella stessa lingua greca, ec. vi era il Par
sto modo mi torna nuovissimo; onde credo che al mille sia lare del volgo e il grammaticale o regolato.
da aggiungere anni. (Ml.) (2) loan. Conv. cart. 6o, 61 dell'ediz. di Firenze del 1723.
DIALOGO 32 I
risolvo, e conchiuggo che quell'opera non sia rena o mattoni; e se un maestro d'aseia ad
di Dante.
dimandava legni, o aguti, gli erano portati
V. E così dicono e credono molti altri: e sassi o calcina, dimanierachè non intendendo
quello che muove me grandissimamente, è l'au l'uno l'altro, furono costretti d'abbandonare
torità del M. Reverendo Don Vincenzio Borghini l'opera: e ritornandosi alle lor case, si spar
Priore dello Spedale degl'Innocenti, il quale sero per tutto il mondo.
essendo dottissimo e d' ottimo giudizio cosi C. Fornite queste sei, primachè io vi pro
nella lingua greca, come nella latina, ha non ponga innanzi dubitazioni nuove, arei caro che
dimeno letto e osservato con lungo, e incre mi raccontaste tutti quei verbi, con i lor com
dibile studio le cose toscane e l'antichità di posti e derivativi, i quali significano favellare,
Firenze diligentissimamente, e fatto « pra i o al favellare, o al suo contrario in qualunche
poeti e in ispezialità sopra Dante incompa modo, ancorchè di lontano o propriamente o
rabile studio; né può per verso alcuno recarsi per translazione appartengono, e quelli massi
a credere che cotale opera sia di Dante, anzi, mamente i quali, come vostri propri, più nella
o si ride, o si maraviglia di chiunche lo dice, bocca del volgo fiorentino, o nell'uso degli
come quegli che, oltra le cagioni dette, affer scrittori burlevoli si ritrovano, che nel parlare
ma non solo non aver mai potuto vedere, nè degli scienziati o ne libri degli autori nobili,
manco udito che uomo del mondo veduto inai
senza guardare che vi paressero o bassi, o
abbia, per moltissima diligenza che usata se plebei.
ne sia, il proprio libro latino, come fu coin V. Tutti no, essendo eglino in numero quasi
posto da Dante; onde quando e non ci fosse innumerabile; ma quelli che mi verranno non
altro rispetto, dice egli, che mille ce ne so solamente nella memoria, ma eziandio in boc
no, l'averlo colui così a bella posta celato, farà ca, di mano in mano.
sempre con ogni buona ragione sospettare cia C. Così s'intende; e non vi paja fatica sog
scuno, che o e lo abbia tutto finto a gusto giugnere, o porre innanzi la dichiarazione di
suo, pigliando qualche accidente, e mescolan tutti quelli i quali voi penserete ch'io, per es
dovi qualche parola di quei tempi, per meglio ser forestiere in questa lingua e si può dire
farlo parere altrui di Dante, o che, se pure novizio in cotale studio, non intenda: e quanti
e' l'ebbe mai, egli l'abbia anco mandato fuo più me ne direte e più dalla comune intelli
ra, come è tornato bene a lui, e non come genza lontani, tanto mi farete maggiore il
egli stava. piacere.
C. Così crederò io da qui innanzi. Ma tra V. E' saranno tanti, che voi ne sarete, non
passiamo omai alla terza e ultima dimanda che sazio, ristucco, primachè se ne venga, non
che io feci, cioè: Quando, dove, come, da chi, dico a capo, ma al mezzo: ma vengasi al fatto.
e perchè nascesse la diversita e confusione dei Favellare e parlare significano, come s'è detto
linguaggi. di sopra, una cosa medesima; dal primo dei
V. Questa è cosa notissima per la Bibbia, quali deriva favellatore e favella, che così mi
e anco Giuseppo nelle sue storie dell'Antichi concederete che io dica per maggiore agevo
tà (1) la racconta, cioè, che Nembrotto (2) ni lezza e brevità, sebbene fu prima la favella
pote di Noè, essendo in ispazio già di circa che il favellare: dal secondo, parlatore, e an
a duemila anni cresciuta la malizia e malva ticamente parlieri e parlatura, e ancora par
gità degli uomini, cominciò per la sua super lantina, perchè del gerundi, come favellando
bia a edificare una torre, la cui cima voleva e parlando, e de' participi, come favellante e
che toccasse il cielo, o per non avere ad aver parlante, non mi pare che occorra ragionare,
più paura del diluvi, o per potere contrastare se non di rado.
a Dio; e di qui per avventura ebbe origine C. Avvertite che egli mi pare, se ben mi
la favola del Giganti, quando soprapposto un ricordo, che messer Annibale e alcuni altri
monte all'altro cercarono di torre il regno a si ridano del Castelvetro, perch'egli usa que
Giove e cacciarlo del cielo. Basta, che Dio sta parola parlatura.
per punire l'insolenza e stoltizia di Nembrot V. Ridansi ancor di me, il quale l'ho po
to, e quella di coloro i quali creduto gli avea sta, si perchè ella è voce della lingua proven
no e gli prestavano aiuto a cotale opera, i zale, dalla quale ha pigliato la fiorentina di
quali erano concorsi d'ogni parte molti, di molte cose, e sì per l'autorità di Ser Bru”
scese dal cielo in quel modo che racconta netto Latini, maestro di Dante, il quale l'usò
Santo Agostino nel luogo di sopra allegato, e nella traduzione della Rettorica di Cicerone (1)
fece di maniera, che quanti diversi esercizi e sì ancora, perchè l' uso d' oggi non mi
erano in quella fabbrica, che furono settanta pare che la rifiuti, e anche l'analogia nolla
due, tanti vi nacquero diversi linguaggi: onde vieta; perchè sebbene da favellare non si for
se un maestro di cazzuola chiedeva, verbigra
zia, calcina o sassi, i manovali gli portavano (1) Usa questa voce Ser Brunetto nel proemio al Volga
rizzamento dell'Orazione di Cicerone per Ligario, stampato
coll' Etica e colla Rettorica in Lione nel 1548. Io la do
(1) Giuseppo Storico Antich. Giudaic. lib. I, cap. 5, che vesse volgarizzare, e recare in nostra comune parladura. E a
il chiama Nabrode. questo luogo alluse per avventura il Varchi, scambiando dalla
(2) Nipote, cioè discendente, perchè propriamente fu bisni Rettorica a questa Orazione che l'è stampata appresso. Adopera
pote di Noè, essendo figliuolo di Cus, figliuolo di Cam, figliuo anche molte volte la voce parlatura nel Tesoro. Vedi il li
lo di Noè. Genes. cap. 1o. bro V1 I, cap. 17.
VARCHI V. I,
4
3a2 L' ERCOLANO

ma favellatura, da fare nondimeno si forma prefazione; chè così seguiremo di dire, seb
fattura, e da creare creatura, e l'opinione mia bene praefari e prooemiari sono detti da prefa
e stata sempre che le lingue non si debbano zione e da proemio.
ristrignere, ma rallargare; senzachè umana e Predicare è verbo latino, e significa dir
ragionevole cosa è, che c'ingegniamo non di bene d'alcuno, espressamente lodarlo; ma oggi
accusare e riprendere, ma di scusare e difen è fatto proprio de' predicatori che dichiarano
dere tutti coloro che scrivono, ingegnandosi in su i pergami la Scrittura Santa, onde si
eglino colle loro fatiche, le quali non hanno forma predica ovvero predicazione, dicesi an
altro premio che la loda, arrecare o diletto o cora essere in buono o cattivo predicamento (1).
giovamento, o l'uno e l'altro insieme alla Prosare, onde prosatori, sebbene ha il suo
vita de mortali; per tacere, che io, secondo proprio significato, cioè scrivere in prosa, ov
la richiesta che fatta m'avete, guarderò, non vero, come dicevano i Latini, non avendo un
se le parole che io dico, si trovino scritte ap verbo proprio, scrivere in orazione sciolta
presso gli autori o da vero, o da burla, ma ovvero pedestre. Nondimeno quando in Fi
se si favellino in Firenze o da plebei, o dai renze si vuole riprendere uno che favelli troppo
patrizi: onde ripigliando il filo dico, che da adagio e ascolti sè medesimo, e, come si di
parlare si compone riparlare; il che non ave ce, con prosopopeia, s'usa di dire: egli la
vano, che io sappia, i Latini; cioè parlare di prosa; e coloro che la prosano, si chiamano
nuovo e un'altra fiata; e sparlare, che quello prosoni.
significa che i Latini dicevano obloqui, cioè Poetare o poeteggiare s'usano non solamente
dir male e biasimare, e alcuni dicono stra
per iscrivere in versi che noi diciamo verseg
parlare, cioè parlare o troppo o in mala giare e più latinamente versificare, ma pro
parte. priamente rimare, onde rimatori, ma ancora
Parlamentare si dicono coloro, i quali nelle per favellare poeticamente o recitando, o com
Diete o ne Consigli favellano per risolvere ponendo, o biscantando versi.
e determinare alcuna deliberazione, onde far Provvisare ovvero dire all'improvviso, è com
parlamento si diceva a Firenze ogni volta che porre e cantar versi ex tempore, come dice
la Signoria o forzata o di sua volontà, con vano i Latini, mancando del verbo propio,
animo che si dovesse mutare lo stato, chia cioè senza aver tempo da pensargli, in sulla
mava al suono della campana grossa il popolo lira. I Greci felicemente dicevano d'una cosa
armato in piazza, e lo faceva d'in sulla rin fatta subito, e senza tempo, a Xsòt&gstv (2).
ghiera dimandare tre volte, se egli, che così Favoleggiare o favolare, onde è detto favo
o così si facesse, si contentava ; ed egli, co lone, tratto da fabulari latino, significa rac
me s' era il più delle volte ordinato prima, contare favole, o fole, o scrivere cose favolo
rispondeva gridando, e alzando l'arme Sì, sì. se, e novellare, che è proprio de'toscani, rac
Dicesi ancora tenere parlamento, cioè favellare contare o scrivere novelle, come il frottolare,
a dilungo. di far frottole e favole, come anticamente e
Ragionare, onde si formano ragionatore e così ancora oggi si chiamano le commedie.
ragionamento, viene dal verbo Latino ratioci Aprir le labbra, e sciogliere la lingua, e rom
nari: il perchè, come ben dice il Castelve pere il silenzio sono locuzioni topiche cavate
tro (1), si piglia, benchè radissime volte, per dal luogo de'conseguenti, o piuttosto dagli
usare la ragione (2) e discorrere. antecedenti, perchè niuno può favellare, se
C. Non avete voi questo altro verbale ra prima non iscioglie la lingua, non apre la boc
gioniere? ca, non rompe il silenzio.
V. Abbiamlo, e si dice d'uno il quale sia Questi verbi comincianti tutti dalla lette

buono abbachista, cioè sappia far bene di con ra C, cicalare, ciarlare, cinguettare, cingottare,
to, perchè gli abbachieri, quando fanno bene, ciangolare, ciaramellare, chiacchierare e cor
e prestamente le ragioni, si dicono far bene i macchiare, si dicono di coloro i quali favellano,
conti, non per aver che favellare, ma per non aver
Sermonare, che appresso i Latini si disse che fare, dicendo senza sapere che dirsi, e
con voce deponente, per usare le parole dei insomma cose o inutili, o vane, cioè senza sti
grammatici antichi latini più note e meglio go o sostanza alcuna. Dal primo si formano
intese, che quelle dei grammatici moderni vol cicala, cioè uno che favella troppo, e senza
gari, ora sermonari e ora sermocinari, vuole considerazione; cicaleria ovvero cicaleccio sci
propiamente significare parlare a lungo e, co calino e cicalone, cioè una cicala grande, trat
me noi diciamo, fare un sermone. to, come si vede, dalle cicale: dal secondo,
Prologare direbbono per avventura alcuni ciarla, ciarlatore e ciarlone (3), la qual ciarla
non altramente, che i Greci rpoMoyigst», cioè si piglia alcuna volta in parte non cattiva, di
fare il prologo, che i Latini dicevano praeſa cendosi di chi ha buona parlantina : Il tale ha
ri e prooemiari, donde era detto proemio, e buona ciarla, cioè non fa mal cicaleccio; ma
(1) E vale: Essere in buona o cattiva fama ºver buo
(1) Nella risposta alla Apologia del Caro a c. 75 dell'e-
dizione di Parma del 1573, in 4. no o cattivo nome, esser lodato o biasimato. -

(2) Demostene nella prima delle Olintiac. dice EX t s


(2) Questo significato della voce ragionare fu bene esser
vato da que valentuomini che diedero alla luce il Decamerone rzpzX ohuz.
nell'anno 1593 nelle loro bellissime Annotaz. a c. 6. (3) Ne viene ndhe Ciarlatano che vale lo stesso.
DIALOGO 393
ciarlatore, e ciarlone si pigliano sempre in cat gno d'amore, o veramente la rimirava di tra
tiva: dal quinto diriva per avventura il nome verso, o con lo sguardo la tirava a guardar
di cianghella, del quale fa menzione Dante (1); lui; verbo tratto da marinari, quando rimor
e il Boccaccio nel Laberinto d'Amore (2) disse chiano le navi ?
della setta cianghellina: dal sesto, ciaramella: V. Io vi dirò sempre liberamente quello
dal settimo, chiacchiera, che così si nominano che sento senza intenzione di voler riprendere
coloro che mai non rifinano di cinguettare e o biasimare alcuno: pigliate poi voi quella
dir cose di baje; onde si dicono ancora chiac opinione che più vi piace, o giudicate migliore.
chieroni e chiacchierini: dall'ottavo, cornacchia Rimorchiare è verbo contadino (1) e se ne fa
e cornacchione, e viene dal verbo Latino cor menzione nel Pataffio (2); e benchè io non
nicari, cioè favellare come le cornacchie. Di sappia la sua vera etimologia, tanto credo che
cesi ancora dalle mulacchie gracchiare, cioè venga da remulco (3) nome, onde si fece il
cicalare come le putte, onde vien gracchia, verbo remulcare, cioè rimorchiare, quanto dalla
cioè uno che non parli, ma cinguetti come morchia, che è la feccia dell'olio (4): e si
le gracchie: e d' una donna: Ella fa come la gnifica dolersi e dir villania amorosamente,
putta al lavatoio, tratto da quelle che lavano come, verbi grazia, per discendere a così fatte
i bucati cinguettando. Nel medesimo signifi bassezze, aſfinchè meglio m'intendiate : Ah
cato si piglia tattamellare, onde nasce tattamella, crudele traditoraccia, vuoimi tu far morire a
cioè uno che cicala assai, e non sa che, nè torto? e così fatte paroline, o parolette, opa
perchè. Similmente quando alcuno cicala, e rolozze che dicono i contadini innamorati.
non sa che, nè perché, si dice: Egli non sa C. Seguitate; che voi mi date la vita.
ciò che egli s'abbaja, e viene dal verbo Lati V. Quando altri vuol la berta di chicches
no baubari (3); onde abbajatori si chiamano sia, e favella per giuoco, o da motteggio, o
coloro i quali abbaiano e non mordono, cioè per ciancia, o da burla, si chiama dal verbo
riprendono a torto e senza cagione coloro, che latino giocarsi, e dal toscano motteggiare, cian
non temendo dei loro morsi, non gli stimano; ciare, burlare, e berteggiare, onde vengono,
il perchè da alcuni sono chiamati latratori, dal cianciatore e ciancione, burlatore, burlone e
verbo latino latrare, che è proprio del cani, burlevole, come motteggievole; ma se fa ciò per
de quali si dice quando abbajano, che non vilipendere o pigliarsi giuoco ridendosi d'al
mordono, o non pigliano caccia. cuno, s'usa dire beffare e sbeffare, dileggiare,
Quando alcuno, non si contentando d'alcuna uccellare e ancora galeffare e scoccoveggiare:
cosa, o avendo ricevuto alcun danno o dis benchè questo sia piuttosto sanese che fioren
piacere, non vuole o non ardisce dolersi forte, tino. Dicesi ancora tenere a loggia, gabbarsi
ma piano e fra sè stesso, in modo però che d'alcuno, e, da un luogo così detto sopra Fi
dalla voce e dagli atti si conosca, lui partirsi renze verso Bologna cinque miglia, del quale
mal soddisfatto o restare mal contento, si di fece menzione Dante (5), e donde voi sete
ce: Egli brontola, o borbotta, o bufonchia, donde passato poco fa, mandare all'uccellatoio: e me
nasce bufonchino, per uno che mai di nulla desimamente tenere alcuno sulla gruccia, dalle
non si contenta, e torcendo il grifo a ogni cosa, civette, le quali in sulle gruccie si tengono,
si duole tra sè brontolando, o biasima altrui dalle quali nacque il verbo civettare non solo
borbottando; e di cotali si suol dire: Egli ap per uccellare, ma in quel proprio significato
porrebbono alla babà. che i Greci dicono trapazoirrstv, cioè fare alla
Chi sgrida alcuno, dicendogli parole o vil civetta, cavando ora il capo della finestra, e
lane o dispettose, si chiama proverbiare: chi ora ritirandolo dentro.
garrendolo o rinfacciandogli alcuno beneficio, Quando chicchessia ha vinto la pruova, cioè
rampognare e rimbrottare, onde nascono ram sgarato un altro, e fattolo rimanere o con
pogna e rimbrotti, cioè doglienze e borbotta danno o con vergogna, dicono a Firenze : Il
menti e quando si fa per amore, o, come il tale è rimaso scornato, o scornacchiato, o scor
volgo dice, per martello, si chiama rimorchiare. bacchiato, o scaracchiato, o scatellato, o smac
C. Dunque rimorchiare in quella Novella cato, o scaciato, che tutti cominciano, come
del Boccaccio della Belcolore e del Prete da vedete, dalle lettere s c, fuori che smaccato.
Varlungo, il quale quando vedeva il tempo (4),
guatatala un poco in cagnesco per amorevolezza
la rimorchiava, non significa, come spongono (1) Il Pulcinella Beca, composizione rusticale, stan. XVIII:
alcuni, la riguardava con qualche atto o se Beca mia dolce più, ch” un cul di pecchia,
Ch'ella t' ha tolto sempre a rimorchiare.
(2) Pataff. c. 2.
(1) Parad. xv. Un botto caddi, e uno stoicio al truzzolo
Saria tenuta allor tal maraviglia. Rimorchi.
Una Cianghella. (3) Di questo parere è Ottavio Ferrari nelle sue Origini;
(2) Bocc. Laber. num. 228. Egli c'è un'altra maniera ma il Menagio il fa derivare da Mordere, ovvero da Mocare.
di savia gente, la quale forse tu non udisti mai in iscuola tra (4) Jacopo Corbinelli in una postilla ms all'Ercolano sº
la filosofica gente ricordare; la quale si chiama la Cian pra questo luogo, dice: Oleum appresso gli Ebrei significa adu
ghellina. lazione, onde rimorchiare, in quanto ha in sè feccia d'olio,
(3) Di questa opinione sembra a principio essere anche il significa questa amorosa villania, che 'i Varchi dice.
Menagio nelle Origini della liugua Italiana, ma poi lascia (5) Parad., XV.
ia dubbio, se derivi da Adboare. Non era vinto ancora Montemale
(4) Bocc. Nov. 72, 5. Dal vostro Uccellatoio.
3 n.4 L'ERCOLANO
Dicesi ancora rimaner bianco, e, più moder occhi verso il cielo: Ei si morde il secondo dito,
namente, con un palmo di naso. e minaccia; e più stizzosamente, mordersi, o
Quando alcuno in favellando dice cose gran manicarsi, o mangiarsi le mani per rabbia.
di, impossibili o non verisimili, e insomma Quello che i Latini dicono adulari, si dice
quelle cose che si chiamano non bugiuzze o fiorentinamente piaggiare, e quello che essi
bugie, ma bugioni, se fa ciò senza cattivo fine, dicono obsequi, noi diciamo andare a i versi,
s'usa dire: Egli lancia, o scaglia, o sbalestra, o veramente con una parola sola secondare,
o strafalcia, o arrocchia, o ei lancia cantoni, e quello che dicono blandiri, diciamo noi lu
ovvero campanili in aria: ma se lo fa artata singare, onde vengono lusinghe, lusinghieri, che
mente per ingannare e giuntare chicchessia, usò il Petrarca (1) e lusinghevole, ancorchè
o per parer bravo, si dice: frappare, tagliare, il Boccaccio, in luogo di lusinghe (2), usasse
frastagliare: onde viene frastagliante e frasta in una delle sue ballate blandimenti, che noi
gliatamente, e con più generale verbo ciurma propriamente diciamo carezze dal verbo ca
re, dai ciurmatori che cantano in banca, lo rezzare o accarezzare, cioè far carezze; il che
danno la pietra di San Pagolo, i quali perchè diciamo ancora far vezzi e vedere alcuno vo
il più delle volte sono persone rigattate (1) lentieri e fargli buona cera, cioè buon viso,
e uomini di scarriera, mostrano altrui la luna accoglierlo, o accorlo lietamente. Usansi an
nel pozzo, o danno ad intendere lucciole per cora in vece d' adulare soiare, o dar la soia,
lanterne, cioè fanno quello che non è, parere e così (3) dar l'allodola, dar caccabaldole, moi
che sia e le cose picciole grandi. ne, roselline (4), la quadra e la trave, e più
D' uno che dica male d' un altro, quando popolarmente, andare a Piacenza, ovvero alla
colui non è presente, s'usano questi verbi: Piacentina, e talvolta ligiar la coda.
cardare, scardassare, tratti da cardatori e da Imbecherare nella lingua fiorentina significa
gli scardassieri: lavargli il capo, da barbieri; quello che i Latini dicevano subornare, onde
e vi s'aggiugne spesse volte, col ranno caldo, ancora si dice subornato, cioè convenire con
e talora, col freddo, e più efficacemente coi uno segretamente, e dargli, come si dice, il
ciottoli, ovvero: colle frombole: levarne i pezzi vino, cioè insegnargli quello che egli debba o
dai beccai, o da cani lavorarlo di straforo, fare, o dire in alcuna bisogna, perchè ne rie
da quelli che fanno i bucherami, o i ferri da sca alcuno effetto; che propriamente si dice
maschini: così, dargli il cardo, il mattone e la indettarsi. Dicesi ancora quasi nel medesimo
suzzacchero, massimamente quando se gli nuo significato imburchiare e imburiassare, onde
ce: e alcuni quando vogliono significare che buriassi si chiamavano coloro i quali mette
si sia detto male d'alcuno, sogliono dire: Ei vano in campo i giostranti e stavano loro d'in
si è letto in sul suo libro, o : La palla è balzata torno, dando lor colpi, e ammaestrandoli,
in sul suo tetto, e talvolta: E' n'ha avuta una come fanno oggi i padrini a coloro che deb
buona stregghiatura, ovvero mano di stregghia. bono combattere in isteccato. Buriassi si chia
Ogni volta che ad alcuno pare aver rice mano eziandio coloro i quali rammentano e
vuto picciolo premio d'alcuna sua fatica, o insegnano a provvisanti, o ancora a quelli che
non vorrebbe fare alcuna cosa, o dubita se la compongono : le quali cose si dicono ancora
vuol fare o no, mostrando che egli la farebbe da coloro che hanno cura de barberi perchè
se maggior prezzo dato, o promesso gli fosse, vincano il palio, imbarberescare, e dalle balie,
si dice: E nicchia, e pigola, e miagola, e la imboccare, e imbeccare, dagli uccelli; onde im
lella, e tentenna, ovvero, si dimena nel manico, boccare col cucchiaio voto, si dice per un co
si scontorce, si divincola, si scuote, e se ne tira tal motto e proverbio di coloro che voglion
indietro, e la pensa: e se v'aggiugne parole parere d'insegnare e non insegnano. Dicesi an
o atti che mostrino, lui aver preso il grillo, cora con vocabolo cavato da cozzoni de'cavalli
essere saltato in sulla bica, cioè essere adirato. scozzonare, e con voce più gentile e usata
e avere ciò per male, si dice: E marina, egli da compositori nobili, scaltrire, onde viene
sbuffa, o soffia ; e se alza la voce, e si duole scaltro, e scaltrito, cioè accorto e sagace; e
che ognun senta, si dice scorrubbiarsi, arran quando s'è insegnato alcun bel tratto, si di
golarsi e arrovellarsi, onde nascono rangolo, ce: Questo è un colpo da maestro, o, Egli ha
e rovello, e se continova nella stizza, e mostra dato un lacchezzino.
segni di non volere, o non potere star forte, Quando alcuno fa, o dice alcuna cosa scioc
e aver pazienza, si dice: Egli arrabbia; e vuol ca, o biasimevole, e da non dovergli per dap
dar del capo, o, batter il capo nel muro; egli pocaggine e tardità o piuttosto tardezza sua,
è disperato, e si vuole sbattezzare, dare alle riuscire , per mostrargli la schiocchezza e
streghe, e non ne vuol pace, nè tregua; e vuole mentecattaggine sua, se gli dice in Firenze:
affogarsi, o, gettarsi via, e brevemente rinne
gar la pazienza, e rendersi frate, e farsi ro (1) Canz. XLVIII, 2. Per seguir questo lusinghier crudele.
mito: e se ha animo di volersi, quando che (2) Bocc. nella Canz. della gorn. 1o. Che con parole, o
sia, vendicare, stralunando, o strabuzzando gli cenni, o blandimenti. Usollo anche nell'Amelo. c 14.
(3) Vedi il Menagio, che spiegando i modi di dire italiani
(stava meglio il dirli toscani, o fiorentini, usandosi solo per
(1) Questa voce non è nel Vocabolario della Crusca. Vale la più parte in Firenze) al n. 94 spiega questo: La carne del
lo stesso che uomo di scarriera, cioè vagabondo, che va scor l'allodola piace a tutti.
reº per Pº paesi per ingannare il popolo. Vedi il Menagio (4) Da, la quadra, vale dar la burla. Vedi esempli di
nelle sue origini italiane alla voce Iligata. buoni autori nel Vocabolario della Li usca alla voce Quadra.
DIALOGO 325

Tu armeggi; tu abacchi; tu farnetichi; tu an cosa, ma se ne dubita, o si crede dalla bri


naspi; tu t'aggiri; tu t'avvolgi, o veramen gata e se ne ragiona copertamente, si dice:
te (1), avvolti, alla sanese; tu t'avviluppi; tu E'se ne bucina, e si dee scrivere con un c solo,
t'avvolpacchi; tu non dai in nulla; e altri modi e non con due, perchè allora sarebbe il verbo
somiglianti, come: Tu perdi il tempo; tu non latino buccinare, che significa tutto il contra
sai a quanti di è San Biagio; tu farai la metà rio, cioè trombettare e dirlo su pe' canti an
di nonnulla; tu non sai mezze le messe; tu sa cora a chi ascoltarlo non vuole.
resti tardi alla fiera a Lanciano; tu ti morre Quelli che dicono cose vane o da fanciul
sti di fame in un forno di schiacciatine; tu non li, hanno i lor verbi propri vaneggiare, o,
accozzeresti tre pallottole in un corno, ovvero come disse Dante vanare (1), e pargoleggiare,
bacino; tu non vedresti un bufolo nella neve; i quali si riferiscono ancora al fare, e antica
tu aresti il mellone; tu inciamperesti nelle cial mente bamboleggiare.
de, ovvero cialdoni, o ne'ragnateli, o in un Di coloro i quali, come si dice, confessano
filo di paglia; tu faresti come i buoi di Noferi; il cacio, cioè dicono tutto quanto quello che
tu rimarresti in Arcetri; tu affogheresti alla Por hanno detto e fatto a chi ne gli dimanda o
ticciuola, o in un bicchier d' acqua; e non ti nel potere della giustizia o altrove che sieno,
toccherebbe a dir Galizia; e non ti toccherebbe s'usano questi verbi: svertare, sborrare, schio
a intignere un dito, se tutto Arno corresse bro dare, sgorgare, spiattellare, cantar d'Aiolfo, vo
da; se gli altri somigliassin te, e si potrebbe fare tare il sacco e scuotere il pellicino. -

a sassi pe' forni. C. Che cosa sono i pellicini ? Forse quei


C. E trovansi di quelli che osano dire, la vermini che nascendo nella palma della mano
lingua vostra esser povera ? - tra pelle e pelle, ce le fanno prurire, e con
V. Trovansene, e a migliaia ; ma da qui quel prurito c'inducono, grattandoci noi, mo
innanzi non dite vostra, ma fiorentina. lestia e piacere insiememente ?
C. Perchè ? V. I Toscani dicono pizzicare e pizzicore,
V. Perchè alcuni vogliono che io, sebbene non prurire e prurito, e cotesti che voi dite,
fui nato e allevato in Firenze, non sia fioren non si chiamano pellicini, ma pellicelli. Pellicini
tino, per lo essere mio padre venuto a Firen sono quei quattro, come quasi orecchi d'asi
ze da Montevarchi. no, che si cuciono nella sommità delle balle,
C. Voi volete il giambo; io dirò come bene due da ogui parte, aſfinchè elle si possano me
mi verra. glio pigliare e più agevolmente maneggiare; il
V. Fate voi; a me basta avervi detto quello che si fa ancora molte volte nel fondo dei
che dicono, e per quello che il dicono : e sacchi; e perciò si dice non solo votare e scuo
farò anch'io il medesimo; e però seguitando, tere il sacco, ma ancora i pellicini del sacco,
dico che coloro i quali favellano considerata ne quali entrano spesse volte e si racchiug
mente, si dicono masticar le parole prima che gono delle granella del grano o d'altro, di che
parlino: quelli che non le sprimono bene, il sacco sia pieno ; e aprire o sciorre il sacco,
mangiarsele, e quelli che peggio, ingojarsele: º significa cominciare a dir male; e essere alle
quelli che penano un pezzo, come i vecchi e peggiori del sacco, essere nel colmo del con
sdentati, biasciarle: e quelli che per qualun tendere; essere al fondo del sacco, essere al
che cagione, avendo cominciato le parole, non fine (2): traboccare il sacco, e quando non ve
le finiscono, o non le mandano fuori, ammez ne cape più, cioè non si può avere più pa
zarle; onde il Petrarca disse: zienza: dicesi ancora sgocciolare l'orciuolo, ov
vero l'orciolino, e talvolta il barlotto.
Tacito vo, che le parole morte Se alcuno ha detto alcuna cosa, o vera o
Farian pianger la gente (2) ;
falsa che ella sia, e un altro per piaggiarlo e
benchè alcuni interpetrano morte, cioè meste fare ch'ella si creda, gliele fa buona, cioè l'ap
e dogliose, o che di cose meste e dolorose ra pruova, affermando così essere come colui dice,
gionano. e talvolta accrescendola, sono in uso questi
Quelli che favellano piano e di segreto l'uno verbi: rifiorire, ribadire, rimettersela, o riman
all'altro, o all'orecchio, o con cenni di capo darsela l'un l'altro, rimbeccarsela, o rimpolpet
e certi dimenamenti di bocca, e insomma che tarsela.
fanno baobao, come si dice, e pissi pissi, si C. Io odo cose che io non sentii mai più ,
dicono bisbigliare, e ancora, ma non così pro ma che vuol significare propriamente ribadire?
priamente con verbi latini susurrare e mor V. Voi n' udirete e sentirete dell'altre, se
morare. Avvertite però che sebbene da bisbi arete pazienza e non vi venga a fastidio l'a-
gliare si dice bisbigliatore e bisbiglio, o da scoltarle. Quando un legnaiuolo, che gli altri
bisbiglio bisbigliare, non pertanto si dice an dicono falegname o marangone, avendo confitto
ºra bisbiglione, ma in quella vece si dice su un aguto e fattolo passare e riuscire dall' al
ºrrone: e quando non si sa di certo alcuna
(1) Dante, Purg. XVIII:
(1) Areolli è anche parola nostrale, ma contadinesca. Il Stava com'uom che sonnolento cana.
Berni nella Catrina: (2) Dicesi anche: Colmare il sacco. Petrar. Son. CV1.
Eh tu t'aerolli, Beco, ch'ella è mia, L'avara Babilonia ha colmo il sacco
º per men un draio non te la da. D'ira di Dio;
(2) Peti. Son. XVI 11. ed è in questo sentimento accennato dal Varchi.
326 L' ERCOLANO

tra parte dell'asse, lo torce cosi un poco nella ragione dovea volere anco che si dicesse repe
punta col martello, e poi lo ripicchia e ri titore e non ripetitore, ma seguitate.
batte e brevemente lo riconficca da quella V. Gridare, che i Latini dicevano solamente
banda perchè stia più forte, si dice ribadire. in voce neutra exclamare, si dice da noi evian
C. Ora intendo io la metafora e ne rimango dio attivamente, come anco garrire; ma sgri
soddisfattissimo; però seguitate se avete più dare, onde il Boccaccio (1) formò sgridatori,
verbi di questa ragione, che a me non solo è solamente attivo: stridere per lo contrario,
non viene a noia, ma cresce il disiderio di è sempre neutro, come anco appresso i La
ascoltare. tini; benchè essi lo fanno della seconda con
V. Di coloro i quali per vizio naturale o giugazione, cioè dicono stridere coll'accento
accidentale non possono proferire la lettera r, circunſlesso in sulla penultima sillaba, il quale
e in luogo di frate dicono fate, si dice non accento la mostra esser lunga; e noi facendolo
solamente balbotire o balbutire, come i Latini, della terza, diciamo stridere coll'accento acuto
ma balbettare ancora, e talvolta balbezzare, e in sulla antepenultima, il quale dimostra la
più fiorentinamente, trogliare o barbugliare, e penultima sillaba esser breve; benchè la lin
di più tartagliare: e il verbo proprio di que gua volgare non tien conto principalmente della
sto e altri cotali difetti è scilinguare; onde quantità delle sillabe, ma della qualità degli
d'uno che favella assai, s'usa di dire: Egli accenti. Guaire, che i Latini dicevano eſulare,
ha rotto o tagliato lo scilinguagnolo, il quale onde nacque la voce guai, è anch'egli sola
si chiama ancora filetto, che è quel muscolino mente mentro, e cosi urlare, benchè Virgi
che tagliano le più volte le balie di sotto la lio (2) l'usasse in voce passiva; e non è pro
lingua a bambini: e quando uno barbugliando prio degli uomini, ma dei lupi, sebbene i La
si favella in gola, di maniera che si sente la tini dicevano ululare ancora degli assiuoli, come
voce, ma non le parole, s'usa il verbo gor noi del colombi. Strillare, il che si dice ancora
gogliare, onde Dante disse: mettere urli o urla, stridi o strida, strilli e ti
foli, è proprio quello che i Latini dicevano
Questo inno si gorgoglian nella strozza (1) vociferari, cioè gridare quanto altri n' ha in
Dicesi ancora gargagliare, onde nasce garga testa, ovvero in gola: e ringhiare con ringhiosi
gliata. che disse Dante (3), è irringere latino che è
Se avviene che alcuna cosa sia seguita o di proprio dei cani quando irritati, che noi di
fatti, o di parole, e che colui a chi tocca, non ciamo aissare, mostrano con rigno, digrignando
vuole per qualunche cagione che ella si ri i denti, di voler mordere.
tratti e se ne favelli più, dice: Io non voglio C. Ringhiare non si dice egli ancora de'ca
valli?
che ella si rimesti, o rimeni, o rimescoli, o ri
calcitri più. Dicesi ancora riandare, cioè: Io V. Rignare si dice, ma il proprio è anni
non voglio riandarla, o che ella si riandi, anzi trire. Stordire, onde nasce stordito e stordigio
che vi si metta su piè per sempre. E quello che ne, è verbo così attivo, come neutro, perchè
così si dice: Io stordisco a questo romore, come :
si dice ripetere, onde nasce ripititore, fu dal
Petrarca detto, rincorrere. (2) Tu mi stordisci colle tue grida, ovvero: I tuoi
C. Che vuol dire ripititore? gridi mi stordiscono, e storditi si chiamano
V. ltipititore si chiamano proprio quei sotto propriamente quelli i quali, per essere la saetta
maestri, per dir così, i quali letta che hanno caduta loro appresso, sono rimasi attoniti e
i maestri la lezione, la fanno ripetere e ridire sbalorditi, i quali si chiamano ancora intro
a discepoli; e quando io era piccino, quelli nati, perchè intronare, appresso i Toscani è
che avevano cura de fanciulli, insegnando loro attivo e non neutro, come appo i Latini in
in quel modo che i Latini dicono subdocere, tonare, e significa propriamente quel romore
e menandogli fuora, non si chiamavano come che fanno i tuoni, chiamato da alcuni frastuo
oggi pedanti, nè con voce greca pedagogi, ma no, oa de Dante disse:
con più orrevole vocabolo ripititori, benchè
ser Gambassi che stava in casa nostra per ri Così si fecer quelle facce lorde
Dello demonio Cerbero, che 'ntruona
pititore, del quale io ho poco da potermi lo L'anime sì, ch'esser vorrebber sorde (4).
dare, voleva che si dicesse ripetitore per e nella
seconda sillaba dal verbo ripetere, e non per i. Quello ehe i Latini dicevano grecamente re
e faceva di ciò un grande scalpore, come se boare, dicono i Toscani rintronare e rimbom
ne fosse ito la vita e lo stato.
bare, da bombo voce latina che significa certo
C. Egli dovea essere piuttosto pedante o pe
dagogo che ripititore, perchè per la medesima
(1) Bocc. Nov. XXVII, 21.
(1) Dant. Inf. VII. (2) virg. Eneide, lib. 1 V. Nocturnisgue Hecato trici,
ululata per urbes.
(2) Petr. Canz. XXVIII. 1.
Ma pur quanto l'istoria trovo scritta (3) Dante disse ringhiare, Inf. V.
In mezzo 'l cor, che si spesso rincorro. Starvi Minos orribilmente, e ringhia.
Ma nell'edizione del Rovillio fatta in Lione nel 1574, che E Purg. XIV, disse ringhioso, ma come nome addiettivo:
è la citata dalla Crusca, si legge: ricorro, quasi scorro di nuovo, Botoli trova poi venendo giuso
benchè nelle annotazioni poi si legge rincorro, ritorno a leg Ringhiosi;
gere e a discorrer col pensiero; ma da questa spiegazione sem poichè il ringhiare si dice ringhio, e non ringhioso.
bra che anche qui si debba leggere: ricorro. (4) Dante, inf. V1.
DIALOGO 327
suono di tromba; onde disse il Poliziano nella V. Secondare, o andar secondando il parlare
fine d'una delle sue altissime Stanze: altrui, e accomodarsi al parlare.
Di fischi e bussi tutto 'l bosco suona, C. E quando disse: Munus nostrum ornato
Del rimbombarde corni il ciel rintruona (1); verbis? (1)
V. Abbellisci il dono, o il presente nostro colle
e nella stanza seguente: parole, ma Dante che volle dirlo altramente,
Con tal tumulto, onde la gente assorda, formò un verbo da sè d'un nome agghiettivo
Dall' alte cateratte il Nil rimbomba. e d'una preposizione latina e disse:
C. Quel verbo che i Romani, i quali da Ro Mal dare e mal tener, lo mondo pulcro ,
molo, che fu nominato Quirino, si chiamavano Ha tolto loro e posti a questa zuffa,
Quirites, formarono quando volevano signifi Quale ella sia, parole non ci appulcro (2).
care gridar soccorso e chiedere aiuto, massi C. Dite il vero: piacevi egli, o parvi bello
mamente dal popolo, cioè quiritare, ovvero cotesto verbo appulcro ?
quiritari, truovasi egli nella lingua toscana o V. Non mi dimandate ora di questo.
fiorentina?
C. Voi pigliate qui abbellisce in significazione
V. Con una parola sola che io sappia, no, attiva, cioè per far bello e di sopra quando al
ma si dice gridare a corriuomo ; ma bene legaste quei versi di Dante:
avete fatto a interrompermi, perchè io era en
trato in un lecceto da non uscirne così tosto, Opera naturale è ch'uom favella:
tanti verbi ci sono che significano le voci de Ma così, o così, natura lascia
gli animali, (nel che però siamo vinti da La Poi fare a voi, secondo che v'abbella (3).
tini) e anco eramo troppo discosto dalla mate pare che sia posto in significazione neutra, cioè
ria del favellare.
per piacere e per parere bello.
C. Troppo lontani no, perchè ogni cosa fa V. Voi dite vero, ma quello è della quarta
per me e non ve ne dimando, perchè mi ri congiugazione, ovvero maniera de'verbi, e que
cordo di quei versi che sono nella vostra Dafni, sto è della prima: quello si pone assoluta
dove mi pare che siano quasi tutti. mente, cioè senza alcuna particella innanzi, e
V. Io non me ne ricordo già io; di grazia questo ha sempre davanti sè o mi, o ti, o gli,
ditegli, per vedere se così è come voi dite. secondo le persone che favellano, o delle quali
C. I serpenti fischiar, gracchiaro i corvi, si favella: questo è modo di dire toscano, come
Le rane gracidar, bajaro i cani, mostra Dante stesso, inducendo nella fine del
Belarono i capretti, urlaro i lupi, ventunesimo Canto del Purgatorio Arnaldo Da
Ruggirono i leon, mugghiaro i tori, niello a dire provenzalmente:
Fremiron gli orsi e gli augei notturni Jam m'abellis votre cortois deman (4) ;
Civette ed assiuoli gufi e cuculi
S'udir presaghi del gran danno in lungo e gli altri versi che seguitano; benchè per mio
Dall' alte torri e 'n cima a tristi nassi avviso siano scritto scorrettamente. Dicesi ezian
Strider con voci spaventose e meste. dio, come 'l Boccaccio nell'Ameto:
V. Anzi ce ne sono molti altri, come dei De'quai la terza via più s'abbelliva. (5)
corvi il crocitare, piuttosto che gracchiare, squit C. Voi non avete detto nulla del verbo ar
tire de pappagalli; ragghiare degli asini; mia ringare?
golare delle gatte; schiamazzare delle galline
V. Aringare si pronunzia oggi e conseguen
quando hanno fatto l'uovo; pigolare de' pul temente si scrive per una rsola, e non come
cini; cantare de' galli e trutilare dei tordi ;
anticamente con due, e significa non solamente
ma io non me ne ricordo; e anco non fanno
correre una lancia giostrando, ma fare un o
a proposito, come ho detto, della nostra ma
teria: però sarà bene che seguitiate, come avete razione parlando, cd è proprio quello che in
Firenze si diceva favellare in bigoncia, cioè
cominciato, a dimandar voi di quello che più orare pubblicamente o nel consiglio o fuori:
disiderate di sapere.
C. Quel verbo che i Latini dicono compel ed aringo, usato più volte non solo da Dan
te (6), ma dal Boccaccio (7), significa così lo
lare, non dico quando significa parlare fami
gliarmente, nè chiamare uno per nome, nè spazio dove si corre giostrando o si favella
accusare chicchessia, ma chiamare uno forte
orando come esso corso o giostra, ed esso par
per uccellarlo e fargli baja, hannolo i Toscani lare, ovvero orazione; ed è questo verbo in
uso ancora oggi in Vinegia tra gli avvocati;
in una parola ? -

V. Hannolo; perchè bociare significa proprio (1) Terenz. Eunuc. att. II, sc. I. Munus nostrum or
cotesto, sebbene si piglia ancora per dare una nato verbis, quod poteris.
voce ad alcuno, cioè chiamarlo forte. (2) Dani. Inf. VI I.
C. Come direste voi nella vostra lingua quello (3) Daat. Parad. XXVI.
che Terenzio disse nella latina subservire ora (4) Questo verso nel Dante fatto stampare dall'Accademia
tioni ? (2) della Crusca, si legge cosi:
Tan m'abbellis votre cortois deman.
(1) Poliz. Stanz. XXVII. (5) Nell'Ameto del Bocc. non trovo questo verso.
(2) Terenzio nell'Andria, att. IV, sc. IV. Tu, ut sub (6) Dant Parad. I.
ser, as ora ioni utcunque opus sit verbis, vide. (7) Bocc. Nov. XVIII, 2.
328 L' ERCOLANO
e da questo fu chiamata in Firenze la ringhie Landini in quel verso di Dante nel ventesimo
ra, luogo dinanzi al palazzo, dove, quando settimo Canto dell' Inferno:
'entrava la Signoria, il podestà salito in bigon E sì vestito andando mi rancuro;
cia, che così si chiamava quel pulpito fatto a
guisa di pergamo, dentro il quale aringava, fa ed è egli si mala cosa. e così da doversi fug
ceva un'orazione (che in quel tempo si chia gire, come alcuni lo fanno?
mavano dicerie) a signori, da quella parte dove V. Rancuro, donde si venga, è verbo pro
è il Marzocco, ovvero il lione indorato che venzale, e significa attristarsi e dolersi, come
la sotto la lupa, al quale in quelli e in tutti si vede in quel verso d' una canzone di Fol
gli altri giorni solenni si metteva e si mette chetto da Genova (benchè egli si chiamò e
la corona dell' oro.
volle essere chiamato da Marsilia) la quale
C. Piaceni intendere cotesti particolari dei canzone comincia:
costumi e usanze di Firenze; ma che vuol dire
berlingare? Per Deu amors ben sabez veramen,
V. Questo è verbo più delle donne, che de dove dice dolendosi della sua donna:
gli uomini, e significa ciarlare, cinguettare, e
tattamellare e massimamente quando altri aven Cumplus vos serfchascuns, plus se rancura;
do pieno lo stefano e la trippa (chè così chia cioè, per tradurlo così alla grossa in un verso:
mano i volgari il corpo o il ventre), è riscal
dato dal vino: e da questo verbo chiamano i Com'più vi serve alcun, più se ne duole.
Fiorentini berlingaiuoli e berlingatori coloro i Usalo ancora Arnaldo di Miroil in una sua
quali si dilettano d'empiere la morfia (1) cioè canzone che comincia :
la bocca, pappando e leccando: e Berlingac
cio quel giovedì che va innanzi al giorno del Sim destringues donna vos et amor.
carnesciale che i Lombardi chiamano la giob Da questo discende rancura (1) cioè tristizia,
bia grassa, nel qual giorno per una comune e doglienza; nome usato da Dante, che disse
e prescritta usanza così fatta pare che sia le una volta :
cito a ciascuno, facendo stravizi e tafferugli,
attendere con gliiottornie e leccornie, senza La qual fa del non ver vera rancura (2);
darsi una briga o un pensiero al mondo, a
godere e trionfare; il che oggi si chiama far ma molte da poeti Provenzali, come si può
vedere nella medesima Canzone del medesimo
tempone. E sono alcuni i quali credono che Folchetto; e Pietro Beumonte nella Canzone
da questo verbo, e non dal nome borgo, sia che comincia:
detta berginella (2), cioè fanciulla che vada
sberlingacciando e si truovi volentieri a gozzo Al pariscen de las flors,
viglie e a tambascià (3), e per conseguente, cioè,
di mala fama: e talvolta furono di qui chia
mati i berlingozzi, i quali in cotali giorni si All'apparir de' fiori,
dovevano usare a conviti nel principio della disse:
mensa, come ancora oggi si fa: e forse ancora
Qui la en paez see rancura;
il casato de'Berlinghieri (4), o per fare spesse
volte pasto, che anticamente si diceva metter cioè,
tavola; o per intervenire volentieri nelle tre Chi l'ha in pace senza tristezza, o dolore.
sche e a trebbi per darsi piacere e buon tem
po. E contuttochè i furfanti non siano troppo C. Io non intendo questa lingua provenzale,
usi a sguazzare e stare co'piè pari) il che si e per non interrompere il corso del nostro
chiama scorpare e stare a panciolle) nondime ragionamento non ve ne voglio dimandare ora;
ma ditemi, non avete voi altri verbi senza
no in lingua furbesca si chiama berlengo quel andare fino in Provenza, che significhino que
luogo dove i furbi alzano il fianco, quando
hanno che rodere; siccome refettorio (5), quello sta passione?
V. Abbiamne tre latini, dolersi, lamentarsi
dove fanno carità i frati quando non digiunano.
C. Bene sta, ma che dite voi del verbo e querelarsi, e due nostri lagnarsi e ramma
rancurare? Viene egli da rancore ovvero rug ricarsi, che si dice anco per sincopa rammar
gine, cioè da odio occulto, che i Latini dice carsi, come si vede in Dante (3), e da questo
vano simultas, come afferma messer Cristofano
(1) Il Davanzati dice che rancura significa compassione.
Ecco le sue parole nella post. 27, al libro VI degli Annali
(1) Mofia è parola furbesca, siccome mofire, o smorfire, di Tacito : Rancore significa odio, e s'usa l'ancºra, comu
cioè mangiare. In francese la morſe vale quasi lo stesso. passione, e oggi non s'usa. A me viene rancura della perdita
(2) Vedi il Menagio nelle sue Origini italiane alla voce ber di questa voce bellissima e ne libri antichi spessissima. Ma tanto
golo e berlingare. il Varchi, quanto il Davanzati dicono bene, perchè la com
(3) Questa voce non è nel Vocabolario della Crusca. passione non è altro che un dolersi, e un attristarsi del male
Credo che vaglia baccano, o simile. altrui.
(4) il casato de Berlinghieri viene, come quasi tutti, da (2) Dante Purg. X.
uno che ebbe cotal nome, il qual nome viene da Berengarius. (3) Dante Purg. XXXl I.
(3) Roſettorio viene dal Lat, reficere; e reſezione si E qual esce di cuor che si rammarca ,
dice un pasto assai frugale. Tal voce us i dal Cielo.
DIALOGO 329
nascono rammarico ovvero rammarco e ram C. In che significato pigliate voi ghiribizzare?
marichio nel medesimo significato. V. Ghiribizzare, fantasticare, girandolare e
C. Perchè dunque usò Dante rancuro e ran areigogolare si dicono di coloro i quali si stil
cura, forse per cagion della rima ? lano il cervello, pensano a ghiribizzi, a fanta
V. Appunto mancavano rime a Dante e sticherie, a girandole, ad arzigogoli, cioè a
massimamente in coteste parole che se ne tro nuove invenzioni e a trovati strani e straor
vano le migliaja! Ma il fece, credo io, o per dinari, i quali o riescono o non riescono; e
arricchir la lingua, o perchè cotali voci erano cotali ghiribizzatori sono tenuti uomini per lo
a quel tempo in uso. più sofistici, indiavolati, e come si dice vol
C. Musare, che usò Dante quando disse nel garmente, un unguento da cancheri (1), cioe
ventesimº ottavo Canto dell'Inferno: da trarre i danari dalle borse altrui e met
tergli nelle loro.
Ma tu chi sei che 'n su lo scoglio muse? C. Che vuol dire apporre?
V. Dire che uno abbia detto o fatto una
viene egli dal verbo latino mussare, cioè par
lare bassamente, come ho trovato scritto in al cosa (2) la quale egli non ubbia nè fatta, ne
cuni libri moderni ? ::
detta; il " i Latini dicevano conferre aliud
V. Non credo io, sebbene pare assai veri in aliquem, o conferre culpam.
simile (1); perchè il mussare latino che è il C. Quando voi faceste menzione di cicalare,
frequentativo di mutire, come mussitare di mus ciarlare, e di quegli altri verbi che comincia
sare, significa più cose, e non mi pare che egli no da c, lasciaste voi nel chiappolo in pruova
abbia quella proprietà che ha il nostro musare o piuttosto nel dimenticatoio, non ve ne ac
che viene da muso, cioè viso o volto, che si corgendo il verbo sbajaffare, che alcuni come
dice ancora ceffo, grifo, niſfolo, grugno e mo bella e molto vaga voce lodano tanto? o forse
staccio, e massimamente negli animali; onde parendovi troppi quelli e di soverchio, non
noi, quando alcuno maravigliando e tacendo voleste raccontare questo?
ci guarda fissamente col viso levato in su, e V. Quanti più fossero stati, me' sarebbero
col mento che sporti in fuora e pare che vo paruti : ma io non lo raccontai, perchè mai
glia colla bocca favellare e non favella, dicia- non ho letto, nè udito nè sbajaffare, nè sbajaf
- -

mo: Che musi tu? o che sta colui a musare? | fatori, né sbajaffoni, nè mai favellato con al
- -

ovvero alla musa; nella quale opinione tanto cuno che l'abbia letto o sentito pur ricorda
mi confermo più, quanto ella non è mia (ben re; e anco non vi conosco dentro molta ne
chè anco mia), ma del molto reverendo e dot bellezza, nè vaghezza, anzi piuttosto il con
tissimo Priore degli Innocenti (2), già da me trario; e se pure è toscano, o italiano, non e
più volte allegato. fiorentino; che è quello che pare a me che
C. Voi m'avete fatto venire una gran vo voi cerchiate: credo bene ch'i Gianni (3)
glia di conoscere e onorare cotesto Priore, nelle loro commedie dicano sbajare.
essendo egli tanto buono, e tanto dotto e tanto C. Anfanare non significa anch'egli ciarla
re, e si dice di coloro o a coloro che ciarlano
amorevole, quanto voi dite. Ma che intendete
voi per millantarsi, e donde viene cotal verbo? troppo e fuori di proposito ?
V. Vanagloriarsi, ammirar sè stesso, dir bene V. Che sappia io no (4), perchè è verbo
contadino che significa andare a zonzo, ovvero
di sè medesimo e innalzare più su che 'l cielo
le cose sue, facendole maggiori non pure di aione, ovvero aiato, cioè andare qua e là senza
quello che sono, ma di quello che esser pos sapere dove andarsi, come fanno gli sciope
sono; e fu tratto da quelli che, parendo loro rati e a chi avanza tempo; il che si dice an
essere il seicento, hanno sempre in bocca cora: andarsi garabullando e chicchirillando.
C. Zazzeando, che e nella Novella del Prete
mille, e la prima tacca della stadera de' quali
dice un migliaio (3): e di questi tali che si da Varlungo ne'testi stampati già da Aldo,
ungono o untano gli stivali da lor posta, cioè non vuole egli dire cotesto medesimo?
si lodano da se medesimi, si suol dire che V. Credo di si; dico, Credo, perchè alcuni
hanno cattivi vicini. altri hanno zazzeato, da questo medesimo ver
C. Avete voi altro verbo che senza tante bo, e alcuni zacconato (5), la qual voce io non
migliaia e millanterie e millantatori, signifi so quello si voglia significare.
chi quello che i Latini dicono factare se e (1) Perchè questo unguento si dice anche unguento da
gloriari? trarre.
V. Jactare se e somigliantissimo a millan (2) Prendesi sempre in mala parte, cioè si appone sempre
tarsi, e noi abbiamo oltra il gloriarsi, che è cosa cattiva.
latino, un verbo più bello il quale è vantarsi (3) Lo stesso che Zanni; del che vedi il Menagio nelle
o darsi vanto, il quale verbo e nome non han Origini Toscane alla voce Zanni. Il Varchi disse Gianni,
no i Latini, ma i Greci si, che dicono felice alludendo all'etimologia di Zanni, quasi venga da Giovanni,
mente su XsaSat, ed svXog. Gli antichi nostri che i Bergamaschi dicono Zanni.
usavano ancora da boria, boriare onde borioso. (4) Il Varchi s'inganna negando che a ſa are non signi
fichi parlare a sproposito: Vedi il Vocabol. della Crusca a
questa voce.
(1) Vedi il Menagio nelle Origini Italiane alla voce Musare. (5) Il Bocc. nella Nov. LXXII, usa ambedue queste
(2) Questi è Don Vincenzio Borghini. voci Zarconato, e Zazzeato, num. 6. Andando il prete di
(3) i Francesi usano dire de vantatori: Il ne parle, que fitto meriggio per la contrada or qua, or tà zazzeato. E num. 7.
par milions. Che andate voi sacconato per questo caldo? ma non mai sas
VARCIII V, I 42
33o L' ERCOLANO
C. In qual significazione s'usa orpellare? fanno cioè dare, o gittare o sputare bottoni, ma
V. Quando alcuno, mediante la ciarla e eziandio con una sola, sbotroneggiare cioè dire
per pompa delle parole vuol mostrare che astutamente alcun motto cºntra chicchessia
| per torgli credito e riputazione, e dargli bia
quello che è orpello sia oro, cioè fare a cre
dere ad alcuno le cose o picciole, o false, o simo e mala voce, il che si dice ancora ap
brutte, essere grandi, vere e belle. piccar sonagli e affibbiar bottoni senza occhielli.
C. Che dite voi del verbo bravare? C. Far cappellaccio, che cosa è ?
V. Che egli con tutta la sua bravura, e an V. I fanciulli quando vogliono girare la trot
corchè sia venuto di Provenza a questo effet tola, ed ella percotendo in terra non col ferro
to, non è però stato ancora ricevuto dagli au e di punta, ma con legnaccio e di costato
tori nobili di Toscana (1), se non da pochis non gira, si dicono aver fatto cappellaccio, co
simi e di rado, e pure è bello e se non ne me chi volendo far quercia, e cadendo fa un
cessario, molto proprio, perchè svillaneggiare, tombolo ovvero cimbottolo. Ma questo signi
o dir villania, minacciare, oltraggiare, e sopraf ficato è fuori della materia nostra; però di
fare ovvero soperbliare di parole, e altri tali, remo che fare un cappellaccio ovvero cappello
non mi pare che abbiano quella forza ed ener (nella materia della quale ragioniamo) ad al
gia, per dir così, nè anco quella proprietà e cuno, e dargli una buona canata e fargli un
grandezza che bravare; e insomma egli mi pare bel rabbuffo colle parole o veramente farlo
un bravo verbo, sebbene le sue braverie sono rimanere in vergogna, avendo detto o fatto
state infin qui a credenza; e quei bravoni o alcuna cosa, della quale si gareggiava, meglio
bravacci che fanno il giorgio su per le piazze, di lui.
e si mangiano le lastre (2) e vogliono far paura C. Che vuol dire far quercia ?
altrui coll'andare e colle bestemmie, facendo V. Non sapete voi che l'uomo si dice es
sere una pianta a rovescio cioè rivolta all'in
il viso dell'arme, si dicono cagneggiarla o fare
il crudele. giù ? onde chiunque distese e allargate ambo
C. Come direste voi Fiorentini nella vostra le braccia s'appoggia colle mani aperte in
lingua quello che Terenzio nell'altrui: Injeci terra e tiene i pie alti e diritti verso 'l cielo,
scrupulum homini? (3) si chiama far quercia. . .

V. Io gli ho messo una pulce nell'orecchio: C. Buono; ma a me non sovviene più che
dicesi ancora mettere un cocomero in corpo, dimandarvi dintorno a questa materia del fa
onde coloro che non vogliono stare più irre vellare, nè credo a voi che dirmi, veggendovi
soluti, ma vederne il fine e farne dentro o stare tutto pensoso e quasi in astratto.
fuora, e finalmente cavarne , come si dice, V. Oh come disse bene Dante!
cappa o mantello dicono: Sia che si vuole, io
non voglio star più con questo cocomero in cor Veramente più volte appajon cose
po, e se volete vedere come si deono dire Che danno a dubitar falsa matera,
queste cose in lingua nobile e leggiadramente, Per le vere cagion che sono ascose (1).
leggete quel Sonetto del Petrarca che comin
cia (4): Questa umil fera, ec. Io stava così penseroso e quasi in estasi, non
C. E quello che Plauto (5) disse: Versatur perchè io non avessi che dire, ma perchè mi
in primoribus labiis, cioè, io sto tuttavia per pareva aver che dir troppo sopra un subietto
dirlo e parmene ricordare, poi non lo dico, medesimo, e dubitava d'avervi o stanco o fa
stidito.
perchè non me ne ricordo? C. Stando a sedere e in sì bel luogo e con
V. Io l'ho in sulla punta della lingua.
tali ragionamenti e con sì fatte persone non
C. Benissimo: e quello che Virgilio disse si stracca. E che altra faccenda ho io, anzi
nel principio del secondo dell' Eneide: Spar qual faccenda si dee a questa preporre ? o in
gere voces ambiguas, come lo direste?
V. Non solamente con due voci, come essi che si può spendere meglio il tempo che in
apparare? Seguite per l'amor di Dio; che se
io potessi esservi più tenuto di quello che so
stando. Queste due voci sono nel Vocabolario notate, come no, vi direi di dovervene restare in perpetua
d' oscura significazione. Anzi Zacconato è anche senza esem
obbligazione.
pio, lasciato forse per incuria dello stampatore, perche dicendo V. Bucherare, ancorchè significhi far buche,
il Vocabolario esser voce di quei tempi, si riferisce necessa
riamente all'esempio, come nota il Canonico Pierfrancesco e andar sotterra, si dice in Firenze quello che
Tocci nel suo erudito Parere sopra la voce Occorrenza. i Latini dicevano anticamente ambire e oggi
(1) L'usa il Gelli nella Sporta, att. III, sc. V. ed il Ber a Venezia si dice far brolo, cioe andare a tro
ni, Orl. I, 11, LXV e altri.
vare questo cittadino e quello, e pregarlo con
(2) Fare il giorgio, e, mangiarsi le lastre, sono due frasi ogni maniera di sommessione che quando tu
che vagliono lo stesso, cioè fare il bravo, fare altrui paura
andrai a partito ad alcuno magistrato o ufizio
col levarsi in collera e minacciare per ogni piccola cosa. Il
Berni nel Capitolo 1 della Peste : E ſassi il giorgio colle sec
ti voglia favorire, dandoti la fava nera: e per
caticce. Ma qui vale il fare un fantoccio di legne secche, che chè gli uomini troppo disiderosi degli onori,
rappresentava un soldato, che per festa e per ischerzo era molte volte per ottenergli davano o promet
pos, ia bruciato. tevano danari e altre cose peggiori, si fecero
(3) Terenzio negli Adelfi, att. 11, sc. II. Timet; Injec, più leggi contra questa maladetta ambizione
scrupulum homini.
(4) Petr. Son. CXIX.
(5) Plaut, nel Triaun, att. 1V, sc. II. (1) Dant. Purgat. XXII,
DIALOGO 33 i

e in Roma (1), e in Firenze e in Vinegia, le mente dire quel proverbio: asin bianco gli va
quali sotto gravissime pene proibivano che al mulino; e nondimeno o per pigliarsi pia
niuno potesse nè ambire, nè bucherare, ne cere d'altrui o per sua natura, pigola sempre,
far brolo; e tutte in vano. e si duole dello stato suo, o fa alcuna cosa
Perfidiare o stare in sulla perfidia, è volere, da poveri si suol dire, come delle gatte: egli
per tirare o mantenere la sua, cioè per isga uccella per grassezza, e si rammarica di gamba
rare alcuno che la sua vada innanzi a ogni sana; egli ruzza o veramente scherza in bri
modo, o a torto oa ragione; e ancorachè egli glia; benchè questo si può dire ancora di co
conosca d'avere errato in fatti o in parole, loro che mangiano il cacio nella trappola,
sostenere in parole e in fatti l'opinione sua, cioè fanno cosa della quale debbono, senza
e dire, per vincer la prova, se non avere er potere scampare, essere incontamente puniti;
rato; del che non può essere cosa alcuna nè come coloro che fanno quistione e s'azzuffano
più biasimevole, nè più diabolica; e insom essendo in prigione: e quando alcuno per lo
ma, perchè la sua stia e rimanga di sopra, e contrario, facendo il musone e stando cheto,
quella dell'avversario al disotto, difendere il attende a fatti suoi senza scoprirsi a persona
torto e fare come quella buona donna la quale, per venire a un suo attento, si dice: e fa
quando non potette dir più forbice colla bocca fuoco nell'orcio o e' fa a chetichegli, e tali
perchè boccheggiava e dava i tratti che i La persone che non si vogliono lasciare intendere,
tini dicevano agere animam, lo disse colle dita si chiamano coperte, segrete e talvolta cupe,
aprendo e ristringendo a guisa di forbice l'in e dalla plebe soppiattoni, o golponi o lumaco
dice e 'l dito di mezzo insieme. ni, e massimamente se sono spilorci e miseri;
Ricoprire, in questo suggetto è, quando al come di quelli che hanno il modo a vestir
cuno il quale ha detto o fatto alcuna cosa, la bene, e nondimeno vanno mal vestiti si dice:
quale egli non vorrebbe avere nè detta, nè fatta, Chi ha 'l cavallo in istalla, può andare a piè.
ne dice alcune altre diverse da quella, e quasi D'uno il quale non possa o non voglia fa
interpreta a rovescio o almeno in un altro vellare, se non adagio e quasi a scosse, e per
modo, sè medesimo; onde propriamente, co dir la parola propria de volgari cacatamente,
me suole, disse il nostro Dante: si dice: E' ponza, quasi penino un anno a rin
venire una parola; come per lo contrario di
Io vidi ben siccome ei ricoperse chi favella troppo e frastagliatamente in modo
Lo cominciar con altro che poi venne, che non iscolpisce le parole, e non dice mezze
Che fur parole alle prime diverse (2). le cose, si dice: E' s'affolta, o e' fa una affol
La qual cosa si dice ancora rivolgere o rivol. tata, o e's'abborraccia. -

tare e talvolta scambiare i dadi. Il verbo pro Quando uno dice il contrario di quello che
prio è ridirsi, cioè dire il contrario di quello dice un altro, e s'ingegna con parole e con
s'era detto prima. ragioni contrarie alle sue di convincerlo, si
Scalzare, metaforicamente, il che oggi si dice chiama ribattere, cioè latinamente retundere;
ancora cavare i calcetti, significa quello che ma se colui conosciuto l'error suo, muta opi
volgarmente si dice sottrarre e cavare di bocca, nione si chiama sgannare, onde sgannati si
cioè entrare artatamente in alcuno ragiona dicono quelli i quali persuasi da vere ragioni,
mento; e dare di intorno alle buche per fare sono stati tratti e cavati d'errore.
che colui esca, cioè dica, non se ne accor Subillare uno (1) è tanto dire e tanto per
gendo, quello che tu cerchi di sapere. E quan tutti i versi e con tutti i modi pregarlo che
do alcuno per iscalzare chicchessia, e farlo egli a viva forza e quasi a suo mareio dispetto,
dire, mostra per corlo al boccone, di sapere prometta di fare tutto quello che eolui il
alcuna cosa si dice: far le caselle per apporsi. quale lo subilla gli chiede; il che si dice an
Origliare è, quando due o più ritiratisi in cora serpentare e tempestare, quando colui non
alcun luogo favellano di segreto, stare di na lo lascia vivere, nè tenere i piedi in terra; il
ºroso all'uscio e porgere l'orecchie per sen che i Latini dicevano propriamente sollicitare.
tire quello dicono. Il verbo generale è spiare, Se alcuno ci dice o ci chiede cosa la quale
verbo non meno infame che origliare, sebbene non volemo fare, sogliamo dire: E'canzona (2) o
si piglia alcuna volta in buona parte, dove e' dice canzone.
far la spia si piglia sempre in cattiva (3), il
che si dice volgarmente esser referendario.
D'uno ch'è benestante, cioè agiato delle (1) Il Vocabolario della Crusca: Sobillare, e Subilare.
Soddurre, sedurre, suburnare, esortare a mal fure. Ma non
cose del mondo, e che ha le sue faccende di porta esempio veruno. Credo che dica meglio il Varchi,
maniera incamminate che se gli può giusta perchè subilare non vale indurre a trafare, ma indurre a
fare contra il proprio genio, quello che altri importunamente
(1) Vi era la legge Giulia e la Calpurnia. Inoltre V. Sve richiede; il che può essere cosa buona o mala. - Nelle ul
º nella Vita di Giulio Cesare, Cap. XLI, e in quella di time impressioni del Vocabolario della Crusca ognuna di
"sºsto, Cap. XXXIV e XL. Dione Lib. XLili, e L. queste voci è esemplificata ampiamente, e vi si cita benanco
Unic. Haec Les. in urbe. f. ad L. Juliam de antitu. l' Ercolano del Varchi. (M.)
(2) Dant. Inf. IX. (2) Canzonare in lingua furbesca vale lodare, ma oggi si
. (*) Perciò dalla Crusca e dall'Infarinato Secondo ne fu prende per Burlare. Il Berni nel Capitolo a Signosi Abati :
º il Tasso, perchè nella Gerus. Liber. X1X, LXXX11, Chi è colui che di voi non ragioni?
avea detto: Chc la virtù delle vostre munirre,
E se qui per ispia forse soggiorni. Per dirlo in lingua furba, non canzoni?
332 L' ERCOLANO
C. Cotesto mi pare linguaggio furbesco. non so se meno lunga, ma bene più vaga:
V. E' ne pizzica, anzi ne tiene più di ses Ma seguitate i vostri verbi; se già non ne
santa per cento; ma che noia dà, o qual mia sete venuto al fine, come io credo.
colpa? Voi mi dite che io vi dica tutto quello V. Adagio; io penso che e' vi paja mille
che si dice in Firenze; e io il fo. anni ch' io gli abbia forniti ; e io dubito che
C. E vero; e me ne fate piacere singolare; se vorrete che io seguiti, ella non sia la can
e poichè non vi posso ristorare io, Dio vel zone della quale avemo favellato.
rimeriti per me. Ma ora che io mi ricordo, C. Volesselo Dio, quanto alla lunghezza;
che volete voi significare quando voi dite: che io non udii mai cosa alcuna più volen
Questa sarebbe la canzone dell'uccellino? Quale tieri: però, se mi volete bene, seguitate.
è questa canzone, o chi la compose, o quando? V. Ragguagliare, non le partite come fanno
V. L'autore è incerto e anco il quando non i mercatanti in su i loro libri, ma alcuno di
si sa, ma non si può errare a credere che la alcuna cosa, è o riferirgli a bocca o scriver
componesse il popolo, quando la lingua co gli per lettere tutto quello che si sia o fatto
tminciò o ebbe accrescimento la lingua nostra, o detto in alcuna faccenda che si maneggi;
cavandola o dalla natura o da alcun'altra lin il che si dice ancora informare, instruire, far
gua; perchè Ser Brunetto ne fa menzione sentire, avvisare e dare avviso.
nel Pataſſio (1) chiamandola favola e non can Di chi dice male d'uno il quale abbia detto
zone, che in questo caso è il medesimo; on male di lui, (il che si chiama rodersi i basti)
de, quando si vuole affermare una cosa per e gli rende, secondo il favellare d'oggi, il con
vera si dice: Questa non è nè favola, nè can traccambio ovvero la pariglia, la qual voce è
zone. Il verso di Ser Brunetto dice : presa dagli Spagnuoli; s'usa dire: egli s'è ri
scosso, tratto per avventura da giucatori, i
La favola sarà dell'uccellino;
quali quando hanno perduto una somma di
ma comunque si sia ella è cotale. Quando danari e poi la rivincono si chiamano risquo
alcuno in alcuna quistione dubita sempre, e tersi: il che avviene spesse volte; onde nacque
sempre o da beffe o da vero ripiglia le me il proverbio: Chi vince da prima, perde da
desime cose, e della medesima cosa domanda, sezzo. Dicesi ancora riscattare, come de' pri
tantochè mai non se ne può venire nè a capo gioni, quando pagano la taglia, e ritornare in
nè a conchiusione, questo si dimanda in Fi sul suo, ma più gentilmente: Egli ha risposto
renze la canzone, o volete, la favola dell' uc alle rime, o per le rime, e più boccaccevol
cellino,
mente (1), rendere (come diceste voi di sopra)
C. Datemene un poco d'esempio. pane per cofaccia, o fiasche per foglie.
V. Ponghiamo caso ch'io vi dicessi: La rosa D'uno il quale avea diliberato, o come di
è 'l più bel fiore che sia ; e voi mi diman cono i villani, posto in sodo di voler fare al
daste : Perch' è la rosa il più bel fiore che cuna impresa, e poi per le parole e alle per
sia ? e io vi rispondessi: Perch'ell'ha il più suasioni altrui, se ne toglie giù, cioè se ne ri
bel colore di tutti gli altri; e voi di nuovo mane e lascia di farla (che i Latini chiama
mi dimandaste Perch'ha ella il più bel co vano desistere ab incepto) si dice: egli è stato
lore di tutti gli altri ? e io vi rispondessi : svolto dal tale, o il tale l'ha distolto, e gene
Perchè egli è il più vivo e il più acceso; e ralmente rimosso. -

voi da capo mi ridomandaste: Perch' è egli Coloro che la guardano troppo nel sottile ;
il più vivo e 'I più acceso ? e cosi se voi se e sempre, e in ogni luogo e con ognuno e di
guitaste di domandarmi e io di rispondervi, a ogni cosa tenzonano e contendono, nè si può
cotal guisa si procederebbe in infinito, senza loro dir cosa che essi non la vogliano ribat
mai conchiudere cosa nessuna; il che è con tere e ributtarla si chiamano fisicosi, e il ver
tra la regola de filosofi, anzi della natura bo è fisicare, uomini per lo più incancherati,
stessa, la quale abborre l'infinito, il quale non e da dovere essere fuggiti,
si può intendere, e quello che non si può in Appuntare alcuno vuol dire riprenderlo e
tendere si cerca in vano; e la natura non fa massimamente nel favellare; onde certi sac
e non vuole che altri faccia cosa nessuna in
centuzzi che vogliono riprendere ognuno, si
darno. Chiamasi ancora la canzone dell'uccel
chiamano ser Appuntini.
lino, quando un dice: Vuoi tu venire a desi Tacciare alcuno e difettarlo è nollo accet
mare meco ? e colui risponde : E'non si dice: tare per uomo da bene, ma dargli nome d'al
vuoi tu venire a desinar meco; e così si va cuna pecca o mancamento,
seguitando sempre tanto che non si possa con Bisticciarla con alcuno e star seco sul bi
chiudere cosa nessuna, nè venire a capo di sticcio è volere stare a tu per tu, vederla fil
nulla,
filo, o pur quanto la canna; e se egli dice,
C. Per mia fe che la canzone o la favola dire; se brava, bravare; nè lasciarsi vincere
dell'uccellino potrebbe essere per mio avviso o soperchiare di parole; e questi tali per mo
strarsi pari agli avversari, e da quanto loro,
(1) Pataf. cap. II. La favola mi par dell'uccellino. Cosi sogliono dire alla fine (per tacere altri motti
hanno due testi a penna da me veduti, uno de'quali è in Roma o sporchi
nella Libreria Ghigi, comeulato dall'Abate Francesco Ridolfi o disonesti che a questo proposito
nell'Accademia della Crusca detto il Rifiorito, che fece ri dicono tutto'l giorno i plebei) : Tanto è da casa
tima edizione degli Ammaestramenti degli Antichi in Firen
se, 166, in 12. Ser Brunetto mori l'anno 1295. (1) Bocc. Nov. LXXVIII.
DIALOGO 333

tua a casa mia, quanto da casa mia a casa tua; vasse la quarta parte; e talvolta si dice fare
e nel medesimo significato, e a questo stesso la trebellianica, dal Senato consulto Trebellia
proposito, sogliono dire: Rincarinmi il fitto. no (1): il verbo generale è difalcare.
Riscaldare uno non è altro che confortarlo Quelli che sanno trattenere con parole co
e pregarlo caldamente che voglia o dire, o loro di cui essi sono debitori, e gli mandano
fare alcuna cosa in servigio e benefizio o no per la lunga d'oggi in dimane, promettendo
stro, o d'altrui. di volergli pagare e soddisfare di giorno in
Gonfiare alcuno è volergli vendere vesciche, giorno, perchè non si richiamino di loro e va
cioè dire alcuna cosa per certa che certa non dansene alla ragione, si dicono: saper tran
sia, acciocche egli credendolasi, te ne abbia quillare i lor creditori, e levarsi dinanzi, ov
ad avere alcuno obbligo. Dicesi ancora: Tu mi vero torsi da dosso, e dagli orecchi i cavaloc
vuoi far cornamusa, e dar panzane, cioè pro chi, che così si chiamano coloro i quali prez
mettendo Roma e Toma, e stando sempre in zolati risquotono per altri.
su i generali, ben faremo e ben diremo, non Quelli i quali avendo udito alcuna cosa vi
venir mai a conclusione nessuna. Dicesi an pensano dipoi sopra e la riandano colla men
cora ficcar carote, e spezialmente quando al te, si dicono toscanamente ma con verbo la
cuno facendo da se stesso qualche finzione tino ruminare, e fiorentinamente rugumare e
o trovato (che i Latini dicevano comminisci) talvolta rumare (2); tratto da buoi e dagli
lo racconta poi non per suo, per farlo più altri animali i quali, avendo l'ugna fesse ru
agevolmente credere, ma per d'altrui ; e an minano: il qual verbo si piglia molte volte
cora che sia falso, l' afferma per vero o per in cattivo senso, cioè si dice di coloro i quali
volere la baja, o per essere di coloro che di avendo mali umori in corpo ed essendo adi
cono le bugie e credonsele; e questi due verbi rati, pensano di volere quando che sia, ven
dar panzane ovvero baggiane e ficcar carote, dicarsi, e intanto rodono dentro sè stessi; il
sono non pur fiorentini e toscani, ma italiani, che si dice exiandio rodere i chiavistelli.
ritrovati da non molti anni in qua. A coloro che sono bari, barattieri, truffatori,
Altercare, onde nacque altercazione, è verbo trappolatori e traforelli che comunemente si
de'Latini, i quali dicono ancora altercari in chiamano giuntatori, i quali per fare star forte
voce deponente, in vece del quale i Tosca il terzo e il quarto colle barerie, baratterie,
ni (1) hanno tenzionare ovvero tenzonare, cioè trufferie, trappolerie, traforerie e giunterie
rissare, contendere e combattere, cioè quistio loro, vogliono o vendere gatta in sacco, o cac
nare di parole, onde viene tenzione ovvero ciare un porro altrui, si suol dire, per mo
tenzone cioè la rissa, il contendimento, ovvero strare che le trappole e gherminelle anzi tri
la contesa, il combattimento ovvero il contra stizie e mariolerie loro sono conosciute e che
sto di parole e bene spesso di fatti. Dicesi non avemo paura di lor tranelli: I mucini
ancora, ma più volgarmente fare una batosta, hanno aperto gli occhi: i cordovani sono rimasi
darsene infino a denti, e fare a morsi e a'cal in Levante: non è più 'l tempo di Bartolommeo
ci, e fare a capelli. da Bergamo: noi sappiamo a quanti dl è San
Quando alcuno vuol mostrare a chicchessia Biagio: noi conosciamo il melo dal pesco; i
di conoscere che quelle cose, le quali egli si tordi da gli stornelli; gli storni dalle starne; i
ingegna di fargli credere, sono ciancie, bugie bufoli dall'oche, gli asini da' buoi, l'acquerel
e bagattelle, usa dirgli : Tu m'infinocchi, o non dal mosto cotto; il vino dall'aceto; il cece dal
pensare d'infinocchiarmi, e talora si dice: Tu fagiuolo, la treggea dalla gragnuola; e altri
mi vuoi empier di vento o infrascare. cotali che, o per non potersi onestamente no
Se alcuno chiama un altro, e il chiamato minare, o per essere irreligiosi, non intendia
o non ode o non vuole udire; il che è la mo di voler raccontare; e in quello scambio
peggior sorte di sordi che sia; si dice al chia diremo che quando alcuno per esser pratico
mante: Tu puoi zufolare, o cornare, o corna del mondo, non è uomo da essere aggirato,
musare; tu puoi scuotere, che è in su buon ra nè fatto stare si dice: Egli se le sa; egli non
mo. E quando alcuno o ha udito in verità, o ha bisogno di mondualdo o procuratore, egli
finge d'avere udito, il rovescio appunto di ha pisciato in più d'una neve; egli ha cotto il
quello che avemo detto (il che i Latini chia culo ne'ceci rossi, egli ha scopato più d'un ce
mavano obaudire) noi diciamo. Egli ha franteso. ro (3); egli è putta scodata; e se si vuol mo
Quando ci pare che alcuno abbia troppo strare lui essere uomo per aggirare e fare
largheggiato di parole e detto assai più di stare gli altri si dice: Egli è fantino; egli è un
quello che è, solemo dire: Bisogna sbatterne bambino da Ravenna; egli è più tristo che i tre
o tararne, cioè farne la tara come si fa dei
conti degli speziali, o far la falcidia, cioè le (1) Il Senatoconsulto Trebelliano concedeva la quarta parte
varne la quarta parte: tratto (2) dalla legge dell'eredità fidecommissa all'erede.
di Falcidio, tribuno della plebe, che ordinò (2) Di questa voce Rumare non fa menzione il Vocabo
che le lasci, quando non v'era pago, si le lario, nè io mi son mai avvenuto in essa.
(3) Nel Lib. Son. X.
Ciascun di voi scopato ha più d'un cero.
(1) I buoni autori usano anche tencionare, e oggi nel co E nel Morg. C. XV 111, St. 134.
mene uso si dice tuncionare. Io ho scopato già forse un pollaio.
(2) V. lusti. 1. ll, tit. 23. S Scd gaia, a 8 Ergo si E vale: lo ho rubato assai. ll Vocabolario alla voce pol
rum.m, e SS sei. lajo lo interpreta diversaucate.
334 L' ERCOLANO
assi; più cattivo che banchellino: più viziato e i cuno, mediante il biasimarlo e dirne male:
più trincato che non è un famiglio d'otto; e ge onde d'un commettimale, il quale sotto spe
neralmente d'uno che conosca il pel nell'uo zie d' amicizia vada ora riferendo a questi e
vo e non gli chiocci il ferro e sappia dove il ora a quelli, si dice: Egli è un teco meco.
diavol tien la coda si dice: egli ha il diavolo C. A questo modo non hanno i Toscani
nell'ampolla. verbo proprio che significhi con una voce sola
C. Io posso imbottarmi a posta mia, perchè quello che i Latini dicevano committere?
io son chiaro che alla lingua fiorentina non V. Lo possono avere, ma io non me ne ri
vo' dire avanzino, ma non manchino, anzi cordo; anzi l'hanno e me ne avete fatto ri
piuttosto avanzino che manchino vocaboli. cordare ora voi, ed è scommettere, perchè Dante
disse:
V. Voi non avete udito nulla; questi che
io ho raccontati, s'appartengono solamente e A quei che scommettendo acquistan carco (1).
si riferiscono all' atto del favellare, eccetto
però che quelli che o in conseguenza o per Tor su o tirar su alcuno, il che si dice an
inavvertenza mi son venuti alla bocca; e sono cora levare a cavallo, e dire cose ridicole e
ancora si può dire all'a? pensa quel che voi impossibili, e volere dargliele a credere per
diresti chi vi raccontasse gli altri dell'altre trarne piacere e talvolta utile; come fecero
materie che sono infiniti, e se sapeste quanti Bruno e Buſfalmacco (2) a maestro Simone da
se ne sono perduti. Vallecchio che stava nella via del Cocomero,
C. Come perduti? e più volte al povero Calandrino (3); onde
V. Perduti sì ; non sapete voi che i voca nacque che quando alcuno dubita che chic
boli delle lingue vanne e vengono come l'al chessia non voglia giostrarlo e fargli credere
tre cose tutte quante ? una cosa per un'altra, dice: Tu vuoi far Ca
C. Dite voi cotesto per immaginazione, o landrino e talvolta, il Grasso legnajuolo (4),
pure lo sapete del chiaro? al quale fu fatto credere che egli non era lui,
V. Lo so di chiaro e di certo, perchè ol ma diventato un altro.
tra quelli che si truovano ne' libri antichi, i Tirar di pratica, si dice di coloro i quali
quali oggi o non s'intendono o non sono in ancorachè non sappiano una qualche cosa, ne
uso, Ser Brunetto Latini, maestro di Dante, favellano nondimeno così risolutamente come
lasciò scritta un' operetta in terza rima, la se ne fossimo maestri o l'avessero fatta coi
quale egli intitolò Pataffio, divisa in dieci ca piedi: e dimandati di qualche altra, rispon
pitoli che comincia: dono senza punto pensarvi o sì o no come
vien lor bene, peggio di coloro i quali se ve
Squasimo Deo introcque e a fusone, nisse lor fatto d'apporsi o di dare in covelle,
Ne hai, ne hai, pilorci con mattana, tirano in arcata colla lingua.
Al can la tigna, egli è mazzamorrone; Quando alcuno aveva in animo e poco me
nella quale sono le migliaia de vocaboli, motti, no che aperte le labbra per dover dire alcuna
proverbi e riboboli, che a quel tempo usava cosa, e un altro la dice prima di lui, cotale
no in Firenze, e oggi (1) de cento non se ne atto si chiama fiurar le mosse o veramente ,
intende pur uno. rompere l'uovo in bocca, cioè torre di bocca;
il che i Latini dicevano antevertere: e alcuni
C. Oh gran danno, oh che peccato! Ma se
egli, come fate ora voi, dichiarati gli avesse, usano, non: Tu m'hai fiurato le mosse, e tu me
non sarebbe avvenuto questo. Ma lasciando le l'hai tolto di bocca, ma Tu me l'hai vinta del
doglienze vane da parte, posciache io credeva tratto; e alcuni, Tu m'hai rotto la parola in
che voi foste al ronne, non che alla zeta, e bocca, e alcuni tagliata; il che pare piuttosto
convenire a coloro che mozzano altrui e in
voi dite che non sete appena all' a, seguitate
il restante se vi piace. terrompono il favellare.
V. Mettere su uno o metterlo al punto, il Annestare in sul secco, o dire di secco in sec
che si dice ancora metterlo al curro, è insti co, si dice d'uno il quale, mancandogli ma
gare alcuno e stimolarlo a dovere dire o fare teria, entra in ragionamenti diversi da primi,
alcuna ingiuria o villania, dicendogli il modo e fuori di proposito, come dire: Quante ore
come e' possa e debba o farla o dirla; il che sono? che si fa in villa º che si dice del Re
si chiama generalmente commetter male tra di Francia? verrà quest'anno l'armata del Tur
l' uno uomo e l'altro, o parenti o amici che co? e altre così fatte novelle.
siano: il qual vizio, degno piuttosto di gastigo Tirare gli orecchi a uno, significa riprenderlo
che di biasimo, sprimevano i Latini con voce o ammonirlo, cavato da Latini che dicevano
sola, la quale era committere; e come si dice,
mettere in grazia alcuno, cioè fargli acquistare (1) Dante, inf. XXVII.
la benevolenza e il favore d' alcun gran mae (2) Bocc. Nov. LXXIX, il quale però lo appella maestro
stro con lodarlo e dirne bene: così si dice, Simone da Villa; ben poi fa dire allo stesso maestro, che
egli era nato per madre di quelli da Vallecchio.
metter in disgrazia, e far cadere di collo al (3) Bocc. Nov. LXXll 1, LXXVI, XXXVIII , e
LXXXV.
(1) Anche Franco Sacchetti fece una frottola assai lunga (4) Vedi la Novella che s'intitola appunto dal Grasso
di vocaboli antichi, che per la maggior parte ora non s'in Legnajuolo, da noi inserita nel Volume Xll di questa Bi
tendono i ed è tralle sue Opere diverse, testo a penna in casa blioteca Enciclopedica che comprende le Scelte Novelle an
i signori Gialdi. tiche e moderne. (Ml.)
DIALOGO 335

vellere aurem : dicesi ancora riscaldare gli V. Io credo di si, da chi non avesse altra
orecchi: dicesi ancora, zufolare o soffiare negli faccenda e volesse pigliare questa briga, non so
orecchi ad uno, cioè parlargli di segreto e quasi se disutile, ma certo non necessaria.
imbecherarlo. C. Vogliam noi provare un poco; benchè
Mettere troppa mazza si dice d'uno il quale io credo che noi ce ne siamo avveduti tardi?
in favellando entri troppo addentro e dica V. Proviamo, chè egli è meglio ravvedersi
cose che non ne vendano gli speziali, e in qualche volta che non mai; e ancora non è
somma che dispiacciano, onde corra rischio di tanto tardi quanto voi per avventura vi fate
doverne essere o ripreso o gastigato: dicesi a credere, se alcuno sapesse e potesse rac
ancora mettere troppa carne a fuoco. contare di questa materia quello che sapere
Spacciare pel generale, si dice di coloro che e raccontare se ne può.
dimandati o richiesti d'una qualche cosa, ri C. Che 2 cominciereste dall'a, b, c, e segui
spondono finalmente senza troppo volersi ri tercste per l'ordine dell'alfabeto ?
strignere e venire, come si dice, a ferri. V. Piuttosto piglierei alcuni verbi generali,
Quando uno si sta ne' suoi panni, senza dar e sotto quelli come i soldati sotto le loro squa
noja a persona, e un altro comincia per qual dre ovvero bandiere, gli riducerei e ragunerei.
che cagione a morderlo e offenderlo di parole, C. Deh provatevi un poco, se Dio vi con
se colui è uomo da non si lasciare malmenare ceda tutto quello che desiderate.
e bistrattare, ma per rendergli come si dice V. Chi potrebbe non che io che vi sono
i coltellini, s'usa dire: Egli stuzzica il formi tanto obbligato negarvi cosa nessuna? Piglia
cajo, le pecchie, o sì veramente il vespajo; che mo, esempigrazia, il verbo fare, e diciamo senza
i Latini dicevano irritare crabrones. Dicesi an raccontare alcuno di quelli che fino a qui
cora: Egli desta o sveglia il can che dorme; detti si sono in questa maniera.
e va cercando maria per Ravenna (1); egli ha Far parole è quello che i Latini dicevano
dato in un ventuno ovvero nel bargello, e tal facere verba, cioè favellare.
volta: Egli invita una mula spagnuola ai calci: Far le parole, che si dice ancora con verbo
e più propriamente: E gratta il corpo alla latino concionare, onde concione è favellare di
cicala. stesamente sopra alcuna materia, come si fa
Sfidare è il contrario d'affidare e significa nelle compagnie e massimamente di notte, il
due cose; prima, quello che i Latini diceva che si chiama propriamente fare un sermone;
no desperare salutem con due parole; onde e nelle nozze quando si va a impalmare una
d'uno infermo, il quale, come dice il volgo, fanciulla e darle l'anello che i notai fanno
sia via là, via là, o a confitemini, o al pollo le parole.
pesto, o all'olio santo, o abbia male che 'l Far le belle parole a uno è dirgli alla spia
prete ne goda, s'usa dire : I medici l'hanno nacciata e a lettere di scatola ovvero di spe
sfidato, e poi quello che io non so come i La ziali come tu l'intendi, e aprirgli senza andi
tini (2) se 'I dicessero, se non indicere bellum, rivieni o giri di parole, l'animo tuo di quello
onde trasse il Bembo: che tu vuoi fare o non fare o che egli faccia
o non faccia.
Quella che guerra a miei pensieri indice.
Fare le paroline è dar soje e caccabaldole
cioe sfidare a battaglia, e come si dice ancora o per ingannare o per entrare in grazia di
dagli Italiani, ingaggiar battaglia o ingaggiarsi chicchessia : dicesi eziandio fare le parolozze.
o darsi il guanto della battaglia. -
Fare una predica ovvero uno sciloma o ci
Rincorare, che Dante disse incorare (3) e gli loma ad alcuno è parlargli lungamente o per
antichi dicevano incoraggiare e fare o dare avvertirlo d'alcuno errore, o persuaderlo a
animo cioè inanimare o inanimire uno che sia
dover dire o non dire, fare o non fare alcuna
sbigottito quasi rendendogli il cuore, dicesi Cosa »

ancora: Io mi rinquoro, cioè : I'ripiglio cuore Far motto è tolto da Provenzali che dicono
e animo di far la tal cosa o la tale.
far buon motti, cioè dire belle cose e scrivere
C. Non si potrebbono queste cose, che voi leggiadramente: ma a noi questo nome molto
avete detto e dite, ridurre con qualche regola significa tutto quello che i Latini compren
sotto alcun capo, affinchè non fossero il pesce dono sotto questi due nomi joci e dicterii, e
pastinaca e più agevolmente si potessero così i Greci sotto questi altri due scommati e apo
mandare come ritenere nella memoria?
tegmati.
Fare o toccare un motto d'alcuna cosa e fa
(1) Cercar maria per Ravenna, vale propriamente cercare vellarne brevemente e talvolta fare menzione.
una cosa dove ella non è, procurare l'acquisto di una cosa
con mezzi non adattati; poichè significa cercare il mare per Far motto ad alcuno significa o andare a
Ravenna, donde si è omai ritirato. Il Menagio ne' Modi di casa sua a trovarlo per dimandargli se vuole
dire italiani, al num. C. Si dice quando desidera, o cerca nulla, o riscontrandolo per la via salutarlo, o
cosa che gli può nuocere. Ma nè pure il Menagio intese in dirgli alcuna cosa succintamente. -

tutto e per tutto il senso di questo proverbio. Fare un mottuzzo significa fare una rimbal
(2) I Latini dissero lacessere in un significato molto ac dera cioè festoccia e allegrezza di parole.
sosto al toscano sfidare.
(3) Dante, Purgat. XXX. Non far molto significa il contrario (i), e
Quasi ammiraglio che 'n poppa, ed in prora
Viene a veder la gente che ministra (1) Cioè il contrario di far molto, e di fare un mot
Per gli alti legu, cd a ben far la incuora. fozzo,
336 L' ERCOLANO
talora si piglia per tacere e non rispondere, Fare orecchi di mercante significa lasciar
onde il Petrarca: dire uno e far le viste di non intendere.
Talor risponde, e talor non fa motto (1). Far capitale delle parole d'alcuno è creder
gli ciò che promette e avere animo ne' suoi
A motto a motto dicevano gli antichi, cioè a bisogni di servirsene.
parola a parola o di parola in parola; e fare, Quando si mostra di voler dare qualche
senza altro significa alcuna volta dire, come cosa a qualcuno, e fargli qualche rilevato be
Dante :
nefizio e poi non se gli fa, si dice avergli fatta
Che l'anima col corpo morta fanno (2). la cilecca, la quale si chiama ancora natta e tal
Far le none non può dichiararsi se non con volta vescica o giarda.
più parole come per cagion d'esempio: se Fare fascio di ogni erba, tratto da quelli
alcuno dubitando che chicchessia nol voglia che segano i prati o fanno l'erba per le be
richiedere in prestanza del suo cavallo, il quale stie, si dice di coloro i quali non avendo ele
egli prestare non gli vorrebbe, cominciasse, zione o scelta di parole nel parlare o nello
prevenendolo, a dolersi con esso lui che il scrivere, badano a por su e attendono a im
suo cavallo fosse sferrato o pigliasse l'erba o piastrar carte; e di questi perchè tutte le ma
avesse male a un piè, e colui rispondesse: Non niere di tutti i parlari attagliano loro, si suol
accade che tu mi faccia o suoni questa nona. dire che fanno come la piena, la quale si cac
Fare uscire uno è, ancorach'ei s'avesse pre cia innanzi ogni cosa, senza discrezione o di
supposto di non favellare, frugarlo e punzec stinzione alcuna (1).
chiarlo tanto colle parole, e dargli tanto di Far delle sue parole fango è venir meno
qua e di là che egli favelli o che egli parli delle sue parole e non attenere le sue pro
alcuna cosa. messe,

Fare una bravata o tagliata o uno spaven Fare il diavolo e peggio (2) è quando al
tacchio o un sopravvento non è altro che mi tri avendo fatto capo grosso, cioè adiratosi e
nacciare e bravare; il che si dice ancora squar sdegnatosi con alcuno, non vuole pace, nè tre
tare e fare una squartata. gua e cerca o di scaricar sè o di caricare il
Far le forche (3) è sapere una cosa e ne compagno con tutte le maniere che egli sa
gare, o infingersi di saperla, o biasimare uno e può ; e molte volte si dice per beffare al
per maggiormente lodarlo; il che si dice an cuno, mostrando di non temerne.
cora far le lustre e talvolta le marie. Fare lima lima a uno è un modo d'uccel
Far peduccio significa aiutare uno colle pa lare in questa maniera: chi vuole dileggiare
role, dicendo il medesimo che ha detto egli, uno, fregando l' indice della mano destra in
o facendo buone e fortificando le sue ragioni, sull'indice della sinistra verso il viso di co
acciocchè egli consegua l'intento suo. lui, gli dice lima lima, aggiugnendovi talvolta,
Fare un cantar di cieco è fare una tanta mocceca o moccicone o altra parola simile co
ferata o cruscata o cinforniata o fagiolata, e me baggea, tempione, tempie grasse, tempie su
insomma una filastroccola lunga lunga senza cide, benchè la plebe dice sudice.
sugo o sapore alcuno. Fare le scalee di Santo Ambrogio significa
Fare il caso o alcuna cosa leggiere è dire dir mal d'uno in questo modo, e per questa
meno di quello che ella è, come fanno molte cagione. Ragunavansi, non sono mille anni pas
volte i medici per non isbigottire gli am sati, la sera di state per pigliare il fresco una
malati. compagnia di giovani, non a marmi in su le
Farsi dare la parola da uno (4) è farsi dare scalee di Santa Maria del Fiore, ma in su
la commessione di poter dire o fare alcuna quelle di Santo Ambrogio, non lungi dalla
cosa o sicurare alcuno che venga sotto le tue porta alla Croce, e quivi passando il tem
parole, cioè senza tema di dovere essere offeso. po e il caldo facevano lor cicalecci; ma
Quando si toglie su uno e fassegli o dire quando alcuno di loro si partiva, cominciava
o fare alcuna cosa che non vogliano fare gli no a leggere in sul suo libro e rinvenire se
altri, si dice: farlo il messere, il corrivo, il mai avea detto o fatto cosa alcuna biasime
cordovano, da ribuoi, e generalmente il goffo, vole, e che non ne vendesse ogni bottega, e
e fra Fazio (5); e tali si chiamano corribi e cor insomma a fare una ricerca sopra la sua vita;
dovani e spesso pippioni o cuccioli. onde ciascuno, perchè non avessono a cara
tarlo, voleva esser l'ultimo a partirsi: e di
(1) Petr. Son. CCXC. qui nacque che quando uno si parte da qual
(2) Dante, Inf. X. Ma in questo luogo Fare propriamente che compagnia e non vorrebbe restar loro in
vale reputare, o, come vuole il Castelvetro nella Corre
zone a c. 99: dimostrar con ragioni e argomenti, la cosa bocca e fra denti, usa dire: Non fate le sca
Star Cosi. lee di Santo Ambrogio.
(3) Far le forche, vale più comunemente far le moine, Far tener l'olio a uno o farlo filare o stare
cioè raccomandarsi, carezzando alcuno per cattivarselo, quando al filatoio significa per bella paura farlo star
se ne ha bisogno. cheto: dicesi alcuna volta fare stare a stec
(4) Oggi più comunemente vale farsi promettere.
(5) Quando altri vuole alcuna cosa del nostro per bella (1) In oggi far d'ogni erba fascio significa cºmunemente
maniera, e in acconcio de'fatti suoi, si dice: Che son fra i operare senza far distinzione dal lecito all'illecito; e cosi
Fazio? Malmant. Canto II, St. 6. spiega il Vocabolario questa frase alla voce fare erba.
Se lº ha bisogno, che posso far io? (2) Vale anco: imperversare, usare ogni sforzo, ogni
Che son fra Fazio, che rifaccia i danni? violenza.
v,
1DIALOGO 337
chetto, benchè questo significa piuttosto fare Dar parole cioè trattenere e non venire ai
stare a segno, e quello che i Latini dicevano fatti ; cavato da Latini che dicevano dare ver
cogere in ordinem. ba, e lo pigliavano per ingannare: dicesi an
C. Non avete voi altri verbi che questi da cora dar paroline o buone parole come fanno
usare quando volete che uno stia cheto? coloro che si chiamano rosajoni da damasco;
V. Abbiamne; ma io vi raccontava sola onde nacque quel proverbio plebeo: Dà buone
mente quelli che vanno sotto la lettera f, e parole e friggi.
che io penso che vi siano manco noti; per Dare una voce significa chiamare: Dar mala
chè noi abbiamo tacere come i Latini, e an voce, biasimare: Dare in sulla voce, sgridare
cor diciamo non far parole e non far motto, uno acciocchè egli taccia : Avere alcuno mala
non alitare e non fiatare, non aprir la bocca, voce, e quello che i Latini dicevano male au
chiudila, sta zitto; il quale zitto credo che dit cioè essere in cattivo concetto e predica
sia tolto da Latini, i quali quando volevano mento,

che alcuno stesse cheto, usavano profferire Dar pasto è il medesimo che dar panzane
verso quel tale queste due consonanti st, quasi e paroline per trattenere chicchessia.
come diciamo noi zitto. E quello che i Latini Dar cartacce (1), metafora presa da giuca
volevano significare quando sopraggiugneva uno tori, è passarsi leggiermente d'alcuna cosa, e
del quale si parlava non bene, onde veniva non rispondere a chi ti domanda, o rispon
a interrompere il loro ragionamento e fargli dere meno che non si conviene a chi l'ha
chetare cioè: Lupus est in fabula, si dice dal o punto o dimandato d'alcuna cosa; il che si
volgo più brevemente zoccoli, e non volendo a dice ancor dar passata o dare una stagnata, e
maggior cautela, per non esser sentiti favel talvolta lasciare andare due pani per coppia o
lare, facciamo come fece Dante nel ventesimo dodeci danari al soldo: come fanno coloro che
quinto Canto del Purgatorio quando di sè me non vogliono ripescare tutte le secchie che
desimo parlando, disse: caggiono ne' pozzi.
Dar le carte alla scoperta, significa dire il
Mi posi il dito su dal mento al naso (1). suo parere e quanto gli occorre liberamente
O come disse nel ventesimo primo Canto del senza aver rispetto o riguardo ad alcuno, an
Purgatorio: - corachè fosse alla presenza.
Dare una sbrigliata, ovvero sbrigliatura è
Polse Virgilio a me queste parole dare alcuna buona riprensione ad alcuno per
Con viso che tacendo dicea Taci.
raffrenarlo, il che si dice ancora fare un ro
Solemo ancora, quando volemo essere intesi vescio e cantare a uno la zolfa o il vespro o
con cenni senza parlare, chiudere un occhio, il mattutino, o risciacquargli il bucato, o dar
il che si chiama far d'occhio ovvero fare l'oc gli un grattacapo.
chiolino; che i Latini dicevano nictare cioè ac Dare in brocco, cioè nel segno ovvero ber
cennare cogli occhi: il che leggiadramente saglio ragionando, è apporsi e trovare le con
diciamo ancora noi con una voce sola, usan genture, o toccare il tasto o pigliare il nerbo
dosi ancora oggi frequentemente il verbo am della cosa.
miccare (2) in quella stessa significazione che Dar di becco in ogni cosa è voler fare il
l'usò Dante, quando disse nel ventesimo primo saccente e il satrapo, e ragionando d'ogni co
Canto del Purgatorio: sa farne il Quintiliano o l'Aristarco.
Dar del buono per la pace (2) è favellare umil
Io pur sorrisi come l'uom ch' ammicca. mente e dir cose mediante le quali si possa
Non già che abbiamo da potere sprimere con
comprendere che alcuno cali, e voglia venire
agli accordi ; quasi come usano i fanciulli
una voce sola quello che i Latini dicevano quando scherzando, fanno la via dell'Agnolo,
connivere cioè fare le viste o infingersi di non cioè danno un poco di campo, acciò si possa
vedere e proverbialmente far la gatta di Ma
scampare.
sino. Queste cose vi siano per un poco d'e- Dare in quel d'alcuno ovvero dove gli duole,
sempio. Pigliamo ora il verbo dare, il quale
è generale anch'egli. Dicesi dunque: significa quello che Dante disse:
Si mi die dimandando per la cruna
(1) Vuolsi correggere, dell'Inferno, come avverte il Ca
Del mio desio (3);
stelvetro nella Correzione d'alcune cose del Dialogo delle lin
cioè dimandare appunto di quelle cose, o met
gue di Benedetto Varchi. Basilea 1572, a cart. 1oo, dove tere materia in campo che egli desiderava e
anco nota che un tal atto di porsi il dito su dal mento al naso
non ha origine da Firenze, ma è preso da Arpocrate, che si
figura con tal atto. Ma il Varchi non dice ne l'uno, nè l'al (1) Dar
uente; dove cartacce vale rispondere
lasciare andare bruscamente e º
due pani per coppia e dodici
tro, ma afferma (e lo stesso fa il Buti, di cui queste son le danari al soldo, significano quasi il contrariº, cioè non sº in
parole) che questo è un atto che l'uomo fa quando euole che
altri stia cheto e attento, quasi ponendo statiga, e chiusura alla quietare per cosa che detta o fatta sia men che bene.
bocca. Laonde le parole del Castelvetro non son punto a pro (2) Dar del buono per la pace; cioè cedere alcuna cosa
posito; cosi auto e vana la critica alla spiegazione del versi buona, e utile per fare la pace, e per viver quieto; e si dice,
di Dante che seguono. quando alcuno montato in collera e sbraitando, noi gli me
miamo buone, e gli accordiamo molte cºse che sarebbero da
(2) il Castelvetro nella Correzione, a c. 1oo, vuole che
Ammiccare significhi far cenno, e non già fan d occhio; ma rigettare, per non lo irritare maggiormente, e per placarlo.
quando si fa d'occhio altrui, gli si fa tacitamente seguo, 3)
3) Dante, Purg. XXI.
y 43
VARt HI V, I.
338 L' E il COLANO
aveva caro di sapere; onde s'usa dire: Cosuì Dare favellando nelle scartate (1) e dire
mi cadde l'ago. quelle cose che si erano dette prima, e che
Dar bere una cosa ad alcuno e fargliela cre ognuno si sapeva.
dere; ondc si dice bersela e il tale se l'ha Dare a traverso significa dire tutto il con
beuta o fatto le viste di bersela. trario di quello che dice un altro, e mostrare
Dare il suo maggiore, tolto dal giuoco dei sempre d'aver per male e per falso tutto
germini, ovvero de tarocchi (1), nel quale quello che egli dice.
sono i trionfi segnati col numero, è dire quanto Dare in sul viso, quando favella e massina
alcuno poteva, e sapeva dire il più, in favore, mente se egli uccella a civetta, cioè si va colle
o disfavore di chicchessia; e perchè le trombe parole procacciando ch'altri debba ripigliarlo,
sono il maggiore dei trionfi del passo, dar le e dir di lui senza rispetto il peggio che l'uo
trombe vuol dire fare l'ultimo sforzo. mo sa e può, e toccarlo bene nel vivo, quasi
Dare il vino è quello stesso che subornare facendogli un frego.
ovvero imbecherare, il che si dice ancora im Dare appicco, è favellare di maniera ad al
biancare. cuno, che egli possa appiccarsi cioè pigliare
Dar seccaggine significa infastidire o torre speranza di dover conseguire quello che chie
il capo altrui col gracchiare; il che i Latini de; onde di quelli che hanno poca e nessuna
significano col verbo obtundere. Dicesi ancora: speranza, si dice: E si appiccherebbono alla can
Tu m'infracidi, tu m'hai fracido: benchè gli na ovvero alle fune del cielo, come chi affoga
idioti dicono fradicio, tu m'hai secco, tu m'hai s'attaccherebbe a rasoj.
stracco ; tu m'hai tolto gli orecchi e in altri Dar nel buono significa due cose: la prima,
modi, dei quali ora non mi sovviene. entrare in ragionamenti utili, o proporre ma
Dare una borniola è dire il contrario di terie onorevoli: la seconda, in dicendo l'opi
quello che è, e si dice propriamente d'uno il nione sua d' alcuna cosa, allegarne ragioni al
quale avendo i giuocatori rimessa in lui e fat meno probabili e che possano reggere, se non
tolo giudice d'alcuna loro differenza, dà il più, a quindici soldi per lira, al martello, e in
torto a chi ha la ragione, o la ragione a chi somma dir cose che battano, se non nel vero,
ha il torto; come quando nel giuoco della almeno nel verisimile.
palla alcuno dice, quello essere fallo o riman Dar la lunga è mandar la bisogna d'oggi
do, il quale non è. in dimane, o come si dice, a cresima (2), senza
Dar fuoco alla bombarda è cominciare a dir spedirlo.
male d'uno o scrivere contro di lui, il che si Dare o vender bossolletti, tratto, penso, dai
dice cavar fuora il limbello. ciurmadori, è vendere vesciche per palle gros
Dar nel fango come nella mota (2) è favel se, o dar buone parole e cattivi fatti; la qual
lare senza distinzione e senza riguardo, così cosa, come dice il proverbio, inganna non meno
degli uomini grandi, come de'piccioli. i savi che i matti.
Dar le mosse a tremoti si dice di coloro, Dare una battisoffiola o cusoffiola ad alcuno,
senza la parola e ordine dei quali non si co è dirgli cosa o vera o falsa, mediante la quale
mincia a metter mano, non che spedire cosa egli entri in sospetto, o in timore d'alcuno
alcuna; il che si dice ancora dar l'orma ai danno o vergogna, e per non istare con quel
topi ed esser colui che debbe dar fuoco alla cocomero in corpo, sia costretto a chiarirsi.
girandola. Darla a mosca cieca (3), da un giuoco che
Dar che dire alla brigata è fare o dire cosa, fanno i fanciulli, nel quale si turano gli occhi
mediante la quale la gente abbia occasione di con una benda legata al capo, e dire senza
favellare sinistramente, clie i Latini dicevano considerazione, o almeno rispetto veruno di
dare sermonem: e talvolta, far bella la piazza, persona, tutto quello che alcuno vuol dire; e
che i medesimi Latini dicevano designare. zara a chi tocca.
Dare il gambone a chicchessia è quando egli Dar giù ovvero del ceſſo in terra è quello
dice o vuol fare una cosa, non solamente ac proprio che i Latini dicevano oppotere, cioe
consentire, ma lodarlo, e insomma mantenerlo cadere col viso innanzi e dare della bocca in
in sull'opinione e prosopopea sua, e dargli
animo a seguitare.
Dare una bastonata a uno (3) è dire mal (1) Oggi comunemente si prende per entrar nelle furie.
di lui sconciamente, o tanto più se vi s'ag (2) Dicesi tener a cresima, e vale trattenere in vano, far
giugno da ciechi. perder tempo. Nelle stanze fatte in nome del Berni, che
vanno avanti le sue Rime:
Ma or per non tenervi troppo a cresima.
(1) Questo giuoco in oggi si chiama il giuoco delle min Vedi le note a dette rime.
chiate.
(2) I n altro senso però l'ha usato il Berni nel Mogliazzo
(3) All'att. it, sc. 111 della Commedia del Moniglia in
Frammesso rustieale; dove dice: titolata Tacere ed Amare, vi è questa nota che spiega Pº
ampiamente questo giuoco: A mosca cieca, senza rissa i
E son gagliardi, e son de que del Rota, preso da un giuoco de agazzi, così detto dallo stare un li
E dan per fango, come nella mota. loro nel mezzo di una stanza con gli occhi bendati, e aºr
Ma forse da questo verso piacevole del Berni, renduto noto, correndo dietro agli altri che vanno girando per la mºdeº º
se ne trasse un senso metaforico, quale gli dà qui il varchi. stanza, e lo percuotono, sino a tarto che egli non ne fermi
(3) Vale anche far danno a uno, di qualunque guisa sia uno : il quale poi entra nel luogo del primo, brudandº gli
ºsº danno. E toccare una bastonata vale ricever dauno. oa a titº
DI ALOGO
339
terra, e lo pigliavano per morire (1): nondi e poco di sotto favellando di Didone:
meno in Firenze si dice non solo da merca
tanti quando hanno tratto ambassi in fondo, . . . - Pendetque iterum narrantis ab ore.
cioè quando sono falliti, e di quelli cittadini, Stare a bocca chiusa, si dichiara da sè me
o gentiluomini i quali, come si dice in Vine desimo (1).
gia, sono scaduti, cioè hanno perduto il cre Stare sopra se ovvero sopra di sè è un mo
dito nell'universale, ma ancora di quegli spo do di dubitare, e di non voler rispondere senza
sitori i quali interpretando alcun luogo d'al considerazione; la qual cosa i Latini, e spe
cuno autore, non s' appongono, ma fanno, zialmente i Giureconsulti, a cui più toccava,
come si dice, un marrone o pigliano un cipor che agli altri, dicevano haerere, e talvolta col
ro(2), ovvero un granchio, e talvolta per iper suo frequentativo haesitare.
bole, una balena. Stare in sul grande, in sul grave, in sul se
Dare il pepe ovvero le spezie è un modo vero, in sull'onorevole, in sulla riputazione, e
per uccellare o sbeffare alcuno, e si faceva finalmente in sul mille significano quasi una
quando io era giovanetto, per tutto Firenze cosa medesima, cioè cosi col parlare, come
da fattori in questo modo. Chi voleva uccel coll' andare, tenere una certa gravità conve
lare alcuno, segli arrecava di dietro, affinchè niente al grado e forse maggiore: il che si
egli che badava a casi suoi, nol vedesse, e chiama in Firenze e massimamente de gio
accozzati insieme tutti e cinque i polpastrelli, vani far l'omaccione, e talvolta fare il gran
cioè le sommità delle dita (il che si chiama de. E di questi tali si suol dire ora, ch ei
fiorentinamente far pepe, onde nacque il pro gonfiano e ora ch'egli sputano tondo, i quali
verbio: Tu non faresti pepe di luglio) faceva quando s'ingerivano nelle faccende, ed erano
della mano come un becco di grù, ovvero di favoriti dello stato, i quali si chiamavano Re
cicogna; poi gli dimenava il gomito con quel pubbliconi larghi in cintura, si dicevano toccare
becco sopra 'l capo, come fanno coloro che il polso al lione ovvero marzocco, e quando
col bossolo mettono o del pepe, o delle spe presentati, o senza presenti, si spogliavano in
zie in sulle vivande; la qual maniera di scher farsettino per favorire e aiutar alcuno, come
nire altrui avevano ancora i Latini, come si dice la plebe, a brache calate, si chiamano,
vede in Persio, quando disse: vendere i merli di Firenze: e quando si vale
O Jane, a tergo quem nulla ciconia pinari (3). vano dello stato oltra l'ordinario, o vincevano
Usavasi ancora in quel tempo un'altra guisa alcuna provvisione straordinaria, si diceva: E'
d'uccellare, ancora peggiore di questa, e più la fanno frullare ; e quando non riusciva loro
plebea, la quale si chiamava far titi, in que alcuna impresa nella quale si fossero impac
sto modo. Colui che voleva schernire, anzi ciati, e messivisi coll'arco dell'ossa, si diceva
offendere gravissimamente alcuno, pronostican tra i popolo. E la fanno bollire e mal cuocere (2).
dogli in cotale atto, che dovesse essere im Stare in sulle sue (3) è guardare che alcu
piccato, si metteva la mano quasi chiusa in no, quando ti favella, o tu a lui, non ti possa
un pugno alla bocca, e per essa a guisa di appuntare e parlare, e rispondere in guisa che
tromba diceva forte, talche ognuno poteva egli non abbia onde appiccarti ferro addosso
udire, due volte, ti ; tratto da una usanza la e pigliarti, come si dice, a mazzacchera, o
giugnerti alla schiaccia. Usasi ancora nella
quale oggi e dismessa, perchè si soleva, quando
una giustizia era condotta in cima delle forche medesima significazione stare all'erta e stare
in sul tirato, e non si lasciare intendere.
per doversi giustiziare, in quella che il ma
nigoldo stava per dargli la pinta, sonare una Stare coll'arco teso si dice d'uno il quale
tromba, cioè farla squittire due volte, l'una tenga gli orecchi e la mente intenti a uno
dopo l'altra, con suono simigliante a questa che favelli per corlo, e potergli apporre qual
V 0ce tu tt. che cosa, o riprovargli alcuna bugia, non gli
Pigliamo ora il verbo stare e diciamo che levando gli occhi da dosso per farlo imbian
Stare a bocca aperta, significa quello che care o imbianchire o rimaner bianco; il che
Virgilio spresse nel primo verso del secondo oggi si dice, con un palmo di naso.
libro dell'Eneide: Star sodo alla macchia ovvero al macchione,
e non uscire per bussare ch'uom faccia, cioe
Conticuere omnes, intentique ora tenebant. lasciare dire uno quanto vuole, il quale cer
chi cavarti alcun segreto di bocca, e non gli
(1) Virgil. En. lib. I.
rispondere o rispondergli di maniera che non
....... O terque, quatergue beati,
Queis ante ora patrum Trojae sub moenibus altis sortisca il desiderio suo, e gli venga fallito il
Contigit oppetere. pensiero, onde conosca di gettar via le parole
(2) Il Berni nel capitolo al Fracastoro: e il tempo, onde si levi da banco ovvero da
Perchè m'han detto che Virgilio ha preso tappeto, senza dar più noia o ricadia, e torre
Un granciporro in quel verso di Omero,
Il qual non ha con riverenza inteso. (1) Vale stare in silenzio: onde il proverbio: In bocca
º nel Vocabolario della Crusca vi ha la voce granciporro, ma chiusa non entra mosca, cioè: Chi non chiede, non ha.
º ciporro; ma forse nel verso del Berni si dee leggere gran (2) Adesso si dice di chi con superiorità o violenza voglia
ºrro distinto in due voci. – Nell ultime impressiva, c e. che le cose vadano a suo modo.
( ) Sal. I, v. 58. S. Girolamo nel Prologo al Comant. (3) Star sulle sue oggi si usa dire di coloro che non si
sopra Sofonia: addimesticano troppo, ne prendono troppa famigliarita, ma se
ºuam post tergum meum manum curarent in cionian. ne stanno contegnosi.
34o L' ERCOLANO
o spezzare il cervello a sè, e ad altri; e que il che i Greci dicevano, con maggior trasla
sti tali che stanno sodi al macchione, si chia zione, senza briglia, è dire tutto quello che
mano ora formiche di sorbo (1), e quando più ti piace o torna bene, senza alcun risguar
cornacchie di campanile. Dicesi ancora quasi in do, e, come dice il volgo, alla sbracata: fa
un medesimo significato, stare in sul noce ; il vellare senza animosità è dire il parer suo
che è proprio di coloro che temendo di non senza passione: favellare in aria, senza fon
essere presi per debito, o per altra paura, damento: Favellare in sul saldo, o di sodo, con
stanno a Bellosguardo, e non ardiscono spas sideratamente e da senno, e, come dicevano
seggiare l' ammattonato, cioè capitare in piaz i Latini, extra jocum, cioè fuor di baja : fa
za; che i Latini dicevano abstinere publico, e vellare in sul quamquam, gravemente e con
di coloro che hanno cattiva lingua e dicon eloquenza: favellare all'orecchie, di segreto:
male volontieri, si dice: egli hanno mangiato Favellare per cerbottana, per interposta e se
noci, benchè il volgo dica, noce (2) ; e mangian greta persona : favellare per lettera, che gli idio
le noci col mallo, si dice di quelli che dicono ti, o chi vuole uccellare, dicono per lettiera è
male, e cozzano con coloro i quali sanno dir l
favellare in grammatica, o, come dicono i me
inale meglio d'essi, dimaniera che non ne stanno desimi, in gramuffa, e si dice favellare fio
in capitale, anzi ne scapitano e perdono in di rentino, in fiorentino, alla fiorentina e fioren
grosso. E questi tali maldicenti si chiamano a tinamente; e così nella lingua, nel linguag
Firenze male lingue, linguacce, lingue fracide gio, nell'idioma, nella favella o nella parlatura
e lingue serpentine e lingue tabane, e con meno o nel volgare fiorentino, o di Firenze o di
infame vocabolo, sboccati (3), linguacciuti, mor Fiorenza: favellare come gli spiritati è favel
daci, latini di bocca e aver la lingua lunga o lare per bocca d'altri: favellare come i pap
appuntata o velenosa. pagalli, non intendere quello che altri favella:
Quando alcuno dimandato d'alcuna cosa, favellare come Papa scimio, dire ogni cosa a
non risponde a proposito, si suol dire (4): Al rovescio, cioè il si, no; e 'l no, sì: favellare
banese messere, o io sto co' frati, o tagliaronsi rotto, cincischiato, onde si dice ancora, cinci
di maggio, o veramente Amore ha nome l'oste. schiare, e addentellato (il che è proprio degli
Quando alcuno ci dimanda alcuna cosa, la innamorati, o di coloro che temono) e quello
quale non ci piace di fare, lo mandiamo alle che Virgilio nel quarto libro dell'Eneida, fa
birbe, o all'isola pe' cavretti. vellando di Didone, disse: -

Quando alcuno per iscusarsi, o gittare la pol


vere negli occhi altrui (che i Latini dicevano Incipit effari, mediaque in voce resistit.
tenebras offundere) dice d'aver detto o fatto, Favellare a caso, o a casaccio, o a fata, o al
o di voler fare o dire alcuna cosa per alcuna bacchio, o a vanvera, o a gangheri, o alla bur
cagione, e ha l'animo diverso dalle parole, chia, o finalmente alla carlona, e talvolta fa
s'usa per mostrarli che altri conosce il tratto, vellare naturalmente è dirla come ella viene e
e che la ragia è scornata, dirgli: Più su sta non pensare a quello che si favella, e, come
mona Luna (5) da un giuoco che i fanciulli si dice, soſiare e favellare. Favellare a spiz
e le fanciulle facevano già in Firenze; e se zico, a spilluzzico, a spicchio, e a miccino è
ha detto o fatto quella tal cosa, gli rispon dir poco e adagio, per non dir poco e male;
diamo: Tu me l'hai chiantata, o calata, o ap come si dice del pecorino da Dicomano. Di
piccata, o fregata. Potrebbesi ancora pigliare il quelli che favellano o piuttosto cicalano assai,
verbo proprio, e dire non mica tutte le me si dice: Egli hanno la lingua in balia ; la lin
tafore, perchè sono infinite, ma parte; perchè gua non muore, o non si rappallozzola loro in
favellare colle mani, significando dare, è cosa bocca o, e non ne saranno rimandati per mu
da bravi, onde si chiamano maneschi: favel toli: come di quelli che stanno musorni: Egli
lare colla bocca piccina è favellare cautamente hanno lasciato la lingua a casa, o al beccajos
e con rispetto e andare, come si dice, co' cal e guardano il morto s o egli hanno fatto come
zari del piombo: favellare senza barbazzale, i colombi del Rimbussato, cioè perduto 'l volo.
D'uno che favella favella, e favellando fa
(1) Oggi formiconi di sobo. vellando, con lunghi circuiti di parole aggira
(2) Non solo il volgo, ma anche gli scrittori antichi non sè e altrui, senza venire a capo di conclusione
si guardarono da una simile discordanza. Franc. Sacch. proem. nessuna, si dice: E mena il can per l'aja: e
E veggendo quante rovine, con quante guerre civili e campestre talvolta: e dondola la mattea, e non sa tutta
in essa dimorano. E Nov. CX. E per questo faceano si grande la storia intera (1), perchè non gli fu insegnato
le strida, cc. che parea l'Inferno. Serin. S. Agost. Introd. la fine; e a questi cotali si suol dire: Egli è
E la forza dell'ajuto ch'avrete da Dio, istudiate manifestarlo bene spedirla, finirla, liberarla, venirne a capo,
nelle vostre sante operazione. Gr. S. Gir. 2o. Uomo Cri
stiano non dee dire mai altro, che parole probabile; e il Bocc. toccare una parola della fine ; e volendo che si
e altri, che lungo sarebbe il riferire. Vedi il Salviati Av chetino, far punto, far pausa, soprassedere, in
vertim. Vol. 1, l. 1 I, cap. X. dugiare, serbare il resto a un'altra volta, non
(3) Sboccato propriamente si dice colui che nel suo parlare dire ogni cosa a un tratto, serbare che dire.
non è gran fatto onesto, ma dice delle laidezze. D'uno il quale ha cominciato a favellare
(4) Vedi il Menagio ne' Modi di dire ltaliani al num. CIV. alla distesa, o recitare un'orazione, e poi te
(3) Chi vuol vedere in che cosa consistesse questo giuoco, mendo o non si ricordando si ferma, si dice:
legga le Dichiarazioni d'alcuni proverbi e vocaboli usati dal
Dott. Gio. Andrea Moniglia nella Commedia intitolata La
Vedora, atto 11, sc. XXXI. (1) vedi il Novellino antico, Novell. LXXXVII.
DIALOGO 34 i
Egli ha preso vento, e talvolta egli è arrenato. stette: altri (1) dalle, che le desti, o (2) cesti e
Chi favella gravemente, pesa le parole: chi non canestri ; altri, scappati la mano, e alcuni, sca
favella o poco, le parole pesano a lui: chi fa sinoideo ; e chi ancora, chiacchi bichiacchi;
vella di quelle cose delle quali è interdetto onde d'un ceriuolo o chiappolino, il quale non
il favellare, mette la bocca, o la lingua dove sappia quello che si peschi, nè quante dita
non debbe: chi favella più di quello che ve s'abbia nelle mani, e vuol pure dimenarsi an
ramente è, e aggiugne qualcosa del suo, si ch'egli per parer vivo, o guizzare per non ri
chiama mettere di bocca: coloro che favellano manere in sceco, andando a favellare ora a
a quelli i quali non gl'intendono o s'infingono questo letterato o mercante, e quando a quel
di non intendergli, si dicono predicare a porri: l'altro, si dice: Egli è un chicchi bichicchi, e
quelli i quali, quando alcuno favella loro, non non sa quanti piedi s entrano in uno stivale.
hanno l'animo quivi e pensano a ogni altra Questi tali foramelli e tignosuzzi, che vogliono
cosa che a quella che dice colui, si chiamano contrapporsi a ognuno, si chiamano ser sac
porre, ovvero piantare una vigna: di quelli che centi, ser sacciuti, ser contraponi (3), ser vin
si beccano il cervello, sperando vanamente che ciguerra (4), ser tuttesalle, dottori sottili, nuovi
una qualche cosa debba loro riuscire e ne Salamoni, Aristarchi (5), o Quintiliani salvati
vanno cicalando qui e qua, si dice che fanno chi ; e perchè molte volte si danno de' pen
come 'l cavallo del Ciolle, il quale si pasceva di sieri del Rosso (6), si chiamano ancora accat
ragionamenti, come le starne di monte Morello, tabrighe, beccalite e pizzica quistioni. – Attutare,
di rugiada. Chi in favellando ha fatto qualche quando è della prima congiugazione, non viene
scappuccio e gli è uscito alcuna cosa di bocca, da tuto, nè significa assicurare, come hanno
ella quale vien ripreso, suole a colui che lo scritto alcuni, ma è proprissimo e bellissimo
riprende, rispondere: Chi favella erra ; egli verbo, il cui significato non può sprimersi con
erra il prete all'altare (1); e cade un cavallo un verbo solo, perchè è quello che i Latini
che ha quattro gambe: chi favella sine fine di dicono or sedare, or comprimere, or retundere,
centes, e dice più cose che non sono i beati e talvolta extinguere ; e usollo il Boccaccio (7),
Pauli (2), è in uso di dire: E vincerebbe il sebben mi ricordo, non solo nella Novella d'A-
palio di Santo Ermo, il quale si dava a chi libech due volte, ma ancora nell'ottavo della
più cicalava , e di simili gracchioni si dice an Teseide, dicendo: -

cora: E' terrebbe l'invito del diciotto, o egli sec Onde attutata s' era veramente
cherebbe una pescaja (3), o e'ne torrebbe la volta La polvere e il fumo, ec. (8)
alle cicale, o e ne rimetterebbe chi trovò il ci
calare: chi nel favellare dice o per ira, o per e Dante, la cui proprietà è maravigliosa, disse
altro quello che il suo avversario, aspettando nel ventesimosesto del Purgatorio:
il porco alla quercia, gli voleva far dire, si Ma poichè furon di stupore scarche,
chiama infilzarsi da sè a sè : quando le cose
Lo qual negli alti cor tosto s'attuta.
delle quali si favella, non ci compiacciono o
sono pericolose, s'usa dire, perche si muti ra Ma attutire della quarta congiugazione significa
gionamento: Ragioniam d'Orlando, o parliamo fare star cheto contra sua voglia uno che fa
di Fiesole, o favelliamo de moscioni, o, come velli o colle minacce, o colle busse. Quando
dicono i volgari che disse Santo Agostino ai due favellano insieme, e uno di loro o per non
ranocchi: Non tuffemus in aqua turba. – Portare avere bene inteso, o per essersi dimenticato
a cavallo si dicono coloro i quali essendo in alcuna cosa, dice: Riditela un'altra volta, quel
cammino, fanno con alcuno piacevole ragiona l'altro suol rispondere: Noi non siam più di
mento, che il viaggio non rincresca; ma biso maggio.
gna avvertire che il cavallo di questi tali non C. Deh fermate un poco, se vi piace, il corso
sia di quella razza che trottino, e come quello delle vostre parole e ditemi perchè cotesto
che racconta il Boccaccio (4), perciocchè allora detto più si dice del mese di maggio, che de
e molto meglio andare a pie, come fece pru gli altri; se già questa materia non v'è, come
dentemente Madonna Oretta, moglie di Mes mi par di conoscere, venuta a fastidio.
ser Geri Spina; anco i Latini dicevano in que (1) Bern. nel cap. del Diluvio: Tutta mattina, dalle, dalle,
sta sentenza: Comes facundus in itinere pro dalle.
vehiculo est. Sogliono alcuni, quando favellano, (2) Questo uso di dire ceste e canestre, come si dice in
usare a ogni piè sospinto, come oggi s'usa: oggi, credo che derivi da c'est de Franzesi, a cui per ischerzo
sapete, in effetto ; ovvero in conclusione: altri fosse risposto canestre. Franco Sacch. Nov. XCl 1. Dice Soc
dicono: che è, che non è, o l'andò (5), e la cebonel: Au può esser cest? E que” rispose: Si può esser ca
nestre.

(1) Vedi il Menagio ne' Modi di dire Italiani al num. LX. (3) Berni nel capitolo dell'Anguille:
(2) Malm. C. 1, St. 29. Potrebbesi chiamar la vinciguerra.
Giunta in questo 'n un campo pien di cavoli (4) Vedi il Galateo di messer Giovanni della Casa, cart. 42.
M'aſſetto tanti che Beati Pavoli. (5) Berni nel primo capitolo:
V. qui le note di Paolo Minucci. Non avrebbe a Macrobio, e ad Aristarco,
(3) Oggi si dice in questo significato: E' torrebbe il capo Ne a Quintilian ceduto un dito.
a una pescaja; perche le pescaje col loro romore tolgono il (6) Vedi il Vocabol. alla voce Impaccio. – Darsi i pen
capo altrui, facendoglielo dolere. sieri del Rosso, vale impacciarsi de fatti altrui o di cose da
(4) Bocc. Nov. 1.1. nulla. ( M.)
(3) Bern. in lode di Arist. E non stare a dir : L'andò, (7) Bocc. Nov. XXX.
la mette. (8, Teseide, lib. VIII, st. 81.
342 L' ERCOLANO

V. La lingua va dove il dente duole; ma titudine loro ricercherebbe un libro apparta


che debbo io rispondere alla vostra dinanda, to; il che già fu fatto da me in Venezia e poi
se non quello che dicono i volgari medesimi º da me e da messer Carlo Strozzi arso in Ferra
cioè, perchè di maggio ragghiano gli asini. Ma ra (1). Quando alcuno, per procedere mescola
come voi avete detto, io vorrei oggi mai uscire tamente e alla rinfusa, ha recitato alcuna ora
di questo ginepraio (chè dubito di non essere zione, la quale sia stata come il pesce pasti
entrato nel pecoreccio) e venire a cose di più naca, cioè senza capo e senza coda, come que
sugo e di maggiore nerbo e sostanza, che que sto ragionamento nostro, e insomma non sia
ste fanfaluche non sono. soddisfatta a nessuno, s'usa dire a coloro che
C. Se voi ragionate per compiacere a me, ne dimandano: Ella è stata una pappolata o pip
come voi dite e come io credo, non vi dia pionata, o porrata, o pastocchia, ovvero pastoc
noia; perchè coteste sono appunto quelle fan chiata, o cruscata, o farata, o chiacchierata, o
faluche che io disidero di sapere; perciocchè fagiolata, o intemerata (2) ; e talvolta una ba
queste cose, le quali in su i libri scritte non jaccia, ovvero bajata, una trescata, una tacco
si ritrovano, non saperrei io per me donde lata o tantaferata, una filastrocca, ovvero fila
poterlemi cavare. stroccola ; e chi dice zanzaverata o cinfor
V. Non d'altronde, se non da coloro i quali niata. Quando i maestri voglion significare
l'hanno in uso nel lor parlare quasi di natura. che i fanciulli non se le sono sapute e non
C. E chi sono costoro ? ne hanno detto straccio, usano queste voci:
V. Il Senato e 'l popolo Fiorentino. boccata, boccicata, boccicone. cica, calla, gam
C. Dunque in Firenze oggi s'intendono le ba, tecca, punto, tritolo, briciolo, capetto, pelo,
cose che voi avete dette ? scomuzzolo: e più anticamente e con maggior
V. E si favellano, che è più là, non dico leggiadria fiore, cioè punto, come fece Dante
da fattori de barbieri e del calzolai, ma dai quando disse:
ciabattini e da ferravecchi; che non pensaste
ch'io o me le fossi succiate dalle dita, o le vi Mentrechè la speranza ha fior del verde (3).
volessi vendere per qualche grande e nascoso che così si debbe leggere e non come si trova
tesoro; e non è sì tristo artigiano dentro a in tutti i libri stampati: è fuor del verde, e
quelle mura che voi vedete (e il medesimo per lo contrario, quando se le sono sapute:
dico de'foresi e dei contadini) il quale non Egli l'ha in sulle punte delle dita; e non ha
sappia di questi motti e riboboli per lo senno errato parola: e in altri modi tali. Dire il
a mente le centinaja, e ogni giorno, anzi a pan pane e dirla fuor fuora è dire la cosa
ciascuna ora e bene spesso, non accorgendo come ella sta, o almeno come altri pensa che
sene, non ne dica qualcuno. Più vi dirò, che ella stia liberamente e chiamare la gatta gatta
se la mia fante ci udisse ora ragionare, non e non mtncia.

istate punto in dubbio che ella maravigliandosi Dire a uno il padre del porro e cantargli il
tra sè e facendo le stimite, non dicesse: Guarda vespro o il mattutino degli Ermini, significa
cose che quel cristiano del mio padrone inse riprenderlo e accusarlo alla libera, e prote
gna a quell'uomo che ne son pieni i pozzi stargli quello che avvenire gli debba , non si
neri e le sanno infino a pesciolini! Sicuramente, mutando. Erano gli Ermini un convento di
direbbe ella, egli debbe avere poca faccenda, Frati (4), secondochè mi soleva raccontare mia
forse che non vi si ficca drento, e per avven madre, i quali stavano già in Firenze e perché
tura non bestemmierebbe. Sapete dunque, se cantavano i divini nfizi nella loro lingua, quando
volete, donde possiate impararle. alcuna cosa non s'intendeva, s'usava dire: Ella
C. E disselo a Margutte e non a sordo (1); è la zolfa degli Ermini (5).
ma seguitate voi, se più avete che dire. Dire a lettere di scatola o di speziale è dire
V. Questa materia è così larga e abbrac
cia tante cose, che chi volesse contarle tutte,
(1) Passerotto vale modo dire, ribobolo o proverbio. È
arebbe più faccenda che non è in un sacco rotto, gran danno, che sia andato perduto questo libro del Varchi,
e gli converrebbe non fare altro tutta una set da cui si sarebbe potuto ritrarre un gran tesoro di lingua.
timana intera intera; perchè ella fa, come si (M. )
dice dell'idra, o per dirlo a nostro modo, (2) Intemerata, è un'Orazione alla Santissima Vergine,
come le ciriege che si tirano dietro l'una l'al che cosi cominciava, ed è citata dal Bocc. Nov. XI 1, 6, e da
tra; pure io, lasciando indietro infinite cose, Franco Sacch. Nov. CXCl, la quale essendo lunga, si uso
m'ingegnerò d'abbreviarla, per venire quando poi dire dal volgo d'ogni troppo lungo ragionamento, e per
cio noioso: Egli e un'intemerata. – Questa parola in alcuni
che sia alla fine. Dico dunque che dire farfallo dialetti di Lombardia s'adopera tuttora a significare un raf
ni, serpelloni e strafalcioni, si dice di coloro che faccio, una lavata di capo. (M.)
lanciano raccontando bugie e falsità manifeste; (3) Dante, Purg. l 1 l. Luogo osservato dipoi da Deput.
de' quali si dice ancora: E dicono cose che non a c. 6. laonde non è da attendere ciò che soggiugue il Ca
le direbbe una bocca di forno; e talvolta men stelvetro a c. 1o 1 della Correzione, ec.
tre favellano, per mostrare di non le passare (4) La Chiesa degli Ermini, o Armeni, era dove oggi è
loro, si dice: ammanna o affastella, che io San Basilio al canto alla macine, o, alla macina, come dice
lego: o suona, che io ballo. Non fomenzione il Bocc. Nov. LXXI l I, 18. E del Mattutino degli Ermini
ne fa menzione il Burch. 1, 91.
de passerotti, perchè la piacevolezza e la mol - E i frati Ermini cantan mattutino.
-

(5) Burch. Part. 1, Sou. CXXll 1. Per bimolle la zolfa


(1) Verso del Moig. XVI 11, 165. dest. La mini.
DIALOGO 343
la bisogna chiaramente, e di maniera che ognu o non può più parlare e nientedimeno vuol
no senza troppa speculazione intendere la possa. sopraffare l'avversario e mostrare che non lo
Dire le sue ragioni a birri, si dice di coloro stimi, egli serrate ambo le pugna e messo il
che si voglion giustificare con quelli a chi non braccio sinistro in sulla snodatura del destro,
tocca, e che non possono aiutargli, tratto da alza il gomito verso il cielo e gli fa un mani
coloro che, quando ne vanno presi, dicono a chetto; o veramente, posto il dito grosso tra
quelli che ne gli portano a guisa di ceri (1), che l'indice e quello del mezzo, chiusi e ristretti
e loro fatto torto. insieme quegli altri, e disteso il braccio verso
D'uno che attende, e mantiene le promes colui, gli fa, come dicono le donne, una ca
sioni sue, si dice: Egli è uomo della sua pa stagna, aggiugnendo spesse volte: To', castra
rola, e quando fa il contrario: egli non si pag mi questa, il quale atto forse con minore one
d un vero. Di coloro che favellano in punta stà, ma certo con maggiore proprietà chiamò
di forchetta, cioè troppo squisitamente e af Dante, quando disse:
fettatamente, e, come si dice oggi, per quinci Alla fin delle sue parole il ladro
e quindi, si dice andare su per le cime degli Le mani alzò con amendue le fiche (1).
alberi, simile a quello cercare defichi in vet
ta. A coloro che troppo si millantano e dicono la qual cosa, secondo alcuni, volevano signifi
di voler fare o dire cose di fuoco, s'usa, rom care i Latini, quando dicevano medium ungem
pendo loro la parola in bocca, dire: Non isbrac ostendere, e talvolta medium digitum: il che
ciate. D'uno il quale non s'intenda o non pare che dimostri quello essere stato atto di
verso. I Latini a chi diceva loro alcuna cosa
voglia impacciarsi d'alcuna faccenda, interve
nendovi solo per bel parere, e per un verbi della quale volessimo mostrare che non tene
grazia rimettendosene agli altri, si dice: Il tale vano conto nessuno, dicevano: Haud manum
se ne sta a detto (2). A uno che racconti alcuna vorterim ; e noi nel medesimo modo : Io non
cosa e colui a chi egli la racconta, vuol mo ne volgerei la mano sossopra. Diciamo ancora,
strare in un bel modo di non la credere, suol i quando ci vogliamo mostrare non curanti di
dire: San chi l'ode, alle quali parole debbono checchessia: Io non ne farci un tombolo in sul.
seguitare queste: Pazzo chi'l crede. D'uno che l'erba , e quando vogliamo mostrare la vili
dica del male assai, si dice: Il suo aceto è di pensione maggiore, diciamo oon parole anti
vin dolce o egli ha una lingua che taglia e fo che: Io non ne darei un paracucchino o vera -
ra: e per lo contrario d' uno che non sappia mente buzzago, e con moderne una stringa, un
fare una torta parola, nè dir pur zuppa, non lupino, un lendine, un moco, un pistacchio, un
che far villania ad alcuno o stare in su i con bagattino, una frulla, un baghero o un ghia
venevoli e fare invenie, si dice: Egli è meglio baldano, de quali se ne davano trentasei per
che il pane, e talvolta che il Giovacca. D'uno un pelo d'asino.
che sia maledico e lavori altrui di straforo Quando alcuno entra d'un ragionamento
commettendo male occultamente, si dice: Egli in un altro, come mi pare che abbiamo fatto
è una mala bietta o una cattiva lima sorda. noi, si dice: Tu salti di palo in frasca o ve
D'uno che sia in voce del popolo e del quale ramente d'Arno in Bacchillone (2). Quando al
ognuno ardisca di dire quello che vuole e an cuno dice alcuna cosa la quale non si creda
cora fargli delle bischenche e del soprusi, si essere di sua testa, ma che gli sia stata in
dice: Egli è il Saracino di piazza ovvero ci burchiata, sogliono dire: Questa non è erba di
miere a ogni elmetto. tuo orto. Quando alcuno o non intende o non
Considerate ora un poco voi qual differenza vuole intendere alcuna ragione che detta gli
sia dallo scrivere al favellare o dallo scrivere sia, suole dire: Ella non mi va ; non m'en
daddovero a quello da motteggio. Messer Fran tra ; non mi calza ; nan mi cape : non mi qua
cesco Petrarca disse questo concetto in quel dra ; e altre parole così fatte. Quando alcuno
verso: - o privatamente o in pubblico confessa esser
falso quello ch'egli prima per vero affermato
Amor m'ha posto come segno a strale (3). avea, si chiama ridirsi o disdirsi.
e messer Pietro Bembo: Essere in detta (3), significa essere in grazia
e favore; essere in disdetto (4), in disgrazia e
Io per me nacqui un segno
Ad ogni stral delle sventure umane. (1) Dante, Inf. XXV. Di poca onestà fu ripreso questo
verso di Dante anche dal Casa nel Galat. a c. 57, dicendo:
Quando alcun uomo iroso, e col quale non « Le mani alzò con amendue le fiche, disse il nostro Dante ;
si possa scherzare, è venuto per la bizzarria sua ma non ardiscono di così dire le nostre donne; anzi per isa hi
nel contendere con chicchessia in tanta colle
fare quella parola sospetta, dicono piuttosto le castagne. Ma
ra e smania, che girandogli la coccola, non sa Dante si potrebbe ben difendere, siccome già l'eruditissimo
Carlo Dati in una delle sue Veglie non islampale il difese
(1) Berni nel capitolo del Debito: da tutte le accuse del Casa.
Che 'l peggio che gli possa intervenire, (2) Fiume del Vicentino detto in lat. Medoacus minor. Il
E l'esserne portato con un cero. proverbio è tratto dal verso di Dante, luſ. XV.
Al qual luogo forse allude qui il Varchi. Fu trasmutato d'Arno in Bar, higlione.
(2) Oggi diciamo, starsene al detto. (3) Essere in detta, propriamente vale, aver la fortuna fa
(3) Petr. Son. CI I 1. Il Castelvetro a c. 1o6 della Cor vorevole, e si dice di chi è fortunato spezialmente nel giuo o.
º re vuole che il Petrarca non dica cio che crede il (1) Oggi si dice, disdetta, forse dallo spagnuolo al di la;
Vah, ma º usanna, come appare chiaramente, e vale disgrazia fortuna contraria.
344 L' ERCOLANO
disfavore. Quando uno cerca pure di volerci dicevano, accattare, è farsi dare la parola di
persuadere quello che non volemo credere, per quello che fare si debba. Andare sopra la parola
levarloci dinanzi e torci quella seccaggine dagli d'alcuno, e stare sotto la fede sua di non do
orecchi, usiamo dire: Tu vuoi la baja o la vere essere offeso. Quando alcuno vuole che
berta o la ninna o la chiacchiera o la giacchera tutto quello che egli ha detto, vada innanzi
o la giostra o il giambo o il dondolo dei fatti senza levarne uno iota, o un minimo che, si
miei: o tu uccelli, tu hai buon tempo, ringra dice: E vuole che la sua sia parola di Re.
zia Dio se tu sei sano; anche il Duca murava, Cavarsi la maschera e non volere essere più
e molti altri modi somiglianti. ipocrito o simulatore, ma sbizzarrirsi con uno
Quando uno dice cose non verisimili, se gli senza far più i fraccurradi (1).
risponde: Elle sono parole da donne o da sera, Coloro che quando i fanciulli corrono, danno
cioè da veglia; o veramente elle son favole e loro le mosse, dicono, trana ; onde chi vuol bef
novelle. Quando uno dice sue novelle per far fare alcuno, gli grida dietro: tran trana tratto
credere alcuna cosa, se gli risponde: Elle sono dal suono delle trombe (2) ; o miau miau (3),
parole, le parole non empiono il corpo, dove dalle gatte.
bisognano i fatti, le parole non bastano, tu hai Quando alcuno non dice tutto quello che
buon dire tu, tu saresti buono a predicare a por. egli vorrebbe o doverrebbe dire, si dice: Egli
ri; e in altre guise cotali. A uno che si sia in tiene in collo, e se è adirato: Egli ha cuc
capato una qualche cosa, e quanto più si cerca cuma in corpo, cioè stizza; onde si dice d'uno
di sgannarlo, tanto più v'ingrossa su , e ri che ha preso il broncio: Ella gli è montata.
sponde di voler fare e dire, s'usa: Egli è en Quando alcuno dice una cosa la quale sia fal
trato nel gigante. Chi ha detto o fatto alcuna sa, ma egli la creda vera, si chiama dire le
cosa in quel modo appunto che noi disiderava bugie, che i Latini dicevano dicere menda
mo, si chiama aver dipinto o fattala a pennel cia ; ma se la crede falsa, come ella è, si
lo. D'uno che fa i castellucci in aria: Egli si chiama con verbo Latino, mentire o dire men
becca il cervello o si da monte Morello nel capo. zogna ; la qual parola è Provenzale, onde
D' uno che colle parole e co fatti si sia fatto menzognere, cioè bugiardo. Il verbo che usa
scorgere, si dice: Egli ha chiarito il popolo; e Dante quando disse: Io non ti bugio (4) e an
Morgante disse a Margntte: cora in bocca d' alcuni, i quali dicono: Io non
ti buso, cioè dico bugie; è vero che dir bugie
Tu m'hai chiarito, anzi vituperato ( 1). e mentire si pigliano l'uno per l'altro.
D'uno che dà buone parole e frigge, si di Quando alcuno, e massimamente fuori del
ce: Egli ha 'l mele in bocca, e 'l rasojo a cintola l'usanza sua, ha detto in riprendendo chic
o come dicevano i Latini, le lagrime del coc chessia, o dolendosene, più del dovere, si chiama
codrillo, e noi diciamo, la favola del tordo (2), essere uscito del manico.
che disse: Bisogna guardare alle mani, e non Zufolare dietro a uno è dire con sommessa
agli occhi. voce : Quegli è il tale, quegli è colui che
Conciare alcuno pel dì delle feste, ovvero come fece, o che disse; e a colui si dicono zufo
egli ha a stare, significa nuocergli col dirne lare gli orecchi, come dicevano i Latini per
male; ma conciare uno semplicemente significa sonare aures. Quando alcuno vuol significare
o con preghiere o con danari condurlo a fare a chi dice male di lui, che ne lo farà rima
tutto quello che altri vuole: e coloro che nere, minaccia di dovergli turare o riturare
conoscono gli umori dove peccano gli uomini, la bocca o la strozza, ovvero inzeppargliele,
e gli sanno in modo secondare, che ne trag cioe con uno struffo ovvero struffolo di stop
gono quello che vogliono, si dicono trovare la pa o d'altro empiergliela e suggellare.
stiva ; e sono tenuti valenti. Quando uno conforta un altro a dover fare
Andarsene preso alle grida, significa credere alcuna cosa che egli fare non vorrebbe, e allega
quello che t'è detto, e senza considerare più sue ragioni, delle quali colui non è capace,
oltra, dire o non dire, fare o non fare alcuna suole spesso avere per risposta: Tu ci metti pa
cosa bene o male che ella si sia. role tu ; a nessuno confortatore non dolse mai
Dir buon giuoco, è chiamarsi vinto; è pro testa ; e se egli seguita di strignerlo e serrarlo
prio de fanciulli, quando, facendo alle pugna, fra l' uscio e 'l muro, colui soggingne: Parole
rimangono perdenti; il verbo generale è ren brugnina. A uno che per trastullare un altro e
dersi e arrendersi, che i Latini dicevano dare aggirarlo colle parole, lo manda ora a casa
herbam e dare manus. - questo e ora a casa quell'altro per trattener
Dire il paternostro della bertuccia, non è mica
dire quello di San Giuliano (3), ma bestem (1) Che sia un fraceurrado, lo spiegammo nella nota alla
miare e maladire; come pare che facciano co pag. I 18. (M.)
tali animali, quando acciappinano per paura, (2) Ennio: Et tuba terribili sonitu taratantara diat: con
o per istizza dimenano tosto tosto le labbra. traffacendo il suono della tromba. -

Pigliare la parola del tale, che gli antichi (3) Segn Stor. lib. I V, cart. 112. Per maggior dispregio
di detto Maramaldo faccea contraffare da soldati la voce d'una
(1) Morgante, XIX, 141. gatta alle mura, che dicendo miau miau, s'assomigliava al suo
(2) Vedi il Menagione Modi di dire Italiani, num. VI l I rtoni e.

e il Vocabol. della Crusca alla voce Farola. (4) Dante, Purg. XVIII.
(3) Del paternostro di San Giuliano, vedi il Boccaccio, Questi che rive, (e certo io non vi bugio)
Nov. XII. Vuole andar su, pur.he i sol ne riluca.
DIALOGO 345
lo, si dice abburattare e mandar da Erode a debba e a qual sentenza piuttosto appigliare
Pilato. per creder bene e saperne la verità.
Far tenore, o falso bordone a uno che ci V. Dunque credete voi che io debba esser
cali è tenergli il fermo non solo nel prestar quegli che voglia por mano a così fatta impre
gli gli orecchi a vettura in ascoltarlo, ma an sa con animo o speranza di dover terminare
ch'egli di cicalare la sua parte. A chi aveva cotal quistione, e arrecar fine a si lunga li
cominciato alcun ragionamento, poi entrato in te? Troppo errate se ciò credete, e male mo
un altro, non si ricordava più di tornare a strereste di conoscere generalmente la natura
bomba, e fornire il primo, pagava già, secon degli uomini e particolarmente la mia. Laonde
dochè testimonia il Burchiello, un grosso (1); son ben contento, ancora che conosca in che
il qual grosso non valeva per avventura in pelago entri, e con qual legno, e quanto po
quel tempo più che quei cinque soldi che si veramente guernito, di volere checchè seguire
pagano oggi; i quali io non intendo a patto me ne debba o possa dire, non per altra mag
nessuno di voler pagare ; però, tornando alla gior cagione che per soddisfare a voi e a co
prima materia nostra, proponetemi tutte quelle loro che tanto instantemente ricercato me ne
dubitazioni che voi dicevate di volermi pro hanno in favore della verità tutta l'opinione
porre; che io a tutte risponderò liberamente mia sincerissimamente.
tutto quello che saperrò. C. Cotesto mi basta, anzi è appunto quello
C. Io, per non perdere questa occasione di che io andava caendo.
oggi, che Dio sa quando n'arò mai più un'al V. Se questo vi basta noi saremo d'accordo:
tra, e valermi di cotesta vostra buona volontà ma io voglio che noi riserbiamo questo que
il più che posso, vorrei dimandarvi di molte sito al da sezzo; e in questo mentre da tor
cose intorno a questa vostra lingua, le quali tegiana in fuori, chiamatela come meglio vi
dimande, per procedere con qualche ordine, torna che non potete gran fatto errare di so
chiamerò Quesiti: ma prima mi par necessa verchio, come per avventura vi pensate: e a
rio non che ragionevole che io debba sapere me non dispiace, come fa a molti che ella si
qual sia il suo propio, vero, legittimo e di chiami volgare, posciache così la nominarono
ritto nome, conciossiachè alcuni la chiamano gli antichi; e i nomi debbono servire alle cose
volgare o vulgare, alcuni fiorentina, alcuni e non le cose ai nomi.
toscana, alcuni italiana ovvero italica e alcuni C. Perchè volete voi serbare questo quesito
ancora cortigiana, per tacere di quelli che all' ultimo ? Forse per fuggire il più che po
l'appellano la lingua del sì (2). tete di venire al cimento e al paragone? che
V. Cotesto dubbio è stato oggi mai disputato ben conosco che voi traete alla staffa e ci an
tante volte e da tanti, e ultimamente da mes date di male gambe e non altramente che le
ser Claudio Tolomei (3), uomo di bellissimo serpi all'incanto.
ingegno e di grandissimo discorso, così lunga V. Anzi piuttosto, perchè la cagione che
mente, che molti per avventura gindicheranno questo dubbio da tanti che infin qui disputato
non solo di poco giudizio, ma di molta presun in hanno risoluto non si sia, mi pare proce
zione chiunque vorrà mettere bocca in questa duta più che da altro, perchè eglino non si
materia, non che me, che sono chi io sono ; son fatti da primi principi come bisognava,
e però vi conforterei a entrare in qualche al diſfinendo primieramente che cosa fosse lingua,
tro ragionamento che a voi fosse di maggiore e poi dichiarando a che si conoscano le lin
utilità, e a me di manco pregiudizio. gue, e come dividere si debbiano; perciocche
C. Io direi che voi non foste uomo della Aristotile afferma, niuna cosa potersi sapere
parola vostra, se non voleste attendermi quello se prima i primi principi, i primi elementi e
che di già promesso m'avete; e di vero io non le prime cagioni di lei non si sanno.
credeva che egli valesse nè a disdirsi, nè a C. Ditemi dunque per lo primo quesito, che
ridirsi: e cotesto che voi allegate per mostrarlo cosa lingua sia.
soverchio, è appunto quello che lo fa neces
sario e spezialmente a me, perche non con
chiudendo tutti una cosa medesima, anzi cia Q U EsiTo P R1M o
scuno diversamente all'altro, io resto in mag
gior dubbio e confusione che prima, ne so di Che cosa sia lingua.
scernere da me medesimo a qual parte mi
V. Lingua ovvero linguaggio non è altro
(1) Burch. p. 2, Son. XIX.
che un favellare d'uno o più popoli, il quale o
Ondº il compagno prese più ardire, i quali usano nello sprimere i loro concetti, i
Messer, dicendo, voi n'avete un grosso; medesimi vocaboli nelle medesime significazioni
Che chi non sa tornare al suo proposito, e co medesimi accidenti.
E in questa terra una si fatta usanza, C. Perche dite voi d'un popolo?
Ched ei lo paghi, o ch ei lo dia in dipesito. V. Perchè, se parecchi amici, o una com
(2) Vedi la Vita Nuova di Dante a c. 31 dell'edizione di pagnia quantunque grande ordinassero un mo
Firenze 1723, ove Dante dice: E se eolemo guardare in lin
gua d'oco, e in lingua di si.
do di favellare tra loro, il quale non fosse in
(3) Claudio Tolomei nel Cesano, Dialogo, in cui si disputa teso, nè usato se non da se medesimi, questo
del nome col quale si dec chiamare la volgar lingua, stampate non si chiamerebbe lingua, ma gergo, o in al
in Venezia nel 1555. cuno altro modo; come le cifere non sono
VARCHI V, 1. 4
346 L' Eta COLANO
propriamente scritture ma scritture in cifera. dai professori della lingua, i quali dicono che
elle non sono toscane o fiorentine.
C. Perche dite di più popoli ?
V. Perche egli è possibile che più popoli V. Quando, come, dove, perchè e da chi
usino una medesima lingua, se non natural si possano, o si debbano usare non solamente
mente almeno per accidente, come avvenne quelle parole che s'intendono, ma eviandio
già della latina, e oggi avviene della Schia quelle le quali non s'intendono, si farà mani
vona (1) e di molte altre. festo nel luogo suo, perchè voglio che proce
C. Perche v'aggiugnete voi nello sprimere i diamo per non ci confondere distintamente e
concetti loro? con ordine. Bastivi per ora sapere che coloro
V. Per ricordarvi che il fine del favellare in tutte le lingne meritano maggior lode, i
è sprimere i suoi concetti mediante le parole. quali più agevolmente si fanno intendere.
C. Perche dite voi i medesimi vocaboli senza C. Io non disidero altro se non che si pro
eccezione alcuna, e non quasi, o comunemente ceda, come solete dir voi, metodicamente, cioè
i medesimi vocaboli ? Se un fiorentino, verbi con modo e con ragione, ovvero con ordine
grazia, usasse nel suo favellare una, o due o e regola; e però tornando alla definizione della
ancora più parole, le quali non fossino fioren lingua, perchè vi poneste voi quelle parole,
time, ma straniere, resterebbe per questo che nelle medesime significazioni?
egli non favellasse fiorentino? V. Perchè molti sono quei vocaboli i quali
V. Resterebbe e non resterebbe; resterebbe, significano in una lingua una cosa e in un'al
perchè in quella una, o due o più parole, le tra, un'altra tutta da quella diversa; intanto
quali non fossono fiorentine, egli sarebbe barba chè io per me non credo che si ritruovi voce
ro; e barbaramente non fiorentinamente favel nessuna in verun luogo, la quale in alcuna lin
lerebbe; non resterebbe, perchè in tutte l'altre gua non significhi qualche cosa.
parole, da quelle in fuori sarebbe fiorentino C. Che vogliono importare quelle parole,
e fiorentinamente favellerebbe e co medesimi accidenti? e quali sono questi
accidenti?
C. Dunque un povero forestiero, il quale con
lungo studio e fatica avesse apparato la lingua V. Molte cose si disiderano così ne nomi,
fiorentina o quale si voglia altra, se poi nel come ne verbi e nell'altre parti dell'orazio
favellare gli venisse uscita di bocca una pa ne, ovvero del favellare, le quali da gramma
rola sola la quale fiorentina non fosse, egli tici si chiamano accidenti, come sono nei no
sarebbe barbaro e non favellerebbe fiorenti mi le declinazioni e i generi, e ne verbi le
nancnte? coniugazioni, e le persone, e in amenduni i
numeri e altre cosi fatte cose,
V. Sarebbe senza dubbio in quella parola
sola, ma non per questo si direbbe che egli C. In coteste parole e in altre così fatte cose,
in tutto il restante fiorentinamente non favel comprendetevi voi gli accenti ?
lasse: e Cicerone medesimo che fu non elo V. Comprendo; sebbene gli accenti non sono
quente, ma l'eloquenza stessa, se avesse usato propriamente passioni de'nomi o de' verbi, ma
di ciascuna sillaba indifferentemente.
una parola sola, la quale latina stata non fos
se, sarebbe stato barbaro in quella lingua, in C. Io intendo per accenti non tanto il tuono
finattanto che quella cotal parola non fosse delle voci, il quale ora l'alza e ora l'abbassa,
stata ricevuta dall'uso, o altra cagione non secondo che è o acuto o grave; ma ancora il
l'avesse fatta tollerabile e bene spesso lau. tuono, cioè il modo e la voce colla quale si
dabile. profferiscono, e brevemente, la pronunzia stes
C. Se il fine del favellare è manifestare i sa; la quale vorrei sapere se si dee conside
suoi concetti, io crederei che dovesse bastare rare nelle lingue per mostrarle o simili, o di
a chi favella essere inteso, e a chi ascolta in verse l'una dall' altra.
tendere, senza andarla tanto sottilizzando. V. La pronunzia e di tanto momento nella
V. Quanto al fine del favellare non ha dub differenza delle lingue che Teofrasto (i), il
bio che basta l'intendere e l'essere inteso; quale, come ne dimostra il suo nome, favel
ma non basta già quanto al favellare corret lava divinamente nella lingua attica, fu cono
tamente e leggiadramente in una lingua, che sciuto da una donnicciuola (2) che vendeva
è quello che ora si cerca: per non dir nulla, l'insalata in Atene per non Ateniese, la quale,
che quella o quelle parole potrebbono esser dimandata da lui del pregio di non so che
tali che voi non l'intendereste, come se fos
(1) Diogene Laerzio libro V nella Vita di Teofrasto:
sero turche o d'altra lingua non conosciuta
da voi; onde così il parlare come l'ascoltare Tsro» Tv orzgov Asyò svov esoppzgov 5tà ro
verrebbero a essere indarno.
ti; º oxaso; 3sariatov 'Aptgoria, aerovogz
7ev. Costui chiamato Trtamo, Aristotile l'appellò Teofra
C. lo non intendeva di coleste ma di quelle sto per la divinità dello stile. E Cic. nel Bruto: Theophrasta;
parole che si favellano comunemente per l'I- divinitate loquendi nomen invenit. E Plin. nella Prelazione
talia, e sono intese ordinariamente da ognuno ; alla sua Storia: Il suo vero nome era Tiriamo, ed era di
Lesbo.
e nondimeno chi le usa, è ripreso o biasimato (2) Cic. nel Bruto: Ego jan non mirer, illud Theophrasio
aer disse quod dicitur, quum percumetaretur er ami, ula quadan
(1) Intende qui il Varchi della lingua slava, detta pure quarti aliquid vendorel. et respondisset illa, alque addidisset:
schiavosa, onde tanti diversi idiomi derivano, e fra gli al Hospes, non pote minoris; tulisse eum moleste, se non effugere
tri lo schiavone o basso slavo, il boemo, l'ungherese ec. | hospiti, specien, quum aetaten ageret Athens, optineque io
(M.) l quarciur.
-
DIALOGO º 17

cose gli rispose: Forestiero, io non posso darla C. Se voi non dite altro che messer no, e
per manco. E ardirei di dire che non pure signor no, io mi rimarrò nella mia credenza
tutte le città hanno diversa pronunzia l'una di prima.
dall' altra, ma ancora tutte le castella ; anzi V. Lo scrivere non è della sostanza delle
chi volesse sottilmente considerare, come tutti lingue, ma cosa accidentale, perchè la propria
gli uomini hanno nello scrivere differente ma e vera natura delle lingue è che si favellino,
no l'uno dall'altro, così hanno ancora diffe e non che si scrivano; e qualunque lingua si
rente pronunzia nel favellare; onde non so favellasse, ancorachè non si scrivesse, sarebbe
come si possa salvare il Trissino, quando dice lingua a ogni modo: e se fosse altramente le
nel principio della sua Epistola a Papa Cle lingue inarticolate non sarebbono lingue, co
mente (1): Considerando io la pronunzia Ita me elle sono. Lo scrivere fu trovato non dalla
liana; favellando non altramente che se tutta natura, ma dall' arte; non per necessità, ma
Italia dall' un capo all'altro avesse una pro per comodità; conciossiacosachè favellare non
nunzia medesima, o se le lettere che egli vo si può, se non a coloro che sono presenti, e
leva aggiugnerle, fossero insieme coll'altre nel tempo presente solamente; dove lo scri
state bastanti a sprimere e mostrare la diver vere si distende e a' lontani, e nel tempo av
sità delle pronunzie delle lingue d'Italia; venire: e anco a un sordo si può utilmente
cosa non solo impossibile ma ridicola, come scrivere, ma non già favellare; dico de'sordi
se, lasciamo stare la Sicilia, ma Genova non non da natura, ma per accidente: e se le let
fosse in Italia, la cui pronunzia è tanto da tere fossono necessarie, la definizione della
tutte l'altre diversa che ella scrivere e dimo lingua approvata di sopra da voi, sarebbe man
strare con lettere non si può; ne perciò vor chevole e imperfetta, e conseguentemente non
rei che voi credeste che tutte le buona; e ne seguirebbe, che così lo scrivere
diversità
delle pronunzie dimostrassero necessariamente, fosse naturale all' uomo, come è il parlare;
e arguissono diversità di lingua, ma quelle sole la qual cosa è falsissima.
che sono tanto varie da alcuna altra che ciascuno C. Il Castelvetro (1) dice pure nella divisio
che l'ode, conosce manifestamente la diver ne che egli fa delle lingue, che le maniere di
sità ; delle quali cose certe e stabili regole lingua straniera sono due, una naturale e l'al
dare non si possono, ma bisogna lasciarle in tra artifiziale; e che la naturale è di due ma
gran parte alla discrezione de' giudiziosi, nella niere, una delle quali ha i corpi insieme e
quale elle consistono per lo più. gli accidenti del vocaboli della favella propria
C. A me non sovviene che dimandarvi più e usitata d'un popolo differente da quei della
oltra in questa definizione, laonde passeremo nostra, ma l'altra ha gli accidenti soli. E
al secondo quesito. poco di sotto dichiarando sè medesimo, inten
de per corpi le vocali e le consonanti. Ma
di che ridete voi ? forse perche questa divi
QUESITO SECONDO sione è di sua testa ?
V. Cotesto mi darebbe poca noia, anzi mag
giormente ne 'l loderei, nè io mi vergognerò
A che si conoscano le lingue. di confessarvi l'ignoranza mia: sappiate, ch'io
con tutte quelle sue dichiarazioni durai delle
V. Le lingue si conoscono da due cose; dal fatiche a poterla intendere; e anco non son
ſavellarle e dall'intenderle. ben chiaro se io l' intendo, anzi son chiaris
C. Dichiaratevi alquanto meglio. simo di non intenderla, perchè le cose false
V. Delle lingue alcune sono, le quali noi in non sono; e le cose che non sono, non si pos
tendiamo e favelliamo; alcune per lo contra i sono intendere.
rio le quali noi nè favelliamo, ne intendiamo; C. Perchè?
e alcune le quali noi intendiamo bene, se non V. Perchè quello che è nulla, non è niente;
tutte la maggior parte, ma non già le favel e quello che è niente non potendo produrre
liamo: perchè trovare una lingua, la quale noi immagine alcuna di sè, non può capirsi.
favelliamo e non intendiamo, non si può. C. Dunque voi tenete quella divisione falsa?
C. Tutto mi piace, ma voi non fate men V. Non meno che confusa e sofistica e fatta
zione de' caratteri, cioè delle lettere ovvero solo, intendete sempre con quella protestazio
figure, chiamate da alcuni note, colle quali le ne che io vi feci di sopra, per aggirare il cer
lingue si scrivono? Non sono anco queste let vello altrui e massimamente a coloro i quali
tere necessarie, e fanno differenza tra una lin non sanno più là ; come per avventura sono
gua e un'altra ? io; e per potere schifare le ragioni e le auto
V. Messer no. rità allegategli incontra da messer Annibale ;
C. Come, messer no? se una lingua si scri perchè, oltra l'altre cose fuori d'ogni ragione
ve con diversi caratteri da quelli d'un'altra e verità che al suo luogo si mostreranno, egli
lingua, non è ella differente da quella ? vuole che la maggior differenza che possa es
V. Signor no. - sere tra una lingua e un'altra, sia quella dei
corpi, cioè delle lettere, come se le lettere,
(1) Nell'Epistola a Papa Clemente VII sopra le Lettere
nuovamente aggiunte all'alfabeto. Vedi il Dialogo del Tris (1) Il Castelvetro nella Risposta all'Apologia del Caro, in
sino medesimo intitolato Il Castellano, sul principio. principio.
348 L' ERCOLANO
cioè gli alfabeti fossero della natura e sostanza | sono scrivere, e queste chiameremo non arti
delle lingue; la qual cosa è tanto lontana dal colate. Delle lingue alcune sono vive, e alcune
vero, quanto quelle che ne sono lontanissime: sono non vive. Le lingue non vive sono di due
e sappiate che io ho molte volte dubitato che maniere; l'una delle quali chiameremo morte
la risposta fatta da lui contra l'Apologia del affatto, e l'altra mezze vive. Delle lingue alcune
Caro non sia fatta da burla, e per vedere sono nobili e alcune sono non nobili. Delle linguc
quello che gli uomini ne dicevano; e se io alcune sono natie; e queste chiameremo proprie o
non dico da vero, pensate voi di me quello nostrali, e alcune sono non natie; e queste chia
che io penso di lui. Ditemi, vi prego, se un meremo aliene e forestiere. Le lingue forestiere
fiorentino o di qualunque altra nazione si ve sono di due ragioni; la prima chiameremo al
stisse da turco o alla franzese, sarebbe egli tre e la seconda diverse. Le lingue altre si di
per questo o franzese o turco ? vidono in due spezie; la prima delle quali
C. No, ma si rimarrebbe fiorentino. chiameremo semplicemente altre, e la seconda
V. Così una lingua scritta con quali caratteri non semplicemente altre. Le lingue diverse si
o alfabeti si voglia, si rimane nella sua natura dividono medesimamente in due spezie ; la
propria; e chi non sa che, come ciascuna lin prima chiameremo diverse eguali, e la seconda
gua si può scrivere ordinariamente con tutti diverse diseguali.
gli alfabeti di tutte le lingue, così con uno C. Io vorrei lodare questa vostra divisione,
alfabeto solo di qualsivoglia lingua si possono ma non la intendendo a mio modo, non posso
scrivere tutte l'altre? Ho detto ordinariamente, a mio modo lodarla: però arei caro me la di
perchè non tutte le lingue hanno tutti i suo chiaraste come avete fatto la diffinizione e più,
ni; chiamo suoni quelli che i Latini chiama se più potete.
vano propriamente elementi, perchè come la V. Quelle lingue, le quali hanno avuto il
lingua latina, oltra alcuni altri, non aveva que principio e origine loro in alcuna città o re
sti suoni ovvero elementi (i) che avemo noi, gione, di maniera che non vi sia memoria, ne
gua, gue, gui, guo, guu: così la greca, oltra quando, nè come, nè donde, nè da chi vi siano
alcuni altri, mancava di questi, qua, que, qui, state portate, si chiamano originali di quella
quo, quu, onde erano costretti, volendogli città o di quella regione, come dicono della
sprimere, o servirsi delle lettere dell'altrui lingua greca e molti ancora della latina. Quelle
lingue, o volendogli pure scrivere con quelle poi le quali si favellano in alcun luogo dove
della loro, ridurgli il meglio che potevano, e elle non abbiano avuto l'origine e principio
adattargli i Latini alla latina, e i Greci alla loro, ma si sappia che vi siano state portate
greca e naturale pronunzia loro. d'altronde, si chiamano non originali, come
C. Non si conoscono ancora le lingue agli fu non solo alla Toscana e a tutta Italia, dal
accenti, cioè al suono della voce e al modo
Lazio in fuori, ma ancora alle Spagne e alla
del proſſerirle? Francia la lingua latina, mentrechè non solo
V. Io vi dissi pur teste, allegandovi l'esem i Toscani e gl' Italiani, ma i Franzesi ancora
pio di Teofrasto, che le pronunzie mostrano e gli Spagnuoli favellavano nelle loro province
la differenza che è tra coloro che favellano latinamente. Lingue articolate si chiamano tutte
naturalmente le lor lingue natie, e coloro che quelle che scrivere si possono, le quali sono
favellano l'altrui accidentalmente; ma per que infinite: inarticolate quelle, le quali scrivere
sto non è che una medesima lingua eziandio non si possono, come ne sono molte tra le na
da coloro che vi sono nati dentro, non si possa zioni barbare e alcune tra quelle che barbare
diversamente profferire; come avverrebbe a chi non sono, come quella che usano nella Fran
fosse stato lungo tempo dalla sua patria lon cia i Brettoni Brettonanti, chiamati così, perchè
tano: delle quali cose, come vi dissi, non si non hanno mai preso la lingua franzese, come
posson dar regole stabili e ferme. gli altri Brettoni, ma si sono mantenuti la loro
C. Passiamo dunque al terzo quesito. antica, la quale si portarono di Brettagna,
chiamata poi Inghilterra, donde furono cacciati
QUESITO TERZO coll'arme; e come nell'Italia la pura geno
vese. Lingue vive si chiamano tutte quelle le
Divisione e dichiarazione delle lingue. quali da uno o più popoli naturalmente si fa
vellano, come la turca, la schiavona, l'inghi
lese, la fiamminga, la francesca, la spagnuola,
V. Delle lingue alcune sono nate in quel l'italiana e altre innumerabili. Lingue non vive
luogo proprio nel quale elle si favellano, e si chiamano quelle le quali più da popolo nes
queste chiameremo originali, e alcune non vi suno naturalmente non si favellano; e queste
sono nate, ma vi sono state portate d' altron sono di due guise, perciocchè alcune non solo
de, e queste chiameremo non originali. Delle non si favellano più in alcun luogo natural
lingue alcune si possono scrivere, e queste mente, ma nè ancora accidentalmente, non si
chiameremo articolate, e alcune non si pos
potendo elleno imparare, perchè o non si tro
vano scritture in esse, non essendo di loro al
(1) Il Muzio al capo XXIX della Varchina trova che i tro rimaso che la memoria ; o, se pure se ne
Latini aveano i primi quattro suoni nelle voci: Lingua, In trova alcune, non s'intendono, come è avvc
6º, ºangus, Languor. Ma forse ha anche il guu, o il gu nuto nella lingua toscana antica, chiamata
nella voce longum.
etrusca, la quale fu gia tanto celebre; e que
DIALOGO 349
ste chiameremo, come nel vero sono, morte sono, nel medesimo modo che la toscana, dalla
affatto. Alcune altre, sebbene non si favellano latina derivate, si potrebbono, nonostantechè
naturalmente da alcun popolo in luogo nes, siano semplicemente altre, anzi si doverrebbono
suno, si possono nondimeno imparare o dai per questa cagione chiamare sorelle, se non di
maestri, o da libri, e poi favellarle o scriverle, padre, almeno di madre, cioè uterine. Lingue
come sono la greca e la latina, e ancora la diverse finalmente si chiamano quelle le quali,
provenzale; e queste così fatte chiameremo sebbene naturalmente non le favelliamo, non
mezze vive, perchè dove quelle prime sono dimeno quando altri le favella, sono per lo
morte e nella voce e nelle scritture, non si fa più intese da noi: e queste anch'esse sono di
vellando più e non s'intendendo, queste se due sorti, perchè alcune sono diverse eguali, e
conde sono morte nella voce solamente, per alcune diverse diseguali. Diverse eguali si chia
che se non si favellano, s'intendono da chi mano quelle le quali, sebbene non si favella
apparare le vuole. Lingue nobili si chiamano no, s'intendono però per lo più naturalmente
quelle le quali non pure hanno scrittori o di da noi, e oltra questo sono della medesima o
prosa o di versi, o piuttosto dell'una e degli quasi medesima nobiltà, cioè hanno scrittori
altri, ma tali scrittori, che andando per le famosi e di pari o quasi pari grido e degnità
mani e per le bocche degli uomini, le rendono come erano già quelle quattro nella Grecia
illustri e chiare, come fra le antiche furono tanto nominate e tanto celebrate lingue, attica,
la greca e la latina, e fra le moderne massi dorica, eolica e gionica (1). Le diverse diseguali
mamente l'italiana. Non nobili si chiamano sono quelle lingue, le quali avvengadioche non
quelle le quali non hanno scrittori di sorte si favellino naturalmente da noi, s'intendono
nessuna, o se pure nº hanno, non gli hanno però per la maggior parte, ma non hanno già
tali che le facciano famose e conte, e sieno nè la medesima, nè la quasi medesima nobiltà
non solo letti e lodati, ma ammirati e imita o per non avere scrittori, o per non gli aver
ti. Lingue natìe, le quali chiamiamo proprie e tali che possano loro dare fama e riputazione,
nostrali, sono quelle le quali naturalmente si quali sono la bergamasca, la bresciana, la vi
favellano, cioè s'imparano senza porvi altro centina, la padovana, la viniziana, e brevemente
studio, e quasi non se ne accorgendo, nel sen quasi tutte l'altre lingue italiche, verso la fio
tire favellare le balie, le madri, i padri e l'al rentina.
tre genti della contrada, e quelle insomma le Ora, ripigliando da capo tutta questa divi
quali si suol dire che si succiano col latte e sione, e facendone, perche meglio la compren
s'apprendono nella culla. Le lingue non natìe, diate e più agevolmente la ritenghiate nella
le quali noi chiamiamo aliene, ovvero forestie memoria, quasi un albero, diremo: Che le lin
re, sono quelle le quali non si favellano natu gue sono o originali o non originali; articolate
ralmente, ma s'apprendono con tempo e fatica, o non articolate; vive o non vive: e le non
o da chi le insegna, o da chi le favella, o dai vive sono o morte affatto o mezze vive; no
libri; e queste sono di due guise. perciocchè bili o non nobili ; natie, ovvero proprie e no
alcune sono altre, e alcune sono diverse. Lingue strali; non natie, ovvero aliene e forestiere ;
altre si chiamano tutte quelle, le quali noi non se forestiere, o altre, o diverse; se altre, o sem
solo non favelliamo naturalmente, ma nè an plicemente altre, o non semplicemente altre ;
cora l'intendiamo, quando le sentiamo favel se diverse o diverse, eguali, o diverse diseguali.
lare; e tali sono a noi la turca, l'inghilese,
Le Toriginali Non originali morte
la tedesca e altre infinite: e queste sono di
due ragioni, perciocchè alcune si chiamano li,
gue
Articolate
rice -
Non articolate
Non vive –
| affatto
semplicemente altre, e alcune non semplicemente Sono Nobili Non nobili - mezze
altre: le semplicemente altre sono tutte quelle o Natie o pro- | Non natie o alie- vive
le quali non solamente non sono nè favellate Lprie o nostrali. – ne, o forestiere.
da noi, nè intese quando altri le favella, ma l
A

–,
nè ancora hanno che fare cosa del mondo Altre Diverse
colle nostre natie, come, oltra le pur testè A –º

raccontate, l'egizia, l'indiana, l'arabica e al I

tre senza novero: non semplicemente altre si l


Semplice- Non semplice- Diverse e- Diverse dis
chiamano quelle le quali, sebben noi non le mente altre. mente altre. guali. eguali.
favelliamo, nè intendiamo naturalmente, hanno
C. Che direste voi, che egli mediante que
però grande autorità e maggioranza sopra le sta divisione, mi par d'avere in non so che
nostre natìe, perchè se non hanno dato loro modo molto conosciuto delle sofisterie e falla
l'essere, sono state buone cagioni che elle sia cie del Castelvetro? Ma io non la vi voglio
no; e tale è la greca verso la latina e la la
tina verso la toscana, conciossiacosa che come
la latina si può dire d'essere discesa dalla (1) Il Muzio al cap. XXIX della Varchina vorrebbe che il
greca, essendosi arricchita di molte parole e Varchi avesse detto Ionica, e nega che si possa preporre il g
avanti all'i quando è vocale, come qui nella voce Ionica. Ma
di molti ornamenti di lei, così, anzi molto più,
queste regole universali de grammatici, per lo più son false ,
la toscana dalla latina ; benchè la toscana, e non vi ha cosa più varia de nomi propri presso i nostri
quasi di due madri figliuola, e molto obbligata scrittori; del che vedi le Annotazioni del Redi al suo Dit
ancora alla provenzalc : e perché la lingua rambo sopra la voce Arianna. Per altro, oggi si direbbe piut
franzese moderna, come ancora la spagnuola, tosto jouca, che bivica.
35o L' ERCOLANO

lodare, se voi prima alcuni dubbi non mi scio da Bergamo, e il Trissino fu da Vicenza, non
glietc. per questo i componimenti loro sono o pado
V. Voi me l'avete lodata purtroppo, e se vani, o bergamaschi, o vicentini, ma toscani,
volete che io da qui innanzi vi risponda, di se non volete che io dica fiorentini; e tanti
mandatemi liberamente di tutto quello che vi signori napoletani e gentiluomini bresciani, e
occorre, senza entrare in altre novelle. Ma tanti spiriti pellegrini di diversi luoghi, i quali
quali sono questi vostri dubbi? hanno scritto e scrivono volgarmente, non hanno
C. Il primo è, perchè voi nel fare cotale di scritto, nè scrivono in altra lingua che nella
visione non avete detto: Delle lingue alcune fiorentina, o, volete che io dica, nella toscana.
sono barbare e alcune no? e C. Il Conte Baldassarre Castiglione, che ſu
v. Questo nome barbaro è voce equivoca, quel grand'uomo che voi sapete, così nelle
cioè significa più cose, perciocchè quando si lettere, come nell'armi, dice pure nel suo Cor
riferisce all'animo, un uomo barbaro vuol dire tegiano, che non si vuole obbligare a scriver
un uomo crudele, un uomo bestiale e di co toscanamente, ma lombardo.
stumi efferati; quando si riferisce alla diver V. Vada per quelli che scrivono lombardo
sità o lontananza delle regioni, barbaro si chiama volendo scriver toscanamente; perchè se io
chiunque non è del tuo paese; ed è quasi quel v'ho a dire il vero, egli disse quello che egli
medesimo che strano o straniero; ma quando non volea fare, o almeno che egli non fece ;
si riferisce al favellare, che fu il suo primo e perchè chi vuole scrivere lombardo, non iscrive
proprio significato, barbaro si dice di tutti co a quel modo. A me pare che egli mettesse ogni
loro i quali non favellano in alcuna delle lin diligenza, ponesse ogni studio e usasse ogni
gue nobili, o se pure favellano in alcuna d'es industria di scrivere il suo Cortegiano, opera
se, non favellano correttamente, non osservando veramente ingegnosa e degna di viver sempre,
le regole e gli ammaestramenti de gramatici. più toscanamente che egli poteva e sapeva,
E dovete sapere che i Greci stimavano tanto da alcune poche cose in fuori; non mi par già
sè e la favella loro, che tutte l'altre nazioni che il suo stile sia a gran pezza tanto fioren
e tutte l'altre lingue chiamavano barbare; ma tino, nè da dovere essere tanto imitato, quanto
scrivono alcuni.
poichè i Romani (1) ebbero non solamente su
perato la Grecia coll'armi, ma quasi pareggia C. Or che direte voi di messer Girolamo, o
tola colle lettere, tutti coloro si chiamavano come si chiama e vuole essere chiamato egli,
barbari, i quali o in greco, o in latino non fa Jeronimo Muzio, il cui scrivere, secondochè ho
vellavano, o favellando commettevano dintorno più volte a voi medesimo sentito dire, è molto
alle parole semplici e da sè sole considerate, puro e fiorentino? E pure dice egli stesso che
alcuno errore; onde oggi per le medesime ra la lingua volgare, nella quale egli scrive come
gioni parrebbe che si dovesse dire che tutti | è, così si dee chiamare italiana, non toscana
coloro i quali non favellano o grecamente, o o fiorentina.
latinamente, o toscanamente favellassono bar V. Voi mi volete mettere alle mani e in
baramente, e per conseguente che tutte l'al disgrazia di tutti gli amici miei, anzi farmi
tre lingue, fuori queste tre, fossero barbare: I malvolere a to il mondo. Il Muzio la in
il che io non ho voluto fare, perchè la lingua | tende così per le ragioni che egli allega, e io
ebrea mai per mio giudizio tenuta barbara non l'intendo in un altro modo per le ragioni che
sarà, nè la franzese, parlando massimamente io dirò nel suo luogo.
della parigina, nè la spagnuola, parlando della C. Il terzo dubbio è questo. Voi diceste che
castigliana, nè anco, per quanto sento dire, la quasi tutte le lingue d'Italia sono verso la fio
tedesca e molte altre; e io nella mia divisione rentina diverse diseguali; ora io vorrei sapere
comprendo le lingue barbare sotto quelle che perchè voi diceste quasi tutte e non tutte as
sono non articolate o non nobili. solutamente; ce n'è forse qualcuna che non
C. Piacemi. Il secondo dubbio è , che voi sia tale ?
mettendo in dozzina la lingua viniziana con V. Eccene.
molte altre che sottoposte le sono, la chiamate C. Quale?
verso la fiorentina diversa diseguale, e pure il V. La nizzarda, la quale non è diversa dis
Bembo, il quale voi lodate tanto, e che ha | eguale dalla fiorentina, ma semplicemente altra.
tanti ornamenti alla lingua vostra arrecato, fu C. Perchè?
gentiluomo viniziano. V. Perchè quei da Nizza favellano con una
V. Se il Bembo, del quale io non dissi mai lor lingua particolare, la quale, come dice il
tanto che molto non mi paresse dir meno di Muzio (1), non è nè italiana, nè francesca, nè
quello che la bontà e dottrina sua meritarono, provenzale.
fu da Vinegia, egli non iscrisse mica vinizia | C. Mi pare molto strano che una lingua si
namente, ma in fiorentino, come testimonia egli favelli naturalmente da un popolo d'una città
stesso tante volte; e sebbene messere Sperone d'Italia e non sia italiana.
Speroni e da Padova, e messer Bernardo l'asso |

(1) Il Muzio in una lettera scritta da Nizza al vescovo


(1) I Romani però chiamarono barbari anche li Greci, di | Verziero. Vedi lo stesso nella Varchina al cap. XVI, dove
cendo Catone de medici greci appresso Plinio, lib. XX1X, risponde a questo luogo del Varchi, dicendo che la lingua
cap. 1. Jurarunt inter se harharos necare vmnes medicina, cli. nizzarda non si può dire italiana, comparandola cola comune
A o quoque di titant ba baros. ll italiana.
DIALOGO 35 i

V. Questo è non solamente molto strano, mi scrisse egli medesimo (1), si potrà vedere
ma del tutto impossibile, non si sappiendo la stampato; e in amendue questi autori gli Spa
lingua de' Nizzardi favellare in alcun luogo, gnuoli, i quali hanno lettere e giudizio, che
ne avere avuto l'origine sua altrove che quivi; io per me non intendo tanto oltra nè della
ma egli debbe voler dire che ella non è, come lingua spagnuola, nè della franzese, che io
l'altre d'Italia, le quali, se non si favellano possa giudicarne, notano e riprendono molte
dagli altri ltaliani, pure s' intendono, se non cose così d' intorno alla intelligenza e maestria
del tutto, almeno nella maggior parte. dell'arte, come alla purità e leggiadria delle
C. Come si può chiamare la lingua volgare parole; delle quali io ve ne potrei raccontare
italiana, ed essere una lingua, se nella mede non poche: ma egli non mi giova ne difen
sima Italia si truovano delle lingue, le quali dere alcuno o mostrarlo grande coll'offendere
non si possono scrivere, e per conseguenza sono e diminuire gli altri, nè perdere il tempo in
barbare, e di quelle che non solo non si fa torno a quelle cose le quali tengo che sieno
vellano dagli altri popoli d'Italia, ma ancora e sieno tenute dai più o da migliori manifeste
non s'intendono, e per conseguenza sono sem per sè medesime.
plicemente altre? Questo è quasi come dire, se C. Dalle cose dette si possono, oltra l'altre,
condo il poco giudizio mio, come chi dicesse, cavare, se io non m'inganno, tre conclusio
un uomo esser uomo e non essere uomo, cioè ni. La prima che delle lingue vive o volgari,
razionale e non razionale, ovvero aver la ra cioè, che si favellano naturalmente da alcun
gione e mancar del discorso. popolo, l'italiana o piuttosto la fiorentina,
V. Voi cominciate a entrare per la via; ma avanza e trapassa tutte l'altre.
di tutto si favellerà al luogo suo. V. Non pure si può dire ma si dee, e anco
C. Al nome di Dio sia. Il quarto e ultimo aggiugnervi di lunga pezza.
dubbio è questo. Voi tra le lingue moderne C. Guardate che l'affezione non vi faccia
lodate più di ciascuna altra l'italiana, met mettere troppa mazza; perchè quelli che Fio
tendola innanzi a tutte, e messer Lodovico rentini non sono, non direbbono per avven
Castelvetro scrive nella sua divisione delle lingue tura così.
queste parole stesse (1): La lingua spagnola e V. Eglino il doverrebbono dire; anzi lo di
francesca sono pari d'autorita all'italiana; e rebbero, se volessono dire il vero; anzi l'han
ne soggiugne la ragione seguitando così: avendo no detto. Udite per vostra fe, quello che pre
esse i suoi scrittori famosi non meno che s'ab ponendola alla sua natia Viniziana, ne scrisse
bia la italiana i suoi. il Bembo: Sicuramente dir si può, messer Er
V. Ecco l'altra da farmi tenere un... presso cole, la fiorentina lingua essere non solamente
che io non dissi, e odiare eternalmente infino della mia che senza contesa la si mette innan
dagli oltramontani; ma poichè io sono entrato, zi, ma ancora di tutte l'altre volgari che a no
in danza, bisogna, come dice il proverbio, che stro conoscimento pervengono, di gran lunga
io balli. Io non so, se messer Lodovico cercò primiera (2).
con sì poche parole di guadagnarsi e farsi ami C. Bella e piena loda è questa, messer Be
che due province così grandi e così onorate, nedetto, del parlare fiorentino, e come io sti
o se pure egli crede quello che dice, come mo ancora vera, poich'ella da istrano e giu
per pigliare ogni cosa nella parte migliore, vo dizioso uomo gli viene data. La seconda con
glio credere che egli creda, amando io meglio clusione è che tutti coloro i quali vogliono
d'esser tenuto troppo credulo, che troppo comporre lodevolmente, e acquistarsi fama e
schizzinoso. So bene che io infino a tanto che grido nella lingua volgare, deono, di qualun
egli non nomina quali sieno quegli scrittori o que patria si siano, ancorachè Italiani o To
franceschi o spagnuoli, i quali possano stare scani, scrivere fiorentinamente.
a petto, e andare a paragone di Dante, del V. E questo ancora testimonia il Bembo,
Boccaccio, del Petrarca e di tanti altri italia dicendo in confermazione della sopraddetta
ni, non gliele crederò. sentenza: Il che si può vedere ancora per que
C. E manco io, perchè non credo che si sto che non solamente i Viniziani componitori
trovi scrittore niuno ne spagnuolo, ne fran di rime colla fiorentina lingua scrivono, se letti
zese, il quale sia tanto letto e nominato nel vogliono essere dalle genti, ma tutti gli altri
l'Italia, per tacere degli altri luoghi, quanto Italiani ancora (3).
e Dante, il Boccaccio, e'l Petrarca, o volete C. Io per me non so come si potesse dirlo
nelle Spagne o volete nella Francia. più specificatamente. La terza e ultima con
V. Il più bello e più lodato scrittore che clusione che segue dalla seconda, è che tutti
abbia la lingua castigliana (chè dell'altre non gli altri parlari d'Italia, qualunque sieno, sono
si tiene conto) è in versi Giovanni di Mena, verso il fiorentino forestieri.
perchè non favello de' moderni, e in prosa V. E anco questo conferma il medesimo
quegli che intitolò il suo libro Amadis di Gaula, Bembo nel medesimo luogo, cioè non lungi
il quale è stato da messer Bernardo Tasso in alla fine del primo libro delle sue Prose, con
ottava rima tradotto, e in breve, secondochè queste parole: Perchè voi potete tener contento,
(1) Il Castelvetro a cart. 6 del libro intitolato: Ragione (1) Bernardo Tasso nelle Lettere Tom. 2, c. 254 e 383.
d'alcune cose segnate nella Canzone d'Annibal Caro, ec. In (...) Nel libro I delle Prose verso il fine.
Parma 137.3, in 8. -

( ) Nel libro I delle Prose verso la fine.


352 L' ERCOLANO
Giuliano, al quale ha fatto il cielo natio e miamo noi lingua solo che per cagion di Plate
proprio quel parlare che gli altri Italiani uo to, di Terenzio, di Virgilio, di Varrone, di Ci
mini seguono, ed è loro strano. cerone e degli altri che scrivendo hanno fatto
C. E mi piace che voi non la corriate, poi che ella è lingua, come si vede.
chè i forastieri stessi confessano liberamente V. Cotesta sentenza assolutamente non è
tutto quello, anzi molto più che voi non ne vera; perciocchè una favella la quale non ab
dite ; cosa che io non avrei creduta : e certo bia scrittori, si può, anzi si dee, solo che sia
se i Fiorentini avessono e grossissimamente in uso, chiamar lingua, ma non già lingua no
salariato il Bembo, già non arebbe cgli in fa bile, e perciò è da credere che egli v'aggiu
vore della vostra lingua nè più, ne più chia gnesse quella particella veramente, chiamando
ramente dire potuto. veramente lingua quella che noi chiamiamo
V. La verità presso i giudiziosi uomini, e lingua nobile, il che pare che dimostri ancora
che non sieno dal fumo accecati delle passio la materia della quale ragiona; conciossiaco
ni, produce di questi effetti. sachè volendo riprovare la falsa e ridicola opi
C. Se io onorava prima il Bembo, ora l'ado nione del Calmeta, il quale preponeva la lin
ro: ma passiamo a un altro quesito, che in gna cortigiana a tutte l'altre lingue, dice che
questo non ho più da dubitare. ella non solamente non ha qualità da preporsi
ad alcuna, ma che non sa, se dire si può che
QUESITO QUARTO ella sia veramente lingua, allegando questa ra
gione, perchè ella non ha scrittori. E chi non
Se le lingue fanno gli scrittori sa che la favella Biscaina, o altre più strane,
o gli scrittori le lingue. sc più strane trovare se ne possono, sebbene
non sono nobili, anzi inarticolate e barbaris
V. Io vi dissi poco fa, che le lingue come sime, si chiamano nondimeno lingue ? E a pro
lingue non hanno bisogno di chi le scriva, vare che la lingua cortigiana non è lingua, ba
perchè tutte le cose si debbono considerare e sta dire che ella non è, e mai non fu natu
giudicare dal fine. Il fine di chi favella è aprir ralmente favellata da niun popolo.
l'animo suo a colui che l'ascolta, e questo C. Così pare a me; ma chi ha maggiore ob
non ha bisogno nè dall'una parte, nè dall'al bligo l'uno all'altro, lo scrittore alla lingua o
tra, di scrittura, la quale è artifiziale, e fu la lingua allo scrittore?
trovata per le cagioni che io allora vi raccon V. A chi e più tenuta una statua, allo scul
tai, non altramente che furono trovate le ve tore che la fece, o al marmo del quale fu
stimenta all'uomo, perchè l'uomo come uo fatta ? -

mo non ha bisogno di vestirsi, ma il fa o per C. Io v'ho inteso; ma quali tenete voi degli
utilità o per ornamento; onde non le lingue scrittori che arrechino maggior nobiltà alle
semplicemente, ma le lingue nobili hanno bi lingue, quelli di verso o quelli di prosa ?
sogno di scrittori. V. Quelli di verso.
C. Io intendeva bene di cotcste. C. Per qual cagione?
V. Bisognava dirlo, affinchè l'intendessi an V. Perche, oltrechè furon prima i poeti,
ch'io. Le lingue nobili non è dubbio che hanno che gli oratori, il modo di scrivere in versi e
non mica l'essere, ma l'essere nobili o altra il più bello, il più artifizioso e il più dilette
mente che chiamare le vi vogliate, dagli scrit vole di tutti gli altri.
tori, perchè tanto è più chiara e più famosa C. Perchè ?
una lingua, quanto ella ha più chiari e più V. Lungo sarebbe e fuori della materia no
famosi scrittori; e così gli scrittori sono quelli stra entrare ora in questo ragionamento e di
che fanno non le lingue semplicemente, ma le chiararvi cotal cagione; bastivi sapere che tutti
lingue nobili. Ma dall'altro lato, considerando gli altri scrittori si maneggiano intorno a una
che se una lingua non fosse tale che gli scrit maniera, e parte sola dell'eloquenza: dove i
tori si potessono servire e onorare di lei, eglino poeti, come n'afferma Aristotile, si maneggiano
se non fossero stolti, non vi scriverebbono den semplicemente d'intorno a tutte; e anco vi
tro, si può dire in un certo modo che le lin doverreste ricordare che i poeti sono non so
gue facciano gli scrittori; certo è che gli scrit lamente da Aristotile (1), ma eziandio da Pla
tori non possono cssere senza le lingue, dove tone (2), che gli cacciò della sua repubblica (3),
le lingue possono essere senza gli scrittori, ma per le cagioni dette da noi nelle Lezioni nostre
non già nobili. della Poetica, chiamati divini e la poesia cosa
C. Il Bembo (1), pare a me che dica altra divina. Nè crediate che fosse trovato a caso
mente. Considerate, vi prego, queste che sono
sue parole formali: Perciocchè non si può dire (1) Il Castelvetro a c. 9o, dice che Aristotile non afferma
che sia veramente lingua alcuna favella, che non ciò, e nello stesso luogo dice che Aristotile dà il titolo di di
ha scrittore. Gia non si disse, alcuna delle cin cino ad Omero, ma non per essere semplicemente poeta. E ve

que greche lingue essere lingue per altro, se non ramente glielo dà per avere osservata nel suo poema l'unità
perchè si trovavano in quella maniera di lin della favola. Vedi Aristotile nella Poetica, cap. XX11.
gue molti scrittori: Nè la latina lingua chia (2) Platone, nell'Alcibiade 11, dà il titolo di diritti sinº
a Omero. Vedi anche nell' lone, dove vuole che i poeti siano
inspirati divinamente.
sº) ºmbº, Prove lib. 1, a cart. 95 della edizione di Na. (3) Platone, nel Dial. VIII della Repubb., caccia della
poli 17 i 1. -

sua repubblica Oncro con molte buone parole.


DIALOGO 35,3

e per nonnulla, che solo i poeti delle frondi questo Costantino ebbe principio l'imperio
dell'alloro o del mirto o dell'edera, e nessuno Orientale, e poco meno che fine l'Occiden
degli altri scrittori, coronare si dovessero. tale cioè quello di Roma. Da Costantino a
C. E si trovano pur molti che gli biasimano Carlo Magno anni quattrocento sessantasette,
e scherniscono. dal quale Carlo Magno ricominciò, e risurse
V. E'si trovano ancora molti che bestemmia l'imperio Occidentale, il quale era stato scher
no e dicono male de Santi, non v'ho io detto no e preda de' Goti e d'altre nazioni bar
che tutte le cose hanno ad avere il loro ro bare, e si trasferi ne'Franzesi l'anno ottocento
vescio? Se gli uomini che sono veramente uo uno. Da Carlo Magno infino a Carlo, per so
mini, gli lodano tanto e gli hanno in così grande prannome Grosso, anni settantasette. Da que
venerazione, i contrari debbono ben fare il sto Carlo Grosso, che fu figliuolo di Lodovico,
contrario. Ma il nostro proponimento non è re de Germani, cominciò l'imperio ne' Tede
nè di lodare la poesia, la quale non ha biso schi, dove è durato meglio di secento ottanta
gno dell'altrui lode; nè di difendere i poeti, anni e ancora dura. Dico oltra ciò che chi vo
i quali ciò non curano ; però proponetemi lesse considerare la vita cioè la durazione ,
nuovo quesito. della lingua romana ovvero latina, secondo le
quattro età dell'uomo, puerizia, adolescenza,
QUEsito QUINTO virilità e vecchiezza, potrebbe dire la sua pue
rizia ovvero fanciullezza essere stata da che
C. Quando, dove, come, da chi, e perchè ebbe ella nacque infino a Livio Andronico (1). il
origine la lingua volgare. quale fu il primo scrittore che ella avesse ,
che furono dall'edificazione di Roma anni cin
V. A volere che voi bene e agevolmente quecento quattordici, nel qual tempo fu pos
tutti i capi di questa vostra dimanda insieme sibile che si trovassero alcuni uomini, se non
mente intendere possiate, è necessario che io eloquenti, dotti; ma perchè di loro non si
mi faccia da lontano, e vi racconti alcune cose trovarono scritture, se non pochissime e di
le quali vi parranno per avventura o sover nessuno momento, il poterono gli antichi piut
chie o fuori di proposito; ma elleno alla fine tosto credere che affermare. Vedete quanto
non saranno nè l'uno nè l'altro. Dico dun penò la lingua latina innanzi non dico che
que che dall'edificazione della città di lioma, e la fosse nobile, ma avesse scrittori, e pure
la quale fu, secondochè per gli scrittori (1) fu e si chiamava lingua. Da Livio Andronico
de tempi si può agevolmente conoscere l'anno infino a tempi che nacque, per mostrare (2)
della creazione del mondo trenila dugento. quanti la lingua latina avesse e frutti, e fiori,
nove, e innanzichè Cristo Salvator nostro na Marco Tullio Cicerone, che non arrivarono a
scesse, settecento cinquantadue, infino a que cento quindici anni, fu l'adolescenza ovvero
sto presente tempo, che corre l'anno mille gioventudine sua, nella quale ebbe molti scrit
cinquecento sessanta, sono passati anni duemila tori, ma duri e rozzi, e che più dovevano alla
trecento undici in questo modo: sotto i sette natura che all' arte, come furono Catone ed
le dugento quarantaquattro: sotto i Consoli Ennio, i quali però si andavano digrossando
infino al primo consolato (a) di Giulio Cesare e ripulendo di mano in mano, e quanto più
anni quattrocento sessantaquattro; dal quale s'accostarono a quella veramente felicissima
Giulio Cesare cominciò, fornita quella de'Greci, età, tanto furono migliori ; come si può an
la monarchia de' Romani l'anno del mondo cora oggi vedere in Plauto, le Commedie del
tremila novecentoquattordici. Da Giulio Ce quale, fuori solamente alcune parole e modi
sare al nascimento di Cristo anni quarantasei. di favellare che erano nella bocca degli uo
Dal nascimento di Cristo, d' onde s'incomin mini di quella età, sono latinissime e tanto
ciano gli anni della nostra Salute, a Filippo proprie che le muse, se fosse stato loro ne
imperadore trentesimo, il quale fu il primo (3) cessario, o venuto a uopo (3) il favellare, areb
che prese il battesimo, anni dugento quaran bono plautinamente, come dicevano gli anti
tasei. Da Filippo a Costantino, il quale nel chi, favellato. E per certo poche sono in Te
l'anno trecento trentaquattro, lasciata Roma, renzio quelle parole, o maniere leggiadre di
andò ad abitare a Bisanzio, e dal suo nome favellare, le quali in Plauto non si ritrovino.
Puossi ancora vedere in Tito Lucrezio Caro,
la chiamò Costantinopoli, anni ottantaotto. Da
non meno puro e pulito, che dotto e grave
(1) Secondo i computi più giusti de'moderni cronologi,
poeta. E nel secolo che Cicerone visse, s'in
Roma fu fondata nell'anno del Mondo 3251 e 753 avanti nalzò tanto mercè della fertilità di quell'in
Cristo. gegno divino l'eloquenza romana, che per
(2) Il primo Consolato di Giulio Cesare cadde nell'anno poco, se non vinse, come alcuni credono, Pa
3945 del Mondo , cioè 45o anni dopo la cacciata de' Re.
Cosi alcuni altri computi del Varchi sono errati, che qui per (1) Cic. nel lib. I delle Quist. Tuscul. in princ.
brevità non si correggono; ma si possono vedere i veri tempi (2 Petr. Trionf. della Fama, cap. Il 1.
"gli Annali dell'Usserio, che è il più esatto e il più seguitato (3) Quintil. Insti. Orat. lib. X, cap. I, riferisce ciò per
in questa materia; e il Varchi è compatibile, che segni Mat detto di Varrone. Questo luogo del Varchi è criticato dal Ca
º Palmieri, non essendo al suo tempo cotanto dilucidata la stelvetro a c. 93, il quale vorrebbe che egli avesse detto non
ºronologia, come poi è stata schiarita principalmente dallo il favellare, ma il favellare latinamente, il che per altro vi
ºgero, dal Petavio e dall' Userio suddetto. s'intende per discrezione, quando altri non voglia troppo sot
() Vedi Euseb nell'Istor. lib. VI, c. XXVI, ec. tilmente solislicare.
VAltuhl v. l. 45
354 L' ERCOLANO
reggiò la facondia greca: e per certo quello i tello, occupò solo il regno. Costui, al quale
senza dubbio nessuno fu il secolo delle lettere erano sottoposti il re de'Gepidi e il re degli
e degli uomini letterati, essendo la lingua la Ostrogoti, fatta una innumerabile e poderosis
tina, come nella sua maturità, al colmo di sima oste, s'affrontò nella Francia ne campi
quella finezza e candidezza pervenuta che si chiamati Catelauni coll' esercito romano, al
possa se non disiderare, certo sperare mag quale erano confederati, e congiunti i Goti
giore; come si può ancora vedere de' Com e altri popoli di diverse nazioni, e fu rotto
mentari di Caio Cesare, e in quelle poche con tanta occisione, che alcuni scrivono che
Storie di Crispo Salustio che rimase ci sono; per in quel conflitto furono tagliati a pezzi cento
tacere di Catullo, di Tibullo e di tanti altri ottantamila corpi, e alcuni dugento sessanta
infino al tempo di Virgilio, il quale uno com mila; certo è, che non fu mai più orribile e
battè (1) con Teocrito, superò Esiodo, e gio più sanguinosa giornata da grandissimo tempo
strò di pari con Omero. Morto indegnamente innanzi. Perchè tornatosene in Ungheria, e
insieme colla libertà della liepubblica Romana fatto un nuovo esercito calò in Italia l' anno
Cicerone, cominciò la lingua latina, o per es quattrocento cinquanta, e prese dopo tre anni
sere già vecchia, o piuttosto per la proscrizio Aquilegia. Prese, e disfece ancora Vicenza, Ve
ne e morte di tanti nobilissimi cittadini, a rona, Milano e Pavia e molte altre città: e il
mutarsi, non a poco a poco cadendo, come medesimo arebbe fatto di Roma, se non che
avea ella fatto nel salire. ma quasi precipi persuaso dalle preghiere di Papa Leone, se ne
tando a un tratto, perche in minore spazio tornò in Ungheria ; donde volendo ritornare
che non sono centocinquanta anni si cangiò in Italia, si morì una notte senza esser ve
tanto da se medesima che ella nè pareva, nè duto, affogato dal sangue che in abbondantis
era più quella dessa: il che, come conobbero, sima copia gli usciva del naso. Il quarto fu
cosi testificarono prima Seneca (2), maestro di Genserico, re de' Vandali, il quale chiamato
Nerone, e poi Cornelio Tacito (3) con alcuni da Eudosia, moglie già di Valentiniano impe
altri: i quali nondimeno, qualunque cagione radore, si parti dell'Africa e venne in Italia,
a ciò fare gli movesse, vollero scrivere piut dove presa e saccheggiata Roma si ritornò vit
tosto nella corrotta lingua del secolo loro, che torioso, e carico di preda tra Mori. Il quinto
ingegnarsi d'imitare e ritornare alla sua de fu Odoacre, re de' Turcilingi e degli Eruli, il
gnità primiera l'incorrotta del secolo di Ci quale l'anno quattrocento settanta uno si fece
cerone. E così andarono gli scrittori sempre re d'Italia, e la signoreggiò quattordici anni.
di male in peggio, infinochè i diluvi delle na Il sesto fu Teodorico, re degli Ostrogoti, il
zioni oltramontane vennero a inondare l' Ita quale, mandato in Italia da Zenone impera
lia e spegnere insieme coll' uso della lingua dore, perchè dal re Odoacre la liberasse, rotto
la potenza dell'imperio di Roma. prima valorosamente presso ad Aquilegia, e
E qui bisogna sapere che il primo de' Bar poi ucciso fraudolentemente Odoacre, che l'a-
bari che passasse in Italia dopo la declina veva ricevuto per compagno del regno in Ra
zione dell' imperio, fu Radagasso, re de'Gepidi, venna, se ne fece signore l'anno quattrocento
il quale condusse con esso seco dugentomila Go ottantacinque. Il settimo fu Totila, il quale
ti; dico Goti, perchè così si chiamano comune creato da Goti, che erano sparsi per l'Italia,
mente, ancora che fussino di diverse nazioni, loro re contra Belisario, capitano di Giusti
e i Goti medesimi divisi in tre parti, in Ostro miano imperadore l'anno cinquecento quaran
goti, in Visigoti e in Ippogoti, cioè Goti orien tatre, assediò l'anno cinquecento quaranta
tali, occidentali e vagabondi. Costui dopo l'a- quattro la città di Firenze, la quale soccorsa
ver fatto molti danni, fu da Stilicone Van dalle genti imperiali che si trovavano in Ra
dalo, capitano d'Onorio, con tutta quella gente venna, fu liberata. Totila l'anno cinquecento
sconfitto, preso, e morto ne'monti di Fiesole, quarantacinque prese Napoli, e l'anno cinque
che voi vedete colà, l'anno della Salute Cri cento quarantaotto Roma, la quale egli non
stiana quattrocento otto. Il secondo fu Alari solamente saccheggiò, ma disfece in gran par
co, re de Visigoti, il quale aveva fedelmente te, dimaniera che rimase disabitata; e il me
servito l'imperadore; ma tradito da Stilicone desimo fece di molte altre città, tralle quali,
il giorno della Pasqua, lo ruppe il di seguente, secondo Giovanni Villani (1), benché molti
e andatosene per lo sdegno di cotale tradi credono altramente, fu la città di Firenze, poi
mento a Roma, la prese e saccheggiò nell'an Arezzo, Perugia, Pisa, Lucca, Volterra, Luni,
no quattrocento tredici, che fu appunto il Pontriemoli, Parma, Reggio, Bologna, Imola
millesimo centesimo sessagesimo quinto della Faenza, Forli, Forlimpopoli, Cesena e molte
sua edificazione. Il terzo fu Attila, re degli altre, onde egli fu e volle esser chiamato To
Unni, il quale, ucciso Bleba o Bleda suo fra tila, flagello di Dio; benchè Giovan Villa
ni (2), e alcuni altri attribuiscono queste ro
(1) Virgilio nella Bucolica combattè con Teocrito, ma restò
vinto. (1) Gio. Villani, lib. II, cap. I. Vedi i Discorsi di Vin
(2) Seneca nel proemio delle Controversie, lib. I. cenzio Borghini nel Discorso: Se Firenze fu disfatta, t. 2 ,
(3) Cornelio Tacito, o chiunque fosse l'autore del Dialogo c. 251, e il Giambullari nel Gello a c. 17o dell'edizione
della Perduta Eloquenza : Erprime nobis non laudationem an del 1549, in Firenze per Lorenzo Torrentino, che confutano
tiquorum, etc. sed causas cur in tantum ab eloquentia eo un | questa falsa opinione del Villani.
rerrsserimus. guum praesertina rentum et viginti annos ab inte (2) La buona stampa, e i buoni testi a penna del Villani
tu. Ci sono in hune diem eſſici natio temporum collegerit. hanno l'one. V cui i cuizione un rucuse del 1987.
DIALOGO 35,

vine ad Attila; ma le storie dimostrano chia che risponde a cotesta stessa dimanda nel pri
ramente, ciò non potere essere stato vero, se mo libro delle sue prose il Bembo medesimo:
non di Totila, il quale, avendo Belisario, uo Il quando, rispose messer Federigo, sapere
mo d'incredibile valore, prudenza e bontà, appunto che io mi creda, non si può, se non si
racquistato Roma e fortificatola con incredi dice che ella cominciamento pigliasse infino da
bile diligenzia l'anno cinquecento quarantanove quel tempo nel quale cominciarono i Barbari ad
tostoché egli fu partito d'Italia, v'andò a entrare nell'Italia e ad occuparla, e secondochè
campo e l'ebbe l'anno cinquecento cinquanta essi vi dimorarono e tenner piè, così ella crescesse
due e contra quello che aveva fatto prima, e venisse in istato. Del come, non si può errare
s'ingegnò di rassettarla e di farla abitare. Ma a dire che essendo la romana lingua e quella
Narsete Eunuco, uomo di gran valore, man de' Barbari tra sè lontanissime, essi a poco a
dato da Giustiniano in luogo di Belisario, lo poco or une, or l' altre voci, e queste tronca
sconfisse e uccise, e dopo lui vinse Teja suo mente e imperfettamente pigliando, e noi appren
successore, nel quale forni il regno degli Ostro dendo similmente delle loro, se ne formasse in
goti in Italia l'anno cinquecento cinquanta processo di tempo e nascessene una nuova, la
cinque, la quale eglino aveano posseduta set quale alcuno odore e dell'una e dell'altra ri
tanta anni alla fila. L' ottavo fu Alboino, re i tenesse, che questa volgare è che ora usiamo, la
de Longobardi, il quale avendo vinto i Ge quale se più somiglianza ha colla romana che
pidi fu invitato e sollecitato al dover venire colle barbare avere non si vede, è, perciocchè la
in Italia da Narsete; dove si condusse con forza del natio cielo sempre è molta, e in ogni
grandissimo numero di Longobardi e venti terra meglio mettono le piante che naturalmente
mila Sassoni e altri popoli insieme colle mo vi nascono, che quelle che vi sono di lontan
gli e figliuoli loro, l'anno cinquecento settan paese portate. Senzachè i Barbari che a noi pas
tadue e questi la possederono successivamente, sati sono, non sono stati sempre di nazione quelli
se non tutta, la maggior parte sotto diversi medesimi, anzi diversi, e ora questi Barbara la
re e trenta duchi dugentoquattro anni, cioè lor lingua ci hanno recata, ora quegli altri, in
infino al settecento settantasei, quando dopo maniera che ad alcuna delle loro grandemente
Pipino suo padre venne in Italia, alle preghie rassomigliarsi la nuova nata lingua non ha po
re di Papa Adriano, Carlo Magno, il quale tuto. Conciossiache e Francesi e Borgognoni e
gli sconfisse, e ne menò Desiderio, loro ultimo Tedeschi e Vandali e Alani e Ungheri e Mori
re, insieme colla moglie e co' figliuoli prigio e Turchi e altri popoli venuti vi sono e molti
ne in Francia. Nè voglio che voi crediate che di questi più volte, e Goti altresì, i quali una
in quelli trecento sessanta otto anni che cor volta trall altre settant'anni continui vi dimo
sero dal quattrocentotto che fu morto Rada rarono. Successer a Goti i Longobardi, e questi
gasso, al settecento settantasei che fu preso e primieramente da Narsete sollecitati, siccome po
menato in Francia Desiderio, scendessero nel tete nell'istorie aver letto ciascuno di voi, e fatta
l'Italia, e la corressero solamente quei tanti una grande e maravigliosa oste, colle mogli e
e si diversi popoli ch'io ho come principali co' figliuoli e colle loro più care cose vi passa
raccontato, perchè vi dicessero ancora i Fran rono e occuparonla, e fiuronne per più di du
chi, i quali furono quelli che diedero il nome gento anni posseditori. Presi adunque e costumi
alla Francia e altre barbare nazioni; come si e leggi quando da questi Barbari e quando da
può vedere da chi vuole, nel libro de tempi quegli altri, e più da quelle nazioni che posse
che lasciò scritto Matteo Palmieri, il quale duta l' hanno più lungamente, la nostra bella e
n'è paruto di dover seguitare. Fra tante mi misera Italia cangiò insieme colla reale maesta
serie e calamità, quante dalle cose dette po dell'aspetto eziandio la gravita delle parole, e a
tete immaginare voi piuttosto che raccontare favellare cominciò con servile voce, la quale di
io, di tanti mali, danni e stermini, quanti sof stagione in stagione a nipoti di que primi pas
ferse sì lungamente in quelli infelicissimi tempi sando, ancor dura, tanto più vaga e gentile ora,
la povera Italia, ne nacquero due beni, la lin che nel primiero incominciamento suo non fu,
gua Volgare e la città di Vinegia, repubblica quanto ella di servaggio liberandosi ha potuto
veramente di perpetua vita e d' eterne lodi intendere a ragionare donnescamente,
degnissima. C. Del quando e del come, poichè di loro
C. Cari mi sono stati senza fallo nessuno, maggiore contezza avere non si può, resto io,
e giocondi molto cotesti tre discorsi vostri: come debbo, alle parole d'un si grande uomo
ma voi non mi avete dichiarato nè quando, soddisfattissimo. Ma ditemi, vi prego, più parti
ne come particolarmente, cioè in che tempo colarmente alcuna cosa del dove, cioè in qual
e in qual modo appunto, spenta o corrotta la parte appunto, spenta o corrotta la latina, na
lingua latina, si generasse e nascesse la vol scesse la volgare lingua.
gare. V. Dovunque pervennero e allagarono cotali
V. Io il vi dichiarerò ora, e se potessi in inondazioni; perciocchè non solamente in tutta
tutte l'altre vostre dimande così bene soddis l'Italia, ma eziandio in tutta la Francia, chia
farvi, come io posso in questa, a me per certo mata prima Gallia, e poco meno che in tutte le
si scemerebbe, anzi leverebbe del tutto, una Spagne si mutarono per lo discorrimento di
gran fatica, e un gran pericolo che mi sopra tanti Barbari lingue e costumi.
stanno, e voi vi potreste chiamare compinta C. Così credeva ancora io; ma per lasciare
neute Dago e contento. Udite dunque quello dall'uno de lati così le Spagne come la Fran
356 L'ERCOLANO
cia, se la lingua la quale era prima latina, di sta lingua penetrasse; nella quale Toscana. ri
ventò volgare in tutte e in ciascuna delle trovandosi ella fra i Romani, che più del la
parti d'Italia, perchè volete voi che ella pi tino ritennero che gli altri uomini italiani e
gliando il nome piuttosto da Firenze (1), che i Lombardi, che più del barbaro participaro
forse in quel tempo non era, che da qual s'è no, venne fatto fra questi due estremi una
l'una dell'altre città d'Italia, si chiami fio mescolanza più che altrove bella e leggiadra.
rentina piuttosto che toscana o italiana ? Confessa bene che la toscana le ha dato alcun
V. O io non ho saputo dire, o voi non mi ornamento, e forse molti, ma non già tutti;
avete inteso. Tutte le lingue le quali natural ma che questo non basta a doverla far chia
mente si favellano, in qualunque luogo si fa marle altramente che italiana; anzi si mara
vellino, sono volgari, e la greca e la latina al viglia de' Toscani, e pare che gli riprenda, i
tresì, mentrechè si favellarono, furono volga quali non contenti che ella degni d'essere loro
ri; ma come sono diversi i vulgi che favella cittadina, vogliono senza ragione involarla a
no, così sono diverse le lingue che sono favel coloro di chi ella è propria, e usurparlasi per
late, perciocchè altro è il volgare fiorentino, naturale. E perchè non paja ch'io trovi e can
altro il lucchese, altro il pisano, altro il sane ti, le sue parole proprie nella lettera (1) al
se, altro l'aretino e altro quello di Perugia. signor Rinato Trivulzio favellando de' Tosca
C. Dunque quanti saranno i volgari, tante mi sono queste: Ma siccome fra loro si può
saranno le lingue? dire che ella ha avuto l' ornamento, così ardisco
V. Già ve l'ho io detto. io d'affermare che ella fra loro non ebbe il na
C. Dunque quante città sono in Italia, tante scimento: di che non so con qual ragione vo
sono le lingue ? gliano involarla a coloro tra quali ell è nata,
V. Cotesto no. e da'quali ella è a loro passata: e può ben loro
C. Per qual cagione? bastare assai, che ella degni d'essere loro citta
V. Perchè anco molte castella hanno i vol dina, senza volerlasi usurpare ancor per na
gari diversi, e per conseguenza le lingue, turale.
C. Io credo che voi vorrete dire a mano a V. Queste sono parole molto grandi e da
mano, che il parlare di Montevarchi o di San niuno altro dette; delle quali nondimeno può
Giovanni o di Figghine o forse ancora quello ciascuno credere quello che più gli pare.
di Prato, il quale è più vicino a Firenze, sieno C. Voi che ne credete? e che vi pare che
diversi dal Fiorentino; perchè di quello del credere se ne debbia ?
l'Ancisa, onde discese il Petrarca, non mi pare V. Dove sono le storie di mezzo, non oc
che si possa o si debba dubitare. corre disputare, e più di sotto nel luogo suo
V. Mettetevi pure anche cotesto, perchè si confuteranno assai, per quanto stimo, age
tutti quanti in alcune cose sono diversi dal volmente tutte le ragioni da lui in quella let
fiorentino, avendo o varie pronunzie o varie tera allegate.
parole o vari modi di favellare, che siccome C. Confutate intanto questa, e ribattetela,
sono loro proprie, così sono diverse da quelle la quale e dirittamente contraria all'opinione
de' Fiorentini, i quali sebbene l' intendono, vostra; che se egli disse così de' Toscani, pen
non però le favellano; e consegnentemente co sate quello arebbe detto, o sia per dire dei
tali parole o pronunzie sono diverse dalle lo Fiorentini !
ro ben'è vero che la diversità e la differenza V. Io ho il Muzio per uomo non solamente
non è ne tanta, nè tale che non si possano, dotto ed eloquente, ma leale (che appresso
chi sottilissimamente guardare non la vuole, me molto maggiormente importa) e credo che
sotto la lingua fiorentina comprendere, perchè egli dicesse tutto quello che egli credeva sin
altramente bisognerebbe non dividere le lin ceramente; ancorachè quando stette una volta
gue, ma minuzzarle, non farne parti, ma pez trall'altre in Firenze, dove io con mio gran
zi, e brevemente non distinguerle, ma strito piacere conversai molto seco, in casa la signora
larle e farne minuzzoli. Tullia Aragona, furono da certi dette cose di
C. L'opinione di messer Jeronimo Muzio è lui d'intorno a suoi componimenti per lo non
in questa parte del dove molto dalla vostra potere egli per l'essere forestiero scrivere be
diversa. -

ne, e lodatamente nell'idioma fiorentino, le


V. Me ne fa male : ma qual'è la sua opi quali non senza cagione e ragione lo mossero
nione?
a sdegno; onde egli contra quei tali, paren
C. Che il nascimento della lingua volgare, dogli che fossero, come per avventura erano,
la qual' egli vuole a tutti i patti, che si chia mossi da invidia, compose e mandò alla signora
mi italiana, non fosse in Toscana, ma in Tullia, donna di grandissimo spirito e bellis
Lombardia, nella quale i Longobardi ten simo giudizio, questo sonetto che voi udirete:
nero principalmente lo scettro più di due
cento anni; e quindi di luogo in luogo sten Donna, l'onor de cui bei raggi ardenti
dendosi s'ampliasse per tutta l' Italia, e che M'infiamma 'l core, ed a parlar m'invita,
la Toscana fosse degli ultimi paesi dove que Perchè mia penna altrui sia mal gradita,
L'alto vostro sperar non si sgomenti:
(1) Segue pure ad accennare l'opinione di Giovanni Villani (1) A carte 11 della Lettera del Muzio contrº il Cesano
lib. - 1, cap. l e d'altri, che si fecero a credere che Totila di Claudio l'olomei impressa a carte 7 delle sue Battaglie
distruggesse Firenze; il che e talso, stampate in Vinegia nel 1582, in 8.
DIALOGO 357
Rabbiosa invidia i velenosi denti C. E come lo provereste?
Adopra in noi mentre il mortale è in vita: V. Il provare toccherebbe a lui; che chi
Ma sentirem sanarsi ogni ferita, afferma, non chi niega, debbe provare.
Come diam luogo alle future genti. C. Ponghiam caso che toccasse a voi, che
Vedransi allor questi intelletti loschi direste?
In tenebre sepolti, e 'l nostro onore V. Direi, lei esser falsa.
Vivrà chiaro ed eterno in ogni parte: C. Perchè?
E si vedrà che non i fiumi Toschi, V. Per due cagioni, la prima delle quali è
Ma 'l ciel, l'arte, lo studio, e 'l santo Amore che egli non si ricerca necessariamente a vo
Dan spirto e vita a i nomi ed alle carte. lere che un popolo muti la sua lingua, che
coloro i quali sono cagione di fargliela muta
La sentenza di questo sonetto pare a me che re, dimorino tra loro più di duecento anni,
sia verissima. nè altro tempo di terminato, ma bastare che
C. E a me; ma e' mi pare ancora che voi vi stieno tanto che si muti; la qual cosa per
fuggiate la tela. diverse cagioni può e più tardi e più per tempo
V. A voi sta bene cotesta traslazione, a me avvenire; la seconda ragione è, che io direi
che non son giostrante, bastava dire: Il ranno non esser vero semplicemente quello che sem
caldo. plicemente afferma il Muzio, e ciò è ch'i Bar
C. Attendete pure a menare il can per l'a- bari stessimo poco tempo in Toscana, o vi fa
ja; ma se non dite altro, io per me crederò cessino poco danno, o non vi si approssimas
che la lingua materna o paterna de'Fiorentini sino; e lo proverei mediante le storie.
sia loro non originale, come credete voi, ma C. Perchè dite voi semplicemente ?
venuta loro di Lombardia, come prova il Muzio. V. Perchè se in Toscana non dimorò lungo
V. Cotesto non voglio io che voi facciate, tempo una nazione sola, come i Longobardi
se prima non udite e le sue ragioni e le mie, in Lombardia, ve ne dimorò nondimeno suc
le quali affinchè meglio intendere possiate e cessivamente ora una, e quando un'altra, o i
più veramente giudicarle, riducendole in al capi e rettori: e anco perchè, essendo i bar
cuna forma di sillogismo, dirò cosi: Le lingue bari o in tutta o nella maggior parte padroni
si debbono chiamare dal nome di quei paesi d'Italia, bisognava che ciascun popolo per po
ovvero luoghi, dove elle nascono; la lingua ter conversare e fare le bisogne sue, s' inge
volgare non nacque in Toscana, ma vi fu por gnasse, anzi si sforzasse di favellare per essere
tata di Lombardia, dunque la lingua volgare intesi nella lingua di coloro da chi bisognava
non si debbe chiamare toscana, ma italiana. che intesi fossero.
Primieramente la conclusione di questo sillo C. Questo non ha dubbio; ma se Firenze
gismo è diversa delle premesse e conseguen in quei tempi era stata disfatta da Totila, co
temente non buona, perchè la conchiusione me di sopra voi accennaste e testimonia Gio
doveva essere solamente: Dunque la lingua van Villani (1), come potette ella corrompere
volgare non si debbe chiamare toscana, ma e mutare la sua lingua?
lombarda. V. L'opinione di molti è, che Firenze
C. È vero; ma che rispondereste voi a co mai disfatta non fosse : e se pure fu disfatta,
testa conseguenza ? non fu disfatta in guisachè ella non s'abitasse:
V. Lo lascierò giudicare a voi. poi quando bene fosse stata distrutta in guisa
C. E a chi dicesse: la lingua volgare non chè abitata non si fosse, i cittadini di lei abi
nacque in Toscana; poi conchiudesse: dunque tavano sparsamente per le ville d'intorno e
la lingua volgare non si debbe chiamare to nelle terre vicine, e bisognando loro procac
scana; che rispondereste voi? ciarsi il vitto o altre cose necessarie, erano
V. Che so io; prima gli dimanderei donde costretti andare ora in questa città , ed ora
ella venne; e rispondesse quello che egli vo in quella eziandio fuori di Toscana, e civan
lesse; perchè tutti confessano la lingua toscana zarsi il meglio che potevano, ricorrendo e ser
essere la più bella e più leggiadra di tutte le vendo a coloro che n'erano padroni e signori.
altre , si verrebbe al medesimo impossibile o E chi sa che al tempo di Totila, il quale di
inconveniente. cono, senza provarlo che ne fu il distruttore,
C. E vero; ma chi dicesse: Ella nacque in Firenze non avesse già, se non in tutto, in
Lombardia, dunque è lombarda, e volesse stare parte mutato la lingua? Perchè seguitando il
su questa perfidia che ella fosse lombarda, ragionamento che voi m'interrompeste, dico,
dove ella nacque, che fareste voi? che sebbene Radagasso non si fermò in To
V. Come quei da Prato, quando piove, scana, come afferma il Muzio, egli vi si fer
C. Che fanno quei da Prato quando piove? marono le sue genti, perchè la moltitudine dei
e che volete voi dire? prigioni fu in sì gran numero, che si vende
V. Vo' dire che ve lo lascierei stare, se di vano a branchi come le pecore per vilissimo
ºsse ciò, come voi dite, non per intendere, prezzo, onde ciascuno che volle (chè molti
ma per contendere. dovettero volere) potette comperarne; e così
C. E a chi dicesse ciò non per contendere, se ne riempie, per non dir l'Italia, tutta To
ma per intendere? scana : oltra ciò ancora che i Longobardi fa
V. Negherei la minore, cioè la lingua tosca
º non essere originale alla toscana. (1) Gio. Vill. lib. lI, cap. l.
358 L' FRCOLANO
cessero la loro residenza in Pavia, eglino però C. Che significa implicare contraddizione?
crearono trenta Duchi (di qui cominciò il no V. Dire cose non solamente tra sè contra
me di duchi) i quali governavano le terre a rie, ma eviandio contraddittorie: dir cose che
loro sottoposte; e Desiderio quando fu fatto non possano stare insieme, anzi tolgano ed uc
re de' Longobardi, era duca di Toscana; e se cidano l'una l'altra: e brevemente, dir si e
vorrete leggere le storie de' Goti, troverete no, no e sì, d'una cosa stessa in un tempo
essere verissimo tutto quello che io v'ho nar medesimo, come fanno coloro che giuocano il
rato e molto più sì di tutta Toscana e si giuoco delle gherminelle (1), ovvero, che l' è
particolarmente di Firenze. dentro e che l' è fuori.
C. Io non dubito di cotesto, ma vorrei sa C. Mostratemi in che modo contraddicano
a sè stessi.
pere perchè la mescolanza che si fece in Fi.
renze di queste lingue, fosse, come afferma il V. E' dicono che la lingua nuova volgare
Muzio (1), più bella e più leggiadra che al è l'antica latina, ma guasta e corrotta, ora voi
trove. avete a sapere che la corruzione d'una cosa
V. Oh voi dimandate delle gran cose; ma è, come ne insegna Aristotile (2), la generazione
io vi risponderò come vi si viene; per la me d'un'altra, e come la generazione non è altro
desima, che le mescolanze dell'altre città fu che un trapassamento dal non essere all'esse
rono men belle e men leggiadre di quella di re, così la corruzione, come suo contrario, al
Firenze. tro non è che uno trapasso, ovvero, passaggio
C. Non guardate a quello si viene a me, ma dall'essere al non essere. Dunque se la latina
a quello che s'aspetta a voi, e ditemi quello si corruppe, ella venne a mancare d'essere, e
che voi volete dire. perchè nessuna corruzione può trovarsi senza
V. Vo' dire, che queste cose non si possono generazione (benchè Scoto pare che senta al
nè sapere a punto, nè dire affermatamente. tramente) la volgare venne ad acquistare l'es
Forse fu quella che racconta nella sua lettera sere; di che segue che la volgare, la quale è
il Muzio; e forse perche i Fiorentini, come viva, non sia una medesima colla latina, la
sottili e ingegnosi uomini che sono e furono qual'è spenta, ma una da sè.
sempre, seppero meglio e più tosto ripulirla, C. Così pare anco a me; ma io vorrei che
che gli altri popoli; e forse correva allora so voi procedeste più grossamente, e alquanto
pra Firenze una costellazione così fatta, per meno da filosofo, affinechè non paresse che voi
chè dal cielo e non d'altronde, ci vengono tutti che fate professione di volere essere lontano
i beni. da tutti i sofismi e da ogni maniera di gavil
C. Mi basta, mi basta; passiamo più oltra. lazione, voleste stare in sul puntiglio delle pa
role, e andar sottilizzando le cose come fanno
i sofisti.
QUESITO SESTO V. Voglia Dio ch'io non sia pure troppo
grosso e troppo grossamente proceda. Ditemi
Se la lingua volgare è una nuova lingua da sè, quello che voi volete inferire, e io, se saprò,
o pure l'antica lingua guasta e corrotta. vi risponderò; chè non cerco, nè voglio altro
che la mera, pretta e pura verità.
V. Coloro che vogliono biasimare questa lin C. lo penso che quando e dicono guasta e
gua moderna, e avvilirla i quali per l'addie corrotta, che non vogliano intendere della cor
tro sono stati molti e oggi non sono pochi, e ruzione propriamente, come avete fatto voi, ma
tra questi alcuni di grande e famoso nome vogliano significare per quella parola corrotta,
nelle lettere greche e nelle latine, dicono, tale non corrotta, ma mutata; e l'esempio addotto
essere la lingua volgare per rispetto alla lati da loro della feccia del vino, pare che lo di
na, quale la feccia al vino, perchè la volgare mostri.
non è altro che la latina guasta e corrotta og V. Voi procedete discretamente, e piacemi
gimai dalla lunghezza del tempo o dalla forza fuor di modo la lealtà vostra; ma secondo me
de' barbari, o dalla nostra viltà. Queste sono ne risulterà il medesimo o somigliantissimo in
le loro parole formali, dalle quali può ciascuno conveniente, perchè una cosa può mutarsi ed
conoscere chiaramente, loro opinione essere essere differente da un'altra cosa o da sè me
che la lingua latina antica e la volgare mo desima, in due modi principalmente; o secondo
derna non sieno, nè sieno state due lingue, ma le sostanze, o secondo gli accidenti. Le muta
una sola, cioè l'antica guasta e corrotta. zioni e differenze sostanziali fanno le cose non
C. E voi che dite ? diverse o alterate, ma altre, perchè mutano la
V. Che elle sono due, cioè che la latina spezie, onde si chiamano differenze specifiche;
antica fu, e la volgare moderna è una lingua e di qui nacque il verbo specificare, e le cose
da sè. che sono differenti tra loro di differenza spe
C. E come risponderete alle loro ragioni? cifica, si chiamano essere differenti proprissi
V. Io non veggo che alleghino ragione nes mamente da filosofi : onde l'uomo per lo es
suna, anzi, se io intendo bene le loro parole, sere egli razionale, cioè avere il discorso e la
e mi pare che implichino contraddizione.
(1) Di questo giuoco fa menzione Franco Sacchetti nella
(1) Il Muzio al cap. XXIX della Varchina nega d'aver Nov. LXIX e il Caro nell'Apologia.
detto mai cio, anzi quivi afferma il contrario. (2) Arist, nel lib. 1 della Genera. cap. VI.
DIALOGO 359
ragione, la quale è la sua propria e vera dif mutazione e differenza sostanziale, che fa le
ferenza, cioè la specifica, è diverso di spezie cose altre e non alterate o diverse, perchè con
da tutti quanti gli altri animali, i quali, per traddirebbero a loro stessi, è necessario che
che mancano della ragione e del discorso, si intendano di differenza e mutazione acciden
chiamano irrazionali. Le mutazioni e differenze tale, la quale fa le cose diverse o alterate e
accidentali, fanno le cose non altre, ma alte non altre, non mutando la spezie, o sia sepa
rate, cioè non diverse nella sostanza, e per rabile cotale accidente, o sia inseparabile; del
conseguente di spezie, ma mutate e variate so che segue che eglino sieno nel medesimo er
lamente negli accidenti; e queste sono di due rore che prima.
maniere; perchè degli accidenti alcuni sono se C. E perchè?
parabili dal loro subbietto, cioè si possono le V. Perchè vogliono che una cosa sia uomo
vare e tor via, e alcuni all'opposto, sono in e non sia razionale.
separabili, cioè non si possono torre e levar C. In che modo?
via dal loro subbietto. Gli accidenti insepara V. Voi l'avreste a conoscere da voi mede
bili sono, come, verbigrazia, l'essere camuso, simo, mediante la diffinizione e divisione delle
cioè avere il naso piatto e schiacciato, essere lingue. Ditemi, la lingua latina intendesi ella
monco o menno, essere cieco da natività o da noi e si favella naturalmente, o pure biso
zoppo di natura; e le cose che sono differenti gna impararla?
tra se, mediante cotali accidenti inseparabili, C. Impararla, e con una gran fatica, pare a
si dicono essere differenti propriamente; onde me, e mettervi dentro di molto tempo e studio,
chi è di naso aquilino, chi ha le mani o il e a pena che egli riesca.
membro naturale, chi vede lume, chi cammina V. Dunque la lingua latina è altra, non di
dirittamente, è ben differente da quei di sopra versa o alterata.
che mancano di queste cose, non già propris C. Messer si.
simamente e di spezie, perchè tutti sono uo V. Dunque non è la medesima.
mini, ma propriamente, cioè negli accidenti, C. Messer no.
come chi ha un frego o alcuna margine che V. Dunque la lingua latina antica non è la
levare non si possa, è differente in questo ac volgare guasta e corrotta, cioè mutata.
cidente da tutti gli altri che non l'hanno. Gli C. Noe (1).
accidenti separabili sono, come esser ritto o V. Dunque la lingua latina e la volgare non
stare a sedere, favellare o tacere; perchè uno sono una, ma due lingue, una mezza viva, per
che cammina, è differente da uno che stia chè si scrive e non si favella, e l'altra viva
fermo, o ancora da sè medesimo; così uno affatto, perchè si scrive e si favella natural
quando cavalca, è differente da sè medesimo, inente.
º da un altro, quando va a piè: ma perchè C. Così sta, nè può, per quanto intendo io,
chi sta cheto, può favellare, e chi favelia, star stare altramente; ma veggiamo un poco: Ei
cheto, si chiamano cotali accidenti separabili, danno un altro esempio, dicendo che la vol
e le cose che tra sè sono per tali accidenti gare è la medesima che la latina, ma essere
diverse e differenti, si chiamano differenti e avvenuto alla latina, come avverrebbe a un
diverse comunemente. fiume bello e chiaro, nel quale si facesse sboc
G Datemene di grazia un poco d' esempio. care uno stagno pieno di fango, o un pantano
V. Il vino (per istare in sull' esempio posto di acqua marcia e puzzolente, il quale intor
da loro) quando piglia la punta o diventa bidandolo, tutto lo guastasse e corrompesse.
Tºllo che i Latini chiamano vappa o lora, e V. Degli esempli se ne potrebbero arrecare
ºi diremmo cercone, si muta ed è differente pur assai, ma come la più debole pruova e il
da se stesso, quando era buono, ma non già più frivolo argomento che si possa fare, è l'e-
ºcondo la sostanza; perchè non solo gli ri sempio, così il confutare gli esempli e il ri
"ºne la sostanza del vino, ma ancora il nome, provargli è molto agevolissimo; e messer Lº
chiamandosi vino forte o vin cattivo, o altra dovico Boccadiferro, vostro cittadino e mio
"ºnte; e sebbene mutasse il nome, basteria precettore, che fu eccellentissimo filosofo, usava
che gli rimanesse la sostanza; ma quando di
dire che tutti gli argomenti del sicut, ovvero
ºnta aceto, si muta, ed è differente da sè del come, zoppicavano, perchè in tutti si truova
medesimo, secondo la sostanza, perchè avendo alcuna diversità; ma torniamo al caso nostro.
ºtato spezie, non è e non si chiama più vi. Se l'acqua di quel fiume nel quale si fosse
º; onde non può, mediante alcuno medica. sgorgato un pantano o uno stagno, si fosse
ºnto, ritornare mai più all'esser primiero, mutata tanto e in modo corrotta, che avesse
Pº Iuella cagione medesima che i morti non variato la sostanza, ella e conseguentemente
ºno risuscitare; dove quegli altri vini po quel fiume, sarebbe altra e non alterata o di
ºbbono, mediante alcuna concia, ritornare versa, essendosi mutata sostanzialmente; ma se
º avventura buoni, come gli uomini infermi si fosse mutata accidentalmente, ella e 'l fiume
Pºssono ritornar sani. Stando queste cose cosi, sarebbero alterati e non altri, e per conseguenza
" ºrrei che voi o eglino mi diceste di qual
"utazione intendono, quando dicono, la lingua (1) Il dicevano gli antichi per seguitare il genio della no
"º essere la medesima lingua antica, ma stra lingua, che schita gli accenti sull'ultima sillaba, per mºg.
"ºtº e corrotta, cioè mutata in questa popo gior dolcezza. Ma ora noe per no è rimaso in contado: e tra i
lare: - - - -

º i Perchè, non potendo essi intendere di basso volgo.


36o L'ERCOLANO
i medesimi, sebbene in quello o per quello ac l'anno in sè alcuna parte di bene e di buono,
cidente sarebbono da quello che erano prima e ciò viene loro dalla forma; così tutte hanno
diversi; come, per non partire dall'esemplo ancora alcuna parte di male e di cattivo, e ciò
di sopra, se noi versassimo sopra un boccale viene loro dalla materia; e quinci è, che sopra
di vino un fiasco o due d'acqua, quel vino in ciascuna cosa si può disputare pro e contra,
ſino che rimanesse vino, sarebbe alterato e e conseguentemente lodarla e biasimarla, e chi
non altro; ma chi ve ne mettesse sopra un ba fa meglio questo, colui è tenuto più eloquente
rile, il vino sarebbe altro e non alterato, ben e più valente degli altri,
che altro comprenda alterato, perchè non sa C. La verità non è però se non una.
rebbe più vino, ma acqua. V. No, ma io v' ho detto che i retori non
C. Io vorrei così sapere, perchè cotestoro, pure non considerano, ma non hanno a con
essendo tanto letterati ed eloquenti nella lin siderare la verità, ma il verisimile; e chi ri
gua greca e latina, quanto voi dite, allegano cercasse da retori la verità, farebbe il mede
ragioni e adducono argomenti ed esempli che simo errore che chi si contentasse della pro
con tanta agevolezza si possono, e così chiara babilità ne' filosofi.
mente, ribattere e confutare. C. Non potrebbe un retore, trattando qual
V. A loro non dee parere, e forse non è, che materia, dire la verità e dirla ornata
come a VOI. mente ? -

C. E a voi non pare così? V. Potrebbe; ma dove dicesse la verità, sa


V. Pare, perchè, se non mi paresse, non lo rebbe filosofo e non retore; e dove favellasse
direi; ma e' mi pare anco che più non solo ornatamente, sarebbe retore e non filosofo.
verisimile, ma eziandio più ragionevole sia che C. Non potrebbe un filosofo dir la verità e
egli erri un solo, ancorachè non del tutto per dirla ornatamente ?
avventura ignorante, che tanti, e tanto dotti: V. Potrebbe ; ma quando parlasse ornata
però bastivi avere l'opinione mia, e tenetela mente, sarebbe retore e non filosofo, e quando
per opinione e non per verità, infinattantochè dicesse la verità, sarebbe filosofo e non retore.
troviate alcuno il quale sappia, possa e voglia C. Io non posso nè vincerla con esso voi,
darvela meglio che io non fo e con più efficaci nè pattarla; pure egli mi pareva ricordare che
e vere ragioni ad intendere. lo esempio fosse dei poeti, e non degli oratori,
C. Così farò; ma ditemi intanto l'opinione de quali è l'entimema, e che a dialettici fosse
vostra perchè voi credete che eglino alleghino proposto, non a retorici, il probabile.
cotali ragioni, argomenti ed esempli. V. E vero, favellando propriamente, ma non
V. Ista quidem vis est ; forse perchè non pertanto possono i retori e tutti gli altri scrit
hanno delle migliori: forse non dicono come tori servirsi, e sovente si servono degli esem
l'intendono : forse l'intendono male : e, poi pli; e la retorica, dice Aristotile (1), e un pol
chè voi potete e volete sforzarmi, a me pare lone, ovvero rampollo della dialettica, nono
che molti e forse la maggior parte degli odierni stanteche altrove la chiami parte; ma ora non
scrittori, vadano dietro non agli insegnamenti è il tempo di squisitamente favellare e dichia
de filosofi, che cercano solamente la verità, ma rare queste cose per l'appunto.
agli ammaestramenti de retori, a cui basta, anzi C. Seguitate dunque il ragionamento prin
e proprio il verisimile. Ma lasciamo che ognuno cipale.
scriva a suo senno, e diciamo essere possibile V. Io mi sono sdimenticato a qual parte
che come una sorte di retori antichi (1) si van io era.

tavano del fare a lor posta, mediante la loro C. La lingua volgare essere una lingua da
eloquenza, del torto ragione e della ragione sè, e non la latina autica, guasta e corrotta.
torto, cosi volessono far costoro, o almeno per V. Ah, ah si. Volete voi vedere e conoscere
mostrare l'ingegno e la facondia loro, piglias quale è la lingua latina antica corrotta e gua
sino a biasimare quello che, se non merita, pare sta ? Leggete Bartolo.
a molti che meriti d' essere lodato. C. Cotesto non farò io; che voglio piuttosto
credervi.
C. E come si può lodare una cosa che me
riti biasimo, o biasimare una che meriti loda? V. E considerate il suo favellare, ovvero
V. Non dite, come si può º perchè egli si scrivere; e il medesimo dico di quello di molti
può e s'usa purtroppo; ma che egli non si altri dottori così di leggi, come di filosofia:
doverrebbe. guardate tutti i contratti de' notai.
C. Intendo che ciò si faccia con qualche C. E anco cotesto, s'io non impazzo, non
garbo, e in guisa che ognuno non conosca ma farò.
nifestamente l'errore e lo 'nganno. V. Ponete mente a certi viandanti oltra
V. Io intendo anch'io così ; perchè dovete montani o paltonieri o nobili che sieno, quan
sapere non esser cosa nessuna in luogo veruno, do chieggono da mangiare agli osti, o diman
dano della strada di liona.
da Dio ottimo e grandissimo in fuori, la quale
non abbia alcuna imperfezione; ma lasciamo C. Di cotesti ho io uditi e conosco che dite
stare le cose del cielo. Come tutte le cose il vero.
sotto la luna, qualunque e dovunque siano, V. Dovete ancora sapere che, sebbene la
lingua latina per tanti discorrimenti del bar
(1) Cicerone dice di Carneade: Saepe optimas causas in
gº calunnia ludificani solebat. V. Nonio alla voce calunnia. (1) Arist. nella Rettor. lib. l, cap. l e altrove.
-

DIALOGO 361

bari si spense quanto al favellare, non perciò messer Giovanni Pontano da Spelle (1), ben
mancò mai che da qualcuno non si scrivesse. chè, per lo essere egli stato gran tempo ai
Ora se ella insino al tempo di Cornelio Ta servigi dei re d'Aragona sia creduto napole
cito, scrittore di storie diligentissimo e ve tano. Questi molto l'accrebbe nel suo tempo
race molto, e di Seneca (1) grandissimo filo e le diede fama e riputazione, tantochè final
sofo della setta degli Stoici, era mutata tanto mente dopo o insieme coll'Accademia prima
da sè medesima, quanto scrivono, pensate quello di Cosimo e poi di Lorenzo de' Medici, a cui
che ella era poi ne tempi de'Goti e de'Lon non pure le lettere così greche come latine,
gobardi, e quali dovevano essere le scritture ma eziandio tutte l'arti e discipline liberali
di coloro che scrissero latinamente infino a infinitamente debbono, nacquero il Bembo e
Dante e al Petrarca, i quali, e massimamente il Sadoleto e alcuni altri, i quali nella mia
il Petrarca, si può dire che non solo la rivo età e co versi e colle prose a quella altezza
cassino da morte, alla quale fu molte volte vi la condussero che poco le mancava a perve
cina, ma la ripulissero e ringentilissero ancora; nire al suo colmo, e come ella avea quelle
e tuttavia se Dante avesse seguitato di seri degli altri trapassato, così alla perfezione del
vere il suo Poema, come egli lo cominciò la secolo di Marco Tullio arrivare. Nè mancano
tinamente: oggi di coloro i quali con molta lode sua e
non picciola utilità nostra, brigano e s'affati
Infera Regna canam, mediumque inumque cano di condurlavi.
tribunal (2),
C. Tutto mi piace; ma se la lingua volgare,
infelice lui e povera la lingua nostra! chè come voi mostrato avete, è una lingua da sè
non voglio usare parola più grave (3); e non non solo alterata, ma altra dalla latina, egli
dimeno la colpa sarebbe più de tempi stata è forza che voi concediate che ella, come essi
che sua, perchè la lingua latina era, come si dicono, sia una corruzione e un pesceduovo
è detto in quella stagione poco meno che fatto di mille albumi, essendo nata dalla me
morta affatto. E se eglino risuscitare la potet scolanza e confusione di tante lingue e tanto
tero o almeno fare che ella non morisse, non barbare.
poterono, perchè ella le sue vergogne non mo V. Andiamo adagio, perchè in questo pe
strasse, coprirla abbastanza, non che ornata sceduovo di tanti albumi furono ancora di
mente vestirla: e così andò, se non ignuda, molte tuorla. Io non niego che ella sia, dico
stracciata e rattoppata, mantenendosi nondi bene che ella non si dee chiamare corruzione.
meno, anzi crescendo e avanzandosi infino al C. Dunque volete voi che quello che è
non sta,
l'età sopra la nostra o piuttosto sopra la mia,
essendo voi ancora giovane, anzi garzone, e V. Anzi non voglio che quello che non è, sia.
molto più al principio della vita vostra vicino, C. Io non v'intendo.
che io lontano dal fine della mia. E tra gli V. Io mi dichiarerò, ma non dite poi che
altri a cui ella molto debbe, fu principalmente io vada sottilizzando e stiracchiando le cose;
e brevemente, fatemi ogn' altra cosa che so
fista (2), perchè io ho più in odio questo no
(1) Seneca nella Controvers. lib. I in princ. Nescio qua me, che il male del capo: voi volete sapere
iniquitate naturae eloquentia se retrotulerit: quicquid Romana l' opinioni mie, e io le vi voglio dire, ma non
facunda habet quod insolenti Graeciae aut opponat, aut prae posso, nè debbo dirlevi, se non quali io l'ho,
ſerat, circa Ciceronen effloruit . . . In deterius deinde quoti non volendo ingannarvi, come io non voglio,
di data res est.
(2) Dante cominciò il suo poema con questo verso: e in quella maniera che io giudico migliore.
Inſera Regna canam supero contermina mundo; Sappiate dunque che il medesimo Aristotile (3),
º, come dice il Bocc. nella Vita di Dante a c. 258 dell'e- il quale dice che mai cosa alcuna non si cor
dizione di Firenze del 1723: rompe, che non ne nasca un'altra, dice an
Ultima Regna canam fluido contermina mundo cora che cotale atto non si dee chiamare cor
Ma il Varchi forse scambiò da un Epigramma di Coluccio ruzione, ma generazione, perciocchè, oltrachè
Salutati, che è nella Metropolitana fiorentina sotto il ritratto
di Dante, che comincia: i nomi si hanno a trarre dalle cose più per
Qui coelum cecint, primumque imumque tribunal, fette, e non dalle più imperfette, la natura
Lustraeitgue animo cuneta poeta suo. non intende e non vuole mai corruzione al
ºltre questo principio latino dell' inferno io ho trovato nel cuna per sè, ma solamente per accidente, vo
ºd. 14 del Banco 62 della Libreria Laurenziana, che con lendo ella solamente e intendendo per sè le
ºne parte del Comento di Francesco da Buti sopra la Com generazioni. Dunque la mutazione della lin
ºdia di Dante, questi versi latini, che sembrano essere la gua latina nella volgare non si dee chiamar
fine del medesimo Inferno:
Jamque domos Stygias, et tristia regna silentum corruzione, ma generazione.
Destituens sublimi, agor; jam noctis ab imo C. Voi m'avete liberato e sviluppato da un
Carcere felices rediens ertollor ad auras.
Vidi ego di esis animarum tartara poenis
In ciclo distincta norem, lacrimosaque passin (1) Niccolò Toppi nella Bibliot. Napoletana il dice della
Flumina et horribilem ferratis postibus urbem. terra di Correto nellº Umbria.
ºt libi, summe Deus, nostrae spes una salatis, (2) Il Varchi odiava il nome di sofista, ma tratto dalla
Gloria, et aeternae mancant per saecula laudes. maniera di filosofare de' suoi tempi era molto sofistico, come
º) Quanto sieno deboli i versi latini di Dante, si può ve si ravvisa in questo Dialogo in vari luoghi; il che fu detto
º dall' Egloghe del medesimo impresse nel tom. I de' Poeti anche di Platone.
latini Italiani stampati in Firenze nel 1714. (3) Arist. nel lib. I, cap. VI della Generazione.
V al Ciii V. i 46
362 L' ERCOLANO
grande intrigo, conciossiacosa che io non sapc cose, è in quel medesimo errore che i Gen
va come rispondere a coloro i quali, segui tili, i quali volendo provare, secondochè rac
tando l'opinione comune, chiamano la lingua conta Aristotile (1), che i loro dii erano, ar
che oggi si favella, non solamente corruzione, gomentavano così : I mortali edificano tempi,
ma laidissima e dannosissima corruzione, es e fanno sacrifizio agli iddii; dunque gl'iddii
sendo ella nata di tante e tanto barbare e sono. Sappiate, messer Cesare mio, che chi
orribili favelle, e inoltre testimoniando le mi volesse stare in su queste beccatelle, e andar
serie nostre e la servitù d'Italia; e di più dietro a tutto quello che dire si potrebbe, non
affermavano che d'un mescuglio, anzi piutto finirebbe mai, e saria peggio che quella can
sto guazzabuglio di tante strane lingue era zone dell'uccellino; perchè si potrebbono ad
impossibile che una ornata o composta se ne durre infinite ragioni, le quali se non fossino,
fosse, la quale o bella o buona chiamare si parrebbono a proposito, e se non avessero
potesse. l'essenza, arebbono almeno l'apparenza della
V. Il medesimo della latina dire si potreb verità.
be, perciocchè ancora essa fu quasi una me C. Dunque a chi volesse sofisticare, non
desima corruzione, anzi generazione dalla gre mancherebbe mai nè che proporre, nè che ri
ca, e da altre lingue. spondere?
C. Quando vi si concedesse cotesto, si po V. Non mai in eterno; e non crediate che
trebbe rispondere che la lingua greca e l'al sia nuova questa maladizione, perchè è anti
tre non erano barbare, come quella de' Goti chissima. Considerate in quanti luoghi, e con
e de' Longobardi; oltrachè i Greci non vin quali parole gli beffano tante volte, e ripren
sero e spogliarono i Romani dell'imperio, ma dono così Platone (2), come Aristotile (3), mo
furon vinti e spogliati da loro; onde Roma strando evidentemente non solo di quanta ver
non ne perde la maggioranza, come al tempo gogna siano alle lettere, ma exiandio di quanto
di questa nuova lingua, anzi l'acquistò. danno al mondo; e con tutto ciò sempre se
V. Per rispondervi capopiè, gran danno ve ne trovarono.
ramente fu per l'Italia, che il dominio e l'im C. Io aggiugnerò questa volta da me, se
perio de Romani si perdesse; ma avendo egli condo l'usanza vostra, e sempre se ne trove
avuto qualche volta principio, doveva ancora ranno, posciachè nell'universo debbono sem
avere necessariamente fine, quando che fosse. pre e necessariamente tutte le cose trovarsi.
Il fine che gli poteva venire in altri tempi e V. Tutte quelle delle quali egli è capevole,
modi piacque a cieli che venisse allora, e in e che conferiscono, cioè giovano o al mante
quello; e anco, se volemo considerare le ca nimento o alla perfezione sua. Ma, conchiu
gioni propinque, se ne furono cagione essi me dendo oggiinai, diciamo, la lingua nostra vol
desimi coll'ambizione e discordia loro. E se gare essere lingua nuova da sè, e non la la
la lingua greca non è barbara; chè dell'altre tina antica guasta e corrotta, e doversi chia
non voglio affermare; come una cosa buona non mare non corruzione, ma, come s'è dimostrato,
produce sempre cose buone, così non sempre le generazione.
triste, cose triste producono. E chi non sa, che
si trovano molte cose le quali sole, e da sè QUESITO SETTIMO
sono cattivissime e mescolate con altre diven
gono non buone, ma ottime ? La teriaca che C. Di quanti linguaggi e di quali sia compo
noi chiamiamo utriaca, la quale è si presente sta la lingua volgare.
e potente antidoto, non è ella composta di
serpi e altre cose velenosissime ? E anche la V. Io so, e se io nol so, io penso di saperlo,
lingua de' Goti, onde si cominciò a corrom qual cagione v' abbia mosso a dovermi fare
pere la latina, e generarsi la nostra, non fu questa dimanda; alla quale non mi pare di
tanto barbara, quanto per avventura credono potervi rispondere, se io prima alcune cose
alcuni, posciachè Ovidio, il quale fu confina non vi dichiaro. Dovete dunque sapere che
to e mori tra Gcti, che poi furono chiamati ogni parlare consiste, come testimonia Quin
Goti o Gotti, vi compose dentro, come testi tiliano (4) in quattro cose; in ragione, in ve
monia egli medesimo, quattro libri delle lodi tustà ovvero antichità, in autorità e in con
d'Augusto (1); e molti di quei re Goti e Lon suetudine ovvero uso; ma al presente non
gobardi furono uomini non solo nell'arme; chè accade che io se non della prima di queste
di questo non ha dubbio nessuno; ma ancora quattro favelli, cioè della ragione. E perchè
ne governi politici eccellentissimi, come Teo la ragione delle lingue vien loro massimamente
dorico. Ma, se io v'ho a dire il vero, queste
non sono cose essenziali; e chiunque si crede (1) Vedi Arist. nel lib. I del Cielo, cap. III.
provare con argomenti estrinseci la verità delle (2) Platone nel Sofista, e altrove.
(3) Arist. negli Elenchi, lib. I, cap. II. -

(1) Che la lingua gota fosse lingua sufficientemente colta y (4) Quintil Instit. Orat. lib. IX, cap. III. Verun sche
lo dimostrano le opere in essa scritte, che tuttora si conser miata X éºso: duorum sunt generum ; alterum loquendi rat -
vano ; fra le quali si novera la versione di alcuni libri del l
nem vocant: alterun, quod collocationem, marine erquisita in
Nuovo Testamento composta dal vescovo Ulfila. Ora essa è l cst . . . Prius fit iisden generabus quibus eita. Esset e ti a
spenta: i dotti la vogliono un idioma nato dalla lingua scan l onne schema vitium, si non peteretur, sed a rideret P erun
dinava, dacchè i Goti erano i più antichi abitatori della auctoritate, vetustate, consuetudine plerumque defenditur, ucpe
Scandinavia. (M ) | etiaa rattore a lui.
DIALOGO 363

dall'analogia, e talvolta dall'etimologia, biso greco analogia cioè proporzione: come chi
gna che io che cosa è propriamente etimolo dimandasse, perchè si dice amare della prima
gia, e che analogia vi dichiari: e questo non conjugazione, e non amere della seconda, o
mi par di poter fare nè convenevolmente, nè d' altre coniugazioni, e se rispondesse, per
abbastanza, se io non piglio nn principio uni chè cotale verbo va e si declina come can
versale, e dico: Che tutte le cose che sono tare, saltare, notare e altri di questa maniera,
sotto il cielo, o naturali o artifiziali che elle che sono della prima conjugazione o vera
sieno, sono composte di tutte e quattro que mente perchè questo verbo viene dal latino,
ste cagioni; materiale, formale, efficiente e fi e i Latini facendolo della prima conjugazione,
nale; perchè l'esemplare e l'instrumentale, dicevano così, cioè amare e non amere. Ma chi
le quali poneva Platone (1), si comprendono considerasse la forma cioe la significazione, e di
sotto l'efficiente. La cagione materiale d'al mandasse, perchè pianeta significa ciascuna di
cuna cosa è quella materia della quale ella quelle sette stelle che così sono chiamate, e
si fa, come il marmo o il bronzo a una sta se gli rispondesse da un toscano, perchè questo
tua; la formale è quella che le dà la forma, vocabolo si tolse da Latini, i quali l'avevano
cioè la fa essere quello che ella è, perchè al preso da un nome greco che significa errore,
tramente non sarebbe più mortale che divi ovvero da un verbo che significa errare, cioè
na, nè più Giove, o Mercurio, che Pallade o andare vagabondo, onde pianeta non vuol dire
Giunone; l' efficiente è colui che la fa, cioè altro che erratico, cioè vagabondo; questo si
lo scultore; la finale è quello che muove l'ef chiama da Latini pur con nome greco etimo
ficiente a farla o onore, o guadagno, o altro logia; la qual parola tradusse Cicerone (1),
che ella sia; e questa è nobilissima di tutte stando in sulla forza e proprietà delle parole,
l'altre. E le cose le quali non sono veramente non so quanto veramente, ora veriloquio, e
composte di materia e di forma, si dicono es talvolta notazione; e alcuni originazione, cioè
ser composte di cose proporzionali e equiva ragione e origine del nome. Ma io affinchè
lenti alla forma che è la principale, e alla meglio m' intendiate, l'userò come si fa orto
materia la quale è la men degna: anzi è tanto grafia, cioè retta scrittura, e altre voci gre
nobile la forma che il tutto che è composto che nella sua forma primiera senza mutargli
della forma, e della materia è men degno che nome. Queste due cagioni analogia ed etimo
la forma sola. Stando queste cose così, dico logia, delle quali la prima è, come s'è ve
che tutte le dizioni, ovvero parole di tutte le duto, venendo ella dalla materia, accidentale,
lingue sono composte ancora esse, e si pos e la seconda, venendo ella dalla forma, essen
sono considerare in elle queste quattro cagio ziale, furono anticamente da molti con molte
ni. La materiale sono le note, come dicono ragioni approvate. Marco Terenzio Varrone,
alcuni, cioè le lettere colle quali sono scritte il quale fu tenuto il più dotto uomo de' Ro
e notate; la formale è il significato loro; mani, ed eziandio il più eloquente, da Cice
l'efficiente è colui che le trovò o formò pri rone in fuora, ne scrisse diffusamente a Marco
mieramente; ma perchè le più volte gl'inven Tullio, come si può ancora vedere: ma io non
tori, o formatori delle parole sono incerti, non intendo in questo luogo nè d'approvarle, nè
sappiendo chi fosse il primo a trovarle o for di riprovarle. Solo vi dirò che Platone, per
marle, si piglia in luogo dell'efficiente l'ori chè teneva che i nomi fossero naturali, cioè
gine loro, cioe da che cosa o per qual cagione imposti per certa legge e forza di natura, se
fossero così chiamate, o da qual lingua si pi condo le nature e qualità loro, ne fece gran
gliassero; la finale è , come s'è tante volte caso, e spezialmente dell'etimologia, come si
detto, sprimere e mandar fuori i concetti del può vedere nel Cratilo; il che potette per
l'intelletto. avventura cavare dagli Ebrei, i quali tanto
C. Deh datemene un esempio. conto tennero della scienza de nomi che sti
V. Chi considerasse in alcun nome, verbi marono più questa sola che tutte l'altre scien
grazia, in questa voce pianeta le lettere colle ze insieme, anzichè la propria legge scritta,
quali ella è scritta, considererebbe la cagione dicendo, lei essere stata data da Dio a Moisè
materiale, cioè la sua materia; chi quello che non perchè egli la scrivesse, come la legge,
ella significa la sua forma; chi l' origine sua, ma perchè si rivelasse a bocca di mano in
cioè da cui fosse trovata, o perchè così chia mano a più santi, e a più vecchi, onde la
mata, o da qual lingua fosse stata presa, con chiamarono Cabala (2), mediante la quale, per
sidererebbe l'efficiente; chi a che fine fu tro
vata la finale. Ora quando si considera la ca (1) Cic. in Topic. Multa etiam ee notatione sumuntur ;
gione materiale, cioè perchè si dica più il pia ea est auten, gum ea vi nominis argumentum elicitur, quan
ºeta in generale mascolino, che la pianeta in Graeci é rºgo)oyix» vocant, dest verbum ea verbo, verilo
femminino, come dissero alcuni antichi, e si va loquium. Vos autem novitatem verbi non satis apti fugientes,
ºgguagliandola e comparandola, mediante al genus hoc notationem appellamus, quia sunt cerba rerum notae.
ºna similitudine o proporzione, dicendo esem (2) La Cabala fu un trovato de' Rabbini posteriori alla
Pigrazia, perchè si dice ancora nel medesimo distruzione di Gerusalemme; nè c'è menoria, che nè la Si
nagoga, nè le sette de Farisei, de Sadducei o degli Esseni
ºdo il poeta, il profeta, e altri cosi fatti no punto se ne giovassero innanzi quest'epoca. Non è poi a far
º, questo è chiamato da Latini con nome le meraviglie, che il Varchi si chiarisca un po' credulo a co
desta ciurmeria della Cabala, da che è noto quanto corresse
(!) Platone nel Tineo. dietro perdutamente alle vanità dell'astrologia. (M.)
364 L' ERCOLANO
forza della virtù de' nomi, e massimamente V. Voi sete troppo malizioso, e non ripi
divini, si dice che operarono cose stupende e gliate le cose a buon senso; basta che delle
infiniti miracoli. Ma Aristotile (1), il quale etimologie antiche, o volete greche, o volete
diceva che i nomi non erano dalla natura, ma latine, ne sono molte forse meno vere (1) e
a placito, cioè dall'arbitrio degli uomini, e più degne di riso, che le moderne toscane di
che non voleva che i nomi, nè altra cosa al maestro Antonio Carafulla (2), il quale mai non
cuna, eccetto le qualità, potessero produrre fu dimandato di nessuna, che egli, così pazzo
veruna operazione se ne rideva. come era tenuto, non rispondesse incontanente.
C. Quale avete voi per migliore, e per più C. Io ho sentito ricordarlo più volte; non
vera opinione? vi paja fatica raccontarmene una o due.
V. Domin, che voi crediate che io voglia V. Dimandato il Carafulla, perchè così si
entrare tra Platone e Aristotile! Sappiate, che chiamasse la girandola, rispose subitamente:
dove si gran discepolo discorda da sì gran Perchè ella gira e arde e dondola; e diman
maestro, bisogna altro che parole a concor dato un'altra volta, onde avesse avuto il nome
dargli o a trovarne la verità. la bombarda, rispose senza punto pensarvi so
C. Io ho pure inteso dire più volte, e da pra: Perchè ella rimbomba e arde e dà. Vo
uomini di profonda dottrina, che le discordie glio inferire che sopra l'etimologia non si può
loro non consistono nelle sentenze, intendendo per lo più fare fondamento, se non debole e
amenduni una cosa medesima, ma nelle pa arenoso da gramatici, non altramentechè i dia
role, favellandole in diversi modi; e che il lettici, quando traggono gli argomenti dall'e-
Pico scrisse, o aveva in animo di volere scri timologia, sono bene probabili, ma non però
vere un' opera e concordargli insieme, come pruovano cosa nessuna.
si dice che fece già Boezio. C. Come può stare che una cosa sia proba
V. Io son d'opinione, che in alcune cose bile e non provi ?
si potrebbono talvolta concordare, ma in al V. Ogni volta che Aristotile dice, la tal ra
cune altre non mai; benchè questa non è ma gione esser probabile o verisimile, o dialetti
teria nostra, però è bene trapassarla. ca, o logica, vuol significare che ella non è
C. Io ricorrerò a quello che voi negare non buona, nè vera ragione, perchè non prova ne
mi potete, cioè qual sia l'opinione vostra in cessariamente, come debbono fare le buone e
torno all'etimologia. vere ragioni ; e insomma non sono da filosofi;
V. Delle nostre: io credo che, se le lingue sebbene anco i filosofi e Aristotile medesimo
s'avessero a far di nuovo, e non nascessero argomenta talvolta dall'etimologia, della quale
piuttosto a caso, che altramente, che Plato mirabilmente si servono gli oratori, e più an
ne (2) avrebbe ragione, perchè colui che po cora i poeti; onde il Bembo, che negli Aso
nesse i nomi alle cose, il quale ufizio e del lani indusse Gismondo a rispondere a Perotti
dialettico, doverrebbe porgli secondo le na no, il quale argomentando dalla ragione della
ture e qualità loro quanto potesse il più, co voce, cioè dalla interpretazione del nome, e
me è verisimile non che ragionevole, che ne brevemente dall'etimologia del vocabolo, aveva
siano stati posti molti; ma perchè la bisogna detto che amore essere senza amaro non po
non va sempre cosi, io credo che Aristotile per teva, alludendo, cioè avendo accennato, secon
la maggior parte dica vero; e se non vogliamo dochè alcuni dicono, a quei versi del Petrarca:
ingannare noi medesimi, l'etimologie sono spes Questi è colui che 'l mondo chiama Amore,
se volte piuttosto ridicole che vere; onde Amaro, come vedi, e vedrai meglio
Quintiliano (3), uomo di squisito giudizio e Quando fiatuo, come nostro signore (3):
di rara letteratura, si ride tra l'altre di que usa nondimeno cotale argomento ne' Sonetti,
sta. Coelebs si chiama appresso i Latini uno come quando disse:
il qual vive senza volere pigliar moglie, e l'e-
timologia di questo nome si dicea da un certo Signor, che per giovar sei Giove detto.
grammatico (4) essere, perchè Coelebes voleva (1) Il Varchi deride lo studio dell'etimologie, perchè alcuni
dire quasi Coelites, cioè, che coloro i quali standovi troppo attaccati, si rendavano ridicoli. Ma egli non
vivono senza moglie, vivono tranquilla e beata è però tanto da deridersi, e in ciò il Castelvetro il riprende
vita come gli dii. a c. 111 delle Correzioni al presente Dialogo, e molto più
C. Io non credo che l'etimologia di cotesto avrebbe ripreso chi si prese la cura di far ristampare il Ca
nome dispiacesse oggi tanto a qualcuno, e gli lepino in Padova nel 1718, perchè dopo aver detto nella
Prefazione d'averne levato via ridicula multa et exsucca ety
paresse così falsa, quanto ella fece nel suo ma, dice che chi vuole, le può trarre ex Vossii etrmologico,
tempo a Quintiliano. talium nugarum sede. Ma nell'Etimologico del Vossio vi è
tanta erudizione, che non meritava d'esser trattato così. Di
(1) Arist, nel lib. I dell'Interp. cap. II. questo studio dice Quintil. lib. 1, cap. X, continet autem in
(2) Platone nel Cratilo. se multam eruditionem. – Lo studio delle etimologie è ve
(3) Quintil Instit. Orat. lib. I, cap. X. nuto in gran voga a nostri giorni; tanto che vi fu chi scris
(4) Cajo Granio era chiamato costui, e questa sua etimo se, la maggior parte del nostri errori aver origine dalle di
logia vien seguitata da Festo, da Donato, da Prisciano, da fettive etimologie, e nelle etimologie rette aver sua sede
S. Girolamo, da Beda, da Isidoro e da Giulio Cesare Sca ogni più lucido vero. (M.)
ligero, che riprende Quintiliano d'aver deriso Cajo. V. il (2) Chi vuole del Carafulla più distese notizie, ricorra
Vossio nel suo Etimologico alla voce Corlebs, che il fa de alla Luigia Strozzi, notissimo romanzo istorico del profes
tirare da nºi º, quia ei litri xoira fauxh, acet sore Giovanni Rosini. (M.)
lectus nuptialis. (3) Petr. Triouf. d'Amore, cap. 1.
DIALOGO 365
E Dante, nella cui opera si ritrovano tutte le V. Prima perchè per una etimologia, la quale
cose, disse favellando di San Domenico nel sia certa e vera, se ne ritrovano molte incerte
dodicesimo Canto del Paradiso: e false: poi, perchè coloro i quali fanno pro
fessione di trovare a ciascun nome la sua eti
E perchè fosse, quale era, in costrutto, mologia, sono bene spesso non pure agli altri
Quinci si mosse spirito a nomarlo etimologici, ma ancora a sè stessi contrari; ol
Del possessivo di cui era tutto. trachè egli non si ritruova voce nessuna in
E poco di sotto favellando del padre e della veruna lingua, la quale o aggiugnendovi, o le
madre di lui, e alludendo all'etimologia dei vandone, o mutandovi, o trasponendovi lettere,
nomi, soggiunse: come fanno, non possa dedursi e dirivarsi da
una qualche voce d'alcuna lingua (1); senza che,
O padre suo veramente Felice, egli non si può veramente affermare che un
O madre sua veramente Giovanna, vocabolo, tuttochè sia d'origine greca, e s'usi
Se 'nterpetrata val come si dice. in Toscana, sia stato preso da Greci. Verbi
E come poteva egli più chiaramente mostrare, grazia, questa parola orgoglio (2), è posta tra
l'argomento dell'etimologia potersi usare, ma quelle dagli autori che avete nominati, le quali
dirivano dal greco, e nondimeno i Toscani,
non esser necessario, che quando disse:
per quanto giudicare si può, non da' Greci la
Savia non fui, avvengachè Sapia presero, ma da Provenzali: similmente parlare
Fussi nomata? (1) e bravare, che io dissi di sopra esser venuti
di Provenza, hanno, secondo cotesti medesimi
Lasciando dunque a giureconsulti il disputare autori, l'origine greca, e contuttociò i Toscani
più a lungo della forza di questo argomento, non dalla greca
conchiudiamo, che l'etimologie, sebbene ser lingua, ma dalla provenzale è
vono molte volte e arrecano grande ornamento verisimile che gli pigliassero. Nè voglio che
vi facciate a credere che
una lingua, sebbene
cosi agli oratori, come a poeti, non perciò pro ha molti, non che alcuni vocaboli d'una o di
vano di necessità, e meno l'analogie, sebbene,
secondo loro, non solo si possono, ma si deb diverse lingue, si debba chiamare di quella
bono formare alcune volte le voci nuove: e vi sola, o di tutte composta; perciocchè sono tanto
basti per ora di sapere ch'in tutte l'altre cose pochi che non fanno numero, o sono già di
dee sempre prevalere e vincere la ragione, ec maniera dimesticati quei vocaboli che sono
fatti propri di quella lingua; per non dir nulla
cettochè nelle lingue, nelle quali, quando l'uso che i cieli e la natura hanno in tutte le cose
è contrario alla ragione, o la ragione all'uso,
tanta forza, che infondono e introducono le
non la ragione, ma l'uso è quello che pre medesime virtù in diversi luoghi, e massima
cedere e attendere si dee; onde Orazio, non
meno dottamente che veramente, disse nella mente nelle lingue, le quali hanno tutte un
sua Poetica: medesimo fine, e tutte hanno a sprimere tutte
le cose, le quali sono molto più che i voca
Multa renascentur quae jam cecidere, cadentoue boli non sono; dunque la lingua fiorentina,
Quae nunc sunt in honorevocabula, si volet usus, sebbene ha vocaboli e modi di favellare di di
Quem penes arbitrium est, et vis, et norma lo verse lingue, non perciò si dee chiamare com
quendi (2). posta di tutte quelle, delle quali ella ha parole
e modi di dire; anzi avete a sapere che se
C. Io mi ricordo d'aver letto uno Jacopo una lingua avesse la maggior parte de' suoi vo
Silvio e un Carlo Bovillo, i quali trattando caboli tutti d'un'altra lingua, e gli avesse ma
latinamente della lingua franzese, fanno alcune nifestamente tolti da lei, non per questo se
tavole, nelle quali secondo l'ordine dell'ab guirebbe che ella non fosse e non si dovesse
bicci pongono molti vocaboli, i quali, per quanto chiamare una lingua propria e da sè, solochè
dicono essi, sono derivati parte dalla lingua ella da alcun popolo naturalmente si favellasse;
greca, parte dall'ebraica, parte dalla tedesca e se ciò che io dico, vero non fosse, la lingua
e parte da altri linguaggi; avetegli voi vedu latina non latina, ma greca sarebbe, e greca
ti? e che giudicate ? che si debba loro prestare non latina, chiamare si doverebbe.
fede, o no? C. Deh ditemi per cortesia alcuni di quei
V. Io gli ho veduti e letti, e, oltra cotesti nomi, i quali voi credete che in verità ab
due, si vede medesimamente stampato un Gu biano l'origine greca.
glielmo Postello, che fa il medesimo in un V. Per tacere quelli della religione, che sono
trattato nel quale egli pone gli alfabeti di do molti, come chiesa, parrocchia, cherico, prete,
dici lingue diverse ; ma io, come confesso che canonico, monaco, vescovo, tomba (3) , cimite
in tutte le lingue, e più nella nostra che in
nessuna dell'altre, si trovano vocaboli di di
versi idiomi, così niego che si debbia dar piena (1) Pietro Verri nel suo brioso almanacco intitolato i
fede a cotali autori. Mal di milza tolse a porre in deriso gli etimologisti, pro
C. Per qual cagione ? vando e dimostrando, a furia d'aggiungere e levar lettere, che
la voce violino deriva da Nabucodonosorre. (M.)
(2) Anche il Castelvetro nella Giunta al Bembo, Patti
(1) Dante, Purg. XIII. cella 1X, il deriva da opyi)o;, e il Menagio da o o/a
(2) Orazio nella Port. v. 72, secondo le migliori edizioni nelle Origini italiane.
ha: ct jus, et norma. (3) Da rºu ſºo; sepoltura.
366 L' ERCOLANO

ro (1), battezzare (2), e altri assai, egli non è e quali lingue voi pensate che sia principal
dubbio che di greca origine sono bosco (3), mente composta la volgare.
basto (4), canestro (5), cofano (6), letargo (7), V. Di due; della latina e della provenzale.
matto (8), e forse gufo (9), per la leggerezza C. Io non istarò a dimandarvi, in che modo
sua, non essendo altro che voce e penne, e della latina; perciocchè, oltrachè le parole del
cosi spada (1o), stradiotto (1 1), schifare (12), Bembo (1) lo mi dichiararono, a me pare che
svenirsi (13), arrabbattarsi (14), in un atti parole da noi si favellino, le quali dal latino
mo (15), e molti altri, de quali ora non mi discese siano, come cielo, terra, di notte, vita,
sovviene. morte, arte, natura, arme, libri, corpo, mani,
C. Malinconia, filosofia, astrologia, geomanzia, piedi, ornare, portare, edificare, e altri inſiniti
genealogia, geografia, etica, politica, fisica, me così nomi, come verbi; ma bene vi dimanderò,
tafisica e infiniti altri non sono greci? in che modo della provenzale ?
V. Sono: ma, come i Latini gli tolsero dai V. Il medesimo Bembo nel medesimo libro
Greci, così i Toscani gli presero dai Latini; vi può ancora in cotesto larghissimamente e
onde, quanto alla lingua nostra, si può dire con verità satisfare, ogni volta che di leggerlo
che siano piuttosto d' origine latina, che di vi piacerà e vi doverrà piacere quanto prima
greca. potrete, se vi diletta, come mostrate, di sapere
C. Questo nome oca (16), detto dai Latini in quante e quali cose i primi rimatori toscani
anser, non è ella voce greca colla compagnia si valessero de trovatori provenzali; che tro
dell'articolo 6 Xiv, come dice il Castelvetro vatori si chiamavano provenzalmente, anzichè
a carte 37 (17), intendendo sempre da qui in quella lingua si spegnesse, i poeti, come tro
nanzi della prima stampa ? vare, poetare: ancorachè alcuni dalla somi
V. Il Silvio tra l'altre mette ancora cotesta glianza del suono ingannati, non trovatori, ma
in due luoghi, e forse in tre, ma io ne dubito. trombadori scrivono ; e non solo i rimatori, ma
C. Perchè ? i prosatori ancora di Toscana si servivano delle
V. Perchè l'articolo greco mascolino, che voci, e de'modi del favellare provenzale, come
noi diciamo il, si scrive da Greci con o pic si può vedere sì negli altri, e si massimamente
cino, a lor modo e a nostro, con o chiuso, e nel Boccaccio, il quale molti usa di quei vo
noi pronunziamo oca con o grande, a lor modo, caboli che racconta il Bembo.
e a nostro, con o aperto; oltrachè la lettera n, C. Io vorrei così sapere quali e quanti sono
cioè eta, sebbene si pronunzia oggi per i, si quei nomi che il Bembo (2) racconta per pro
debbe senza alcun dubbio pronunziare per e venzali.
aperto; onde s'avrebbe a proferire non oca, V. Mano a dirvegli: Obliare, poggiare, ri
per a, ma oche per es per non dir nulla, che membrare, assembrare, badare, donneare, ripa
così fatte etimologie non mi hanno ordinaria rare, o piuttosto, ripararsi, gioire, calere, gui
mente a dare molto. derdone, arnese, soggiorno, orgoglio, arringo,
C. Lasciamole dunque stare, e, venendo al guisa, uopo, chere, cherere, cherire, caendo, qua
primo intendimento nostro, ditemi di quante drello, onta, prode, talento, tenzona, gajo, snel
lo, guari, sovente, altresì, cioè medesimamente,
dottare, cioè temere, dottanza e dotta, cioè pau
(1) Da zo punthptov, e questo da rotpuò o, addor
mentare. ra, a randa, cioè appena, bozzo (3) , cioè ba
(2) Da Barrigo, larare, tuffare. Di queste due etimo stardo, gaggio, landa, ammiraglio, smagare, dru
logie il Menagio uon fa parola; ma sono certe. do, marca, vengiare, per vendicare, giuggiare,
(3) Da gò 7x2tv, pascolare. Cosi crede anco l'Aleandro per giudicare, approcciare, inveggiare, per invi
nella risposta all'Occhiale dello Stigliani, a carte 83, il Co diare, scoscendere, cioè rompere, bieco, crojo, for
varruvias, Ascanio, Persio, e l'Accarisio. Ma il Menagio sennato, tracotanza, oltracotanza, trascotato, cioè
l'origina dal Tedesco nelle Etimologie Franzesi alla voce Bois. trascurato, lassato, scevrare, cioè sceverare, gra
(4) Forse da ſºxarago, portare. Il Menagio lo deriva
da Bastum. mare, oprire, cioè aprire, ligio, tanto o quanto,
(5) Credo da xxvng, va rog, canestro. cioè pure un poco, alma, cioè anima, fora, cioè
(6) Da xò ptvog, comunue farebbe, ancidere, per uccidere, augello, per
(7) Da X#5apyog. uccello, primiero, cioè primo, conquiso, cioe
(8) Da parato;, tolto. conquistato, avia, solia, e credia, e così di
(9) Da x spog, leggieri, tutti gli altri in luogo d'avea, solea e credea,
(1o) Da arra 0n, si trova anche spata presso Aulo Gel ha, cioè sono, avea, era o erano , ebbe, fu o
lio, lib. X, cap. XXV. furono, io amo meglio, cioè io voglio piuttosto.
(11) Da arpartórne, soldato. Dice ancora che i fini de'nomi amati dalla
(12) Daaxigety, lat. findere. Così il Monosini nel Flos,
e il Menagio nelle Origini Italiane alla voce Schifare. Provenza terminano in anza, come pietanza,
(13) Da agevvisa 3xt, estinguersi. V. il Vocabol. della pesanza, beninanza, malenanza, allegranza, di
Crusca alla voce Svenirsi. lettanza; ovvero in enza, come piacenza, va
(14) Da pagarrstv, del che vedi Pier Vettori nelle lenza e fallenza.
Var. Lez. lib.VI, cap. XVI che lo spiega ampiamente.
(15) Da ev diròuº. Vedi Pier Vettori nello stesso luogo.
(16) Dell'Etimologia di questo nome ne parla lungamente (1) Bembo, Prose, lib. I.
il Meuagio nelle Origini Italiane alla voce Oca, e gli autori (2) Bembo, Prose, lib. 1, part. VIII.
da esso ci ati. . (3) ll Vocabol, della Crusca coll'autorità d'esempli anti
(17) Il Castelvetro rafferma ciò anche uclle Correzioni a chi e chiarissimi interpreta la voce Bozzo per Quello a cui la
questo lº sente Dialogo verso la fine. moglie la fallo.
DIALOGO 367
C. Voi m'avete toccato l'ugola; deh se ne sto e tantosto, e molti altri che mi sono fuggiti
sapete più, raccontatemene degli altri, della memoria. I modi del favellare cavati dai
V. Affanno e affannare, angoscia e angoscio poeti provenzali sono non pochi, come dare
so, avvenente, altrettale, voce usata dal Boccac la preposizione in a gerundi che forniscono
cio (1) nella Teseide più volte, e da altri an nella sillaba do, onde il Petrarca disse:
tichi autori, che vale, della medesima qualità,
come altrettanto, della medesima quantità; ben In aspettando un giorno (1).
chè oggi si possa dire che ella sia piuttosto E quello che i Latini dicono: parum abfuit,
perduta, che smarrita ; assiso, assai, almeno, quin moreretur, dicono i Toscani provenzal
anzi, appresso, cioè dopo, allontanarsi abban mente: per poco non morì, come si vede spesse
donare, abbracciare, assicurare, balla, per po volte nel Boccaccio (2), ma ora non mi sov
testà, battaglia, per conflitto, ovvero giornata; vengono, nè è il tempo di raccontargli tutti.
che oggi si dice fatto d'arme, bisogna nome, C. Molto m'avete soddisfatto; ma egli in
e bisognare verbo, brama e bramare, biasmo e raccontando voi queste voci, mi sono nati più
biasmare, battere, bastare, banco, bianco, brullo, dubbi.
e bastone, onde bastonare: cammino, cioè viag V. Quale è il primo?
gio, coraggio, per cuore, cortese e cortesia ; ben C. Molte delle voci che voi avete per pro
chè Dante dica nel Convivio (2), ciò esser venzali raccontate, sono poste dagli altri qual
venuto dalle corti, e cortesia non significare per greca, qual per latina, qual per ebrea, o
altro che uso di corte, onde nacque il verbo per di qualche altra lingua.
corteggiare, per seguitare le corti, e corteseg V. Già vi dissi di sopra, che questi etimo
giare, per usar cortesia. E similmente sono logici bene spesso non si riscontrano l'uno col
nomi e verbi provenzali, cavaliere, cavalcare, l'altro. Pantufola (3), per quella sorte di pia
combattere, cominciare e cangiare, destriero, dan nelle che oggi alquanto più alte dell'altre si
maggio, diporto, dirittura, cioè giustizia, drappi, chiamano mule, diriva, secondo cotestoro, dal
danza e danzzare, desire e desirare, che si dice greco; ma altri d'altronde le dirivano, come
ancora disio e disiare ; dimandare, fianchi, per il Carafulla da piè in tu fola; e anco può
quello che i Latini dicevano latera; feudo, fol essere che, avendo le cose in sè diverse pro
le follia, onde folleggiare, franco e francamente, prietà, questi ne consideri una, e da quella
fino e fine, usato da quella lingua spessissime ia dirivi, e quegli un'altra e da quella voglia
volte, come fine amore: forza e forzare, forte, che detta sia; onde non è maraviglia che al
cioè assai, come disse il Petrarca: cun nome in alcuna lingua abbia l'articolo del
lo amai sempre e amo forte ancora (3). genere del maschio, e in un'altra quello della
femmina, o all'opposto.
E così finalmente guercio per quello che dai C. Il mio secondo dubbio è, perchè voi fate
Latini era chiamato strabo: gagliardo e ga che i Toscani abbiano pigliate coteste voci dai
gliardia, inverno, incenso, per quello che i La Provenzali, e non i Provenzali dai Toscani;
tini dicevano thus ; legnaggio, in luogo di pro non sarebbe egli possibile che i Toscani aves
sapia, lealtà, o leanza, e leale, lasso e lassare, sero alcuna di coteste stesse voci non dai Pro
lontano, lagnare e lusingare, maniera, monta
venzali preso, ma da quelle medesime lingue
Sna, mogliere, mancia, mattino, menzogna e men dalle quali le pigliarono i Provenzali ?
zognere, martire, malvagio, membranza e mem V. Sarebbe, e anco che la Provenza n'a-
brare, megliorare, mescolare, meraviglia e me
vesse prese alcune dalla Toscana; ma perchè
ravigliare scritto per e e non per as ma, i rimatori provenzali furono prima de tosca
cioè sed; mai, cioè unquam ; mentre, cioè do ni, perciò si pensa che essi abbiano dato e
ne: paura, parvenza, perdono paraggio, pre
-
non ricevuto, cotali voci. Ecco Dante nostro,
gione e pregioniero, scritti colla lettera e e favellando di Guido Guinizelli, vostro Bolo
non colla i : piacente, piagnere, parere, però, gnese, disse:
cioè ideo, o quapropter ; roba e rubare, ricco, Quand'io udii nomar sè stesso il padre
ricchezza, o riccore; rossignuolo, che altramente Mio e degli altri miei miglior, che mai
si dice lusignuolo; senno, soccorso, strano, sguar
do e sguardare, schermire, saper grado, scam Rime d'amore usar dolci e leggiadre (4).
Pare, tomba, testa, torto, cioè ingiustizia; tro Dove chiamandolo padre, cioè maestro e pre
ºre, toccare, tenzonare, travaglio, e travagliare, cettore suo e degli altri suoi migliori, viene a
trastornare, ovvero frastornare, trapassare, to confessare ingenuamente che egli e eglino da
lui imparato aveano.
(1) Il Boccaccio usò questa voce anche nel Decamerone,
ºttod. XXXIV. I cotali son morti e gli altrettali son per (1) Petr. Canz. X.
ºtorire. E nella Teseid. lib. VII. Durò moltº anni in aspettando un giorno.
E coronò di quercia Cereale. (2) Bocc. Nov. XV, 4. E Nov. LXXIX, 18 e altrove.
Il tempo tutto e 'l capo suo altrettale. (3) Il Turnebo sopra l'Oraz. di Cic. contra Rullº deriva
(2) Dante nel Conviv. a c. 39 dell'ediz. di Firenze del questa voce da Pedum inſulae. Altri dal greco Triv peAAos,
17,3. Cortesia e onestade è tutt'uno; e perorchè nelle corti o da 7rxtreiv pe) Adv , cioè tutto sughero, o, calare il suº
"ana le virtudi e li belli costumi s'usavano, siccome oggi ghero, della quale opinione fu Buddeo, il Perionio, il l'ripal
"º cºntrario, si tolse questo vocabolo dalle Corti, e ſu tanto do e il Nicosio. Vedi il Menagio, il quale vuole che questa
“ º ºtoia, quanto uso di Corti, voce venga dal tedesco pontoſſet, ovvero punto//el livº.
(!) Pet Son. LX1v. (1) Dante, Purg. XXV1.
368 L' ERCOLANO

C. Dunque sarà pur vero che la mia lingua cose e i componimenti d'Amore. Fu forte ono
tenga il principato tra tutte l'altre d' Italia. rato dagli uomini grandi e valenti, e dalle gen
V. Guido, sebbene fu da Bologna, scrisse tildonne che intendevano gli ammaestramenti
nondimeno provenzalmente (1), e anco se fu, delle sue canzoni. La guisa e maniera sua di
non rimase il primo, conciossiacosa che Guido vivere era così fatta: egli stava tutto il verno
Cavalcanti gli entrò innanzi: non vi ricorda per le scuole, e attendeva ad apparare lettere, e
che il medesimo Dante disse: la state poi se n'andava per le corti de gran
Così ha tolto l'uno all'altro Guido
maestri, e menava con seco duoi cantori, i quali
cantavano le canzoni che egli aveva composte.
La gloria della lingua, e tale è nato, Non volle pigliar mogliera mai, e tutto quel che
Che l'uno e l'altro caccerà del nido (2)? guadagnava, dava a suoi parenti poveri, e alla
C. Ora che voi me l'avete rammentato, me chiesa di quella villa ov'egli era nato, la qual
ne ricordo. Ma in cotesto luogo profetizza Dante villa e chiesa si chiamava, e ancora si chiama,
del Petrarca, come vogliono alcuni, che di già San Gervagio (1).
avea diciassette anni, o pure intende di sè me C. Ora intendo io assai meglio la cagione,
desimo, come penso io? la quale mosse Dante a scrivere quelle parole:
V. Come pensate voi, perchè sebbene Dante . . . . . . e lascia dir gli stolti,
era astrologo, egli non sapeva perciò indovi Che quel di Lemosì credon ch'avanzi (2).
mare. Ma, tornando a Guido vostro, egli stesso
confessa che Arnaldo Daniello, provenzale, fu E perchè il Petrarca, il quale, secondoche voi
miglior fabbro del parlar materno dicendo di lui: dite, si servì anch'egli de'poeti provenzali in
molte cose, non solo scrisse ne' Trionfi:
Versi d'amore e prose di romanzi
Soverchiò tutti e lascia dir gli stolti, Fra tutti il primo Arnaldo Daniello
Gran maestro d'amor, ch'alla sua terra
Che quel di Lemosi credon ch'avanzi (3).
Fa ancora onor con dir pulito e bello (3);
C. Chi fu quello di Lemosi, se voi il sapete?
ma ancora nella Canzone che comincia :
V. Io ho in un libro provenzalmente scritto
molte Vite di poeti provenzali, e la prima è Lasso me, ch'io non so'n qual parte pieghi (4);
quella di Giraldo chiamato di Bornello, che è
quegli di cui favella Dante in questo luogo, e l'ultimo verso di ciascuna Stanza, della quale
di chi intese il Petrarca, quando nella rasse è il primo verso d'alcuna canzone di poeta
gna che egli fa de'poeti provenzali nel quarto nobile, elesse fra tutti gli altri il principio
Capitolo d'Amore, scrisse: d' una di quelle d'Arnaldo, il quale non re
cito, perciocchè, oltrachè non intendo la lin
E 'l vecchio Pier d'Alvernia con Giraldo (4). gua provenzale, credo che cotali parole, come
diceste voi poco fa, sieno scorrettamente scrit
La qual Vita io tradussi già in volgare fio
rentino, avendo animo di seguitare di tradurre te. Ma tornando a miei dubbi, il terzo è, per
chè voi non avete fatta menzione alcuna della
tutte l'altre; il che poi non mi venne fatto,
ancora chè sieno molto brevi, e l'ho in questo lingua toscana antica chiamata etrusca, nè d'al
scannello che voi qui vedete. cuna delle voci aramee; e pure so che sapete
C. Poichè elle sono si corte, e che l'avete che alcuni (5) de' vostri affermano indubitata
mcnte che l'antica scrittura etrusca fu la me
tanto a mano, non vi parrà fatica di recitar
lami. desima che l'aramea (6), e che la lingua ſio
V. Noi uscimmo troppo e troppe volte del rentina che si parla oggi, è composta d'etru
ragionamento nostro, pure a me non importa. sco antico, di greco, di latino, di tedesco, di
C. Egli importa bene a me, che così vengo franzese e di qualcuna altra simile a queste,
ad imparare più e diverse cose: però cavatela ma che il nerbo è arameo in tutto e per tut
fuora, e leggetela; che siate benedetto. to; e mediante queste cose pruovano certissi
V. Giraldo di Bornello fu di Lemosì, della mamente, secondo che essi affermano, la città
di Firenze e la favella fiorentina essere stata
contrada e paese di Caposaluello, d'un ricco
castello del Conte di Lemosi, e fu uomo di basso molte e molte centinaia d'anni innanzi a Roma
affare, ma letterato e di gran senno naturale, e alla lingua latina.
e fu il miglior poeta che nessuno altro di quelli V. Questo è il passo dove voi, secondo me,
che erano stati innanzi a lui, e che venissero
dipoi ; onde fu chiamato il maestro de' trovato (1) La Vita di questo poeta, scritta dal Nostradamo, è tra
ri, cioè de poeti, e così è ancora oggi tenuto da dotta dal Crescimbeni, e posta ne' Comentari all' ist. della
tutti quelli che intendono bene e sottilmente le Volg. Poes. p. 1, vol. 1 I, dove si legge che Giraldo sud
detto fu gentiluomo, e non di basso affare, come dice il MS.
del Varchi.
(1) Il Castelvetro, a c. 1o 1 non vuole che il Guinicelli (2) Dante, Purg. XXVI.
componesse in provenzale giammai. Ma forse in questo luogo (3) Petr. Trionfo d'Amore, cap. IV.
ci è errore di stampa, e il Varchi non disse provenzalmente, (4) Petr. Canz. XVII.
ma toscanamente, il che confronta più con tutto il senso di (5) V. il Gello di messer Pier Francesco Giambullari ;
questo luogo. e la Dissertazione sopra i Monumenti Etruschi aggiunti al
(2) Dante, Purg. XI. Demstero De Etruria Regali, la qual Dissertazione è opera
(3) Dante, Purg. XXVI. dell' eruditissimo signor Sen. Bonarroti al sì XL.
(1) Petr Trionf. d'Amor. cap. IV. (6) Cosi detta da Aram, ovvero Mesopotamia.
DIALOGO 369
volevate capitare: ma non vi verrà fatto, se C. Io sapeva benissimo che il Castelvetro lo
io non m'inganno, quello che per avventura riprendea, ma non so già come lo potrete di
pensavate. Dico dunque, rispondendo al vostro fender voi.
dubbio, che io non feci menzione della lingua V. Non v'ho io detto tante volte che l'in
etrusca, perchè io tengo per fermo che ella tendimento mio è difendere il Caro nelle cose
insieme coll'imperio d'Etruria fosse spenta dai sue proprie, cioè nella Canzone, non nel Com
Romani, o almeno molto innanzi che Firenze mento, il quale non è suo ?
s'edificasse, nè perciò niego che alcuna delle C. Che ne sapete voi? Egli è pure stampato
sotto 'l suo nome.
sue voci non potesse esser rimasa in qualche
luogo, a qualche terra o monte, o fiume, ma V. Io lo so da messere Annibale proprio, il
non tanto che possano far numero, non che quale non ho per uomo che dicesse di non
essere il nerbo della lingua fiorentina. aver fatto quello che egli fatto avesse; e chi
C. E alla parte dove affermano, la lingua di lo stampò sotto il suo nome, chiunque si fosse,
Firenze essere prima stata della romana, che fece errore, e meriteria piuttosto gastigo che
rispondete? -
biasimo. Dico ancora, quando bene quel Com
V. Avendovi io detto di sopra l'opinione mento fosse stato mille volte d'Annibale, po
mia sopra ciò, non ho che rispondervi altro. sciachè egli nella sua Apologia dice così chia
C. Le voci che essi per aramee o per chrai ramente che egli non è suo, che doveva ba
che adducono, credetele voi tali? star al Castelvetro, perchè quel Commento è
V. Già v'ho detto che d'alcune si può, e o suo, o no; se non è suo, come io credo, non
d'alcune si debbe credere di si, perchè Alle doveva il Castelvetro volerglielo attribuire a
luia, che significa lodato Dio (1), osanna, che ogni modo contra la verità e la voglia sua: se
vuol dire, salva ti priego, e Sabaoth, cioè eser è suo, il che non credo, qual maggior vittoria
cito (2), tutte e tre usate da Dante, e così poteva avere il Castelvetro, che sentire l'av
Amenne e alcune altre sono ebraiche, non ri versario suo ridirsi e mentire sè medesimo?
mase nella nostra lingua dagli Aramei, ma ve - C. Si, se gli altri l'avessero saputo.
mutevi, mediante la religione della Scrittura V. La verità ha tanta forza, che a lungo
Sarra; e come di queste non ho dubbio, così andare non può celarsi; poi a messer Lodo
mi pare esser certo che mezzo, nodo, annodo, vico doveva bastare di saperlo egli, che a cor
assillo, carbone, finestra, cateratte, caverne. gar gentile e generoso basta ben tanto. Non sa
rire per isgridare, e alcune altre che pongono pete voi, che se un soldato dice a uu altro:
per ebree, ovvero aramee, siano manifesta Tu hai detto che io son traditore; e colui nie
mente latine. ghi d'averlo detto, che sopra tal querela, o
C. E alle ragioni allegate da loro, che ri detto o non detto che l'abbia, non può com
spondete ? - battersi? Oltrache a me pare che chi n'avesse
V. Voi vorreste cavarmi di bocca qual cosa, voglia e non avesse altra faccenda, potrebbe
ma egli non vi riuscirà, dico che non mi pa così agevolmente quel Commento difendere,
jono buone. come la Canzone. - -

C. State fermo: Messer 'Annibale nella prima C. Così ho sentito dire da altri, ma difen
Stanza del suo Comento sopra la sua Canzone detelo un poco voi da quelle due cose, nelle
dice queste proprie parole: Ed oltre di questo, quali lo riprende il Castelvetro, cioè che phar
cºme a cosa segnata del tuo sacro nome: alla nes non sia ebreo e non significhi giglio.
dendo all' etimologia ebrea di questo vocabolo V. Io ho detto chi n'avesse voglia e non
Farnese, nella qual lingua dicono che significa avesse altro che fare; ora io per me non ne
giglio. Ecco che, per l'autorità del vostro Caro, ho voglia, e ho dell'altre occupazioni. Ma non
l'etimologie vagliono, e le parole toscane di vedete voi medesimo da voi stesso, che il com
scendono dall'ebree. mentatore di quella Canzone non afferma nes
V. Prima che io vi risponda, dovete sapere suna di quelle due cose, ma dice, dicono, e chi
che Messer Lodovico a carte 76, riprende il dice, dicono, non vuole che si creda a sè, ma
Caro, dicendo che Pharnes (3), che cosi lo si rimette alla verità e a coloro che sanno o
ºrive esso, non è vocabolo ebreo, nè significa possono sapere, mediante la cognizione di co
º lingua alcuna giglio, ma che in lingua assi tale lingua, se quello che egli dice, è vero
ºana o caldaica significa pastore (4). o no ?
C. Io conosco che voi dite bene, ma perché
(1) Significa Lodate Iddio, Allela essendo imperativo dalla il Castelvetro dice che ancora nella Canzone
radice ºri.
s' accenna cotale etimologia, credete voi in ve
; (2) Ani eserciti, avendo la terminazione del numero del più.
(3) La voce ebrea nuºv Scioscian, che significa Rosa, pure
rità, che pharnes significhi giglio in alcuna
lingua?
"vole si interpreta per Giglio, forse da vv scesce sei, quasi V. Io non vo' dire quello che io non so,
º “i foglie ci dºve i Vulgata nella Cantica, cap. II, avendo di sopra detto di credere che tutte le
" “ º ha: Ero flos campi, et lilium con allum – 2 Sicut parole in alcuna lingua possano significare al
un inter spinas; l testo ebreo si serve di questa voce.
sallo º la voce nº:lm Haazelet, che si legge in Isaia, cuna cosa; credo bene che pharnes siguifichi
! " Xxxv, v. 1, che la Vulgata pur traduce lilium ; ma pastore, per l'autorità addotta dal Castelvetro
i" la voce Pharnes ha nella lingua ebrea cotal signi del maestro Giacob ; non credo già che voi
crediate che messer Annibale creda che la no
º Parnas significa Massajo, Pro veditore presso gli Ebrei. bilissima Casa de Farncsi venisse di Giudea;
VARGHI v. 1. -
47
37o L' EliCOLANO

ma i poeti si servono d'ogni cosa, e dovunque che si favella, o favellava naturalmente; per
possono, vanno scherzando e tirando acqua al che la lingua nobile di Firenze, cioè quella
lor mulino; ma considerate un poco, che leg che si scriveva o si scrive, aveva ed ha per
giere cose sono queste, e se vi pare che me basa e fondamento, oltre la proprietà detta,
ritino d'esser tanto e così sottilmente conside molte parole e modi di favellare non pur la
rate, quasichè portino il pregio : io son certo tini, ma provenzali, e ancora d'altre lingue,
che messer Annibale senza farne parola con ma in ispezialità della greca e dell'ebraica.
fesserebbe, anzi ha di già confessato, che non C. Raccontatemene, vi prego, qualcuni.
intende la lingua nè assiriana, nè caldaica, e V. La lingua volgare ha gli articoli, i quali
perciò di questo non solo non vorrebbe con non ha la latina, ma sibbene la greca, i quali
tendere col Castelvetro, ma gli cederebbe quanto articoli sono di grandissima importanza, e ap
dicesse. parare non si possono, se non nelle culle, o
C. Dunque messer Annibale in questo si chia da coloro che nelle zane, cioè nelle cune, ap
merebbe vinto dal Castelvetro? parati gli hanno, perchè in molte cose sono
V. Chiamerebbesi, perchè no? e anche per diversi dagli articoli greci così prepositivi co
avventura gli direbbe, come dicono i fanciulli me suppositivi; e in alcuni luoghi, senza che
in Firenze: Abbimi un calcio. Ma entriamo a ragione nessuna assegnare se ne possa, se non
ragionare di cose che, se non altro, sopportino l'uso del parlare, non solo si possono, ma si
almeno la spesa. debbono porre: e in alcuni altri, per lo con
C. Qual tenete voi che sia il verbo prin trario non solo non si debbono, ma non si
cipale, cioè la base e il fondamento della lin possono usare; perchè dove i Greci gli met
gua fiorentina ? tono innanzi a tutti i nomi propri, o mascu
V. La lingua fiorentina o per essere ella stata lini o femminini che siano, i Toscani se non
l'ultima, cioè dopo l'ebrea, la greca e la la a femminini non gli mettono, perchè dicono
tina, o per grazia e favore de' cieli, non solo bene la Ginevra, e la Maria, ma non già il
ha parole, come s'è detto, ma alcuni modi Cesare o il Benedetto: e chi dicesse: Io miro
e maniere di favellare le quali si convengono Arno o Mugnone, senza articolo, direbbe be
e si confanno colle maniere, e modi di favel ne, ma non così chi dicesse: Io miro Tevere
lare di tutte e tre le lingue sopraddette; ma o Aniene, cioè Tebcrone; le quali differenze
ancora una certa peculiare, o speziale o par non conoscono tutte l' orecchie.
ticolare proprietà, come hanno tutte l'altre C. Le mie sono di quelle ; però arei caro
lingue, la quale è quella che io dico non po mi dichiaraste questa singolare proprietà, e il
tersi imparare, se non da coloro che son nati, modo di conoscere gli articoli e le altre cose
e allevati da piccioli in Firenze; e vi dirò necessarie a bene intendere la vostra lingua.
più oltre che questa proprietà natia è tale V. Troppo lunga sarebbe, e fuori del pro
che non solo ogni città, ogni castello, ogni posito nostro cotale materia, la quale è pro
borgo; il qual borgo (1) è parola de Tede. pria del grammatico; e sebbene mi ricordo
schi; e ogni villa l' ha diversa l'una dall'al averne già trattato lungamente nell'Accademia
tra, ma ancora ogni contrada, anzi ogni ca degli Infiammati di Padova, sono nondimeno
sa, e mi fareste dire, ciascuno uomo; sicchè tanti anni, che io non me ne ricordo più.
quando io ho detto o dirò che la lingua fio C. Seguitate dunque quelle proprietà le quali
rentina è propriamente quella che si favella avevate incominciato.
dentro le mura di Firenze, non vi mettendo, V. Così i Greci come i Latini diclinano i
non che altro, i sobborghi, non vi paja che nomi, o sostantivi o agghiettivi che siano, cioè
io la ristringa troppo. gli torcono e variano di caso in caso, altra
C. A me pare infin da ora, stando le cose mente profferendoli nel genitivo, e altramente
come voi dite, che piuttosto l'allarghiate; che nel dativo, e negli altri casi, perchè il nomi
ben so che in Bologna, mia carissima e ono nativo non è caso, e però tanto i Latini, quanto
ratissima patria, si favellava di due linguaggi; i Greci lo chiamavano retto, dove gli Italiani
per tacere dell'altre nelle quali si favellava non gli diclinano, ma gli muntano solamente
di più di tre. in quel modo che fanno gli Ebrei (1), dal sin
V. Ben dite; ma dovete ancora sapere che golare, chiamato il numero del meno, al plu
nessuna arte e nessuna scienza considera i rale, chiamato il numero del più, mediante
particolari, perciocchè essendo infiniti, non si gli articoli; perchè, come sapete, dicono nel
possono sapere: e certe minuzie parte non numero del meno il Monte, e in quello del
possiamo, e parte non dobbiamo curare ; e più i Monti, e così di tutti gli altri.
anche il proverbio dice, che chi tutto vuole C. E' par pure che mutino ancora gli arti
nulla ha , bastivi che quella proprietà natu coſi così nel numero singolare, come nel plu
rale di coloro che nascono in Firenze o nei rale; conciossiacosachè nel genitivo, chiamato
suoi contorni, ha forza maravigliosa, e si po il caso patrio ovvero paterno, perche significa
trebbe chiamare la basa propria, e il fonda ordinariamente possessione, si dice di o del ,
mento particolare della lingua di Firenze, in e nel dativo a o al, e così degli altri.
tendendo della lingua semplice, cioè di quella (1) Dalla lingua ebrea alla toscana vi è trall'altre questa
differenza, che l'ebrea non ha propriamente articoli: del resto,
(1) V. il Menagio alla voce Borgo nelle Origini Italiane, nella terminazione de' nomi, sono simili, perchè non la varia
che ne parla diffusamente ed eruditamente. no, se non passando dal numero singolare al plurale.
-
DIALOGO 37 i
V. Cotesti non sono articoli, ma si chiama il quale disse ancora (1): E per virtù molto
no segni dei casi. più che per nobiltà di sangue chiarissimo. E
C. Questa vostra lingua ha più regole, più come Cicerone mostrò che il comparativo pos
segreti e più ripostigli, che io non arei mai sto dopo il superlativo era di maggior forza,
pensato; ma tirate dietro al ragionamento vo dicendo: Scito, te mihi esse carissimum, sed
stro. multofore cariorem, così disse il Boccaccio (2)
V. Noi non avemo comparativi, eccettochè a quel ragguaglio: Pietro lietissimo, e l'Agno
quattro latini, migliore, peggiore ovvero pig lella più. E ben proprio de' Toscani porre
giore, maggiore e minore, ma in vece de'com dopo il superlativo un positivo, come usa as
parativi usiamo i nomi positivi, ponendo loro saissime volte il Boccaccio, dicendo (3): bel
dinanzi l'avverbio più , come più dotto, più lissima e vaga, santissima e buona, e altri tali
prudente e più savio, il che fanno ancora senza novero: e quello che i Latini non di
gli Ebrei (1); e mettiamo loro dopo non il cono, o radissime volte disse il Boccaccio : E
caso allativo, come facevano i Latini, ma il oltra ciò sii ottimo parlatore. E tuttochè ora
genitivo, a guisa de'Greci, dicendo: I Romani non mi sovvengano esempi d'autori approvati,
furono non solamente più forti, ma eziandio più nondimeno s'usa oggi di dire alla guisa dei
gravi di tutte l'altre nazioni. Greci e de Latini: Il tale è dottissimo di tutti
C. Cotesto mi pare piuttosto superlativo che gli eloquenti e eloquentissimo di tutti i dotti,
comparativo. C. Voi usaste di sopra il superlativo, po
V. E vero; ma non già a rovescio: I Fio nendogli innanzi l'avverbio molto, e io intesi
rentini sono più eloquenti che i Bergamaschi, già ch'avendo voi scritto: Al molto Illustris
e comparazione, ma non può esser superla simo ed Eccellentissimo signor Duca, ne foste
zione; ma : I Fiorentini sono più eloquenti di ripreso, e molti si fecero beffe de fatti vostri;
tutti i Lombardi è superlazione, ma può es fu egli vero?
sere ancora comparazione: e quel modo di V. Verissimo.
favellare, che noi usiamo tutto il dì: Dio vi C. Avevano ragione o torto? -

conceda quel bene che voi disiderate maggiore, o V. Questo è un dimandar l'oste se egli ha
il maggiore, è se non cavato da Greci, usato buon vino. Volete voi che io faccia come i
da loro; e quell'altro che noi diciamo: Que giudici di Padova, i quali per parer savi da
sta cosa è più manifesta che mestier faccia che vano contra sè stessi ?
se ne disputi, o come disse il Boccaccio (2): Per C. Egli ve ne fu ancora uno il quale, udite
ciocche egli è più giovane che per le leggi non è con ambe le parti separatamente, e parendogli che
ceduto, è così de' Greci come de'Latini: è ben ciascuna di loro avesse ragione, tenendosi bef
proprio de' volgari il dire alcune volte più mi fato da loro, diceva sgridandogli: « Levate.
gliore, o via peggiore, e così dire: Io farei per » mivi dinanzi, perchè avete ragione tutti e
te troppo maggiore cosa che questa non è, mo » due, e volete la beffa di me; o, sicchè di
do usato dal Boccaccio (3) infinite volte ; an chiaratevi. -

cora che i Latini usassero molto migliore e V. Quella locuzione non solamente è assai
molto peggiore. buona, ma eziandio molto ottima, cioè otti
C. La lingua volgare ha ella superlativi? missima, come si dice alcuna volta, perchè
V. Hagli; e gli usa variamente in quel mo non solamente i Greci e i Latini spessissime
do che facevano cosi i Greci come i Latini, volte l'usavano, per l' esempio de' quali non
perciocchè alcuna volta si pone il superlativo sarebbe disdetto l' usarla a noi, ma Giovanni
senza nessuno caso dopo se, come Il tale è Villani e tutti gli altri toscani antichi ne sono
dottissimo: alcuna volta colla preposizione tra; pieni, come vi posso mostrare in una lettera
come: Tra, ovvero fra tutte le donne la tale è scritta in quei tempi da me a questo effetto;
bellissima, e alcuna con, oltra, come il Boc e però di questo non dirò altro. Dirò bene
caccio (4): Fiorenza oltra ogni città bellissima, che i Toscani, in vece del superlativo, si ser
º talvolta, senza modo o fuori di misura, co vono molte volte a guisa degli Ebrei, i quali
ne si truova spesse volte nel Boccaccio (5), mancano de'superlativi, come fanno ancora i
Franzesi, del positivo raddoppiato, dicendo:
il tale è dotto dotto, cioè dottissimo, va tosto
- (1) Gli Ebrei usano la particella le min: prae, guam. tosto, o pian piano, cioè tostissimo, o pianissi
s. Marco, cap. 1X, v. 44. Bonum est tibi, claudum introire mente (4): benchè i Franzesi, come alcuna
"ºlam aeternam, quam duos pedes habentem mitti in gehen
º, cioè melius est, e molti altri luoghi della Vulgata, che
º pretti ebraismi. Si sono anche serviti per esprimere il dugio, ciò che il Re di Cappadocia domandava, ſece, cioè do
"se della particella TN) ioter, magis, ma barbara
mente.
lentissimo.
(1) Bocc. Nov. XLIX, 2.
(2) Bocc. Nov. XIII, 1o. (2) Bocc. Nov. XLIII, 21.
(º) Bocc. Nov. XV, 24. Presa una pietra, con troppi (3) Bocc. Nov. 111, 5. Era uno anello bellissimo e pre
: colpi
terra.
che prima, fieramente cominciò a percuotere la -a050.

(4) Tra le eccezioni non si dovea tacere che gli Ebrei


(i) Bocc. Introd. num. V. Nella egregia città di Fioren esprimono il superlativo in molti altri modi, cioè con aggiu
*, ºltre ad ogni altra italica, bellissima. guervi il nome d' Iddio nel secondo caso, come montes Dei,
(5) Bocc. Nov XXVIII, 3. Ferondo, uomo materiale cioè monti altissimi; e Salm. 79, v. 11, cedros Dei, cioè ce
º senza modo, cioè materialissimo e grossissimo. E di altissimi; o col ripetere lo stesso uome, ma nel secondo
Nov. XV 11, 43. Dolente fuor di misura, senza alcuno in
caso, e nel numero del più, come: Vanitas vanitatum, cioè le
372 L' ERCOLANO
volta i Greci, come si vede nel soprannome I servono in luogo del participio attivo o neutro
Trimegisto, triplicano, cioè pongono l' avver del tempo presente, o preterito imperfetto,
bio tre volte, dicendo in vece di dire, al gran come: Egli lo trovò dormendo, cioè mentre che
dissimo, al tre volte grande. Si scontrano an dormiva: Io mi feci male ruzzando, cioè men
cora (1) i Toscani cogli Ebrei in questo, che tre scherzava e altri infiniti.
non hanno, seguendo la natura, più che due C. E del gerundio in dum come fanno?
generi, cioè quello del maschio e quello della V. Servonsi in quello scambio del verbo,
femmina, dove così i Greci come i Latini perchè dove i Latini e i Greci ancora, ma av
hanno ancora il neutro, cioè un genere il verbialmente, dicono legendum est, o eundum
quale non è nè maschio, nè femmina. est, i volgari dicono: s'ha a leggere, o andare,
C. Come, non avete voi 'l neutro ? Non dite e quello che i Latini dicono, eo ad coenandum,
voi, che è quello, cioè che cosa è quella; e, i Toscani dicono, come i Greci, Io vo a cenare.
tieni a mente quello che io ti dico, cioè questa Usa ancora la lingua italiana concordare il nu
cosa, e altri somiglianti ? mero singolare col numero plurale, come fanno
V. Abbiamogli , ma basta che gli articoli gli Ebrei e i Greci ancora, e massimamente gli
nostri non sono se non mascolini e femminini, Ateniesi, all'idioma de quali è sinigliante la
dove i Greci hanno ancora il neutro; e i La lingua nostra, come la latina all'eolica.
tini (2) perchè mancano d'articolo, si servono C. Gli Ateniesi, per quanto mi par ricordare,
in quella vece del pronome dimostrativo hoc, fanno ciò solamente ne' nomi neutri, e voi,
diverso da hic masculino, e da harc femmini non avendo nomi neutri, non so come possiate
no, come to greco da o, e da 4. Manca an far questo a imitazione degli Ateniesi.
cora la lingua nostra de supini, come fanno V. Quello che voi dite, è vero negli ora
i Greci e gli Ebrei, ma si serve in quello tori, ma i poeti l' usano ancora ne' nomi che
scambio, come essi fanno, degl'infiniti, perchè neutri non sono. In qualunque modo, a noi
dove i Latini dicono: Eo emptum, i Toscani di non dà noia, perchè il Boccaccio disse: Già
cono, come i Greci e gli Ebrei: Io vo a com è molti anni (forse seguendo Dante) in luogo
perare, e così di tutti gli altri. di sono, e parmi mille anni, e le parve mille
C. Cotesti sono i supini in um, che signifi anni; e il Petrarca disse: -

cano azione; ma che dite voi di quelli che ſi Per bene star si scende molte miglia (1).
niscono in u, i quali significano passione?
V. Il medesimo; perchè quello che i Latini E in Firenze si dice a ogn' ora: E non è an
dicono, mirabile visu, o difficile dictu, i To cora venti ore, in luogo di sono.
scani dicono maraviglioso a vedere, o malage C. Io aveva sentito biasimare cotesti luoghi,
vole a dirsi, o come disse il Boccaccio (3), come scorretti o barbari, perchè non s'usa
gravi a comportare. vano nella lingua latina; come quell'altro che
C. Dove o perchè avete voi lasciato i gerundi? voi usate più che sovente, dimandando ad al
V. I Greci e gli Ebrei non hanno gerundi, cuno: Volete voi nulla? perchè profferendogli
e i Toscani n'hanno solamente uno, cioè quello niente, pare che lo beffiate; onde nacque il
che fornisce nella sillaba do, del quale si ser. Sonetto di messer Niccolò Franco, che co
mincia: -
vono molto più e più leggiadramente che non
fanno i Latini del loro, perchè non solo l'u- Tu mi dimandi sempre s' io vo' nulla,
sano in voce attiva e passiva, e colla preposi Come desideroso di dar nulla.
zione in, e senza come i Latini, ma ancora in Sia per sempre risposto: Io non vo' nulla;
questa guisa: Egli mi mandò dicendo, colui lo Che non mi manca, grazia di Dio, nulla (2).
mandò pregando, ovvero minacciando, e in al
tri cotali leggiadrissimi modi: e di più se ne e tutto quello che segue. -

V. Sappiate che nulla nel volgar fiorentino


più grandi vanità; Cantica canticorum, Coeli coelorum: i più vuol dire alcuna volta qual cosa, perchè due
eccellenti Cantici, i più elevati Cieli; e col porre due sinoni negazioni appresso noi non affermano, come
mi, l'uno in caso retto, e l'altro nel secondo caso, come ini appresso i Latini, ma niegano come appresso
quitas peccati, cioè la massima iniquità. i Greci e gli Ebraici ; e tanto è a dire in
(1) Il Marchese Maffei nel Ragionamento degl'Itali Pri
mitici, stampato dietro all'Istoria Diplomatica insieme colla fiorentino: E non v'è nessuno, quanto: E non
lettera di S. Gio. Grisostomo a Cesario, e cogli atti di al v'è alcuno, ovvero persona.
cuni Santi Martiri, crede che i Toscani vengano dagli Ebrei, C. Io per me non direi mai a uno: Datemi
e trall'altre conghietture porta questa, dicendo che la lingua nulla, quando volessi da lui qualche cosa.
toscana in molte cose devia dai modi della latina e della greca
e si conforma all'ebraica, onde pare potersi sospettare le pro (1) Petr. Canz. XXII, 4.
venissero dal genio dell' etrusca poco dall'ebraica diversa: ma (2) Questo è il Son. XCV di quelli di Luigi Pulci e di
questa osservazione fatta anche dal Giambullari non sussiste, messer Matteo Franco, e non Niccolo, come per fallo di me
perchè la lingua toscana nacque dopo che era del tutto spenta moria dice il Varchi. Egli è indirizzato da messer Matteo ad
lº etrusca, e ciò da molte centinaia d'anni, ne di essa si sapeva Alessandro di Papi degli Alessandri. Questa raccolta di So
piu nulla. netti è stampata, ma è rarissima; e vien citata dal Vocabol.
(2) La lingua latina non ha articoli, nè gli scrittori latini della Crusca sotto nome di Libro di Sonetti, senza nomi
si sono serviti di hic, haec, hoc per articoli, ma è una in narne gli autori, anzi come una Raccolta di vari autori MS.
venzione sciocca de' Gramatici. di Simon Berti, ma gli autori sono i soli due sopraddetti. E
(3) Il Bocc. nel Proemio del Decamerone disse: Forti a quando nella voce Carbonata cita un esempio di Luigi Pulci
sostenere. E Nov. XCV ll, 7. Essendomi oltremodo grave a Rim. e di questo medesimo libro di Sonetti, ed è il Souet
comportare. to CXLl.
DIALOGO 375
V. Nè io; perchè non istarebbe bene. vere sarebbe per avventura un'altra faccenda,
C. Se nulla significa qual cosa come voi e spezialmente se ne libri antichi si trovasse
dite, perchè non istà bene? cotal nome scritto senza la lettera h, onde si
V. Io non dico che nulla voglia significare potesse manifestamente conoscere, il favellare
semplicemente qual cosa, ma alcuna volta i di quei tempi averlo pronunziato senza aspi
come chi dimanda: hai tu nulla? o evvi nulla? raZlone.

vuol dire : Hai tu, o evvi qual cosa? e in tal C. E se i Lucchesi e i Pisani, e alcune al
caso il dimandato può rispondere, non avendo tre città pronunziassero Grechi e non Greci,
o non vi essendo niente : Nulla o nonnulla, a chi sarebbe a credere, o a Fiorentini soli,
come più gli pare. E quando il Petrarca disse: o a tante altre città così di Toscana, come
fuori ? - -

Che ben può nulla, chi non può morire (1): V. A Fiorentini; presupposto esser vero
poteva dire può nonnulla, o non può nulla, e quello che niuno niega, cioè la lingua fioren
quando disse: -
tina esser più bella di tutte l'altre italiane.
C. E perchè questo? - e,

Nulla è al mondo, in ch'uom saggio si fide (2); V. Perchè in ogni genere debbe essere, sc
poteva dire: Nulla non è al mondo: e sappiate condochè ne insegna Aristotile, una cosa pri
che fiorentinamente non si direbbe con una ma e più degna, la quale sia la misura, e 'l
negativa sola: Io ne farò nulla, ma con due: paragone di tutte le cose che sono sotto quel
Io non ne farò nulla: e io non ho a far nulla, genere: ora, se tutti s'accordano che il vol
cioè cosa del mondo, con esso teco. E se al gar fiorentino sia più degno e più regolato di
cuno volendo significare d'essere scioperato, tutti gli altri, certa cosa, che a lui si debbe
dicesse: Io ho che far nulla, in luogo di dire: ricorrere. E come si potrebbe, o donde aver
io non ho che far nulla, o veramente covelle, mai, oltra infinite altre cose, se egli si debbe
sarebbe in Firenze o non inteso o uccellato. profferire, e per conseguenza scrivere, mona
C. E da chi s' hanno a imparare così mi ci o monachi, cherici, o cherichi, canonici o
nute, e sottili differenze e nondimeno neces canonichi, e altri mille, se non si ricorresse
sarie ? alla pronunzia fiorentina ? Ognuno pronunzia
V. Da legnajuoli, se non volete da setajuoli nel numero del meno: io odo, tu odi, e in
o lanajuoli di Firenze; e vi sono di quelle che quello del più noi udimo, ovvero udiamo, voi
niuno può insegnarle, se non un lungo uso, e udite, ma ognuno non sa perchè l'o si muti
una continua pratica, perchè o non vi sono in u; similmente ciascuno pronunzia nel sin
regole, o non vi si sono trovate ancora. golare: io esco, tu esci, e nel plurale, noi usci
C. Ditene uno esempio. mo, ovvero usciamo, von uscite, ma non cia
V. Perchè si scrive il numero plurale di scuno sa la cagione perchè ciò si faccia, e per
questo nome cieco, aspirato, cioè colla lettera chè nella terza non si dice: udono ma odono,
h, e il plurale di questo nome greco, si scrive e non uscono ma escono. Buono, quando è po
tenue, cioè senza aspirazione? sitivo, si scrive per u liquida innanzi l'o; ma
-

C. Io per me non so, se si debba profferire quando è superlativo non si può e non si dee
con senza aspirazione, o veramente Grechi, nè profferire, ne scrivere buonissimo, come
Greciella. - i -
fanno molti forestieri (1), ma bisogna per
V. Greci senza essa. forza scrivere e pronunziare bonissimo sen
C. Per qual ragione? za la u liquida. Restanci solamente gli affissi,
V. Perchè in Firenze è una via la quale si i quali non ha nè la lingua greca nè la latina,
chiama da tutti il Borgo de' Greci (3) senza h, ma sì l'ebraica, ma (per quanto posso giudi
non de' Grechi coll' h. care io), non si compiutamente, nè tanto leg
C. E non avete alcuna ragione migliore di giadramente, come noi. Ma perchè la materia
cotesta ? degli affissi, quanto e bella e necessaria a sa
V. Nessuna altra, non che migliore; ma persi, tanto è lunga e malagevole a insegnarsi,
sappiate, che niuna può essere migliore di fia bene lasciarla andare; e tanto più che ella
questa. -
a chi insegna le lingue, e non a chi tratta
C. O perchè ? delle lingue, s'appartiene; onde conchiudendo
V. Perche le lingue consistono, come s' è dico, che la lingua volgare sebbene ha di molti
detto, nell'uso di chi le favella. vocaboli e di molte locuzioni d'altri idiomi,
C. Or se in Firenze si cominciasse a dire il è però composta principalmente della lingua
contrario, non Greci, ma Grechi, come ande latina, e secondariamante della provenzale.
rebbe la bisogna ? C. Voi m'avete innamorato, come si dice,
V. Arebbesi a dir Grechi e non Greci, e e poi ve ne volete andare ; io non l'intendo
COS 1,
massimamente nel favellare; che nello scri
V. A voi sta il proporre; dimandate di quello
(1) Petr. Son. CXIX.
che più vi aggrada e io vi risponderò.
(2) Petr. Cauz. I V, 7
(3) Questa contrada e nominata dal Bocc. nella Nov. LX, (1) Il Vocabolario della Crusca sembra d'altra opinione,
18, e da Gio. Villani, lib. I V, cap. X11, il quale dice, che avendo accettata la voce Buonissimo coll'autorità del Bembo.
quivi erano le case appartenenti alla tangla dei Greci, fino « Nell'ultima edizione però si trova Bonissimo coll'autorità
da quei tempi spenta in F neuze. , stessa, non già buonissimo p. -
374 L' ERCOLANO -

C. Che cosa sono aſſissi ? C. I primi sei paiono piuttosto articoli che
V. Aſfissi si chiamano certe particelle le quali pronomi.
s'affiggono, cioè si congiungono nel fine delle V. È vero; e così sono chiamati da alcuni,
dizioni in guisa che della dizione, e di loro perche anco appresso i Greci gli articoli pre
si fa una parola sola sotto uno accento mede positivi si pongono per li pospositivi; ma que
simo, come dammi, cioè dà a me, dillomi, o sto non importa; basta che noi c'intendiamo.
o dilmi, cioè dillo a me, darottelo, o darolloti, C. Dichiaratemi i primi sei o pronomi, o
o darolti per sincopa, cioè te lo darò, o lo ti articoli, o prepositivi, o pospositivi che chia
darò, e più volgarmente, lo darò a te; e altri mare si debbiano a uno a uno.
di cotale maniera. V. La prima cosa, voi dovete sapere ehe
C. Quanti sono questi affissi, ovvero quelle questa particella la si trova come tutte l'altre
particelle che si chiamano, o che producono undici, posta in due modi, o innanzi al verbo,
gli affissi ? come io la vidi, o dopo il verbo, come vidila,
V. Diciotto appunto. cioè vidi lei. Nel primo modo non si possono
C. Quali sono? chiamare veramente affissi , come quelli del
V. Mo, ma; to, ta; so, sa; la, le; li lo; il, secondo, ma impropriamente; ora io vi dirò
le, mi, ti, si, vi, ci, ne. che questo aſfisso la, o articolo, o pronome
C. Come si dividono queste diciotto parti che lo vogliate chiamare, o innanzi, o dopo
celle, che noi chiameremo per più brevità e il verbo che egli sia, mai non si truova se non
agevolezza affissi? nel genere femminino significante o lei, o
V. In due parti principalmente, perchè al quella, secondo la cosa che egli referisce, e
cune d'esse s'affiggono solamente a nomi, e nel numero singolare, e nell'accusativo, come
alcune solamente a verbi. la vidi o vidila, cioè vidi lei, o quella cosa
C. Quante, e quali sono quelle che s'affig che va innanzi, ed è riferita da lui; onde il
gono solamente a nomi? Petrarca, parlando di Madonna Laura, disse:
V. Le prime sei, le quali si possono chia
Poi la rividi in altro abito sola,
mare pronomi possessivi, cioe mo, ma; to ta;
so, sa; che in somma non voglion dire altro Tal ch'io non la conobbi, ec. (1);
che mio, mia; o tuo, tua ; suo, sua. E il medesimo Petrarca nella medesima Can
C. In che modo s'aſfiggono elleno ?
zone grande :
V. Dicesi, fratelmo, in vece di dire fratel
mio: sirocchiama, o mogliema, in luogo di si E se qui la memoria non m'aita,
rocchia mia, o moglie mia: fratello e fi Come suol fare, scusinla i martiri (2).
gliuolto, in iscambio di fratel tuo e figliuolo e altrove:
tuo: sirocchiata, per sirocchia tua, signorto,
signor tuo, e signorso, che disse Dante (1), Della tua mente amor, che prima aprilla (3).
cioè signor suo: ziesa, che vale sua zia.
C. Direbbesi, a questo ragguaglio, sorellama, La seconda particella le, è anch'ella sempre
o sorellata ? di genere femminile, ma si truova così nel nu
V. Se la proporzione valesse, si ; ma io vi mero del più, come in quello del meno; in
ho detto di sopra che l'analogia vale quanto quello del meno non si truova in altro caso
ella può e non più, e brevemente è nata dal che nel dativo, o innanzi al verbo o dopo il
l' uso, e l' uso è il padre e il maestro e il verbo, che ella si trovi; come io le diedi, ov
padrone delle lingue; e perchè in Firenze non vero diedile, cioè diedi a lei, o veramente a
si dice nel favellare, e gli scrittori non hanno quella cosa che è ita innanzi. Il Petrarca:
detto, che sappia io ne sorellama, nè sorellata, Anzi le dissi 'l ver pien di paura (4).
l'analogia non ha tanta forza, che ella possa
senza l'uso introdurre simili vocaboli. Il medesimo:
C. Truovansene più di cotesti otto?
V. A mala pena si truovano questi, perchè E un pensier che solo angoscia dalle (5).
l'ultimo non è di città, ma di contado; è ben Dove 'l primo le significa a lei, ed è preposto
vero che in alcuni luoghi d'Italia si dice ma al verbo, e riferisce Madonna Laura ; e il se
trema e forse patremo, e altri così fatti, i quali condo posposto al verbo, significa da a lei, e
non essendo fiorentini, e per lo più parlare referisce la mente del Petrarca. Ma nel nu
di volgo, non vi conforterei a usargli. mero del più non si truova se non nell'accu
C. Quanti e quali sono quelli che s'affig sativo, o innanzi o dopo il verbo che ella sia;
gono solamente a verbi ? come io le vidi o veramente, vidile, intendende
V. Tutti gli altri dodici, i quali divideremo di donne o d'altre cose che precedono; onde
in due parti, ne' primi sei, cioè la, le, li, lo, il Boccaccio (6) : Pirro. . . . cominciò a sittar
it, le un'altra volta, i quali chiameremo pro
nomi relativi ; e ne secondi sei, cioè mi, ti,
si, ci, vi, ne, i quali chiameremo pronomi pri (1) Petr. Canz. IV, 4.
mitivi. (2) Petr. Canz. IV, 1.
(3) Petr. Canz. XIV, 4.
(1) Dante, Inf. XXIX. (4) Petr. Cauz. IV, 4.
E non vidi giammai menare stregghia (5) Petr. Canz. IV, 1.
A ragazzo aspettato da Signorso. (6, Bocc. Nov. LX1X, 23.
-

DIALOGO
375
giù delle pere, e mentre le gittava ec. E il Pe reverendissimo Bembo, e prima da Benvenuto
trarca :
da Imola sopra Dante, in quello stesso luogo.
Alle lagrime triste allargai 'l freno, Ho detto, quasi sempre, perchè si ritruova al
E lasciale cader come a lor parve (1). cuna volta ancora nel dativo, come quando il
Boccaccio disse (1): D'ogni quantità che il Sa
E Dante nel dodicesimo dell'Inferno: ladino il richiese, lo servì, e il Saladino poi in
Laonde morte prima dipartitle (2), teramente lo soddisfece. Nonostantechè alcuni
vogliano che ancora in questo luogo lo sia
cioè diparti quelle. La terza particella li, o non dativo, ma quarto caso. La quinta par
piuttosto gli, non si truova se non nel genere ticella il non si truova se non nel genere del
del maschio, così nel numero picciolo come maschio, nel numero del meno, e nell' accu
nel grande; nel numero picciolo non si trova sativo, e quasi sempre preposta al verbo. Il
se non nel dativo, o innanzi il verbo o dopo, Petrarca:
come gli diede o diedegli, cioè diede a lui.
Petrarca: Cieco non già, ma faretrato il veggo (2).
e altrove:
Però al mio parer non gli fu onore (3).
E altrove: Amor per sua natura il fa restio (3).
Cotanto l'esser vinto gli dispiacque (4). E quando la lettera la quale precede il è vo
cale, in tal caso si leva la vocale i, e vi si
Nel numero grande non si truova se non nel pone in quella vece l'apostrofo di sopra. Pe
l'accusativo, come gli vidi o vidigli. Petrarca: trarca:

Poi ch' io gli vidi in prima (5). S'io 'l dissi mai, ec. (4).
C. E' mi par pur ricordare d'aver letto non Ho detto preposta al verbo quasi sempre, e non
che sentito favellare, un modo così fatto: Io assolutamente, perchè alcuni vogliono che si
gli mostrai o mostragli, in vece di mostrai loro. possa ancora posporre, come: dissil, cioè dis
V. Cotesto è fuori della lingua; e quando silo io; ma in cotale esempio si può dire che
Dante disse: vi sia piuttosto la particella lo priva della sua
vocale, che la il, levata la i. Della sesta e ul
E mentre che di là per me si stette, tima particella de'sei articoli, ovvero pronomi
Io gli sovvenni (6); relativi, la quale è posta anco nel secondo
luogo, favelleremo, parlato che arò delle sei
quello gli , che significa i Cristiani, è accusa
tivo, sebben pare che sia dativo, e ancora, particelle ultime, cioè mi, ti, si, vi, ci, ne, le
quanto alla grammatica, potrebbe essere. La quali sono, siccome i pronomi, donde clle di
rivano, d' amendue i generi, cioè del maschio
quarta particella lo è sempre di genere ma
schile, e non si truova nel numero maggiore, e della femmina, secondo la persona che fa
vella o preposte, o posposte che siano al ver
ma sempre nel minore, e quasi sempre nell'ac
cusativo, come: io lo vidi o vidilo, cioè vidi bo. Dico pertanto che la mi non si truova se
non nel numero singolare, come anco la ti,
lui o quello. Petrarca: sua compagna; e solamente in due casi nel da
Pigro da sè, ma 'l gran piacer lo sprona (7). tivo e nell'accusativo; nel dativo significa a
e altrove: me, come mi diede o diedemi. Il Petrarca :
Nè mi vale spronarlo, o dargli volta (5).
Sasselo Amor, con cui spesso ne parlo (8).
E altrove:
E Dante: -

Piovonmi amare lagrime dal viso (6).


E dolcemente sì, che parli, accolo (9), in luogo di piovonomi, cioè piovono a me;
cioè accogli lui (io), come bene fu dichiarato dal onde alcuni lo scrivono colla lettera n , e al
cuni con due m, come ancora sommi accorto,
cioe mi sono accorto, nel singolare, e
(1) Petr. Cauz. IV, 6.
(2) Dante, Inf. V e non XII come notò il Castelvetro, Sommi i begli occhi vostri Euterpe e Clio,
e il verso dice:
Ch'amor di nostra vita dispartille. cendo: Si che parli a colo, cioè con quella distinzione che
(3) Petr. Son. 11 I. -
costante, nella quale è perfetta sentenzia, e puntasi con quello
(4) Petr. Son. XCII. punto che si chiama colo; sicchè parlare a colo e parlare con
(5) Petr. Canz. XX, 4. perfezione di parole, e di sentenzie. Ora si osservi, quanto uno
(6) Dante, Purg. XXII. -
si possa fidare delle altrui citazioni, e quanto poco oculato, per
(7) Petr. Canz. XVI 11, 1. non dir altro, fosse il Castelvetro. E ben vero che Benvenuto
(8) Petr. Canz. XLV, 3. l'espone come il Bembo, e secondo la vera intelligenza
(9) Dante, Purg. XIV. (1) Bocc. Nov. Il l in fine, dove però secondo il Man
(1o) Il Bembo nel lib. 111 delle Prose, part. LXXIII spiega nelli, e le buone stampe, si legge: il servi, e il soddisfece.
cosi questo passo, e il Castelvetro nelle Giunte sopra questo (2) Petr. Son. CXVII I.
luogo vuole che il Bembo apprendesse questa spiegazione da (3) Petr. Son. V1.
Giovanni Stefano eremita da Ferrara; e che in tal forma
(4) Petr. Canz. XXXIV, 1.
fosse questo verso esposto da Francesco da Buti, e da Benve
(5) Petr Son. VI.
uuto da Imola. Ma il Buti l'espone molto diversamente di
(6) Petr. Son. XV.
376 L' ERCOLANO
nel plurale, cioè, sono a me; il che si scrive Il cante la persona che favella ; perchè si dice:
medesimamente da alcuni per n, e da alcuni
Stavami un giorno solo alla finestra (1),
-

per due m. Ove è da notare, che il mi in


sommi accorto, sebbene è affisso, cioè congiunto e non io stavami, come si dice io stava , o io
col verbo, non perciò è ne dativo, nè accusa mi stava; come il Petrarca:
tivo, nè altro caso, onde non significa nè a
Io mi vivea di mia sorte contento (2):
me, nè me, ma è posto dopo il verbo quello
che ordinariamente si suol porre dinanzi, per e quando pure porre vi si dovesse, piuttosto
si direbbe stavami io, che io stavami; onde il
che tanto è a dire sommi accorto, quanto io Petrarca:
mi sono accorto, tempo preterito perfetto del
verbo io m'accorgo : la qual cosa non si può Qual mi feci io, quando primier m'accorsi (3),
bene intendere da chi, non sa che i verbi nella C non qual fecimi io. Ma, per tornare donde
lingua italiana si diclinano semplicemente, cioè
senza avere alcuna particella dinanzi a loro, partii, mi significa alcuna volta me, nel quarto
come io leggo, io scrivo, e alcuni hanno ne. caso, come mi tenne o tennemi, cioè tenne me.
Dante :
cessariamente innanzi a se nella prima perso
ma del singolare mi , nella seconda ti, e nella Fecemi la divina potestate (4):
terza si, come io mi dolgo, tu ti duoli, colui
si duole; e questi (i) hanno necessariamente cioè fece me; e il Petrarca:
nel plurale nella prima persona ci, nella se. . . . . . Fecemi, oimè lasso,
conda vi, e nella terza si, come noi ci lagna D'uom, quasi vivo, e sbigottito sasso (5):
mo, voi vi lagnate, e coloro si lagnano. E cia
e il medesimo :
scuna di queste come si pongono ordinaria
mente innanzi a verbi, così, quando ad altri Gitami stanco sopra l'erba un giorno (6):
piace, si possono porre dopo, come dolgomi,
duolti, per sincope da duoliti, e duolsi, lagna cioè gittai me (7); benchè in questo luogo sarà
moci, lagnatevi, lagnansi, le quali cinque par per avventura, migliore sposizione mi gittai;
ticelle collane, della quale si favellerà poco perchè nel significato nel quale lo piglia qui
appresso, poste in cotali modi, sebbene sono il Petrarca, non si dice io getto, ma io mi get
affisse a verbi, e vanno sotto un medesimo to, e così non sarebbe aſfisso, e se pur fosse,
accento, non sono però d'alcun caso, nè si sarebbe di quelli senza caso o persona; ma que
gnificano persona nessuna, onde non si pos sto poco importa. Quello che voi avete a no
sono chiamare veramente aſfissi. Alcuni altri tare, è che ogni volta che il mi è veramente
verbi sono in quel mezzo, cioé possono avere, aſfisso, cioe congiunto dietro al verbo, e va
e non avere la particella mi, secondochè a co sotto un medesimo accento con esso lui, i
lui che favella, o che scrive, torna meglio; poeti mutano, quando bene loro torna, la vo
perciocchè tanto viene a dire io vivo, quanto cale i in e, e dicono non parmi, ma parme,
io mi vivo, o veramente vivomi, sebbene que non valmi, ma valme, e cosi degli altri, come
sto ultimo ha una certa maggiore non so se si può vedere in quel sonetto:
forza o vaghezza; onde il Petrarca disse:
L'aura serena che fra verdi fronde
Vorremi a miglior tempo essere accorto (a), Mormorando a ferir nel volto vienme,
Fammi risovvenir quando Amor diemme (8);
poteva anco dire, quanto al modo del favel
lare, ma non già quanto alla leggiadria : c altrove:

Vorrei a miglior tempo essermi accorto. Che scrivendo d'altrui, di me non calme (9),
E così quando disse: cioè non mi cale, o non cale a me. Avete an
cora da notare che, come n'avvertisce il re
Vivrommi un tempo omai, che al viver mio (3) »

poteva dire vivrò, o mi vivrò; e quando il Bem (1) Petr. Canz. XLII, 1.
bo scrisse: -
Standomi un giorno solo alla finestra;
che cosi scrisse il Petrarca.
(2) Petr. Son. CXCV.
Morrommi, e tu dirai, mia fine udita, (3) Petr. Canz. IV, 3.
(4) Dante, inf. Il 1. a
scrivendo a nesser Bernardo Capello, poteva dire
quanto alla grammatica, mi morrò, o io morrò, ma (5) Petr. Canz. IV, 4 nell'edizione del Rovilio del 1574
si legge: -

non già quanto alla grazia. Voglio inferire che D'un quasi viro e sbigottito sasso.
cotali particelle, in cotali modi poste, non sono (6) Petr. Canz. I V, 6.
veramente affissi, e se pur sono casi, nè signi (7) Il Castelvetro a c. 1 o7 delle Correzioni dice, che nel
ficano persone, onde non mai, o radissime verso del Petrarca sopra addotto: Qual mi feci io, e in que
volte si pone loro dinanzi il pronome signifi sto, il mi è quarto caso, e che ne il Varchi, ne altri saprà
mai dire il perche e' non sia. Ma il Varchi il fa quarto caso
soggiugnendo, cioe gittai me, bensi crede poi, che sia meglio
(1) Questi verbi si chiamano neutri passivi nel Vocaboi. esporlo per affiso, e dice qui la sua ragione, che il Castelve
della Crisca. tro poteva aver veduto se non si fosse posto tanto a solisticare.
(2) Petr. Son. LXV 11. (8) Petr. Son. CLXi i 1.
(3) Petr. Sou. XXXIX. (9) Petr. Canz XX XIX, 5.
DIALOGO 77

verendissimo Bembo (1), egli non si può al vedere, il verbo essere passivo, e ciò tanto
cuna volta usare gli aſfissi, ancorachè altri vo nel numero del meno, quanto in quello del
lesse, ma è necessario che si pongano i pro più, come: Il cielo si muove (1), ovvero, muo
nomi interi, e co' loro accenti propri; e ciò vesi, e le virtù si lodano, ovvero, lodansi ; è
avviene ogni volta che egli si debbe rispon ben vero che nel numero singulare la si di
dere segnatamente ad alcuno pronome o pre venta talvolta appresso i poeti se, ma non già
cedente, o susseguente, come quando il Pc nel plurale. Il Petrarca:
trarca disse:
De'qua'duo' tal romor nel mondo ſasse (2);
Ferir me di saetta in quello stato,
in vece di fassi. Alcuna volta significa il verbo
E a voi armata non mostrar pur l'arco (2); essere impersonale, come a chi dimandasse:
dove non poteva dire ferirmi aſfissamente, e Che si fa? si rispondesse, godesi, cantasi, e al
con uno accento solo, per cagione di quel tri tali; gli esempi sono tanto spessi, così appo
pronome a voi, a cui rispondere si doveva; i prosatori, come i rimatori, che non occorre
similmente quando disse: allegarne ; oltrachè la si in nessuno di questi
quattro modi è veramente aſfisso, perchè non
Gli occhi e la fronte con sembiante umano riferisce nè casi, nè persone; ma quando que
Baciolle sì, che rallegrò ciascuna, sta si riferisce il pronome se, il quale pronome
Me erapiè d'invidia l'atto dolce e strano (3), non ha nominativo, allora è veramente affisso,
non poteva dire coll'aſfisso mi empiè, o en come chi dicesse: se il tale si dà, o dassi a
piemmi, come manifestamente si conosce. La credere d'essere amato, cioè dà a credere a se ;
particella ti non è differente in cosa nessuna o veramente: il tale si loda, o lodasi, cioè loda
dalla mi, perchè così si dice ti die, o diedeti, sè; e nel numero del più : coloro s'attribui
come ti fece, o feceti, cioè, diede a te, o fece scono, o attribuisconsi più del dovere, cioè at
te, salvo che la ti da poeti antichi non si trova tribuiscono a sè medesimi; il che si dice an
mutata in te, come la mi in me, perchè non si cora a loro stessi. Noterete ancora che i poeti
dice consolarte e confortarte, come consolarme ogni volta che torni bene alla rima, mutano
e confortarme; ho detto negli antichi, perchè la si in se, e dicono, in luogo di celebrarsi, ce
lebrarse. Il Petrarca:
ne moderni si truova altramente; e il Bembo
stesso (4), che dà questa regola, e si maravi
glia che concedendosi il dire onorarme, non
E per farne vendetta o per celarse (3).
si conceda per l'analogia dire onorarte, nono Il medesimo:
stante che l'affermi per buona, usò nondime
Che nostra vista in lui non può fermarse (4).
no il contrario, quando nel Madrigale che co
Illlncia: E questo si dee intendere sempre nel numero
Che ti val saettarmi, s'io già ſore, del meno, e non mai in quello del più, il quale
finisce sempre, come s'è detto, in i. Il Petrarca
disse: - ne Trionfi :

Amor ferendo in guisa a parte a parte, Non con attro romor di petto dansi
Che loco a nuova piaga non può darte: Duo leon feri, o due folgori ardenti,
Ch'a cielo e terra, e mar dar luogo fansi (5).
e nel vero darte, dirte, farte, e gli altri tali
hanno un non so che, se non più leggiadro, Cioè si fanno o fanno a o sè o a loro; nè vi
meno volgare; e usando cotale locuzione il maravigliate che io vada così minutamente e
Bembo, che fu sì mondo e schifo poeta, non particolarmente distendendomi, perchè la ma
so chi debba o peritarsi, o sdegnarsi d'usarla. teria degli affissi, come vi dissi nel principio, è
La particella si, oltra l'altre molte e diverse non meno utile, che difficile. E, per tacere
significazioni sue, si piglia nel proponimento degli altri minori, messer Jacopo Sanazzaro,
nostro, cioè quando è congiunta a verbi in uomo di tanto ingegno, dottrina e giudizio, si
quattro modi: perché alcuna volta non opera lasciò alcuna volta o sforzato dalle rime sdruc
cosa nessuna, ed è non altramenteche se ella ciole, le quali nel vero sono malagevolissime,
non vi fosse, come chi dimandasse alcuno: Che o per altra cagione, trasportare troppo nella
fa il tale? e colui gli rispondesse vivesi, che
tanto è, quanto vive, perchè il verbo vivo è
(1) Negli esempli qui addotti dal Varchi la particella si
uno di quelli, il quale può mancare della par non dà a divedere, il verbo esser passivo, ma neutro passivo.
ticella mi, dicendosi nel medesimo significato A volere che fosse passivo, ci anderebbe il nome che fa l'a-
appunto, io vivo, e io mi vivo ; alcuna volta zione, in sesto caso; come: Il cielo, secondo Aristotile, dal
dimostra, quel verbo esser tale che non può l'intelligenze si muove; perchè quando il Petr. Son. XIV,
disse:
stare senza essa, come: Che fa il tale? Stassi, Muovesi 'l vecchierel canuto e bianco.
cioè si sta; che in questo caso non basterebbe
dire sta semplicemente; alcuna volta dà a di Quel muovesi, o si muove, non è passivo, ma neutro passivo.
Nel secondo esempio: le virtù si lodano, si può meglio salvare
il Varchi con dire che il sesto caso vi si sottintende.
(1) Bembo, Prose, lib. III, part. XXVII. (2) Petr. Son. CLXXXIX.
(2) Petr. Son. Il I. - (3) Petr. Canz. IV, 8.
(3) Petr. Son. CCI. (4) Petr. Canz. XLIV, 7.
(4) Bembo, Prose. lib. III, part. XXVII, (5) Pelr. nel Trionfo della Castilà, 48
U
VARCHI V, 1.
L' LiiCOLANO
378
sua Arcadia, e quando trall'altre disse una E alcuna volta, a luogo. Il medesimo:
volta:
Ch'io vi aggiugneva col pensiero a pena (1).
Due tortorelle vidi il nido farnosi (1), Ne' quai luoghi vi non è propriamente affisso,
non so vedere in che modo egli cotale aſfisso non significando ne casi, nè persone; onde
si componesse: e più per discrezione intendo sebbene si dice starvi e andarvi, cioè in quello
quello che significar voglia, che per regola. e a quel luogo, non però si direbbe starve o
Ma, tornando al ragionar nostro, restanci que andarve, se non molto licenziosamente, come
ste due particelle ci e vi, le quali sono del si potrebbe dire, se fossero veri aſfissi, per
numero del più, e si pongono così per lo da quello esempio del Petrarca:
tivo, come per l'accusativo e non hanno tra Donne mie, lungo fora a raccontarve (2).
loro altra differenza, se non che ci, più de'pro
satori che de poeti, è prima persona, e signi Ne vi prenda maraviglia, se troverete qualche
fica o a noi nel terzo caso, o, noi nel quarto; volta alcuna di queste monosillabe, per così chia
e vi è seconda, e significa o a voi, o voi. Il marle, la quale vi paja stare oziosamente, e di
Petrarca : soverchio, perciocchè la proprietà del parlare
fiorentino porta cosi; e se elleno, quanto al sen
Con lei ſuss'io da che si parte il sole, timento appartiene, non operano alcuna cosa,
E non ci vedesse altri che le stelle (2). operano nondimeno quanto alla vaghezza e alla
E il Boccaccio disse: Egli non sarà alcuno che leggiadria. Restaci la particella ne, la quale
veggendoci, non ci faccia luogo e lascici anda molte e molto diverse cose significa, e di cui,
re (3). Nelle quali parole il primo e l'ultimo chi bene servire e valere se ne sa, può gran
ci significano noi, e il ci del mezzo a noi, e demente arricchirne e illustrarne i componi
bisogna che voi guardiate a non iscambiare, mcnti suoi così di verso, come di prosa; onde
come hanno fatto molti, perchè ci significa al a me non parrà fatica l'aprirvela e quasi snoc
cuna volta qui, come là : ciolarlavi più brevemente che saperrò ; e tanto
più che il Castelvetro, per lo non intendere,
Qui dove mezzo son, Sennuccio mio, secondochè io stimo, la proprietà di lei, la
Così ci fussi io intero e voi contento (4). quale egli chiama vicenone disaccentato (3), ne
E alcuna volta dimostra il verbo a cui ella e so io perchè (conciossiache niuna sillaba, non
che dizione, possa trovarsi, nè profferirsi senza
posta innanzi, essere di quelli che si declinano accento, sebbene non tuttavia le si segna di
con la mi innanzi (5), come quando il Boo sopra) non solo riprende il Caro due volte a
caccio disse: Noi ci siamo avveduti ch'ella oggi
carte 46 e 47 di quello in che egli merita (4)
di tiene la cotale maniera (6); perchè non si loda, non riprensione, ma ancora sc ne fa bef
dice mai, io avveggo senza mi, ma sempre, io
fe, dicendo che per guardare e riguardare fis
m'aveggo, con essa. Vi, quando e terzo caso, samente ch'uomo faccia, non troverà mai
e' significa a voi. Dante:
altra gravidezza di sentimento nella particella
E io vi giuro, se di sopra si vada (7). ne, che quello che ha dato egli: e lo vuole
di più mostrare fagnone (5), soggiungnendo :
Quando è quarto, e' significa voi. Il medesimo: Quantunque il Caro faccia vista di credere al
Tra color non vogliate ch'io vi guidi (8); tramente, le quali cose quanto siano false, da
quelle che io dirò, potrete chiaramente com
E il Petrarca: prendere. Avete dunque a sapere che questa
particella o monosillaba ne, si pronunzia e si
Certo se vi rimembra di Narcisso (9). scrive alcuna volta coll' e aperto, e dicesi nè,
n medesimo: e alcuna volta coll'e chiuso, e dicesi ne; quan
do ella si scrive e pronunzia coll'e aperto,
Nel bel viso di quella che v'ha morti (io). ella e avverbio di negazione e significa pro
Ma bisogna che avvertiate, perciocchè alcuna priamente quello che i Latini dicevano nec,
volta vi è avverbio, e significa quivi. Petrarca: ovvero neque, donde si vede che ella e cava
ta, cioè non, o veramente e non. Il Petrarca:
Nessun vi riconobbi (1 1).
Nè mi vale spronarlo o dargli volta (6).
(1) Sanazz. Arcad. Eglog. VIII. E alcuna volta si raddoppia nè più, nè meno,
(2) Petr. Canz. III, 6.
(3) Boccacc. Nov. XI, 5. (1) Petr. Son. CXCIV,
(4) Petr. Son. XC. (2) Petr. Son. LXVIII.
-

(5) Cioè, che sono neutri passivi. (3) Il Castelvetro chiama così questa particella anche nella
Giunta XXVI l al libro I I I delle Prose del Bembo.
(6) Boccac. Nov. XXXV, ma il testo del Mannelli, e
le stampe che lo hanno seguitato, leggono: Noi ci siamo a (4) A questo luogo del Varchi risponde il Castelvetro nelle
corti.
Correzioni, a c. 31.
(7) Dante, Purg. VIII. 5) Fagnone, voce che manca nel Vocabolario + della
(8) Dante, Purg. VII. Crusca. Il Varchi la prende per significare uno che faccia il
(9) Petr. Son. XXXVII. nescio, cioè si inga ignorante d'alcuna cosa, ma non lo sia.
(1o) Petr. Canz. II, 1. (6) Petr. Sou. VI.
(1 1) Petr Trionfo d'Amore, cap I. + - Nell'ultima impressione si trova. n
DIALOGU 379
come facevano i Latini la nec, o la neque, e Significa eziandio posta dinanzi alla congiun
ciò così ne nomi ; Petrarca: zione ancora quello che i Latini dicevano ne
quidem, come: Io non ti crederrei mai, nè an
Non ebbe tanto nè vigor, nè spazio (1) ; cora se tu giurassi: nunquam tibi crederem, ne
e altrove: si jurares quidem. Usasi spesso nel parlare co
tidiano posta avanti alla parola vero per av
Ne per volger di ciel, nè di pianeta (2); verbio che dimandi, in cotal guisa : Dante è
cone ne verbi; il medesimo : un grave e dotto poeta, ne' vero ? cioè, non è
egli vero tutto quello che io dico di Dante?
Ne sa star sol, nè gire ov'altri il chiama (3); E in niuna di queste maniere la particella ne
E altrove: non è e non si può chiamare affisso; ma quando
ella si scrive o pronunzia coll'e chiuso, allora
Lagrima ancor non mi bagnava il petto, si può considerare in due modi, perciocchè o
Nè rompea 'l sonno (4). si pone in luogo della preposizione in o serve
E talvolta pur coll'esempio de Latini si re a verbi. Quando si pone in luogo della prepo
plica più fiate, come si può vedere nel So sizione in, la quale serve così al quarto caso,
netto :
come al sesto, bisogna sapere che ciò si fa
perchè dopo la in non può ordinariamente se
Orso, e non furon mai fiumi, nè stagni (5). guitare (1) articolo nessuno; laonde semprechè
E ha questa particella nè sì gran forza di me. non seguiti articolo, si dice in , e non altra
mente, come: in cielo, in terra, in mare, io
gare, che posta in una medesima clausula,
quelle parole che per sè medesime afterme spero in Dio, tu sei in città; colui si sta in
rebbero, niegano per vigore di lei, come quan villa, e altri infiniti; ma quando seguita l'ar.
do il Boccaccio disse: Nel quale mai nè amore, ticolo, allora in vece della in si pone una di
nè pietà poterono entrare (6). Dove mai che per queste voci, nello, nel, o megli, ne i, o ne' nella,
o nelle. Nello si scrive da alcuni per due l. e
sè stesso ordinariamente afferma, per vigore
della particella nè niega: come ancora in quel con un accento solo, come se fosse una parola,
e da alcuni con uno solamente, come se fossero
l'altro luogo, favellando della dolcezza, e amo
revolezza di voi altri signori bolognesi: Mai due parole: la particelta ne, e lo articolo lo : e
di lagrime nè di sospiri fosti vaga (7). E più l'una e l'altra scrittura credo si possa difendere,
chiaramente quando disse: E comandole che ma la prima, come più agevole e più conforme
più parole, nè romor.facesse (8). E ancora: Ac. alla pronunzia fiorentina, mi piace più. Nello
ciocchè egli senza erede, nè essi senza signor ri dunque, favellando nel numero singulare, si
manessero (9). E quando la parola che seguita, pone ogni volta che la voce la quale seguita,
comincia o da alcuna delle lettere vocali, o
comincia da lettera vocale, le si aggingne dopo
la consonante d', secondo l'uso della nostra dalla consonante s che abbia dopo sè una o
lingua, per ischifare il cattivo suono. Il Pe più consonanti. Gli esempi vi sieno: nell'or
trarca:
dine, nello specchio, nello straordinario, e così
nello andare, nello stare, nello strascinare, ma
Ned ella a me per tutto 'l suo disdegno (io). quando la parola comincia da una delle con.
Alcuna volta nè non è avverbio che nieghi, ma sonanti, o pure da due di quelle, le quali non
hanno innanzi la s. e mediante la r si lique
una di quelle congiunzioni che i Latini chia
navano disgiuntive, o piuttosto sottodisgiuntive, fanno, come tra e fra, allora non si dice nello
come aut, vel e sire, cioè o, ovvero, o vera intero, ma nel per abbreviamento, cone: nel
mente. Il Petrarca: cielo, nel mare, nel trattato, e cosi nel fare, nel
framettersi, ec. Ma nel numero del più, se la
Primach'io truovi in ciò pace, nè tregua (i 1). parola che seguita, comincia o da una vocale,
E altrove: o dalla s con una o più consonanti, come s'è
detto, allora non si dice nel, ma nelli con due
Se gli occhi suoi tifur dolci, nè cari (12). l, o piuttosto negli colla g che si scrivono e
E altrove: pronunziano da alcuni come due parole, e da
alcuni, come una ; del che non mi par da far
Onde quanto di lei, parlai, nè scrissi (13). caso; come, negli antri, negli spazi, negli aft
fari, negli stravolgimenti, ec. Ma se la voce che
seguita, comincia da una consonante sola o anco
(1) Petr. Son. II.
(2) Petr. Canz. IX, 2.
da due, solochè siano di quelle che si lique
(3) Pelr. Son. XIX.
fanno, allora si dice non nelli, o negli , ma o
(4) Petr. Canz. IV, 2.
(5, Petr. Son, XXX. (1) si trovano tuttavia ne buoni autori molti esempi del
(6) Bocc. Nov. XLVIII, 1o. l'in coll'articolo dopo. Rim. ant. M. Cino LV.
(7) Bocacc. Nov. LXVII, 8. Color che sono in lº amorosa fede.
(8) Bocc. Introd. G. Vl. But. Inf. XIX, 1. Imperocche in delle cose che si leggono
(9) Bocc. Nov. C, 3. la ragione dà alla sensualità. E inf. XX, 1. Secondo che
(1o) Petr. Son. CXXXVIII. dire in lo testo. E, oltre gli antichi, anche i moderni. Fir.
(11) Petr. Son. XLIV, Rim. CI.
(12) Petr. Canz. XL, 7. Asconder rose colte in la vil tenere,
(13) Petr. Sou. CCXCV. e infiniti altri.
-
38o L' ERCOLANO
nei, chi con una voce e chi con due, o ne' E che ben facevano per mio giudizio i pretori
senza la i, la quale alcuni segnano di sopra romani, i quali delle cose menomissime non
coll'apostrofo, e alcuni no; ma perchè neces rendevano ragione. E in somma io per me
sariamente intendere vi si dee, a me par me vorrei, come disse dottamente e giudiziosa
glio di segnarla, come, nei campi, o ne campi, mente messer Annibale, la briglia, non le pa
me i ragionari, o ne ragionari; e s'alcuna volta si stoje, il digiuno, non la fame, l'osservanza, non
truova, come in Dante, negli passi, e altri così la superstizione; il che io vi dico non tanto
fatti, è ciò avvenuto, perchè gli antichi ponevano per rispondervi a quello di che dimandato ma
alcuna volta lo articolo lo, non solamente quan vete, quanto per non vi rispondere a molte
do seguitava alcuna vocale, o due consonanti, cose, delle quali mi potreste per avventura di
come lo amore e lo spirito, ma eziandio sem mandare, come è quella che pure colle parole
plicemente in luogo dell'il, nelle parole an di messer Annibale m' è uscita di bocca, se si
cora di più d'una sillaba, come lo passo, onde debbe scrivere non le pastoie, colla lettera n,
conseguentemente dicevano nel plurale gli passi, o nolle pastoie con due l ; e così di tutte l'al
come negli spiriti, e non ne spiriti. Le quali tre somiglianti, le quali o non caggiono sotto
cose sebbene da molti ancora di coloro che regola, o non vi sono ancora state fatte cade
fanno professione della lingua, osservate non re; e anco sapete che tutte le regole patiscono
sono, non è che osservare non si debbiano da eccezione. Ecco io v'ho detto che quando la
chi vuole correttamente e regolatamente scri parola che seguita, comincia da vocale, egli
vere. Quando i nomi sono di genere femmi non si dice in (1), nel numero del meno, ma
mino, allora nel singulare si dice in qualunque nello, se la voce è mascolina, e nella, se fem
lettera cominci la dizione che seguita, nella, e minina; e pure il Petrarca disse:
nel plurale nelle, le quali medesimamente si Pommi 'n cielo od in terra od in abisso (2).
scrivono da alcuni, come una parola sola, con
due l, e da alcuni come due, con una sola, In tutte le cose vale più che altro il giudizio,
siccome nelle città, ne le città, e così di tutti e la discrezione: io spero in Dio, sta benissi
gli altri. Nè d'intorno a questo mi resta altro mo: io spero in Dio del cielo, no.
che dirvi, se non che la ne si pone alcuna C. Avvertite che io intendo che il Castel
volta in vece della preposizione contra, come vetro non vuole che si dica benissimo.
quando il Boccaccio disse : Avendo alcuno odio V. Diciamo dunque ben bene o ottimamente,
ne' Fiorentini (1); come si fa ancora la in così per non far quistione di sì piccola cosa.
in buona parte, cioè verso. Il Petrarca: C. Ditemi da vero, se benissimo è ben detto.
V. Non solamente bene, ma benissimo.
In me movendo de'begli occhi i rai (2), C. Perchè ?
come in rea, cioè contra. Il medesimo : V. Perche così si favella in Firenze, e per
Ajace in molti, e poi in sè stesso forte (3). che cosi usano oggi tutti quelli che fiorente
namente scrivono; sebbene il Boccaccio nol.
C. Prima che procediate più oltre, non vi l'usò egli. Ma, tornando al caso nostro, non
gravi dichiararmi alcuni dubbi; il primo dei è questa buona e vera regola data dal Ben
quali e questo: Voi avete detto che alcuni bo (3), che a tutte le dizioni, le quali comin
scrivono nello con due l, come se fosse una ciano dalla consonante s che abbia dopo se
voce sola, e alcuni con una , come se fossero alcuna o più altre consonanti, si debbia porre
due voci ; e che il primo, come più agevole dinanzi la vocale i ogni volta che la dizione
e più conforme alla pronunzia fiorentina, vi precedente termina in consonante, comeil magº
piace più. Ora egli mi pare d'aver letto il con gior poeta:
trario, cioè che sia meglio scriverlo, come due
dizioni, con una l sola; e alcuni vogliono e Non isperate mai vederlo cielo (4).
danno ciò per regola, che nelle prose si deb E il più leggiadro:
bia scrivere nello (4), come una dizione sola,
e nelle rime ne lo, come due; come ancora Per iscolpirlo immaginando in parte (5).
dello e de lo, allo e a lo, e gli altri; e che E similmente nei nomi non si dice in scrittº
queste particelle nel e del si debbiano scrivere
ra, che troppo sarebbe aspro cotal suono, mº
coll'apostrofo, cioè ne 'l e de 'l, e cosi degli in iscrittura, e nondimeno, non che gli altri,
altri.

V. Il patto posto tra noi è ch'io vi dica (1) Il Muzio nelle Battaglie al cap. XI della Vardiº
liberamente l'opinione mia, e di poi lasci giu dice che questa regola è falsa, e ne porta molti esempi.
Ria
dicare e risolvere a voi. Non voglio già man vero così è; ma il Varchi non pone qui questo insegnamentº
per regola universale, anzi egli da sè medesimo mostrº dhe
care di dirvi quel proverbio parermi verissimo: non sempre la bisogna va cosi, anche coll'esempio del Pe
Chi troppo s'assottiglia, si scavezza (5). trarca. Pure si è espresso oscuramente, parendo la prima º
regola, e l'esempio del Petrarca un'eccezione, o un arbiº,
(1) Bocc. Nov. XI, 13. quando si dice egualmente bene in abisso, e nell'abissº º
(2) Petr. Son. IX. talora si può usare in, e non nello, come in Aleppo, e º
(3) Petr. Son. CXCVI. nell'Aleppo.
(4) La più corretta forma di scrivere è nello, ec. tanto (2) Pett. Son. CXIII.
in prosa, che in verso.
(3) Bembo, Prose, lib. I, part. VIII.
(5) Petr. Canz. XXI, 4. (4) Dante, Inf. Il 1.
º chi troneo assottiglia si scavezza.
(5) Petr. Canz. 1X, 5.
DIALOGO 38t
il Petrarca stesso usò molte volte altramente, si dee scrivere, secondochè voi dite, con due
come là : l, come una dizione sola, Dante disse sì in al
tri luoghi, e si nel ventesimo settimo Canto
E se di lui forse altra donna spera, del Purgatorio:
Vive in speranza debile e fallace (1).
Questo è divino spirito che ne la
E quante volte disse non spero, in luogo di Via d'andar su ne drizza senza prego (1).
non ispero? Io v'ho detto ancora che quando
seguita l'articolo, non si può dire in , ma e V. Quanto alla prima delle vostre dimande,
necessario dire nello, nella. E pur disse il Pe io non mi ricordo d'aver mai letto in appro
trarca : vato autore in lo dinanzi al verbo, e però, seb
bene l'analogia pare che lo conceda, io, in
Ma ben ti prego che 'n la terza spera finoche alcuno di qualche fama in lo scrivere
Guitton saluti, messer Cino e Dante,
suo non l' usasse, non ardirei di porlo nelle
Franceschin nostro e tutta quella schiera (2). mie scritture. Quanto alla seconda, o io v'ho
E altrove: detto, o io almeno ho voluto dirvi, che que
ste, come alcune altre minutezze, non cssendo
Il dì sesto d'aprile in l'ora prima (3). diterminate, sono indifferenti, cioè si possono
C. Egli non vi debbe ricordare che il Bembo nell'una guisa e nell'altra (2), secondo che
vostro, la seconda volta che fece ristampare le meglio torna, usare da chi scrive, e massima
sue Prose, che fu nel 1538, v'aggiunse cotesti mente nelle rime, per cagione delle quali mutò
due versi e disse che eglino correttamente Dante molte volte gli accenti, talchè dove era
scritti non erano, perchè il primo doveva dire: prima l'acuto, si scriveva e profferiva il grave,
e quello ch'era prima grave, rimaneva acuto:
Ma ben ti prego nella terza spera.
Percotcansi insieme e poscia pur li (3).
: E il secondo: E altrove :
Il dl sesto d'aprile all'ora prima. Mossimi, e 'l Duca mio si mosse per li (4).
V. Io me ne ricordo d'avanzo, e vi dico che E più chiaramente nel trentesimo Canto del
ne favellai col Bembo stesso, e gli allegai ol Paradiso;
tra molti luoghi di Dante, infiniti esempi di
tutti gli autori moderni non solamente italiani e La cieca cupidigia che v'ammalia,
toscani, ma eziandio fiorentini, come fra gli altri cioè ammalia, che i Latini dicevano fascinare;
il signor Luigi Alamanni e messer Lodovico Mar sebbene fascinare è proprio quello che noi di
telli. Al che egli con quella incomparabile sua ciamo far mal d'occhio. Ma queste nel vero
benignità mi rispose che tutto sapeva, ma che si possono piuttosto chiamare licenzie, che modi
aveva dato la regola generale vera e buona, e ordinari di favellare, de quali noi parliamo al
lasciato l'eccezioni a discrezione de leggitori, presente.
ancorache cotale locuzione per patto nessuno C. Quello che diceva o voleva dire io, mi
non gli piacesse ; del che fu certissimo argo pare che più consista nel levare una conso
mento che egli, il quale nelle sue rime alcuna nante, che in trasportare l'accento.
volta usata l'aveva, la levò; il che fu cagione V. I poeti Toscani, e massimamente Dante,
che io, il quale posta l'aveva una fiata nelle seguitando le figure così de' Greci, come dei
nie, la rimossi e rimutai. Nè perciò voglio che Latini, levano talvolta non solo una sillaba
crediate che io, quando bene mi tornasse, non delle dizioni, ma una consonante sola, come
l'usassi, dico quando ancora non si ritrovasse quando Dante disse:
in Dante, o negli antichi scrittori tante volte, E venne serva la città di Baco (5),
quante ella vi si ritrova; perchè, come io v'ho in vece di Bacco; e talvolta l' aggiugnevano.
detto e dirò più volte, l'uso e quello che Il medesimo Dante:
tutto può e tutto vale nelle lingue. E io non
credo aver letto alcun rimatore moderno di Ebber la fama che volentier mirro (6).
qualunque nazione, il quale più volte cotal lo in vece di miro.
cuzione usato non abbia. Ma quali sono gli
altri dubbi vostri? (1) Dante nel Canto XVII del Purg., non XXVII.
C. Seguitate pur il ragionamento incomin (2) Il Muzio al cap. XXI della Varchina, dice d'aver fatta
ciato, che i miei dubbi per le cose che detto questa bella osservazione, che in prosa è regola ferma lo scri
vere nella, e in versi ne la; ma con sua pace questa regola è
ºvete, parte sono sciolti e parte non sono più
dubbi, detto che voi m'arete due cose. La falsa, e sempre si dee scrivere nella, quantunque il Vocabo
lario della Crusca alla voce ne preposizione dica + esserci an
prima, se come negli antichi e ne' moderni cora chi usa di scrivere la preposizione sciolta dall'articolo,
scrittori si truova in la dinanzi a nomi, cosi come, ne li, ne lo, ec. ma questo è un uso scorretto, dovendo
si truova eziandio in lo davanti a verbi, come l'ortografia seguitare la pronunzia. Ora nel pronunziare si rad
º lo stare, in lo andare, in vece di nello stare doppia l' L da chi pronunzia bene.
º di nello andare. La seconda, perchè, se nella (3) Dante, Inf. VII.
(4) Dante, Purg. XX.
(1) Petr. Son. XIX. (5) Dante, Inf. XX.
(2) Petr. Son. CoLVI. (6) Dante, Parad. VI.
(9) Petr. Son. CCXC. + » Nell'ultima impressione non c'è più m.
38a L' ERCOLANO
C. Il Vellutello (1) spone in cotesto luogo la particella ne, quanto al sentimento, non
mirrare dalla mirra, quasi volesse dire, imbal v ha che fare cosa del mondo; come ancora
samare e conservare: e alcuni non solo appro là: Il quale senza arrestarsi sene venne a ca
vano così ridicola interpretazione, ma si fanno sa (1). Similmente in queste parole: A volerne
beffe di Dante. dire quello che io ne sento, bastava dire: a vo
V. Lasciate fare e dire a ognuno quello che ler dire quello che io ne sento, o a volerne dire
vuole, e guardatevi voi di non creder loro. quello che sento, o a voler dirne quello che
C. Così farò, per quanto basteranno le mie sento ; ma l'uso porta molte volte, che ella si
forze; ma ripigliate il ragionamento vostro. raddoppi, come, a voler dirne quello che io ne
V. Quando la particella ne serve ai verbi, sento. Quando ella poi riferisce persone e casi,
clla si pone alcuna volta davanti e alcuna o cose che le vadano innanzi, ella si truova,
di dietro ad essi. Quando ella si pone davan parlando del numero singulare, in due casi
ti, ciò avviene in due modi, perchè alcuna solamente, nel genitivo e nell'allativo; se nel
volta ella non significa e non riferisce nè per genitivo, significa o di lui masculino, o di lei
sone, nè casi; e alcuna volta riferisce e signi femminino, o di quello neutro (2), cioè di quella
fica così l'uno, come gli altri. Quando ella cosa ; come chi, favellando o d'un uomo, o
non riferisce nè persone, nè casi, ella si pone d' una donna, o d'una qualche cosa, dicesse:
molte volte più per dar grazia e ornamento Io ne sono informato, o io ne resto soddisfatto.
alle scritture e per un cotal modo di parlare, Se nell'allativo, significa o da lui, o da quella
che per bisogno che elle n'abbiano, come quan cosa, come chi intendendo o da uomo o da
do il Petrarca disse: donna, o da alcuna altra cosa di genere neu
. . . . . . . Però n' andai tro, dicesse: Egli ne seguirono infiniti beni. Al
Secur senza sospetto, onde i miei guai (2). cuna volta l'antecedente, cioè quello che va
innanzi, e che si debbe riferire dalla ne, è sin
E il Boccaccio parlando di ser Ciappelletto (3), gulare, e ciò non ostante la ne, come se plu
poichè fu morto, disse: Quello a guisa d'un rale fosse, lo riferisce, come si può vedere in
corpo santo nella Chiesa maggiore ne portarono. queste parole del Boccaccio: Con lo aiuto d'al
E la cagione e, perchè egli non si dice sola cuni portatori, quando aver ne potevano (3). E
mente io vo, tu vai, ma ancora, io ne vo, tu quello che è più da notare è, che l'antece
ne vai, e di più io me ne vo, tu ne te vai, onde i dente è alcuna volta tutta una parte, o una
- - - -

poteva ancor dire, secondochè si legge in al sentenza intera, come quando il Boccaccio disse
cuni testi, m'andai, in vece di me n'andai ; pur di ser Ciappelletto favellando : E, se egli
e così si dice io vengo, io ne vengo, io me ne i si pur si confessa, i peccati suoi son tanti, ec.
vengo, nel medesimo significato; onde nasce che il simigliante ne avverrà (4); dove ne si
che quello che i Latini non posson dire nel gnifica e riferisce: Di quel suo confessarsi ne
modo imperativo, cioè nella maniera che co- avverrà il somigliante, cioè sarà gittato a cani;
i

manda, se non con una parola, cioè venii To e il Petrarca in questo medesimo modo, disse
scani possono dirlo con otto. leggiadramente:
C. Questa mi pare una grande abbondanza,
ma quali sono eglino ? Quando io fui preso e non mene guardai (5).
V. Vieni, o vien, vieniti, o vienti, vienine, o
vienne, vienitene, o vientene, e forse se ne tro
E il medesimo in un altro luogo più chiara
verrebbero due altre, chi sottilmente andarla mente, ma non già con minore leggiadria:
ricercando volesse; ma, ripigliando dove la Onde nel petto al nuovo Carlo spira
sciai, quando il Boccaccio disse: Ma tra tanti La vendetta ch'a noi tardata nuoce,
che nella mia Corte n'usano (4). E tra quali Sicchè molti anni Europa ne sospira (6).
ne fu uno (5). E nè più, nè meno ne farà (6): Dove la ne non riferisce nè Carlo, nè spira, nè
(1) Il Castelvetro sostiene il Vellutello, dicendo che la vendetta particolarmente, ma significa che l'Eu
sua spiegazione è tolta da Benvenuto da Imola. E di vero ropa per l'indugio di cotal vendetta ha sospi
egli dice: Mirro idest conficio ei conservo cum isti, versibus; rato moltº anni e ancora sospira; il che voglio
mirra enim est genus aromaticae grumae, qua antiquitus inun che da voi si tenga a mente, perciocchè avendo
gebantur corpora regum mortuorum, ut praeservarentura putre il Caro nella sua Canzone usato la particella
Jactione. Ei ita cult dicere, celebro libenter ſamam illo, un per
petuandam. Anche il Vocabol. alla voce Mirrare, dice Onorar ne in questa medesima significazione, fu a gran
con mirra, apportando questo luogo di Dante, e la spiegazione torto non solo ripreso e biasimato, ma deriso
del Comento antico, detto l'ottimo, che pare della stessa opi e uccellato dal Castelvetro. La ne nel numero
nione di Benvenuto, del Vellutello, e del Castelvetro +. Pure maggiore riferisce indifferentemente tutti gli
a favore del Varchi si può addurre Francesco Buti, il quale obliqui, e alcuna volta il retto, cioè il nomi
cosi dice: Volentier mino, cioe miro, cioe lodo io Justiniano;
na e scritto per duº º per la consonanza della rima. (1) Bocc. Nov. LXXIII, 17.
(2) Petr. Son. Il l. (2) Ai Muzio, nel cap. XXI della Varchina, pare che il
(3) Boccaccio, Nov. XI, 3, nella quale non già di Ser Varchi si contraddica, e che abbia sopra negato, aver noi il
Ciappelletto, ma di Arrigo di Trivigi si ragiona. neutro; ma il Varchi ha solo detto che noi non abbiano gli ar
(4) Bocc. Nov. XXXI, 14. ticoli neutri.
(5) Bocc. Nov. XXXI 11, 4. (3) Bocc. Introd. num. IV.
(6) Bocc. Nov. 1, 14. (4) Bocc. Nov. 1, 12.
+ Ma si trova nell'ultima impressione fra parentesi: Al (5) Petr. Son. III.
” i poro pesano diversamente questo luogo ». r (o, Petr. Canz. V, 2.
DIALOGO 383

mativo, e significa maschio, femmina e neutro. stia molto oziosamente e non operi cosa nes
Nel nominativo disse il Boccaccio: Quinci le suna, e in somma non serva ad altro che a
vatici alquanto n'andrem sollazzando (1); ma far la rima.
più certamente quando disse: Noi non abban V. Egli non vi par male; voglio nondimeno
doniam persona, anzi ne possiamo con verità che sappiate che in quei tempi si favellava
dire molto più tosto abbandonate (2). Il qual così, anzi si diceva ancora mene, tene, per me,
modo tuttavia è tanto rado, quanto spessi gli e te, sine per sì affermativa, tene per te, o to
altri. Nel genitivo disse il medesimo, favellando gli, e molti altri così fatti, purchè la sillaba
di Bruno e di Calandrino: E da parte di lei dietro alla quale s'aggiugneva cotal particclla,
negli faceva (3), cioè dell'ambasciate da parte avesse l'accento acuto sopra sè, come fine in
della Niccolosa. Nel dativo: Perciocchè il man luogo di fee, o di fece, perdene, in vece di
darlo fuori di casa nostra così infermo ne sa perde, o perdette, come si può vedere nell'an
rebbe gran biasimo (4). Nell'accusativo, ovvero tiche scritture, e nelle moderne lingue, per
quarto caso: Sole in tanta afflizione n hanno che ancora oggi sono in Firenze nelle bocche
lasciate (5). Nell'allativo, ovvero sesto caso: de fanciulli, e di cotali grossolani che fan
Di quello alcuni rami colti ne le fece una ghir ciullescamente favellano, queste, e altre somi
landa (6). glianti parole; ma perchè elle già furono dal
C. Voi non date esempi se non di prosa 3 Petrarca, e oggi sono rifiutate dall'uso de'mi
sarebbe mai che non a poeti, ma solo agl l gliori, non è dubbio che si debbono (1) fug
oratori fossero cotesti modi di favellare con gire non solo nello scrivere, ma ancora nel
ceduti ? favellare, quando nuovo uso nolle introduces
V. Niente; anzi voglio che sappiate che po se. Ma quando la ne posta dietro a verbi ri
che sono quelle cose, anzi pochissime, le quali ferisce le persone e i casi, e per conseguenza
siano concedute agli oratori e non a poeti, è veramente aſfisso, ella riferisce alcuna volta
dove a poeti ne sono molte, anzi moltissime, il numero del meno, e alcuna volta quello
conccdute, le quali si niegano agli oratori. del più, e in amendue riferisce tutti i generi,
C. E perchè hanno gli oratori ad aver que e tutte le persone, ma nel singolare riferisce
sto disavvantaggio? solamente il genitivo, e l'allativo, e nel plu
V. Perchè, come vi dissi di sopra, i poeti, rale tutti e quattro gli obliqui, come chi par
intendendo di quelli da dovero, sono altro che lando o d' un maschio o d'una femmina, o
baje; e, quantunque abbiano il campo largo d'una cosa neutra, dicesse abbine, o abbiate
e spazioso, a volere che senza intoppo e feli ne discrezione, ovvero compassione, cioè di lui,
cemente correre lo possano, fa loro mestiere o di lei, o di quella tal cosa in genere ncutro;
di molte cose e non mica picciole, nè tali che e il Petrarca disse:
se ne possa trovare a ogni uscio. Se volete de Qual colpo è da sprezzare, e qual d'averne
gli esempi de poeti, aprite e leggete o Dante, Fede, ch” al destinato segno tocchi (2).
o 'l Petrarca, i quali ne sono pieni; e a me Nel sesto caso pur del numero minore, come
pare molte volte di gettare via il tempo in chi dicesse: Ne da uomo, nè da donna, nè da
allegargli, si perchè son chiari da per se, e si cosa mortale bisogna sperare veri beni, ma pi
perchè ora non è il proponimento nostro in gliarne quello che altri può. Nel genitivo plu
segnare la gramatica, la quale, quanto è ne rale : Questi sono vostri figliuoli, o figliuole, o
cessaria, tanto è fastidiosa; onde passando alla altra cosa neutra, abbiatene cura da voi. Nel
ne, quando si pone dietro a verbi, vi dico, ciò dativo : Danne o dinne. Nell'accusativo : Em
in due modi potere e solere avvenire, percioc pine, o ingombrane dell' amor tuo. Nell'alla
che alcuna volta non riferisce ne persone, nè
tivo: Dalle cose divine non dee l'uomo rivol
casi; e alcuna volta riferisce questi e quelle; gere gli occhi, o discostarsene; i quali esempi
quando non riferisce ne persone, nè casi, si sono frequentissimi, e più apparenti non solo
pone piuttosto per ripieno che per altro, come appo i prosatori, ma eziandio appresso i ri
fece Dante quando disse: matori. Il Petrarca:
Ch'a farsi quello per le vene vane (7). Ricorditi che fece il peccar nostro
cioè va, o ne va, e ancora più chiaramente in Prender Dio, per scamparne,
quel terzetto: Umana carne (3).
e altrove :
Che non era la calle onde saline
Lo duca mio, e io appresso soli ; Po ben puoi tu portartene la scorza (4).
Come da noi la schiera si partine (8). (1) Da questo il Muzio, cap. XIX, pretende di provare
per confessione del Varchi, che la lingua che si usa dal popolo
C. In cotesti luoghi a me pare che la ne Fiorentino, non sia buona. Ma questo prova il contrario, per
che l'essere rimase nel favellare del popolo delle parole ran
(1) Bocc. Gior. I, f. 3. cide, mostra che la lingua si è mantenuta come era in antico, e
(2) Bocc. introd. XLII. senza mescolamento di voci forestiere. Nel rigettar poi le voci
(3) Bocc. Nov. LXXXV, 12. rancide, o basse, e dagl'idiotismi scerre le nobili e appropriate
(4) Bocc. Nov. I, 12. al bisogno, è necessario il buon giudizio, che non si può im
(5) Bocc. Introd. XLII. parare dal popolo.
(6) Bocc. Introd. LIV. (2) Pelr. Son. LXVI.
(7) Dante, Purg. XXV. ( ) Petr. Canz. XLIX, 6.
C8) Daule, Puig. 1 V. (1) Petr. Son. CXLVI 1.
384 L' ERCOLANO
e in un altro luogo: ricordandovi prima che io chiamo aſſissi pro
pri ogni volta che le particelle che gli fanno,
E portarsene seco (1); sono dopo il verbo; e impropri quelli i quali
e Dante: hanno le particelle da cui sono fatti dinanzi.
Affissi doppi sono quelli dove intervengono le
Per recarne salute a quella fede (2); particelle che sono o pronomi, o relativi ; gli
dove pare che ne significhi di quivi, o di là, scempi quelli ne' quali elle non intervengono;
o come formò egli stesso, linci, cioè di quel come più chiaramente vi mostreranno gli esem
luogo; come anco il Pctrarca disse: pi. Cominciando dunque dagli scempi parte
propri e parte impropri, dirò così:
Potea innanzi a lei andarne ec. (3). Io dono me a te, Io mi ti dono,
cioè di qui, e in altri modi somiglianti. Io mi dono a te, Donomi a te,
Io ti dono me, Donomiti.
C. Alla buona, che messer Annibale seppe
che dirsi, quando a carte i lo (4) della sua Di questi sei modi di favellare, il primo è
Apologia avverti il Castelvetro che dovesse mi ordinario, e non vi sono affissi : e chi dicesse
rar bene alla pregnezza di quella particella io a te dono me, o a te me dono, o dono a te
ne, mostrandogli che queste sono gioie, non me, non farebbe affissi. I tre seguenti sono af
quelle che egli vanamente, e senza alcun frut fissi impropri, il quinto è affisso proprio ; il
to, anzi bene spesso con non picciol danno sesto e ultimo proprissimo.
considera. Ma voi, per quanto mi par di ve C. Piacemi; ma perchè lasciate voi l'affis
dere, l'avete fatta sgravidare e spregnare. so improprio: Io ti mi dono, e il proprissimo
V. Figliare dovevate dire, o piuttosto par donotimi?
torire, quanto alla lingua, ma quanto alla ve V. Perchè l'uso dal quale dipende ogni
rità non abortare, o disperdersi, come dite voi cosa, non gli ha accettati.
altri, ma sconciare; imperocchè fino a qui Io dono me a colui, Io me gli dono,
avete veduto solamente gli affissi scempi, e Io mi dono a colui, Io gli mi dono,
non i doppi, i quali come sono più leggiadri, Dono megli, Donoglimi,
così sono ancora più faticosi, e in essi ha la Donomigli non s'usa, e meno, io me dono,
particella ne la sua parte. Della quale non vi se non se forse in contado.
voglio dire altro, se non che ella di sua na Io dòno me a voi, Io mi dono a voi,
tura e tanto schifa, e ha così in odio la vo Io vi dono me, Donomi a voi,
cale i, che mai non la vuole, nè la pate avanti Donomiei.
di sè, anzi sempre la muta, e rivolge nell'e Donovimi, e io vi mi dono non par che s'u-
chiusa in tutte queste particelle dette di so sino.
pra mi, ti, si, ci, vi, le quali postele dinanzi Io dono me a coloro, o a loro, o loro, o ad
divengono necessariamente me, te, se, ce, ve: essi, o a quelli, o a quegli.
e il medesimo dico delle particelle la, le, li, Donomi a coloro.
lo, gli, tanto nel maggior numero, quanto nel C. Questo modo è molto povero, rispetto
mlinore.
agli altri; ma perchè non si dice egli con af
C. Voi mi fate maravigliare; ma, per dirne fisso improprio, io me gli dono, o gli mi dono,
il vero, io non intendo ancora questi affissi, o con proprio. donomcgli, o donoglimi ?
nè gli scempi, ne i doppi, e vi scongiuro che V. Perchè cotesti sono del numero del meno,
vi piaccia dichiararmegli minutamente, come dove io gli vi raccontai. Ma, fornito il prono
solete fare quando volete. me della prima persona, passeremo a quello
V. Già la maraviglia da altro non procede, della seconda.
che dal non intendere, conciossiache, chi sa Tu doni te a me, Tu mi ti doni,
le cagioni delle cose, non ne prende maravi Tu ti doni a me, Doniti a me,
glia; ma, per dirvelo alla greca, noi facciamo Tu mi doni te, Donimiti,
troppi parerghi, cioè usciamo troppo spesso di Tu ti mi doni, o Donitimi, non sono in uso.
proposito. Tu doni te a colui, Tu doni te a noi,
C. A me giova più di queste digressioni che Tu ti doni a colui, Tu ti doni a noi,
d'altro. Tu gli doni te, Tu ti ci doni,
V. Tal sia di voi. Io per me mi consolo Tu te gli doni, Doniti a noi,
che non doverrà esser minor fastidio a voi Tu gli ti doni, Donitici,
l' ascoltare che a me tedio, non vo'dir fatica, Doniti a colui, Donitigli,
il raccontare cose le quali, avvengadiochè sic Donitegli, Donitigli non si dice.
no utilissime, anzi necessarissime a sapersi, Tu ci ti doni, e Doniciti, non s'usano: co
non hanno però in se nè diletto mentre s'ap me non s usano ancora, Tu ne ti doni, doni
parano, nè leggiadria quando s'insegnano. Por tene, doneniti, e se altri tali si possono forma
getemi dunque l'orecchie, e state attento che re; perche non basta l'analogia senza l'uso.
sentirete una ricchezza di lingua maravigliosa, Tu doni te a coloro, Tu ti doni a coloro,
Doniti a coloro, Tu te gli doni, o do
(1) Petr. Canz. XLII, 4. nitegli, o gli ti doni, sono del singolare, come
(2) Dante, Inf. II. s'è veduto; onde, finita la prima e seconda
(3) Petr. Canz. XLV, 5. persona del singolare, passeremo alla terza.
(4) Della stampa di Parma del 1558 in 4.” Colui dona sè a me Colui mi si dona,
- - DIALOGO 385
Colui si dona a me, Donasi a me, Doniamoci, o doniamei a coloro.
Donamisi. Noi ne doniamo, o doniamone a coloro, in
Si mi dona, me si dona, e donasimi, ordina questa cotale significazione non si favella, e
riamente non si dicono. -
mtºno sl Scrl Ve,
Colui dona sè a te, Colui ti si dona, Voi donate voi a me, Voi vi donate a me,
Colui si dona a te, Donasi a te, Voi mi vi donate, Donatevi a me,
Colui ti dona sè, Donatisi. Donatemivi.
Si ti dona, e donasiti, non s” usano. Donatevimi, o voi vi mi donate, non s'usano.
Colui, o egli dona se a colui, Voi donate voi a colui, Voi vi donate a colui,
Egli si dona a colui, Donasegli, Voi vegli donate, Poi gli vi donate,
Egli gli si dona, Donaglisi. Donatevegli. Donateglivi, non si dice.
Donasigli, non par che si dica. Voi donate voi a noi, Voi vi donate a noi,
C. Perchè non dite voi ancora Colui dona Voi vi ci donate, Donatevici,
sè a sè? Donatecivi, e ci vi donate, non si dice, nè
V. Cotesta reciprocazione si può fare quanto vi donate a noi, in questo significato.
all'immaginazione, ma quanto al vero, e al Voi donate voi a coloro, Voi vi donate a coloro,
l'uso del parlare, non pare che possa acca Donatevi a coloro.
dere, e perciò non l'ho posta; che similmente A questo esimo, come dicevano gli antichi,
poteva io dire: io dono me a me, e altri co cioè a questo ragguaglio, e con questa pro
tali.
porzione potrete formare tutti gli affissi scem
Colui dona sè a noi, pi propri e impropri in tutti gli altri mo
Colui si dona a noi, Donasi a noi, di, persone e tempi di tutti gli altri verbi ; e
Colui ci dona sè, Donacisi, perciò trapasseremo a doppi così propri, come
Colui ci si dona, Donasici. impropri nel medesimo verbo per maggiore
Se ne dona, ne si dona, si ne dona, donase agevolezza vostra.
ne, in questo sentimento non si truovano usa Io lo dono a te, Io il ti dono,
ti, che sappia io. Io te lo dono, o tel dono, Donolo a te,
Colui dona sè a voi, Colui vi si dona, Io lo ti dono, Donotelo,
Colui si dona a voi, Donasi a voi, Io il dono a te, Donoloti, o donolti.
Colui vi dona sè, Donavisi. Io lo dono a lui, o a colui,
Si vi dona, e donasivi, non si truovano. Io il dono a lui, Io lo gli dono,
Colui, o egli, dona se a co- Colui si dona a coloro, Io gliele dono, o gliel Donogliele, o donogliel.
loro
dono,
Donasi a coloro. Donologli, o donolgli, s'usano di rado, e piut
tosto non inai.
Ora, finito il numero minore, passeremo al C. Perchè dite voi nel terzo modo io gliele
maggiore. -
dono, che par di genere femminino, non ma
Noi doniamo, o doniam noi a te. scolino o neutro, e non, io glielo dono, e nel
Noi ci doniamo a te, Noi ti doniamo, o do quinto piuttosto donogliele, che donoglielo?
niam noi, V. Per una proprietà così fatta della nostra
Noi ti ci doniamo, o doniam, lingua, alla quale vi bisogna por ben mente,
Doniamoci, o doniamei a te, perchè molti c' errano. Dovete dunque sapere
Doniamotici, o doniamtici. che gliele com'è doppia, così rappresenta due
Doniamone a te, ne ti doniamo, noi ne do casi, o innanzi, o dopo il verbo che si ponga;
miamo a te, noi ne ti doniamo, doniamociti, e prima il dativo, ma singolare solamente, sia
se altri tali formare se ne possono, non sono di che genere si vuole; poi l'accusativo così
in uso; al quale è forza ubbidire. singolare come plurale, sia medesimamente di
Noi doniano, o doniam noi a colui, qual genere si vuole; onde non si può dire,
Noi ci doniamo a colui, chi vuole correttamente favellare: piglia, ver
Noi cegli doniamo, o doniam, bigrazia, questo fiorino, il quale è d'Alessandro
Doniamoci, o doniamei a colui, o dell'Alessandra, e rendiglielo, perchè bisogna
Doniamocegli, o doniamoegli, dire rendigliele, nè favellerebbe regolatamente
Doniamoglici, o doniamglici. chi dicesse: queste cose sono d'Alessandro, e
Noi ne doniamo, doniamone, in questo signi dell'Alessandra: toi, rendigliele, perchè si dee
ficato non s'usano. dire rendile loro, intendendo di tutti e due:
Noi doniamo, o doniam noi a voi, similmente chi dicesse: togli quel danari che
Noi ci doniamo a voi, sono d'Alessandro, o dell'Alessandra, e rendi
Noi vi doniamo, o doniam noi, glieli, fallerebbe, perchè è necessario dire ren
Noi vi ci doniamo, o doniam, digliele. Gli esempi del Boccaccio allegati da
Doniamoci a voi, Doniamovici, o doniam monsignor Bembo (1) nelle sue Prose dimo
vici. strano ciò chiaramente, e sono questi tre (2):
Noi ne doniamo a voi, Noi ci vi doniamo, do Anzi mi pregò il castaldo loro, quando io
niamone a voi, doniamo, o doniameivi, non mcne venni che se io n'avessi alcuno alle mani
par che siano in uso.
Avoi doniamo, o doniam noi a coloro, ( 1) Bembo. Prose, lib. l II.
Noi ci doniamo a coloro, (2) Bocc. Nov. XXI, 5.
vArt iii V - I, - 49
386 L' ER620LANO
che fosse da ciò, che io gliele mandassi, e io Colui lo ci dona, Donaloci, o donalci.
gliele promisi. E altrove (1): Paganino da Mo Donalone, e altri così fatti non si dicono.
naco ruba la moglie di M. Ricciardo di Chin Colui lo dona a voi,
zica, il quale sappiendo dove ella è, va, e di Colui il dona a voi, Colui lo vi dona,
venuto amico di Paganino, raddomandagliele, Colui il vi dona, Donalo a voi,
ed egli, dove ella voglia, gliele concede. E al Colui ve lo dona, Donalovi, o donalui.
trove (2): Avvenne ivi a non gran tempo, che Colui lo dona a coloro,
questo Catalano con un suo carico navicò in Colui il dona a coloro, Donalo a coloro.
Alessandria, e portò certi falconi pellegrini al Noi lo doniamo a te, Noi il doniamo a te,
Soldano, e presentogliele. Dicesi ancora per ac Noi il ti doniamo, o doniam,
corciamento gliel. Il Boccaccio (3): Trattosi Noi telo. o tel doniamo, o doniam,
un anello di borsa, da parte della sua donna Doniamolo a te,
gliel donò. E così gliel graffiò, gliel disse, e al Doniamotelo, o doniamtelo,
tri; ma io essendomi sdebitato di quanto vi Doniamoloti, o doniamolti.
promisi di sopra in quanto a questa particella Noi lo doniamo a colui, Noi il doniamo a colui,
gliele, seguiterò gli altri affissi, che il mede Noi gliele doniamo, o donian,
simo dice il Bembo (4) della particella ne, co Noi lo gli doniamo, o doniam,
me gnene, però non ne faremo più lungo ser Doniamolo a colui, Doniamologli,
mone: Doniamogliele, o gliele doniamo.
Io lo dono a voi, -
Noi lo doniamo a voi, Noi il doniamo a voi,
Io il dono a voi, Io il vi dono, Noi velo doniamo, o doniam, -

Iovelodono, o veldono, Donovelo, Noi lo vi doniamo, o doniam,


Io lo vi dono, Donolovi, o donolui. Doniamolo a voi,
Io lo dono a coloro, Doniamovelo e doniamuelo,
Io il dono a coloro, Donolo a coloro. Doniamolovi, o doniamolui.
Io glielo, o glieli dono, non si dice, per le ra Noi lo doniamo a coloro, Noi il doniamo a coloro,
Doniamolo o doniamlo a coloro.
gioni suddette.
Tu lo doni a me, Voi lo donate a me, Voi lo mi donate,
Tu il doni a me, Donilo a me, Voi il donate a me, Donatelo a me,
Tu melo doni. Donimelo, Voi melo o mel donate, Donatemelo,
Tu lo mi doni, Donilomi, o, donilmi. Donatelomi, o donatelmi.
Tu lo doni a colui, - -
Voi lo donate a colui,
Tu il doni, a colui, Donilo a colui, Voi il donate a colui, Donatelo a colui,
Tu gliele doni, Donigliele, Voi gliele donate, Donategliele.
Tu lo gli doni, Voi lo donate a noi, Voi lo ci donate,
Donilogli.
Tu lo doni a noi, Tu il doni a noi, Voi il donate a noi, Voi nelo donate,
Tu ce lo doni, Donilo a noi, Voi celo, o cel donate, Donatolo a noi,
Tu lo ci doni, Donicelo, Voi lo gli donate, Donatecelo, o donatenelo.
Tu ne lo doni, Doniloci. Donateloci o donatelci, -

Donilne, e altri tali non sono in uso. Lo ne donate e altri così fatti molti non si
trovano.
Tu lo doni a coloro,
Tu il doni a coloro, Donilo a coloro. Voi lo donate a voi, per dirvi anco un esempio
Colui lo dona a me, di questa reciprocazione,
Colui il dona a me, Donalo a me, Voi il donate a voi, Voi lo vi donate,
Colui il mi dona, Domamelo, Voi il vi donate, Donatelo a voi,
Colui me lo dona, Donalomi, o donalmi, Voi velo donate, Donatevelo,
Donatelovi e donatelvi.
Colui lo dona a te,
Colui il dona a te, Colui il ti dona, Voi lo donate a coloro,
Colui telo dona, o tel dona, Voi il donate a coloro, Donatelo a coloro,
Colui lo ti dona, Donatelo, Coloro lo donano a me,
Donalo a te, Donaloti, o donalti. Coloro il donano a me, Coloro melo donano,
Colui o egli lo dona a colui, Coloro il mi donano, Coloro lo mi donano,
Egli il dona a colui, Donalo a colui. Donanomelo, o donanmelo,
Colui lo dona a noi, Donanolomi, o donanolmi.
Colui il dona a noi, Colui me lo dona, Coloro lo donano a te,
Colui il ci dona, Donalo a noi, Coloro il donano a te, Coloro telo, o tel donano,
Colui ce lo dona, Donacelo, Coloro il ti donano, Coloro lo ti donano
Donanolo, o donando, o donallo a te,
(1) Bocc. Nov. XX, tit. Donanolti e simili sono troppo duri a pro
nunziare.
(2) Bocc. Nov. XIX, 25.
(3) Bocc. Nov. LXXX, 7. Ma il Mannelli e le buone Coloro lo donano a colui,
stampe hanno gliele. Coloro il donano a co- Coloro gliele donano,
(4) il Castelvetro a c. 91 dice che il Bembo non parla di lui,
questa particella gnene, ma nel lib. III delle Prose parla delle Donanlo a colui, Donanogliele, o donara
particelle gliele e gliene; che è lo stesso. Io però dubito che gliele,
questo luogo del Varchi sia scorretto, e vada letto cosi: Il
medesimo dice il Bembo della particella gliene, come gnene. Lo gli donano, e altri son fuori d'uso.
DIALOGO 387
Coloro lo donano a noi, Coloro il donano a noi, star solo ? Dinne, se mai dicestine il vero, e
Coloro il ci donano, Coloro celo, o cel donano, altri infiniti.
Coloro lo ci donano, Coloro nelo donano, C. Onde cavò il Bembo (1) questa regola?
Donanolo o donanlo a noi, V. Dalle scritture fiorentine, penso io.
Donancelo, Donanoloci o donanolci. C. E le scritture fiorentine donde la cava
Coloro lo donano a voi, rono ?
Coloro il donano a voi, Coloro velo donano, V. Da coloro che fiorentinamente favella
Coloro il vi donano, Coloro lo vi donano, vano; e anco l'arte e l'ingegno di chi scrive
Donanolo, o donanlo a voi, in cotali locuzioni giova non poco. E per ri
Donanovelo, o donanuelo spondervi innanzi che mi domandiate, vi di
Donanolovi, o donanlovi. co, che quando Dante scrisse nel quattordice
Coloro lo donano a coloro, o a quegli, simo canto del Paradiso:
Coloro il donano a quegli, Nel fare a te quel che tu far non vuomi
Coloro donanolo o donanlo a quegli.
all'aſfisso non vuomi, è levata una sillaba dei
Voi mediante questi esempi potrete formare mezzo, per quella figura che i Latini chiamano
tutti gli altri da voi, i quali sono infiniti, e grecamente sincope, cioè incisione ovvero ta
anco ritrovare, se io per la fretta o per lo gliamento, e questa è la vocale i, perchè la
fastidio n'avessi o lasciati o traposti: nè cre parola intera si dee scrivere, vuoimi, o voglimi,
diate che tutti quelli che si possono formare, onde l'accento, come bene n' avvertisce il
si possano anco usare, perchè bisogna l'uso Bembo (2), è bene in sull' ultima sillaba, ma
e 'l giudizio dell'orecchio, e vi gioverebbe più egli vi è non propriamente, ma come in sulla pe
un poco di pratica che quante regole vi po nultima dovendosi pronunziare vuoimi ; e così
tessi dare ; che a chi è versato ne' buoni au quando il medesimo fece dire a Stazio:
tori, gli vengono detti e scritti che egli non
sene accorge. E il Sanazzaro, trattone alcuni, E per paura chiuso cristian fumi (3),
i quali sono o poco regolati o troppo licenzio fiumi e posto in luogo di fuimi, cioè mi fui.
si, per la gran difficoltà, come dissi di sopra, C. Egli disse pure nel tredicesimo del Pa
delle rime sdrucciole, n'usa nelle sue canzoni radiso, favellando di San Francesco :
dell'Arcadia molti e molto belli.
C. Io ho tante cose che domandarvi, che Ruppe il silenzio ne concordi numi
Poscia la luce, in che mirabil vista
non so io stesso da quale mi debbia incomin
ciare prima, e ho una gran paura di non isoli Del poverel di Dio narrata fumi,
menticarlemi. Ditemi innanzi tratto, perche dove non pare che vaglia cotesta ragione che
negli affissi propri o scempi o doppi si rad voi avete detta. -

doppia alcuna volta la loro lettera e alcuna V. Anzi potrebbe valere, perchè i nostri
volta no; ciociossiacosa che voi pronunziavate antichi dicevano fue, come si vede tante volte
poco fa ora diedemi con uno m solo, e ora diem non solo in Dante medesimo, ma eziandio nel
mi o dondmmi con due; e così dicevate talvolta Petrarca: ma, quando ciò non fosse, non im
donolo e talvolta dondllo, e molti altri somiglian porterebbe molto, conciossiacosachè Dante usi
ti. Donde viene questa differenza, e a che ho alcune volte di non raddoppiarla, perchè avendo
io a conoscere quando debbo profferire o scri detto in un luogo regolatamente :
vere in un modo, e quando nell'altro? Date
mene alcuna regola, mediante la quale io pos Volseci in su colui che si parlonne (4),
sa, conoscendo cotale diversità, camminare si disse in un altro, fuor di regola:
curamente senza smarrirmi.
V. Ogni volta che il verbo a cui gli affissi Perchè lo spirto che di prima parlomi (5),
congiugnere si debbono, fornisce in lettera vo in luogo di parlommi, se già alcuno non vo
cale e ha l'accento acuto sopra l'ultima sil lesse dire anche qui che gli antichi dicevano
laba, la prima lettera dell'affisso si dee in co parlóe, trovoe, andde e così di tutti gli altri;
tal caso necessariamente raddoppiare, altra e altrove:
mente si rimane semplice; e quinci è che nel
tempo presente si pronunzia e si scrive vi omi Finchè 'l tremar cessò, ed ei compiesi (6),
con una m, e non vivommi con due, cioè io invece di compiessi, cioè si compie , e anco qui
mi vivo, e nel futuro ovvero avvenire, vivrommi
con due e non vivromi con uno, cioè mi viverò;
si potrebbe dire, che gli antichi nostri dice
vano compieo, come feo, rompeo e tanti altri;
cosi moromi e morrommi, così dimmi e dammi e altrove:
nel singulare, ditemi e datemi nel plurale. So
migliantemente dallomi e dillomi nel numero E tal candor di qua giammai non fuci (7),
del meno e datelomi e ditelomi o datelmi e di
telmi nel numero del più, in luogo di datemelo (1) Bembo, Prose, lib. 111, part XXV il
e ditemelo. E nel medesimo modo di tutti gli (2) Bembo, Prose, lib. lil, part XXVII.
(3) Dante, Purg. XXII.
altri affissi come staviti in camera e stati da
(4) Dante, Purg. XIX.
te: Colui già davasi e ora dassi un bel tempo, (5) Dante, Purg. XXIV.
invece di si dà o dà a sè. Facci buon viso, co (6) Dante, Purg. XX.
(7) Dante, Purg- XXIX. e
me già facevici: evvi a noia, come già eravi, lo
388 L' ERCOLANO
in luogo di fucci, cioè fue qui, ovvero ci fue; In luogo di faccianogli, dove lasciò la lettera
e altrove: n senza convertirla in g o in l.
C. Tenete voi che Dante e gli altri antichi
Virgilio, a cui per mia salute diemi (1), scrivessero correttamente, e secondo le regole
cioè mi die o diemi, in luogo di diemmi, e dell'ortografia ?
altrove: V. Cotesta è un'altra faccenda ; io per me
credo di no; ma questo per ora non fa caso;
Dio lo si sa qual poi mia vita fusi (2), basta che Dante in un altro luogo scrisse:
cioè si fu o fucsi, in luogo di ſussi. Dichiareranlti ancor le cose vere (1),
C. Perchè avete voi detto nel dar la rego
la: quando il verbo fornisce in vocale? e quali in luogo di dichiarerannoloti, cioè te lo , o lo
ti dichiareranno, e insomma il o lo dichiare
sono quei verbi che in vocale non finiscono?
V. Non solo tutti i verbi, ma tutte le per ranno a te, che tutti questi significano una
sone di tutti i verbi forniscono ordinariamente cosa medesima, come poco fa vi diceva.
nella lingua toscana in alcuna delle vocali, C. Io so cotesto; ma io vorrei sapere se tra
quando si pronunziano intere, ma l'uso gli loro è differenza, e se v'è, come par ragione
profferisce molte volte mozzi o tagliati, come vole, con qual regola o legge si può conoscere.
V. Differenza v' è senza alcun dubbio, e tal
cantiam e non cantiamo, aman e non amano,
e allora non vale la regola ; perciocchè non si volta molta, non già quanto al sentimento, ma
raddoppia la consonante, dicendosi cantiamlo, quanto alla vaghezza e leggiadria del parlare;
con una l solo, che più stare non vene pos ma io altra legge o regola recare non vi sa
sono: similemente amanlo, sanlo, sonvi e altri prei, se non quella stessa che disse il Bembo (2).
assai. C. E quale fu cotesta?
C. Non si potrebbe egli dire, che coteste V. Il giudizio degli orecchi, e a coloro mas
voci, oltrachè la pronunzia non soffera che la simamente, i quali sotto il cielo di Firenze
consonante si raddoppi, sono poste in luogo nati o allevati non sono; perchè a Fiorentini
delle loro intere l' come amiamolo, amanolo la natura stessa e la proprietà del parlare in
sannolo, sono iº 3
segnano agevolmente molte cose che gli altri
V. Non solo si potrebbe, ma si doverrebbe; con difficoltà capiscono; e perciò disse il Bem
e per questa cagione, cioè perchè rappresen bo che questo modo di parlare: Tal la mi
tassero più manifestamente i loro interi, scri truovo al petto (3), è propriamente uso di Fi
verei io piuttosto sanlo con nl, che sallo con renze, laddove, talme la trovo al petto, italiano
due l, il che è chiaramente singolare; e fanlo sarebbe piuttosto che toscano, essendo men
piuttosto che fallo, come usano di scrivere vago; similmente: Io le mi strinsi a piedi (4),
alcuni ; e danni in luogo di dannomi, e non pur del Petrarca, è più gentilmente detto, che
dammi con due m. i non è: Io me le strinsi a piedi:
C. Dunque voi scriverreste piuttosto sonm E facciamisi udir pur come suole (5),
quando significa sonomi che sommi come fanno
quasi tutti? ha più grazia, che se avesse detto: e mi si fac
V. Sì io, quando gli altri ci s'accordasse cia udir, e parimente: Se non tal ne s'offer
ro; che da me solo non oserei cosa nessuna. se, che disse Dante, è più grazioso che se avesse
C. Non sapete che la lettera n non si può detto, tal se n'offerse (6); le quali sottilità co
trovare dinanzi alla m, ma è necessario che si nosce e giudica più l'orecchio, che altra cosa.
converta in essa, e così dinanzi alla lettera l Perciocchè qual ragione si può rendere perchè
e forza che si converta in l, e così di tutte Dante dicesse nel quindicesimo del Purgatorio:
l'altre somiglianti ?
V. Sollo nella lingua latina; ma nella toscana Non ti fa grave, ma ſieti diletto,
non veggo questa necessità, e massimamente facendo nel primo l'affisso improprio, e nel
ne' casi posti di sopra, e dovunque si fuggisse secondo il proprio, e massimamente potendo
l'anfibologia, cioè l'oscuro e dubbio parlare; senza fatica nessuna fargli amendue propri, di
perchè molti si potrebbon fare a credere, veg cendo:
gendo scritto non fanlo, ma fallo, che fosse
nome, e non verbo insieme coll'affisso. Non fieti grave, ma fieti diletto,
C. La sentenza il potrebbe e doverrebbe
mostrar loro. o fare il primo proprio, e l'altro improprio
col dire :
V. Cotesto sarebbe proprio mettere il carro
innanzi a buoi, perchè non la sentenza le pa Non fieti grave, ma ti ſia diletto,
role, ma le parole hanno a mostrare la sen
tenza. E che quello che io dico, sia vero nella cose che tutte stanno nell'arbitrio e nel giu
lingua nostra, vedete che Dante lasciò scritto:
Facciangli onore, ed esser può lor caro (3). (1) Dante, Purg. XXIV.
(2) Bembo, Prosc, lib. ll I, part. XXVII.
(3) Il Bembo nello stesso luogo.
(1) Dante, Purg. XXX. (4) Petr. Canz. XXIV, 3.
(2) Dante, Parad. 11 l. (3) Petr. Canz. XL1, 4.
Q3) Dante, Purg. V. (6) Dante, luſ. 1X,
DIALOGO 389
dizio del componente, onde il Sanazzaro disse i quali portano con esso seco tanta malagevo
in un luogo : lezza, che al Sanazzaro si può agevolmente
perdonare se egli, costretto dalla rima, formò
A quella cruda che m'incende e struggemi (1): contra le regole starnosi e fermarnosi, quando
E in un altro: dovea dire starsi e fermarsi; e licenziosamente
disse offendami, in luogo d'offendemi, e vuolno
E con un salto poi t'apprendi e sbalzati (2); fuor di rima, in vece di vogliono, e incitassimi
ponendo nel primo luogo l'aſſisso improprio, per inciterebbemi, e alcuni altri, come:
e il proprio nel secondo; e altrove disse: Cantando al mio sepolcro allor direteme:
Vedi il Monton di Frisso e segna e notalo (3); Per troppo amare altrui sei ombra e polvere,
E forse alcuna volta mostrerreteme (1);
dove al primo verbo segna non pose l'aſfisso,
parendogli che bastasse, come nel vero fa, porlo e altrove:
al secondo, ovvero all' ultimo, cioè al verbo
nota. Piacquegli ancora nella fine di quelle Ma chi verrà che de'tuoi danni accertice (2) ?
rime che egli nell'ultimo luogo della sua Ar C. Leggieri biasimi mi paiono cotesti a petto
cadia divinamente tradusse dal Meliseo del
alle gravi lode che voi gli date. Ma ditemi,
Pontano, dire in persona di lui: gli aſfissi congiungensi mai con altre parti, che
I tuoi capelli, o Filli, in una cistula co'verbi, e con quegli otto verbi che raccon
Serbati tengo, e spesso quando io volgoli, taste ? -

Il cor mi passa una pungente aristula (4), V. Congiungonsi co' gerundj. Petrarca:
ponendo il pronome io dinanzi all'affisso pro Facendomi d'uom vivo un lauro verde (3).
prio volgoli ; il che, come di sopra vi notai,
si suole usare di rado. E altrove:
C. Io aveva sentito, come di sopra vi dissi, Standomi un giorno solo alla finestra (4).
biasimare sconciamente l'Arcadia, e perciò non
mi curava di leggerla , ora avendola mi voi co E il Boccaccio: Portandosenela il lupo (5). E
tanto lodata, la voglio vedere a ogni modo ; alcuna volta cogli avverbi; che, sebben mi ri
ma affinechè io non m'ingannassi, piacciavi cordo, il Boccaccio disse dintornomi.
farmi avvertito, quali sono quelli affissi che in C. Ricorderebbe vi egli d'alcuno affisso usato
ella diceste essere parte poco regolati, e parte da poeti con alcuno vago e più riposto senti
troppo licenziosi. mento ? - -

V. Chi biasima sconciamente le rime a sdruc V. Bisognerebbe pensarci; se già non vole
ciolo del Sanazzaro, debbe acconciamente lo ste intendere come felse, in luogo di se lo fece,
dare quelle del Serafino. Io per me non le cioè lo fece a sè; e felce in iscambio di lo ci
leggo mai senza somma maraviglia e diletta fece, o il fece a noi, o dielce in vece di diel
zione. loci, o diello, o lo diede a noi ; e Dante disse
C. Io ho pure inteso che elle non piacevano dicerolti per dicerolloti, cioe lo ti dirò, o il
al Bembo vostro. ti dirò, o dirollo a te, ovvero dirolloti, e più
V. Al Benmbo, mio signore, non dispiacevano volgarmente, dicerollo, o lo dirò a te, e insom
quelle del Sanazzaro, ma non gli piacevano le ma te lo dirò. Disse ancora Dante: uscicci mai
rime sdrucciole, o, come dice egli alcuna vol alcuno, cioè uscì mai alcuno di qui, e altrove:
ta, sdrucciolose. -

C. Sapetene voi la cagione? Trasseci l'ombra del primo parente (6),


V. No certo; ma io credo che lo movesse
cioè trasse di qui. E avvertite di non ingan
più d'altro il non essere state usate dal Pe narvi, come molti fanno, i quali pigliano per
trarca, lo quale pareva che egli intendesse di affissi quelli che aſfissi non sono, come quando
volere imitare in tutto e per tutto. Dante disse :
C. Il Petrarca non fece però Stanze; e il
Bembo nondimeno compose quelle che voi e Vassi in San Leo, ec. (7).
gli altri lodate tanto. dove vassi, non è aſfisso, ma impersonale, in
V. Non so dirvi altro, se non che, quanto
a me, io ho un grande obbligo al Sanazzaro; quel modo che Virgilio disse:
e il medesimo giudico che debba fare la no Itur in antiquam srleam (8).
stra lingua, la quale, merce di lui, ha una
sorte di poema, il quale non hanno nè i Greci, (1) Sanaz. Arcad. Eglog. XII, dove però si legge direte
ne i Latini, nè forse alcuno idioma che sia. mi, e mostreretemi. Ma senza questo vi sono pur troppe li
C. Che dite? Non hanno i Greci Teocrito,
cenze in quelle rime.
e i Latini Virgilio? (2) Sanaz. Arcad. Eglog. XII.
V. Hannogli, ma non con versi a sdrucciolo, (3) Petr. Canz. IV, 2.
(4) Petr. Canz. XLII, 1.
(1) Sanaz. Arcad. Eglog. VIII. (5) Bocc. Nov. LXXXVII, 6.
(2) Sanaz. Arcad. Eglog. XI I. (6) Dante, Inf. IV.
Q3) Sanaz. Arcad. Eglog. VIII. (7) Dante, Purg. IV.
(4) Sanaz. Arcad. Eglog. Xl 1. (8) Virg. Eneide, VI, v. 179.
L' ERCOLANO
39o
cioè si va, onde il medesimo Dante altrove:
QUESITo oTTAvo
E dimanda se quinci si va suso (1).
È ancora impersonale, e non affisso tutto quel Da chi si debbano imparare a favellare le lin
verso : gue, o dal volgo, o da maestri, o dagli scrittori.
Più v'è da bene amare e più vi s'ama (2). V. Le parole di questa dimanda dimostrano
apertamente che voi intendete delle lingue,
Similmente quando disse: parte vive, cioè che si favellino naturalmente,
E dentro della lor fiamma si geme e parte nobili, cioè che abbiano scrittori fa
L'agguato del caval (3). mosi. Per dichiarazione della quale, vi dirò
Si geme non è affisso, nè ancora se dicesse ge primieramente, come tutte le lingue vive e no
mesi, perchè la si in questo luogo non fa al bili consistono, come ne mostra Quintiliano (1),
tro che dimostrare, il verbo essere passivo, in quattro cose; nella ragione, nella vetustà,
come ancora là : ovvero antichità, nell'autorità e nella consue
tudine, ovvero nell'uso. L'uso, per farci dalla
Che la parola appena s'intendea (4). principale e più importante, ultimo in nume
E qualche volta non opera la si cosa nessuna. ro, ma primo in valore, è di due maniere; o
Dante: -
del parlare o dello scrivere. L'uso del parlare
d'alcuna lingua, ponghiamo per più chiarezza,
Ch'ei si mi fecer della loro schiera (5). della fiorentina, è anch'egli di due maniere,
universale e particolare. L'uso universale sono
E quando disse: tutte le parole e tutti i modi di favellare che
Dove per lui perduto a morir gissi (6), s'usano da tutti coloro i quali un muro, e una
fossa serra, cioè che furono nati e allevati den
gissi non è aſfisso, ma significa sigi, come là: tro la città di Firenze, e se non vi nacquero,
Ed ei sen gl, come venne, veloce (7) ; vi furono portati infanti, per mettere in con
cioè sen glo. Le quali cose, sebbene sono no suetudine o piuttosto ritornare in uso questo
tissime per sè stesse, tuttavia egli non si po vocabolo (2), cioè da piccolini, e anzichè fa
trebbe credere, quanto alcuni (dico ancora di vellare sapessero. L'uso particolare si divide
coloro che fanno regole e vocabolisti) s'in in tre parti ; perciocchè, lasciando stare l'in
gannino in esse.
fima plebe e la feccia del popolazzo, della quale
C. I prosatori non hanno anch'essi alcuni non intendiamo di ragionare, il parlare di co
aſfissi o strani, o segnalati? loro i quali hanno dato opera alla cognizione
V. Io lessi già in uno antico libro de' Frati delle lettere, aggiugnendo alla loro natia o la
Godenti della vostra terra, scritto l'anno 1327, lingua latina, o la greca, o amendune, è al
e postillato tutto di mano propria del reve quanto diverso da quello di coloro i quali non
rendissimo Bembo, il quale mi prestò per sua pure non hanno apparato lingua nessuna fore
cortesia messer Carlo Gualteruzzi da Fano, stiera, ma non sanno ancora favellare corret
uomo delle cose toscane assai intendente met tamente la natia: onde, come quel primo sarà
tilevi, cioè mettivele, lascialivi, tranele fuori, chiamato da noi l'uso de letterati, così questo
etto', cioè e toi, traline, lane trai, gli vi si ra secondo l'uso, o piuttosto il misuso degli idio
sciughi entro, soffiagliene, solesselo, cioè lo so ti, che misusare dicevano gli antichi nostri
lesse, doglionti, lo ne guaristi, vuolela per la quello che i Latini abuti, cioè malamente e
vuole, berela per berla, e molti altri cosi fat in cattiva parte usare. Tra l'uso de' letterati
e il misuso degli idioti, è un terzo uso, e que
ti. Ma se mi volete bene, usciamo oggi mai di
questi affissi, che mi pare anzi che no, che noi sto è quello di coloro i quali, sebbene non
ci siamo confitti dentro, e credo vi sieno già hanno apparato nessuna lingua straniera, favel
lano nondimeno la natia correttamente; il che
buona pezza venuti a noia così bene, come è loro avvenuto o da tutte, o da due, o da
a InC,
C. Oh state cheto, anzi m'hanno raddop ciascheduna di queste tre cose: natura, fortu
piato la voglia di sapere così feconda lingua, na, industria. Da natura, quando sono nati in
quelle case o vicinanze, dove le balie, le ma
però dichiaratemi: dri e i padri e i vicini favellavano correttamen
(1) Non trovo questo verso nella Commedia di Dante. te (3). Da fortuna, quando, per esser nati o
(2) Dante, Purg. XV.
(3) Dante, Inf. XXVI. (1) Quintil. Instit. Orator. lib. I, cap. VI.
(4) Dante, Purg. XIX. (2) Questa voce è usata da Dante e da Matteo Villani,
(5) Dante, Inf. IV. e da altri antichi riportati dal Vocabolario della Crusca;
(6) Dante, int. XXVI. perciò a torto è criticata come nuova dal Muzio al cap. VII
(7) Dante, Purg. ll. della Varchina.
-
(3) Il Muzio critica questo luogo nelle sue Battaglie
al cap. XIX della Varchina, dicendo non vi esser casa,
nè vicinanza, nè luogo veruno dove si parli correttamente,
nè pure in Firenze, e cita il Varchi stesso, che qui appresso
non nega che in Firenze non si usino nel favellare alcuni
barbarismi, che egli quivi riferisce, e che tuttora si veggono
DIALOGO 391
mobili o ricchi, hanno avuto a maneggiare o C. Io credeva che idiota volesse oggi signi
pubblicamente, o privatamente faccende orre ficare volgarmente un uomo senza lettere.
voli, e conversare con uomini degni e di grande V. Già non lo piglio io in altra significazio
affare. Dalla industria, quando senza lo studio ne, nonostantechè appresso i Greci, onde fu
delle lettere greche o latine si sono dati alla preso, significhi privato.
cognizione delle toscane, o per praticare coi C. E' mi pare un passerotto, o, come diceste
letterati, o con leggere gli scrittori, o coll'e- voi dinanzi, che implichi contraddizione, che
sercitarsi nel comporre, o con tutte e tre que: uno che sia letterato, non abbia lettere.
ste cose insieme. E perchè questi tali non si V. Se egli hanno lettere, e non hanno di
possono veramente, nè si debbono chiamare quelle lettere, delle quali noi favelliamo. Anco
idioti, nè anco veramente letterati, nel signi molti preti e notai hanno lettere, e nientedi
ficato che pigliamo letterati in questo luogo, meno nella lingua propria sono barbari e con
gli chiameremo non idioti, e l'uso loro sarà seguentemente idioti. Bisogna bene che voi
quello de' non idioti. avvertiate che nonostante che io abbia chiamato
C. Piacemi questa divisione; ma se i non questo uso diviso in tre, uso particolare, egli
idioti favellano correttamente la lor lingua na non è che non si possa, anzi si debba chia
tia, che s'ha egli a cercare altro? e in qual mare uso comune, perchè egli comprende in
cosa sono eglino differenti da letterati? i quali effetto tutta la città; conciossiacosachè gl' i
già non faranno altro in questo caso, che fa dioti sanno tutto quello che la plebe; i non
vellare correttamente ancora essi. idioti, tutto quello che la plebe e gli idioti;
V. Voi dubitate ragionevolmente; ma se non i letterati, tutto quello che la plebe, gli idioti
vi fosse altra differenza, si v'è egli questa, la e i non idioti insieme, fuori solamente alcuni
quale non è mica picciola, che i letterati sanno vocaboli d'alcune arti, o mestieri, i quali non
per qual cagione dicono piuttosto così, che cosi, importano nè alla sostanza, nè alla somma del
o almeno quali, o perchè queste sono proprie tutto ; onde perchè gli abusi, o piuttosto mi
locuzioni, e quelle improprie e traslate, e in susi, non sono usi semplicemente, ma usi cat
finite altre cose; dove i non idioti non sanno tivi, lascieremo da parte, seguitando l'auto
talvolta perchè, o in che modo si debbano rità di Quintiliano (1), l'uso degli idioti, e
congiugnere insieme il verbo e il nome; e in diremo che il vero e buon uso sia, principal
somma questi procedono colla pratica sola, e mente quello de letterati, e secondariamente
quelli ancora colla teorica, senzachè, sebbene quello de non idioti, avvisandovi che nel fa
ho detto che gli uni e gli altri correttamente vellare non si dee por mente ad ogni coselli
favellano, non perciò si dee intendere che i na, anzi, come m'ammaestra Cicerone (2), ac
letterati per la maggior parte non favellino comodarsi in favellando all'uso del popolo, e
più correttamente, che gli non idioti non fan riserbare per sè la scienza; perciocchè, oltra
no, come gli non idioti più correttamente che che il fare altramente pare un volere essere
gli idioti. da più degli altri, si fugge eziandio l'affetta
C. Non si truovano di quelli i quali sono zione, della quale niuna cosa è più odiosa e
dottissimi o in greco, o in latino, o in amen da doversi maggiormente schifare. Ora, per ri
due questi linguaggi, e contuttociò sono fore spondere alla dimanda vostra, dico che le lin
stieri e favellano barbaramente nelle lor lin gue s' hanno a imparare a favellare dal volgo,
gue proprie ? cioè dall' uso di coloro che le parlano.
V. Così non se ne trovassero ; e il Bembo C. Dunque un forestiere non potrà mai fa
agguaglia la follia di costoro a quella di coloro vellar bene fiorentinamente, se egli non viene
i quali bellissime e ornatissime case murano a Firenze ?
nei paesi altrui, e nella patria loro propria abi V. Non mai; anzi non basta il venire a Fi
tano male e disagiosamente. renze, che bisogna ancora starvi, e di più con
C. Senza dubbio cotestoro lasciano, come si versare, e badarvi: e molte volte anco non rie
dice, il proprio per l'appellativo; ma come si sce, perchè messer Lodovico Domenichi è stato
debbono chiamare in questa vostra divisione? in Firenze quindici anni continui, e con tutte
V. Come più vi piace; le parole di sopra le cose sopraddette non ha ancora apparato
mostrano che, quanto alla presente materia a parlare fiorentinamente.
s'appartiene, si debbano chiamare idioti. C. Egli sa pure fiorentinamente scrivere.
V. Noi ragioniamo del parlare, e non dello
scrivere, -

nelle scritture del 15oo. Ma tuttavia si può rispondere che C. Deh, poichè noi siamo qui, ditemi qual
nelle contrade di Firenze si parla più correttamente assai che cosa ancora dell' uso dello scrivere.
in qualsivoglia altro luogo; anzi si può anche affermare col
Varchi, che vi si parli assolutamente con tutta correzione, V. Deh no, che io ho riserbato questa parte
nella maniera delle frasi e nella giacitura e collocazione delle nella mia mente a un altro luogo e tempo,
parole, e nella sceltezza e proprietà de' significati delle mede C. Deh sì, ditemene alcuna cosa.
sime: nel che propriamente consiste il forte delle lingue; e
che quei pochi barbarismi che vi si usano, sono per lo più
nelle coniugazioni del verbi in alcun tempo particolare; cose (1) Quintil. Instit. Orator. lib. I , cap. VI in fine:
facilissime a schifarsi; oltrechè molti che sono reputati bar Nam, ut transeam quemadmodum vulgo imperiti logu un
barismi dalla meschinità deºgrammatici, si potrebbero a buona tur , etc.
equità sostenere con esempi d'antichi scrittori e con forti ra (2) Cic. nell'Oratore a Bruto: Usum loquendi populº
guona. con essi, scientam mulu reserrari.
392 L' ERCOLANO

V. Che vorreste voi sapere? poichè io non sonniferava º benchè quel luogo sia da alcuni
vi posso negare cosa nessuna. -
diversamente inteso e dichiarato. Non devemo
C. Se una lingua si può bene e lodevolmente noi più maravigliarci e maggiormente commen
scrivere da uno il quale da coloro che natu darlo, che egli essendo forestiero, scrivessa
ralmente la favellano, appresa non l'abbia. nell'altrui lingua e in verso e in prosa così
V. Voi non sentiste mai favellare natural bene e leggiadramente; che prendere mara
mente la lingua latina, e pure di molte volte viglia e biasimarlo, che egli in alcune poche
latinamente scritto m' avete. cose, e non di molto momento, fallasse? E
C. Io non dissi, latinamente, ma, bene la poichè sono sdrucciolato tanto oltra per com
tinamente; poi io intendeva delle lingue vive piacervi, sappiate che io tengo impossibile che
affatto, e insomma della fiorentina, non delle uno il quale non sia nato in una lingua, o da
mezze vive; che ben so, per tacere di coloro coloro che nati vi sono, apparata non l'abbia
che ancora vivono, che oltra il Bembo, il Sa o viva affatto o mezza viva che ella sia, possa
doleto, il Longolio, il Polo e alcuni altri, da tutte le parti scrivervi dentro perfettamente,
messer Romulo Amaseo e messer Lazzaro da se già in alcuna lingua tanti scrittori non si
Basciano e alcuni altri scrivevano bene, anzi trovassero che nulla parte di lei fosse rimasa
ottimamente la lingua latina. indietro; la qual cosa è piuttosto impossibile,
V. Non sapete voi che per tacere del Bembo, che malagevole.
il quale stette più anni in Firenze da bambino C. Dunque, per lasciare dall'una delle parti
col padre, che v'era ambasciadore, e poi vi Virgilio e gli altri che potettero imparare la
fu più volte da sè, che molti hanno scritto e lingua latina o in Roma o da Romani uomini,
scrivono fiorentinamente i quali non videro tutti coloro che hanno scritto latinamente do
mai Firenze? E tra questi fu per avventura pochè la lingua latina si perdè, hanno scritto
uno, messer Francesco Petrarca. Ma lasciano imperfettamente (1)?
lui, che nacque di madre e di padre Fioren V. Io per me credo di sì; e mi pare esser
tini, e da loro è verisimile che apparasse la certo che se Cicerone o Sallustio risuscitassero
lingua; messer Jacopo Sanazzaro, quando com e sentissero alcuno di noi, quantunque dotto
pose la sua Arcadia, non era, ch' io sappia, ed eloquente, leggere le loro opere medesime,
stato in Firenze mai. che eglino a gran pena le riconoscerebbero
C. Voi vedete bene che, come dicono al per sue; e chi leggesse loro eziandio l' operc
cuni, vi sono delle parole non fiorentine, e latine del Bembo, non che quelle del Pio,
delle locuzioni contra le regole, perchè egli non credo io che fossero da loro altramente
oltra l'aver detto : intese, che sono da noi il Petrarca o il Boc
Anzi gliel vinsi e lui non volea cedere (1), caccio, quando da un Franzese o da un Te
desco mezzanamente attalianato si leggono.
ponendo lui, che è sempre obliquo, invece di C. Con quali ragioni o autorità potreste voi
egli ovvero ei, che sempre è retto, egli non provare che così fosse come voi dite ?
intese la forza e la proprietà di questo av V. Con nessuna, perchè delle cose delle
vcrbio affatto quando disse: quali non si può far prova, nè venirne al ci
Vuoi cantar meco ? Ora incomincia affatto (2). mento, bisogna molte volte, per difetto di ra
gioni e mancamento d'autorità, starsene alle
V. È vero; ma volete voi che si poche co conghietture.
se, e tanto piccioli errori, e massimamente in C. E quali sono queste conglietture che voi
un'opera così grande, così nuova e così bella avete ? -

facciano che ella si debbia non dico biasimare v. Io so molto io; voi mi serrate troppo;
come fanno molti, ma non sommamente loda la prima cosa noi non conosciamo la quantità
re, anzi ammirare? Non vi ricorda di quello delle sillabe, cioè se elle sono brevi o lunghe
che disse Orazio nella sua Poetica (3)? naturalmente come facevano i Latini. Noi
pronunziamo l'aspirazioni, perche nel mede
Verum ubi plura nitent in carmine, non ego paucis simo modo nè più, nè meno proſeriamo noi
Offendar maculis quas aut incuria fudit, latinamente habeo, quando è scritto coll' h e
Aut humana parum cavit natura (4). significa io ho, che abeo senza aspirazione,
Non disse egli ancora nella medesima Poetica, quando significa io mi parto, e pure in quel
che, non che altri (5), Omero alcuna volta tempo e in quella lingua si pronunziavano di
versamente, come dimostra quel nobilissimo
(1) Sanaz. Arcad. Eglog. IX, ma in alcuna edizione si epigramma di Catullo: -

legge :
Anzi gliel vinsi, ed ei nol volea cedere. Chommoda dicebat, si quando Commoda vellet
(2) Sanaz. Arcad. Eglog. Il. Dicere et Hinsidias Arrius Insidias (2).
(3) Orazio nella Poetica, v. 351.
(4) Il Castelvetro a cap. 94 delle sua Correzione, dice,
Noi avemo perduto l'accento circonflesso, il
che questo luogo d' Orazio non fa a proposito, perchè non quale in un medesimo tempo prima innalzava
parla dei falli di lingua, che il Castelvetro, che tenea assai e poi abbassava la voce. Noi latinamente pro
del grammatico, vuole che sieno irrenissibili. Ma si può in
tendere d'ogni sorta d'errore, purchè sia piccolo. (1) Vedi l' eruditissima Prefazione di Carlo Dati alle
(5) Orazio nella Poetica, v. 359. Quandogue bonus dor Prose Fiorentine, part. I, vol. I.
mitat Homerus.
(2) Catullo, epigr. LXXXV.
DIALOGO 393
nunziando non facciamo distinzione, nè diffe in varie guise, e diverse faccie dandole, per
renza dall'e ed o chiuso all'e ed o aperto, e farla, o mediante il numero, più sonora, o me
nondimeno v' è grandissima. Noi non potemo diante la giacitura, più riguardevole.
sapere se i Latini pronunziavano Florenzia per C. Quando io tutte coteste cose che voi
z, come facciamo noi, o Florendia come di piuttosto accennato avete che dichiarato, vi
cono che facevano i Greci, o Florentia per t ammettessi e facessi buone, le quali molti per
come profferiamo noi il nome della mercatan avventura vi negherebbono, elle procedono
tia (1). Chi può affermatamente dire con ve tutte solamente, quanto alla lingua latina, la
rità che noi in favellando o scrivendo latina quale è mezza morta; ma come proverreste
mente, non diciamo molte cose in quel modo voi nelle lingue vive, che coloro i quali non
quasi che gli schiavi, o le schiave italianamente vi sono nati dentro, o nolle hanno apparate
favellano? Perchè si pronunzia in latino que da chi le favella, non potessero, cavandole
sto nome Francesco nel nominativo non altra dagli autori, scriverlo perfettamente?
mente che se fosse aspirato, e nel genitivo V Io v'ho detto che voglio ragionare oggi
senza aspirazione? Perchè è differente il verbo del favellare e non dello scrivere; nel quale
peccare nel presente dello indicativo dal fu scrivere sono altrettanti dubbi, e forse più che
turo dell' ottativo, ovvero dal presente del nel favellare.
soggiuntivo? Il nominativo singolare di questo C. Ditemi questo solo e non più.
nome vitio si scrive nel medesimo modo, e V. E' bisogna distinguere, perchè altra cosa
colle medesime lettere appunto che il genitivo è il prosare e altra il poetare: e poetare si
plurale di questo nome vite, e non è dubbio può fiorentinamente almeno in sette maniere (1)
che la pronunzia era diversa e differente. Il tutte diverse.
nome species non dispiaceva a Cicerone (2) C. Che mi dite voi?
nel numero del meno, ma in quello del più V. Quello che è, e non punto più, anzi
sì, perchè l'orecchie sue non potevano patire qual cosa meno. La prima e principale è quella
il suono di specierum e speciebus, ma voleva di Dante e del Petrarca. La seconda quella di
in quello scambio che si dicesse formarum et Luigi e di Luca Pulci. La terza come scrisse
formis ; la differenza del qual suono, se non il Burchiello, che fu poeta anch'egli. La quarta
fosse stata avvertita da lui, nessuno oggi, che i capitoli del Berni. La quinta i sonetti d'An
io creda, conoscerebbe. Dice Quintiliano (3) tonio Alamanni (2). Oltra questi cinque modi,
che distingueva coll'orecchio, quando un verso cene sono due da cantar cose pastorali, uno
esametro forniva in ispondeo, cioe aveva nella in burla, come la Nencia di Lorenzo de' Me
fine amendue le sillabe lunghe, e quando in dici e la Beca di Luigi Pulci, e l'altro da
trocheo, cioè la prima lunga e l'altra breve; il vero: e questo si divide in due, perchè alcuni
che oggi non fa, che io sappia, nessuno. Il scrivono l' Egloghe in versi sciolti, come sono
medesimo afferma (4) che conosceva la diffe quelle di messer Luigi Alamanni e di messer
renza tra 'l p greco che i Latini scrivevano Jeronimo Muzio, e di molti altri, e alcuni in
per ph e lo flatino; il che a questi tempi versi rimati: e questo si fa medesimamente in
non si conosce. Io ho letto con gran piacere due modi, o con rime ordinarie o con rime
le giocondissime lettere che tu m'hai mandato. sdrucciole, come si vede nel Sanazzaro.
Quas ad me jocundissimas literas dedisti, legi C. Perchè diceste voi: Anzi qual cosa meno?
summa voluptate, diranno alcuni e alcuni altri: V. Perchè, oltrachè questi stili si mescolano
literas quas ad me dedisti joeundissimas, sum l'uno coll'altro, talvolta da chi vuole e tal
ma legi voluptate, e altri altramente; tantochè volta da chi non sene accorge, e per tacere
è possibile che nel volere variare le clausole delle Feste, Farse e Rappresentazioni, e molte
e tramutare le parole per cagione del nume altre guise di poemi, come le Selve e le Sa
ro, si scrivano oggi cose in quel tempo ridi tire, egli si scrive ancora da alcuni in bisticci.
cole; come chi scrivesse nella lingua nostra : C. Che cosa è scrivere in bisticci ?
Le giocondissime che tu lettere m'hai mandato, V. Leggete quella Stanza che è nel Mor
con sommo io ho letto piacere, e in altri modi gante la quale comincia:
simili, e forse più stravaganti; e tanto più che La casa cosa parea bretta e brutta (3),
l'orazione latina più assai, che la volgare non
e, circondotta essere si vede, cioè atta a po o tutta quella pistola di Luca Pulci che scrive
tersi circondare e menare in lungo, mutandola Circe a Ulisse:

Ulisse o lasso, o dolce amore, io moro,


(1) Oggidì si pronunzia: mercanzia, e mercatanzia collaz.
(2) Cic. Topic. Nolim enim, ne si Latine quidem dici (1) Il Muzio nel cap. XV della Varchina dice, che que
possit, specierum, et speciebus dicere, etc. at formii, et for ste maniere si riducono a due, nobile e plebea. Ma postº
marum velim. che ciò sia vero, non è che queste due maniere non si divi
(3) Quintil. Inst. Orat. lib. IX, cap. IV. Aures tamen dano nuovamente in molte altre.
consulens meas, intelligo multum referre utrum ne longa sit (2) La maniera del poetare di Antonio Alamanni si può
quae claudit, an pro longa; negue enim tam plenum est di ridurre a quella del Burchiello, perchè non sembra in niente
cere: « Incipientem timere, o quam illud: ss Ausus est con diversa; ma in quella vece se ne possono aggiugnere molte
fiieri ». Laonde non pare che parli della chiusa del verso esa altre, del dle vedi la Storia della Volgar Poesie di Gio
metro, come vuole il Varchi, ma della finale o di prosa, o vanni Mario Crescimbeni, e i suoi Commentari sopra di essa,
di verso. e il signor abate Bianchini nel Trattato della Satira italiana.
(4) Quinti. Instit. Orat. lib. XII, cap. X. (3) Morg. Canto XXI 11, Slan, 47.
t'Alit.Hi V., I 5,
394 L' ERCOLANO
e saperretelo; la qual cosa fa oggi Raffaello | cioè, per farla grassa e più a vostro vantaggio
Franceschi meglio e più ingegnosamente, o al che si può, quando il Magnifico Giuliano, fra
meno ridevolmente di loro. Ora voi avete a tello di Papa Leone, era vivo, che sono più
sapere che nelle maniere nobili, cioè nella di quaranta anni passati; nel qual tempo la
prima e nell'ultima delle sette, possono i fo lingua fiorentina, comechè altrove non si sti
restieri così bene scrivere, e meglio, come i masse molto, era in Firenze per la maggior
Fiorentini, secondo la dottrina e l'esercita parte in dispregio; e mi ricordo io, quando
zione di ciascuno; perchè alcuno quanto arà era giovanetto, che il primo e più severo co
migliore ingegno, maggiore dottrina, e sarà più mandamento che facevano generalmente i pa
esercitato, tanto farà o Fiorentino, o straniero dri a figliuoli e i maestri a discepoli, era che
che egli sia, i suoi componimenti migliori, ma eglino nè per bene, nè per male non legges
nell'altre cinque maniere non già. E che ciò seno cose volgare, per dirlo barbaramente come
sia vero, ponete mente che differenza sia dai loro; e maestro Guasparri Mariscotti da Mar
Capitoli fatti da Fiorentini, massimamente dal radi, che fu nella gramatica mio precettore,
Berni, che ne fu trovatore, e da messer Gio uomo di duri e rozzi, ma di santissimi e buoni
vanni della Casa, a quelli composti dagli altri costumi, avendo una volta inteso in non so che
di diverse nazioni, che veramente potrete dire modo, che Schiatta di Bernardo Bagnesi e io
quelli essere stati fatti e questi composti. leggevamo il Petrarca di nascoso, ce ne diede
C. I Capitoli del Mauro e quelli d'alcuni una buona grida , e poco mancò che non ci
altri sono pure tenuti molto dotti e molto cacciasse di scuola.
belli. C. Dunque a Firenze, in vece di maestri che
V. Già non si biasimano per altro, se non insegnassero la lingua fiorentina, come antica
perchè sono troppo dotti e troppo belli, e in mente si faceva in Roma della romana, erano
somma non hanno quella naturalità e fioren di quelli i quali confortavano, anzi sforzavano,
tinità, per dir così, la quale a quella sorta di a non impararla, anzi piuttosto a sdimenticarla?
componimenti si richiede. Messer Mattio Fran V. Voi avete udito, e ancora oggi non ve ne
zesi (1), mio amicissimo, avanzò tanto il Molza mancano, e credete a me che non bisognava
nello scrivere in burla, quanto il Molza, che nè minor bontà, nè minor giudizio di quello
fu non meno dotto e giudizioso, che amorevole dell'illustrissimo ed eccellentissimo signor Duca
e cortese, avanzò lui nel comporre da buon mio padrone. Avvertite ancora che il Bembo
sºmmo,
dice: Non sia di molto vantaggio, le quali pa
C. Io vi dirò il vero, quando io potessi scri role dimostrano che pure ve ne sia alcuno.
vere nelle maniere nobili, io non credo che C. Io comincerò a credere che voi o siate,
io mi curassi troppo dell'altre. o vogliate diventare sofista.
V. Ce ne sono degli altri ; voglio bene che V. Oimè no; ogni altra cosa da questa in
sappiate che anco nelle manicre nobili così fuori.
di prose, come di versi, occorrono molte volte C. Poichè quello che il Bembo disse per
alcune cose che hanno bisogno della naturalità modestia, è da voi interpretato come se fosse
fiorentina; ma perchè queste cose apparten stato detto per sentenza. Non mostrano le pa
gono allo scrivere e non al favellare, voglioni role che egli usa di sotto, e le ragioni ch” e
riserbare a dichiararle un' altra volta. gli allega, l' opinione sua essere che un fio
C. Or non foste voi indovino ; poichè volete rentino abbia nello scrivere fiorentinamente
fuggire appunto in quel tempo, e a quel luogo disavvantaggio da un forestiere? Ma quando
nel quale e il pericolo, e dove bisogna star bene nol dicesse, fate conto che lo dica, o che
fermo. il dica io, e rispondetemi.
V. Che cosa sarà questa? V. Un fiorentino, data la parità dell'altre
C. Io ho penato un pezzo per condurvi a cose, cioè posto che sia d'eguale ingegno da
questo passo, sicchè ora non pensate uscirmi natura, d' eguale dottrina per istudio, e d'e-
delle mani e scappare sì agevolmente. Udite guale esercitazione, mediante l'industria, non
quello che dice il Benbo nel primo libro delle arà disavvantaggio nessuno, ma bene alcun
sue Prose. vantaggio da uno che fiorentino non sia, nel
V. Che cosa ? fiorentinamente comporre, e questa e cosa tanto

C. Tutto il contrario di quello che dite e conta e manifesta per sè, che io non so come
accennate di voler dir voi. da alcuno se ne possa, o debba dubitare.
V. Clne? C. Che risponderete voi alle ragioni che egli
C. Che gli vien talora in opinione di cre allega?
dere che l'essere a questi tempi nato fiorentino, V. Che dice il vero che i Fiorentini, avendo
a ben volere fiorentino scrivere, non sia di molto la lor lingua da natura, non la stimavano, e
vantaggio; talchè, secondo queste parole del che parendola loro sapere, nolla studiavano, e
Bembo vostro, la vostra fiorentinità sta piut che attenendosi all'uso popolaresco, non iscri
tosto per nuocere che per giovare. vevano così propriamente, ne cosi riguardevol
V. Avvertite, ch'egli dice: A questi tempi, mente come il Bembo e degli altri.
C. Voi non m'avete inteso bene. Io vo' dire
(1) Mattio o Mattia Franzesi, fiorentino, fu uno dei i ù che quando i Fiorentini pigliano la penna in
vivaci imitatori del Berni. Anche il Care ne parla in ter mano, per occulta forza della lunga usanza
mini assai onorevoli in una delle rue lettere. (M.) che hanno fatto nel parlare del popolo, molte
DIALOGo 395
di quelle voci e molte di quelle maniere di portanza, e oggi comune a molti, il quale è,
dire che si parano mal grado loro dinanzi, che che ogni volta che hanno conchiuso esser pos
offendono e quasi macchiano le scritture, non sibile che alcuno possa fare alcuna cosa, su -
possono tutte fuggire e schifare il più delle bito credono e vogliono che altri creda ch'e-
volte. gli la faccia; e non si ricordano che il pro
V. Io voglio tralasciare qui l'opinione di verbio dice, che dal detto al fatto è un gran
coloro i quali tengono che così si debba scri tratto,

vere appunto come si favella: il che è mani C. Datemene un esempio.


festamente falsissimo; ma vi dirò solo che il V. Alcuno vi dirà che il tale o il quale
parlare fiorentino non fu mai tanto impuro e compone un'opera, la quale pareggierà di leg
scorretto, che egli non fosse più schietto e più giadria e di numero, verbigrazia, gli Asolani
regolato di qualsivoglia altro d'Italia, come del Bembo, e conoscendo alla cera che io non
testimonia il Bembo stesso. Perchè dunque lo credo, mi dimanderà, se ciò è possibile; e
quella occulta forza dell'uso del favellare po perchè io non posso negargli, ciò esser possi
polesco non dee così tirare i Lombardi e i bile, vorrà che io creda che quello che è pos
Viniziani o nel favellare, o nello scrivere, come sibile ad essere, sia o debba essere a ogni
i Toscani, e i Fiorentini? e tirandogli, gli ti modo.
rerà a men corretto e più impuro volgare. C. Cotesta è una vaga e pulita foica.
C. Io non saprei che rispondermivi, se già V. Per mia fe sì.
non dicessi che la differenza, la quale è dal C. Ma torniamo al caso nostro. Il Castelve
parlare de'forestieri allo scrivere fiorentina tro nella sua Risposta a carte 94 di quella in
mente, è tanto grande, che agevolmente cono quarto foglio che si stampò prima, e 148 di
scere la possono, e per conseguenza guardar quella in ottavo che si stampò ultimamente (1),
sene, il che non potete far voi per la molta confessa di non aver beuto quel latte della
vicinanza che è del parlar vostro allo scrivere. madre, o della balia, nè appreso dal padre o
V. Piacemi che voi andiate cercando di sal dal volgo in Firenze la lingua volgare, ma es
vare la capra e i cavoli, come si dice, benchè sersi sforzato d'impararla da nobili scrittori;
io non so, se eglino volessono essere per cotal e coll'autorità e parole stesse del Bembo (2)
modo salvati; ma ricordatevi della parità del par che voglia mostrare che in impararla non
l'ingegno, dottrina e esercitazione. si richiegga di neeessità il nascimento e l'al
C. Quanto al giudizio, può un forestiere così levamento in Firenze, nè il rimescolamento,
bene giudicare i componimenti toscani, come per usar le sue proprie parole, eolla feccia
un fiorentino? del popolazzo; che ne dite voi?
V. Io v'ho detto di sopra che tanto si giu V. Così lo potessi io scusare negli altri luo
dica bene una cosa, quanto ella s'intende. ghi, come io posso in cotesto, nel quale egli
C. Io ve n'ho dimandato, perchè Quinti procede e favella modestamente.
liano (1), il quale fu, secondochè scrivono al C. In che modo lo difenderete voi?
cuni, spagnuolo, diede buon giudizio di tutti V. Primieramente quello che egli dice, si
i poeti non solo latini, ma greci; che ne dite può intendere dello scrivere e non del favel
voi? lare, e quando bene s'intendesse del favella
V. Che volete voi che io ne dica, se non re, a ogni modo direbbe vero, perciocchè l'es
bene ? Se il giudizio suo fu buono, come in sere egli nato e allevato a Modona, non gli
verità mi pare, è segno certissimo, che egli toglie che non possa sapere, come dice egli,
l' intendeva bene. alcuna cosa, non pur d'altro della lingua vol
C. Vo' dire che egli non era però romano, gare ancora. Poscia egli allega l'opinione del
e anco non so ch'egli fosse stato in Grecia. Bembo, scrivendo le parole di lui medesimo,
V. Omdunque si fosse, egli nacque, fu alle senza interporvi il giudizio suo; perche viene
vato e tenne scuola pubblica molti anni in a riferirsi e appoggiarsi all'autorità del Bem
Roma, e se non andò in Grecia, oltra che i bo, onde il Bembo viene ad aver fallato, e non
Greci andavano a Roma, molto meglio arebbe il Castelvetro, se fallo è cotale opinione, come
fatto ad andarvi, in quanto al potere meglio io credo.
intendere la lingua greca, e più perfettamente C. Che direte dunque di Messer Annibale ?
giudicare gli scrittori d' essa. V. Che dove messer Lodovico si può scusa
C. Dunque è possibile che alcuno giudichi re, il Caro si dee lodare.
bene d' una lingua, nella quale egli non sia C. Quale è la cagione?
nato, nè l' abbia apparata da coloro che na V. Perchè l'opinione sua è la migliore, come
turalmente la favellano ? s'è conchiuso di sopra; poi messer Annibale
V. Io lo vi replicherò un'altra volta. Quanto non riprende il Castelvetro semplicemente, ma
è possibile che egli l'intenda, tanto è possi come colui che voglia fare della lingua fioren
bile che egli la giudichi, onde se non può in tina, e dell'altre il Gonfaloniere (3), il Satra
tenderla perfettamente, non può anco perfet po, il Macrobio, l'Aristarco e gli altri tanti
tamente giudicarla da sè, dico, da sè, perchè
potrebbe riferire il giudizio d'altri: ma io vo (1) In Parma appresso Seth Viotto nel 1572.
glio avvertirvi d'uno errore di grandissima im (2) Bembo, Prose, lib. I.
(3) Vedi l'Apologia del Caro a cart. 151 e altrove del

(1) Quintil. Inst. Orat. lib. X, cap. I. I edizione di Parma del 15oº in 4
396 L'ERCOLANO -

nomi che si truovano sparsamente nella sua suto a vergato fosse ben detto; nè che conso
Apologia: le quali cose niega il Caro, e con lare, nè consolazione in quel sentimento che
verità che si possano fare da uno il quale o egli lo piglia, si potessero comportare, non che
non sia nato, o non abbia praticato in Firen si dovessero lodare ; e arebbe sentito infino ai
ze: e quando mille volte fare si potessero, ne fanciulli che non sono ancora iti all' abbaco,
seguirebbe bene che il Castelvetro fare le po nè sanno schisare (1), dire sempre cinque ottavi,
tesse, ma non già che le facesse. Legrete quello e non mai le cinque parti dell'ottavo, come
che dice di questo fatto messer Annibale a fac usa egli più volte. A quanti ha mosso riso, e
cie 151, e molto più chiaramente a faccie 167, a quanti compassione, quando egli a carte 95 (2)
le cui parole sono queste, nelle quali sono ri tentando di difendersi da Annibale, il quale a
strette in somma e racchiuse in sostanza tutte facce 151 dice che una volta che il Castelve
le cose che infin qui di questa materia dette tro fu a Firenze, egli v'imparò piuttosto di
si sono; però consideratele bene: Vedete, gra fare a sassi e d'armeggiare, che di scrivere;
matico e favellator toscano che voi sete! E forse risponde, volendolo riprovar falso, che non so
che non presumete di farne il maestro e d'alle lamente non imparò d'armeggiare quella volta
tarne anco l'uso, come se vi foste nato o no che egli fu in Firenze, ma che non fu mai
drito dentro, e che l'usanza e 'l modo tutto con in Firenze in età da imparar d'armeggiare e
che se ne dee ragionare e scrivere, fosse commi da travagliare la persona in esercizi giovenili,
tamente nelle sole osservanze che voi solo n'avete come aveva fatto prima in altre terre; e non
fatte, non v'accorgendo che per fare una profession si avvede, come arebbe fatto, se si fosse ri
tale, non basta che voi ne sappiate le voci sola mescolato colla feccia del popolazzo di Firen
mente, nè la proprietà di ciascuna di esse, che ze, che egli, mentrechè vuole scusarsi dell'ar
bisogna sapere anco in che guisa s'accozzano neggiare, armeggia tuttavia; perchè, come si
insieme, e certi altri minuzzoli, come questi che dichiarò di sopra, quando si vuol dire in Fi
si son detti, i quali non si trovano nel vostro renze a uno: Tu non dai in nulla, tu t'av
Zibaldone, nè anco in su i buoni libri talvolta. volpacchi, e insomma tu sei fuor de gangheri,
L'osservazion degli autori è necessaria, ma non se gli dice per una così fatta metafora: Tu
ogni cosa v'è dentro, e oltra quello che si truova armeggi.
scritto da loro, è di più momento e di più van C. Certo che io non avea avvertito cotesto,
taggio che non pensate, l'avere avuto mona San e, per la mia parte, di simil cose lo scuserei,
dra per balia, maestro Pippo per pedante, la Log perchè cotali parole non si truovano ordina
gia per iscuola, Fiesole per villa, aver girato più riamente scritte ne' libri, e massimamente de
volte il coro di Santa Riparata, seduto molte gli autori nobili.
sere sotto 'l tetto de Pisani, praticato molto tem V. Il medesimo farei ancora io, solo che non
po, per Dio, fino in Gualfonda, per sapere la volesse stare in sulla perfidia, e mantenere
natura di essa. d'aver ben detto, anzi confessare che se il
C. Queste mi pajono molto efficaci, e molto rimescolarsi col popolazzo non è necessario
vere parole; ma se messere Annibale è da allo scrivere, è almeno utile al favellare; e,
Civitanuova, o, secondochè vuole il Castelve per non istare ora fuor di proposito a raccon
tro(1), da San Maringallo, terre amendue nella tarle a una, a una, sappiate, che di tutte le
Marca d'Ancona, come scrive egli così puro e prime dieci opposizioni che egli fece contra
così fiorentinamente, come si vede che fa? E la Canzone di messere Annibale, egli, se fosse
onde ha imparato tanti motti, tanti proverbi, stato pratico in Firenze, non n'arebbe fatta
e tanti riboboli fiorentini, quanti egli usa per nessuna, perchè tutte quelle parole che egli
tutte le sue composizioni ? riprende, non solo si favellano, ma si scrivono
V. A messere Annibale, se egli non ebbe nè ancora da tutti coloro i quali o scrivono, o fa
mona Sandra per balia, nè maestro Pippo per vellano fiorentinamente; come al suo luogo si
pedante, non mancò niuna dell'altre condizioni mostrerà, e tanto chiaro, che niuno non po
che egli medesimo dice esser necessarie a chi trà, secondo che io stimo, non maravigliarsi di
vuol ben favellare o leggiadramente scrivere chi arà creduto altramente.
nella lingua fiorentina. C. Se io potessi aspettare a cotesto tempo,
C. Riconoscesi in lui, o ne suoi scritti quel io non v'arei dato oggi questa briga; ma egli
non so che di forestiero, come negli altri che d'intorno a questa materia dell'imparar le
fiorentini non sono; la qual cosa il Castelve lingue non mi resta se non un dubbio solo,
tro, imitando Pollione, chiamerebbe per av però dichiaratemi anche questo.
ventura Sanmaringallità? V. Ditelomi.
V. Voi volete la baja, e io non voglio ri C. Il Caro a facc. 31. narra (3) come Alci
spondervi altro, se non che egli è di maggiore biade dice appresso Platone d'avere imparato
importanza che voi forse non credete, l'avere dal volgo di ben parlare grecamente, e che
usato e praticato in Firenze: e se il Castel
vetro si fosse talvolta rimescolato colla feccia (1) Schisare è termine aritmetico, e suona ridurre il nu
mero rotto ad altro numero minore, ma di valore eguale. Così
del popolazzo fiorentino, egli non arebbe prima il Vocabolario della Crusca, che reca appunto quest'esempio
detto e poi voluto mantenere, che panno tes del Varchi. (M.)
(2) Castelvetro a cart. 148 dell' edizione di Parma del
(1) Castelvetro a cart. 117 della sua Replica, nell'edi.
zione di Parma del 1573, in 8° l 1573, in 8." -

(3) Il Caro nell'Apologia dell' edizione suddetta.


DIALOGO 397
Socrate approva il volgo per buon maestro, e mente, volendo inferire che dal popolo si può
per laudabile ancora in questa dottrina, e che bene imparare a favellare, ma non già a favel
per voler far dotto uno in quanto al parlare, lar bene: e per provar questo suo detto allega
bisogna mandarlo al popolo. Ora io vi dimando che Platone usò il verbo è A) o vizstv, il quale
non se queste cose son vere, perchè essendo usò ancora Tucidide (1) nel medesimo signifi
di Platone, le credo verissime, oltrachè di so cato, cioè per favellar greco semplicemente,
pra sono state dichiarate da voi; ma diman non per favellar bene e correttamente greco.
dovi se Platone le dice. C. In questo sta la differenza loro; a que
V. Dicele tutte a capello; perchè? sto bisogna che rispondiate per messer Anni
C. Perchè le parole usate dal Castelvetro a bale.
carte 6 nella prima impressione, e a 1o nella V. Il verbo iº) nvigstv non significa appresso
scconda me ne facevano dubitare, dicendo egli Platone favellare semplicemente, come afferma
così: Posto che fosse vero che queste cose si di il Castelvetro, ma bene e correttamente favel
cessero tutte appo Platone, perchè messe egli lare, come dice il Caro.
in dubbio le cose chiare? C. In che modo lo provate?
V. Io non vi saprei dire altro, se non che, V. Quello che non è dubbio, non ha biso
come dissi ancora di sopra, il Castelvetro si gno d'esser provato ; l' nso stesso del favel
va ajutando colle mani e co' piè, e come que lare lo prova sufficientemente. Chi dice : Il
gli che affogano, s'appiccherebbono, come si tale insegna cantare o sonare; o si veramen
dice, alle funi del cielo, usa tutte quelle arti te: Io ho imparato a leggere o scrivere; vuol
che sa e può, non solo per iscolpar sè, ma significare e significa che colui insegna bene
per incolpare Annibale; oltrachè il modo dello e che egli ha bene imparato; perchè chi fa
scrivere sofistico è così fatto. male una cosa, o non bene, non si chiama sa
C. Non pensava egli che almeno gli uomini perla fare, conciossiachè ognuno sappia giucare
dotti, dei quali si dee tener maggior conto ben e perdere. E se chi favella, o scrive sempli
per l'un cento, che degli altri, avessono, leg cemente, non si dovesse intendere così, non
gendo Platone, a conoscere l'arte e l'astuzia bisognerebbe che noi avessimo altro mai nè in
usata da lui ? - bocca, nè nella penna che questo avverbio
V. Io non so tante cose; voi volete pure bene. -

che io indovini; la quale arte io non seppi C. Cotesta ragione mi par qualcosa, ma ella
mai, nè so fare al presente. non m'empie affatto; perchè si dice pure: La
C. Io non voglio che voi indoviniate, ma grammatica è un'arte di ben parlare e di cor
solo che mi diciate l'opinione vostra. rettamente scrivere.
V. Eccoci all'opinione mia. La mia opinione V. E vero che egli si dice da coloro che non
è che ognuno dica e faccia, faccia e dica tutto sanno più là ; ma egli non si dovrebbe dire,
quello che meglio gli torna, e che tutto il perchè nelle buone e vere diffinizioni non en
mondo sia colà, per non dire che il precetto tra ordinariamente bene per la ragione detta.
de' rétori è che chi ha 'l torto in alcuna cau C. Ei si dice pure: La rettorica è un'arte
sa, vada aggirando se e altrui, e per non ve la quale insegna favellar bene.
nirne al punto mai, favelli d'ogn'altra cosa, V. Voi siete nella fallacia dell'equivoco,
e metta innanzi materia assai per isvagare i cioè vi ingannate per la diversa significazione
giudici, e occupargli in diverse considerazioni. de vocaboli. Bene non si piglia in cotesto luo
Tutti i dotti non sono atti ad andare a leg go , come lo pigliamo ora noi, ma vuol dire
gere Platone, e intanto gli altri stanno sospe pulitamente e con ornamento: e poi se Pla
si, e i volgari se la beono. tone non avesse inteso del ben favellare, non
C. Non dice egli ancora che quando tutte arebbe soggiunto, come egli fece, che gli uo
quelle cose fossimo vere, non può comprendere mini volgari in questa dottrina son buoni mae
quello che Annibale si voglia conchiudere? stri, e rendutone la ragione, dicendo, perchè
come quasi non fosse manifestissimo e per la hanno quello che deono avere i buoni maestri.
materia, della quale si ragiona, e per le pa C. Voi diceste, non è molto, che non la ra
role così di sopra, come di sotto, che messere gione si debbe attendere principalmente nelle
Annibale vuole non solamente conchiudere, lingue, ma l'uso; onde pare che tutta questa
ma conchiude efficacemente, che le parole usate disputa si debba ridurre all'uso. Come hanno
da lui nella sua Canzone, e riprese dal Ca usato gli scrittori Greci questo verbo ?
stelvetro nelle sue opposizioni, sono in bocca V. Tutti coloro i quali hanno cognizione
del volgo, ed essendo in bocca del volgo, sono della lingua greca, sanno che iAaavigat» (a) si
intese, ed essendo intese, non sono quali dice interpetra per bene e correttamente favellare.
-
il Castelvetro, e per conseguente non meritano
riprensione; del che viene che ingiustamente (1) Tucidide l. 11, pag. 7o. Kai i?)nvia3naz» ri»
sieno state riprese e biasimate dal Castelvetro. vºy loaazy tors porov arro rov Aurozzco
V. Io non dubitava in coteste cose, ma il tov uvotznazvtov. E allora primieramente appresero
la lingua greca che ora parlano dagli Ambracioti, che seco
fatto non isti costi; il punto è questo. Mes dimorarano.
sere Annibale afferma che Alcibiade dice di (2) Questo verbo greco significa talora parlar greco asso
avere imparato dal popolo di ben parlare, e lutamente, e talora parlar greco con eleganza. E di questo
messer Lodovico lo niega, dicendo che egli secondo significato ve n' è esempio in Ateneo lib. VI.
non dice di ben parlare, ma di parlare sola | Oi 8 iAAn vigovts; Né? :tv itv p22 iv apyvp s»
398 L' EI; COLANO

C. A questo modo il Castelvetro non arebbe elocutionis est emendate loqui. Vedete voi che
cognizione della lingua greca, e pure nella sua egli non dice semplicemente parlare, come af
risposta allega tante volte tante parole greche, ferma il Castelvetro, ma emendatamente, cioè
e par che voglia ridersi di messer Annibale, e correttamente favellare, come lo prese il Caro?
riprenderlo come colui a chi non piacciano le C. Io vi dico che voi mi fate maravigliare.
parole greche. V. E io vi dico che voi sareste buono per
V. Io non so se il Castelvetro intende o la festa de Magi. Un altro, credo Tedesco, che
non intende, la lingua greca; so bene che in ha ultimamente tradotto e comentato la Re
questo luogo e in alcuni altri che sono nel torica, del cui nome non mi ricordo, dice que
suo libro, egli o nulla intese, o non volle in ste parole: Supra indicatum est, quatuor parti
tenderla, bus elocutionem constare, quarum initium, ac
C. Qual credete voi piuttosto di queste due caput est in quavis lingua pure emendateque
cose ? loqui. A costui non parve tanto sporre il verbo
V. In verità che io credo in questo luogo greco correttamente favellare, ma v'aggiunse
che egli non volesse intenderla. ancora puramente, e non solo nella greca, ma
C. Che vi muove a così credere? in qualsivoglia altra lingua. Messere Antonio
V, Che'l Buddeo (1) stesso ne'suoi Commen Majoragio, uomo d' incredibile dottrina e in
tari della lingua greca in quel luogo dove egli comparabile eloquenza, nella sua leggiadrissima
dichiara il verbo é))nvigety, lo mostra, alle traduzione della sua Retorica, dice così: Ini
gando il medesimo esemplo che allega il Ca tium autem et fundamentum elocutionis est emen
stelvetro di Tucidide (2). date loqui. Avete voi veduto che tutti gli in
C. Gran cosa è questa! terpetri spongono il verbo i AXavizet», non sent
V. E' vi parrà maggiore quest'altra. plicemente favellare, ma correttamente favel
C. Qnale? -
lare ?
V. Aristotile nel terzo libro della Rettorica C. Io vi dico di nuovo che voi mi fate ma
trattando della locuzione oratoria, usa questo ravigliare.
medesimo verbo, dicendo, poichè 'l Castelve V. E io di nuovo vi dico che voi sareste
tro vuole che s'alleghino le parole greche: buono per la festa de Magi. Conoscete voi mes
eci 3 3 oxh ri; ) :so: ro é))nvigstv. ser Piero Vettori ?
C. Io per me arò più caro che mi diciate C. Come, s'io lo conosco? non sapete voi
volgarmente il sentimento. che quando io fui qui l'altra volta con fra
V. Il sentimento e nella nostra lingua, che telmo, noi andammo in Firenze a posta sola
il principio, ovvero capo e fondamento della niente per vederlo e parlargli ? E chi non
locuzione, o volete del parlare, è il bene e conosce Messer Piero Vettori? il quale me
correttamente favellare. diante l'opere che si leggono tante e sì belle
C. Donde cavate voi quel bene e corretta di lui, è celebrato in tutto 'l mondo non solo
mente? per uomo dottissimo, ma exiandio eloquentis
V. Dalla natura delle cose, dalla forza del simo, oltra la nobiltà, la bontà l' umanità e
verbo e dall'usanza del favellare. Che vor tante altre lodevolissime parti sue.
rebbe significare, e che gentil modo di dire V. Cotesto stesso, cioè messer Piero Vettori
sarebbe: Il principio o il capo o il fondamento medesimo, il quale non è ancora tanto cele
della locuzione è il favellare ? brato, quanto egli sarà, e quanto meritano le
C. Queste sono cose tanto chiare, che io singolarissime virtù sue, ne' Commentari che
comincio a credere, come voi, che la risposta egli fece sopra i tre libri della Retorica d'Ari
fosse fatta da beffe, e che il Castelvetro in stotile, traducendo e interpretando il luogo
tendesse questo luogo così agevole, ma non lo greco allegato di sopra, dice queste proprie
volesse intendere. Coloro che tradussero la Re parole: Initium, id est solum ac fundamentum
torica in latino, confrontansi eglino con esso elocutionis, et quod magnam in primis vim ad
voi ? eam commendandam habet, est graeco sermone
V. Messer no; ma io con esso loro. Udite recte uti, ad pure, emendateque loqui; id enim
come lo 'nterpetrò, già sono tanti anni, mes significat A) n vigst,. Considerate che a si grande
ser Ermolao Barbaro, uomo per la cognizione uomo non parve abbastanza l'aver tradotto
delle lingue, e per la dottrina sua, di tutte il verbo e AAmvizstv, usar bene il sermone greco,
le lodi dignissimo: Caput vero, atque initium che soggiunse, e favelare puramente e corretta
mente, e per maggiore espressione, affinchè
zo7uov, xxi Xpv75v xbauov, cioè in vece d'2p:/v- nessuno potesse dubitarne, v'aggiunse, perchè
pouxta, e di X pvad uxt2, che sarebbe meno elegante. così significa il verbo ex An vigstv, cioè rettamente,
(1) Il Buddeo ne' Comment. a cart. 437, dell'edizione di puramente e correttamente favellare. Che dite
Basilea del 153o. Ecco le sue parole: EAXavizo est ry voi ora ?
to» )) ivo» ?povº: sc. Graca lingua loquor. E)- C. Dico che non mi maraviglio più ; e du
Xmvizouza pane idem est. Thucyd. in secundo: K2t i)- bito che molti non abbiano a dubitare che voi
Xavia 5 nazv rhy y) ottav rots Tpotov... Loqui siate d'accordo col Castelvetro, il quale a son
grarce carperunt, et didicerunt. Sed hoc ideofactum est, quod
mo studio abbia detto cose tanto manifesta
e Anviro interdum actice accipitur, pro ad Graecorum ri
tum ſormo, vel ad linguan elegantiamºue Gracorum do mente false, affinchè voi aveste che risponder
ceo, etc. gli senza fatica nessuna. Egli non mi par già
(2) Tucidid. lib. 11. che voi gli rendiate il cambio, perciocche se
DIALOGO 399
voi difenderete tutte le altre cose come voi a questo cimento e paragone venire si doves
avete fatto questa, io non so vedere quello che se, d' essere molto più, anzi senza compara
egli s'abbia a poter rispondere, onde sarà co zione affezionato al Caro, che al Castelvetro.
stretto o confessare la verità o tacere. E contuttociò voglio che questa mia buona
V. Voi dite in un certo modo il vero, e in un volontà serva, come io sono certissimo che
altro ne siete più lontano che 'l Gennaio dalle egli si contenta, non a nuocere ad altri, ma
more. Se i Castelvetro fosse di quella ragione solamente a giovare a lui, dovunque possa
che vo dire io, e che forse volete intender giustamente. Ma conchiudiamo oggi mai che
voi, prima egli non arebbe fatte quelle oppo le lingue si debbono imparare a favellare, da
sizioni così deboli, così sofistiche, così false, coloro che naturalmente le favellano, e dai
ne tanto dispettosamente; poi, perchè ogni maestri ancora, quando sene potessero avere
uomo erra qualche volta, non doveva tanto, in quel modo, e per quelle ragioni che si sono
nè per tante vie instigare messere Annibale dichiarate di sopra, leggendo ancora di que
a rispondergli; e alla fine quando vide le ri gli scrittori di mano in mano, i quali sono ri
sposte, che nel vero sono lealissime, e con putati migliori. E non aspettate ch'io vi fac
tengono in sostanza quasi tutte le risposte che cia più di queste dicerie, ch'io veggo che il
alle risposte sue dare si possono, egli doveva tempo ne mancherebbe.
acquietarsi e cedere alla verità. E se pur vo C. Dichiaratemi dunque:
leva o vendicarsi delle ingiurie dettegli, o mo
strare che non era quale lo dipigneva il Ca QUESITO NONO
ro, poteva con bella occasione comporre una
opera, nella quale arebbe potuto fare l'una A che si possa conoscere, e debbasi giudicare
cosa e l'altra. Nè dico questo per insegnare una lingua essere o migliore, cioè più ricca,
a lui, ma per avvertir voi; e anco se gli pa o più bella o più dolce d'un'altra, e quale
reva di poter difendere alcuna delle sue op sia più di queste tre cose, o la greca, o la la
posizioni, poteva farlo, pigliando quella o quelle tina, o la volgare.
tali, e lasciare star l'altre; dove, avendo egli
voluto mostrare che tutte le cose dette da lui V. Come a poeti e conceduto, anzi richie
erano state ben dette, e ognuna di quelle di sto, invocare le Muse non solamente ne pri
messere Annibale male, ha fatto, se io non mi cipi delle loro opere (1), ma dovunque in al
inganno affatto, poco meno che tutto il con cuna difficoltà si ritrovano, la quale senza lo
trario, perchè come io ho difesa questa, così aiuto degli Dii risolvere o non si debbia, o
non si possa, così penso io non essere disdet
spero in Dio che difenderò quasi tutte l'altre,
e per cotal modo, cioè così chiaramente, che to, anzi convenirsi, a me rinnovare in questo
ognuno che vorrà, potrà conoscere quanto egli luogo la protestazione fatta di sopra più vol
fosse leggiermente e ingiustamente ripreso. Nè te : e ciò non tanto per tema d'essere tenuto
per tutto ciò crediate voi che o egli non ab poco intendente e giudizioso, quanto per de
ſbia a rispondere, o molti non debbiano cre siderio di non essere giudicato troppo presun
tuoso e arrogante e, quello che peggio sareb
dergli; perche troppo sarebbe felice il mondo
se la maggior parte degli uomini volessero o be, o maligno, o senza il sentimento comune.
conoscere il migliore, o non appigliarsi al peg Dico dunque; tutto quello che io vi dirò, non
giore. Nè crediate anco che io non conosca
dovere essere altro che semplici opinioni mie,
che il Caro potrà, e forse doverrà, se non ma se già non le voleste chiamare capricci o ghi
te, almeno poco tenersi di me soddisfatto; e ribizzi, più nel creder mio, ch'in alcuna ra
nel vero se io avessi preso a difendere lui, io gione, o autorità fondate; laonde quanto più
non solamente poteva, ma doveva secondo strane e stravaganti vi parranno, e più dalla
l' uso moderno, più gagliardamente difenderlo. dottrina o de' passati o de' presenti lontane,
Non dico, quanto al confutare le ragioni del tanto potrete, anzi doverrete, crederle meno,
Castelvetro, perchè in questo per tutto quel riservandovi alla coloro sentenza, i quali così
poco che si distenderanno il sapere e poter della toscana, come della greca cdella latina
mio, m'ingegnerò con ogni sforzo di non man lingua meglio s'intendono, e più sono sperti
care nè di studio, nè di diligenza; ma quanto che non fo, e non sono io. Bisogna dunque
al modo del procedere, nel quale arebbono vedere innanzi tratto, in che consista la lon
voluto molti che io, senza cercar mai di scu tà, la bellezza e la dolcezza delle lingue; onde
sare, o difendere, o lodare il Castelvetro, aves cominciando dalla prima, dico che tutte le
si, come fece messere Annibale contra lui, ed cose quanto hanno più nobili e più degni i
egli contra messere Annibale, atteso sempre (1) Se ne può trarre esempio da Virgilio che nel lV della
ad accusarlo, ad offenderlo e a biasimarlo,
lasciando indietro tutte quelle cose che per Georg. v. 315, disse:
la parte di messere Annibale non facessero. Ma Quis Deus hanº, Musa, qui, nobis extudit artem?
e nel V l 1 dell' Eneide.
oltrachè la natura m' invita, e l'usanza mi Pandite nunc Helicona, Dece, cantusque morete.
tira a fare altramente, io, come scrissi da e nel l X.
principio a messere Annibale, ho preso a di Quis Deus, o Muur, tam sava incendia Teucis
fender non lui, ma le sue ragioni, cioè la ve A/certit? -

rita; dalla quale, per quanto potrò conoscere e in altri luoghi ancora fuori del principio de'poemi invº
non intendo mai di partirmi. Confesso, quando le. Muse.
4oo L' ERCOLANO
loro fini, tanto sono più degne e più nobili anzi più, si dee intendere delle sillabe, che di
ancora esse, e che quanto ciascuna cosa più cotali lettere si compongono, essendone alcune
conseguisce agevolmente il suo fine, cioè ha di puro suono, alcune di più puro, e alcune
di meno e di minori aiuti bisogno, i quali di purissimo, e molto più delle parole, che di
sieno fuori di lei, tanto anch'essa è migliore si fatte sillabe si generano, e vie più poi del
e più nobile. Il fine di ciascuna lingua è pa l'orazioni, le quali delle sopraddette parole
lesare i concetti dell'animo; dunque quella si producono, onde quella lingua sarà più dol
lingua sarà migliore, la quale più agevolmente ce, la quale arà più dolci parole e più soavi
i concetti dell'animo paleserà; e quella più orazioni; dunque la dolcezza delle lingue nella
agevolmente potrà ciò fare la quale arà mag dolcezza consiste delle orazioni. E affineche
giore abbondanza di parole e di maniere di meglio possiate comprendere quelle cose che
favellare, intendendo per parole non solamente a dire s” hanno, sappiate, che essendo la voce
i nomi e i verbi, ma tutte l'altre parti del ripercotimento d'aria, o non si facendo senza
l'orazione. Dunque la bontà d'una lingua con che l'aria, la quale è corpo, si ripercuota e
siste nell'abbondanza delle parole e de modi s'attenui, ovvero s'assottigli, in ciascuna sil
del ſavellare, cioè dell' orazioni. laba si truovano necessariamente, come in tutti
C. Dunque quella lingua fia migliore, la quale gli altri corpi, tutte e tre le dimensioni, ov
sarà più ricca, e quanto più ricca sarà, tanto vero misure, cioè lunghezza e altezza, ovvero
fia ancora migliore. profondità e larghezza. La lunghezza fanno gli
V. Appunto l'avete detto. Quanto alla se spazi ovvero i tempi delle sillabe, chiamati da
conda cosa, tutte le lingue sono composte di alcuno grammatico intervalli; perchè ogni sil
orazioni, e tutte l'orazioni di parole; dunque laba è per sua natura o breve, o lunga, nono
quella lingua la quale arà più belle parole e stante che possa essere e più breve, e più lun
più belle orazioni, sarà anco più bella, dun ga, e brevissima, e lunghissima secondo il tempo
que la bellezza delle lingue consiste nella bel che si pone in pronunziarla, rispetto così al nu
lezza delle parole e delle orazioni. Ma qui mero, come alla qualità delle consonanti di
è necessario avvertire due cose, la prima cui sarà composta; l'altezza, ovvero profon
delle quali è, che nelle parole semplici e dità fanno gli accenti, perchè qualunque sil
singolari, cioè considerate sole e di per sè, laba ha il suo accento, il quale, se l'innalza,
le quali i loici chiamano incomplesse, e noi si chiama acuto, se l'abbassa, grave, e se l'in
le potremmo per avventura chiamare spiccio nalza e abbassa, circumflesso; il quale circum
late o scompagnate, non si trova propriamente flesso nella lingua greca e nella latina si può
nè numero, nè armonia, dalle quali due cose dire piuttosto perduto, che smarrito, e nella
nasce principalmente la bellezza di cui ora si toscana non fu, che sappia io, mai.
ragiona. La seconda è, che non si potendo C. Io ho pur letto un libro di Neri d'Or
trovare nè numero, nè armonia dove non si tolata da Firenze (1), che egli si truova, e che
trovi movimento, noi intendiamo non delle pa a lui pareva di sentirlo.
role spicciolate e scompagnate, ma delle con V. Al nome di Dio sia. Neri d' Ortolata da
giunte, ovvero composte, che i loici chiamano Firenze doveva avere migliori orecchie, che
complesse, e noi per avventura le potremmo non ho io, che sono disceso da Montevarchi.
chiamare accompagnate, e brevemente dell'o- La larghezza cagionano gli spiriti, cioè il fiato,
razioni non come orazioni semplicemente, ma perchè ciascuna sillaba si profferisce o aspi
come quelle che profferite e pronunziate ge rata, cioè con maggior fiato, la qual cosa gli
nerano e producono di necessità, mediante la antichi segnavano nello scrivere con questa
brevità e la lunghezza delle sillabe, numero, nota h, o con minore, il che i Latini non no
e mediante l'abbassamento e l'innalzamento tavano con segno nessuno, e i Greci con una
mezza h.
degli accenti, armonia in quel modo, e per
quelle cagioni che poco appresso dichiareremo. C. A questo modo tutte le parole toscane
C. Io voleva appunto dire che non inten saranno strette; perchè sebbene molte si scri
deva nè questo numero, nè questa armonia. vono colla lettera, o piuttosto segno h, tutte
V. Bastivi per ora intendere che la bellezza nondimeno si pronunziano come se ella non
delle lingue consiste principalmente nella bel vi fosse, e anco nella latina mi pare che co
lezza delle orazioni, non come orazioni, per tale pronunzia sia perduta, e nella greca s'os
che cosi non hanno nè numero, nè armonia, servi poco.
se non in potenza, ma come orazioni, le quali V. E il vero; ma sappiate che tralle bel
quando si pronunziano e profferiscono, hanno lezze della lingua toscana, questa non è l' ul
il numero e l'armonia in atto. Quanto alla tima, che nessuna delle sue parole ha larghez
terza e ultima cosa, tutte le lingue sono, come za, e conseguentemente non s'aspira, cioè si
s'è detto pur teste, composte d'orazioni, e profferisce tenuemente.
le orazioni di parole, e le parole di sillabe, e C. In che consiste questa bellezza?
le sillabe di lettere, e ciascuna lettera ha un
suo proprio e particolare suono diverso da (1) Il Discorso dell'Ortografia, che è stampato colla tra
duzione del Commento di Marsilio Ficino sopra il Convito
quello di ciascuna altra, i quali suoni sono ora di Platone sotto nome di Neri Dortelata, viene attribuito a
dolci, ora aspri, or duri, ora snelli e spediti, Cosimo Bartoli. Vedi i Fasti Consolari dell'Accademia Fio
ora impediti e tardi, e ora d'altre qualità rentina scritti eruditamente dal signor canonico Salvini a
quando più e quando meno; e il medesimo, cart. 8o.
DIALOGO 4o i
V. Consiste in questo, che il pronunziare tri luoghi quando accenna, e quando dice aper
le parole aspirate è, sebbene il facevano i Greci tamente il medesimo.
ei Latini, proprietà di lingua barbara, e usanza C. Chi pensate voi che potesse giudicare
molto schifa e da fuggirsi. meglio, e terminare più veramente questa lite,
C. Perché cosi ? Quintiliano o Cicerone?
V. Perché a volere raccorre e mandar fuo V. Io so appunto dove voi volete riuscire,
ra di molto fiato, è necessario aprire molto e questa tralle altre fu una delle cagioni per
bene, anzi spalancare la bocca, quasi come chè io rinnovai di sopra la protestazione, e
quando si sbaviglia, e, se non isputare, almeno nondimeno vi risponderò liberamente, dicendo:
alitare altrui nel viso; e il fiato altrui, quando Cicerone senza dubbio nessuno.
lene sapesse di musco o di zibetto, non suole C. Ascoltate dunque queste che sono sue
a molti troppo piacere; e, se non altro, il parole nel principio del libro de'Fini de'beni
pronunziare aspirato intruona gli orecchi, come e de'mali: Sedita sentio, et saepe disserui, la
si vede nell'epigramma di Catullo (1) allegato timam linguam non modo non inopen, ut vulgo
di sopra. putarent, sed locupletiorem etiam esse, quam
C. Perchè scrivono dunque i Toscani have graecam (1). Udite voi quello che Cicerone
re, habitare, honore, honesto, e tante altre pa dice, la lingua latina non solamente non es
role coll' h ? sere povera, come volgarmente pensavano, o
V. Credono alcuni che ciò si faccia per di arebbono pensare potuto, ma più ricca ancora
mostrare in cotal guisa l'origine loro esser la che la greca?
V. Odolo.
tina : ma io riputandola soverchia (2), direi
piuttosto quei versi del Bembo: C. Udite anco questo altro luogo nel prin
cipio del terzo libro della medesima opera :
Siccome nuoce al gregge semplicetto Etsi, quod saepe diximus, et quidem eum aliqua
La scorta sua, quando ella esce di strada, querela non Graecorum modo, sed etiam eorum
Che tutta errando poi convien che vada. qui se graecos magis, quan nostros haberi vo
Ma, tornando alla materia nostra, la lingua lunt, nos non modo non vinci a Graecis verborum
greca comparata e agguagliata colla latina, è copia, sed esse in ea etiam superiores. Voi udite
migliore, cioè più ricca e più abbondante di lei, bene che egli, cioè il medesimo Cicerone, di
C. Per qual cagione? ceva spesso e disputava ancora che in ciò non
V. Avendovi io detto innanzi, che queste solo i Greci si dolessero di lui, ma eziandio i
sono semplici opinioni mie, non occorre che Romani che tenevano la parte de' Greci, di
voi mi dimandiate delle cagioni, nè ch'io al ceva, dico, e disputava spesse volte che i La
tini non solo non erano vinti da Greci di co
tro vi risponda, se non che così mi pare; per
chè sebbene in questa vi potrei addurre alcu pia di parole, ma eziandio stavano loro di
ne, se non ragioni, autorità, tuttavia in molte sepra.
altre non mi verrebbe per avventura fatto il V. Io l'odo pur troppo; ma non credo che
potere ciò fare. -
egli dicesse da vero.
C. Era Cicerone uomo da burlare?,
C. Io arò caro che, quando lo potrete fare,
il facciate, e che per questo non mi sia tolta V. Era ; anzi non fu mai uomo che burlasse
nè l'autorità di potervi dimandare, nè la li nè più di lui, nè meglio; non penso già che
cenza di contrappormivi, quando voglia me ne dicesse questo per burla.
verrà. Ma quali sono quelle autorità che voi C. O perchè dunque, se ciò non era vero,
dicevate? - disse egli che vero fosse ?
V. Lucrezio, il quale volendosi scusare, nel V. Perchè, se nol sapeste, la lingua latina
principio del suo primo libro dice: ebbe quasi le medesime controversie colla greca
che ha avuto, e ha ancora la toscana colla
Nec me animi fallit Grajorum obscura reperta latina; e se non fosse stato Cicerone, non so
Difficile illustrare Latinis versibus esse come si fosse ita la bisogna, perchè i Romani
Propter egestatem linguae et rerum novitatem. tenevano ordinariamente poco conto delle scrit
C. Lucrezio fu innanzi a Cicerone, il quale ture latine, e molto delle greche; ma Cicero
ne, come si vede apertamente si altrove, e si
fu quegli che arricchì la lingua latina, e le
diede tanti ornamenti, quanti voi diceste di in cotesti due proemi che voi allegati avete,
ora confortando i Romani uomini a dovere
sopra, il qual Lucrezio, se fosse vivuto dopo
Cicerone, non arebbe per avventura detto così. romanamente scrivere, e ora riprendendogli e
V. Quintiliano, che nacque tanto dopo Ci mostrando loro il loro errore, non altramente
cerone, e fu uomo dottissimo, giudiziosissimo quasi che il Bembo a tempi nostri, le diede
ed eloquente molto, lasciò scritto queste pa credito e riputazione, e la condusse finalmente
role: Iniqui judices ad ersus nos sumus, ideo colle sue divine scritture tanto in su, quanto
que sermonis paupertate laboramus (3). E in al ella o poteva o doveva andare: e per questa
cagione, cioe per esortargli e inanimirgli allo
scrivere latinamente, credo che egli quelle pa
(1) Catullo, epig. LXXXV. role dicesse: e se pure le disse perchè cosi
(2) Perciò l'Accademia della Crusca giudiziosamente ha gli paresse, io non posso, ancora che volessi,
tolta l'aspirazione a tutte queste, e ad altre simili voci come
superflua e vana.
(3) Quintil Instit. Orator. lib. VIII, cap. ll I. | (1) Cic. lib. I, de Finib,
t'AIA. Hi V. , 5i
4o2 L'ERCULANO
indurmi a crederlo. Vedete parole che m'e- dinandare di cotesto? Io per me credo di no,
scono di bocca, e se io aveva bisogno di nuova nè credo che Cicerone il dicesse egli, perchè
protestazione; benchè me n' usciranno delle l cotali cose, più che per altro, si dicono dagli
maggiori. ingegni grandi ed elevati o per giuoco, o per
C. Non dice egli ancora nel principio del galanteria.
primo libro delle Quistioni Tusculane? Sed C. E del nome Convivio, ll quale noi chia
meum semper ſudicium fuit, omnia nostros aut miamo convito, che dite? Non vi pare egli, come
invenisse per se sapientius, quam graecos, aut a Cicerone (1), che fosse meglio posto e più
accepta ab illis fecisse meliora, quae quidem di segnalatamente da Latini, che da' Greci Sim
gna statuissent in quibus elaborarent. posio ?
V. Se egli intendeva di sè stesso, come con V. Parmi; quanto è cosa più civile e più
molti altri tengo ancora io, se gli può credere degna il vivere insieme, che il bere e lo sbe
ogni cosa, perciocchè alla divinità di quello vazzare di compagnia; e il medesimo dico del
ingegno non era nulla nè nascoso, nè faticoso; nome della divinazione (2), e della innocen
ma se generalmente, non so che mi dire. za (3); e chi stara in dubbio che i Latini non
C. Credete voi che favellasse da buon sen abbiano molte cose o trovate da sè o cavate
no, quando disse (1), che chi razzolasse tutta da' Greci, migliori delle loro, come n'hanno
la Grecia, e rovigliasse tutti i loro libri, mai i volgari migliori di quelle non solo de' La
nessuna voce non troverebbe che quello spri tini, ma de' Greci ancora?
messe che i latini chiamavano inetto ? C. Avete voi veduto certi epigrammi latini
V. Credolo; e credo che dicesse il vero. che fece messer Giovanni Lascari contra Ci
C. Voi non dovete aver letto il Buddeo, o cerone in difesa de' Greci
non ve ne ricordate, il quale ne suoi Comen V. Mai si ch'io gli ho veduti; così veduti
tari sta dalla parte de' Greci, e dà contra Ci non gli avessi io !
cerone, mostrando che eglino, come fece an C. Perchè ?
cora il Marullo in un suo leggiadrissimo epi V. Perchè non mi paiono nè quanto alla
gramma, hanno non una, ma molte parole che sentenza, nè quanto alla locuzione degni a gran
significano inetto. pezza del grido di si grande uomo; e se egli
V. Io l'ho letto, e me ne ricordo, ma ognu non avesse scritto meglio grecamente che in
no pnò credere quello che gli piace in queste latino, il che non so, non so quello che me
cose, dove non ve ne va pena nessuna. me dicessi, perchè lo giudicherei piuttosto un
C. Dunque vi par poca pena l'esser tenuto plebeo versificatore, che un nobile poeta; e
ignorante? a ogni modo i Greci, o volete gli antichi, o
V. L'essere ignorante, a chi può fare altro, volete i moderni, non ebber mai troppo a
e non l'essere tenuto, mi pare grandissima e grado la lingua latina, nè mai la lodarono, se
vergognosissima pena; e contuttociò amo me non freddamente, e cotale alla trista, e il me
glio d'esser tenuto ignorante, che bugiardo, e desimo dico degli uomini.
voglio piuttosto che si creda che io non in C. E' par non solo verisimile, ma ragione
tenda alcuna cosa, che dirla altramente di vole, poichè tolsero loro l' imperio.
quello che io l'intendo. V. Così avessero tolto loro ancora le scien
C. Poichè voi non credete che i Greci ab ze, acciocche come erano più gravi e più se
biano parola nessuna, non che tante, la quale veri, così fossero stati eziandio più dotti e più
significhi propriamente inetto, credete voi an scienziati di loro.
cora che la cagione di questo sia quella che C. Deh ditemi qualcosa ancora della nobiltà,
dice Cicerone (2) in un altro luogo? cioè qual lingua ha più scrittori e più famo
V. Quale? si, la greca o la latina?
C. Che quella eruditissima nazione de Greci V. Di questo mi rimetto al giudizio di Quin
era tanto inetta, che non conosceva il vizio tiliano (4), il quale gli censurò tutti. A me
della inettitudine, e non lo conoscendo, non pare che, se non nella quantità, almeno nella
gli avea potuto por nome. qualità, che è quello in che consiste il tutto,
V. Voi mi serrate troppo tra l'uscio e 'l la latina non perda dalla greca, intendendo
muro. Che posso sapere io, e che accade a voi sempre non quanto alle scienze, ma quanto al
l'eloquenza; perchè nelle scienze v' è quella
(1) Cic. lib. II, dell'Oratore in principio.
(2) Cicerone dice ciò nello stesso luogo, cioè nel lib. II, (1) Cic. de Senect. Bene enim majores nostri accusatiº
dell'Oratore: Hoc ritio cumulata est eruditissima illa Grac nem epularum, quod amicorum et vita coniunctionem hale
corum natio, itegue quod cim hujus mali Gracci non cident, ret, Convivium nominarunt, melius quam Graeci, qui hoc idea
me nonen quidem ei vitio imposue url; ut enim quarras om tum Compolationem, tum Concarnationem rocant, ut quod in
mia, quomodo Graeci Ineptum appellent, non reperies. Ma eo genere minimum est, id maxime probare videantur.
èva puro Tor, così ineptus
siccome aptus corrisponde al greco (2) Cic. de Divinat. lib. I. Itague, ut alla nos melia,
si potrebbe dire in greco cºva oaogo; , o pure ancora multa quan Graeci, sic huius prastantissime reinonen nº
azoataos, areotxòog, azztog, acetato, a riszvo;, stri a Divis, Graci, ut Plato interpretatur, a furore de
di 3mg, x pvhc, oroxevoc, tra oxopo:, ma tutte que a crunl.

ste voci sono rigettate da Giulio Cesare Scaligero nell'Ora (3) Cic. nelle Quest. Tuscul. lib. lli, dice, che lº In
zione sopra la voce Ineptus. Lc Glosse di Filosseno hanno nocenza in greco non ha neme alcuno, ma che lo può avere,
in questo significato 20pxvhs. pure questo nome non ispiega l e si può dire o 6) a 3stx, che corrisponde per appunto al
pienamente il latino Ineptus, a cui forse meglio di tutti si | latino Innocentia.
adatta a ritoozzao;. ll (4) Quintil Instit. Orator. lib. X, cap. 1.
DIALOGO 4o3
differenza che è tralla cupola di Santa Maria dissi che la lingua latina dipendeva dalla gre
del Fiore a quella non dico di San Giovanni ca, come la toscana dalla latina.
o di San Lorenzo, ma di Santa Maria delle C. Io vo' dire che egli è un bel che, essere
Grazie sul ponte Rubaconte. stati i primi, e che i Romani ebbero un gran
C. Sebbene io veggo di qui la cupola, non vantaggio.
so però quale si sia quella di Santa Maria V. È verissimo; pure anco i Greci bisognò
delle Grazie; laonde, se non volete esser ri che cavassero di qualche luogo, e da qualche
preso, come fu Dante (1) della pina di San altra lingua; e nondimeno grande obbligo dee
Piero a Roma, fate comparazioni che ognuno avere la lingua latina alla greca, e i Romani
le possa intendere. uomini a Greci; il che nel vero fecero sem
V. Quanto è da una cosa grande grande a pre, lodandola e innalzandola fino alle stelle,
una piccina piccina. Considerate quante volte, e con quanta loda
C. Intendete voi così de'poeti, come degli e venerazione ne favellano Quintiliano (i), e
oratori, sotto i quali comprendo ancora gli tanti altri scrittori così di prosa, come di ver
storici, e brevemente tutti coloro che scrivono si. Non dice Orazio tra gli altri:
in prosa ?
V. Intendo, eccettochè della tragedia e della . . . . . . . . Vos exemplaria Graeca -

commedia. Nocturna versate manu, versate diurna (2)?


C. Oh ! che tragedie hanno i Latini, se non E nella medesima Poetica:
quelle di Seneca, le quali io ho sentito piut Graiis ingenium, Grais deditore rotundo
tosto biasimare che lodare ? -

V. Le tragedie di Seneca sono dagli uomini Musa loqui, praeter laudem nullius avaris (3).
di giudizio tenute bellissime: e messer Gio Potremo dunque conchiudere che la lingua
vambatista Cintio Ferrarese, dice ne' suoi dot latina è inferiore alla greca di bontà, ovvero
tissimi discorsi, che i cori di Seneca soli sono di ricchezza; superiore di gravità ; di no
molto più degni di loda, che quelli di tutti i biltà poco meno che pari.
Greci: nel qual giudizio come s'accordò egli C. Questa conchiusione non mi dispiace; ma
con quello d'Erasmo, cosi m'accordo io col
tralla greca e la toscana come la saldate voi
suo: e come testimonia il medesimo nel me
desimo luogo, se la Medea d'Ovidio tanto da
quanto a ricchezza?
V. La greca semplicemente è più ricca.
Quintiliano lodata e celebrata (2) fosse in piè, c. Che vuol dire semplicemente? Forse che
arebbe per avventura la lingua latina da non semplice sarebbe, e per avventura scempio,
cedere anco nelle tragedie alla greca, e noi
chiunque altramente credesse?
donde cavare la perfetta forma di cotal poema. V. Scherzate pure a vostro modo e motteg
C. Quanto alle commedie, io non pensava giate quanto volete, che egli non v'è a un bel
che si potessero trovare nè le più piacevoli di bisogno quella differenza che voi vi date ad in
quelle di Plauto, nè le più artifiziose di quelle tendere. Semplicemente vuol dire, considerando
di Terenzio. l'una e l'altra assolutamente e senza aleun
V. Voi eravate ingannato; prima i Latini rispetto; ma se si considerassino rispettivamen
non hanno la commedia antica, ma ponghiamo te, cioè come quella è mezza morta, e questa
in quel luogo la satira, della quale mancano viva affatto, la toscana, non elie a lungo, a
i Greci; poi, sebbene Menandro a di nostri corto andare potrebbe non solo agguagliare,
non si truova, la comune opinione è, che egli ma avanzare la greea. E a ogni modo male si
avanzasse di gran lunga e Plauto e Terenzio può fare comparazione tra una cosa che è
e tutti gli altri comici insieme. morta e una che vive; perciocchè sono equi
C. Quanto a poeti, e mi pare che Cicerone voche, non altramente che un uomo di carne
medesimo, grandissimo fautore e difenditore e d' ossa, e uno di stoppa e di cenci, quali
delle cose latine, confessi che i Romani sieno sono le befane. E se la lingua volgare seguita
inferiori. d'andarsi avanzando, come ella ha fatto già
V. Egli non l'arebbe mica confessato, se fosse sono molti anni, cioè da che 'l Bembo nacque,
tanto vivuto, che avesse, per lasciare gli altri, voi mi saperrete dire, a che termine ella po
letto l'opere di Virgilio, il quale solo, se non trebbe arrivare, e quanto poggiare in alto;
vinse (3), pareggiò tre de maggiori e migliori dove la greca e la latina hanno ogni speranza
poeti che avesse la Grecia. perduto di poter crescere e farsi maggiori.
C. Si, ma voi non dite che i Latini così C. Io credo che elle non faranno poco a man
poeti, come oratori, cavarono, si può dire, ogni tenersi. Ma raccontatemi alcuna di quelle cose
cosa da Greci,
che abbia la lingua greca, e non le abbia la
V. Io non lo dico, perchè penso che voi lo latina. - -
sappiate, e anco mi pareva averlo detto, quando V. Lasciamo stare le tante maniere delle
declinazioni de'nomi così semplici, come con
tratti e delle coniugazioni de verbi o baritoni,
(1) Dante, Inf. Canto XXXI. o circonflessi, o in ut; e che così ne numeri,
La faccia sua mi parea lunga, e grossa
Come la pina di San Pietro a Roma.
(2) Quintil. Instit. Orat. lib. X, cap. I. (1) Quintit. lib. X, cap. 1. -
(3) Virgilio siccome è inferiore a Teocrito nella Buco (2) Orazio, nella Poet. v. 268. - -

Vita, usi è seputato superiore ad Esiodo nella Georgica, (3) Orazio, Poet. vers. 323. -
4o4 L' ERCOLANO
come ne verbi ha il numero duale, del quale C. Quanto alla nobiltà ?
mancano tutte l'altre lingue (1); (benchè non V. Perdiamo noi d'assai.
si può dire veramente che ne manchino, non C. Nella prosa, o nel verso?
ne avendo bisogno; ed essendo cotal numero V. Nell'una e nell'altro, fuori solamente
stato trovato dagli Ateniesi più a pompa della che nel lirico e nell'eroico.
loro, che per necessità d'alcuna altra lingua) C. Intendete voi di quantità, o di qualità ?
ella è felicissima nelle figure, cioè nel com V. D'amendune.
porre le proposizioni, o volete co'nomi tanto C. Qui bisogna andare adagio, e fermarsi
sostantivi, quanto agghiettivi, o volete co' ver sopra ciascuna di queste parole per ponderarle
bi; nella qual cosa, la quale è di non picciolo ed esaminarle tritamente tutte, e prima quanto
momento, i Greci avanzano tanto i Latini, alla prosa, non avete voi messer Giovanni Boc
quanto i Latini i Toscani. Ha i verbi non so caccio, il quale io ho sentito preporre molte
lamente attivi e passivi, ma ancora medii, ov volte e a Cicerone e a Demostene ?
vero mezzi, cioè, ch'in una stessa voce signi V. Cotestoro se non volevano ingannare al
ficano azione e passione, ovvero agire e pa. tri, erano ingannati essi o dall'affezione, o dal
tire, cioè fare e esser fatto. giudizio. Fra Cicerone e Demostene si può ben
C. Cotesta mi pare piuttosto una confusione fare comparazione, come fece giudiziosamente
e uno intricamento, che altro. Quintiliano (1), così quanto alla gravità e spes
V. Ella pare così a molti; ma ella non è, sezza delle sentenze, come quanto alla pulitez
E abbondantissima di participi, dove la latina za e leggiadria delle parole ; ma tra 'l Boc
n' ha anzi carestia che no, e la volgare ne caccio e Cicerone o Demostene no.
manca poco meno che del tutto. Ha, oltra la C. Per qual cagione?
lingua comune, quattro dialetti, cioè quattro V. Se non per altro, perchè le compara
idiomi, ovvero linguaggi propri, diversi l'uno zioni si debbon fare nel genere univoco, e il
dall'altro, la qual cosa non si potrebbe dire, Boccaccio scrisse novelle e non orazioni; e in
quanto e giovamento e ornamento m'apporti, questo non dubiterei d'agguagliarlo, e forse
e massimamente a poeti che favellano quasi preporlo a Luciano, e a qualunque altro scrit
d'un'altra lingua che gli oratori. Ha, che ella tore o greco, o latino; ma che egli tuoni, ba
ebbe più giudizio nel formar parole nuove, che leni e fulmini (a), egli è tanto discosto dal
non ebbero i Latini, i quali, secondochè af farlo, quanto dal doverlo fare, scrivendo nel
ferma Quintiliano (2), fecero in questo caso, genere che egli scrisse le sue opere più per
come i giudici da Padova, mostrandosi troppo fette. -

schifi o in formare le parole nuove, o in ri C. Voi sete per avventura dell' opinione di
cevere le formate da Greci; onde nacque la coloro, i quali tengono che collo stile del Boc
povertà della lor lingua; nella qual cosa i To caccio non si possano scrivere materie gravi,
scani hanno più la larghezza degli avoli, che ma solamente novelle.
la strettezza de' padri loro seguitato; onde V. Dio mene guardi.
mancano di quel biasimo che Quintiliano diede C. Guardivi da maggior caso che questo non
a Latini, è ; conciossiacosache monsignor messer Gab
C. E par pure che molti, e tra questi il briello Cesano e messer Bartolommeo Caval
Castelvetro, non vogliano che si possano for canti, l'uno Toscano essendo da Pisa e l'al
mare parole nuove, se non con certe condi tro Fiorentino, ambi di chiarissimo nome, sono
zioni e limitazioni loro; anzi che non si possano di cotal parere, secondochè scrive il Muzio
usare altre voci che quelle proprie che si truo in una sua lettera (3) a lor medesimi indirit
vano o nel Petrarca, o nel Boccaccio. ta; se già non voleste piuttosto l'opinione del
V. Quanto cotestoro s'ingannino, e come si Muzio solo, che d'ambidue loro, seguitare.
possano scusare per lo essere forestieri, si dirà V. Voglio in questo, quando ben fossero
nel suo luogo. Ha finalmente la lingua greca ancora ambi quattro, che sarebbono la metà
e quanto alle parole, e quanto alle sentenze, piu.
se non infiniti, innumerabili modi di favellare
figurato; e insomma ha tutte quelle cose che (1) Quintil. Instit. Orat. lib. X, cap. I, in fine.
da tutte le parti a ricca e copiosa lingua si (2) Al Varchi non sovvennero molte Novelle gravissime,
richieggono. dove il Boccaccio s'innalza in uno stile sublime e robusto;
C. Quanto alla gravità, che ne dite voi? come trallº altre nella Ghismonda, e in Tito e Gisippo, in
cui vi sono concioni forti al pari di quelle di Demostene; e
V. La lingua greca è tenuta leggiera da molti, la brevissima di Griselda tornantesene a casa non ha che in
e atta più alle cose piacevoli e burlesche, che vidiare a molte , comechè lunghe, di Cicerone. – Era il
alle gravi e severe, e da molti tutto l' oppo Bottari devotissimo al Boccaccio; e però non è a far le
sito. Io credo che ella sia idonea all'une cose meraviglie, s'egli qui rechi delle sue concioni un cosi fa
e all'altre; ma sia pure o piacevole, o grave vorevole giudizio, per poco si direbbe a Cicerone e Demo
quanto ella sa, che la fiorentina non le cede, stene ingiurioso (M.)
anzi l'avanza e nella piacevolezza e nella gra (3) Questa lettera è stampata in principio delle Battaglie
vità. del detto Muzio impresse in Vinegia nel 1582. E l'istesso
nel cap. XVII delle suddette, soggiugne: Queste cose scrissi
io già ben trentasei anni in Ferrara, servendo il duca Er
(1) Cioè la latina e la toscana, perchè nella lingua ebrea cole, alla cui tavola il Cesano pronunciò la sentenza conta
il numero duale e in uso. il Boccaccio in favor del Machiavelli. Ma che il Cavalcanti
(2) Quintil. instit. Orat. lib. VIII, cap. III. fosse di questo parere, non si ricava chiaramente dal Muzio.
DIALOGO 4o5
C. E in quello che affermano tutti e due i dovere andare a fondo. Ma che vi muove così
medesimi, e monsignore Paolo Giovio per terzo a dubitare del fatto mio?
lo conferma, cioè che lo stile di Niccolò Ma C. Primieramente voi ne volete più che la
chiavelli sia più leggiadro di quello del Boccac parte, perciocchè a Dante (1) stesso bastò es
cio, quale opinione portate? Non volete voi sere il sesto fra cotanto senno, e voi lo fate
piuttosto seguitare tre che un solo? il primo, e lo ponete innanzi a tutti. Poscia
V. Naffe, messer no. Anzi duro fatica a cre avete contra voi il Bembo (2), e ultimamente
dere che il Cesano e il Cavalcanti, se pnre monsignor della Casa, che pur ſu Fiorentino,
il dicono, lo credano; e il Giovio, intento nel suo dottissimo e leggiadrissimo Galateo (3),
solamente alla lingua latina, disprezzò sempre, il quale ho tanto sentito celebrare a voi mc
e non curò di saper la toscana; il che otti desimo.
mamente gli venne fatto; anzi si rideva e gli V. Dante usò quella modestia la quale deono
incresceva del Bembo, come a molti altri. usare i prudenti uomini quando favellano e
C. E il Bembo che diceva ? scrivono di sè stessi; e anco pare che in un
V. Che si rideva e gl' incresceva altrettanto certo modo si volesse correggere, quando in
di lui e di loro; e così venivano a restare patti un altro luogo scrisse:
e pagati.
C. Cotesto non credo, ma che il Bembo ri O tu che vai, non per esser più tardo,
manesse creditore indigrosso. Ma perchè ag Ma forse reverente a gli altri, dopo (4).
giugnete voi quelle parole fuori solamente nel Ma lasciamo star questo; io sono obbligato a
lirico e nell'eroico? Non hanno i Greci nove dirvi non l'altrui opinioni, ma le mie. Il Bem
lirici, e ciascuno d'essi bello e maraviglioso ? bo non so che faccia questa comparazione: so
e Pindaro, il quale è il capo di tutti, bellis bene che poche volte biasimò Dante, che egli
simo e inaravigliosissimo, e tale, che per giu ancora nel medesimo tempo non lo lodasse; la
dizio d'Orazio (1) medesimo egli è inimita qual cosa non fece monsignor della Casa, il
bile ? quale, tuttochè fosse Fiorentino, non pare che
V. Ebbergli già, se non gli hanno oggi, ma nelle sue scritture stimasse o amasse troppo
noi avemmo e avemo il Petrarca. Firenze. - -

C Domin, che voi vogliate che il Petrarca C. Il Bembo non teneva egli che il Petrarca
solo vi vaglia per tutti e nove l fosse maggior poeta e migliore che Dante ?
V. Voglio, in quanto alla qualità. V. Teneva; e monsignor della Casa altresì,
C. Guardate a non essere tolto su; che io e poco meno che tutti coloro i quali sono
non credo mai che i dotti e giudiziosi uomini stati, se non più dotti, più leggiadri nello
siano non dico per farvi buono, ma per com scrivere: ancorachè non siano mancati di quelli
portarvi questo. che hanno agguagliato Dante all'oro, e il Pe
V. Tal paura avessi io degli altri; e poi trarca all'orpello, e chiamato questo Maggio
non v'ho io detto che questi sono citri e gric e quello Settembre.
cioli miei, de quali non s'ha a tener conto? C. E voi da chi tenete ?
C. E nell'eroico avete voi nessuno non dico V. Io non tengo da quel di nessuno, che
che vinca, ma che pareggi Omero? voglio esser libero di me stesso, e credere non
V. Uno, il quale non dico il pareggia, ma quello che persuadono l'autorità, ma quello
lo vince. -

che dimostrano le ragioni.


C. E chi ? C. Io vo dire, chi voi tenete che fosse mag
V. Dante . . . giore, o Dante o il Petrarca ?
C. Dante? Oh io n' ho sentito dire tanto
V. Per quanto si può giudicare da loro ri
male, e alcuni non l'accettano ne' loro scritti tratti, e anco da quelli che scrivono la vita
per poeta (2), non che per buono poeta! Qui loro, Dante era minore. -

è forza, secondo me, che voi andiate sotto. C. Io non intendo maggiore semplicemente,
V. Basta non affogare, e anco, se io non sono cioè di persona, come lo pigliate voi, ma mag
da me il miglior nuotatore del mondo, ho non giore poeta; e voi sapete pure che Aristotile
dimeno tai due sugheri sopra le spalle, o vo insegna che questa conseguenza non vale: Tu
lete dire gonfiotti, che non debbo temere di sei poeta, e sei maggior di me; dunque tu sei
maggiore poeta di me.
V. A volere risolvere questa dubitazione
(1) Orazio, lib. IV, Od. II. bisogna distinguere, perchè questo aggua
Pindarum quisquis studet amulari, gliamento è in genere, se non equivoco del
Jule, ceratis ope Dardalea tutto, almeno analogo, e io v'ho detto che le
Mittur penns, vitreo daturus
AVomina ponto. (1) Dante, inf. Canto IV.
(2) Il Muzio nelle Battaglie al cap. XXIII, dice, che (2) Bembo, Pros. lib 11, riprende in più luoghi Dante
non solo loante non è superiore ad Omero, ma che è ogni nella scelta delle voci, e nell' aver usate troppe licenze, se
altra cosa fuorichè poeta; a cui si può rispondere co' versi di condo lui; ma egli nº usò meno che egli non crede.
Dante, Paradiso, XIX. (3) Dalle accuse del Casa fu difeso Dante dall' eruditis
O tu chi sei, che vuoi sedere a scranna simo Carlo Dati in una delle sue Veglie, tanto celebrate,
Per giudicar da lungi mille miglia ma perdute in gran parte con grave danno della Toscana
Colta ceduta corta d'una spanna? favella.
º rimetterlo alla Difesa di Dante di Jacopo Mazzoni. (4) Dante, Purg. XXVI.
4o6 L' ERCOLANO

comparazioni si debbon fare nel genere uni desime. L' Antigone di messer Luigi Alaman
voco. Il Petrarca, per risolvervi in poche pa ni, e le due di messer Lodovico Dolce sono
role, come lirico, è più perfetto che Dante tradotte dal Greco; il perchè non occorre fa
come eroico; perciocchè nel Petrarca non si vellarne. -

può per avventura desiderare cosa nessuna da C. Per qual cagione? voi sete forse di quelli
niuno, e in Dante qualcuna da ciascuno e che non approvano il tradurre d'una lingua
specialmente d'intorno alle parole (1). Ma in un'altra ?
la grandezza e magnificenza dell'eroico è tanto V. Anzi l'approvo e il lodo, quando si
più maravigliosa e giovevole della purità e traducano quegli autori che si possono tra
leggiadria del lirico, che io per me torrei di durre in quel modo che si debbono; ma dico
essere anzi buono eroico, che ottimo lirico. E che la gloria prima è de' componitori, non
chi non eleggerebbe di toccare piuttosto mez de' traduttori; onde Sofocle e Euripide si
zanamente un violone, che perfettamente sca hanno principalmente a lodare, poi l'Alaman
rabillare un ribecchino ? Non disse il Pe ni e il Dolce; al qual Dolce, non meno che
trarca medesimo: all'Alamanni la fiorentina, dee non poco la
lingua toscana.
Virgilio vidi, e parmi intorno avesse C. Forse, perchè egli vuole che ella si chia
Compagni d'alto ingegno, e da trastullo? (2). mi toscana e non italica, come quasi tutti gli
altri forestieri ?
intendendo de' poeti elegiaci e lirici.
C. Voi non fate menzione alcuna delle tra V. Non tanto per cotesto, quanto per la
gedie, il quale, secondo che mostra Aristoti traduzione che egli fece delle Trasformazioni
d' Ovidio.
le (3) contra Platone, è il più nobile poema
che sia? C. Che mi dite voi? Io comincio piuttosto
V. Io non ne fo menzione, perchè, a dirvi a credere, che a dubitare, che voi non vogliate
il vero, ancorachè le mandassi a chiedere dire tutto quanto oggi paradossi, per non dire
a lui, non potei avere e conseguentemente passerotti, e che non abbiate tolto a impu
leggere quelle del Giraldo, il quale ha grido gnare tutte le buone, e vere opinioni e tutte
le ree e false difendere. Voi non dovete aver
d'essere ottimo tragico. So bene che quando
la sua Orbecche fu recitata in Ferrara, ella veduto quello che scrisse contra cotesto libro
messer Girolamo Ruscelli.
piacque maravigliosamente, secondochè da due
Cardinali, Salviati e Ravenna, che a tale V. Anzi l'ho veduto e letto diligentemente.
rappresentazione si ritrovarono, raccontato mi C. Be, che ne dite?
V. Dico che se messer Lodovico Castelvetro
fu; e la Sofonisba del Trissino e la Rosmun
avesse così scritto contra messere Annibale
da di messer Giovanni Rucellai, le quali
sono lodatissime, mi piacciono sì, ma non già Caro, e ripresolo con tanta ragione, io per me
quanto a molti altri. La Canace dell'eccellen non arei nè saputo, nè potuto, nè voluto di
tissimo messer Sperone è stata giudicata da fenderlo; ma per questo non resta che quella
altri ingegni e giudizi che il mio non è. La non sia una bellissima e utilissima opera e de
Tullia di messer Lodovico Martelli, se avesse gna di molta lode nel modo che ella si trova
buona l'anima, come ha bello il corpo, mi oggi.
parrebbe più che maravigliosa, e da potere C. Io penso quello che voi direste, se ave
ste veduto alcune Stanze del clarissimo messer
stare a petto alle greche. Di quelle d' Ales
sandro de' Pazzi (4), uomo nobile e di molte Domenico Veniero, pur traduzione del princi
lettere così greche, come latine, voglio lasciare pio di cotesta opera medesima, ma elle non
giudicare ad altri, non mi piacendo nè quella vi debbono essere capitate alle mani.
maniera di versi, nè quel modo di scrivere V. Anzi sì, e mi parvero tanto belle e leg
senza regola e osservazione alcuna; e tanto giadre, che appena mi si può lasciar credere
più che messer Piero Angelio da Barga, il che alcuno, e sia chi si voglia, nè egli mede
quale legge umanità a Pisa, uomo d' ottime simo ancora, possa infino al mezzo, non che
lettere greche e latine e di raro giudizio, me insino al fine, così fattamente seguitarle; e
ne mostrò una da lui tradotta, la quale supe allorachè io il vedessi, lo crederei; prima no.
rava tanto quella di messer Alessandro, che a C. Sapete voi che messer Giovannandrea
gran pena si conosceva che elle fusseno le me dell'Anguillara seguita l'incominciata sua tra
duzione di cotesto libro?
V. Sì so, anzi so più oltre, che egli n' è a
(1) Le parole di Dante sono quali usavano a suo tempo, buon termine, e finita che l'arà, dice di vo
e questo giudizio del Varchi non è giustissimo in posporlo
al Petrarca. ler venire qui a starsi un mese con esso me
(2) Petrarca, Trionf. d'Amore, cap. IV. co, e senza che mi dimandiate d'altro, vi
(3) Aristotile nella Poetica. dico che alcune Stanze che io n' ho vedute,
(4) Lodato dal Varchi anche nelle sue Lezioni, e dal sono tali che mi fanno credere che i Toscani
Crescimbeni nel vol. I, lib. I, cap. VIII, de Commentari abbiano ad avere Ovidio più bello che i La
all' Istoria della Volgar Poesia. Tradusse in latino la Poe stini. Questo so io bene di certo che quelle
tica d'Aristotile e alcune tragedie greche, e altre ne compose
di suo. Fu criticato da Ippolito Orio, come arido e poco mi dilettavano più che i versi latini non fa
poetico. Ma più di tutto ſu biasimata la nuova maniera di cevano. Ma di grazia usciamo di questa mate
versi più lunghi una sillaba che egli volle usate nelle sue ria, sì perché il giudicare di queste cose vuole
ta-sedie. agio e buio, e non si può fare, come si dice,
DIALOGO 4o7
a occhi e croci; e sì perchè io non vorrei lando della reedificazione di Firenze, disse:
che noi mescolassimo, come abbiamo comin Quei Cittadin che poi la rifondarno (1),
ciato, il favellare collo scrivere, del quale ra
gionerò poi, e tanto mi distenderò, quanto in luogo di rifondarono, o rifondaron, o riſon
voi vorrete, assegnandovi il come e il perchè, daro, o rifondar.
che ora si lasciano indietro per la maggior C. Non avete voi ancora amorno più usitato
di tutte ?
parte.
C. Passate dunque a raccontarmi qual lin V. Amorno, sonorno, cantorno e tutte l'altre
gua è più copiosa di parole e di favellari, la cotali, sebbene s” usano in Firenze, sono bar
latina o la volgare. barismi, e conseguentemente non bene usate;
V. Ella è tara bara. e ciascuno che ama di favellare o di scrivere
C. Che vuol dir tara bara? e che domin di correttamente e senza biasimo, sene debbe
vocaboli usate voi? quasi parlaste, non vo'di guardare. Manchiamo ancora, come io dissi di
re, colla madre d'Evandro, ma con chi trovò sopra, di comparativi; di superlativi siamo po
la lingua vostra. verissimi; de' supini non n'abbiamo nessuno;
V. Vuol dire che ella è ne fa, ne fa, o vo de' participi pochi, e quegli per la maggior
lete, come dice il Pataſſio (1), ne hai, ne hai, parte sono divenuti nomi; perchè in questa
o come si parla volgarmente, la ronfa del Val orazione: I buoni cittadini sono amanti la pa
lera. tria loro, amanti, perchè ha il caso del suo
C. Se voi non favellate altramente, io il vi verbo è participio, ma in quest'altra: I buoni
terrò segreto, ancorache non mi ponghiate cre cittadini sono amanti della patria loro ; amanti
denza, perchè non intendo cosa che vi di perchè non ha il caso del suo verbo, ma il
ciate! genitivo, non è propriamente participio, ma
V. Fate vostro conto che ella sia tra Ba participio passato in forza e natura di nome,
iante e Ferrante, o, come disse il cane che e questo secondo modo è più frequente nella
bee l'acqua, tal' è, qual'è. lingua nostra e in maggiore uso che 'l primo,
C. Voi volete scherzare e motteggiare an così nello scrivere, come nel favellare. Ma,
cor voi, e mi fate il dovere; ma intanto il dall'altro lato, noi abbondiamo de' verbali,
tempo sene va. come ſattore ovvero facitore ; difensore o piut
V. Io per me non ci so conoscere troppo van tosto difenditore, compositore o più toscana
mente componitore, amatore ovvero amadore e
taggio, perciocchè come in alcune cose siamo
vincenti, così in alcune altre semo perdenti; altri tali quasi infiniti, come amore, colore,
conciossiacosa che se noi abbiamo gli articoli e creditore, e il più bello di tutti valore, e il
gli affissi, de' quali mancano i Latini, essi medesimo dico de femminini amatrice, faci
hanno i verbi passivi e deponenti, de'quali trice, produttrice, ec. Nè voglio lasciare di dire
manchiamo noi. che i Provenzali davano l'articolo femminino
C. Io sono amato, tu sei letto, colui è udito, a tutti quei verbali a cui noi diamo il masco
non sono passivi ? lino, come si vede chiaramente ne' lor libri,
V. Sono, ma non sono in una voce sola, e in quei versi di Dante (2) che seguitano a
come: ego amor, tu legeris vel legere, ille au quegli allegati di sopra da noi, dove si legge:
ditur; la qual cosa è di tanta importanza, che Las passata follor, per a che la valor, de ma
appena il crederreste. Manchiamo ancora del dolor, come se follore, dolore e valore fossero
tempo preterito perfetto in tutti i verbi, ma femminini in luogo di follia, doglienza e va
ci serviamo in vece di lui del lor participio lenza. I diminutivi ci avanzano, conciossiaco
col verbo avere ordinariamente negli attivi, e sachè noi diminuiamo in più modi, non pure i
col verbo essere negli altri, come io ho amato, nomi, ma i diminutivi medesimi, così ne pro
io sono tornato. Bene è vero che noi avemo in pri, come negli appellativi.
quello scambio, come i Greci, non solo il pri C. Io mi ricordo che io vidi già un Sonetto
ino aoristo, cioè il tempo passato indetermi fatto a Roma nella solennità di Pasquino con
mato, come: io amai, tu leggesti, colui udi o udio, tra messer Tommaso da Prato, quando era
che gli antichi dicevano udie, ma eziandio il Datario, il quale cominciva:
secondo, come io ebbi amato, tu avesti letto, Maso, Masuccio, Maserel, Masino,
quelli ebbe udito: o io mi fui rallegrato, tu ti Vescovel, Datariuzzo di Clemente.
ſosti riscaldato, colui si fu risoluto, de quali
ci serviamo felicissimamente: perchè oltra le Ma datemene voi un esempio negli appellativi.
altre comodità, dove i Latini nella terza V. Da casa si forma, ovvero si diminuisce
Persona del numero del più nel tempo prete non pure casetta, casina, casuccia, caserella,
ºtº perfetto non hanno se non due voci, ama
“erunt vel amavere, il quale amavere non è, (1) Dante, Infer. III. -

(2) Dante, Purgatorio XXVI, citato sopra. Questi versi


ºme credono alcuni, il numero duale; noi ne sono riportati scorretti in quasi tutte l'edizioni, perchè hanno
ºmo cinque, quattro ordinari amarono, ama procurato di ridurgli al franzese coloro che non intendevano
º, amaro ed amdr, e uno estraordinario dei il provenzale. E il Castelvetro, che a cart. 99 della Cor
Pºeti amarno, usato da Dante, quando favel rezione all' Ercolano con burbanza riprendendo il Varchi,
pretende di correggergli, cade nel medesimo errore d' in
franzesirgli, anzi gli guasta in forma, che in alcune voci non
(*) Ser Brunetto Latini nel Pataf. cap. 1. Vedi il Vo
ºbolario alla voce Arere. sono nè franzesi, nè provenzali.
4o8 L' ERCOLANO
casellina, e casipola, ma casettina, casinina, ca e cattiva. Eca, significa sempre male, come
succina, e caserellina e alcuna volta si dice dottoreca. Sordastro e filosofastro sono cattivi.
non solo casa picciola, come si truova non una Vincastro non è diminutivo. Anitroccolo, cioè
volta sola nel Boccaccio (1) e negli altri scrittori un'anitra picciola e somiglianti paiono fuor
toscani. E, quello che è più, avemo alcuni di regola.
diminutivi i quali significano grandezza, se già C. Non avete voi un'altra sorte di diminu
non gli volemo chiamare piuttosto dirivativi, o tivi, quando per abbreviare i nomi propri, so.
altramente, come casone da casa, e cassone da lete tagliargli, o levarne, o mutarne alcuna
cassa; basta che quando ad alcuna parola si parte?
aggiugne nella fine questa desinenza, ovvero V. Anzi pochi sono oggi a Firenze coloro
finimento one (2), egli le reca ordinariamente che si chiamino per lo proprio nome loro,
grandezza, ma le più volte in mala parte, il perchè o s'appellano per alcuno soprannome,
che nasce, più che da altro, perchè le parole o per quei nomi mozzi che voi chiamate dimi.
a cui s'aggiugne, significano per sè medesi mntivi, come: Bartolomeo: Baccio (1), benchè
mc male e ree cose, come ladrone, ghiottone, Baccio è ancora nome proprio, e però la plebe
ribaldone, ignorantone, furfantone, manigoldo dice, e i cittadini Meo, e per diminuzione
ne, ec. Similmente quando alle parole di ge Meuccio e Meino ; Francesco: Cecco, Ceccone,
nere mascolino s'aggiugne otto ovvero occio, o Ceccotto, e per diminuzione Franceschino, e
e a quelle di femminino otta ovvero occia, si Cecchino : Jacopo , oltra Jacopino che è dimi
cresce il lor significato, come casotto, casotta nutivo, Ciapo, e per un altro diminuimento
e casoccia; grassotto, e grassoccio, grassotta e Ciapetto, dal quale si formano ancora Jacopone,
grossoccia; fratotto e fratoccio; puledrotto e pu Jacopetto e Jacopaccio, Giovanni: oltra Giovane
ledroccio, ec. E alcuni finiscono in ottolo se nino o Giannino, Gianni: e Nanni ; Niccolò,
pianerottolo, (3), e bamberottolo, e alcuni altri Coccheri, che Co, e de Senesi. Lorenzo, Cen
sono diminutivi accio ed accia, aggiunti nella cio, il quale significa ancora Vincenzio: Giro
fine, significano cattività, come: frataccio, be lamo: Giomo o Momo ; Bernardo, Bernardino e
stiaccia, tristaccio, tristaccia. Iccio e iccia, si Bernardetto: Lodovico; Vico: Lionardo: Nardo,
gnificano anzi cattivo che no, come: bigiccio, onde Nardino in luogo di Lionardino ; Alessan.
amariccio, cioè che tiene di bigio e d'amaro; dro: Sandro e Sandrino, e (per non fare co
il che si dice ancora bigerognolo e amarognolo, me messer Pazzino de' Pazzi) Benedetto, Betto,
come verderognolo; e della medesima natura e Bettuccio, che Bettino è nome proprio. Ma
pare che sia etto e etta, come : amaretto e trattare queste cose minutamente e ordinata
amaretta, e altri cotali. Ozzo ed ozza accre mente s' appartiene a grammatici; però con
scono, come mottozzo e parolozza: ello ed chiudiamo omai che la lingua volgare, compu
ella diminuiscono, come: ghiotterello, triste tatis omnibus, come si dice, cioè, consideratº,
rella, cattivello e cattivella ec. Uzzo ed uzza e messo in conto ogni cosa, va di pari quantº
ancor essi diminuiscono, come tisicuzzo, ti a bontà e ricchezza colla latina.
gnosuzza; e cosi : uccio ed uccia, come tettuc. C. Io dubito questa volta che voi non fac
cio e casuccia. Il medesimo fanno volo e vola, ciate anche voi come i giudici da Padova.
tristanzuolo e tristanzuola. Ino ed ina scemano V. Può essere, ma io non lo fo già per pº
ancor essi, come casino e casina, panierino, rer savio; ma come così ?
cioè paniere picciolo, e panierina, cioè una C. Perchè il Bembo (2) afferma nelle sue
paniera picciola, che si chiama paneruzzola : Prose che la vostra è alle volte più abbon
devole della romana lingua, perchè chi rivol.
ma spesse fiate, e massimamente quando s'ag
giungono a nomi propri significano una certa gesse ogni cosa, non troverebbe, con qual
benevolenza e amorevolezza, che a fanciulli voce i Latini diceano quello che da Toscanº
piccioli si porta, come: Lorenzino, Giovannino, valore è detto.
Jacopino, Antonino, benchè questo è anco no V. Il Benbo andò imitando in cotesto luogº
me proprio, onde si dice Tonino, Giorgino,
Cicerone (3) e io, come non niego che i To
Pierino e Pierina. Dicesi anco per vezzi ghiot scani abbiano molti vocaboli che i Latininº
terello e ghiotterellino, tristerello e tristerellina, aveano, così confesso essi averne avuti e avº
ladrino e ladrina. Essa significa qualche volta ne molti, i quali non avemo noi; ma la rº
bene, come fattoressa, padronessa e dottoressa, chezza delle lingue non si dee considerº
e qualche volta male, come liressa e liutessa, principalmente da simili particolari. Quello
cioè una lira cattiva e un liuto non buono; che importa e che la lingua fiorentina e º
e ancoressa significherebbe un'ancora vecchia solamente viva, ma nella sua prima giovanº

(1) Bocc. Novella XLIII, 14. (1) Baccio e Bartolommeo è tutto uno, essendo il "
Furono alla porta della piccola casa. un peggiorativo del secondo; il che non sapendo il P. Mont
faucon, si fece a credere nella sua Paleografia tireº, dove
e appresso:
Sparti adunque costoro tutti per la piccola casa, ec. parla degli scrittori del Codici Greci, che Bartolomº bit.
badori, e Baccio Barbadori fossero due persone diversº, Chi
(2) La desinenza in one arreca grandezza, ma una gran
dezza per lo più goffa, e che sia d'imperfezione, non già vuol vedere un copioso indice di nomi propri diminui"
perchè si aggiunga, come dice il Varchi, a cose per sè male, condo l'uso nostro, vegga il vol. V de' Commenti dell'º
perchè ciò segue anche aggiugnendola a cose buone. storia della volgar Poesia del Crescimbeni in fine.
(3) Pianerottolo è diminutivo di Pianetto, che pure anche (2) Bembo, Pros. lib. I, Part. XII.
esso è diminutivo di Piano. (3) Crc. nel principio del 1 l lib. dell'Oral.
DIALOGO 4o9
e forse non ha messo ancora i lattajuoli, onde il Petrarca vince Pindaro, fate questa conse
può ogni di crescere e acquistare, facendosi guenza da voi. Similmente se Omero e o su
tuttavia più ricca e più bella; dove la greca periore, o almeno pari a Virgilio, e Dante è
e la latina sono non solamente vecchie, ma pari, o superiore a Omero, vedete quello che
spente nella loro parte migliore e più impor ne viene,

tante. E poi io intendo o solo, o principal C. Voi dite pur da dovero che Dante van
mente nella maniera dello scrivere nobile; che taggi e soverchi Omero ?
nell' altro la latina, e forse la greca, non sa V. Da doverissimo. -

rebbe atta a portarle i libri dietro, nè ad es C. Io inquanto a me vi crederò ogni cosa,


ser sua fattorina. ma non credo già che gli altri, e in ispezie i
C. Io credo che i Greci e i Romani non letterati, lo vi siano per credere, e voglia Dio
avessono mai pelo che pensasse a generi di che non si facciano beffe de fatti vostri, te
scrivere bassi e burleschi, e che arebbono dato nendovi per uno squasimodeo.
per meno d'un ghiabaldano tutte così fatte V. Non v' ho io detto tante volte che ne
comparazioni. voi, nè altri mi crediate nulla più di quello
V. E' si vede pure che nell'Elegia della che vi paia vero, o vi torni bene?
Noce e in quella della Pulce, e in certi altri C. Varchi, questo è un gran fondo, e ci bi
componimenti v'è un non so che di capitoli: e sognerà altro che protestazioni, credete a me.
quelli che presero a lodare la febbre quarta V. Grandissimo, e io lo conosco e vi credo,
na, e altri cotali soggetti, mi pare che vo e contuttociò sperarei in Dio di doverne, bi
lessero bernieggiare; e la tragedia di Luciano sognandomi farne la prova, uscire, se non a
delle gotte lo dimostra apertamente. nuoto da me, coll'aiuto di due sugheri, o gon
C. Io son contento; ma non credete voi che fiotti che io ho.
così i Greci come i Latini avessero di molti C. Quali sono questi due sugheri, o gon
nomi e verbi e modi di favellare, o plebe, fiotti, ne' quali in così grande e manifesto per
o patrizi, i quali o non passarono nelle scrit ricolo confidate tanto ?
ture, o si sono insieme cogli autori loro spenti V. Due de maggiori letterati de tempi no
e perduti? stri, quali il dicono e l'affermano, e ve ne
V. Ben sapete che io lo credo, anzi lo giu faranno, se volete, un contratto, se non vi ba
rerei, e ne metterei le mani nel fuoco; nè io sta quarantigiato, in forma Camera, e forse
vi potrei dire quanto danno abbiano alla lin ne potreste vedere testimonianza ne'loro dot
º gua fiorentina recato prima quella piena d'Ar
no (1) così grande, e poi molto più l'igno
tissimi componimenti che essi a posteri la
sceranno. E di più mi pare ricordarmi che
ranza viennaggiore di coloro i quali non cono messere Sperone, quando io era in Padova,
scendo le scritture vietate, da quelle che vie fosse nella medesima sentenza. Vedete Se atlco

tate non erano, l'ardevano tutte, ne vo' pen questa sarebbe una zucca da cavarmi d' ogni
sare quanto dolore ne sentissi; ma queste fondo: questo so io di certo che egli non si
sono doglienze inutili, e ogni cosa venendo poteva saziare di celebrarlo e d'ammirarlo.
dal disopra, si può pensare, anzi si dee, che C. Io credo alle semplici parole vostre; e
sia ben fatta, e a qualche buon fine, ancora quanto a gonfiotti e la zucca che dite, essen
che non conosciuto da noi. do tali, ognuno potrebbe arrischiarsi con elli
C. Si certamente. Ma ditemi, se voi credete sicuramente in ogni gran pelago ; e se messer
che i Fiorentini nella gravità del parlare e Sperone non potea rifinare nè di celebrare,
scrivere loro adeguino Romanos rerum dominos, nè d' ammirare il poema di Dante, faceva in
º
gentemque togatam (2). -
ciò ritratto di quello che egli è. Ma che dite
V. Credolo risolutamente, e che gli avan voi delle commedie º
zino ancora, ma questo non si può risoluta V. Io ho il gusto in questa parte corrotto
mente affermare, per lo essersi perduta, come affatto, conciossiacosachè poche me ne piac
io vi diceva, la purità e la schiettezza della ciono, da quelle di messer Lodovico Ariosto
pronunzia. in fuora; e quelle mi piacevano più già in pro
C Mi basta questo; ma quanto alla nobiltà? sa, che poi in versi.
V. Per ancora stiamo sotto noi, e cediamo C. La commedia, essendo poema, pare che
a Latini, ma non quanto a Greci. ricerchi il verso necessariamente: ma voi forse
C. In quanto al numero, o in quanto alla vorreste piuttosto il verso sciolto d'undici sil
qualità? labe, che lo sdrucciolo, o di quella ragione,
V. Piuttosto inquanto al numero che alla per avventura, co' quali tessè messer Luigi Ala
qualità, e molto più nelle prose che ne versi; manni la sua Flora (1).
perchè lasciando stare i tragici (ne quali se V. A me non pare che la lingua volgare
non siamo al disopra, non istiamo di sotto) abbia sorte nessuna di versi i quali corrispon
quanto a lirici, se Pindaro vince Orazio, e dano agli ottonari, a trimetri, a senari e a
molte altre maniere di versi che avevano i
(1) Intende forse della piena del 1547, di cui dice Ber
nardo Segni nella Storia al lib. XII a cart. 31 , che alla (1) La Flora, commedia di Luigi Alamanni, con gl'In
Piazza del Grano alzò l'acqua otto braccia, e che da dugen termedii di Andrea Lori. In Firenze 1556. Porrò qui i
tocinquanta anni indietro non s'era veduta una simile inon
primi due versi, perchè altri vegga di qual maniera egli sono:
dazione. So che questi rozzi veli, e negletto abito
(2) Virgilio, Eneid. lib. I, v. 281. Non conoscerete bene, Enrico invittissimo.
V AnciII V, I. 5
4 Io L' EIACC LANO
Greci e i Latini; laonde, se le commedie non V. Quello che del Vida e di molti altri
si possono, o non si debbono comporre se non che io per brevità non racconto, i quali non
in versi, il che io nella nostra lingua non cre si possono lodare tanto che non meritino più.
do, ancorachè abbia contra l'autorità d'uo C. Quanto all' Elegie?
mini grandi, la lingua toscana al mio parere V. Siamo al disotto così a Latini come ai
è in questo poema inferiore non solo alla gre Greci; perchè non avemo in istampa se non
ca; del che non si può dubitare, se agli scrit quelle di Luigi Alamanni, le quali sebbene
tori credere si dee; ma ancora alla latina. pareggiano e forse avanzano quelle d'Ovidio,
Ma se alle conghietture si può prestar fede, non però aggiungono nè a Tibullo, nè a Pro
e anche parte alla sperienza, credo che i no perzio ; perchè quelle che sotto il nome di
stri zanni facciamo più ridere, che i loro mi Gallo si stamparono, sono tenute indegne di
mi non facevano, e che le Commedie del Ruz lui, che fu tanto celebrato da Virgilio: ben
zante da Padova così contadine, avanzino chè io mi ricordo averne vedute alcune di
quelle che dalla città d'Atella si chiamavano messer Bernardo Capello, gentiluomo viniziano
Atellane. E io lessi già un mimo di messer e di messer Luigi Tansillo e d'alcuni altri
Giovambatista Giraldi, il quale mostrava, la molto belle.
nostra lingua ancora di quella sorte di com C. Delle Selve che dite ?
ponimenti essere capevole. V. Che quelle del Poliziano mi piacciono
C. Dovendosi fare la commedia in versi, quanto quelle di Stazio.
quale eleggereste voi? C. Io ragiono delle volgari non delle latine.
V. Stuzzicatemi pure. Io v'ho detto che V. Delle volgari non he mai veduto, se non
nessuno mi pare atto a ciò , pure l'endeca quelle dell'Alamanni, le quali sono in versi
sillabo sciolto, perchè è più simile a versi sciolti, e i versi sciolti ne poemi eroici non
jambici, e perche nel favellare cotidiano ce mi piacciono, salvo che nelle tragedie; per
ne escono molte volte di bocca, sarebbe , se altro le lodo, mostrando la natura di quel
non più a proposito, meno sconvenevole. Ma buono e dotto e cortese gentiluomo.
di questo mi rimetterei volentieri al giudizio C. Il Trissino scrisse pure la sua Italia Li
del signor Ercole Bentivoglio, il quale in que berata in versi sciolti, la quale intendo che
sto genere eccellentissimo, è pari all'Ariosto fu da voi nelle Lezioni (1) vostre della Poe
reputato da chi poteva ciò fare, cioè da mes. tica tanto lodata.
ser Giovambatista Pigna, giovane d'età, ma vec V. Io non la lodai se non quanto alla dis
chissimo di sapere e di giudizio. posizione, nella quale mi pare che egli avan
C Delle Satire dell'Ariosto ? ri, siccome quelli che andò imitando Omero,
V. Mi paiono bellissime, e come vogliono tutti gli eroici toscani, eccettuato Dante, e
essere le satire. -
rispetto all'altre sue cose, le quali tutte , se
C. E quelle del signor Luigi Alamanni? non se forse la tragedia, cedevano a quella.
V. Troppo belle. C. Quanto agli Epigrammi?
C. Voi non avete detto nè del Furioso, nè V. I Greci furono in questa sorte di poe
del Girone, ne di tanti altri poemi toscani sia felicissimi: i Latini antichi da quelli di
moderni cosa nessuna º Catullo e della Priapea, e pochi altri in fuora,
V. E' bisognerebbe che io fossi la vaccuc si può dire che ne mancassero; ma i moderni
cia, a dire e far tante cose in un giorno. Io hanno in questa parte larghissimamente sop
non ho anche detto nulla a questo proposito perito. Per la qual cosa, se il sonetto corri
nè della Gristeide del Sanazzaro, nè del Siſilo sponde all'epigramma, noi vinciamo di gran
del Fracastoro, nè di tanti altri poemi latini dissima lunga : se il madriale o mandriale;
moderni, i quali parte pareggiano, e parte non perdiamo: benchè io lessi già un libretto
avanzano gli antichi, da quelli del buon se di messer Luigi Alamanni tutto pieno di epi
colo in fuori; tra quali i sei libri della Cac grammi toscani in una sua foggia assai gen
cia (1) in verso eroico di messer Pietro An tile, e contutto ciò porto opinione, che come
gelio Bargeo doverranno avere tosto onoratis le lingue sono diverse tra loro, così le ma
simo luogo. E se io ho a dirvi il vero, i poe niere de'componimenti non essere le medesi
mi latini moderni sono più e forse migliori me. Ecco, per lasciare stare molte maniere di
de' poemi moderni toscani; onde non istare componimenti plebei, come son feste, rappre
mo in capitale; perche (2) nel Curzio del Sa sentazioni, frottole, disperati, rispetti, o bar
doleto, e nella Verona del Bembo non so io zellette e altri cotali, a qual sorte di compo
quel che si possa desiderare in questi tempi. nimenti si possono agguagliare le ballate, e mas
C. E di messer Marcantonio Flamminio, e simamente le vestite. Ma ciascuna di queste
di Fra Basilio Zanzo (3), che dite ? cose vorrebbe una dichiarazione propria e da
per se, e ricercherebbe agio e buio, e voi le
(1) Nelle Lettere Memorabili d 1 Buffon ve n'è una del mi fate mescolare e quasi accatastare tutte in
Bargeo al Varchi, dove tratta di questo suo poema, e delle sieme senza darmi tempo nessuno. E anco per
lodi che gli voleva dare il Varchi. dirvi il vero, avendo io disputato di tutte que
(2) Vedi il tom. Vtl I, della Raccolta de' Poeti Latini
ltaliani, stampati in questa Stamperia, a cioè in Firenze dai
Tartini e Franchi, stampatori pucali º nel 1721. (1) Il Varchi nelle sue Lezioni stampate in Firenze nel
(3) Credo che intenda di Basilio Zanco, di cui vedi le 159o, in 4" parla molto del Trissino a cart. 634 lodando
poesie nella suddetta Raccolta al lom. Xl. l il suo lpoema. – Vedi in qquesto volumc pag
pag. 27.3 e 279. - -
DIALOGO 41 i
ste eose, e di molte altre pertinenti alla poe se fossono stati voi, non arebbono pigliato co
sia lungamente nelle mie Lezioni poetiche, al tale impresa.
legando tutte quelle ragioni e autorità che al V. Cotestoro pare a me che dicano il con
lora mi parvero migliori e più gagliarde, non trario di quello che dire vorrebbono, percioc
mi giova ora di replicarle, anzi mi giova di chè se fossero me, farebbono come foio, ma
non le replicare, se io fossi loro, farei come dicono essi.
C. Passate dunque se vi pare alla dichiara C. Non mi potreste voi raccontare alcuna
zione della seconda cosa principale, cioè della delle cagioni che vi muovono ad aver una opi
bellezza; perchè io terrò da qui innanzi che nione la quale credo che sia diversa, anzi con
la lingua volgare sia ricca e grave, e quasi traria, da tutte quelle di tutti gli altri tanto
nobile quanto la latina, ma tanto bella non dotti, quanto indotti, così antichi come mo
eredo e non crederò così agevolmente. derni, e di Dante stesso e del Petrarca me
V. Voi mi fate ridere e rimembrare d'un desimo?
certo signor Licenziato, il quale venne già, o V. Potrei, ma saria cosa lunga, perchè mi
fu fatto venire a Firenze, la cui persona, per sarebbe necessario dichiararvi, altramente che
ehi voleva comporre dialoghi, valeva un mon io non avea pensato di voler fare, che cosa è
do, anzi non si poteva pagare, perchè, come numero, e in che differente dall'armonia, ma
chè egli si mostrasse da prima molto scredente teria nel vero non meno gioconda che neces
e uomo da non volerne stare a detto, anzi saria, ma diſficile e intricata molto.
vederla fil filo, era poi più dolce che la sapa, C. Lascisi ogn'altra cosa prima che questa,
e non solo credeva, ma approvava alle due la quale è gran tempo che io disidero di sa
parole tutto quello che gli era detto, e d'ogni pere, e mi si fa tardi che voi la dichiariate;
picciola cosa faeea meraviglie grandissime. perchè io lessi già un ragionamento d'uno dei
C. Voi ne sete cagion voi molto bene, per vostri, nel quale si tratta de numeri e dei
chè io vi eredo troppo, e voi mi fate dire si piedi toscani, nè mai, per tempo e diligenza
e no, e no e sì, secondo che vi torna a pro ehe io vi mettessi, potei, non che eavarne co
posito. Ma ditemi, che noi non ce lo sdimen strutto, raccapezzarne cosa alcuna ; tanto che
ticassimo, quale è più bella lingua la greca o io non gli ho obbligo nessuno.
la latina o la volgare ? V. Anzi negli dovete avere duoi.
V. La greca. C. Quali e per che ragione?
C. Credolo. V. L'uno, perchè egli faticò per insegnarvi:
V. No, io vo dire che la greca e la latina, l'altro, perchè egli non v'insegnò; e io an
ma voi m'interrompeste, sono belle a un mo che debbo restargli in alcuna obbligazione, a
do di quella bellezza di cui ora si ragiona ; cui converrebbe ora durare fatica doppia; ma
ma la volgare (io non so se gli è bene innanzi voi intenderete un giorno, e forse innanzi che
ehe io il dica) fare una nuova protestazione, siano mille anni, ogni cosa più chiaramente.
pure il dirò, la volgare è più bella della gre Porgete ora l'animo non meno che l'orecchie
ea e della latina. a quello che io vi dirò. Questa parola numero
C. Della greca lingua e della latina e più è appo i Latini voce equivoca, perciocche ella
bella la volgare ? significa così il numero proprio, il quale i
V. Più bella. Greci chiamano aritmo, e noi novero, come il
C. Egli era bene che voi la faceste, che metaforico, ovvero traslato, il quale da mede
questa è una delle più nuove cose e delle simi è chiamato ritmo, benche coll'accento
più strane e delle più enormi che io abbia acuto in sull'ultima, e da noi numero. Il nu
sentito dir mai alla vita mia, e tale che io mero proprio, cioè il novero è, come ne in
dubito, anzi son certo, che le protestazioni segna il Filosofo nel quarto della Fisica, di
non vi abbiano a giovare, e comincio a cre due ragioni, numero numerante, o piuttosto
dere che voi le facciate, più che per altro, novero annoverante, il quale sta nell'anima
per tema di non inimicarvi il Castelvetro, af razionale, ed è quello col quale noi annove
finche egli, o altri per lui non vi risponda, e riamo, perchè i bruti non lo conoscono, come
vi faccia parere un'oca uno, due, tre, e l'altre aggregazioni di più
V. Quando io le facessi per cotesto, non unità, perchè l'uno non è proprio numero, ma
Penso che voi, o altri me ne voleste, o pote principio di tutti i numeri, come il punto non
ste riprendere; e vi ricordo che egli non è e quantità, ne lo istante tempo. Numero nu
così barbuto, nè forbito uomo, che un nemico merato, o piuttosto novero annoverato, non e
ºn gli sia troppo; ma se io il facessi per ca esso novero che annovera, come il primo, ma
sºne tutta contraria da quella che voi pen esse cose annoverate, come esempli grazia:
ºte, cioè perchè egli o altri mi rispondesse, dieci cani, venti cavalli, cento fiorini, mille
che direste voi? uomini, ec. Del novero annoverante e anno
º lo mi motteggiava; chè ben so che voi verato, e brevemente dell'aritmo, ch'è il no
non avete paura.
V. E che paura si può, o debbe avere in
vero proprio, non occorre che noi favelliamo
in questa materia, ma solamente del numero
º combattimento nel quale chi vince, ne metaforico, cioè del ritmo. Dunque ritmo, ov
º Iuista onore e gloria, e chi perde, dottrina vero numero non è altro generalmente preso
e sapere? -
che l'ordine de'tempi, o volete de'moti locali,
º lo ho pure inteso che molti dicono che che i filosofi chiamano lazioni, e noi movimenti.
4i2 L' ERCOLANO
C. Che intendete voi per tempi in questa o buona, o cattiva, come accade nelle conso
diſfinizione ? nanze della musica, quando concordano e di
V. La minore e più breve parte di quello scordano ; perchè essendo ciascuno movimento
spazio, ovvero indugio e badamento che inter necessariamente o veloce, o tardo, perchè que
viene in alcun movimento, in alcun suono, ste sono le sue differenze, non dal veloce, o
e in alcuna voce, come meglio intenderete di dal tardo semplicemente, ma dal mescolamento
qui a un poco. dell'uno coll'altro nasce il numero: il quale
Q. Secondo questa diffinizione pare a me che mescolamento, se è ben temperato e unito,
il tempo e il movimento vengano a essere una piace e diletta; se male, dispiace e annoia non
cosa medesima. altramente che nella musica le consonanze che
V. Voi avete meglio inteso che io non pen accordano, e le dissonanze che discordano (1).
sava, perchè tempo e movimento sono una C. Chi giudica questo temperamento, se è
cosa stessa realmente, e in effetto, ma diffe bene, o male unito?
renti di ragione, come dicono i filosofi, cioè V. L'occhio e l'orecchio, o piuttosto l'ani
d'abitudine e di rispetto, e insomma di con ma nostra, mediante gli occhi e gli orecchi;
siderazione, come il convesso e il concavo, o perchè noi, come avemo da natura l'amare e
l'erta e la china, perchè il tempo non è altro seguitare le cose che ne dilettano, e l' odiare
che o il movimento del primo mobile, o il e fuggire quelle che n apportano noia, così
novero annoverato, cioè la misura del movi abbiamo ancora da natura il conoscere, se non
mento del primo mobile, perchè il tempo è perfettamente, tanto che basti a questi due
generato dall'anima nostra. effetti.
C. Egli mi pare ancora che da questa diffi C. Io guardo che essendo i movimenti na
nizione seguiti che dovunque si trova movi turali, ancora i numeri che consistono e sono
mento, quivi ancora si truovi di necessità rit fondati in essi, saranno naturali.
mo, ovvero numero. V. I numeri semplicemente sono naturali,
V. Egli vi par bene, perchè come dove non ma i numeri buoni più dall'arte procedono
è movimento, non può esser numero in alcun che dalla natura. Considerate, quanto sia gran
modo, così ogni numero ricerca di necessità de la differenza da uno che balli o suoni, o
alcun movimento onde egli nasca, perchè nel canti di pratica, come gli insegna la natura,
movimento consiste, ed è fondato ogni numero; da uno che balli o suoni, o canti di ragione,
ma voi areste detto meglio movimenti nel plurale, come faceva il prete di Varlungo (2), quando
perchè il numero non può trovarsi in un mo era in chiesa la Belcolore. -

vimento solo propriamente, ma solo impropria C. Voi non mi negherete già che ognuno che
mente, ovvero in potenza; la qual cosa affin va, e ognuno che favella, non vada e non fa
chè meglio comprendiate, daremo un'altra dif velli numerosamente.
finizione, se non più chiara, meno oscura. Il V. Con numero volete dir voi ; che nume
ritmo, ovvero numero, è la proporzione del rosamente si dicono andare e favellare sola
tempo d'un movimento al tempo d'un altro mente coloro i quali favellano, o vanno con
movimento, cioè di quella mora, o spazio, o buono e temperato, e conseguentemente ordi
indugio, o bada che interviene tra un movi nato e piacevole numero; il che può venire
mento e l'altro; perchè non si potendo fare alcuna volta dalla natura, ma per lo più, anzi
alcun movimento in instante, seguita che cia quasi sempre procede dall'arte, perchè la na
scuno movimento abbia il suo tempo. Il tempo tura dà ordinariamente potere e l'arte il sa
d'un movimento, al tempo d'un altro movi pere. Il medesimo fiato e la medesima forza
mento ha necessariamente alcuna proporzione, ricerca il sonare un corno, che il sonare una
o doppia, o sesquialtera, o sesquiterza, ec. Per cornetta, ma non già la medesima industria e
che quando una cosa o più si muove non egual maestria ; e tanto mena le braccia colui che
mente, ma più veloce, o più tarda, egli è suona il dolcemele o il dabbudà, quanto co
necessario che tra quella tardanza e quella lui che suona gli organi; e insomma l'arte è
velocità caggia alcuna proporzione; quella pro quella che dà la perfezione delle cose. Non
porzione è e si chiama ritmo, ovvero numero, vedete e non sentite voi, quanta noia e fasti
la quale non è altro che la misura almeno di dio n'apportino coloro agli occhi e agli orec
due movimenti agguagliati l'uno all'altro, se chi, i quali o non ballano a tempo, o non can
condo la considerazione de'lor tempi. E come tano a battuta, o non suonano a misura?
il numero non può trovarsi in meno di due C. Ben sapete che io lo veggo, e che io lo
movimenti, così può procedere in infinito, sento, e conosco ora, perchè Virgilio disse nel
cioè trovarsi in più movimenti, come si vede Sileno :
chiaramente infino quando altri suona il tam Tum vero in numerum faunosque ſerasque videres
burino colle dita. Ludere, un rigidas motare cacumina quercus (3);
C. Bene sta ; ma se tutti i movimenti son
numeri, o generano numero, onde nasce che (1) Il dottissimo e oculatissimo Galileo trova la ragione
naturale perchè le concordanze armoniche piacciano, e le di
certi producono buon numero, il quale ci piace scordanze dispiacciano al nostro orecchio, nel Dialog. i delle
e diletta, e certi altri lo producono cattivo, scienze nuove in fine a cart. 541, dell' edizione di Firenze
il quale ci spiace e annoia? del 1718.
V. Dalla propria natura loro, cioè secondo (2) Bocc. Novella LXXII.
che la proporzione dell'un tempo all'altro è (3) il Castelvetro a cart. 95 della Correzione, se critica
DiALOGO 413
non volendo in numerum significare altro che dal tardo. Ma quello che negli altrui movi
a tempo, a battuta e a misura; non so già menti si chiama veloce, nelle voci si chiama
quello volle significare quando disse: breve e quello che tardo, lungo, laonde dalla
Numeros memini, si verba tenerem. brevità, e dalla lunghezza delle sillabe, me
diante le quali si profferiscono le parole, na
V. A volere che voi intendiate bene cote scono principalmente questi numeri, e come
sto luogo e tutta questa materia, e conosciate quelli non si posson generare se non di due
quando quello che giudica i ritmi, è o l'oc movimenti almeno, così questi generare pro
chio, o l'orecchio, o alcun altro delle cinque priamente non si possono se non almeno di
sentimenta, bisogna dividere e distinguere i nu due piedi, e per conseguenza di quattro sil
meri. Sappiate dunque che i numeri, ovvero labe, le quali sono ora brevi, il che corrispon
ritmi si dividono principalmente in due ma de al veloce , e ora lunghe, il che corrisponde
niere; perciocchè alcuni si truovano ne' mo al tardo; e ora mescolatamente, cioè brevi e
vimenti soli disgiunti e scompagnati dall'ar lunghe, o lunghe e brevi; il che risponde al
monia, e alcuni ne movimenti congiunti e ac veloce e al tardo, o al tardo e al veloce. Ho
compagnati coll' armonia. I numeri che si detto principalmente, perchè il numero il quale
truovano ne'movimenti soli senza l'armonia, nelle voci consiste, si genera ancora da altre
sono quelli che nascono da movimenti ne' quali cagioni, che dalla quantità delle sillabe, come
non intervenga nè suono, nè voce, come nel si dirà. Truovasi questo numero di cui ragio
ballare, nel far la moresca, nel rappresentare niamo o ne' versi, o nelle prose, o ne' versi
le forze d'Ercole e in altri cotali: e questa e nelle prose parimente. Il numero che si ri
sorte di numero si conosce e comprende sola truova ne' versi, come è di quattro maniere,
mente col sentimento del vedere; come quella così s' appartiene a quattro artefici e a tutti
de'medici, quando cercano il polso agli in in diverso modo; al poeta, al versificatore, al
fermi, si comprende e conosce solamente col metrico e al ritmico ; chè altri nomi per ora
toccare. I numeri che si truovano ne'movi migliori e più chiari di questi non mi sov
menti insieme coll'armonia, si ritruovano o in vengono. Il ritmico, per cominciare dal men
suoni, o in voci. Quelli che si ritruovano nei degno, è quegli il quale compone i suoi ritmi
suoni , cioè che si possono udire, ma non in senza aver risguardo nessuno nè alla quantità
tendere, hanno bisogno o di fiato, o di corde. delle sillabe, nè al novero ed ordine de' pie
Quelli che hanno bisogno di fiato, hanno bi di, nè alle cesure, ma attende solamente al
sogno o di fiato naturale, come le trombe, i novero delle sillabe, cioè fare che tante sillabe
flauti, i pifferi, le storte e altri tali, o di fiato siano nel primo verso, quante nel secondo, e
artifiziale, come gli organi. Quelli che hanno e in tutti gli altri, le quali comunemente sono
bisogno di corde, si servono o di minugia, come o sei o otto; talvolta senza la rima, come per
i liuti e viole, e violoni, o di fili d'ottone e cagione d'esempio quell'inno, o altramente
d'altri metalli, come i monocordi. che chiamare si debbia, che comincia:
C. In questa così minuta divisione non si Ave maris stella, -

comprendono i tamburi, i quali si sentono più Dei mater alma;


discosto, e fanno maggior romore che nessuno
degli altri. e talvolta colla rima, come:
V. È vero, ma nè i cemboli ancora, i quali Recordare, Jesu pie,
hanno i sonagli, e si va con essi in colombaja, Quod sum causa tuae viae.
nè le cemmanelle (1), che si picchiano l'una
coll' altra, nè la staffetta, la quale vogliono Il metrico è colui il quale fa i suoi metri, cioè
alcuni che fosse il crotalo antico, nè colui che le sue misure; chè altro non significa metro
scontorcendosi e facendo tanti giuochi, suona che misura, senza avere altro risguardo che
la cassetta e si chiama arrigobello. Ma lascia al novero, e all'ordine de piedi, non si cu
temi seguitare, perchè quanto s'è insin qui rando delle cesure; perchè se egli compone il
trattato del numero, fa poco, o niente al pro metro, verbigrazia jambico, o trocaico, o dat
ponimento nostro, essendo proprio de' sonatori, tilico, gli basta porre tanti piedi, e con quello
come farà quello che si tratterà da qui innan ordine che ricercano cotali metri, senza ba
zi, e perciò state attento. I numeri che si ri dare alle cesure, che sono quei tagliamenti che
truovano nelle voci, cioè che si possono non ne” versi latini necessariamente si ricercano, ac
solamente udire, ma ancora intendere, perchè ciocchè lo spirito di chi gli pronunzia abbia
da alcuno sentimento, e concetto della mente dove fermarsi alquanto, e dove potersi ripo
procedono, e in somma sono significativi d'al sare, le quali sono in ciascun verso ora una,
cuna cosa, nascono anch'eglino dal veloce e e ora due, e ora più, secondochè al componi
tore d'esso pare che migliormente torni.
questa spiegazione del Varchi; ma si vegga Quintil. lib. IX, Il versificatore ha risguardo a tutte quelle
cap. IV, che definisce il numero dicendo: Aam rhythmi, cose che si debbono risguardare ne' versi, per
idest numeri, spatio temporum constant, metra etiam ordine,
ideoque alterum esse quantitatis videtur, alterum qualitatis; che oltra la quantità delle sillabe e il novero
il che si confà più colla spiegazione del Varchi. e l'ordine e la varietà de' piedi, dà mente
(1) Vedi il ledi nelle Annotazioni al suo Ditirambo a ancora alle cesure. E con tutte queste cose
cart. 14o, 141 dell'edizione di Firenze del 1091 dove spie versificatore è nome vile e di dispregio, rispetto
ga questa voce. al poeta; perchè sebbene ogni poeta e neces
-

414 L' ERCOLANO

sariamente versificatore, non perciò si converte quale mediante le cose dette non bisognerà
e rivolge, che ogni versificatore sia poeta; po che io tenga lungo sermone.
tendosi fare de versi che stiano bene e siano C. Deh innanzi che voi venghiate a cotesto,
belli, come versi, ma o senza sentimento, o con ascoltate un poco, se io ho ben compreso e
sentimenti bassi e plebei; e per questa ca ritenuto almeno la sostanza di quanto del nu
gione, penso io che il Castelvetro a carte 1oo -
mero infin qui detto avete, riducendolo a modo
chiamasse Annibale versificatore, la qual cosa d'albero.
con quanta ragione facesse, lascierò giudicare V. Di grazia.
agli altri. C. Il ritmo, ovvero numero, è di due ma
Il poeta, oltra il verso ben composto e sen niere, senza armonia e con armonia. Il numero
tenzioso, ha una grandezza, e maestà piuttosto senza armonia si truova in tutti i movimenti
divina, che umana; e non solo insegna, diletta ne quali non sia nè suono, nè voce, come nei
e muove, ma ingenera ammirazione e stupore polsi, ne' gesti, ne balli, nelle moresche, nella
negli animi o generosi, o gentili e in tutti co rappresentazione delle forze d'Ercole e in
loro che sono naturalmente disposti, perchè altri così fatti movimenti. Il numero con ar
l'imitare, e conseguentemente il poetare, è, monia si ritrova o ne' suoni, o nelle voci; se
come ne mostra Aristotile nella Poetica na ne'snoni, o in quelli che si servono del fiato,
turalissimo all' uomo. o in quelli che si servono di corde; se di fiato,
Il numero il quale si ritrova nelle prose, chia o naturale, o artifizioso; se di corde, o di mi
mato oratorio, siccome quello poetico, si ge nugia, o di filo; se nelle voci, o ne' versi, o
nera anch'egli dalla quantità delle sillabe, dal nelle prose, o ne' versi e nelle prose parimen
novero, dalla varietà, ovvero qualità e dall'or te; se ne versi, o ne ritmici, o ne'metrici, o
dine de' piedi, e nondimeno non è nessuno dei ne'versificatori, o ne poeti; se nelle prose, in
quattro sopraddetti, anzi tanto diverso, che il tutti gli altri scrittori, fuori solamente questi
tramettere numeri poetici, cioè (1) versi, nei quattro; se ne versi, e nelle prose parimente,
numeri oratori, cioè nelle prose, è riputato vi ne' musici, ovvero cantori.
zioso e biasimevole molto, le quali voci deono
bene essere numerose, ma non già numeri, per Ritmo, ovvero Numero,
–º
chè dove il verso, chiamato da nostri poeti l - l

latinamente carme dal cantare, ha tanti piedi Senza armonia, Con armonia,
l A

e tali terminatamente, e con tale ordine posti, ! . r- I .


la prosa, come più libera, e meno legata, onde Ne' polsi, ne” suoni, nelle voci,
si chiama orazione sciolta, non è soggetta di Ne' gesti, I º–
terminatamente nè alla quantità, nè alla qua Ne balli, di fiato, di corde,
lità, nè all'ordine de' piedi, più che si paja al - º
Nelle more- - -

componitore d'essa, mediante il giudizio del sche, naturale,artifizioso,diminugia,difilo


l'orecchio e le regole dell'arte, perchè di Nella rappresen
verse materie e diverse maniere di scrivere
tazione delle flautiec.organiec.liuti, monocordi
ricercano diversi numeri, verbigrazia non pure forze d'Er a

le orazioni hanno diversi numeri dalla storia, cole ec. ne'versi, nelle prose; ne'versi e nelle
ma nelle orazioni medesime, se sono in genere l A prose parimente
giudiziale, debbono avere maggiori numeri che
se fossero nel dimostrativo, o nel deliberati Ritmici,metrici,versificatori poeti. l
vo; e le giudiziali medesime in diverse lor - Ne'musici,ov.
parti debbono avere diversi numeri; nè si truova In tutti gli scrittori di prosa vero cantori.
alcun numero così bello e leggiadro, che usato V. Galantemente e bene; ma udite il re
frequentemente non infastidisca e generi sa stante.
zietà.
Il numero che si ritrova ne' versi e nelle
C. Dite pure.
V. Come il numero poetico e oratorio na
prose parimente, è quello de musici, ovvero sce dal temperamento del veloce e del tardo,
cantori, i quali non tengono conto nè di quan mediante la brevità e lunghezza delle sillabe,
tità di sillabe, nè di novero o qualità, o or. così l'armonia nasce dal temperamento del
dine di piedi, e meno di cesure; ma ora ab l'acuto e del grave, mediante l'alzamento e
breviando le sillabe lunghe (2), e ora allun l'abbassamento degli aecenti, perchè l'acuto
gando le brevi, secondo le leggi e l'artifizio corrisponde al veloce, il qual veloce nelle sil
della scienza loro, compongono e cantano con labe si chiama breve, e il grave eorrisponde
incredibile diletto di sè stessi e degli ascoltanti al tardo, che nelle sillabe si chiama lungo,
che non abbiano gli orecchi a rimpedulare, le come s'è detto, onde chinnque pronunzia o
messe, i mottetti, le canzoni, i madriali e l'al versi, o prosa, genera necessariamente amen
tre composizioni loro. E questo è quanto mi due queste cose, numero e armonia; numero
soccorre dirvi del numero così in genere, come mediante la brevità e lunghezza delle sillabe;
in ispezie; il perchè passerò all'armonia, della armonia mediante l'alzamento e abbassamento
(1) “ Lo Speroni cadde frequentemente in ciò v. (Nota degli accenti. Non vi curate, ne vi paja sover
del Seghezzi.) chio che io replichi più volte le medesime cose,
(2) Questo modo di comporre in musica è reputato erro perchè qui sta il punto, qui giace nocco, qui
neº di giudiziosi ed eccellenti compositori. consiste tutta la diſlicultà.
DIALOGO 4 15
C. Anzi non potete farmi cosa più grata, che mai che non voglia che gli sia dato il tema
replicare: e se io ho bene le parole vostre da altri, e io glieli diedi due volte; e amen
inteso, egli è necessità che dovunque è armo due, una in terza rima e l'altra in ottava,
mia, sia ancora numero, perchè l'armonia non disse tutto quello che in sulla materia postagli
l

può essere senza movimento, nè il movimento parve a me che dire non solo si dovesse, ma
senza numero, ma non già all'opposto, perchè, i si potesse con graziosissima maniera e mode
come dicevate pure ora, molti numeri si tro stissima grazia.
vano senza armonia, C. Dio gli conceda lunga e felicissima vita;
V. Voi dite bene, perchè uno che balla ma ditemi quello che volle significare Virgi
senza altro produce solamente numero senza lio, quando disse nella Bucolica:
armonia, e uno che balla e suona in un me
. . . numeros memini si verba tenerem (1).
desimo tempo, produce numero e armonia in
sleille.
V. Che non si ricordava delle proprie pa
C. E uno che ballasse, sonasse e cantasse role di quei versi, ma avea nel capo il suono
a un tratto? -

i di essi, cioè l'aria e quello che noi diciamo


V. Producerebbe numero, armonia, e dizio l'andare (2).
ne, ovvero sermone insiememente, nelle quali C. Voi non avete fatto menzione fra tanti
tre cose consiste tutta l'imitazione, si può dire, stormenti che avete raccontato, delle fistule,
e per conseguenza la poesia; perchè potemo e pure intendo che voi dichiaraste già in Pa
imitare e contraffare i costumi, gli affetti, ov i dova la Siringa di Teocrito.
vero passioni, e l'azioni degli uomini, o col V. Io la dichiarai in quanto alle parole; ma
numero solo, come ballando; o col numero
quanto alla vera e propria natura d'essa, io
e coll'armonia, come ballando e sonando ; o non ho mai inteso bene, ne intendo ancora
col numero e coll'armonia e col sermone, cioè qual fosse, nè come si stesse: so bene che
colle parole, come ballando, sonando e can ella era a guisa d'uno organetto, avendo detto
tando.
Virgilio:
C. Non si può egli imitare col sermone solo?
V. Più e meglio che con tutte l' altre cose Est mihi disparibus septem compacta cicutis
insieme: anzi questo è il vero, e il proprio Fistula, Damoetas dono mihi quam dedit olim (3).
imitare de' poeti; e coloro che imitando col e quell'altro:
numero solo, o col numero e coll'armonia pa
rimente non hanno altro intento, nè altro cer Fistula, cui semper decrescitarundinis, ordo (4):
cano che imitare il sermone, perchè il ser e che si sonava fregandosi alle labbra, onde
mone solo è articolato, cioè può sprimere e Virgilio:
significare, anzi sprime e significa i concetti
umani; ma, come avete veduto di sopra, nel Nec te poeniteat calamo trivisse labellum (5).
sermone sono sempre di necessità così il nu Ma, per non andare tanto lontano dalla strada
nero, come l'armonia; onde non si può nè
immaginare ancora cosa alcuna da intelletto maestra, e venire qualche volta al punto per
cui tutte queste cose dichiarate si sono, vi ri
nessuno nè più bella, nè più gioconda, nè più
utile che il favellare umano, e massimamente metto a quelle che ne disse dottissimamente
nella rappresentazione d'alcuno perfetto poema l' eccellentissimo messer Vincenzio Maggio da
convenevolmente da persone pratiche e in Brescia, mio onoratissimo precettore, sopra la
quarta particella della Poetica d'Aristotile in
tendenti recitato; e io per me non udii mai
cosa, il quale son pur vecchio e n'ho udito terpetrata (6) da lui e da messer Bartolom
meo Lombardo Veronese, uomo di buona dot
qualcuna, il quale più mi si facesse sentire
addentro, e più mi paresse maravigliosa che trina e giudizio, con bellissimo ordine e faci
lità. E dico che la bellezza della lingua così
il cantare in sulla lira all'improvviso di mes greca, come latina, consiste primieramente nel
ser Silvio Antoniano, quando venne a Firenze
coll' illustrissimo ed eccellentissimo Principe numero e secondariamente nell'armonia; per
di Ferrara Don Alfonso da Este, genero del chè tanto i Latini, quanto i Greci nel comporre
nostro Duca, dal quale fu non solo benigna i loro versi, e le loro prose avevano risguardo
mente conosciuto, ma larghissimamente ricono primieramente alla brevità e alla lunghezza
sciuto.
(1) Virgilio Eglog. IX.
C. Io n'ho sentito dire di grandissime cose. (2) Il Castelvetro a cart. 95 della Correzione ec. vuole
V. Credetele; che quello in quella età si che per Numeros s'intenda la qualità del verso, se esametro
giovanissima è un mostro e un miracolo di o faleucio, ec. Ma contra il Castelvetro sembra che sia Quin
natura, e si par bene ch'e' sia stato allievo tiliano lib. IX, cap. IV, dove spiega questo medesimo verso
di messer Annibale Caro e sotto la sua disci di Virgilio.
plina creato; ed io per me, se udito non l'a- (3) Virgilio, Eglog. II.
vessi, mai non arei creduto che si fossono im (4) Tibull. lib. II, eleg. V.
(5) Virgilio, Eglog. I 1.
provvisamente potuti fare così leggiadri e così (6) Il Commento del Maggio è stampato con questo li
sentenziosi versi.
tolo: Vincentii Madii Bririani, et Bartholomaei Lombardi
C. Il tutto sta, se sono pensati innanzi, co Veronensis in Aristot. librum de Poetica communes Expla
me molti dicono. nationes, Madi vero in eunden librum propria Annotatio

V. Lasciategli pure dire; che egli non canta nes, etc. Venetiis, 155o.
416 L' ERCOI,ANO
delle sillabe, onde nasce il numero; e poi se. dividergli e quasi spezzare le parole in pro
condariamente e quasi per accidente, all'acu nunziando per rispondere cogli accenti alle
tezza e gravezza degli accenti, onde nasce l'ar cesure de Latini, e fare che dove non paio
monia, perciocchè pure che il verso avesse i no, sieno versi misurati, quale tra gli altri e
debiti piedi, e i piedi le debite sillabe, e le quello del Petrarca Fiorentino:
sillabe la debita misura, non badavano agli Come chi smisuratamente vuole (1).
accenti, se non se in conseguenza; dove la
bellezza della lingua volgare consiste prinie E in quello del Petrarca Viniziano:
ramente nell'armonia e secondariamente nel
E grido, o disavventuroso amante.
numero, perchè i volgari nel comporre i loro
versi, e le lor prose hanno risguardo primie E chi non vede che questa parola sola mise
ramente all'acutezza e alla gravezza degli ac ricordiosissimamente, è bene undici sillabe, ma
centi, onde nasce l'armonia, e poi seconda non già verso buono e misurato, solo per ca
riamente, e quasi per accidente, alla brevità e gione degli accenti ? Ma ora non è tempo di
lunghezza delle sillabe, onde nasce il nume insegnare le leggi nè del numero poetico, del
ro; perciocchè, pure che il verso abbia le do quale, oltra il Bembo nelle prose (2), tratta
ancora l' eccellente filosofo messer Bernardino
vute sillabe e gli accenti sieno posti ne' luo
ghi loro, non badano nè alla brevità, nè alla Tomitano ne' suoi ragionamenti della lingua
lunghezza delle sillabe, se non se in conse toscana, nè meno dell'oratorio, del quale ha
guenza ; onde come inutandosi nel greco e nel composto latinamente cinque libri messere Jo
latino i piedi si mutano e guastano ancora i vita Rapicio da Brescia con dottrina ed elo
versi, e cosi dico delle prose, eziandio che gli quenza singolare. E però, venendo finalmente
accenti fussono quei medesimi, così mutandosi al principale intendimento, dico che se l'ar
nel volgare gli accenti, si mutano, e guastano monia è, come io non credo che alcuno possa
ancora i versi, nonostante che le sillabe siano negare che ella sia, più bella cosa e più pia
quelle medesime; come chi per atto d' esem cevole e più grata agli orecchi che il nume
pio pronunziasse questo verso : ro, la lingua volgare, la quale si serve princi
palmente in tutti i componimenti suoi dell'ar
Guastan del mondo la più bella parte monia, è più bella che la greca, e che la la
cosi: tina non sono, le quali si servono principal
Guastan la più bella parte del mondo. mente del numero. E, perchè meglio intendiate,
voi sapete che in un flauto sono de buchi che
E di qui nasce che sebbene tutti i nostri prin sono più larghi, e di quelli che sono più stret
cipali e maggiori versi deono aver undici sil ti; medesimamente di quelli che sono più vi
labe, eccettuato quelli i quali avendo l'accento cini e di quelli che sono più lontani alla bocca
acuto in sulla decima, n” hanno solamente dic d'esso ſlauto. Quei buchi che sono o più stret
ci, e quelli i quali essendo sdruccioli n'hanno ti, o più vicini alla bocca, mandano fuora il
dodici, non però ogni verso che ha undici sil suono più veloce e conseguentemente più acu
labe, è necessariamente buono e misurato, per to. Quelli che sono o più larghi o più lontani
chè chi pronunziasse quel verso: dalla bocca, mandano fuora il suono più tar
Ch'a bei principi volentier contrasta, do e conseguentemente più grave; e da que
Ch'a'bei principi volontier contrasta (1), sto acuto, e da questo grave mescolati debi
tamente insieme nasce l'armonia. Ma perchè
l'arebbe guasto coll'avergli mutato solamente dove è armonia, quivi è ancora di neccssità
nno accento: e quinci nasce ancora che si ri numero, il numero nasce dal tenere quei bu
trovano alcuni versi i quali, se si pronunzias chi turati colle dita o più breve, o più lungo
sero come giaceno, non sarebbono versi, per spazio, alzandole per isturargli, e abbassandole
ciocche hanno bisogno d'essere aiutati colla per turargli, come, e quando richieggono le
pronunzia, cioè esser profferiti coll'acento acuto leggi e gli ammaestramenti della musica dei
in quei luoghi dove fa mestiero che egli sia, sonatori. Similmente nel sonare il liuto la ma
ancorachè ordinariamente non vi fosse, come no sinistra, che si adopera in sul manico, in
è questo verso di Dante: toccando i tasti cagiona il numero, e la de
Che la mia Commedia cantar non cura (2). stra, che s'adopera intorno alla rosa, in toc
cando le corde, cagiona l'armonia. Considerate
E quest'altro; ora voi, quale vi pare che sia più degna, e
Flegias, Flegias tu gridi a voto (3). più bella cosa o il numero, il quale e prin
E quello del Reverendissimo Bembo: cipalmete de' Greci e de'Latini, o l'armonia,
le quale è principalmente devolgari. E credo,
O Ercole, che travagliando vai se vorrete ben considerare, e senza passione,
Per lo nostro riposo, ec. che quella opinione la quale vi pareva dianzi
tanto non solamente nuova, ma strana e stra
E per la medesima cagione bisogna alcuna volta
vagante, vi parrà ora d'un'altra fatta e di
diversa maniera.
(1) Petrarca, Son. CXXXIX.
Ch'a bei principi eolentier contrasti.
(2) Dante, infer. XXi. (1) Petrarca, Trionf. della Castità.
(3) Dante luſer. VIII. (2) Bembo, Pios. lib. l 1.
DIALOGO 417
C. Io non mi curerò che voi mi tenghiate nondimeno non sia cagionato in lei dalla qua
il signor Licenziato, perchè chi niega la spe tità delle sillabe, ma da una o più di quelle
rienza, niega il senso, e chi niega il senso nelle quattro figure, ovvero esornazioni e colori
cose particolari, ha bisogno del medico. A me rettorici, che i Latini imitando i Greci chiama
pare che sebbene ne suoni, e nelle voci non vano così: Similmente cadenti: similmente finien
si può trovare nè l'armonia senza il numero, ti: corrispondenza di membri pari: e corrispon
nè il numero senza l'armonia, che l'armonia denza di contrari, i quali contrari sono di
sia la principale, e la maggior cagione del quattro ragioni; ma queste cose non si deb
concento, e per conseguenza della dilettazio bono dichiarare ora; però vi rimetto al libro
ne, e così della bellezza, della quale si ragiona che scrisse latinamente della scelta delle pa
al presente. role messere Jacopo Strebeo con somma dot
V. Tanto pare anco a me; pure, perchè io trina e diligenza; e vi dico solo che questo
non m'intendo nè del cantare, nè del sonare, numero della concinnità è diverso, anzi altro
come, e quanto bisognarebbe, me ne rimetterei da tutti gli altri; e sebbene par naturale nelle
volentieri o a messer Francesco Corteccia, o scritture, si fa nondimeno le più volte dal
a messer Piero suo nipote, musici esercitatis l' arte.
simi, o a messer Bartolomeo Trombone e a C. Quando, dove, da chi, e perchè furono
messer Lorenzo da Lucca sonatori eccellen trovati i numeri ?
tissimi. V. I numeri semplicemente furono trovati
C. Io intendo che coll' illustrissimo signor ab initio, et ante saecula dalla natura stessa, e
Paolo Giordano Orsini, genero del Duca vostro, si ritrovano in tutti i parlari di tutte le lin
è uno che non solamente suona e canta divi gue; perchè il parlare cade sotto il predica
namente, ma intende ancora, e compone, il mento della quantità, e la quantità è di due
quale si chiama messere Scipione della Palla. ragioni, discreta, la quale si chiama moltitu
V. Voi dite il vero; e perche egli m' ha dine, o volete novero, e sotto questa si ripone
detto che vuole venire quassù a starsi un giorno il parlare; e continova, la quale si chiama
comesso meco, io vi prometto che gliene par magnitudine ovvero grandezza, e sotto questa
lerò, e vi saperò poi ragguagliare. si ripone il numero; onde in ciascuno parlare
C. Voi mi farete cosa gratissima; e tanto si ritrova necessariamente, quando si profferi
più, che il Maggio pare che dica che nel verso sce così la quantità discreta, come la contino
le prime parti siano del numero. va, e per conseguente i numeri; ma i numeri
V. Egli non ha dubbio che il numero è pri buoni e misurati nascono dall'arte, della quale
ma nel verso, che l'armonia; ma egli è pri i primi inventori, secondochè afferma Cicero
ma di tempo, onde non segue che egli sia prima ne (1) furono Trasimaco Calcidonio e Gorgia
di degnità, e più nobile di lei. Leontino, che vengono ad essere circa due mila
C. Perchè io ho gran voglia di possedere anni; ma perchè costoro erano troppo affettati
questa maniera del numero, non v' incresca dintorno al numero, e troppo scriveano poeti
che io vi dimandi d'alcuni dubbi. Voi diceste camente, Isocrate che fu nell'Asia discepolo
di sopra che il numero oratorio nasceva an di Gorgia già vecchio, andò allargando quella
cora da altre cose che dalla brevità e lunghezza strettezza; e sbrigandosi da quella troppa ser
delle sillabe : quali sono queste cose? vitù e osservanza, scrisse in guisa che le sue
V. Cicerone le chiama concinnità (i), la prose benchè sieno lontane dal verso, o dalla
quale non è altro che un componimento, e piacevolezza che del numero del verso si trae,
quasi intrecciamento di parole, e in somma non sen'allontanò molto; dimanierache come
una orazione la quale fornisca atta (2), e so non si sciolse in tutto dalle leggi de numeri,
noramente, e per conseguenza abbia numero ; così non rimase legato affatto. Il fine fu per
dilettare gli ascoltatori, e tor via colla varietà
(1) Cic. nell'Oratore: Sed finiuntur (verba) aut compo e soavità de numeri il tedio e il fastidio della
sitione ipsa, et quasi sua sponte, aut quodam genere verborum sazievolezza; non essendo più schifa cosa, nè
in quibus ipsis concinnitas inest, qua sice casus habent in
e ritu similes, sice paribus paria redduntur, sive opportuntur più superba che il giudizio dell'orecchie. Il
contraria, suapte natura numerosa sunt. E appresso: Hoc ge
primo de' Latini che scrisse numerosamente fu
nere antiqui jam ante Isocratem dele, tabantur, et maxime Cornelio Celso, al quale di tempo in tempo
Gorgias, cujus in oratione plerumque efficit numerum ipsa succedettero alcuni altri, infinochè Cicerone
concinnitas. condusse tutti i numeri oratori a tutta quella
(2) Non vogliono a niun patto i grammatici che quando si perfezione della quale era capevole la lingua
trovano insieme due avverbi che terminano in mente, il primo latina.
si possa troncare, come qui ha fatto il Varchi. Pure ve ne C. E de' Toscani chi fu il primo che scri
sono esempi e antichi e moderni. Guitt. lett. XIV. Non ve
derete antica e nuovamente esser addivenuto. Francesco Sacc. vesse con numero?
op. div. 1o6. S. Giovanni non peccò mai ne mortale nè V. Il Boccaccio, degli antichi.
venialmente. Lasc. Gelos. I, 11. Morendo egli per sorte, coi C. Dante e 'l Petrarca ?
suoi denari alta e riccamente rimaritarla potrebbe. E il Var V. Del Petrarca non si trova cosa dalla quale
chi stesso in questo medesimo Dialogo: Quanto prudente e ciò conoscere si possa; onde si può ben pen
giudiziosamente n'amnaestrò Aristotile. Casa, Tratt. Ufic. 9o,
Col quale possa ciascuno, ec. tranquilla e pacificamente godere.
( , il qual autore nelle Lettere usa frequentemente un tal (1) Cic. nell' Orat. Nam cum concisus ei Thrasymachus
modo di favellare » ). Pure comunemente non si segue que minuti, numeris videretur, et Gorgias, qui tamen primi tra
st'uso, las iandolo agli Spagnuoli. duntur arte quadam verba junzisse etc.
VARCHI V, 1. - 53
418 L' ERCOLANO

sare che per l'ingegno, e giudizio suo scrivesse in certe minuzie e sottigliezze le quali non
ancora in prosa volgare numerosamente, ma montano una frulla; e mi par quasi che in
non già affermare. Dante si servì piuttosto nel tervenga a lui nello scrivere come avvenne a
sue Convito, e nella Vita Nuova dell'orecchio, Teofrasto nel favellare ; senza che voi dovete
che dell'arte. sapere che come anticamente la latinità, così
C. E de' moderni ? oggi la toscanità schifa anzi biasimo, che con
V. I primi e principali furono il Bembo in segua loda, come testimonia Cicerone (1) medesi
tutte le sue opere, e il Sanazzaro nell'Arcadia. mo, cioè che ahi scrive correttamente, in qualun
C. L'Orazione di monsignor Claudio Tolo que lingua egli scriva, merita piuttosto di non
mei della Pace? dovere esser biasimato, che di dovere essere
V. Fu molto bella e numerosissima; così lodato.

fosse stata quella che egli fece al Re Cristia C. Di messer Giulio Cammillo ?
nissimo, V. Me ne rimetto a quello che scrive, e te
C. E quella di monsignor messer Giovanni stimonia di lui il suo amicissimo messere Je
della Casa all'Imperadore? ronimo Muzio in una lettera al marchese del
V. Bellissima e numerosa molto. Guasto.

C. Questo numero artifiziale ricercasi egli C. E messere Alessandro Piccolomini?


in tutte le scritture ? V. Ha dato maggiore opera alle scienze che
V. Non v'ho io detto di sì ? ma in qual all'eloquenza; ma io non sono atto, nè vo
più e in qual meno, secondo le materie e le glio, come se fossi Aristarco o Quintiliano, a
maniere de' componimenti. cui si conveniva giudicare, quanto a me dis
C. Quale è la più bassa maniera di scrive dice censurare, gli stili di coloro che hanno
re? credete voi che sia le lettere ? scritto, quali sono tanti e tanto diversi, e al
V. No, ma i dialogi; perchè lo scrivere non cuni che sono nella dottrina, e nell'eloquen
è parlare semplicemente, ma un parlare pen za e nel giudizio, come Michelagnolo nella
sato, dove i dialogi hanno a essere propria pittura, nella scultura, e nell' architettura,
mente come si favella, e sprimere i costumi cioè fuora d'ogni rischio, e pericolo, avendo
di coloro che in essi a favellare s'introducono: vinto l'invidia; oltrachè da un pezzo in qua
e nondimeno quelli di Platone sono altissimi, io non ho molto letto, non che considerato,
forse rispetto all'altezza delle materie; e non altri autori che storici, per soddisfare almeno
intendete, come si favella dal volgo, ma dagli colla diligenza all'onoratissimo carico postomi
uomini intendenti ed eloquenti, benchè alcune sopra le spalle già sono tanti anni dal mio
cose si possono, anzi si deono cavare ancora signore e padrone; perciò arei caro che voi
dal volgo. Cicerone fu divino ne' suoi dialogi, mutaste proposito.
come nell'altre cose. Ma se i Dialogi di Lione C. Io era appunto nella mia beva, e voi vo
Ebreo, dove si ragiona d'Amore, fossero ve lete cavarmene; ditemi almeno, se vi pare che
stiti come meriterebbero, noi non aremmo da messer Trifone Gabriele meriti tante lode,
invidiare nè i Latini, nè i Greci. quante gli sono date in tante cose, e da tanti.
C. Il Tomitano quanto a numeri? V. Tutte tutte, e qualcuna più; e si può
V. Si può lodare. veramente dire che all' età , e lingua nostra
C. E messer Sperone ? non sia mancato Socrate; ma io vi ripriego
V. Si dee celebrare ; e il medesimo intendo di nuovo che voi mutiate ragionamento.
del Cintio e del Pigna. C. Quale stimate voi più malagevole, cioè
C. Messer Lodovico Castelvetro? più difficile a farsi, il numero poetico, o l'o-
V. Io non so che egli abbia fatto dialogi, ratorio ?
de quali ora si favella, ma il suo stile è piut V. Ambodue sono difficilissimi, e vogliono
tosto puro, e servante la toscanità, cioè le re di molto tempo e fatica; ma Quintiliano (2)
gole della lingua, che numeroso e piacevole; coll'autorità di Marco Tullio (3) dice l' ora
anzi mi pare per lo più tanto stretto, scuro e torio; ma io per me credo che egli intendesse
fisicoso, quanto quello di messer Annibale lar piuttosto del numero de'versificatori, che dei
go, chiaro, fiorito e liberale. poeti, cioè che considerasse il numero solo,
C. Io ho pure inteso che messer Giovam e non l' altre parti che nel verso si ricercano
batista Busini, il quale voi m'avete dipinto de' poeti perfetti, come era egli perfetto ora
più volte per uomo non solo di lettere, e di tore?
giudizio, ma che dica quello che egli intende C. Che vi muove a credere così ? forse al
liberamente, senza rispetto veruno, loda e am tramente gli oratori sarebbono da più , o da
mira lo stile del Castelvetro, quanto i poeti ?
V. Non equidem invideo, miror magis (1); V. E' non seguita che alcuna cosa quanto
se già non lo facesse, perchè pochi scrivono è più malagevole e faticosa, tanto sia ancora
oggi i quali osservino le regole come egli fa ,
e in questo, se non lo ammirassi, il loderci (1) Cic. de Oral Nemo enim unquam est oratorem, quod
anch'io, anzi il lodo, ma vieppiù il loderei, Latine logueretur, admiratus. E nel Bruto: Non enim tam
se non fosse, come dice messere Annibale, tanto praeclarum est scire Latine, quam turpe nescire.
(2) Quintil. Instit. Orat. lib. 1X, cap. I V. Ratio eero
sofistico e superstizioso, e la guardasse troppo pedun in oratione est multo, quam in rersu, difficilio -
(3) Cic. dell'Oratore: Quo est ad inveniendum difficilior
(1) Virgilio, Eglog. I. in omatione numerus, quam in versibus.
DIALOGO 419
o più bella, o più degna. Poi il verso non è V. I Latini avevano meno comodità e mi
quello che faccia principalmente il poeta, e il nori licenze che i Greci, onde Marziale disse:
Boccaccio è talvolta più poeta in una delle sue Nobis non licet esse tam disertis,
Novelle, che in tutta la Teseide. Io per me porto Qui Musas colimus severiores (1).
opinione che lo scrivere in versi sia il più
bello, e il più artifizioso, e il più dilettevole e per conseguente duravano maggior fatica. I
che possa trovarsi. Toscani, se voi intendete de' versi sciolti, han
C. Se il ritmo, ovvero numero, ha bisogno no quasi le medesime diffianltà che i Latini,
almeno di due piedi, perchè chiamano alcuni, ma se intendete, come penso, de'rimati, io
e tra questi Aristotile (1), e Dionisio Alicar non fo punto di dubbio che i Toscani ricer
naseo, i ritmi piedi? chino più maggior tempo, e più maggior mae
V. Forse perchè il numero si compone, e stria.
C. Che differenza fate voi da verso a metro?
nasce da piedi; e forse perchè ciascuno piè
ha necessariamente quelle due cose che i Greci V. Io la vi dissi di sopra: il metro non con
chiamano arsi, e tesi, cioè elevazione, la quale sidera le cesure; e il verso le considera: una
è quando s'alza colla voce la sillaba, e posi perchè intendiate meglio, il ritmo, quando na
zione, la quale è quando la sillaba s'abbassa; sce dalle voci articolate, non è altro che un
onde in un piè si trova ancora in un certo legittimo intrecciamento di piedi, il quale non
ha fine alcuno determinato. Il metro è un rit
modo, se non propriamente, almeno impro
priamente, e certo in potenza, il numero, co mo il quale ha il numero de' suoi piedi de
me chi dicesse latinamente fecit , o di rimus. terminato. Il verso è un metro, il quale ha le
E se queste ragioni non vi soddisfanno, leggete cesure. Quinci apparisce che ogni metro è rit
quello che ne dice il Maggio nel luogo poco mo, ma non all'opposto, e ogni verso è me
fa allegato da noi. tro e ritmo, ma non già per lo contrario;
C. Il ritmo greco e latino è egli quel me. onde il metro agguagliato al ritmo è spezie,
desimo che la rima volgare, come pare che ma agguagliato al verso è genere. Il metro
credano molti ?. non ricerca cesure, il verso non dee stare senza
esse. Il metro e il verso hanno ad avere il
V. No, che creda io; e se pure i nomi sono
i medesimi, le nature, cioè le significazioni, novero de'lor piedi determinato. Il ritmo non
sono diverse; anzi la rima non è della so è sottoposto a questa legge, perchè può avere
stanza del verso, cioè non fa il verso , ma fa quanti piedi piace al componitore; e perciò
disse Aristotile nella Poetica che i metri era
il verso rimato solamente, cioè aggiugne al
verso la rima, la quale è quella figura e or no padri del ritmo; il qual ritmo è, come s'è
namento clie i Greci chiamano con una pa veduto, nel predicamento della quantità, dove
rola sola, ma composta, Omlotelefio (2), la il metro è piuttosto, e così l'armonia, della
quale traducendo i Latini con due la nomi qualità; onde i Greci e i Latini considerano
nano, come dissi di sopra, similmente finienti. ne' loro componimenti principalmente la quan
E ben vero che nella rima si può considerare tità, e i Toscani la qualità.
ancora il numero e l'armonia, perchè essendo C. Se il traporre i versi interi nelle prose
voce, non può essere, quando si profferisce, è cosa molto laidissima (2), come testimonia
nè scnza l'uno, nè senza l'altra; ma delle
rime ci sarebbe che dire assai; e io vedrò di (1) Marz. lib. IX epigr. XII.
ritrovare un trattatello che io ne feci già a pe (2) Qui il Varchi vuol dire che si debbono sfuggire i
tizione del mio carissimo e virtuosissimo amico versi da quelli che compongono in prosa, quando vengono
messer Batista Alamanni, oggi vescovo di Ma cosi spiccati che l'orecchio gli riconosce per versi a un tratto,
e senza farvi riflessione. Ma del rimanente è impossibile a
cone, e si lo vi darò. Per ora non voglio dirvi schifargli dentro al periodo, e non vi è prosa che non si possa,
altro, se non che la dolcezza che porge la ri tagliandola in qualche forma, ridurre in versi. Perciò è stata
ma agli orecchi ben purgati, è tale, che i una pedanteria da grammaticuzzo quella di colui che in un
versi sciolti allato a rimati, sebben sono, non edizione del Boccaccio ha tratti fuori i versi che per entro
paiono versi; e se i Greci e i Latini l' abor le sue Novelle gli son venuti fatti inavvertentemente, de'quali
1ivano ne' versi loro, era per quella medesima anche molti più se ne potevano trar fuori; e fra gli altri al
ragione che noi aborriamo i piedi ne' versi cuni dei qui notati dal Varchi, che questo Critico non ha ve
duti. Ma il bello è che costui, che è tanto ardito, e rigoroso
nostri, nonostanchè messer Claudio Tolomei
sopra un' opera così grossa e così celebre, comincia una sua
tanto gli lodasse, cioè perchè noi seguitiamo brevissima dedicatoria di questa edizione con una filza di
non i piedi che fanno il numero, ma gli ac versi, il che è assai peggio, dicendo:
centi, che fanno l'armonia, e il fare i versi Il sommo pregio dell'uom meritevole
alla latina nella lingua volgare, di chiunque Non resta mai nell'angusto confine
fosse trovato, è come voler fare che i piedi Di sua dimora, ma perennemente
suonino, e le mani ballino, come mostrammo Ovunque è cognizione di virtù
Vera, si spande; quindi l'Eccellenza
lungamente nelle Lezioni poetiche. Vostra sdegnar non deve che io da lunge, ec.
C. Qual credete voi che sia più laboriosa, I quali versi sono anche più spiccati dal resto del discorso,
e più maestrevole opera, il far versi greci, o che non sono quelli che egli nota nel Boccaccio, dei quali al
latini o toscani? cuni sono composti del fine d'un periodo, e del principio d'un
altro. In ciò gli è seguito per l'appunto quello che avvenne a
(1) Arist. nel lib. Il I, della Rettorica. Girolamo Peripatetico, di cui Cicerone nell'Oratore dice
(2) Quintil. Instit. Orat. lib. 1X, cap. Il I. cosi: Elegit as multi, Isocrats litri, triginla fortasse verº
4oo L' ERCOLANO
Quintiliano (1), perchè l'usò il Boccaccio cosi della quale mi pare di potermi spedire e mi
spesso ? spedirò brevissimamente dicendo, che quanto
Era già l'Oriente tutto bianco (2), la lingua greca era più dolce della latina,
tanto la volgare è più dolce della greca. Che
comincia il principio della quinta giornata; e la greca fosse più dolce della latina, non si
altrove:
tenzona; e Quintiliano nel decimo libro n'as
Lasciato stare il dir de paternostri (3). segna le ragioni, affermando, ciò procedere
da tre cose, dalle lettere, dagli accenti e
e altrove:
dalla copia delle parole, onde conchiude così:
Ma non potendo trarne altra risposta (4). Quare qui a Latinis erigit illam gratiam ser.
monis Attici, detmihi in loquendo eamdem jo
e altrove:
cunditatem, et parem copiam (1). Che la volgare
Quasi di sè per maraviglia uscito (5). sia più dolce che la greca, la quale era dol
e altrove: -
cissima, si pruova così : La dolcezza della quale
si ragiona, nasce primieramente dalle lettere,
Se tu ardentemente ami Sofronia (6). le lettere vocali sono assai più dolci delle con
sonanti, le parole toscane forniscono tutte, ec
E in altri luoghi non pochi. cetto per, in, del, e alcune altre pochissime
V. Forse perchè i nostri endecasillabi so monosillabe, in alcuna delle lettere vocali,
no somiglianti a jambi latini, e ci vengono dunque la lingua volgare e più dolce della
detti, come loro, che noi non ce ne accor greca, la quale ha infinite parole che finiscono
giamo; e anco per avventura nella lingua to in consonanti; onde Quintiliano (2) volendo
scana non si disconvengono, quanto nella la
tina ; onde il Boccaccio medesimo ne pose
provare, la lingua greca soprastare alla latina
di dolcezza disse, trall'altre ragioni: nessuna
alcuna volta due l'uno dietro l'altro, come parola greca fornisce nella lettera m, la quale
quando disse: pare che mugli, e delle latine molte.
La donna udendo questo di colui, C. Avvertite che tante vocali, e quella dol
Cui ella più che altra cosa amava (7). cezza che da lor nasce, non generino, come
E chi sottilmente ricercasse, troverebbe per
voi dicevate dianzi de numeri, ancorache bel
lissimi, fastidio.
avventura nelle prose nostre quello che nelle V. Avvertite ancora voi che i volgari quan
greche avveniva e nelle latine, cioè che niuna
parte in esse si troverrebbe, la quale ad una do vogliono, o mette lor conto, possono infi
qualche sorte e maniera di versi accomodare nite volte levare le vocali delle fini delle pa.
role, e farle terminare in consonanti; onde si
non si potesse. Ma tempo è di passare omai torrà via il fastidio, del quale dubitate; per
alla terza ed ultima cosa, cioè alla dolcezza, chè ne nomi in luogo d'onore, d'amore, diſº
Hieronymus, Peripateticus in primis nobilis, plerosque senarios, vore, d'umore, ec. diranno amor, onor, farº,
sed etiam anapasticos; quo quid potest esse turpius º etsi in umor, ec. E nei verbi in vece d'amare, vedere,
eligendo fecit malitiose; prima enim 9 llaba demta er primo leggere e udire, diranno amar, veder, leggº
verbo sententiae, postremum ad verbum prima un rursum srlia udir, ec. e così in infinite altre voci.
ban adiunait insequentis. Ita factus est anapaesticus is qui C. Ma quanto agli accenti ?
Aristophaneus nominatur; quod ne accidat, observari nec po V. Io v'ho già mostrato, quanto in questº
test, nec necesse est. Sed tamen hic corrector in co ipso loro
quo reprehendit, ut a me animadversum est studiosius inquirente
parte noi andiamo loro innanzi.
in eum, emittit imprudens ipse senarium. Si sarebbe costui C. Avete voi parola alcuna che fornisca cºl
astenuto dal darci questa seccaggine, se avesse considerato, o l'accento acuto altro che questo avverbio slº
se avesse mai veduto questo luogo di Cicerone, per altro molto gnuolo altresì ?
facile a sapersi, e quello ancora di Quintiliano, lnstit. Orat. V. Altresì è provenzale, non ispagnuolo, º
lib. 1X, cap. IV. Et metrici quidem pedes adeo reperiuntur gli antichi nostri scrivevano altresie e non al
in oratione, utin ea frequenter non sentientibus nobis omnium tresì, come quie, costie, tuc e non qui, cost,
generum excidant versus. E in confermazione di quanto ho tu, non altramente che cantoe, e non cºlº
detto soggiugne: E contra uhil est prosa scriptum quod non
redigi possit in quardam versiculorum genera. Sed in adeo no
udie, o udio, e non udì; ameroe, faroe, e º
lestos incidimus grammatices, etc. Sono adunque da schifare amerò, farò; e così di tutti gli altri futuri dº
quei versi che rimangono belli, e spiccati in mezzo della prosa l'indicativo, ovvero dimostrativo della Prº
maniera de verbi. Similmente fue, e de, l
come quello di Cicerone nella Catilinaria: 2

Senatus hoc intelligit, consul videt; quali usò ancora il Petrarca, non fu, e di.
o quello che è sul principio del Timeo di Platone, e degli C. A questo modo voi non avete parola
Annali di Cornelio Tacito, le quali opere non istà bene che nessuna che fornisca coll'accento acuto, se º
comincino con un verso esametro, perchè dà troppo negli per levamento della ultima vocale.
occhi.
V. Maisi.
(1) Quintil. lib. IX, cap. IV. Versum in oratione fieri
multo faedissimum est totum. C.
V. Quali?
Lasciamo stare testè, che gli antichi - --
di
(2) Bocc. Giorn. V. proem. I.
(3) Boce. Introd. n. 32. cevano testeso, non abbiamo noi, se non altro,
(4) Bocc. Nov. XXXVIII, 6. il re Artù º
(5) Bocc. Nov. XI, 17.
(6) Bocc. Nov. XCV 111, 13. (1) Quintil. Instit. Orat. lib. X, cap. XII.
(7) Bocc. Nov. XXXi X, 9. (2) Quintil. lib. Xll, cap. X.
I)IA LOGO 4º1
C. Una rondine non fa primavera, dice Ari primo libro; e però i poeti latini quando vo
stotile (1). levano fare dolci i lor versi, usavano le pa
V. Sappiate che niuna parola nè in greco, role greche. E chi non conosce che Zefiro,
nè in latino, nè in nessuna altra lingua si paò pronunziato come si debbe, e più dolce che
profferire senza l'accento acuto, onde nasce favonio? E noi abbiamo non solamente Zefiro
che almeno tutte le monosillabe in tutte le greco, Favonio latino, ma ancora Ponente ita
lingue hanno l'accento acuto, perchè nel cir liano.
conflesso, nel quale forniscono molte parole C. Io voleva appunto dimandarvi della terza
fuori della lingua toscana, v' è compreso l' a cosa che genera la dolcezza, cioè della copia
cuto: oltrache noi pronunziamo chermisi, taf delle parole.
fetta, scange, tambascia, citri, frin fri, frin fro, V. La copia delle parole genera dolcezza
tutte coll' accento acuto, e così molte altre. per accidente, cioè fa che noi non siamo for
C. Che sapete voi che altresi sia provenza zati a usare traslazioni, o giri di parole, e che
le, e che egli si profferisca toscanamente col se una parola ci pare o dura, o aspra, la pos
l'accento acuto in sull' ultima, siamo scambiare e pigliarne una la quale sia
V. Io ve ne potrei allegare molti luoghi di o molle, o dolce; della qual cosa non manca
poeti provenzali; ma bastivi questo d'Arnaldo la lingua toscana, perché essendo l'ultima di
Daniello, che comincia così una sua canzone: tempo delle tre lingue più belle, ha, come
pur teste vi diceva di Zefiro, i nomi greci, e
Illi com cel qa le lepre cazada or pois la perd, latini, e toscani. E oltraciò tutti quelli di tutte
Autre la reten, tot autresi es avengud a me. le cose che si sono trovate dopo la lingua gre
E Dante disse nella sua contra gli erranti: ca e la latina; oltrachè delle cose che sono
Ma ciò io non consento, per accidente, non si considera nè arte, nè
scienza nessuna, perciocchè non si possono sa
Ne eglino altresì, se son Cristiani (a). pere, conciossiaebe il sapere sia conoscere le
C. Or ditemi, il fornire le parole coll'ac cose mediante le loro cagioni, e le cose per
cento acuto non è proprietà di lingua barba accidente non hanno cagioni alcune determi
ai ra, come scrivono alcuni moderni ? nate. Laonde potemo conchiudere che la lin
V. No, santo Dio! che la lingua greca non gua fiorentina sia più dolce non solamente
era barbara, e molte delle sue parole forni della romana, ma eziandio dell' ateniese.
vano coll' accento acuto. C. Io per me lo credo, anzi quando leggo
C. In cotesta parte non poteva ella tener Petrarca, ma molto più quando il sento leg
del barbaro ? gere a un fiorentino, mene pare esser certo ;
V. Non credo io. Egli è vero che noi non ma vorrei ben sapere perché messer Spcrone
Potemo in queste cose procedere dimostrativa nel dialogo delle lingue, col quale non ho mai
mente, ne colla sperienza, che vince tutte le potuto intender bene, se l'intendimento suo
dimostrazioni, ma bisogna, poichè le pronun è lodare, o biasimare la lingua toscana, aggua
rie sono o spente del tutto, o mutate in gran glia la numerosità dell'orazione, e del verso
dissima parte, o che ci serviamo dolle conget della lingua volgare al suono dei tamburi e delle
ture, o che ce ne stiamo a detta degli scrit campane, anzi al romore degli archibusi e dei
tori antichi. Il perchè volere affermare oggi, falconetti ?
º mantenere alcune di cosi fatte cose per certe, V. Messer Sperone pare a me che volesse
sarebbe anzi perfidia e ostinazione, che dot lodare la lingua toscana, ma mi pare anco che
trina e giudizio. L'accento acuto nel fine, se scrvasse più il decoro, o volete la convenevo
si dee credere a Quintiliano (3), al quale io lezza, nella persona di messer Lazzero, quando
Per me credo, non solo non è proprietà di la biasima e offende, che non fa nella per
lingua barbara, ma genera dolcezza. Udite le sona del Benbo e d'altri, quando la loda e
ºe parole, quando vuol provare, la lingua la difende. Ma comunque si sia, egli vi son den
tina essere men dolce della greca: Sed accen tro di belle cose e di bonissime opinioni, e
º quoque cum rigore quodam, tum similitudi io confesso d'essergli non poco obbligato, per
º ipsa minus suaves habemus, quia ultima srl chè quando era scolare in Padova, e comin
laba nec acuta unquam ea itatur, nec flera cir ciai a tradurre la Loica, e la Filosofia d'Ari
ºnducitur, sed in gravem, vel duas graves stotile nella lingua volgare, dove quasi tutti
cadit semper. Itaque tanto est sermo Graecus La gli altri me ne sconfortavano, egli, e il signor
tino jocundior, ut nostri poeta, quoties dulce Diego di Mendozza, il quale era in quel tempo
ºen esse voluerunt, illorum id nominibus ambasciatore per la Cesarea Maestà a Vene
ºrient. Vedete voi che, secondo Quintiliano, zia, non solo me ne confortarono più volte,
ma me ne commendarono ancora.
ºrale dolcezze della lingua è una l'avere l'ac
ºnto in sull'ultima ? il che non hanno mai C. Io mi ricordo che 'l Vellutello nel ven
Latini, se non in sulle dizioni monosillabe, tesimo quarto Canto del Purgatorio, quando
ºme testifica il medesimo Quintiliano (4) nel egli spone questo avverbio lombardo issa, cioè
testè, il quale testè gli pare piggiore, e più
(1) Arist. Moral. lib. I. goffo che issa, dice che gli darebbe il cuore
º A cart. 38, delle Rime Antiche raccolte da Giunti, di provare colla favella medesima della città
(3) Quintil Instit. orator. lib. Xl I, cap. X. di Firenze, l'idioma fiorentino in se esser pes
(4) Quintil lustit. orator. lib. 1, cap. v. simo di tutti gli altri Toscani ; e il lucchese
422 L' ERCOLANO
insieme col pisano essere più gastigato, e terso nel vero quanto all'eloquenza, e all'arte elle
di tutti gli altri. sono bellissime e degne d' ogni loda, ancora
V. Che ragion n'allega egli che il lucchese che gli fosse risposto; e perchè egli era uomo
e il pisano siano i più belli di tutti gli altri? di gran giudizio, non credo che egli credesse
C. Per avere le sue città molto contigue e quello che mostrava di credere, ma fece, e
vicine disse tutto quello che ricerca l'arte oratoria
V. Come contigue? Questa mi pare la ra che fare, o dire si debbia; e parlandone io,
gion di colui che diceva d' aver nome Barto quando fui in Bologna, con messer Pompilio,
lomeo, perchè egli era nato la vigilia di santa degnissimo figliuolo di cotal padre, mostrava
Lucia. Non arebbe detto così monsignor mes che l'intendesse anch'egli cosi. E in vero se
ser Giovanni Guidiccioni, che fu quell'uomo in una città medesima s'avesse a favellare con
e di dottrina e di bontà, che sa il mondo, e due lingue, una nobile, e l'altra plebea, per
che fu tanto amico e affezionato di messer che non usare la nobile il dì delle feste, e la
Annibal Caro che gli indirizzò i suoi gravissi plebea quelli del lavorare ? se non che ne bi
mi e dotti Sonetti. Nè anco messer Bernardino sognerebbe una terza in quel mezzo per i gior
Daniello, che fu l' anima di messer Trifone ni delle mezze feste, quando si sta a sportello,
Gabriello, come era messer Trifone Bencio, che i Latini seguendo i Greci chiamavano in
nipote di ser Cecco (1), senza 'l quale non tercisi. E poi per tacere molti altri inconve
poteva stare la corte di quel gaglioffaccio del nienti, quando i gentiluomini sapessero la lin
Molza. gua latina tutti quanti; la qual cosa oggi non
C. Come gaglioffaccio? è in uso; come arebbe egli scritto, e parlato
V. Gaglioffaccio (2) nell'idioma del Molza alle gentildonne, le quali non sono meno de
significa uomo buono e da bene. Il qual Molza gli uomini? Considerate voi, quanto le cose
quando voleva lodare alcuno in superlativo dette rettoricamente, quando s'esaminano se
grado, lo chiamava non Grifone come il car condo la verità, riescono le più volte o impos
dinal di Ravenna, ma bestiale, cioè divino. sibili o false o ridicole ? Se egli avesse fatto
C. Chiamava egli così messer Piero Aretino? quella orazione in volgare, non istate in dub
o gliele scrivea nelle soprascritte delle lettere? bio che, dove intendo ehe ella fu grandissi
V. Non so, credo bene che nè il Jona, nè mamente lodata, ella grandissimamente stata
molti altri nobili e letterati giovani lucchesi che io biasimata sarebbe; perchè ognuno arebbe co
ho conosciuti e conosco, nè il Menocchio af nosciuto la falsità dell'inganno che dal liscio
fermerebbono quello che afferma il Vellutello, ricoperto delle parole si nascondea, e io vi
al quale però debbono avere obbligo i Luc dichiarerò un'altra volta: perchè un medesi
chesi della buona volontà sua, e i Fiorentini mo predicatore, predicando le medesime cose
e gli altri della diligenza usata, e della fatica colla medesima dottrina, ed eloquenza a me
durata da lui in commentare il Petrarca, e desimi uomini intendenti non meno la lingua
Dante. latina che la toscana, moverà assai più predi
C. Io mi ricordo aver sentito dire più volte cando in volgare che latinamente, la quale è
dal conte Domenico mio zio, d'onorata e fe la medesima, perchè noi non ci vergognamo,
lice memoria, che messer Romulo Amaseo, il nè divenimo rossi ancora innanzi a donne ca
quale era, come sapete, dottissimo ed eloquen stissime, favellare cose disoneste con vocaboli
tissimo, quando Carlo V e Clemente VII s'ab latini, solo che non siano tanto somiglianti ai
boccarono la prima volta in Bologna, che fu volgari che si possano ancora da coloro inten
nel ventesimonono orò pubblicamente due gior dere i quali mai studiato non hanno. Ma quale
ni alla fila acerbissimamente contra la lingua è la seconda conclusione dell'Amaseo?
volgare; ma non ho ora a mente, se non due C. Che, come coloro i quali (1), secondo
delle sue conclusioni. chè era proverbio de' Greci, non potevano di
V. Quale è la prima? ventare Citaredi, si facevano Aulidi, e come
C. La prima è che egli voleva che la lin disse messer Lazzero di messer Sperone, che
gua volgare, quanto al parlare, s'usasse nelle chi non poteva sonare il liuto, e violoni, so
ville, su pe' mercati co' contadini, e nelle città nasse il tamburo e le campane; così tutti
co' bottegai, e in somma colla plebe solamen quelli a cui non bastava l'animo divenire ec
te; e la latina co' gentiluomini. E quanto allo cellenti nella lingua latina, si davano alla vol
scrivere, che le cose basse e vili si scrivessero gare.
in volgare, e l'alte e gravi latinamente; e V. Questa è molto peggio, e assai più falsa
molto si compiaceva, e si pagoneggiava in que che quella delle due lingue, perciocchè....
sta sua nuova opinione, che ne dite voi? C. Non seguitate più oltra, conciossiachè io
V. Io ho letto e considerato coteste due ho in animo di proporvi un quesito, dove sarà
scuole ; che così si chiamano latinamente; e necessario che mostriate quello che conosco
che voi volete mostrare al presente.
(1) Allude al Sonetto del Berni: V. Come più vi piace, io vi dirò in quello
Ser Cecco non può star senza la corte, scambio come messer Piero da Barga, mio
Me la corte può star senza ser Cecco.
(2) Al che allude il Berni nel capitolo a Fra Bastiano, (1) Cic. nell' Oraz. per Murena: Et, ut aiunt, in Groe
dove dice:
cis artificibus, eos autoedos esse qui citharoed fieri non potue
Fatemi, padre, ancor raccomandato rint: sic nonnullos videmus qui oratore, crudcic non potue
Al virtuoso Moza gaglioffaccio. rint, cos ad iuris studium devenirc.
DIALOGO 423
amicissimo, aringò anch'egli pubblicamente C. E in Lazio come favellavano così vili ar
nello Studio di Pisa contra la lingua volgare tefici?
asprissimamente, e con molta eloquenza; e V. Latinamente.
trall'altre cose, favellando del Bembo onora C. Di che si dolgono dunque? Io ho paura
tissimamente, disse, se essere talvolta d' opi che non facciano come un nostro , a cui non
nione che egli avesse confortato gli altri a vo'dar nome, il quale si rammaricava, nè po
volgarmente scrivere, affinechè abbandonate da teva sopportare d'avere, con riverenza vostra,
loro le greche lettere, e le latine per dar opera il sedere di due pezzi, perchè cosi l'aveano i
alle volgari, egli solo divenisse, o rimanesse fornai.
eccellente nelle latine e nelle greche; la qual V. Io ve ne voglio raccontare una non men
cosa, che in vero sarebbe stata più che io bella, o non men brutta di cotesta. Messer
non potrei dire, nefaria e biasimevole, sap Agostino da Sessa essendo una mattina, quando
piendo quanto fosse lontana dagl'interi, e ca leggeva filosofia in Pisa, uscito della Sapienza,
sti, e santi costumi di tanto, e tale uomo; spiovuto che fu una grossa acqua, non andò
nostra di non credere anch'egli, e pure, se molti passi che e' ne venne un'altra scossa
guitando gli ammaestramenti retorici, lo disse, delle buone, dalla quale sentendosi egli im
che ognuno udi. Dirovvi ancora che messer Celio mollare, cominciò fortemente tutto alterato a
Calcagnino Ferrarese, uomo il quale, secondo scorrubbiarsi e bestemmiare, e dimandato da
che si vede, vide a suoi di, e scrisse assaissime gli scolari che gli erano d'intorno che cosa
cose, in un trattato che egli fece, e indirizzò egli avesse, rispose con mal viso: Come, che
a messer Giovambatista Cintio della imitazio. ho ? dove avete voi gli occhi ? non vedete voi
ne, biasima la lingua volgare, quanto può il che questa acqua non altramente bagna me,
più, e quanto sa il meglio, affermando, che che ella farebbe un facchino?
ella si dovrebbe con tutti gli argani, e orde C. Non è maraviglia, poichè egli era uscito
gni del mondo sprofondare; la qual cosa se della Sapienza.
dagli effetti e dagli avvenimenti si dee giudi V. Bene avete detto; ma egli devea burlar
care, non gli fu dal Cintio stesso, a cui egli si: sebbene ne fece e disse alcune altre in
la indirizzò, creduta, nè amco da messer Lilio quello Studio non dissomiglianti a cotesta. Ma
Gregorio Cintio, il quale non avea nè veduto, per ritornare al segno, messer Bartolommeo
ne scritto manco di lui; poichè tra gli altri Riccio quasi nel principio del secondo dei tre
fece un libro de'poeti volgari, nel quale trai dottissimi libri che egli con molta eleganza e
poeti, e non tra versificatori, racconta, e ce purità scrisse latinamente dell'Imitazione, si
lebra messere Annibale Caro. Ancora vi dirò, duole a cielo che nelle città d'Italia si ragu
che messer Francesco Florido, uomo dotto, nino pubblicamente accademie, e che d'ogni
ma che avea, come hanno talvolta gli uomini sorte uomini si ritrovino molti i quali non
dotti, di strane fantasie, in una Apologia che cessino di tradurre le cose latine nella lor
egli fece contra i calunniatori della lingua la lingua, e già essere venuta la cosa a tale, che
tina, si spogliò in farsetto per dirne male e molti volumi di Cicerone sieno stati volgariz
biasimando tutti gli altri scrittori toscani, lodò zati; la qual cosa egli chiama grande e nefa
solamente un poco il Petrarca, non per altro, ria sceleratezza.
se non perchè ebbe tanto giudizio, che non C. I Latini non traducevano dal greco?
iscrisse se non amori e bagattelle, e così un V. Traducevano.
poco il Furioso dell'Ariosto, perchè fu dotto C. E Cicerone stesso non tradusse l'Ora
in latino, ma che le commedie che egli compose, zioni di Demostene e d' Eschine?
non hanno di commedia altro che il nome (1). V. Tradusse; così volesse Dio che elle non
C. Io pagherei buona cosa a sapere quello fossero ite male; ma del tradurre favellareino
che cotestoro veggono di biasimar la lingua nello scrivere. Udite ora degli altri i quali
volgare e perseguitarla con tanto odio. dannano e detestano a più potere la lingua
V. E'si dee credere che lo facciano per italiana.
amore e non per odio, e se non credessono C. Io arei più caro che voi mi raccontaste
di far bene, siate certo che non lo farebbono; di quei che la lodano, perchè di quegli che
senza che par loro per avventura cosa strana e la biasimano ne sono pieni i forni. Ma voi, il
non comportevole, l'avere a favellare se non con quale eravate de maggioringhi dell'Accademia
quelle medesime parole, almeno con quella Infiammata di Padova, come soffriste che mes
stessa lingua colla quale favellano i trecconi ser Giovambatista Goineo in quel suo para
e i pizzicagnoli. dosso latino la conciasse sì male? e dicesse
C. I trecconi e i pizzicagnoli in Grecia non che ella non era lingua, se non da certi cor
favellavano grecamente? tigianuzzi effeminati, e tutti cascanti di vezzi?
V. Favellavano, e le trecche ancora, poichè V. Appena era io de minoringhi ; poi co
una rivendugliola alla pronunzia sola conobbe testo non fu a mio tempo; oltrachè quel pa
Teofrasto non essere ateniese, il quale atticis radosso fu composto da lui in villa, per ischi
simamente favellava. fare, come dicº egli medesimo, il caldo; non
recitato nell'Accademia: e anco non si debbe
(1) Il Poliziano nel Prologo de' Menecmi: Nihil habent
comoedia prater titulum. E il Menzini nel lib. I 1, v. ult. vietare a nessuno, nè impedirlo che egli non
della Poetica: componga o per esercitarsi, o per pubblicare
Che nulla ha di commedia in ſuor che 'l titolo. il parer suo; è ben vero che coloro i quali
424 L' ERCOLANO

compongono, più che per altro, per fuggir ora voi che differenza è da un picciolo e dis
matºana, in vece d'onore e loda, ne riportano onesto alberghetto a Babbillonia.
le più volte dalle più genti vergogna e biasi C. Maggiore che da giugno al gennaio; ma
mo. E il torre a lodare o biasimare alcuna guardate a non v'ingannare, perchè io mi ri
cosa non è mica una buccia di porro, nè im cordo d'aver letto in uno scrittore moderno,
presa, come disse Dante da pigliare a gabbo (i), del quale si fa grande stima, che Baldacco era
ma egli non le fece quel male nè che voi un luogo disonesto e disonorevole in Firenze,
credete, nè che egli arebbe potuto farle, vo del quale anco il Petrarca faceva menzione
lendo scrivere oratoriamente. Ma molto più nel Sonetto:
largo campo arebbe avuto egli, e arà sempre
L'avara Babbillonia ha colmo il sacco (1).
e molto più commendabile, chiunque torrà a
lodarla, per le cose inſino a qui dette, e si V. Credete quello che vi piace. Baldracca
perchè ella d'onestà, la quale è forse la mag era, ed è un'osteria in Firenze vicina alla piazza
giore, e certo la miglior parte che possa avere del grano, ma starà ben poco a non esser
una lingua, si lascia dietro molto spazio non più, perche l'eccellenza del nostro duca, es
meno la greca che la latina. Considerate quello sendo ella quasi dirimpetto al suo palazzo,
che fa Omero (2) non dico dire, ma fare a Gio la vuol fare spianare, e murare in tutti quei
ve, padre e re di tutti i loro dii, con Giu contorni, edifizi e casamenti, dove si ragunino
mone per impazienza di libidine. i magistrati
C. Plutarco, Porfirio e alcuni altri non pure C. Va poi, e fidati tu. Io conosco di mano
lo scusano, ma il lodano ancora eziandio in in mano meglio e più certamente che chi vuole
coteste stesse sporcizie, dicendo che elle sono intendere, non che dichiarare, la lingua fio
favole, sotto i velamenti delle quali con ma rentina, e spezialmente in cose cotali, bisogna
raviglioso ingegno trovati si ricnoprono di gran che sia o nato, o stato in Firenze, altramente
dissimi. e bellissimi e utilissimi misteri. fa di grandi scappucci; perchè quanto sarebbe
V. Tutto credo ; ma con tutto questo cre non solamente folle, ma fello sentimento, se
dere, non mi può entrar nell'animo, non che si facesse dire al Petrarca, che la fede, o la
capire nella mente, ciò essere ben fatto, e che fede cristiana s' avesse un giorno a ridurre
meglio non fosse stato ritrovare con più degne tutta quanta in Baldracca !
favole meno disonesti velamenti. Pure dica V. Lasciamo Baldacco c Baldracca, che il
ognuno, e creda quello che egli vuole, per Burchiello (2) chiama Baldacca, se intese però
chè forse quei tempi, quella religione e quelle di questa, e venghiamo a poeti latini, non agli
usanze lo comportavano ; il che i tempi nostri, eroici, perchè Virgilio fu tanto casto e ver
la religion nostra e le nostre usanze non fanno. gognoso ne costumi da natura, e nelle sue
Dante favellando dell'Italia disse una volta: opere per giudizio, che egli per tutto era chia
mato con voce greca, come noi diremmo, la
Non donna di provincie, ma bordello (3):
donzella, ma agli altri e spezialmente a quegli
Della quale parola fu da molti, ed è ancora che poetarono d'amore. Tibullo e Properzio
oggi, molto agramente biasimato e severamente sono tanto lascivi, quanto leggiadri. Ovidio fu
ripreso. Considerate ancora quante porcherie lascivissimo, e più sarebbe stato Gallo, se quelle
c sporcherie dice Aristofane nelle sue com Elegie che sotto il suo nome vanno attorno,
medie. fossero sue; il che io non credo, essendo egli
C. Quelle d'Aristofane sono commedie an suto non solo lodato, ma amato da Virgilio.
tiche, nelle quali dicono che erano concedute Marziale in molti luoghi sembra piuttosto gio
le disonestà. colare che poeta; dove la lingua nostra è tutta
V. Dicano quello che vogliono, io non mi onesta, tutta buona e tutta santa.
arrecherò mai a credere di buon cuore che C. Io dubito che l'affezione vi trasporti. Io
le disonestà siano concedute in luogo nessuno, ho veduto delle commedie più sporche e più
e massimamente dicendo il proverbio che l'o- disoneste che quelle d'Aristofane; ho veduto
mestà si conviene, e sta bene inſino, per non de' sonetti disonestissimi, e sporchissimi; ho
dire il vocabolo proprio, in Baldracca. veduto delle stanze che si posson chiamare la
C. Voi volete dire in Baldacco, non in Bal sporchezza, e disonestà medesima, e se non
dracca. altro quelle che l'uomo si vergogna a nomi
V. Io vo' dire in Baldracca, non in Baldacco. nare pure il titolo, e però diremo della Me
C. Il Petrarca (4) disse pure Baldacco e non retrice errante; e la Priapea dell'Arsiccio qua
Baldracca.
pars est?
V. Voi m'avete bello e chiarito; il Petrarca V. Voi mescolate le lance colle mannaje.
intese di Babbillonia, e io intendo d'un oste Nella Priapea, che così la voglio chiamare, e
ria, o piuttosto taverna, anzi bettola di Fi
renze, dove stavano già delle femmine di mon (1) Petrarca, Son. CVI.
do in quel modo, che al Frascato. Giudicate Aspettando ragion mi struggo, e fiacco,
Ma pur novo Soldan veggio per lei,
Lo qual farà, non già quand'io vorrei,
(1) Dante Inſer. XXXII. Sol una sede, e quella fia in Baldacco.
(2) Omero, Iliad. lib. XIV. (2) Burch. Part. 1, Son. VIII.
(3) Dante, Purg. Vi. Egli e un gran Filosofo in Baldacca,
(1) Petrarca, Sou. CVI. Che nsegna molto ben beccare a polli.
DIALOGO 4 o5
non col suo nome proprio, si conosce almeno da volerlo, Salamone, del quale serisse Dante,
arte. e ingegno, e similmente nelle stanze delle che scrisse ogni cosa:
quali io credo che voi vogliate intendere; le
commedie non mi piacciono più per cotesta Entro v'è l'alta luce, u sì profondo
Saver fu messo, che se 'l vero è vero,
disonestà loro, e perchè pare che non abbiano
altro intento che far ridere, in qualunque mo A veder tanto non surse il secondo (1).
do ciò si facciano, che per altro. Ma notate, E io per me credo, e credo questa volta di
che io non niego che nella lingua volgare non poter fare senza protestazione, che in una can
si possa scrivere, e non si sia scritto, disone zone sola di Dante, o almeno nelle tre sorelle
stamente; che io negherei la verità; ma niego del Petrarca, sieno più concetti d'amore, e
che ciò possa farsi, o almeno si sia fatto in più begli e più casti che in tutti i poeti o
componimenti nobili, e che vadano per le greci o latini: sebben so che Platone in gre
mani, e per le bocche degli uomini onorati: co, e Quinto Catullo in latino fecero di bellis
e quando pure si potessono fare, o si facesse simi epigrammi. Qual si può trovare più dolce
ro, si leggerebbono solamente di nascoso, e cosa in tutta la lingua romana che quello en
alla sfuggiasca, e non solo non sarebbono lo decasillabo di Catullo, il quale comincia:
dati dagli ingegni pellegrini, nè accettati, ma
scacciati, e ripresi, nè troverebbero gran fatto Acmen Septimius suos amores
nessuno, che nelle sue opere o per pruova, Tenens in gremio, etc, (2).
o per testimonianza gli allegasse, nè ricevesse; e nondimeno, se lo paragonate con un sonetto
dove nella lingua latina Catullo, il quale fu o di Dante, o del Petrarca o d'altro poeta
non meno disonesto e sporco in molte cose, toscano nobile, che favelli d'amore, vi parrà
che dotto e eloquente, fu lodato, allegato e che questi ami Diana, e quegli sia innamorato
ricevuto al pari di Virgilio e forse più. E chi di Venere ; l'uno altro che le bellezze del
diavolo potrebbe leggere, o sentir leggere senza corpo furiosamente non cerchi, l'altro solo
stomaco, e indegnazione il principio di quel quelle dell'animo santissimamente disideri. Di
tanto puro, e tanto impuro epigramma? temi, per vostra fe' se un poeta toscano, es
Paedicabo ego vos, et irrumabo, sendosene ita la donna sua a diportarsene in
villa, dicesse in un sonetto, o una elegia, o
Aureli pathice, et cinaede Furi (1).
per entrarle in grazia, o per mostrarle il fer
C. Certo; ma e pare che voi non vi ricor vente amore che le porta, dicesse, dico, come
diate che egli medesimo altrove si scusa di fece Tibullo:
cendo:
O egoquum dominam aspicerem, quam fortiterillie
Nam castum esse decet pium poetam Versarem valido pingue bidente solum (3);
Ipsum, versiculos nihil necesse est (2). cioe: Oh come rivolgerei io fortemente la grassa
E quell'altro disse pure per iscusarsi : terra, e in som na zapperei con una gagliarda
marra in mano, quando io mirassi la donna e
Lasciva est nobis pagina, vita proba est (5). signora mia, che ve ne parrebbe? Non sarebbe
E Adriano imperadore nell'epitaffio che egli ella stomacosa e goffa? Non giudicherebbe
fece e pose in sul sepolcro d'un suo amico ognuno che il Serafino non ci fosse per nulla?
chiamato Voconio, disse: e so bene, o almeno credo, che cotali concet
ti, cosi fattamente vestiti, sieno in quello idio
Lascivus versu, mente pudicus eras (4). ma, non dico comportevoli, ma lodevolissimi;
V. Io me ne ricordo; e so d'avanzo che il che dimostra la differenza che è da questa
ogni cosa si può scusare, o orpellare da chi lingua a quella. Dove trovate voi negli altri
vuole, e ha l'arte oratoria; ma io mi ricordo, linguaggi concetti d'amore così fatti e così
e so anco che altra cosa è il dire, e altra cosa detti, come sono questi ?
e l'essere; e durerò fatica a credere che uno Allora insieme in men d'un palmo appare
che sia disonesto nel dire, sia pudico nel fare, Visibilmente, quanto in questa vita
perchè, come si dice volgarmente, la botte Arte, ingegno, natura, e 'l ciel può fare (4).
getta del vino che ella ha. Ma intendete sa
namente, che io non biasimo chi favella d'a- Dove questi altri?
more, ma chi disonestamente ne favella; anzi Al tuo partirparti del mondo amore,
quanto ciascuno ha maggiore intelletto, e più E cortesia, e 'l Sol cadde dal cielo,
nobile animo, tanto meglio lo conosce, e più E dolce incominciò farsi la morte (5).
castamente ne favella, o scrive, e più spesso.
Ma egli bisognerebbe che io vi recitassi tutto
Togliete, se non volete Platone che pure è
il Petrarca, se volessi tutte le leggiadrie e bel
lezze sue raccontarvi; dal quale, tutto che non
(1) Catullo, epigr. XVI.
(2) Catullo nello stesso epigr. (1) Dante, Parad. X.
(3) Marzial. lib. 1, epigr. V. E Ovidio disse: (2) Catullo, epigr. XLVI.
Crede mihi, distant mores a carmine nostri, (3) Tibull. lib. II, Eleg III.
Vita verecunda est, musa jocosa mihi. (4) Petrarca. Son. CLX.
(4) Apuleio nell'Apologel. (5) Petrarca, Son. CCCXV.
V-ARCHl V. 1,
426 L' ERCOLANO
ragioni mai d'altro che d'amore, può la più ºi zanzara, cioè culex latinamente, a differenza
leggiadra e la più casta donna che mai fosse, del z aspro, come zazzera, cioè coma, i quali
non solo leggerlo, ma apparare in leggendolo due zeti hanno ancora gli Ebrei, e gli chia
nuova castità, e nuova leggiadria. Di Dante mano zain e zari, l'alfabeto de quali è vera
non dico cosa nessuna, perchè io ho per fermo mente divino, e il nostro ha, se non parentela,
che la grandezza sua non si possa, non che grande amistà con ello, come in un trattato
dire con parole, immaginare colla mente. E che io feci già delle lettere e alfabeto toscano
vi potrei allegare infiniti luoghi, non solamente potrete vedere. Nè voglio lasciare di dire che
nella commedia, la quale è un oceano di tutte come i Greci aveano l'omega, cioè l'o grande,
le maraviglie, ma ancora nell'altre poesie sue, o lungo, come in torre verbo, e l'omicron, cioè
i quali lo rendono degnissimo di tutte le lodi l'o picciolo, e breve, come in torre nome, e
e di tutte le ammirazioni che a grandissimo, come aveano due e, l'una chiamata eta, la
e perfetto poeta si convengono. Ma non voglio quale era lunga, e noi chiamiamo aperta, ov
dirvi altro, se non che l'Inferno solo e da per vero larga, come in mele liquore delle pecchie,
sè, è atto a fare chiunque lo legge e intende, e l'altra essilon, cioè tenue, ovvero breve, che
uomo buono e virtuoso; pensate qual è, e quello noi chiamiamo e chiuso, ovvero stretto, così
che possa o debba fare il Paradiso. aveano ancora i Latini; ma perchè essi non
C. Non vi affaticate più , che io ne resto assegnarono loro proprie figure e caratteri, come
capacissimo. Disidero bene, per battere il ferro fecero i Greci, e gli Ebrei, si sono perduti,
mentre che egli è caldo, che voi mi riduciate conciossiacosachè nessuna parola latina si pro
a brevità, e come in un sommario, tutta la nunzia oggi, se non per o aperto ed e largo.
principal sostanza delle cose dette da voi in Dagli accenti, perchè infinite dizioni toscane
questo quesito. o intere o raccorciate, forniscono coll'accento
V. Io ho considerate nelle tre lingue, oltra acuto, la qual cosa non fanno mai le latine,
le cose che voi mi proponeste, ricchezza, bel se non se nelle monosillabe; oltrachè i Latini
lezza e dolcezza, tre altre di più, delle quali ponevano l'accento acuto, il quale è quello
mi dimandaste incidentemente e per un vie che solo si segna, o in sull'ultima sillaba, o
va; e ciò sono nebiltà, la quale consiste nella in sulla penultima, o in sull' antepenultima, e
copia degli scrittori famosi, gravità e onestà, non mai altrove; dove i Toscani, il che è cosa
e conchiuso che la lingua volgare, paragonata più naturale, lo pongono e in sulla quarta, e
alla greca e alla latina, è più bella, più dolce, in sulla quinta e in sulla sesta sillaba, come
più grave e più onesta di ciascuna di loro, l'esempio del Boccaccio (1) allegato dal Bem
ma che quanto alla ricchezza ella cede alla bo portandosenela il lupo (2), e talvolta in sulla
greca, e contende colla latina, e quanto alla settima, e ancora in sull'ottava, per l'esem
nobiltà ella cede ad amendue, ma più alla pio addotto da messer Claudio, il quale io per
greca. Che ella sia più grave e più onesta, io me non comprendo, nè 'l so direttamente prof.
lo metto per fatto, nè penso che alcuno o ferire, favolanosicenegliene, nel quale, se si conta
possa, o debba dubitarne, perchè dove è l'o- quella sillaba a cui egli è sopra, come s'è fatto
nestà, rade volte è che non vi sia gravità. Che infin qui, sarebbe l'accento in sulla nona. Dalle
ella sia più bella, io lo provo, perchè la greca rime, perchè, oltra il numero e l'armonia dei
e la latina si servono principalmente del nu versi, s'aggiugne il numero e l'armonia delle
mero, e dell'armonia in conseguenza, dove la rime, la qual dolcezza passa tutte l'altre dol
volgare all'opposto si serve principalmente del cezze. Da ciascuna di queste cose, o da tutte
l'armonia, e in conseguenza del numero. Che insieme, nascono tutte le conclusioni che io ho
ella sia più dolce, nasce da tre cose, dalle fatte; onde si può agevolmente cavare che la
lettere, dagli accenti, e ne poeti dalla rima. lingua fiorentina ha tutto quello che possono
Dalle lettere, perchè, oltra che tutte le sue di disiderare gli uomini, i quali altro disiderare
zioni terminano in vocali, ella ha anco le con non possono che o l'utile, o il piacere, o l'o-
sonanti più dolci, o in maniera le pone, che nesto. Il piacere le viene dalla numerosità,
elle rendono più dolce suono, non accozzando cioè dall'armonia e dal numero, oltra la dol
mai due mute diverse. Considerate, quanto è cezza delle parole e delle rime. L'onesto e l'utile
più dolce il pronunziare pronto, che prompto, le vengono da una cosa medesima, cioè dall'one
santo, che sancto, e infinite altre: e dall'altro stà, conciossiacosachè appresso i morali onesto,
lato raddoppia spessissime volte le consonanti, e utile si convertono, perciocchè come niuna
il che fuggiva la latina; servesi della di lettera cosa è utile, la quale ancora onesta non sia,
dolcissima, in assai luoghi; mette poche volte cosi nulla cosa è onesta la quale ancora non
la l in mezzo delle mute e delle vocali; usa sia utile ; e se nella nostra lingua si traspor
frequentemente la u e la i liquide; cose che tassero le scienze, come si potrebbe, ella pa
rendono tutte dolcezza; senzachè, ella come reggiarebbe tutte l'altre, e forse avanzerebbe
ha più clementi, così ha ancora più lettere da di nobiltà, si perchè le cose si vanno sempre
sprimergli, e conseguentemente più suoni, come raſfinendo, come diceva Cicerone de Romani,
appare nel s sibiloso, come in rosa fiore, e in e si perchè alla filosofia greca s'aggiugnerebbe
Cosa“ nome proprio di femmina, il quale s.,
se pur non e, come io credo, ha grandissima (1) Bocc. G. 1X, n. 7.
somiglianza col º greco, come appare ancora (2) Bemb. Pros. lib. II, a cart. 175 dell'edizione di Na
nell'una delle nostre z chiamata dolce, come poli del 1714.
DIALOGO 427
quella degli Arabi, i quali furono dottissimi, stra che della lunghezza del dire nessun conto
e quella de Latini moderni, i quali quanto tenere si dee, ma solo delle cose che si di
sono barbari, e confusi nelle parole, tanto sono cono. E nel vero se le cose che si dicono,
ingegnosi e sottili nelle cose e nel medesimo sono fruttuose e profittevoli, ogni lunghezza
tempo verrebbe a divenire ricchissima (1), e dee parer breve, e, se 'l contrario, ogni bra
conseguentemente a superare ancora in questo vità dee essere riputata lunga.
la greca. C. Non è egli più breve una lingua che
C. Messer Claudio nel suo Cesano afferma sprime i concetti con meno parole che un'altra?
che la lingua toscana sia oggi non diao più V. Senza dubbio; e messer Claudio afferma
ricca solamente, ma vieppiù ricca della greca che la romana è più breve della greca, e che
e della latina; ascºltate le sue parole: Che più la greca e la toscana, quanto a lunghezza e
ne'tempi nostri, de quali noi ora parliamo, e brevità, vanno a un giogo.
ne'quali si cerca se la toscana lingua ha eccel C. Qual cagione n'arreca egli?
lenza alcuna, ne tempi nostri, dico, vieppiù ricca V. Perchè quelle particelle che alcuni chia
e di vocaboli questa, che o la latina, o la greca. mano puntelli o sostegni, e altri ripieni, e noi
V. Messer Claudio, per quanto stimo, do chiameremo proprietà e ornamenti di lingue,
vea mescolare la lingua nobile coll'ignobile e si ritruovano in minor numero nella romana.
intendere di tutti i vocaboli, quali o s'usano, C. Di quali particelle e ornamenti intendete
o si possono usare, in tutte le maniere di tutti voi ? -

i componimenti; nel qual caso io vi dissi di V. Come in greco uiv, i, di, ec, in latino
sopra che la greca non sarebbe atta a scalzare nempe, quidem, etc., in toscano egli e nel vero,
la volgare, ma molto meno la latina. e altri cotali.
C. Se io mi ricordo bene, voi non diceste C. Siete voi d'accordo in questo con esso
scalzare, ma portarle dietro i libri, e esserle seco? -

fattorina: le quali parole io intesi più per di V. Io discordo mal volentieri da lui, per
screzione, come foanco questa; e non vi po chè nel vero egli fu uomo buono e ingegno
trei dire, quanto mi diletta d'intendere co sissimo, e uno de primi padri e maestri prin
tali metafore fiorentine; ma arei caro le mi cipali della lingua.
dichiaraste qualche volta, perchè io n'ho pas C. Io intendo pure che nelle sue scritture,
sata più d'una a guazzo senza intenderle; se e spezialmente nelle lettere, sono delle locu
già non fate ciò studiosamente e a bella po zioni barbare e delle cose contra le regole.
sta, per non esser inteso da quei che non fio V. È vero, ma crediate a me, il quale ne
rentini vi volessero riprendere. parlai più volte con esso lui, che alcune ve
V. Io lo fo bene in pruova, e a sommo stu ne sono, non perchè egli non le sapesse, e che
dio, non già per sospezione che abbia di do non sapeva egli nella lingua toscana ? Ma per
ver esser ripreso o da Fiorentini, o da altri: chè credeva, o voleva credere, che così stes
che se ciò fosse, noi farei, potendo essere per sero e dovessero stare, parte favoreggiando alla
avventura non meno in questa che in molte sua favella inatia, e parte vezzeggiando la sua
altre cose ripigliato; ma per compiacere a autorità, la quale era, e non senza ragione,
voi, e aneo per mostrarvi che il rimescolarsi grandissima, e alcune più per iscorrezione della
colla plebe di Firenze, se non è necessario, stampa che per altro; e io per me credo
non è disutile a coloro che cercano o favella quello che molti affermano, che il saper troppo
re, o intendere chi favella puramente fioren d'alcuna cosa, cioè l'andarla più sottilizzando
tino: perchè quanto allo scrivere ne parlerò che non si conviene, si debba riputare le più
nel luogo suo; onde se non avete in questa volte vizio. Comunque si sia, io credo che la
ºmateria che dirmi altro, proponetemi un nuovo lingua greca sia più breve della latina, e la
quesito. latina men lunga della toscana, perchè quei
C. Egli m'è rimaso un dubbio solo. ripieni e ornamenti non sono quelli che fac
V. Me ne pare andar bene; che volentieri ciano principalmente la brevità o la lunghezza
arei fatto il patto a diece ; ma quale è questo delle lingue, ma i nomi, e i verbi quando son
dubbio?
pieni e quasi pregni di sentimenti. Sprinono
9. Voi non avete mai fatto parola nessuna i Greci molte volte con una parola sola quello
della brevità, e io pur crederei che quanto una che i Latini nè con due, nè con tre, e talvolta
lingua fosse più breve, tanto fosse ancora più con quattro, sprimere non possono, e il mede
commendabile. simo, dico, avvenire dei Latini verso i Tosca
V. Io non ne ho fatto menzione, perchè ni; non che i Toscani non abbiano anch'essi
non mi ricordo che Aristotile nè nella Retto alcuni nomi e verbi che i Latini, ne forse i
º, nè nella Poetica, dove egli dichiarò di Greci potrebbono altramente sprimere che con
ligentissimamente le virtù del parlare, ne di più parole, ma le regole dagli universali, e non
ºse mai cosa nessuna; e Platone n' ammae da particolari, cavare si deono.
C. Non si vede egli che coloro i quali tra
(*) Grandissima ricchezza s' è accresciuta alla nostra fa.
Vºlla per una via più eccellente, non pensata dal Varchi, ducono versi o greci, o latini, crescono ordi
"º º vede nell' opere maravigliose del gran Galileo, e ne mariamente almeno il terzo, facendo d'ogni due
gli scritti del Viviani, del Guiducci, del Redi, del priore versi tre º
Orazio Rucellai, del conte Magalotti, e di altri valentuomini
V. Si ; ma qui si potrebbe rispondere che
l secolo passato.
i nostri versi sono d'undici sillabe, o al più
428 L' ERCOLANO
dodici, e i loro di diciassette, e talvolta di
ciotto; che è quasi proporzione tripla; ma sia QUESITO DECIMO
cone si vuole, che chi traduce così dal greco,
come dal latino, o prose, o versi, cresce o poco Se la lingua volgare, cioè quella colla quale fa
più, o poco meno che il terzo, il che dimo vellarono, e nella quale scrissero Dante, il
stra la sperienza, la quale vince tutte l'altre Petrarca e il Boccaccio, si debba chiamare
pruove insieme. italiana, o toscana, o fiorentina (1).
C. Voi avete detto che Platone non si cura
della lunghezza, dove le cose delle quali si V. Di coloro che ho letti io, i quali hanno
ragiona, portino il pregio; e pur la brevità è disputato questa questione, alcuni tengono che
lodata sì grandemente in Sallustio. ella si debba chiamare fiorentina, e questi e
V. Questa non è la brevità delle lingue, ma messer Pietro Bembo solo (2); alcuni, tosca
quella degli scrittori, la qual'è un'altra ma na, e questi sono messer Claudio Tolomei (3),
niera, perciocchè in una lingua stessa sono al e messer Lodovico Dolce; alcuni, italiana, e
cuni che scrivono brevissimamente, e alcuni questi sono messer Giovangiorgio Trissino (4),
con lunghezza. e messere Jeronimo Muzio (5); perchè il Conte
C. Qual credete voi che sia migliore negli Baldassarre Castiglione (6), sebben pare che
scrittori d' una medesima lingua, l'esser bre la tenga toscana, nondimeno, non volendo alle
ve, o l'esser prolisso ? regole di lei sottoporsi, confessa di non sa
V. La brevità genera il più delle volte oscu perla, e di avere scritto nella sua lingua, cioè
rezza, e la lunghezza fastidio ; ma perchè la nella lombarda, la qual cosa, come di sopra
prima e principal virtù del parlare è la chia dissi, a me non par vera; non che io nieghi
rezza, par che n'apporti men danno l'esser che nel suo Cortegiano non siano molti voca
fastidioso che oscuro, e perciò disse Quinti boli e modi di dire lombardi, ma per altro
liano (1) che la brevità che in Sallustio si loda, si conosce che egli lo scrisse quanto poteva e
altrove sarebbe vizio, e Cicerone (2), che la sapeva toscanamente. Lasciando dunque dal
brevità si può in alcuna parte lodare, ma non l'una delle parti o come poco risoluto, o come
in tutto e universalmente no. Ma vi conviene troppo acuto e guardingo il Conte, dico che
avvertire che altro è non dire le cose sover il Trissino e il Muzio sono oggi da moltissimi
chie, e altro il tacere le necessarie. La buona, seguitati, il Tolomei, e il Dolce da molti, il
e vera brevità consiste non in dir meno, ma Bembo da pochi, anzi da pochissimi; ciascuno
in non dir più di quello che bisogna; e a ogni de quali allegano loro ragioni e loro autorità,
modo è, se non maggior bene, minor male e tutti convengono comunemente che le lingue
pendere in questo caso, anzi nel troppo, che debbano pigliare i loro propri, e diritti nomi
nel poco, acciò avanzi piuttosto alcuna cosa, da quei luoghi ne' quali elle si favellano na
che ne manchi nessuna. Chi dice più di quello turalmente, e che gli scrittori primieri di qua
che bisogna, arreca per avventura fastidio ad lunque lingua (7) dall'uso di coloro che la
altri; ma chi tace quello che tacere non dee, favellavano, trassero le loro scritture. Conven
apporta danno a sè stesso. E, per conchiude gono ancora che Dante, il Petrarca e il Boc
re, come in tutte l'altre virtù, così in questa caccio siano, se non di tempo, almeno d'ec
si dee eleggere il mezzo, cioè narrare tutto cellenza, i primi scrittori che nella lingua vol
quello che è necessario, e quello il quale è gare si ritruovino. Convengono eziandio che
soverchio, tacere; ma dovendosi peccare in una come la toscana è la più bella di tutte l'al
di queste due cose, è men dannoso peccare tre lingue italiche, così la favella fiorentina sia
nella lunghezza; non intendendo però di quella di tutte l'altre toscane la più leggiadra. Con
asiana, ovvero asiatica, fastidiosa, della quale vengono medesimamente che ella si possa no
fu ripreso Galeno; ma di quella di Cicerone, minare largamente lingua volgare, o veramente
al quale non si poteva aggiugnere cosa nessuna, la lingua del sì, ma non già cortegiana (8). Con
come a Demostene cosa nessuna levare si po vengono di più che siccome l'Italia, è una
teva. E brevemente, come i giganti non si pos provincia, la quale contiene sotto di sè molte
sono chiamare troppo grandi, così i pigmei regioni, cioè secondo i più e migliori quat
troppo piccioli appellare non si deono. tordici, e ciascuna regione molte città e ca
stella, così la lingua italiana sia un genere, il
(1) Quintil. Inst. Orat. lib. IV, cap. II. Quare vitanda
etiam illa Sallustiana (quanquam in ipso virtutis locum obti (1) Vedi il Dialogo del Machiavelli, che anonimo fu pub
net) brevitas. blicato dal Bottari in appendice all' Ercolano. (M.)
(2) Cic. nel Bruto: Brevitas autem laus est interdum in (2) Bembo Pros. lib. 1, part. XII.
aliqua parte dicendi, in universa eloquentia laudem non habet. (3) Claudio Tolomei nel Cesano.
(4) Il Trissino nel Castellano.
(5) Girolamo Muzio nelle Battaglie Cap. XVII, e al
trove.
(6) Baldassar Castiglione nel Cortigiano.
(7) Il Muzio al cap. ll della Varchina, vuole, che gli
scrittori antichi traessero le loro scritture dall' uso, ma con
iscelta. ll Varchi non dice il contrario, anzi credo che lo
supponga, sapendo che non tutte le voci sono adattate ad ogni
sorta di stile.
(8) Il Muzio nella Varchina cap. II, nega ciò.
DIALOGO 429
quale comprenda sotto di sè molte spezie, e è animale una formica e una mosca, come un
ciascuna spezie molti individui. Al Trissino, camello o uno elefante.
tostoche uscì fuori la sua epistola delle lettere V. Buono. E spezie che cosa è?
nuovamente aggiunte nella lingua italiana, ri C. Una voce, la quale si predica di più co
sposero due grandissimi ingegni, messer Clau se, le quali cose sono differenti tra loro non
dio Tolomei Sanese, contra l'aggiunta delle già di spezie, ma solamente di numero, come
nuove lettere, e messer Lodovico Martelli con questo nome uomo, il quale significa Piero e
tra il nome della lingua, e amenduni leggia Giovanni e Martino, e tutti gli altri uomini
dramente e secondo me con verità. Scrisse particolari, come Dante, il Petrarca e il Boc
ancora contra le nuove lettere messer Agnolo caccio, perchè tanto è uomo il Bratti ferra
Firenzuola Fiorentino, uomo ingegnoso, e pia vecchio e lo Gnogni, quanto il Gran Turco
cevole molto, ma piuttosto in burla, e per giuo e 'l Prete Janni, o volete l'Arcifanfano di Bal
co, che gravemente e daddovero. Dalle quali dacco, e il Semistante di Berlinzone; e questi
cose nacque che messer Giovangiorgio compose particolari uomini si chiamano dai loici indi
poi, e stampò sì alcuni dubbi grammaticali, coi vidui, ovvero singolari, perchè non hanno sotto
quali s'ingegnò di rispondere al Pulito di ines sè cosa alcuna, nella quale si possano dividere,
ser Claudio, e sì un dialogo intitolato il Ca come i generi nelle spezie e le spezie negli
stellano, nel quale risponde, ma per mio giu individui.
dizio con poco fondamento e debolissima ra V. Che cosa sono questi individui?
gione, alla risposta del Martello, il qual Martello, C. Voi mi tentate; chè so bene che voi sa
perchè si morì nel Regno, (1) o piuttosto fu fatto pete che gl'individui non si possono diffinire,
morire, molto giovane, non fu a tempo a leg non si potendo diffinire se non le spezie.
gerlo, non che a rispondergli; come si dee V. Anco il genere e la spezie non si pos
credere che arebbe fatto, e conseguentemente sono diffinire; discrivetemi dunque, o dichia
tolto a me, il quale suo amicissimo fui, quella ratemi, questo come avete fatto quelli.
fatica, la quale or prendere mi conviene. Ma C. Io non saprei altro che dirmi, se non
perchè questa disputa, la quale pare alla mag che gl'individui sono quei particolari, ne' quali
gior parte malagevolissima e dubbiosa molto, si divide le spezie, come donna Berta e ser
e da me giudicata piana ed aperta, non mi Martino, e nel medesimo modo di tutti gli al
parendo che nessuno nè debba ragionevolmen tri, i quali non sono differenti tra sè nè di

te, ne possa dubitare, ch'ella fiorentina non di genere, perchè così è animale donna Ber
sia, e per conseguente fiorentina chiamare si ta (1), come ser Martino, ne di spezie, perchè
convenga, voglio che facciamo conto per un così è uomo donna Berta, come ser Martino,
poco che niuno infino a qui disputato non ma solamente di numero, perchè donna Berta
n'abbia, acciocchè dall'autorità ingannare non è uno, e ser Martino un altro, che fanno due
ci lasciamo, e cerchiamo solamente colle ra V. A che si conoscono gl'individui l'uno
gioni qual nome propriamente vero e legittimo dall'altro ?
dare le si debbia, non perchè a me manchino C. Sempre trall'uno e l'altro vi sono al
autorità così di antichi, come di moderni, che cune differenze accidentali; perchè se alcuno
piuttosto me n' avanzano, come vedrete, ma arà nome verbigrazia Cesare, come io, egli non
perchè l'autorità, se non sono fondate in sulle sarà da Bologna, e se pure sarà da Bologna,
ragioni o nell'esperienza, assai più di tutte non sarà degli Ercolani, e quando fosse degli
le ragioni migliore, possono bene ingenerare Ercolani, non sarebbe figliuolo del Cavaliere
alcuna opinione, ma fare scienza non già. Vo mio padre. -

glio ancora, non tanto per lo essere io del V. E se il Cavaliere vostro padre avesse
lungo favellare anzi stanco, che no, quanto posto nome a tutti i suoi figliuoli Cesare?
perchè cosi giudico più a proposito, mutare C. Gli altri non arebbono tanto tempo, quan
per breve spazio l' ordine, e come voi avete to io, il quale fui il primo a nascere, sareb
dimandato tanto me, così io dimandare un bono diversi o di viso, o d'andare, o di fa
poco voi. vellare, e finalmente non sarebbono me, ne io
C. Come vi piace e torna meglio. loro.
V. Sapete voi che cosa genere sia ? V. Quali sono più nobili, o i generi, o le
C. Credo di si: il genere è una nozione, spezie, o gl'individui?
cioè un concetto, ovvero predicabile, o volete C. Gl'individui senza comparazione, se il
universale, e insomma una voce la quale si Betti e l'eccellentissimo Aldobrando, quando
predica, cioe si dice, di più cose, le quali cose mi lessero la loica, non m'ingannarono; il che
sono differenti tra sè di spezie; e si predica di tali uomini creder non si dee: anzi la spe
nel che, cioè essenzialmente, ovvero nella na zie e più nobile del genere, perche ella s'av
tura e sostanza della cosa, come questo nome vicina più all'individuo; le spezie e i generi
animale, il quale si dice sostanzialmente così sono seconde sostanze, non sono cose, ma con
degli uomini, come de' cani e de cavalli, e di cetti, e non si ritruovano come tali nelle cose
tutte l'altre spezie degli animali, perchè così
(1) Allude al verso di Dante, Parad. XIII.
(1) Lodovico Martelli mori di soli vent'otto anni in Sa Non creda donna Berta, e ser Martino
lerno, ove a servigi di quel Principe si tratteneva, circa il Per vedere un furare, altro efferere,
1527. (M.) Vedergli dentro ai consiglio dirino.
43o -
L' ERCOLANO
della natura, ma solo nell'intelletto umano, guessero da tutti gli altri individui della sua
dal quale sono fatte e formate dove le prime spezie spezialissima, questa si chiamerebbe
sostanze, cioè gl'individui sono veramente cose, particolare, cioè vera, e propria cognizione,
e tali cose che tutte l'altre o sono in loro, o e solo in questo caso non vi rimarrebbe più
si predicano di loro, ed esse non sono in nes che dubitare, e conseguentemente che diman
suna, nè di nessuna si predicano. dare. Se un principe mandasse chiedendo a
V. A quella foggia, chi levasse gl'individui chicchessia cento animali, e aggiugnesse an
del mondo, nell'universo non rimarrebbe cosa cora d' una spezie medesima, non saperrebbe
nessuna. -
colui, se non in genere, quello che mandare
C. Nessuna, nè l'universo medesimo; seb gli dovesse, cioè animali, ma non già se uo
ben pare che Aristotile in un luogo dica il mini o cavalli, o pecore; ma se mandasse a
contrario, cioè che, levati i generi e le spezie, chiedere cento uomini, già saperrebbe colui
non rimarrebbero gl'individui, ma, levati gl'in in ispezie che mandargli, ma non già perfet
dividui rimarrebbono le spezie e i generi; la tamente, come se dicesse: Mandami i tali e i
qual cosa si debbe intendere non dell'esser tali; così nè più, nè meno a chi dicesse: Dante
vero, ma dello intenzionale, come fanno i loici. scrisse in lingua italiana, s'arebbe a dimandare
V. E si dice pure che degl'individui, per di qual regione d'Italia; e a chi dicesse: Il
lo essere eglino si infiniti e si corrottibili, non Petrarca compose il suo Canzoniere in lingua
tratta nè arte, nè scienza veruna. toscana, s'arebbe a dimandare di qual città di
C. Egli è il vero: ma egli è anco il vero Toscana; ma se dicesse in fiorentina, sarebbe
che tutte l'arti e tutte le scienze furono tro fornito il lavoro.
vate dagl'individui e per gl'individui soli, C. In quante regioni, o lingue, e in qual
perchè ciò che si fa, e ciò che si dice, si dice, e dividono tutta l' Italia ?
si fa dagl'individui, e per gl'individui solamen V. In quattordici ; nella ciciliana, pugliese,
te; conciossiacosache, come n'insegna Aristo romana, spoletina, toscana, genovese, sarda,
tile, gli universali non infermano, e conseguen calabrese, anconitana, romagnuola, lombarda,
temente non si medicano, ma i particolari, viniziana, furlana e istriana.
cioè Socrate e Callia sono quelli che infer C. E ciascuna di coteste regioni non com
mano, e conseguentemente si medicano. prende diverse città e castella?
V. Se voi sapete cotesto, voi sapete anco V. Comprende.
che la lingua della quale ragioniamo, si dee C. E tutte hanno alcuna differenza tra loro
chiamare fiorentina, e non toscana o italiana. nel parlare?
C. Se io il so, io non so di saperlo. V. Tutte.
V. Facciamo a far buon giuoco , e non in C. E di tutte si compone la lingua italiana
gannarci da noi a noi. Se il genere si predica secondo loro ?
di più spezie, egli non può trovarsi che con V. Di tutte.
lui non si trovino insiememente più spezie; e C. Seguitate di dimandar voi; che io per
se la spezie si predica di più individui, ella, me son bello e chiaro.
senzachè più individui si trovino, trovare non V. Se uno volendovi chiamare per alcun
si può. Dunque se la lingua italiana è genere, suo bisogno, dicesse: O animale, che direste
come ella è, e come tutti confessano, bisogna voi ?
di necessità che abbia più spezie, e che cia C. Che fosse uno animale egli.
scuna spezie abbia necessariamente più indi V. E se dicesse: Uomo ?
vidui, e che ciascuno individuo abbia alcuna C. Crederrei che non sapesse, o si fosse di
differenza e proprietà, mediante la quale si menticato il mio nome.
distingua e conosca da ciascuno altro. Oltra V. E se, Cesare ?
che, se i generi e le spezie sono universali, gli C. Risponderegli graziosamente e bene.
universali non sono altro che i particolari stes V. Il somigliante accade nella nostra lingua
si, ei singolari medesimi, cioè gl'individui uni materna; perchè chi la chiama fiorentina, la
versalmente considerati. Onde è necessario ehiama Cesare, chi toscana, uomo, chi italia
che, trovandosi la lingua italica, come genere na, animale; il primo la considera come in
e la toscana come spezie, si trovino ancora i dividuo, il secondo, come spezie, e il terzo,
suoi individui; per non dire che, se ciò che come genere; onde il primo solo la chiamº
si dice e ciò che si fa, si fa e si dice per gl'in particolarmente e propriamente, e per lo sº
dividui, agl'individui si dee por nome princi vero, legittimo e diritto nome. Nè per questº
palmente, e non alle spezie e a generi. Se voi niego che le cose, e in ispezieltà le lingue, non
mi dimandaste d'alcuna pianta, come ella si si possano chiamare, e non si chiamino alcunº
chiamasse, e io vi rispondessi albero, o frutto, volta dalla spezie, e alcuna ancora dal genere;
questa si chiamerebbe cognizione generica, la ma dico, ciò farsi impropriamente, e che cº
quale è sempre incerta e confusa ; se vi ri tali cognizioni sono incerte e confuse, e con
spondessi un pero, questa cognizione sarebbe seguentemente imperfette. Onde quei filosofi
specifica, la quale è anch'ella confusa, e in che tenevano che il primo motore non conº
certa, ma non tanto, quanto la generica; se scesse gl'individui, ma solamente le sperº,
vi rispondessi un pero del signore o berga furono, e sono meritamente ripresi, perche tal
motto, o piuttosto il tal pero del tal padrone, confusione, essendo incerta e confusa, mostra
nel tale orto, colle tali qualita che lo distin rebbe in lui, il quale è non perfetto, ma lº
DIALOGO 43 i
perfezione stessa e la eagione di tutte le per l'Ancisa, o di Certaldo, e forse di Prato o di
fezioni, imperfezione. Pistoia, o di San Miniato al Tedesco, che fa
C. A me pare che tutti cotesti vostri argo reste voi ?
menti siano eſſicacissimi, ma non già che pro V. Riderei; benchè fossero più degni di com
vino l'intendimento vostro principale. passione che di riso; e voi che fareste?
V. Perche? C Quel medesimo; ma ditemi, vale questa
C. Perchè pruovano bene che le lingue non conseguenza, la quale io ho sentito fare a più
si debbiano chiamare nè dal genere, nè dalla d'uno? La lingua fiorentina si favella in Fi
spezie principalmente, ma dagl'individui; onde renze, Firenze e in Toscana, Toscana e in
io come confesserò che la lingua che si favella Italia: dunque la lingua fiorentina è toscana e
in Firenze, si debba chiamare fiorentina, e italiana.
non toscana, o italiana, così dirò anche che V. Perchè non aggiugnere ancora : E l'I-
quella che si favella a Siena, o a Pisa, o a talia è in Europa, e l'Europa nel Mondo, dun
Perugia si debbiano chiamare sanese, pisana e que la lingua fiorentina si può chiamare an
perugina, e così di tutte l'altre. cora europea e mondana, come diceva Socrate
V. Voi direste bene; ma che volete voi per di sè stesso. Questa ragione mi par somigliante
questo inferire? - a quella di quell'uomo dabbene, il quale aven
C. Che se Dante e gli altri non iscrissero in do la più bella casa che fosse in via Maggio,
lingua nè italiana, nè toscana, non perciò se diceva d'avere la più bella casa che fosse nel
guita che scrivessero in fierentino, e non avendo mondo, e lo provava così: Di tutte e tre le
scritto in fiorentino, la lingua colla quale scris parti del mondo l'Europa è la più bella. Di
sero, non si potrà, ne dovrà chiamare fioren tutte le provincie d'Europa l'Italia e la più
tina: il che è quello che voi intendevate da bella. Di tutte le regioni d'Italia, la Toscana
principio di voler provare. e la più bella. Di tutte le città di Toscana,
V. Oh, ve dove ella l'aveva ! Se eglino scris Firenze è la più bella. Di tutti e quattro i
sero in lingua o italiana, o toscana, o fioren quartieri di Firenze Santo Spirito e il più
tina, e voi confessate che non iscrissero nè in bello. Di tutte le vie del quartiere di Santo
toscana, nè in italiana, dunque seguita neces spirito via Maggio e la più bella. Di tutte le
sariamente che scrivessero nella fiorentina. case di via Maggio la mia è la più bella.
C. Seguita , e non seguita; seguita a chi Dunque la mia è la più bella casa di tutto i
vuole andare per la ritta e considerare sola mondo.
mente la verità: ma a chi vuole camminare C. Potenza in terra! questo è un bizzarro
per i tragetti e gavillare , non seguita. argomento; io non vorrei per buona cosa non
V. Perchè ? averlo imparato; ma domin s” e valesse, ora
C. Perchè potrebbe dire, loro avere scritto, che s'è ritrovato il mondo nuovo, dove di
non vo' dire nella norcina, ne nella bergama ragione si debbono trovare di molte maremme?
sca, ma nell' aretina, o nella sanese, o in al Ma, fuor di baja, perchè non vale questa con
cuna dell' altre, se non d'Italia, di Toscana. seguenza: Firenze è in Toscana, e conseguen
V. Egli si truova bene di coloro che dico temente in Italia, dunque la lingua fiorentina
no, la lingua fiorentina essere più brutta del è toscana, e conseguentemente italiana?
l'altre, come il Vellutello (1), o meno cor V. Chi vi dice che ella non vaglia? Non
retta, come il Muzio (2); ma niuno si truova v' ho io detto più volte che la lingua fioren
che dica, Dante, il Petrarca e 'l Boccaccio tina, come spezie è toscana, e come genere
avere scritto in lingua lucchese, o pisana, o italiana, siccome voi sete uomo e animale; e
finalmente in altra lingua che o volgare, o come voi sete anco corpo e sostanza, così la
dei si, o cortcgiana; delle quali favelleremo lingua fiorentina è ancora d'Europa e del
Poi; o fiorentina, o toscana, o italiana. Mondo; perche tutti i generi superiori infino
C. Se alcuno non l'ha detto, non è che nol al generalissimo, il quale è sempre genere, e
Potesse dire; e se 'l dicesse, che direste voi ? non mai spezie, si predicano di tutti i generi
V. Direi che se 'l cielo rovinasse, si piglia inferiori e di tutte le spezie e di tutti gl'in

| rebbono di molti uccelli, ma perchè egli non


rºvinerà, non si piglieranno. La ragione vuole
che essendo stati tutti e tre fiorentini, e non
ºssendo Firenze inferiore a nessuna altra città
dividui. -

C. Dunque, come Platone, si può chiamare


e uomo, e animale, e corpo, e sostanza, ma
non già all'opposto cosi la lingua fiorentina
d'Italia, essi scrivessero nella lingua loro bella si potrà chiamare toscana, e italiana, e d'Eu
º buona, e non nell'altrui, che forse non son ropa e mondana.
tali. V. Già ve l'ho conceduto.

le
C.quali
La non
ragione vuole molte volte molte cose,
si fanno poi come vuol la ragione. C. Dunque dicono il vero coloro che affer
mano, la lingua fiorentina essere e toscana e
Chi perseverasse di dire ostinatamente che a italiana.
loro non parve bella e buona la lingua fioren V. Il vero.
ºma, e che scrissero in quella d'Arezzo o del C. Perchè dunque volete voi che ella si chia
mi fiorentina?
(1) Vellutello sopra in cant. XXIV del Purg. di Dante. V. Perchè ella è , e l'inganno sta che le
v" Muzio nelle Battaglie al cap. ll 1 , della cose si debbono chiamare principalmente da
| gl' individui, e essi le chiamano dalle spezie
L' ERCOLANO
432
e da generi, come chi chiamasse voi o uomo, E Marziale, avendo posto tra suoi un bellissi
o animale e non conte Cesare, come propria mo, ma disonestissimo, epigramma di Cesare
mente doverebbe. Augusto, soggiunse di suo, ma non mica con
C. Io sono capacissimo di quanto dite, e quella purità e candidezza di lingua:
conosco che dite vero; ma per nettare tutti
i segni, e non lasciare, non che dubbio, sospi Absoleis lepidos nimirum, Auguste, libellos,
zione di dubbio, vi voglio di tutto quello che Qui scis Romana simplicitate loqui (1).
ho sentito addurre in contrario, e di che ho
E non solamente la chiamavano dalla spezie
dubitato io, dimandare. Perchè dunque, come latina, ma dal genere italiana.
si dice, comprendendo tutta la provincia, la C. Questo non sapeva io.
lingua franzese e la lingua spagnuola, e così V. Imparatelo da Orazio, che disse nel pri
dell'altre tali, non si può dire ancora la lin mo libro de sermoni nella settima satira:
gua italiana ?
V. Voi tornate sempre a quel medesimo: At Graecus postguam est Italo perfusus aceto
chiunque la chiama così, seguita un cotale uso Persius exclamat.
di favellare, e la chiama impropriamente, cioè
dal genere; perchè voi avete a sapere che in Che vuole significare altro questa metafora, ba
tutta la Francia quanto ella è grande, non è gnato d' aceto italiano, se non tocco e morso
castello alcuno, non che città o villa a lor mo dall'acutezza del parlare italiano? Imparatelo
do, nel quale non si favelli diversamente, ma ancora da Ovidio, il quale scrisse nel quinto
coloro i quali scrivono in Franzese, che oggi non libro di quella opera che egli intitolò de Tri
sono pochi, non solo uomini, ma donne ancora, stibus, cioè delle cose meste e maninconose:
scrivono nella parigina, come nella più bella, e Ne tamen Ausoniae perdam commercia linguae,
più regolata, e più atta a rendere onorati i suoi Et fiat patrio vox mea tuta sono.
scrittori che alcun'altra. E nelle Spagne avviene
il medesimo; anzi vi sono lingue tanto diverse Ipse loquor mecum.
che non intendono l'una l'altra, e conseguen Chiamavasi ancora appresso i medesimi poeti
temente non sono diverse, ma altre, come è Romulea da Romolo, come la Greca Cecropia
quella che da Vandali, i quali occuparono già da Cecrope Re degli Ateniesi, e Argolica dalla
la Spagna, si chiama ancora con vocabolo cor città d' Argo. Nè voglio lasciare di dire che i
rotto Andaluzza. E gran parte della lingua Spa Romani, servendosi nelle loro guerre de La
gnuola ritiene ancora oggi della lingua de'Mo tini, gli chiamavano non sottoposti, ma com
ri, da quali fu posseduta e signoreggiata poco pagni; laonde non fu gran fatto, che per man
meno che tutta grandissimo tempo, cioè infi tenersegli amici accomunassero loro, come già
nochè 'l Re Ferrando e la Reina Isabella, di fecero l'Imperio, il nome della lingua.
felicissima e immortale memoria, me li caccia C. Io ho letto in non so chi de' vostri che
rono; ma sola la Castigliana v' è in pregio, e i Romani in un certo modo sforzavano i loro
in quella, come più leggiadra e gentile, sono sudditi, per ampliare la sua lingua, a favellare
molti e molto eccellenti scrittori. latinamente.
C. Il Lazio era pure ed è, una regione d'I- V. Anzi niuna delle terre suddite poteva
talia, come la Toscana, nel quale erano più latinamente favellare, a cui ciò per privilegio,
città e castella, delle quali, come fu poi del e speziale grazia stato conceduto non fosse.
mondo, era capo Roma, e pur la lingua colla Udite le parole di Tito Livio nel quarantesi
quale favellavano e scrivevano, non si chia mo libro: Cumanis eo anno petentibus permis
mava Romana, ma Latina. sum ut publice Latine loquerentur, et praeconi
V. Voi lo sapete male. Appresso gli scrittori bus Latine vendendi jus esset. Cotesto che voi
antichi si trova così sermo Romanus, come ser dite aver letto fu poi, quando la lingua andava
mo Latinus, e auctores Romani, come Latini, e in declinazione, e al tempo degl' Imperadori;
forse più volte. E se nol volete credere a me, e perchè sappiate, tenevano gli antichi così
udite Quintiliano (1), il quale avendo fatto e Greci, come Latini, la cosa delle lingue in
dato il giudizio degli Scrittori Greci, e volendo maggior pregio, e più conto ne facevano che
fare e dare quello de Latini, scrisse nel de oggi per avventura non si crederebbe. A Pin
cimo libro quelle parole: Idem nobis per Ro daro per lo avere egli in una sua canzone lo
manos quoque auctores ordo ducendus est. E dato incidentemente la città d'Atene fu dagli
poco di sotto: Adeo ut ipse mihi sermo Ro Ateniesi, oltra molti e ricchissimi doni, diritta
manus non recipere videatur illam solam con pubblicamente una statua; e avendo inteso che
cessam Atticis Venerem. Udite il medesimo nel
i Tebani suoi cittadini per lo sdegno, o piut
l' ottavo (2): Ut oratio Romana plane videa tosto invidia presa di ciò, condennato l'avea
tur, non civitate donata. E Properzio, favel no, gli mandarono incontamente il doppio più
lando dell' Eneide, mentre si fabbricava da di quello che egli per conto di cotale conden
Virgilio, scrisse: magione era stato constretto a pagare; e io, se
Cedite Romani scriptores, cedite Graii, stesse a me, conforterei chi può ciò fare, che
Nescio quid majus nascitur Iliade (3). non solo a Toscani concedesse, ma eviandio a
(1) Quintil. Instit. Orat. lib. X. cap. I. tutti gl' Italiani il nome della lingua tiorenti
(2) Quintil. Instit. Orat. lib. VIII, cap. I.
(3) Propert. lib. 11, Eleg ultim. (1) Mart. lib. XI, epigr. XXl.
DIALOGO - 433
na; solochè essi cotal benefizio da lui e dalla italiana, lingua spagnuola, lingua francese e si
sua città di Firenze riconoscere volessero. mili ; e quando come specie, e a specie compa
C. Cotesto sarebbe ragionevole. Ma ditemi, rata si nomina, si dee per il nome della specie
gl' Italiani non intendono tutti il parlare fio nominare, come è lingua siciliana. lingua tosca
rentino ? na, lingua castigliana, lingua provenzale e si
V. Diavol' è; perchè volete voi che, se noi mili, ma quando poi come individuo, e a in
non intendiamo i Nizzardi, e alcuni altri po dividuo comparata si nomina, per il nome del
poli d'Italia, essi intendano noi? Udite quello l'individuo si dice, come lingua fiorentina, lin
che scrisse il Florido, mortalissimo nemico gua messinese, lingua toletana, lingua tolosana
della lingua volgare: Nec enim in tota Italia, e simili; e chi altramente fa, erra (1).
si hac lingua utaris , intelligere. Quid enim si C. A me pare che egli dica il medesimo ap
Apuliam, aut Calabriam concedas, et vernaculo punto che dite voi, o voi appunto il medesimo
hoc idiomate loquare? nae omnes te Syrophaeni che dice egli : e dubiterei che non faceste
cem, aut Arabem arbitrentur. E poco di sotto come i ladri; se non negasse che gli antichi
soggiugne: Qu d si in Siciliam, Corsicam, aut non iscrissono, e oggi non si scrive nè fioren
Sardiniam naviges? et vulgarem hanc linguam tinamente, nè toscanamente, ma solo in lingua
crepes ? non magis mehercule sanus videberis, italiana, perchè lo fece egli?
quam qui insanissimus. Ma ponghiamo che tutti V. Andate a indovinarla voi ; bisognerebbe
gl' Italiani intendano il parlar fiorentino, che che fosse vivo, e dimandarnelo; se già non si
ne seguirà per questo ? ingannò, o volle ingannarsi, nelle cose, e per
C. Che in tutta Italia sia una medesima lin le ragioni che si diranno; ma considerate quanta
gua naturale. forza abbia la verità. Messer Claudio mentre
V. Voi non vi ricordate bene della divisione chè si sforza di provarla toscana e non fioren
delle lingue, chè vi ricordereste che non ba tina, la prova, mediante le sue ragioni, fioren
sta intendere una lingua, nè favellarla ancora, tina e non toscana.
a volere che si possa chiamare lingua natia ; C. Queste mi paiono gran cose in tale e
ma bisogna intenderla e favellarla naturalmen tanto uomo, chente e quale lo predicate voi;
te, senza averla apparata da altri che dalle ma come si prova che egli faccia il contrario
balie nella culla. di quello che egli intende di fare?
C. Il Castelvetro (1), il Muzio (2) e tanti V. Non voglio che sia creduto a me, ma a
altri confessano, anzi si vantano d'averla ap messer Jeronimo Muzio, il quale nella lettera
parata non dalle balie e dal volgo, ma sola al signor Rinato Trivulzio dice queste parole :
niente da libri. Nè voglio lasciare di dire che se quelle città.
V. Tutti cotestoro vengono a confessare o per parlare più che l'altre fiorentinamente. mc
accorgendosene o non sene accorgendo, che la glio parlano, a me sembra ch'egli ispecialmente
lingua non è loro. si potesse risolvere che ella lingua fiorentina si do
C. Io dubito che voi vorrete che essi si vesse nominare (2). Che il Dolce ancora, traspor
diano la sentenza contro da sé medesimi. tato dalla verità, mentre vuole farla toscana,
V. Non ne dubitate più; che nelle cose la faccia fiorentina, udite le parole del mede
chiare non hanno luogo i dubbi. Dice il Tris simo Muzio (3) nella lettera a messer Antonio
sino (3) stesso, nella sua Sofonisba avere imi Cheluzzi da Colle, dove favellando del Dolce,
tato tanto il Toscano, quanto si pensava dal dice che per le ragioni che egli allega, ella
resto d'Italia potere essere facilmente inteso: piuttosto si doverrebbe chiamare fiorentina
dal che seguita, come bene gli mostrò il Mar che toscana. -

telli, la Toscana lingua essere tanto dall'altre C. Se voi seguitate di così fare, voi non ci
italiane dissimile, che non è per tutta Italia metterete troppo di bocca, nè di coscienza;
intesa. ma io vorrei sapere se voi confessate che nella
C. Questo è un fortissimo argomento; che lingua fiorentina sieno vocaboli, e modi di dire
gli rispose il Trissino nel suo Castellano? dell'altre città, e lingue di toscana e d'It -
V. Ne verbum quidem , e che volevate voi lia; ma innanzichè rispondiate, vi do tempo a
ch'egli rispondesse ? Ma notate queste parole considerare la risposta, perchè questo è forse
nelle quali afferma per verissimo tutto quello tutto il fondamento del Trissino e di molti
che io ho detto: E più dirò che quando la lin altri.
gua si nomina come genere, e a genere compa V. Non occorre che io la consideri, perchè
rata, non si può dirittamente per altro che per a cotesta parte vi risposi di sopra, quando vi
il nome del genere nominare, come è la lingua dissi di quanti e quali linguaggi ella era con
posta, e ora vi confesso di nuovo che ella ha
(1) Il Castelvetro nella Replica. vocaboli non solo di Toscana o d'Italia, ma
(2) Il Muzio nelle Battaglie a cart. 5 e 6, ec. quasi di tutto il mondo.
(3) Il Trissino nella lettera dedicatoria della Sofonisba, che
egli intilolò a Leon X, dice cosi: Manifesta cosa e che (1) Il Trissino nel Castellano poco appresso, il principio.
avendosi a rappresentare in Italia, non potebbe essere intesa (2) Girolamo Muzio nelle Battaglie a cart. 8.
da tutto il popolo, se ella fosse in altra lingua che italiana (3) il viuzio nel cap. XX della Varchina, che è nelle
composta Ma non vide che chi compone in lingua toscana, sue Battaglie, dice che intende di provare che il Tolomei,
è inteso da tutta Italia ottimamente; il che non sarebbe av e il Dolce portano argomenti che concluderebbero che la lin
venuto al Trissino, se egli avesse scrillo nella lingua di Vi gua si dovesse chiamare fiorentina, ma che però non approva
tetiziº, l questa conclusione,
-

VARCHI V, i 55
434 L' ERCOLANO
C. lo mene ricordava, ma voleva vedere se " esempio in volendo mostrare che la lingua non
il raffermavate senza la stanghetta; ma poiche si potrebbe chiamare fiorentina, quando vi
raffermato l'avete, vi dico, per un argomento fossero entro non che tante e tante, ma pur
del Trissino, che questa lingua non può chia due parole sole forestiere; dicendo che se fra
marsi nè fiorentina, ne toscana, ma bisogna cento fiorini d' oro fossero due grossi d' ar
chiamarla per viva forza, e a marcio dispetto gento solamente, non si potrebbe dire con ve
italiana. rità, tutti quegli essere fiorini.
V. Chi ha la verità dal suo, non ha paura V. Gli esempli non mancano mai, ma fu
d'argomento nessuno; ma quale è questo ar rono trovati per manifestare le cose, non per
gomento che voi fate sì gagliardo ? provarle, onde non servono a oscurare le chia
C. Uditelo da lui stesso colle parole sue me re, ma a chiarire le oscure. Ditemi voi, se
desime: Le specie con altre specie mescolate non quei due grossoni d'argento per forza d'ar.
si possono tutte insieme col nome d'alcuna spe chimia, o arte di maestro Muccio diventassero
cie nominare, ma bisogna nominarle col nome d'oro, non si potrebbono eglino chiamare poi
del genere i verbigrazia, se cavalli, buoi, asini, tutti fiorini?
pecore e porci fosseno tutti in un prato, non si C. Si ; ma l'arte di maestro Muccio sono
potrebbono insieme nè per cavalli, nè per buoi, bagattelle e fraccurradi, e l'archimia vera non
nè per nessuna dell'altre specie nominare. ma si truova.
bisogna per il genere nominargli, cioè animali; V. Le lingue n'hanno una, la quale è ve
chè altrimente vero non si direbbe. rissima e senza congelare mercurio, o rinver
V. Quegli argomenti i quali si possono age gare la quinta essenza, riesce sempre; percioc
volmente e senza fatica nessuna abbattere e chè ogni volta che accettano e mettono in uso
mandare per terra, non si deono chiamare nè qualsivoglia parola forestiera, la fanno divenire
forti, nè gagliardi. Io dimando voi, se quei loro.
cavalli, buoi, asini, pecore e porci che fossono C. Non si può negare, ma elle non saranno
a pascere o a scherzare in su quel prato, fos mai così proprie, come le natie.
sero di diverse persone, se si potrebbono chia V. Basta, che elle saranno o come i figliuoli
mare d'un padron solo? adottivi, che pure sono legittimi e redano, o
C. Rispondetevi da voi; che io non lo di come quei forestieri che sono fatti o da Prin
re mai,
cipi o dalle Repubbliche cittadini, i quali col
V. E se non gli comperasse tutti, o gli fos tempo divengono bene spesso degli Anziani, e
sero donati da loro signori, potrebbonsi chia de più utili e più stimati della città. Non sa
mare d'un solo? pete voi che per una legge sola d'Antonino
C. E anche a cotesto lascerò rispondere a Pio tutti gli uomini ch'erano sotto l'Imperio
voi; ma dove volete voi riuscire? e che ha da Romano, furono fatti cittadini Romani ?
fare questa dimanda coll'argomento delle pe. C. Si so; ma Antonino era Imperadore, e lo
core e de porci del Trissino? poteva fare; dove il Trissino negando ciò della
V. Più che voi non credete; perche come lingua toscana, non che della fiorentina, dice
alcuno può far suo quello che è d'altri, così queste parole: Dico prima, che io non so pen
una lingua può, accettandogli e usandogli far sare per qual cagione la lingua toscana debba
suoi quei vocaboli che sono stranieri. Vedete avere questo speciale ed amplo privilegio di pren
errori che commettono otta per vicenda gli dere i vocaboli dell'altre lingue, e fargli suoi,
uomini grandi e quanto prudente e giudizio e che l'altre lingue d' Italia poi non debbiano
samente n'anmaestrò Aristotile, che da co avere libertà di prendere i vocaboli d'essa, e
loro i quali scrivono per mantenere e difen fargli loro. Nè so rivenire per che causa le pa
dere una loro opinione, ci devemo guardare. role che ella piglia dell'altre lingue d' Italia,
La lingua romana era composta non dico per non debbiano ritenere il nome della loro propria
la maggiore, ma, per la sua grandissima par lingua, dalla quale sono tolte, ma debbiano per
te, di vocaboli e modi di dire greci, e nien derlo, e chiamarsi toscane. Nè mi può ancora
tedimeno mai greca non si chiamò, ma romana cadere nell'animo che i vocaboli che sono a
sempre, perche a Roma e non in Grecia, natu tutte le lingue comuni, come Dio, amore, cielo,
ralmente si favellava ; e se nol volete credere terra, acqua, aere, fuoco, sole, luna, stelle,
a me, ascoltate le parole di Quintiliano nel uomo, pesce, arbore e altri quasi infiniti, deb
primo libro: Seul haec divisio mea ad Graecum biano piuttosto chiamarsi della lingua toscana
sermonem praecipue pertinet, nam maxima ex che dell' altre che parimente gli hanno, i quali
parte fomanus inde conversus est (1). senza dubbio di niuna lingua d' Italia sono
C. Io non so, se io m'avessi creduto questo propri, ma sono comuni di tutte, ec. (1).
ad altri che all'autorità di si grande e giudi V. A tutte e tre coteste, non so con che
zioso uomo, perchè si suol dire che il tutto nome chiamarmele, e agevolissimo il risponde
o la maggior parte tira a se la minore; il che re: perchè, quanto alla prima, non è vero che
veggo non aver luogo nelle lingue; e ora con solo alla Toscana, poichè toscana la chiama,
sidero che, se ciò fosse vero, cosi la Spagna e conceduto questo amplo sì, ma non già spe
e la Francia, conc l' Italia, non arebbono ziale privilegio, ma a tutte quante l'altre lin
lingue proprie. Ma il Trissino usa un altro
(1) Il Trissino nel Castellano, di cui per non esser nè
(1) Quall. Iustit. Oiat. lib. 1, cap. V. l pur numerate le gue, non si puo accennare il luogº preciso
DIALOGO 435
gue non pure d'Italia, ma fuori; e se i Vi- Il sero i buoni autori, la quale tra gli altri co
centini per lor fortuna, o industria, e così in gnomi si nomina lingua illustre e cortegiana,
tendo di tutti gli altri popoli, avessono avuto perciocchè si usa nelle corti d'Italia, e con
la lor lingua così bella e così regolata, o l'a- essa ragionano comunemente gli uomini illustri
vessero così regolata, e così bella fatta, me e i buoni cortigiani. E in un altro luogo vo
diante la dottrina e l' eloquenza loro, e così lendo provare il medesimo, allega le mede
nobile mediante i loro scrittori, come si vede sime parole di quello autore, ma tradotte così:
essere la fiorentina, chi può dubitare che ella Questo volgare adunque, che essere illustre, car
nel medesimo pregio sarebbe, e il medesimo dinale, aulico e cortigiano avemo dimostrato,
grido avrebbe che la fiorentina? la quale se dicemo esser quello che si chiama volgare ita
non d' altro, l'ha almeno tolto loro del trat liano, perciocchè, siccome si può trovare un vol
to, o a vostro modo, della mano; e il pro gare che è proprio di Cremona, così se ne può
verbio nostro dice che Martino perde la cappa trovare uno che è proprio di Lombardia, e un
per un punto solo. Quanto alla seconda, è altro che è proprio di tutta la sinistra parte di
medesimamente non vero che le parole tolte Italia, e siccome tutti questi si ponno trovare,
da qualsivoglia lingua, sebbene pigliano il così parimente si può trovare quello che è di
nome di quella che le toglie, non ritengono tutta Italia : e siccome quello si chiama cremo
ancora quello della lingua dalla quale sono nese, e quell'altro lombardo, e quell'altro di
tolte; perchè filosofia, astrologia, geometria e mezza Italia, così questo che è di tutta Italia,
tanti altri, sebbene sono fatti e divenuti della si chiama volgare italiano, e questo veramente
lingua, non è che ella non gli riconosca dai hanno usato gl' illustri dottori che in Italia
Latini, come i Latini gli riconoscevano dai hanno fatto poemi in lingua volgare, cioè i Si
Greci. E che vuol dire che tutto il dì si di ciliani, i Pugliesi, i Toscani, i Romagnuoli, i
ce: Questa è voce greca, questo è nome lati Lombardi, e quelli della Marca d Ancona e
no, questo vocabolo è provenzale, questa di della Marca Trivigiana (1). -

zione si tolse dalla lingua ebrea, questo modo C. Per la medesima ragione, e colla stessa
di dire si prese da Franzesi o venne di Spagna? proporzione credo io che egli arebbe potuto
C. Queste sono cose tanto conte e manife dire che si fosse potuto trovare una lingua
ste, ch'io non so immaginarmi, non che rin comune a tutta Europa, e un'altra comune a
venire, perchè egli le dicesse. tutto 'l mondo, ma che ne pare a voi?
V. E anco avete a sapere che le lingue e V. A me pare che tutte le parole soprad
la forza loro non istanno principalmente nei dette siano vane e finte, e in somma, come
vocaboli soli, che non significano, si può dir, le chimere, alle quali in effetto non corri.
nulla, non significando nè vero, nè falso; sponde cosa nessuna. Il Trissino medesimo vuole
ma ne' vocaboli accompagnati e in certe pro ehe non solo tutte le città di Toscana, e tutte
prietà e capestrerie, per dir così delle quali le castella, e tutte le ville abbiano nel par
è la fiorentina lingua abbondantissima; e niuno lare alcuna differenza tra loro; il che è vero;
il quale sia senza passione, negherà che, come ma eziandio ciascuna via, ciascuna casa e cia
la latina è più conforme all' Eolica, che ad al seuno uomo; il che s' è vero, non è conside
cuna altra delle lingue greche, così la fioren rabile in una lingua, nè si dee mettere in conto.
tina è più conforme e più somigliante all'at Ora io vorrei sapere quando, dove, come, e
tica; e, per vero dire, la città di Firenze e da chi, e con quale autorità fu formata quella
quanto alla sottigliezza dell'aria, e conseguen lingua che si chiama lingua toscana, e così
temente all'acume degl'ingegni, e quanto agli quando, dove, come, e da chi, e con quale
ordinamenti, e molte altre cose ha gran somi autorità di quattordici regioni, ciascuna delle
glianza, e sembiante stella colla città d'Atene. quali ha tante città, tante castella, tanti bor
Quanto alla terza e ultima cosa, cioè alla co ghi, tante vie, tante case, e finalmente tanti
munità de' vocaboli, egli è necessario che io uomini, tutte, e tutti diversamente parlanti,
per iscoprirvi questo o errore o inganno, e si formasse quella lingua che si chiama lingua
farvi affatto capace di tutta la verità, mi di italiana. -

stenda alquanto. Dovete dunque sapere che il C. E' mi pare di ricordarmi che egli rispon
Trissino volendo mostrare ch' egli si trovava da a cotesta obbiezione, facendo dire a mes
una lingua comune a tutta Toscana, e un'altra ser Giovanni Rucellai , castellano di Castel
comune a tutta Italia, e che questa ultima è S. Agnolo, queste parole: Palla mio fratello
quella nella quale scrissero Dante, e gli altri ha qualche vocabolo, e modo di dire, e pro
buoni autori, dice, seguitando l'autorità di nunzia differente dalla mia, per le quali le no
chiunque si fosse colui il quale compose il li stre lingue vengono ad essere diverse. Rinnovia
bro della Volgare Eloquenza latinamente, ben mo adunque quegli vocaboli, e modi di dire, e
chè egli afferma che fosse Dante, queste pa pronunzie diverse, e allora la sua lingua, e la
role proprie : Perciocche, siccome della lingua mia saranno una medesima, e una sola. Così i
fiorentina, della pisana, della sanese e lucchese, Certaldesi hanno alcuni vocaboli, modi di dire,
aretina e dell'altre, le quali sono tutte toscane, e pronunzie differenti da quelli di Prato, e
ma differenti tra sè, si forma una lingua che quelli di Prato da quelli di San Miniato, e di
si chiama lingua toscana, così di tutte le lin Fiorenza, e così degli altri lochi fiorentini, ma
gue italiane si fa una lingua che si chiama
lingua italiana, e questa è quella in cui scris (1) ll Trissino uel Castellano verso la fine.
436 L' ERCOLANO

chi rimovesse a tutti le differenti pronunzie, ancora noi della lingua toscana, della romana,
modi di dire, e vocaboli che sono tra loro, non della siciliana, della viniziana, e dell'altre d'I-
sarebbono allor tutte queste lingue una mede talia ne formiamo una comune, la quale si di
sima lingua fiorentina, e una sola? manda italiana. E della medesima sentenza
FIL. Sì, sarebbono. pare che sia il Castiglione, scrivendo nel pri
CAst. A questo medesimo modo si ponno an mo libro del suo Cortegiano queste parole:
cora rimuovere le differenti pronunzie, modi di Nè sarebbe questo cosa nuova, perchè delle quat
dire, e vocaboli alle municipali lingue di to tro lingue che avevano in consuetudine i scrit
scana, e farle una medesima, e una sola, che tori greci, eleggendo da ciascuna, parole, modi,
si chiami lingua toscana; e parimente rimo e figure, come ben lor veniva, ne facevano na
vendo le differenti pronunzie, modi di dire, e scere un' altra che si diceva comune, e tutte
vocaboli che sono tralla lingua siciliana, la pu cinque poi sotto un sol nome chiamavano lingua
gliese, la romanesca, la toscana, la marchiana, greca (1).
la romagnuola, e l'altre dell'altre regioni d'I- V. Quando le ragioni di sopra non militas
talia, non diverrebbono allora tutte una istessa sero, le quali militano gagliardissimamente, a
lingua italiana? cotestoro risponde il Bembo (2) nel primo li
FIL. Sì, diverrebbono, ec. bro delle sue Prose con queste parole poste
V. Questa è una lunga tiritera; e quando nella bocca di messer Trifone Gabriele: Che
io concedessi che ciò fosse possibile a farsi, siccome i Greci quattro lingue hanno, alquanto
non perciò seguirebbe che egli fatto si fosse. tra sè differenti e separate, delle quali tutte una
C. Basta che, se egli non s'è fatto, si po ne traggono che niuna di queste è, ma bene ha
trebbe fare. in sè molte parti, e molte qualità di ciascuna;
V. Forsechè no. così di quelle che in Roma per la varietà delle
C. Domin fallo, che voi vogliate negare, ciò genti che siccome fiumi al nare, vi corrono, e
essere possibile l allaganvi d'ogni parte, sono senza fallo infinite
V. Non io non voglio negare che sia pos se ne genera cd e scene questa che io dico, cioè
sibile. la Cortigiana. E poco di sotto, volendo ribat
C. Se è possibile, dunque si può fare. tere così frivolo argomento, fa che messer Tri
V. Cotesta conseguenza non vale. fone risponda : che oltra che le lingue della
C. Come non vale ? qual è la cagione ? Grecia erano quattro, come dicea, e quelle di
V. La cagione è, che molte cose sono pos lioma tante, che non si numerarebbero di leg
sibili a farsi, le quali fare non si possono. giere, delle quali tutte formare, e comporne
C. Questa sarà bene una loica nuova, o una una terminata e regolata non si potea, come
filosofia non mai più udita. Come è possibile di quattro s' era potuto; le quattro greche
che quello che è possibile a farsi, non si possa nella loro propria maniera s'erano conservate
fare ? continovo, il che aveva fatto agevole agli uo
V. Ella non è così nuova, nè tanto inau mini di quei tempi dare alla quinta certa qua
dita, quanto voi vi fate a credere, e bisogne lità e certa forma. Voi vedete, le lingue gre
rebbe che io vi dichiarassi le possibilità, o po che non erano se non quattro, e il Benbo a
tenze loice; ma io lo vi farò toccar con mano gran pena concede che di loro se ne facesse
con uno esemplo chiarissimo, per non mi di una comune, pensate come arebbe conceduto
scostare tanto, nè tante volte dalla materia che di tutte le lingue italiane, che sono tante
proposta. Ditemi, è egli possibile che due uo che è un subbisso; poichè il Trissino vuole
mini, essendo in sulla cupola, o in qualunque che ciascuno abbia la sua differenziata da
altro luogo, e versando un sacco per uno pie quella di ciascun altro; come arebbe conce
no di dadi, è possibile, dico, che quelli d'un duto, dico, che di tante centinaia di migliaia
sacco caggendo in terra si rivolgessero in guisa, e forse di milioni, se ne fosse potuto fare una
che tutti fossero assi, e quegli di quell'altro sola ? Ma io, che non intendo frodarvi di cosa
tutti sei? nessuna, voglio dirvi anco in questo libera
C. È possibile, e niuno può negarlo; credo mente l'opinione mia. Io non credo che quello
lene, anzi sono certissimo che non avverrebbe che dicono così grandi uomini, e tanto dotti
mai; così volete dir voi, potersi chiamare pos ancora nelle lettere greche, sia vero, sebbene
sibile, ma non essere, che di tutte le terre di hanno ancora dalla parte loro eziandio dei
Toscana, e di tutte quelle d'Italia si rimuo Greci medesimi. Io per me credo che la lin
vano tutte le pronunzie, tutti i vocaboli, e gua comune non solo non nascesse dal mesco
tutti i modi di dire; e in vero questa cosa si lamento delle quattro proprie, come dicono
può più immaginare colla mente, o dire colle essi, e per conseguente fosse dopo, e come fi
parole, che mettersi in opera co fatti: ben gliuola loro; ma che ella fosse la besa e il
che quando ancora si potesse fare per l'av fondamento, e per conseguente prima, e come
venire, a voi basta che ella non sia stata fatta madre di tutte; e così pare non pur verisi
insin qui. Ma state a udire; egli per provare mile ma necessario che sia, perche la Grecia
questo suo detto dice in un altro luogo que ebbe da principio una favella sola che si chia
ste stesse parole : Perciocchè, siccome i Greci
delle loro quattro lingue, cioè dell'attica, della (1) Baldass. Castigl nel Lib. I, del Cortig. a cart. 57,
ionica, della dorica, e dell'eolica formano un'al dell'edizione del Giolito in Venezia, 1559.
(2) Bembo, Pros. lib. I, a cart. 88 dell'edizione di Na
tra lingua che si dimanda lingua comune, così poli del 1714.
DIALOGO 437
mava la lingua greca, poi, dividendosi in più in quello di Firenze, che in ciascuno degli al
parti, e principalmente in quattro, ciascuna tri; dico non quanto alla dottrina, ma quanto
delle quattro o aggiunse, o levò, o mutò al alle parole e alle maniere del favellare.
cuna cosa alla lingua comune, onde ne na | C. Messer Lodovico Martello usò cotesto ar
cquero quelle quattro, le quali si chiamavano gomento proprio contra il Trissino; ma egli
non lingue propriamente, ma dialetti, e cia nel Castellano lo niega, affermando che le don
scuna dialetto era composta di due parti, cioè ne di Lombardia intendeano meglio il Petrarca
della lingua comune, e di quelle proprietà che le fiorentine, che rispondete voi?
che esse aveano oltra la lingua comune, che | V. Che egli scambiò i dadi, ma come co
si chiamavano propriamente idiomi: sebbene lui che non devea essere troppo solenne ba
cotali vocaboli talvolta si scambiano, piglian rattiere, non lo fece di bello, ma si alla sco
dosi l'uno per l'altro, e l'altro per l'uno. perta, che ogni mezzano non dico mariuolo,
Vedete oggi mai voi per quanti versi, e con o baro, ma giucatore l' arebbe conosciuta, e
quante ragioni si mostri chiarissimamente, e fattogli rimettere su i danari. Il Martello in
quasi dimostri, impossibile cosa essere, trovarsi tende naturalmente e degl' idioti e de' conta
una lingua la quale sia propriamente o tosca dini, e il Trissino piglia le gentildonne, e quelle
na o italiana. che l'aveano studiato; che bene gli arebbe,
C. Tanto ne pare a me; ma ditemi ancora, secondochè io penso, conceduto il Martello
un fiorentino il quale fosse stato a Lucca, e che più s'attendeva, e massimamente in quel
favellasse mezzo fiorentino e mezzo lucchese, tempo, alla lingua fiorentina in Lombardia, e
e un altro che fosse stato a loma, e favellasse meglio s'intendea da alcuno particolare, che
mezzo fiorentino e mezzo bergamasco, volli in Firenze comunemente. Ma facciasi una cosa
dire romanesco, in qual lingua direste voi che la quale potrà sgannargli tutti; piglinsi scrit
costoro favellassero ? ture (1) o in prosa o in verso scritte natural
V. O in nessuna, o in due, o in una sola mente, e da persone idiote di tutta Italia, e
imbastardita. veggasi poi, quali s'avvicinano più a quelle
C. Il Trissino disse (1) che il primo parle de tre maggiori nostri, e migliori; o sì vera
rebbe toscano, e il secondo italiano, e così mente coloro che dicono che la lingua è ita
vuol provare che si ritruovinº la lingua to liana, scrivano o in verso o in prosa, ciascuno
scana e l'italiana. nella sua propria lingua natia, e allora ve
V. Gentil pruova; io so bene che già in dranno, qual differenza sia dall'una all'altra,
non so qual terra di Cicilia si favellava mesco e da ciascuna di loro a quelle eziandio degli
latamente e alla rinfusa greco e latino, e oggi idioti fiorentini, ancora quando scrivono, o di
in Sardigna o in Corsica che si sia, da alcuni cono all'improvviso. Io non voglio por qui
si favella volgarmente il meglio che possono, gli esempli d'alcuni componimenti che io ho
e da alcuni più addentro dell'isola latina di diverse lingue italiane, sì per non parere
mente il meglio che sanno. Ma le lingue me di voler contraffare in cosa non necessaria i
scolate e bastarde che non hanno parole, nè Zani, e si perchè io credo che ciascuno si
favellari propri, non sono lingue, e non se ne immagini, e vegga coll'animo quello che io
dee far conto, nè stima nessuna, e chi vi scri non dicendo mostro per avventura meglio, che
vesse dentro sarebbe uccellato e deriso, se già se io lo dicessi.
nol facesse per uccellare egli, e deridere al C. Ciascun bene non è egli tanto maggiore,
tri; come fece quel nuovo pesce che scrisse quanto egli maggiormente si distende?
ingegnosissimamente in lingua pedantesca, che
non è nè greca, ne latina, nè italiana, la Glot C. Non è più nobile il tutto, che una poca
tocrisia contra messer Fidenzo. parte? -

C. Quando io la lessi, fui per ismascellare


delle risa. Ma Dante scrisse pure la canzone C. Non è maggior cosa, e più onorata cs
in lingua trina (2). sere re di tutta Italia , che signor di Toscana
V. Alcuni dicono che ella non fu di Dante, e di Firenze?
ma, fosse di chi si volesse, ella non è stata, e V. È.
non sarà gran fatto imitata. C. Per tutte e tre queste ragioni vuole il
C. Avete voi esemplo nessuno alle mani, me Muzio che la lingua si debbia piuttosto chia
diante il quale si dimostrasse così grossamente mare italiana, che toscana, o fiorentina.
ancora agli uomini tondi, che Dante, e gli al V. Quanto alla prima, vi rispondo che sa
tri scrissero in lingua fiorentina ? rebbe bene che tutti gli uomini fossero buoni
V. Piglinsi le loro opere, e leggansi alle e virtuosi, ma per questo non segue che siano:
persone idiote, e per tutti i contadi di To se fosse bene che la lingua fiorentina si di
scana e di tutta Italia, e vedrassi manifesta stendesse per tutta Italia, e a tutti fosse na
mente che elle saranno di gran lunga meglio tia, non voglio disputare ora; ma ella non è.
intese in quegli di Toscana, e particolarmente
(1) Ciò fece dipoi il cavaliere Lionardo Salviati ne' suoi
Avvertimenti, in fine del primo volume, riportando la No
(1) Giovanni Giorgio Trissino nel Dialogo intitolato il - vella IX, del Boccaccio, volgarizzata in undici volgari di
Castellano. varie città d'Italia, e poi nel volgare della plebe fiorentina, e
(2) Questa Canzone è a cart. 22 de'Poeti Antichi stam- º fece vedere che quest' ultimo s'appressava più alla lingua del
pata da Giunti nel 1527. il Boccaccio senza comparazione.
438 L' ERCOLANO

Quanto alla seconda, egli è ben vero che Fi conti, e tanto più che io intendo non di quelle
renze è picciola parte di Toscana, e menomis che appartengono alla dottrina, nelle quali non
sima d' Italia, come d'un tutto, e conseguen approvo nè l'una né l'altra, ma al modo, e
temente meno nobile di loro: ma la lingua modestia dello scrivere.
fiorentina, la quale è accidente, non è parte C. Se io m'appongo di due o di tre, con
della lingua toscana, nè dell'italiana, come fesseretelo voi ?
d' un tutto, ma come d'una spezie e d'un ge V. Perchè no ?
nere: e voi sapete quanto gl'individui ancora C. Io penso che non vi piacciano quelle
degli accidenti, i quali se sono in alcuno sub parole: E gia detto vi ho che egli è cosa stata
bietto, non si predicano di subbietto alcuno, scritta da un toscano, nè quell'altre poco di
sieno più nobili che le spezie e i generi non sotto : Vi dirò adunque con più parole quello
sono, le quali e i quali non si ritruovano al che con un solo motto a me pareva d'avere a
trove che negli animi nostri. Quanto alla terza bastanza espresso, e manco quell'altre, giu
ed ultima, maggior cosa per me sarebbe, e cando pure sopra il medesimo tratto: Or che
più onorata che io fossi conte, o qualche gran ve ne pare infino a qui? Non mi sono io bene
Barbassoro, ma se io non sono, non debbo vo risoluto che un toscano abbia scritto quel li
lere chiamarmi o essere chiamato, per non bretto ? -

mentire, e dar giuoco alla brigata, come fa V. Voi vi sete apposto; perchè non so che
rebbe se uno che fosse re di Toscana, si chia conseguenza si sia : un toscano ha scritto della
masse, o volesse essere chiamato re d'Italia. lingua toscana e italiana, e ha giudicato in
C. Ma che rispondete voi a quello esemplo favore della toscana; dunque ha giudicato o
che egli allega nelle lettere a messer Gabriello male, o con passione. A questo ragguaglio ne
Cesano, e a messer Bartolomeo Cavalcanti con gli Ateniesi, ne i Romani, nè alcuno altro po
queste parole: A me pare che nella Toscana polo arebbono potuto scrivere delle lingue
sia avvenuto quello che suole avvenire in quei loro in comparazione dell'altre, se non o male,
paesi dove nascono i vini più preziosi, che i o con passione. Che più? Il Muzio (1) e ita
mercatanti forestieri i migliori comperando, que liano, e ha scritto in favore della lingua ita
gli se ne portano, lasciando a paesani i men liana contra la toscana; dunque ha scritto
buoni: così, dico, è a quella regione avvenuto, male, o con passione (2).
che gli studiosi della toscana lingua dall'al C. Anco quello esemplo di Dio, che nei
tre parti d'Italia ad apprender quella concor cieli sparga le grazie all'intelligenze, non cre
rono, in maniera che essi con tanta leggiadria do che vi piaccia, nè che vi paja troppo a
la recano nelle loro scritture, che tosto tosto po proposito, e che vi stia anzi a pigione che no
tremo dire che la feccia di questo buon vino V. Ben credete.
alla Toscana sia rimasa (1). C. Nè anco che egli dica che Pistoia non è
V. Risponderei, se egli intende che in Fi stata compresa da messer Claudio (3) in To
renze non si favelli meglio che in ciascuna di scana, credo che vi soddisfaccia.
tutte l' altre città d'Italia e di Toscana, ciò V. Non certo, conciossiacosachè messer Clau
non esser vero ; ma se egli intende che si tro dio la comprende, se non nominatamente, al
vino de forestieri i quali non solamente pos meno senza dubbio nessuno in quelle parole:
sano scrivere, ma scrivano meglio de' Fioren E l'altre vicine; sicchè l'autorità di messer
tini, cioè alcuno forestiero, d'alcuno fiorenti Cino non ha da dolersi. Ma entriamo in cose
no, lo confesserò senza fune. Dico di Firenze di maggiore utilità; che io riprendo malvolen
e non di Toscana, perchè egli nella medesima tieri i nimici, e le persone idiote, non che gli
lettera testimonia che tutto quello che egli uomini dotti e amicissimi miei.
dice di Toscana, dice ancora conseguentemente C. Venghiamo dunque, ch' omai n'è ben
di Firenze, e a ogni modo quell'esemplo non tempo, alle autorità che allegano per la parte
mi piace, perchè non mi pare nè vero, nè a loro.
proposito; e volentieri intenderei da lui, il V. Quali sono?
quale io amo ed onoro, e spendereci ancora C. Dante primieramente la chiama spesse
qualcosa del mio, se quel tosto tosto s'è an fiate italiana o italica, sì nel Convivio, e si
cora adempiuto e verificato, e chi coloro sieno massimamente nel libro della Volgare Elo
i quali adempiuto e verificato l'hanno. quenza.
C. Che vi pare della Lettera al signor Ri V. Quanto al Convivio, messer Lodovico
nato Trivulzio (2), contra l'opinione di mes Martelli risponde, che egli così larghissima
ser Claudio ? mente la nomina, quasi a dimostrare dove è
V. Che egli non la scrisse nè con quel giu il seggio d'essa, ovvero che egli s'immagina
dizio, nè con quella sincerità che mi suol pa che dicendo l'italica lingua, s'intenda quella
rere ch'egli scriva l'altre cose. lingua la quale è imperatrice di tutte l'ita
C. Per quali cagioni ? liane favelie. Ma perchè queste sono opinioni
V. Non importando che alla verità della solo da semplici congetture procedenti, io di
nostra disputa, non accade che io le vi rac
(1) Il Muzio nella Lettera a Renato Trivulzio.
(1) Il Muzio nelle Battaglie a cart. 5. (2) Il Muzio nelle Battaglie al cap. XXIV, ee della
(2) Questa Lettera del Muzio è stampata pur nelle sue Varchina, risponde al Varchi, ma al solito.
Battaglie a cart. 7, dell'edizione di Vinegia del 1382. (3) Messer Claudio Tolomei nel Cesano.
DIALOGO 439
rei piuttosto che egli la chiamò così dal ge buiscono arrogantemente il titolo del Volgare
nere: il che esser vero, o almeno usarsi, di illustre, voglia provare tante cose, e mostrare
mostranmo di sopra; e massimamente che che niuna città di Toscana ha bel parlare con
Dante stesso nel medesimo Convivio dice più due parole sole, dicendo cosi: I Fiorentini par
volte d'avere scritto ora nella sua naturale, lano e dicono: Manichiamo introcque non fac
e ora nella sua propria, e ora nella sua pros ciamo altro, i Pisani: Bene andomio gli fanti
simana , e più unita loquela; e si vede di Firenze per Pisa; i Lucchesi: Fo voto a Dio,
chiaro ch'egli intende (1) della fiorentina, che 'ngassaria cieli comuno di Lucca ; i Sanesi:
come mostrano messer Lodovico, e messer Onche rinegato avessi io Siena, gli Aretinis
Claudio, ancorachè 'l Trissino lo nieghi. E vuo tu venire ov'elle (1).
chi vuole chiarirsi e accertarsi di maniera C. Oltrachè io credo che queste parole siano
chè più non gli rimanga scrupolo nessuno, scorrette, e mal tradotte, queste mi pajon cose,
legga il nono, il decimo, l'undecimo, il dodi che se pure fossero state scritte da lui, non
cesimo, e tredicesimo capitolo del Convivio. sarebbono sue, come diceste voi.
E chi vuole credere piuttosto al Boccaccio (2) V. Ditemi che egli stesso usa quelle mede
che a Dante proprio, legga il quindicesimo sime parole che egli biasima e riprende nei
libro delle Genealogie sue, dove egli dice, Fiorentini, dicendo in una Canzone:
benchè latinamente, che Dante scrisse la sua
Commedia in rime, e in idioma fiorentino; e . . . . . . Ch' ogni senso
il medesimo Boccaccio nella vita di Dante (3) Cogli denti d'Amor già si manduca (2).
espressamente che egli cominciò la sua Com E nella Commedia:
media in idioma fiorentino, e compose il suo
Convivio in fiorentin volgare: e Dante stesso
Noi parlavamo e andavamo introcque (3).
scrisse nel decimo Canto dell'Inferno d'essere C. Quanto al Petrarca, quando vogliono mo
stato conosciuto da Farinata per fiorentino so strare ch'egli stesso confessa d'avere scritte
lamente alla favella, dicendo: in lingua italiana, allegano questi versi:
Del vostro nome, se mie rime intese
O Tosco, che per la città del foco
Vivo ten vai così parlando onesto, Fusser sì lunghe, avrei pien Tile e Battro,
Piacciati di restare in questo loco: La Tana, il Nilo, Atlante, Olimpo e Calpe.
La tua loquela ti fa manifesto Poichè portar nol posso in tutte quattro
Di quella nobil patria natio Parti del mondo, udrallo il bel paese
Alla qual forse fui troppo molesto. Ch'Apennin parte, e'l mar circonda e l'Alpe (4).
Dove si conosce manifestamente ch'egli di Il bel paese partito dall'Appennino, e circon
stingue la loquela fiorentina da tutte l'altre; dato dal mare e dall'Alpe, non è nè Firenze,
ed è da notare che egli disse prima Tosco per nè Toscana, ma Italia; dunque la lingua colla
la spezie, poi discende all'individuo per le quale il Petrarca scrisse, non è nè fiorentina,
cagioni dette di sopra lungamente, e nel tren nè toscana, ma italiana (5).
tatreesimo fa dire al conte Ugolino queste pro V. Messer Agnolo Colozio, uomo di gran
prie parole: nome, quando insegnò questo colpo al Trissi
-
no, non si devette ricordare, questo argomento
Io non so chi tu sie, nè per che modo non valere: Questa lingua s'intende in Italia,
Penuto se quaggiù, ma Fiorentino dunque questa lingua è italiana; perchè la lin
Mi sembri veramente, quand'i t'odo. gua romana s' intendeva in Francia e in Ispa
Non dice nè italiano, nè toscano, ma fiorenti gna, e non era per questo ne spagnuola, ne
mo, e nel venzettesimo distinse il Lombardo dal franzese; e il meglio sarebbe stato che il Pe
Toscano: trarca cercando d'acquistar grazia da madonna
Laura avesse detto : Poichè io non posso por
Udimmo dire: O tu, a cui io drizzo
La voce che parlavi mo lombardo (1) Dante della Volgare Eloquenza, cap. XIII.
Dicendo: Issa ten va, più non t'aizzo. (2) Rime Antiche, cap. XXIV.
(3) Dante, Infer. XX.
Quanto all'autorità del libro De vulgari Elo (4) Petrarca, Son. CXIV.
quio, già s'è detto quell'opera non essere di (5) Il Muzio al cap. XIII della Varchina nelle Batta
Dante, sì perchè sarebbe molte volte contra glie dice, che faccia pur il Varchi quello che sa, sempre si
rio a sè stesso, come s'è veduto, e si perchè prova che il Petrarca afferma d'avere scritto in una lingua
intesa per tutta Italia, ma la lingua fiorentina non è intesa
tale opera e indegna di tanto uomo. E chi per tutta Italia, come dice il Varchi qui sopra: adunque
crederà che Dante chiamando i Toscani pazzi, il Petrarca non iscrisse in lingua fiorentina. Ma si risponde
insensati, ebbri e furibondi, perchè s'attri al Muzio che il Petrarca scrisse in lingua fiorentina,
ma nobile, la quale è intesa per tutta Italia dalla gente culta
(1) Il Muzio cap. XVII1 della Varchina nelle Battaglie che pone studio a parlare pulitamente. E quando il Varchi
dice, che Dante intende dell' Italiana. disse che la lingua fiorentina non era intesa per tutta ltalia,
(2) Il Muzio al cap. XXX della Varchina vuole senza volle intendere del parlar famigliare e basso, e dei tanti modi
fondamento nessuno che il Boccaccio dica ciò per gratitudine proverbiali, e delle frasi, e de'motti del nostro popolo, i quali
verso i Fiorentini che lo aveano ascritto alla sua cittadi veramente non son bene intesi se non da' Fiorentini, come
nanza, e non per la verità. Bella gratitudine per certo, dire si può vedere leggendo a forestieri il Morgante del Pulci, e
una cosa falsa, e di cui ognuno il potesse smentire! molto più il Malmantile, poema di Lorenzo Lippi, e altri sì
(3) Bocc. Vit. Dan. pag. 258, edizione di Firenze, 1723. li fatti libri totalmente intesi solo in questa città.
44o L' ERCOLANO
tare il nome vostro in tutto 'l mondo, io farò i quali ne libri stampati si leggono così:
sì, che egli sarà udito nel contado e distretto Ma tu, mio libro primo, a lor cantare
di Firenze, o nelle maremme di Pisa e di
Siena.
Di Marte fai gli affanni sostenuti
Nel volgare e latin non più veduti (1).
C. Ella sarebbe stata delle sei, ma eglino
allegano ancora quel verso de Trionfi : Del che par che seguiti che la lingua si possa
chiamare ancora per lo nome d'Italia, il che
Ed io al suon del ragionar latino (1);
non si niega, anzi è necessario così fare, quando
sponendo latino, cioè volgare italiano. si vuol nominare pel genere. Vedete ora se
V. Il Dolce dice che il Petrarca intende in mi mancano, o m'avanzano autorità: e quando
cotesto luogo l'antica lingua latina, e non la per autorità avesse a valere, io direi del Bem
moderna volgare, della quale niuna cognizione bo, come Marco Tullio di Catone (2).
Seleuco avere poteva, e quando avesse inteso C. Io mi fo gran maraviglia che allegando
della volgare, l'arebbe nominata pel genere; il Bembo tante volte e tanto indubitatamente,
il che si concede talvolta a prosatori, non che non solo che Dante, il Petrarca, il Boccaccio
a poeti. e gli altri buoni autori scrissero nella lingua
C. Che risponderebbono eglino a quel So fiorentina anticamente, ma ancora che tutti
netto del Petrarca ? coloro i quali oggi scrivono leggiadramente,
S'io fussi stato fermo alla spelunca scrivono in lingua fiorentina, e che la fioren
Là dov'Apollo diventò profeta, tina a tutti gli altri Toscani e Italiani, è stra
Fiorenza avria forse oggi il suo poeta, niera, coloro che tengono altramente, e vo
Non pur Verona, Mantova, ed Arunca (2). gliono sostenere la contraria parte, non facciano
mai menzione alcuna di lui, come se non fosse
V. Risponderebbono, come fa il Muzio (3), stato al mondo, e non fosse stato il Bembo,
che egli intende delle sue opere non volgari, cioè compito e fornitissimo di tutte le virtù.
ma latine, le quali egli stimava più e chiamava V. Così si vive oggidi: anzi messer Claudio
quelle ciance. l'induce nel suo dialogo a tenere e difendere
C. Perchè non dell'una e dell'altre? quasi che ella si debba chiamare volgare; il che
Catullo (4), e gli altri nobili poeti non chia non so quanto sia lodevole, e tanto più essen
mino i lor componimenti per modestia, o per doci di mezzo gli scritti suoi. Anche messere
un cotale uso, ciance: e io per me, poichè Sperone pare che faccia che il Bembo la chiami
egli scrisse ciò volgarmente, e non latinamente, toscana; onde se il suo libro delle Prose non
credo che egli intendesse piuttosto delle vol si trovasse, potrebbe credere ciascuno, ancora
gari che delle latine. . - il Bembo essere stato nella comune erranza e
V. Ognuno può tirare queste cose dove egli opinione, non si trovando nessuno di quegli
vuole, e interpretarle secondochè meglio gli che ho letto io il quale la chiami assoluta
torna. -

C. Del Boccaccio non credo io che nessuno


mente, e risolutamente per lo suo proprio,
vero, legittimo e diritto nome, cioè fiorentina,
dubiti, dicendo egli da sè nel proemio della se non egli ; della quale veramente verissima,
quarta giornata chiarissimamente, che ha scritto e liberalissima testimonianza gli debbe avere
le sue Novelle in volgare fiorentino. non picciolo e perpetuo obbligo il comune, e
V. Anzi sì; messer Claudio disse così : Non tutta la città di Firenze.
perchè egli non iscrivesse in lingua toscana; C. Ditemi ora perchè a voi non dispiace che
ma perchè le donne che egli introduceva a ella si chiami volgare, come fa alla maggior
parlare, erano tutte fiorentine. parte degli altri.
C. Questo è un pazzo mondo. -

V. Perchè tutte le lingue che si favellano,


V. Pazzo è chi gli crede; e il Trissino (5) sono volgari; e la greca e la latina, mentre si
per abbattere quest'antorità con un'altra del favellavano, erano volgari ; e il volgo, onde
medesimo Boccaccio, quasi botta risposta, al ell'è detta, nel fatto delle lingue non solo non
lega questi versi nel fine della Teseide : si dee fuggire, ma seguitare, come coll'auto
Ma tu, o libro primo, alto cantare rità di Platone vi mostrai poco fa. Oltracciò
Di Marte fai gli affanni sostenuti avete a sapere che Dante, e gli altri antichi
Nel volgar Lazio mai più non veduti, nostri la chiamarono volgare, avendo rispetto
non al vulgo, ma alla latina, che essi chiama
(1) Petrarca, Trionf. d'Amore, cap. II. vano grammaticale, onde tutte le lingue che
(2) Petrarca, Son. CXXXIII.
non sono latine o grammaticali, si chiamavano
(3) Il Muzio nelle Battaglie al cap. XXVI benchè per
errore di numerazione sia il Xl II, essendo tutti errati (il e si chiamano volgari; e vedete che oggi anco
che sia qui detto per sempre), della Varchina porta anche la greca, perchè non è più quale era, si chiama
un'altra risposta, dicendo, che da questo luogo non si ricava

che il Petrarca scrivesse fiorentinamente, ma che fosse di Fi (1) Credo che questo verso del Boccaccio vada letto così:
renze, siccome che Mantova avesse il suo poeta, non vuol Mel volgare Latin non più veduti;
dire che Virgilio scrivesse in lingua Mantovana, ma che e così si legge in alcun buon testo a penna, dove la voce
fosse di Mantova; e qui mi pare che dica bene. latino è presa per idioma; di che ve n' ha molti esempi nel
(4) Catullo, epigr. 1. vocabolago della Crusca, e non per italiano, come vuole il
- - - - - namque tu solebas Trissino; benche alcune volte si prenda in questo significato.
Meas esse aliquid putare nugas. (2) Cicer. lib. I1, epist. V, ad Atlic. Cato iile nole,
(5) Il Trissino nel Castellano. qui mihi unus est pre censuu milibus.
DIALOGO 44 i
volgare. Devete ancora sapere, che quanti sono mai; è ciò proceduto dalla negligenza de'Fio
i volgi che parlano diversamente, tanti sono i rentini, o dalla diligenza de' forestieri? Chiamo
volgari; onde altro è il volgare fiorentino, e forestieri così i Toscani, come gl'Italiani, per
altro quello di Siena; benchè essendo oggi distinguergli dai Fiorentini.
Firenze e Siena sotto un principe medesimo, V. Dall'una cosa e dell'altra; perciocchè
potrebbono questi due volgari, con qualche la sollecitudine de forestieri per doversi acqui
spazio di tempo, divenire un solo (1). E per stare così alto dono, non è stata picciola, e la
chè anco la franzese, e la spagnuola, e tutte trascuraggine de'Fiorentini in lasciarlosi torre
le altre che oggidì si favellano, sono volgari, è stata grandissima.
vogliono alcuni che quando si dice volgare C. Nasceva ciò dal non conoscerlo, o dal
senza altra aggiunta, s'intenda per eccellenza non pregiarlo?
del fiorentino. V. Così da questo come da quello; concios
C. Cotesto non è fuor di ragione; ma chi siacosachè i letterati uomini ammirando e ma
la chiamasse la lingua del sì ? gnificando le lettere greche e le latine, onde
V. Seguiterebbe una larghissima divisione potevano sperare di dover trarne e onori, e
che si fa delle lingue nominandole da quella utili, dispregiavano co' fatti, e avvilivano le
particella colla quale affermano, come è la volgari, come disutili e disonorate: e gl'idioti
lingua d'hoc, chiamata dai volgari lingua d'oca, non le conoscendo, e veggendole dispregiare e
perciocchè hoc in quella lingua tanto significa, avvilire a coloro i quali credevano che le co
quanto vai nella greca, ed etiam , o ita nella noscessero, non potevano nè amarle, nè sti
latina, e nella nostra sì: e perciò Dante disse: marle; di manierachè tra per questo, e per le
mutazioni e rovine della città di Firenze, era
Oh Pisa, vituperio delle genti
Del bel paese là dove 'l sì suona, ec. (2). la cosa ridotta a termine che, se per ordina
mento de'cieli non veniva il duca Cosimo, si
C. Il Castelvetro, e molti altri che non sono spegnevano in Firenze insieme colle scienze
Fiorentini, nè Toscani, la chiamano spesse volte non pur le lettere greche, ma eziandio le la
la lingua loro, dicendo nostra: giudicate voi tine; e le volgari non sarebbero risorte e ri
che possano farlo? suscitate, come hanno fatto. Ma egli, dietro il
V. Che legge, o qual bando è ito che lo lodevolissimo e lodatissimo esempio de' suoi
vieti loro ? e se nol potessono fare, come lo onorabilissimi e onoratissimi maggiori, in ver
farebbono ? E, per dirvi da dovero l'opinione dissima età canutamente procedendo, oltra
mia, tutti coloro che si sono affaticati in ap l' avere in Firenze con ampissimi onori e pri
prenderla, e l'usano, crederei io che potes vilegi, due Accademie, una pubblica e l'altra
sero, se non così propriamente , in un certo privata, ordinato, riaperse dopo tanti anni lo
modo chiamarla loro, e che i Fiorentini non Studio Pisano, nel quale i primi e più famosi
solo non dovessero ciò recarsi a male, ma ne uomini d' Italia in tutte l'arti liberali con
avessero loro obbligo, e negli ringraziassero, grossissimi salari in brevissimo tempo condus
perchè le fatiche e opere loro non sono altro se, affinchè così i forestieri, come i Fiorentini,
che trofei, e onori di Firenze, e nostri. che ciò fare volevano, potessero insieme con
C. Perchè non volete voi che ella si chiami tutte le lingue, tutte le scienze apprendere e
cortigiana? apparare. E di più perchè molti acuti ingegni
V. Perchè questa fu una opinione del Cal del suo nobilissimo e fioritissimo stato dalla
meta, il quale era il Calmeta, e fu riprova povertà rintuzzati non fossono, anzi potessero
ta con efficacissime ragioni prima dal Bem anch'essi mediante l'industria e lo studio loro
bo (3), e poi dal Martello, poi dal Muzio, e a più eccelsi gradi de' più sublimi onori in
poi da messer Claudio, e, brevemente, da tutti nalzarsi, instituì a sue spese con ordini mara
coloro che fanno professione e sono intendenti vigliosi un solennissime collegio nella Sapienza
delle cose toscane. stessa; le quali comodità, piuttosto sole che
C. Resta per ultimo che mi diciate quale è rare in questi tempi, e piuttosto divine che
stata la cagione che i Fiorentini, essendo ve umane, sono state ad infiniti uomini, e sono
ramente padroni, e giustamente signori di così ancora, e sempre saranno d'infiniti giovamenti
pregiata e onorata lingua, come voi, secondo cagione. Laonde io per me credo, anzi tengo
quel poco che so e posso giudicare io, avete per certissimo, che quanto durerà il mondo,
non pure mostrato, ma per quanto comporta tanto dureranno le lode e gli onori, e conse
la materia, dimostrato, l'abbiano quasi perdu guentemente la vita del duca Cosimo. E nel
ta, e i forestieri se ne siano poco meno che vero la somma prudenza, la singulare giusti
insignoriti; perciocchè in tutti gli scritti che zia, e l'unica di lui . . . .
vanno attorno cosi latini, come volgari, dovun C. Se voi sapete che in tutto è orbo chi
que, e quantunque occorre di nominarla, si non vede il sole, non entrate ora in voler rac
chiama spessissime volte italiana, e spesse to contarmi quelle cose, le quali sono per sè più
scana, ma fiorentina radissime, e piuttosto non che chiarissime, e notissime a ciascheduno, non
che a me, che l'ammiro ed osservo quanto
(1) Pure anche oggidi il volgare senese è tanto diverso
sapete voi medesimo; ma piuttosto, posciache
dal volgare fiorentino, che e' pare incredibile, in città così
vicine, e suddite dello stesso principe. i Fiorentini sono con quella sicurtà che si cor
(2) Dante, Infer. XXXI l 1. rono le berrette a fanciulli zoppi, stati spo
(3) Bembo, Pros. lib. I. gliati del nome della lor lingua, ditemi se ciò
VARClil V. 1- o o
442 L' ERCOLANO DIALOGO
è avvenuto loro o per forza, o di nascoso, o C. Ditemi almeno; il che al ragionamento
pnr per preghiere. nostro si conviene; se ella ha giovato, o no
V. In nessuno di cotesti tre modi propria ciuto alla lingua fiorentina.
mente. V. Come non si può negare che l'Accade
C. Dunque non hanno che proporre inter mia le abbia giovato molto, così si dee con
detto nessuno, mediante il quale possano per fessare da chi non vuole uccidere il vero, che
la via della ragione ricuperarne la possessione, alcuni dell'Accademia le abbiano nociuto non
ed essere di tale e tanto spoglio reintegrati. poco.
V. Io non ho detto che siano stati assolu C. Chi sono cotesti Accademici ?
tamente, ma quasi poco meno che spogliati; e V. Che avete voi a fare de nomi? Non ba
voi pur sapete che le possessioni delle cose sta, come disse Calandrino (1), sapere la virtù?
ancora coll'animo solo si ritengono. Costoro, il numero de' quali, se arrivava, non
C. Se dicessero che i Fiorentini, non curan | passava quello delle dita che ha nell'una delle
do, anzi dispregiando la lor lingua, se ne fos mani ciascuno uomo; mentre che con buona
sero spodestati da sè medesimi, e che le cose, volontà; chè così voglio credere; ma non forse
le quali, s'abbandonano, non sono più di co con pari giudizio, cercavano, siccome stimo io,
loro i quali, per qualunque cagione, per non d'acquistarle benevolenza e riputazione, l'han
più volerle, l'hanno per abbandonate, ma di no fatta divenire e appresso i Fiorentini, e ap
chiunque le truova, e se le piglia, che rispon presso i forestieri parte in odio, e parte in de
dereste voi ? risione.
V. Che dicessero quasi il vero, e che a gran C. In che modo, e per quali cagioni?
parte de' Fiorentini fosse bene investito; se V. Ragioneremo di cotesto più per agio, e
non che la lingua è comune a tutti, cioè a a miglior proposito. Bastivi di sapere per ora
ciascuno; e in Firenze sono stati d'ogni tem che dalle costoro scritture, nelle qnali non era
po alcuni i quali l'hanno pregiata e ricono osservanza di regole, e pareva che il princi
sciuta, e voluta per loro. pale intendimento loro non fosse altro che
C. E se dicessero d'averla prescritta o usu biasimare il Bembo, chiamandolo ora invidio
catta colla lunghezza del tempo, cioè fattola so, ora arrogante, ora prosuntuoso, e talvolta
loro col possederla lungamente che direste? con altri nomi somiglianti, presero i forestieri
V. Che producessero testimonianze fedeli e argomento, e si fecero a credere che in Fi
pruove autentiche maggiori d'ogni eccezione, renze non fosse nè chi sapesse la lingua fio
prima d'averla posseduta pacificamente senza rentina, nè chi curasse di saperla; donde na
essere stata interrotta la prescrizione, e in ol cque . . . . . . .
tra, che mostrassino la buona fede, e con che Voleva il Varchi seguitare più oltra, quan
titolo posseduta l'avessero; e all'ultimo biso do Don Silvano Razzi, già messer Girola
gno, quando pure le cose pubbliche e comuni mo Razzi, monaco degli Agnoli, tutto tra
prescrivere col tempo, o pigliare coll'uso si felato comparse quivi, e così trambasciato
potessero, allegherei insieme con quella delle disse che il reverendissimo Padre don Antonio
dodici tavole la legge Attilia (per tacere quella da Pisa, generale dell'ordine di Camaldoli,
di Lucio e di Plauzio). e 'l reverendo don Bartolomeo da Bagnacavallo,
C. Voi non avete da dubitare che si venga priore del munistero degli Agnoli, erano ad
a questo; e perciò, lasciato questa materia dal dietro che venivano per istarsi due giorni con
l'una delle parti, disidero che mi narriate al messer Benedetto. Il perchè riserbando il fa
cuna cosa dell'Accademia, nella quale intendo vellare dello scrivere a un'altra volta, discen
che furono sì gran tempo tante discordie, e demmo subitamente tutti e tre per andare ad
così gravi contenzioni. incontrare Sue Reverenze. E così ebbe fine
V. Questo non appartiene al ragionamento innanzi al fine il ragionamento delle lingue.
nostro; elle furono tali che colle parole di Vir
gilio (1), o piuttosto della Sibilla, vi dico, ne Virgilio, nè della Sibilla. Ma s' inganna, perchè sono da
quaere doceri. Virgilio poste in bocca della Sibilla nel lib. VI dell'Eneide,
v. 614.
(1) Il Castelvetro a cart. 9o della Correzione ec. ripren (1) Bocc. Nov. LXXIII, 11.
de il Varchi, dicendo, che queste parole non sono nè di

FINE DELL' ERCOLANO


LA SUOCERA
COMMEDIA

modo il facessero non si curavano. E di


ALL' ILLUstrissimo Ed EccELLENTIssiMo sionomE
qui nacque, penso io, come le cose sempre
vanno di male in peggio, che la commedia
iL SIGNOR venne tanto a mutarsi da sè stessa a poco
C O SI MI O D E' M E D I C I
a poco, e diventare ogni altra cosa che
commedia, che le più disoneste e le più
pu CA DI FIRENZE E DI SIENA inutili, anzi dannose composizioni che siano
oggi nella lingua nostra, sono le comme
sIGNone e PADRONE suo OSSERVANDISSIMO
die: perciocchè pochissime sono quelle (sia
BENEDETTO VARCHI
mi lecito, illustrissimo Principe, favellare
con Vostra Eccellenza tutto quello, che io
intendo, liberissimamente) le quali non fac
ciano non solo vergognare le donne, ma
Quanto la vita e l'azioni de're e deprin arrossire gli uomini non del tutto immode
cipi, posti da Dio alla cura e al governo sti. La qual cosa tanto è più degna di ma
degli altri uomini, sono più chiare ed il raviglia, quanto io non favello al presente
lustri della vita e delle azioni delle persone di quelle che furono fatte da uomini vol
private e particolari; tanto l'altezza e gra gari e idioti, senza dottrina o giudizio nes
vità della tragedia, virtuosissimo e fortu suno, le quali sono quasi infinite; ma di
natissimo Duca, avanza e trapassa, secondo quelle che sono state composte da persone
il principe de Peripatetici, tutte l'altre nobili e letterate, delle quali ne ho vedute
maniere di qualsivoglia componimento. Be molte, parte in istampa e parte a penna,
ne è vero, che la rappresentazione d'essa le quali, secondo il giudizio mio, non hanno
per gli ſieri avvenimenti e orribilissimi casi, altro di commedia, oltra i cinque atti, che
che in quelle succedono il più delle volte, il nome solo, e alcune nè il nome ancora.
arreca più tosto molta afflizione e spavento E pure avevano avuto messer Lodovico
agli uditori, che diletto aleuno o piacere. Ariosto innanzi, il quale, sebbene in que
Dopo la tragedia seguita la commedia; la sta parte non mi soddisfa interamente; è
quale, quanto è meno alta di lei e men però degno di grandissima lode, e a cui
grave, tanto è più piacevole e più dilettosa. debbono molto i componitori delle comme
Di maniera che io per me porto fermissima die toscane. E se non temessi di parere o
opinione, che tra tutti gli spettacoli di tutte presuntuoso o arrogante, volendo mostrare
le sorti niuno se ne ritruovi nè più bello, di sapere io ed insegnare quello, che molti
nè più giocondo di quello d'una commedia altri da molto più di me non hanno o sa
bene e ordinatamente recitata. Direi ancoraputo o voluto insegnare infin qui; raccon
nè più onesto, nè più utile, se non fosse, terei in questo luogo moltissime cose, che
che quegli, i quali composero primi com si ricercano necessariamente nel ben com
medie in questa lingua, avendo voluto più porre una commedia, non del tutto indegna
tosto imitare la licenza e piacevolezza di del nome suo; e da quelle potrebbero co
Plauto, che l'arte e gravità di Terenzio, noscere coloro che m'hanno tante volte e
non pare che avessero altro intendimento, consigliato e confortato e pregato che io
che di far ridere, pigliando per loro pro devessi farne una, che io, non per fuggire
prio e principale fine quello, il quale do la fatica, nè per altra cagione, se non per
veva essere secondario e per accidente, e diffidarmi di me medesimo, lo ricusava.
pure che questo avvenisse, in qualunque Perciocchè, sebbene io vedeva, che infino
444 LA SUOCERA

ai più vili artefici, dico di quegli che non LE PERSONE


sapevano, non che altro leggere, o quello
che si fosse commedia, si mettevano a far LE QUALI INTERVENGoNo E FAvELLAN e
ne; e bastava lor l'animo non pure di NELLA COMMEDIA ,
fornirle e farle recitare, ma ancora di stam
parle. Questo non m'affidava tanto, quanto
mi sbigottiva dall'altro lato il vedere, che Messer FABnIzio Raugeo, giovane innamorato.
nè anco gli uomini dotti e di molta fama Il PistorA, servidore di casa Simone.
l'avevano potute condurre a quella perfe GUALTIERI, giovane innamorato, figliuolo di Si
mone.
zione, dove io penso, che elleno, non pure Mona NAsTAsIA, vecchia mezzana.
si possano condurre, ma debbano da tutti Signora FULvIA, cortigiana.
coloro, i quali temono più il biasimo degli SIMoNe, vecchio, padre di Gismondo e di Gual
intendenti, che non hanno caro le lodi del tieri.
volgo. Ma posciacchè io vidi, che V. E. Mona CAssANDRA, matrona, moglie di Simone.
illustrissima, come di tutte l'altre virtù e GUAspAnni, vecchio, padre dell'Argentina.
laudevoli opere, così della rappresentazione GisMoNDo, giovane, figliuolo di Simone e ma
delle commedie si dilettava non poco; non rito dell'Argentina.
volli mancare nè a me medesimo, nè a con Mona CRIorè, matrona, moglie di Guasparri.
GIAN BIANco, moro, schiavo di Gismondo.
sigli di coloro, per non dire comandamen Donna BERToLDA, fante della signora Fulvia.
ti, che a ciò fare mi stimolavano, per non SILvEsTRINA, serva della medesima.
parere piuttosto negligente e caparbio, che
timido e rispettoso, di mettermi a comporne Persone che intervengono nella commedia, ma
una, non dico quale io la desiderarei, ma non favellano e non si veggono.
quale io potessi. Perciocchè moltissime vol GIANNINo, ragazzo.
te quanto è agevole il sapere come si debba Mona AnceNTINA, figliuola di Guasparri e mo
fare una qualche cosa, tanto è poi difficile glie di Gismondo.
il metterla in opera. E ciascuno può senza AcNoLETTA, figliuola anch'ella di Guasparri.
fatica nessuna conoscere e lecitamente ri FIAMMETTA, creduta sorella della signora Fulvia.
prendere una fignra stroppiata, sebbene non
sa farla egli, nè anco in quel modo. Non
niego già di non aver tentato, se per ven
tura mi fosse venuto fatto, mediante l'in
IL PROLOGO
dustria e fatica mia, d'acquistare più tosto
qualche lode con tutti gli antichi, che bia
simo colla maggior parte del moderni: seb
bene io contra i precetti loro ho voluto
non pure farla doppia, ma interzarla per Voi udirete, Spettatori nobilissimi, se vi pia
tentare se questa nostra lingua fosse ba cerà di prestarne cheta e riposata udienza,
una commedia, la quale non è, nè del tutto
stante, non solo d'agguagliare la latina, ma antica, nè moderna affatto, ma parte moderna
di vincerla; sperando, che qualcuno di mag e parte antica; e benchè ella sia in lingua
gior dottrina, ingegno e giudizio che non fiorentina, è però cavata in buona parte dalla
sono io potesse, quando che sia, colorire i latina: cavata dico e non tradotta, se non se
disegni miei. Insomma a me è bastato di in quel modo, che traducevano i Latini dai
mostrare la buona volontà, affinchè V. E. Greci. Il nome suo è la Suocera per quella
illustrissima anco in questa possa ricono cagione, che conoscerete da voi medesimi.
L'intendimento del facitore d'essa non è stato
scere qualche parte del desiderio, il quale altro, che il desiderio ch'egli ha infinito, anzi
è in me, di mostrarlemi, non dico gra l'obbrigo di piacere e soddisfare a colui, cui
to, ma ubbediente: e per questa cagione tutti noi dovemo cercare di soddisfare e pia
sola ho ardito di presentare così bassa cere. E perciò s' è ingegnato sommamente di
cosa e vile a tanto alto Principe e tanto mostrarvi non tanto quello, che si fa comune
pregiato: alla cui bontà e clemenza umi mente dai più, quanto quello che si doverebbe
lissimamente raccomandandomi, farò fine; fare. Laonde, se in questa commedia non ver
ranno in iscena nè vecchi sciocchi, nè gio
pregando nostro Signore Dio, che insieme vani disonesti, nè fanciulle vergini, nè persone
con tutta l'illustrissima Casa sua la con religiose o altre così fatte cose, non meno con
servi lunghissimo tempo sana e felice. tra le leggi della commedia, che fuori dell'uso
-
degli antichi migliori, non vi dovrà parere
gran fatto maraviglia; perciocchè, non essendo
la commedia altro che una immagine, o più
COMI MEDIA 44 5
testo specchio della vita cittadina, non vi si
debba introdurre cosa nessuna dentro, la quale A TT O P RIM O
civile e onestissima non sia, e donde non la
licenza di vivere e operare viziosamente, ma
di conoscere e ammendare i vizi si possa ap SCENA PRIMA
parare e cavare esempio. Per la qual cosa, seb
bene ella non v'inducesse a ridere, il che solo Messer FABRIzio Raugeo solo.
pare oggi che si cerchi, non per questo man
carebbe del suo diritto e principale fine, co Pur si fece di ! Questa notte m'è paruta più
me farebbe, se non insegnasse in quel modo, di mill'anni; nè mai ho potuto chiudere oc
che debbe i costumi buoni. E di vero, chi sa chio, pensando sempre alle bellezze e alla
onde il riso proceda, o quali siano coloro che grazia di quella fanciulla, ch'io vidi a sorte
spesso ridono, non la biasimerebbe mai per entrare iersera in quella casa colà. E così
questo. E l'autore stesso m' ha detto, che sarò venuto a Firenze per vedere di ritro
arebbe molto più caro, e a vie maggior gloria var mio padre, e arò perduto me stesso. Ma
s'arrecarebbe di farvi maravigliare una volta io ne son bene più che contento; posciac
sola, o piagnere, che di ridere cento: non che chè n' ho avuto così giusta cagione: con
egli riprenda il far ridere nelle commedie; ma ciossiacosachè tra quante donne io vidi mai
dice, che è gran differenza da ridere a ridere, (che n'ho vedute molte e bellissime in di
e che come egli non biasima, anzi loda il ri versi luoghi) mai non vidi nè la più bella
dere per cose piacevoli e argute; così non fanciulla, né la più graziata di questa. Oh
loda, anzi biasima lo sghignazzare per cose Dio, che aria nobile è quella ! che andar
sporche e disoneste: e sebbene egli sa, che celeste! Io mi sentii agghiacciare da una
niuno non può ridere, che non si maravigli, ardentissima fiamma tutte quante l'ossa in
sa ancora che ognuno può maravigliarsi senza un subito. E d'allora in qua ho sempre
ridere. Nè per questo intende egli, o vuole avuto una certa dolcezza nel cuore, mesco
accusare tanti altri, i quali hanno fatto tutto lata d'amaro; e parmi, che l'animo mi dica,
il contrario; ma solo scusare sè medesimo. In che io debba sperare, senza sapere che.
somma egli vorrebbe, che questa sua comme Laonde son fermato di porre da parte ogni
dia piacesse a tutti; ma perchè conosce che pensiero e di lasciare indietro tutte l'altre
questo non è ragionevole, non che possibile, cure, per seguire questa sola. Io mi son pure
si chiamarebbe più che pago e contento, quan innamorato dell'altre volte a miei di 3 ma
do ella non dispiacesse a uno solo, o al più non già nè sì di subito, nè così strabocche
a due, per cui s'è affaticato principalmente. volmente; appena ebbi io nel mirarla ri
Ora non aspettate, che io vi reciti l'argomento scontrato gli occhi miei co' suoi, che io di
della favola; perchè questo è uffizio de'primi venni in uno stante tutto fuoco e tutto
che usciranno in sulla scena: solo vi priego ghiaccio: ella pare propiamente un agnolo !
che stiate attenti, e diate animo al poeta col Almeno sapess' io come ella si chiama, che
favore vostro di poterne comporre dell'altre, d'altro non mi pare ragionevole di doman
dove nè voi abbiate a perdere il tempo del dare, e tanto meno, che ella, per quanto
tutto, nè egli il tempo e la fatica: e se vi pa ne dimostra l'abito, non è maritata ancora.
resse alquanto lunga, ricordatevi, che sono si Oh felice padre che la generò, e più felice
può dire, due; una nuova, come dissi nel prin colui, se mai alcuno sarà, il quale ne sia
cipio, e una vecchia, o più tosto una vecchia legittimamente posseditore ! Ma chi potrei
mescolata con una nuova; e che il Gigante di io trovare, il quale sapesse darmene alcuno
piazza non si può chiamar grande, sebbene è ragguaglio ? L'essere io, o per meglio dire,
maggiore assai degli altri uomini, il parere io forestiero in questa terra, e 'I
-
non ci avere conoscenza, se non di pochi,
nè altra amistà che quella del padre e del
fratello di Gismondo, i quali in verità mi
MADRIALE PRIMO
si mostrano affezionatissimi e amorevoli, e
mi rendono il cambio di quello, ch'io feci
a Raugia (1) per lui; sarà cagione, che io morrò
sl caldo gielo e sì gelato e caro prima di struggimento, che io possa inten
Fuoco n'avventa da begli occhi Amore, derne cosa veruna: e tanto più che in ma
Che non può gentil core neggi cosi fatti bisogna procedere molto cau
Non arder tutto in dolce ghiaccio amaro. tamente, e non andare col cembalo in co
O felici coloro, lombaja, per non fare o danno o vergogna,
O fortunati, anzi beati appieno, o a sè o ad altri. Ma io ho sì spasimata vo
Che no 'l piombato stral, ma lo stral d'oro glia di sapere e dove io mi truovi, e quanto
Ferlo nel manco seno l possa sperare, che io spirito di non com
Ben han sovra tutt'altri amica sorte, mettere qualche errore per inavvertenza. Ma
Cui non discioglie Amor, prima che Morte. sia che può, nessuno mi torrà mai, che io
(1) Raugia all'antica per Ragusi, notissima città dell'il
lirio. (dl.)
446 LA SUOCERA
non arda per lei: e qual più felice vita po questa città; e quanto più la veggo e più
trebbe, non dico essere, ma immaginarsi, la considero, più mi piace e più mi par
che morire per cosa si bella ! Andrò dun bella.
que tanto spasseggiando per questa strada Pist. Non sapete voi, che si dice: Fiorenza
ora in su e ora in giù, facendo sembiante bella ?
d'aspettare che Gualtieri esca di casa, che Fab. Meritamente, e di mano in mano diventa
qualcuno passi, il quale in qualche modo più bella, per quanto mi par di vedere: in
me ne possa dare qualche novella. tanti luoghi, e da tai maestri fa murare que
sto Duca. Guarda un poco che via è questa,
SCENA II e dove si trovano di quei palagi! Oh, quanto
mi piace quella casa, come risiede bene !
Il Pistoia servidore, messer FABRIZIo Raugeo. la pagarei altrettanto più, ch'ella non vale
a Raugia: domin, di chi ella è ?
Pist. Giannino, o Giannino: questa forca non Pist. Non lo sapete voi ? ella è la casa di Gua
sene leva mai la mattina. Tu non odi, im sparri, suocero del vostro Gismondo; se voi
piccato: se il padrone dimanda di me, di dite quella da quel maniscalco, non molto
gli, che io son ito or ora, or ora, vè, a ve lontana dalla nostra,
dere s' io potessi spiare cosa nessuna della Fab. Cotesta dico: e abitala ?
tornata di Gismondo. Odi me: dico, che Pist. Abitala ! perchè?
tu gli dica così, se egli te ne domanda; se Fab. Mi par troppo gran casa a un solo.
non te ne domanda, non dir nulla, ac Pist. Come solo ! non ha egli, oltra una sua
ciò mi possa servire di questa scusa per sorella vedova, che si torna con esso lui,
un'altra volta. Ma veggo io spasseggiar colà madonna Criofè sua moglie, e l'Agnoletta
messer Fabrizio da Raugia ! egli e desso: sua figliuola e tre serve ?
che domin fa egli fuori di casa, e così solo, Fab. Che ? madonna Argentina ha sorelle, eh?
e sì a buon otta? Debbe aspettare Gual Pist. Signor sì, una.
tieri; che se lo sapesse, l'arebbe molto per Fab. Maggiore, o minore?
male, tanto mostra di amarlo, e più l'a- Pist. Minore: e una bella figliuola è ella, Dio
rebbe per male il vecchio, il quale ha tante la benedica; e un'altra n'aveva minor di
lettere da Raugia in raccomandazione di co tutte, che per l'assedio (1) gli fu tolta in villa
stui, e mai non gli scrive Gismondo, mai, della Zana, da non so che soldati: e pensano
che non glielo raccomandi di nuovo caldis risolutamente, che si dovesse morire, non
simamente, raccontandogli quanto e per n avendo inteso mai nulla; e fece bene, che
quante cagioni egli è alla gentilezza e cor a ogni modo sarebbe bisognato farla mona
tesia sua obbligato. Io ho voglia d' andare ca, come quest'altra.
a chiamarlo; ma sarà meglio favellare pri Fab. Qual'altra?
ma a lui. Dio vi dia il buon giorno, messer Pist. L'Agnoletta.
Fabrizio. Fab. L'Agnoletta monaca!
Fab. Buon giorno e buon anno: che si fa, Pi Pist. Monaca, signor si : e già è accettata;
stoja? metti in testa : dove si va? così non fosse, che non fu mai la più bene
Pist. E che ? niente: andava un poco a spasso detta figliuola di quella; e vi so ben dire,
a questo bel tempo; perchè a giorni passati che ella duole infino al cuore a madonna
è piovuto tanto, che credetti che noi aves Criofè sua madre e a tutto il parentado;
simo a diventare anitre tutti quanti. Ma voi ma non si poteva fare altro.
siete fuori così per tempo; chi aspettate voi, Fab. E perchè? -

Gualtieri, forse? Io lo chiamerò, se voi vo Pist. Perchè il padre, a dirvi il vero, non
lete, che egli è ancora dove si coricò ier ostante che sia uomo dabbene e nobile, è
sera -
povero in canna: e a Firenze s'usa oggi di
Fab. Lascialo pur riposare, che se ne dovette dar gran dote; e ha avuto ventura di non
andare a letto tardi: io vidi anch'io sta avere figliuoli maschi, che non arebbe po
mattina questo bel giorno ; e uscito di casa, tuto maritare anco madonna Argentina; tan
me n'andai passo passo lungo le mura da to perdè per l'assedio ! e chi vive d'en
quella porta, dove Sua Eccellenza illustris trate non avanza mai troppo in questa terra.
sima fa sì bella muraglia (1). Benchè sarebbe forse stato il meglio, che
Pist. Dalla porta a San Piergattolini ! non avesse maritato anco lei; se si può però
Fab. Credo di sì: poi me ne tornai giù diritto chiamare maritata.
diritto per quella bella via. Fab. Che vuoi tu inferire, Pistoia ? di su?
Pist. Per via Maggio? Pist. Dio me ne guardi : non son cose da do
Fab. Per cotesta: e ti dirò il vero, Pistoia, io versi dire queste.
non mi posso saziare ancora di guardare Fab. Meco si può dire ogni cosa.
Pist. È vero: pure....
(1) Intende di Cosimo I, che pei fini da noi accennati
Fab. Che pure? Non sai, ch'io ho Simone in
nella nostra prefazione tolse a proteggere le lettere e le arti;
diche ed egli menava gran vampo, e infinite lodi gli die (1) Dell'assedio intende, che sostenne Firenze nel 153o
dero i suoi creati, e fra questi pur troppo anche questo buon contro gli Imperiali venuti a rimettete in Signoria Papa
Varchi. vill.) Clemente V11 e i Medici. (Ml.)
COMMEDIA 447
luogo di padre, e amo Gismondo e Gual Pist. State a udire. E' cominciò a piagnere come
tieri, ed eglino me, non altramente che se un bambino, e diceva: Se io avessi creduto
fossimo fratelli ? Nè io cerco di saperlo ad questo, io non l'arei tolta mai; ma perchè
altro effetto, se non per vedere, se potessi io l'ho, non mi par conveniente di riman
esser buono in cosa nessuna. darla al padre senza cagione nessuna; e non
Pist. Io lo so; ma vedete: io non vorrei poi: avendo l'animo a lei, non voglio torle io
datemi la fede vostra di tenerlo segreto, e solo in un punto, quello che non le potreb
io vel dirò. bero rendere tutti gli uomini del mondo in
Fab. Eh di su: credi tu, ch'io non sappia, che mill'anni.
tu hai più voglia di dirlo, che io d'udirlo! Fab. Buona natura di giovane !
Pist. Alla fe non ho ; ma io son ben contento Pist. Ma seguitando così, ho speranza che n'ab
di dirlo a voi. Io penso che voi abbiate in bia a ire un giorno da sè medesima.
teso, come Gismondo era fieramente inna Fab. Dimmi un poco: in questo mezzo andava
morato d' una cortigiana, che si chiama la egli a casa colei ?
signora Fulvia, e ne stava malissimo, ed ella Pist. Se v'andava dice! ogni dì che era sopra
di lui, per quanto mostrava; quando Simone la terra, ogni dì, che mai ne lasciava uno.
suo padre, o per lo avere egli inteso que Ma che direte voi, che la gnaſfa, quando
sta pratica, la quale non gli doveva piacer seppe della moglie, gli levò gran parte del
troppo, benchè facesse le viste di non sa l'amore, e cominciò non solamente a non
perla, o per altra cagione che se lo moves gli fare più di quelle carezze e moine di
se, cominciò ogni dì a chiamarlo da sè a prima, ma a non volere ancora, che egli vi
lui, e confortarlo, ammonirlo e pregarlo, che capitasse?
dovesse pigliar moglie, oggi mai, allegandogli Fab. Non è gran fatto cotesto: non sai tu
quelle ragioni, che fanno comunemente i come fanno le femmine di partito?
padri; che era vecchio, che desiderava di Pist. Volete voi altro, che la cosa andò tanto
vederlo accompagnato, e avere un nipote di oltre, che egli cominciò ad alienarsi da lei,
lui, innanzi che si morisse; avendo sempre e spiccarsene a poco a poco, parte spinto
disegnato, che egli, come maggiore, fosse il dalla villania, che pareva gli facesse quella
capo di casa, e il bastone della sua vecchiaja, cialtrona, parte tirato dalla costanza, mode
e che questo non poteva ragionevolmente, nè stia e amorevolezza della moglie; la quale,
dovea dinegargli. Gismondo da prima, come non pure non si dolse mai con persona di
quegli, che aveva il capo altrove, s'andava scu tanta ingiuria che egli le faceva e così gran
sando e dibattendo il meglio che poteva, al de, ma l' andò sempre ricoprendo, soppor
legando anch'egli sue ragioni : e in somma, tando ogni cosa, non altramente, che non
non voleva intendere nulla; ma quando vide, fosse toccato a lei.
che il padre lo serpentava ogni giorno più, nè Fab. Gran lode per certo merita cotesta fanciulla!
mai rifiniva di tormentarlo ne di, nè notte, Pist. E se ne lodava bene: e vi dico più là,
mettendogli addosso tutti i parenti, tutti gli che conosciuta la differenza che è dai co
amici e tutti i vicini, fu finalmente forzato stumi delle mogli a quelli delle femmine,
a dire, perchè egli non s'adirasse, che fa le aveva posto un grande amore, grande ver
rebbe ogni cosa. Allora Simone, che aveva dete; ma la sorte fece, che appunto inori
di già ordinato il tutto, senza dargli punto quel lor parente, che voi sapete, il quale,
di spazio, gli fece sposare subito madonna non avendo figliuoli nè maschi, nè femmine,
Argentina, figliuola di Guasparri, padrone gli lasciò eredi: onde Simone mandò Gi
di quella casa vicina alla nostra: e volle, smondo a Raugia contra sua voglia, per ri
che egli sene la menasse a casa. Il che Gi cuperare quella eredità, come sapete voi
smondo fece, ma con tanto dispiacere, con meglio di me, che lº aiutaste e favoriste
tanto cordoglio, che era proprio una pietà, tanto in tutte le sue occorrenze.
e ne sarebbe incresciuto alla signora Ful Fab. Io so di cotesta eredità ; ma non intendo
via medesima, se l'avesse saputo. Oh che bene quello che s'abbia a fare questo, che
ho io fatto i diceva egli ogni volta che mi tu hai raccontato testè, con quello che tu
poteva favellare di nascoso; misero me, che dicesti dianzi, che sarebbe forse stato il me
vita sarà ora la mia, anzi che mortel chè glio, che madonna Argentina non si fosse
così non posso vivere, nè voglio. maritata anch'ella: se però si poteva chia
Fab. Povero giovane ! mar maritata.
Pist. Ma per ridurre le mille in una: egli un Pist. Voi l'intenderete ora. Madonna Argen
di fra gli altri mi chiamò segretamente fuori tina, partito Gismondo, si rimase in casa con
di casa, e mi disse: che era peggio contento madonna Cassandra sua suocera, perchè Si
e più disperato che mai, e che sebbene dor mone si sta quasi sempre in villa: e da prima
miva ogni notte a canto alla moglie, non erano come pane e cacio, e stavano sempre
però l'aveva mai tocca, e meno aveva animo insieme, tantochè ognuno sene maraviglia
di volerla toccare. va: ma da chi si venisse poi, non so ; basta
Fab. Questa è una di quelle cose, che molti che madonna Argentina cominciò a odiare la
non potrebbero mai credere; ma io, che so suocera mortalissimamente, non che tra loro
chi è Gismondo, e ho provato le forze d'a- nascessero mai parole, o si dolessero con
more, la credo benissimo. persona l'una dell'altra.
448 LA SUOCERA
Fab. Che facevano dunque? Fab. E sarebbe pur ben, Pistoia, che noi ve
Pist. Dirovvi. La nuora, che non poteva pa dessimo di levargli per qualche verso questa
tire di vedere la suocera, non che di stare fantasia della testa; ed io, parendoti, mi ci
ove ella fosse, anzi quando ella andava tal affaticherò volentieri. Egli mi pare in tutte
volta da lei, o voleva ragionar seco come l' altre cose di buono ingegno è d'un per
si fa, ella, senza dir nulla, si fuggiva subi fetto giudizio in quella età; che non credo,
to; alla fine quando non potette, o non volle che passi, e forse non arrivi ancora a ven
più sopportarla, finse che sua madre avesse titrè anni: e farebbe troppo gran fallo, se
mandato per lei, per menarla a un corteo togliesse una sorella d'una cortigiana per
a battezzare non so che bambino, e andos moglie.
sene a casa sua. Madonna Cassandra stette Pist. Oimè, no: se voi l'amate vivo, non gli
così parccchi giorni, e mandò per lei; ma entrate in coteste cose, che non s'è man
ella trovò non so che scusa, e non volle cato di diligenza nessuna ; ma risponde, che
venire. Di quivi a parecchi altri di ella ri sa bene egli quello che fa; e in somma, e
manda per lei un'altra volta, ed ella un'al più che risolutissimo di pigliarla; anzi dice,
tra volta disse, che non poteva: e così fe che ella è sua, e che la vuole a ogni modo.
cero più volte, tantochè all'ultimo la madre Non so io dove se la fondi, o che disegno
disse, che ella si sentiva male. Madonna Cas si faccia: so bene, che se quel povero vec
sandra subito corse là, per vederla, ma non chio lo sa, si morrà di dolore. Ma io voglio
le volsero aprire. Quando Simone intese ieri ire infino alla porta a San Niccolò, per ve
questa nuova, tornò incontanente di villa, e dere, se Gismondo venisse, che doveva ar
andò in fretta in fretta a trovare Guaspar rivare insino jer sera.
ri: quello che si diceva o facesse, non so Fab. A me scrisse egli che pensava d'esserci
ancora, mi par ben mille anni d'intender oggi senza fallo; va, e se lo riscontri per la
lo, si per amore loro, e si massimamente per via, raccomandami a lui, e digli, che verrò
amore di Gismondo, che so quanto l'arebbe a vederlo subito senza manco nessuno.
a male, se lo risapesse.
Fab. E m'in cresce di tutti grandissimamente SCENA III
e molto mi spiace, che quel povero vecchio,
che mi par tanto dabbene. ... . Messer FABRIzto Raugeo solo.
Pist. Egli e me che il pane, che si lascia man
giare. Ancorchè questo Pistoia non sia, se non ra
Fab. E mi va tanto a sangue, abbia avere in gionevole e assai destra e fidata persona,
quella età così fatti dispiaceri. per quanto me n'abbia detto Gualtieri, tut
Pist. Pensate quando saprà, che Gualtieri sia tavia io non me gli sono voluto scoprire a
innamorato della Fiammetta, sorella della nulla, e m'è paruto più sicuro il far così ;
signora Fulvia. perchè, come egli ha ridetto a me di Gi
Fab. Che, egli non lo sa? smondo, così per avventura ridirebbe di me
Pist. Nè lo pensa, che è più oltre: anzi, son a un altro. Io ho inteso da lui molte cose
certo, se alcuno glielo dicesse , che appena parte che io sapeva, e parte che io non sa
il potrebbe credere, in modo hanno saputo peva : e per un contento, ch'io abbia avuto
fare; ma ora la cosa e ridotta in termine, d'essermi pienamente informato, senza av
che bisognerà che lo sappia a dispetto del vedersene egli, di tutto quello che io disi
mondo, o voglia, o non voglia. derava, ho avuto dall'altro lato infiniti dis
Fab. Perche? piaceri, che tutti mi penetrano infino all'a-
Pist. Perchè quella gioia ha preso tanto sde nima; ma più quello che nessuno degli al
gno di questa moglie di Gismondo, che non tri, che l'Agnoletta s'abbia a far monaca.
vuole ch'anch'egli pratichi più in casa sua; Monaca l'Agnoletta l A ogni altra cosa aveva
benchè io l'intendo a mio modo; e gli mandò pensato, e ad ogni altra cosa era qualche
a dire l'altro giorno per una vecchia vini rimedio, eccetto che a questa : perchè, se
ziana sua vicina, la più brutta ribalda che avesse avuto marito, o si fosse maritata a
portasse mai polli, che se fra otto di non un altro, mi sarebbe bastato d'avere potuto
le dava l'anello, e di più le mandava cento qualche volta, se non favellarle º vederla:
scudi d'oro per vestirla un poco, e per far dove ora anco questa speranza m'è del tutto
le nozze, che non le capitasse mai più a precisa ; perche, facendosi monaca, non mi
casa, che non gli aprirebbe; e lei mande sarà lecito di vederla mai, non che di fa
rebbe in luogo, che sarebbe sicura: e oggi vellarle; e quando bene mi fosse lecito, non
è appunto l'ultimo giorno, ed egli ha quello sarebbe onesto. O fortuna, tu cominciasti
assegnamento d'aver cento scudi, che io di bene a buon'ora, e infino dalle fasce a es
volare: e credo stia nel letto per disperato, sermi nemica e crudelissima ; percioccheº
non avendo nulla che impegnare; e avendo sino quando m'addormiva in culla, se non
richiesto invano quanti amici egli ha, e era la buona memoria di messer Grifaldo:
al quale increbbe di me, era viva forza, o
quanti parenti.
Fab. E se trovasse chi gli prestasse i danari, che io mi morissi di fame, o che le fiere
piglierebbela ? mi divorassero. E che mi vale sebbene egli,
Pist. Io ve lo voglio aver detto. adottatomi per suo figliuolo, mi lasciº º
-

COMMEDIA . 449
morendosi, quanto appena arei osato diside pare d'aver sentito serrare il suo uscio : egli
rare, se ora, cercando del mio padre natu è desso. Oh come è turbato in viso e ma
rale, ho trovato cosa, che mi farà il più mi ninconosol chi minaccia egli 2 E'si ristringe
sero e dolente uomo che mai fosse tutto il molto forte nelle spalle. Io mi voglio tirare
tempo che io viverò º il quale però, e in da parte, che non mi vegga; che non vor
questo solo mi conforto, doverà essere non rei, sopraggiugnendogli addosso così in un
molto lungo: conciossiacosachè tanto viverò tratto allo improvviso, esser cagione di tur
io, e non punto più , quanto penerà ella a barlo più e accrescergli quella molestia, che
entrare nel munistero. Oh quante usanze col sangue propio, se io potessi, gli sce
cattive appruovano gli uomini per buone! IIlarcla

Io non dico, che delle fanciulle non se ne


debbano far monache ; ma dico bene, che SCENA IV
tra tutte l'empietà, quella mi par grandis - -

sima, quando si fanno monache o contra lor GUALTIERI giovane, messer Fanazio Raugeo.
voglia, o per non avere a dar loro la dote.
Quanti cattivi effetti cesserebbero, quanti ne Gualt. In fine tutti i proverbi sono provati;
nascerebbero de'buoni, se in questa cosa del e questo è più vero, che tutti gli altri. Chi
dar moglie e pigliarla s'usasse prudenza! – vuole assai amici, ne pruovi pochi. Mai non
Ma io non sono atto a fare un mondo nuovo, l'arei creduto, e pure è così : lasciamo star
nè a riformare questo che c'è: a me do gli altri, che non m'avevano obbrigo, io ho
verebbe bastare, che questa usanza non richiesto di quegli, che m'erano tenuti pur
avesse luogo in costei. Ma se il padre la assai, e di quegli, che spontaneamente mi
fa monaca, per non aver da darle la dota; avevano fatto più volte tante offerte e prof
che non la dà egli a me, che non solo la ferte in tanti modi e con tante parole, che
pigliarò senza dota, ma la dotarò del mio in io per me arei messo la vita per loro, nou
quanto vorrà egli stesso, e gliele arò obbrigo che servitogli di venti scudi o di venticin
in sempiterno ? Da me certo non resterà : que: e tutti m'hanno negato; tutti alle
io sono per tentare ogni via, provare tutti gando chi una scusa e chi un'altra, nè si
i modi, adoperare tutte le forze; mettere vergognavano nel disdirmi d'offerirmisi più
in atto tutto il sapere e il poter mio, che mai; come se le promesse sole doves
per conseguire la più bella cosa che sia nel sero bastare, o s'avesse più a credere alle
mondo e la più cara: di me arei da do parole, che a fatti. E io era tanto sciocco,
lermi e non d' altrui, se mi lasciassi vin che mi credeva quasi quasi di far loro pia
cere così tosto dalla disperazione, o credessi cere a richiedergli; parte perchè vedessero,
che gli dii, standomi io cortese e colle mani che io aveva fatto capitale delle promessioni
a cintola, me la dovessero condurre a casa. loro, parte perchè potessero usare la mede
Non si fanno nè senza ingegno, nè senza sima sicurtà con esso meco, quando fosse
fatica l'opere grandi: può bene assai la for accaduto loro cosa, che per me si fosse potuta.
tuna, ma qualche cosa giova l' industria ; Oh come sono io rimaso ingannato! E mi spia
chi vuole essere aiutato dagli altri, debbe ce, per Dio vero, non forse meno in servigio
prima aiutarsi da sè medesimo. Che mi sa loro, che per conto mio: che maladetti siano
rebbero giovate tante notti spese senza dor i danari, o più tosto la troppa avarizia degli
mire in rivolgere libri, se nel maggior bi uomini, che gli tengono tanto cari e tanto
sogno, non sapessi valermi degli insegnamenti serrati, che per iscampare la vita a un loro
loro ? Se io disidero cosa ragionevole, con fratello, non che a un amico non ispende
giusti mezzi, a ottimo fine, perchè non debbo rebbero un grosso. Ma non è male nessuno,
io sperare di doverne essere e da Dio aiu donde non nasca qualche bene: io ho più
tato, e dagli uomini? Quanto si debbe ga imparato in questi otto giorni, che se fussi
stigare la soverchia audacia , tanto merita stato in tutti gli Studi d' Italia dieci anni
biasimo il troppo timore: non sarebbe mo alla fila. Ma se lo dicesse il mondo: chi
destia la mia, ma dappocaggine; farei troppo trovò i danari, gli trovò perchè si spendes
gran torto a me medesimo, e forse a lei, sero, e non per tenergli sotterrati. Dunque
che mi preme più. E però non voglio indu cento scudi tignosi hanno a essere cagione,
giare a dar cominciamento all'opera; e po che quella povera figliuola, la quale non è
sciachè io, non ho altro amico in questa men buona che bella , nè men bella che
terra, non che migliore di Gualtieri, sono buona, capiti male, e che io non abbia a
sforzato scoprirmi a lui, con lui consigliarmi, essere mai più contento alla vita mia! Ac
e a lui chiedere aiuto. E contuttochè l'Agno caggiono pure di strane cose a chi ci vive;
letta, che sapeva bene io che non poteva e non è senza maraviglia, che quegli, che
essere altro che un Agnolo sia sua parente; vorrebbono far bene, il più delle volte non
la mia dimanda è tanto lecita, che non of possono, e quegli che potrebbero, non vo
fende l'amicizia a ricercarlo di cosa così gliono: so bene io quel che farei, se un al
ragionevole. Però voglio aspettare, che egli tro fosse nel grado mio e io potessi aiutar
esca di casa, che oggi mai non debbe potere lo. Anco la signora Fulvia non m'è riuscita,
star troppo, avendo ancora a udir messa, e nè come pensava io, nè quale ella mostra
narrargli la cosa come ella sla. Ma e' mi di volere essere tenuta, perchè sebbene ayeva
VARGril V, I,
r
5o LA SUOCERA
ragione a volere oggi mai, che io sposassi la quest'ora? io vo' chiamarlo. Messer Fabri
Fiammetta, come quella che vede l'intrisi zio, messer Fabrizio.
chezza nostra, e non sa che io l'abbia già Fab. Chi mi chiama? O Gualtieri, io veniva
fatto da me a lei; non doveva però met appunto a cercar di voi, e vedere, se voi
termi la cavezza alla gola di que cento du eravate in santa Trinita.
cati, che bene sapeva, che io non gli aveva, Gualt. Eccomi qui prontissimo a tutti i ser
nè gli poteva provvedere così tosto, e me vigi e comandamenti vostri.
ne sono meravigliato più che delle cose, che Fab. Egli è per vostra grazia; e perchè io
non furono mai, e appena che io lo possa ne sono certissimo, però ho preso sicurtà di
ancor credere. So bene io, che ella non è conferirvi quello, che un altro forse si guar
della natura dell'altre: la Fiammetta non derebbe, che voi sapeste.
direbbe a me una cosa per un'altra, che Gualt. Fate conto di dirlo a voi medesimo.
non è da ciò; anzi non direbbe una bugia Fab. Io verrò liberamente con esso voi, come
a persona per tutto l'oro del mondo: e so sono usato di fare, e come si richiede tra gli
bene io quello che ella me n' ha detto più amici, e vi dirò apertamente ogni cosa senza
volte; ma ogni cosa viene da quella vec giri di parole.
chiaccia ruſſiana di mona Nastasia, che la Gualt. Dite via, che l'offerirmivi più sarebbe
mette in su questi curri, ed a lei me l'arre un tornare addietro.
co; e dubito che ella non mi dicesse a quel Fab. Io vidi jersera a caso l'Agnoletta, figliuola
modo di suo capo, senza commissione e di Guasparri, e sorella di madonna Argen
forse saputa della signora. Ma faccia il mon tina vostra cognata, e mi parve di sorte, che
do, io non sono per abbandonarla, essendosi d'allora in qua non ho mai potuto volgere
ella fidata di me, e avendo rimesso nelle il pensiero altrove; e me ne sono in modo
mie mani l'onor suo, e forse la vita. Io le acceso, che volentieri, se fosse possibile, la
ho promesso di torla, e così le voglio osser pigliarei per donna, quando il padre e voi
vare; anzi l'ho tolta ed è mia, e vola: se altri suoi parenti ne foste contenti. A ogni
le leggi sono vere, e 'l vicario non mi vo modo era venuto con animo di impatriare
glia far torto, il parentado non può frastor e accasarmi in Firenze; voi avete provato
nare; gracchino pure quanto elle vogliano, le forze d' Amore; fate per me quello che
chè oggi mai la cosa è in termine, che nes vorreste fosse fatto per voi: io non ho altri
suno me la può più torre. Io son ben con che voi, di chi fidarmi, e da voi solo chieg
tento per iscarico della fanciulla, per sod gio e aspetto prima consiglio e poi aiuto.
disfazione della signora, e per “ure le cose, Gualt. Io pensava che voi dovesti richiedermi
come elle si debbano fare, di menarvi sta di qualche gran cosa, e dove voi aveste ob

sera un netajo di vescovado e darle l'anello bligo a me, non io a voi; ma lasciamo ire
con le debite, se non solennità, cerimonie, l'amicizia nostra, la natura mia e gli ob
più segretamente che si potrà rispetto a mio brighi, che mio fratello, e noi tutti avemo
padre: il quale, credendosi, come tutti gli con esso voi, ricercano, che io vi dica il
altri, che ella sia sorella della signora, n'a- vero liberamente, e vi consigli senza rispetto
rebbe un dispiacere a cielo, e così mia madre; di persone: la fanciulla è bella e buona, ma
e io, potendo far altre, non debbo, e non ella non fa per voi.
vo' dar loro questo scontento: e anche il pa Fab. Perchè ?
rentado si levarebbe a rumore; e in questo Gualt. Perchè ella non ha dote nessuna, e voi,
terrebbero un gran conto di me tutti quan volendovi maritare, trovarete in Firenze tutti
ti; ma se m'avessero a prestare un soldo, quei partiti che vorrete voi medesimo; e
nessuno di loro mi conoscerebbe. Ed io per per dirvi il tutto, se il padre avesse avuto
me crede certo, che sarebbe minore fatica il modo, non sarebbe ora in caso che per
trovare chi ammazzasse un uomo per te, che
povertà la vuole far monaca, e di già è ac

chi ti prestasse un fiorino. Il Pistoia, il quale cettata in un monistero fuor della porta a
non e senza ingegno, e ha sempre tenuto San Gallo di molta buona fama, che si
dal mio, mi consigliava, che io ne ricercassi chiama Boldrona.
messer Fabrizio, e io credo, che me n'a- Fab. Io so ogni cosa. Ma è possibile, Gual
tieri, che un vostro pari dica che una fan
rebbe servito, perchè oltra l'avere di molti
danari contanti in sul banco de' Salviati, ciulla non si può maritare, perchè ella non
egli è la gentilezza e la cortesia del mondo; ha dete? Che più bella dote che i buoni co
ma non mi pare che stia bene, nè vorrei; stumi dell'animo, massimamente quando vi
avendogli noi tanti altri obblighi, che mi sono aggiunte le bellezze del corpo? lº per
tenesse uno affrontatore. Ma che sto io qui me non mi curo di dote, anzi la voglio dº
a perdere tempo, e dir quasi le mie ra tare del mio in quanto vorrà suo padre me
gioni a birri, come se io non avessi faccenda desimo.
nessuna? Lasciami andare infin qui in Chiesa Gualt. Voi sete de'mici, o io per dir meglio,
a udire una messa spacciatamente, poi darò dei vostri, che non mi curo anch'io di tante
ordine a quanto bisogna per istasera; ma e' doti: e avendo a torre una compagnia per
mi pare aver veduto scantonar là non so sempre, mi par dovere di torla a modo mio,
chi: e par tutto messer Fabrizio: egli è non secondo il gusto d'altri, come Parº,
desso. Che va egli aliando quinci oltra a che facciano i più : ma io vi risposi a quel
COMMEDIA 451
modo, perchè oggi s'usa così in Firenze, e
altrove ancora mi penso io. Ora che ho in MADRIALE SECONDO
teso l'animo vostro, lasciate fare a me: io
non dubito d'altro, se non che siate venuto Quanti nuotano il mar, quanti nel cielo
un poco tardi; perchè erano rimasi di man Volano, e quanti albergan per le selve,
darla nel monistero dimattina: ma io tro Pesci, augelli e belve,
verò il padre e la madre, e vedrò di svol Tutti senton d'Amor le fiamme e 'l gielo.
gergli; chè non è ventura questa di lasciar Ma con più spessi e più pungenti strali
sela uscir delle mani, se non sono pazzi. Io Lo Dio, ch' ha faci ed arco,
udirò spacciatamente messa, e andrò subito Mai non fu, nè fia mai di ferir parco
a trovargli a casa per l'uscio di là del chias Gli egri del tutto e miseri mortali.
so; benchè ora ci stanno un poco grossi,
per la cagione ehe intenderete altra volta;
e dirò e farò tutto quello che in questo
caso mi parrà da fare e da dire. ATTO SECONDO
Fab. Io ve n'arò obbrigo immortale; ma vor
rei bene prima, che voi in gran piacere ri SCENA PRIMA
chiedeste me di qualche servigio: voi sete
giovane e innamorato, come sono ancora io; Mona NAsTAsIA, mezzana, signora Fulvia,
ma avete padre, dove io non l'ho, o è come cortigiana.
se io non l'avessi, onde non potete disporre
del vostro, come posso io, e talvolta a voi Nast. Naffe, io t'ho detto mille volte, Fulvia,
sarebbero qual cosa cento o dugento scudi, che tu non abbi nè misericordia ne discre
che a me, grazie di Dio, non sono nulla: zione di nessuno, e che tu tragghi da tutti
sicchè fate, vi prego, che possa conoscere, e in tutti modi tutto quello che tu puoi ,
che voi abbiate fede in me, altramente pen se tu dovessi bene cavarne un puntal di
serò, non vogliate, che pigli sicurtà in voi. stringa : guarda un poco come fanno l'altre,
Gualt. Vi ringrazio per mille volte, e se mi le quali non sono a mille miglia, madonna
accaderà cosa nessuna, sarò a fidanza: in no, che elle non sono, ne giovani, nè belle
questo mezzo non potete far cosa, che più eome sei tu, e pelano, anzi scorticano chiun
mi piaccia, che comandarmi. Ma non è da che capita loro alle mani. Ma e' mi pare
perder tempo, io voglio andare a far quanto d'aver predicato a porri, e che tu facci
avemo ragionato: restate in pace. ogni giorno peggio: io ti dico, che non bi
Fab. Dove vi troverò io poi? sogna oggidì guardare in viso persona; ma
Gualt. Fate d'essere qui intorno, che darò menare la mazza tonda, e a chi coglie, s'ab
volta di qua. bia il danno.
Fab. Guarda modestia di giovane. S'è peri Fulv. E non vorreste, che io ne eavassi nes
tato a richiedermi in sì gran bisogno; anzi suno ?
non ha voluto accettare quanto gli ho prof Nast. Nessuno, fanciulla mia, nessuno.
ferto da me; e maggior calca gli arei fatto, Fulv. Ah, mona Nastasia.
se non avessi dubitato, che non fosse paru Nast. Tu sai molto tu. Sappi figliuola mia,
no come un volerlo pagare del piacere che che nessun di loro viene a te, se non for
mi faceva. Io ho voglia d'andargli dietro, e zato, e che non s'ingegni molto bene di
dirgli come ho udito ogni cosa, e che non eavarsi le sue voglie con più parole e meno
sono della natura di coloro che l' hanno ab danari che egli può. Piglia esempio da me,
bandonato appunto in sul buono; benchè lo figliuola mia : da me bisogna pigliare esem
possono aver fatto a fine di bene, per non pio; che al tempo mio, quaranta o cinquanta
lasciarlo incorrere in questo errore, non anni sono, non si diceva altro per tutta Vi
sappiendo più là; ma egli l'arebbe forse negia, se non madonna Nastasia; che in quel
per male, e non vorrebbe poi accettargli in tempo non ci chiamavano ancora signore.
nessun modo: ma se oggi non era festa, egli Ed io non aveva questa gobba, anzi era di
gli arebbe avuti a quest'ora; perchè io arei ritta come un fuso; benchè lo scrigno non
fatta una polizza al banco, che pagassero fa bruttezza egli: e la mia casa correva pro
subito dugento scudi d'oro all'apportatore, pio come un mare: e questo fregio, che tu
e datala al Pistoia. Ma io so quello che fa mi vedi così grande a traverso al viso, non
rò: io gli darò questa collana, e dirò, che non mi fu fatto per altro, se non perchè non
trovando d'accattarci su cento scudi infino volli accettare dugento zecchini d'oro, che
a dimattina, che i banchi saranno aperti, mi mandava uno de primi gentiluomini di
che la mandi alla signora Fulvia per pegno, quella città, tutti contanti: no , ch' io non
e non dica a Gualtieri d'averla avuta da gli volli accettare, ed egli medesimo fu poi
me: ma dove lo potrei io trovare? dove? cagione, che io fui bandita di terra e luo
bisogna mettersi a rischio e ventura: donde go. Ma vè, che non gli accettai, e ora son
la darò º pigliamola di qua. condotta, come tu vedi, mal vestita e peg
-
gio calzata. Magari Dio, che io avessi pur
la metà di quello, che aveva la più trista
massara di parecchi, che io ne teneva! Sappi,
ILA SUOCERA
452
che se non fossi tu, che mi fai ogni di qual l Nast. Dattelo pure a credere, tu te n'avve
che limosina, io mi morrei propriamente i dresti: Dio ti guardi dal bisogno; tu non
della fame; perchè, a dirti il vero, le no sai bene ancora, tu non sai ancora bene,
stre pari non guadagnano più nulla. Naffe, Fulvia, in che concetto noi semo tenute
io non so io, o che 'l mondo sia impoverito, dalla maggior parte degli uomini: alle gua
o pur che le brigate facciano da loro, sen gnele, che e' ci conoscono meglio, che noi
za tanti mezzani, e non mi capita più per ci diamo a intendere. Io ti dico, Fulvia, io
sona veruna a casa. E pur mi ricordo, non ti dico, che noi avemo da ringraziare Dio,
son mill'anni, che non soleva essere mai di, e qualcuno altro, e tu stai a dire, che non
che non me ne venisse una cinquantina alle ti par cosa giusta. E' bisogna fare altra arte,
mani; e in buona fe , che fu talvolta, che e non essere cortigiana chi vuol guardare a
intorno all'uscio mio era sì grande la serra, quel ch'è giusto, o non giusto. Ti so dire
che pareva, che alla mia casa fosse la sa io, che tu m'hai chiarita affatto: io non
gra; e beato a chi poteva essere il primo ne vo più: danari bisogna, danari, Fulvia,
ad avere udienza. Ora mi sto tutto quanto e non tante baje; noi siamo belle e rac
il nato dì a culattare le panche, che non conce, se tu hai a por mente a coteste chiac
v abbaja mai nè cane nè gatta. Sicchè im chiere. Io ti protesto, tienlo a mente, e le
gatelo al dito, che se tu non ti muti di na
para, figliuola mia, impara, che non arai
sempre di queste maestre. tura, tu ti troverai colle mani piene di
Fulv. Non vi scorrubbiate tanto, mona Na vento ; e te ne pentirai a ora e tempo, che
stasia: che volete voi ch' io faccia? non ti gioverà.
Nast. Dà buone parole, e friggi. Fulv. Io fo questa arte, perchè la fortuna mia
Fulv. A tutti? volle così, non già per elezione, che m0n
Nast. A tutti sì; di che hai tu paura? fui figliuola di persona da ciò, ma io rin
Fulv. Non mi par ragionevole di dover esser grazio Dio che ho tanto al mondo da me,
la medesima con ognuno, che posso vivere senza avere a richiedere
Nast. No, eh ! tu t'inganni : a ognuno biso persona; e se io mi levo la Fiammetta di
gna dar sole e caccabaldole, per trargli qual casa, e la conduco a onore, come spero e
cosa delle mani : che costa egli a te ? certamente desidero, voi mi vedrete tenere
Fulv. Io vo dire io, che non mi par giusto, un' altra vita: ch' io stimo più l'anima mia
di non aver a far meglio a uno, che a un che quante ricchezze furon mai.
altro. Nast. Tu puoi far ciò che ti pare: ma dubito
Nast. Moja! non ti par giusto di fare ad altri che tu sii mal consigliata, e non bisognareb
quello che essi cercano di fare a te? Io ti be altro a voler far correre la cavallina, se
giuro, che se tu tieni di questi modi, tu fa non che o io fossi bella e giovane come sei
rai pochi avanzi, e darai da ridere a chi ti tu, o tu fossi scaltrita e scozzonata come
vuol male. Ricordati un poco, quante volte sono io : io so, che ella andrebbe al palio,
tu sei stata ingannata: non voglio, se non io. Ma guarda un poco: non ti dissi io che
ultimamente Gismondo. Quante volte ti pro quella fraschetta non farebbe nulla di quello
mise egli, e con che paroline, da ingannare che tu mi commettesti, che io gli dicessi da
ognuno, eccetto che me? quanto ti giurò, parte tua? Oggi è l'ultimo di, ed egli, non
che non era mai per pigliar donna, mentre che sposata, o mandati i danari, non s'è
che vivessi tu ? E pur la prese: parti, che pur lasciato vedere, o mandato a dire cosa
egli te l'appiccasse? dissit io, che te l'ac alcuna, che prima non si partiva mai di
coccherebbe: che di tu ora ? che rispondi casa, e stava sempre a covarla e far pissi
tu a questo ? pissi con lei: io sono sempre indovina, e
Fulv. Gismondo fu costretto dall'importunità tu non mi vuoi credere mai.
del padre, e non poteva far di meno: ma Fulv. Indovina, sarò stata io: questo è ap
sappiate, che egli mi voleva meglio che pri punto quello che io voleva; ne lo feci ad
ma, e non lasciava mai di che non venisse altro fine, se non per dare a lui cagione di
a vedermi, e così arebbe seguitato ; ma io non mi venir più a casa, e a me di non gli
per onor suo, non mi parendo più cosa giu aprire: perchè, se vi ho a dire il vero, an
sta di trattenerlo come prima, e dubitando, corachè egli sia tutto buono e tutto amo
che non venisse in corruccio o col padre o revole, come il suo fratello; nondimeno mi
suocero, e che tutta la broda si rovesciasse pareva che egli avesse presa un po' troppa
addosso a me, non volli mai acconsentirgli, domestichezza colla Fiammetta. E benchè
dopo che ebbe preso moglie; e mostrando non pensi a mal nessuno nè di lui, nè di
megli sdegnata ogni giorno più, feci in modo lei, che è come una santarella ; tuttavia i
per suo bene, ancorchè egli se l'arrecasse giovani son giovani, e chi non vuole che la
per ingiuria, che cominciò a diradare a poco stoppa arda, non bisogna che la metta vici
a poco: tantochè oggi, se non mi vuol be ma al fuoco,
ne, non penso che mi voglia male nessuno. Nast. Ben sai, figliuola, la comodità fa l'uom
Io per me sono la medesima verso lui, ladro; ma io ti dirò il vero: io per me, se
quanto al disiderargli ogni bene e al far fossi ne' tuoi piedi, non cercarei di mari
gliene, se potessi; e così credo che farebbe tarla, che potrebbe servire un dì a mille
egli verso me nelle cose, che importassero, cose; e se pure la volessi maritare, farei
COMMEDIA 453
ogni sforzo, che Gualtieri seneimbertonasse Eh, s' ella facesse a modo di questo fusto,
tanto, che la sposasse nascosamente: fatto buon per lei e per me; bisogna ber grosso
che fosse, bisognerebbe pur che fosse fatto, oggi, e a mala pena ci si può egli vivere a
e che se la beesse, o volesse egli o no: oh, far così: ella è troppo schizzinosa. Queste
questo sarebbe 'l colpo, se riuscisse, che spigolistre, queste santesse, questi picchiapettil
riuscirebbe; questa sarebbe la giuggiola. Pure di queste desse 'l convento, disse il
Fulv. Voi mi riuscite ben voi, come m' era Cipolla: io ne cavo molto ben le spese io,
stato detto, non già come mi pensava io : e anche qualche zaccherella d'avvantaggio,
pajonvi queste cose, mona Nastasia, da do alla barba di chi mal mi vuole. Gavocciolo
versi dire ? alle pianelle ! Io ho dato un cimbottolo in
Nast. Non a me. terra, che sono stata a manco d' un pelo,
Fulv. O, che dite dunque? per dinoccolare il collo: pur beato, che io
Nast. Che si debbono fare, dico, e non dire. non ho fatto la mostra delle mie vergogne.
Fulv. Andate, andate, ch' io non mi maravi Uh, se non ci s'abbattevano per mia buona
glio più, che voi non voleste accettare quei sorte que due Lanzi della guardia, che mi
dugento zecchini: io non aveva altra paura ajutaron rizzare, io non me ne levava in tutto
io, se non che volesse sposarla, tanto bene oggi: oh, che benedetta gente e amorevole
mostra di volerle; e per questo solo vi ag sono questi Tedeschi ! Dio gli mantenga. Al
giunsi quei cento ducati, che so bene che tempo di que Taglianacci del signor Pirro,
non gli ha, e non gli può fare in sì corto non ci si poteva vivere per verso nessuno.
tempo: avetemi voi inteso ora ?
Nast. Non io, non t'ho inteso. Parevati ella SCENA II
però si mal maritata, a darla a Gualtieri,
che è giovane di buon parentado e di buo SIMONE, vecchio, mona CAssANDRA, sua moglie.
na facoltà ? Bisognerà dipignertene uno, se -

questo non ti contenta, che non credo, tu Sim. Ell'è pure una gran cosa, che tutte le
sii per migliorare; cerca pure : mangiare donne siano fatte a un modo, e che mai
t'insegnarà bere. Io ti dico, che questo era non sene trovasse una di fallo: tutte sono
troppo buono. d'un pelo e d' una buccia: tutte vogliono
Fulv. E per questo non arei io voluto; chè e non vogliono le medesime cose; che spe
so bene che il padre e la madre non sap gnere sene possa egli il seme, come de can
piendo, che ella è fiorentina e nobile, ma gialli! Ma non si trovò suocera nessuna che
credendosi che sia mia sorella, come crede non volesse male alla nuora ; mai nessuna
ognuno, si sarebbero levati su e messo a moglie, che non si contrapponesse al ma
rumore Firenze; e io non ho bisogno della rito, e lo volesse governare: le padrone di
nimicizia di persona, e d' essere una sera casa vogliono essere elleno le mone merde,
sfregiata a vedere e non vedere, senza sa e va, di che ci sia rimedio; o per una via,
pere nè perchè nè per come. o per un'altra, e bisogna che 'l bando si
Nast. Tu guardi a troppe cose: chi pensa a mandi da parte loro. E par proprio che
tutto quello che può intervenire non fa mai tutte abbiano studiato, e si siano addotto
nulla: tu aresti potuto dirlo loro poi. rate in una scuola medesima: e se nessuna
Fulv. La prima cosa, io non lo so di certo, è la maestra, la mia mona saccente è dessa.
non avendo mai potuto spiarne cosa nessuna, Cass. Povera a me, che sono accusata sì agra
se non che il capitano che la mandò a mia mente, e non so d'aver fatto cosa nessuna l
madre, con grandissima sicumera scrisse così: Sim. Non lo sai, eh ?
poi essi non l'arebbono mai creduto, e sem Cass. Non, se Dio m'ajuti, marito mio: così
pre arebbero cercato di farmi mal capitare; ci sia data grazia, che noi viviamo sempre
onde son forzata, e non mi parrà far poco, insieme !
a maritarla non secondo il grado, in che Sim. Dio me ne guardi.
nacque, ma secondo quello nel quale si ri Cass. E un dì conoscerete quanto vi siate do
truova. Ma io veggo uscire di casa Gual luto di me a torto.
tieri non so chi; andiancene ratte che, non Sim. A torto eh ? E'non è sì gran male, che
fosse egli o 'l Pistoja suo servidore. tu non meritassi peggio; che non ti vergo
Nast. Oibò, va oltre egli, e Simone suo padre, gni a far questo disonore a me, a te, e a
e mona Cassandra sua madre; ch'aranno tutta la casa nostra, e di più essere cagio
inteso qualcosa di questo fatto: lor danno : ne, che Gismondo nostro figliuolo abbia a
il caso sarebbe che fosse riuscito; l'altre tutte vivere mal contento: oltrachè il padre e la
bubbole. Questa cervellina sa molto ella chi madre della fanciulla, che ci volevan tanto
se la bevve : ma la cierbiattolina ruzza in bene, e che ci avevano fidate le carni loro
briglia. S'ella s'avesse a guadagnare il pane ci diventeranno tutti nemici per amor tuo.
come fo io, alla fe', alla fe', ella farebbe Cass. Per amor mio ?
manco melarance, e non la guarderebbe così Sim. Per amor tuo si; che, pensi tu, ch'io sia
in un filar d' embrici, no; anzi, posti da una bestia ? Daiti tu a credere, pezzo di
parte tutti i rispetti, non arebbe risguardo carne cogli occhi, ch' io, perchè mi stia in
nessuno a persona. Ma lasciami andare che villa, non sappia quello che voi fate: io
ella non mi sentisse ; ella guarda di me si so meglio quello che si tresca qua giù, che
454 LA SUOCERA

non sapete voi medesime. Egli è un pezzo, cera, come fanno l'altre; ma come padre
ch'io m'avvidi che l'Argentina non ti po amorevole, che ti sono sempre stato, voglio
teva patire, e non me ne maraviglio punto; crederti, che tu non possa durarvi, mentre
mi maraviglierei ben del contrario, che tu che Gismondo è di fuori, e compiacerti, che
non le fossi venuta a noia. Ma io non cre tu stii qui con tua madre infino alla tor
detti già, ch'ella avesse avere in odio tutti nata sua, la quale oggi mai non debbe po
noi altri per cagione di te sola; che se l'a- tere indugiare troppo. In fine io comincerò
vessi pensato, se l'avessi pensato, ella sa a credere che sia vero, che una fanciulla,
rebbe ancora in casa, intendimi, e tu sare che ne vada a marito, e non truovi suocera,
sti balzata fuori: tu non hai già cagione di si possa chiamare felice.
trattarmi a questo modo, e tu lo sai. Fac Sim. Io veggo appunto Guasparri; io vo pur
ciamo a dire il vero senza collera: parti, provare di cavarne qualche risoluzione. Gua
Cassandra, ch'io meriti questo da te? Io sparri, ancorach'io non sia di quegli uomini,
mi sto il più del tempo in villa, per dar che la guardano in ogni bruscolo, e vogliono
luogo a voi altri; provveggovi giornalmente stavedere tutto quello che si fa in casa, dalla
la casa di tutti i beni: affaticomi finalmente minima cosa alla grande; tuttavia io non
più che non si conviene al grado mio, nè sono anco di quegli, che voglia lasciarmi
alla età, acciò vi possiate riposar voi: non governare affatto affatto, quasi che non vi
dovevi tu ingegnarti ancora tu dal canto fossi per nulla; e come non mi piacciono
tuo di non mi dar dispiacere nessuno, e mas que'padri, che vogliano vederla sottilmente
simamente di questa sorte ? Se mi dai di fil filo coi figliuoli, e tenerli sempre a stec
queste battisoffiole, tu vorrai che 'l naso mi chetto, così non mi piacciono ancora que
fumichi poco. gli che lasciano loro troppo tosto e troppo
Cass. Se Dio m' ajuti, marito mio, io non ho larga la briglia in sul collo, e gli trascurano
colpa nessuna in questa cosa. del tutto. Io vo bene compiacere a miei:
Sim. Anzi è tutta tua: qui non è stato altri ma nelle cose ragionevoli voglio che abbiano
che tu, che ti doverresti vergognare, essen ardire di favellarmi liberamente, ma non già
do si vecchia, d'aver preso izza con una dirmi villania; e in somma voglio più tosto
fanciulla. Che i dirai tu, che sia venuta da essere benigno e mansueto, che severo e ri
lei, o che ella te n'abbia data giusta ca gido; ma non però tanto, che mi lasci so
gione ? praffare, e così nuoca in un medesimo tempo
Cass. Cotesto non dico io, nè lo dirò mai, e a loro e a me. Se tu l'intendessi anco tu
perchè non è vero. così, noi non saremmo per ventura in que
Sim. Io ho ben caro che non sia vero, non sto termine, dove noi semo; ma io veggo
già per tuo conto ; chè oggimai da farme che tu ti lasci troppo trasportare dall'amore
ne tu una più, o una meno, non rilieva paterno, e perche ognuno in casa tua fa di
molto; ma si bene per amore di Gismondo, te quello che egli vuole, ne nascono poi
acciò non abbia da dolersi se non di te. di questi inconvenienti.
Cass. Che sapete voi, marito mio, che ella Guasp. Bene: tu hai ragione, si! sta a vedere
non abbia fatto le viste di volermi male, e che sarò stato io, e che la colpa sarà la mia!
trovato questa scusa per istar con sua ma Sim. Io venni ieri inſin di villa a trovarti caldo
dre il più ch'ella può º - caldo, per intendere che cosa fosse questa
Sim. O bella ! guarda se ella l' ha trovata ! della tua figliuola, e non potetti trarne frutto
che più bel segno vuoi tu, se non che ieri, nessuno: io sono disposto e diliberato di ca
quando tu andasti per vederla, non ti fu varne o cappa o mantello. Se tu vuoi che 'i
aperto ? parentado duri, non bisogna che tu t'adiri,
Cass. Perchè ella si riposava molto bene; però e non dica perchè. Se noi avemo fatto er
dissono, che non mi volevano aprire. rore nessuno, o cosa che non ti piaccia, dic
Sim. Io per me non credo, ch'ella abbia al celo, perchè o noi ti giustificaremo che non
tro male, se non che non può sopportare sia vero, o essendo vero, ci ammendaremo:
più cotesti tuoi modi fecciosi; e credo in ma se voi non avete altra cagione di non
verità, ch'ella n'abbia una gran ragione; la ci voler rendere, se non il dire che sia
tutte le madri sollecitano i figliuoli a tor malata, voi ci fate ingiuria, perchè, grazia
moglie, e quando gli hanno tanto stimolati, di Dio, avemo il modo da farla medicare e
che l'hanno tolta, o elle le cacciano di casa, governare ancora noi. Guasparri, io credo
o fanno in modo, che se n'abbiano andare aver tanto caro ch'ella guarisca, quanto
da loro: che vi possa venire la contina a t'abbi tu, ancorachè le sii padre. So ben
tutte quante. io quanto l'ama, e che stima ne fa Gismon
do mio figliuolo; e perchè mi avviso troppo
SCENA III bene quanto dispiacere pigliarebbe di questa
cosa, se la sapesse, però vorrei che tu ne
GUAsPARRI vecchio, SIMoNe vecchio, la rimandassi a casa innanzi che egli fosse
mona CAssANDRA, matrona.
tornato; chè l'aspettiamo di giorno in giorno,
Guasp. Io conosco molto bene, Argentina, che anzi d'ora in ora, come tu sai.
io potrei, e forse doverei farti tornare a Guasp. Simone, io non ho a conoscere ora la
casa del tuo marito, e vivere colla tua suo diligenza e amorevolezza di tutti voi, e co
COMMEDIA 455
nosco ciò che tu di essere verissimo, e voglio gionevole, che io mi ponga a contenderla
che tu mi credi questo, che io non ho manco seco a tu per tu, e volere che la mia stia
voglia di rimandarla, che tu di riaverla; ma disopra, ancorachè io abbia ragione; e sono
io non posso, credimi, ch'io non posso. certissima, che passatagli quella stizza, si
Sim. Che è quello che ti tiene, che tu non dorrà d'avermi detto villania; e quando
possa? dimmi, ti prego, ecci nulla in frodo, anco bene perseverasse in questo errore,
o sotto coperta ? duolsi ella del marito in giudico, che sia minor male, se non meglio,
cosa nessuna º far così, che mettere sotto sopra il paren
Guasp. In nessuna, che sappia io. tado, o far bella la vicinanza, facendosi uc
Sim. Perchè non puoi dunque rimandarla? cellare da chi ti vuol male, e biasimare da
Guasp. Io non ti so dir tante cose, se non che, chi ti vuol bene. Almeno tornasse presta
volendo io intendere molto bene questa cosa, mente il mio figliuolo, come egli ha scritto:
per non andarne preso alle grida, e costrin oh come l'arei caro, e a quante cose mi
gerla a ritornarsene, ella m' ha giurato, che tornerebbe bene ! Ma io veggo venir di qua
non potrebbe mai reggervi, mentre che Gi il nostro servidore, che favella con quel fo.
smondo non v'è egli ; ma tosto che 'l ma restiero da Raugia. Io voglio andarmene in
rito sarà tornato, dice che tornerà anch'ella casa dirittamente, chè non mi trovassero qui
subito. Simone, ognuno ha qualche manca così sola; e poi gli dimanderò, s' egli ha
mento: io per me sono di natura benigna, inteso nuova nessuna del mio Gismondo, che
e non posso stare a contendere co' miei, e mi struggo di vederlo, più che non fa il
contrappormi alle voglie loro. sale nell'acqua.
Sim. Addio Cassandra, la cosa e chiara !
Cass. O meschina a me ! SCENA V
Sim. Sei tu risoluto così ?
Guasp. Per ora non ho che dirti altro ; vuoi Messer FABRIzIo Raugeo, il Pistoia, servidore,
tu qual cosa da me? Che mi bisogna andare GuALTIERI, giovane.
insino nel Carmine, per una faccenda che
m'importa. Fab. Tu m'hai dato una buona novella. Oh,
Sim. Io t'accompagnerò un pezzo in là. Gismondo mio, come ti vedrò io volentieri !
Ma quando di tu che egli arrivò
SCENA IV Pist. Jersera.
Fab. Perchè non venne egli in Firenze a di
Mona CAssANDRA sola. rittura ?
Pist. Non v'ho io detto, che trovò la porta
Noi altre donne siamo pure il bersaglio degli serrata, ed era tanto tardi, che non si spor
uomini, i quali ci biasimano sempre, e il più tellava più ?
delle volte senza ragione, e i nostri mariti Fab. Donde hai tu saputo tanti particolari ?
ci odiano tutte generalmente, per li porta Pist. Trovai presso alla porta il servidore di
menti d'alcune particolari le quali in ve Francesco Bandini, in villa del quale egli
rità fanno danno e vergogna a se e a noi; alloggiò ier sera con Pierantonio suo figliuo
e fanno un gran male, perchè gli uomini si lo ; e non ci sarà prima che oggi un tratto,
credono poi, che noi siamo tutte quante chè lo vogliono tenere a desinar quivi sta
d'una ragione. La qual cosa quanto sia mane, e venirsene poi a piede pian piano,
falsa lo posso mostrare ora io, e renderne per fare un poco d'esercizio, e parte per
buona testimonianza ; perchè così m'ajuti fuggire il freddo.
Dio, com'io non ho colpa nessuna in quello, Fab. Si vuole che tu corri a casa a dar que
di che m'accusa e biasima il marito si aspra sta allegrezza a suo padre e a sua madre;
mente: e non solo ci ho colpa nessuna, ma e a casa del suocero sarebbe anco bene che
non mi posso immaginare, onde sia proce tu andassi.
duto cotanto sdegno; e dubito di qualche Pist. A casa nostra andrò io, colà no: ma vo
mala lingua, che Dio gliel perdoni, che non glio prima trovar Gualtieri, che arà doppio
può essere stato altro. Ma non sarebbe pos piacere, uno della tornata del fratello, l'al
sibile cavarglielo della testa mai; in modo tro, che credo gli importi più, di questa
s'è fitto nel capo, che tutte le suocere ab collana, che voi m'avete data: oh, ella è
biano in odio le nuore, e le vadano sempre bella! Voi avete ragione d'avermi tante volte
urtando e perseguitando con tutte le ma detto e ammonito, ch' io abbia cura, ch'ella
niere, di tutti i dispetti che sanno e posso non vada male: cagna ! ma non dubitate,
no. Ma io per una so bene, che non sono ch'io non la perderò, mo; io ne ho ben
di quelle, perchè ho sempre amato la mia, portate dell'altre si, state pur sicuro, e non
e l'amo non altramente, che se mi fosse abbiate paura di marame nessuno.
figliuola; ma quanto più mi scusassi col mio Fab. Io non lo ho fatto per cotesto, ma per certe
marito, e più cercassi di sgannarlo, dimo altre mie fantasie, che m'importano troppo
strandogli l'innocenza mia, tanto peggio più.
farei, e tanto lo mi crederebbe meno. Onde Pist. Che sarà stato un favore di qualche si
non so che farmi, se non averne una buona gnora, o d'una cittadina forse ? certo fu un
Pazienza: egli è mio marito, e non e ra bel presente.
456 LA SUOCERA
Fab. Ricordati bene di quello ch'io t'ho detto, avere, se l'avessero dimandata, anzi che
e non far tante parole; e soprattutto abbia forse ne sono stati richiesti e non l'hanno
avvertenza a quella crocietta che v'è ap voluta; e io, che per vederla, non ch'altro,
piccata, ch'ella non si perdesse, o ne fosse metterei la vita mille volte ogn'ora, non po
spiccata da qualcuno. trò averla! O Fabrizio, tu nascesti pure sven
Pist. Lasciate pur fare a me, ch'io veggo bene turato, che farai tu ? che dirai tu ? qual
dove giace Nocco, e che le pietre son tutte vita, o piuttosto qual morte sarà la tua, se
colaggiù : volete voi nulla ? l'Agnoletta . . . Ma ecco Gualtieri. Sono io
Fab. Che ti ricordi di non dire a Gualtieri, vivo o morto, Gualtieri ?
che l'abbi avuta da me; ma che ella ti sia Gualt. Nè l'uno, nè l'altro.
venuta nelle mani in quel modo che tu mi Fab. Pensa come io sto.
dicesti dianzi. Gualt. Che Guasparri usci sta mane di casa in
Pist. Omb è. quella benedetta ora, che non voglio dire
Fab. E digli, ch'io mi consumo di vederlo. altramente, e non è mai tornato, e nessuno
Pist. Così gli dirò , volete voi ch'io dica nulla me l'ha saputo insegnare: ma state di buona
a Gismondo ? perchè come arò favellato a voglia, che la cosa è facitoja. Voi mi parete
Gualtieri, andrò a incontrarlo verso la porta. mezzo morto; che avete voi?
Fab. Raccomandami a lui, come ti dissi dianzi, Fab. Son peggio che morto.
e digli che verrò a vederlo subito. Gualt. In che modo?
Pist. Sarà fatto. Questo è un bel catenone egli, Fab. Voi l'avete detto da voi.
e queste gioie intorno a questa crocietta, non Gualt. Voi mi fate maravigliare: chi arebbe
sono mica una buccia di porro: ma e'ci son da stare più addolorato di me? Le bisogna
pochi di da mangiar carne, che queste va pigliarle come elle vengono; e questa, m'a-
nità non si potranno più portare ; faccino vete detto voi, è la maggior differenza e la
il giorgio questi parecchi di, che poi biso più importante che sia tra i savi e i matti;
gnerà attendano ad altro: noi ce ne semo e ora par che vi siate abbandanato per non
fuor, noi altri, di questa legge. nulla.
Fab. Grande accidente è l'amore, grandissimi, Fab. Ognuno è buono a confortare altri: bi
anzi soprannaturali sono gli effetti suoi : tutti sognarebbe, che m'avessi sentito dianzi, ma
gli altri mali hanno qualche rimedio, e lo altra cosa è il dire, altra il fare: quando
cercano: questo non l'ha e non lo vuole: l'uomo è discosto al pericolo, non si cono
gli altri occupano sempre i peggio disposti, sce, e ognuno fa il gagliardo; ma dappresso,
e offendono le parti più debili; questo corre si va più adagio. -

principalmente al cuore, e non entra, se non Gualt. E che domine avete voi più discosto, o
negli animi generosi: tutti gli altri hanno più dappresso che dianzi?
qualche volta qualche risquitto; questo non Fab. Oh che ho º Non sapete voi, che l'in
cessa, nè posa mai: e dirittamente fu aggua dugio piglia e che a chi ha fretta, non si fa
gliato al fuoco, e io ne posso fare ampis mai tanto presto che basti ? Io vi ricordo,
sima fede, che se fossi tutto di cera, e fossi che le mie speranze son di vetro, non di
in una fornace ardentissima, non crederei diamante, e io, che sono di neve, sto a un
struggermi tanto, nè tanto consumarmi, quan sole che è caldissimo.
to fo ora. Almeno lo sapesse chi n' è ca Gualt. Noi semo accozzati bene? La fortuna
gione! Una volta sola ch'io la sentissi favella vuol pure il giuoco degli uomini molte vol
re, appagarebbe tutte le pene mie; ma questo te: io non sono ben vivo, infino non ho la
è quasi impossibile in questa terra. Bene ag risposta di colà, e mi conviene risuscitare
gia Siena in questa parte: non sono le donne costui, che è quasi morto. Non dubitate,
meno oneste, perchè siano più libere, quan messer Fabrizio, io lo trovarò oggi senza
do sono veramente donne, ma bene manco manco nessuno, e conchiuderemo la cosa.
melense. Come non si truova cosa più bella Fab. Dio 'l voglia.
d' una bella donna, così non si può trovare Gualt. E' lo vorrà, state sicuro, perchè è cosa
contento maggiore, che possederla giusta giustissima. Sicchè andatevene verso desi
mente: perchè dove è il bello, rade volte nare, e riposatevi sopra le spalle mie.
è, che non vi sia ancora il buono. O Agnolet Fab. A desinare eh ! venite almeno a desinar
ta, sarà mai quel di, che di tanta e si orribile meco.

tempesta entri in porto così disiato e così tran Gualt. Non posso, affè, che mi conviene essere
quillo? che, se non altro, possa conoscere al con certi miei amici.
meno la ventura mia; il che non fanno forse Fab. Dove vi trovarò io dopo desinare?
molti altri. Ma come è, che Gualtieri non Gualt. Verrò a trovar voi, spedito che arò la
venga? che pur mi disse ch'io l'aspettassi qui cosa, non dubitate.
intorno, che darebbe volta di qua: non debbe Fab. Avvi trovato il Pistoia, che cercava di voi?
aver da dirmi cosa che gli piaccia, che sa Gualt. E mi riscontrò costi, quando veniva a
rebbe venuto, tant'è ch' egli andò. Ahi, trovarvi, e gli ho ordinato tutto quello ha
sorte mia, quanto ho da dolermi, e non so da fare. Ma non istate più a disagio: addio.
di chi ! come è vero, che le venture cor Fab, Addio; mi vi raccomando ve”, che la sua
rono dietro a chi le fugge! quanti giovani tanta fretta, o più tosto la mia passione, per
sono in questa terra, che l'arebbero potuto non dir balordaggine, m'ha fatto sdimenti:
COMMEDIA 457
care di dirgli, che Gismondo è tornato, e si la signora, per lo avere io tolto donna, ben
farà oggi a ogni modo ! chè se il Pistoia chè ella nol volesse mai confessare e sempre
gliel avesse detto, me n' arebbe toccato un dicesse di farlo per onore e ben mio, n'ebbi
motto: benchè gl'innamorati non si ricor tanto dispiacere, che fui per impazzare di
dano, se non d'una cosa sola. dolore: e appena me n'era levato (so ben
io con quanta fatica) e posto l'animo e
l'amore nell'Argentina, che mi convenne
malgrado mio, innanzi che potesse mostrar
MADRIALE TERZO gliele, andare a Raugia, dove io non cre
detti mai veder l'ora di tornarmene: e ora,
Giù negli eterni pianti che pure dopo tanti travagli e tanti peri
Tra Cocito, Acheronte, Averno e Stige coli ci sono finalmente tornato, truovo ogni
Nessuna pena i tormentati afflige, cosa in garbuglio, e non potrò, come m'era
Che qui non abbian gl'infelici amanti. immaginato per questo viaggio ogn' ora mille
L' urna, il sasso e la fonte, volte, vivermi in santa pace colla mia moglie.
Ed ogni maggior duol ch'ivi si conte, Pist. E perchè non potrete voi?
Son poco o nulla verso quei, ch'ognora Gism. Perche no? Tu sai molto tu : egli è ne.
Soffie tormenti e guai, chi s'innamora. cessario una di queste due cose, o che l'Ar
gentina abbia errato ella, o che mona Cas
- sandra si sia mal portata verso di lei: e
qualunque sia di queste, io sono spacciato,
e non ho più rimedio.
ATTO TERZO
Pist. Oh perchè ?
Gism. Perchè sì non lo vedi tu perchè? Per
SCENA PRIMA che l'una è mia madre e l'altra è mia mo
glie: a mia madre non è cosa onesta, che
GisMospo, giovane, il Pistoia, servidore, e poi io m' opponga, anzi debbo sopportare, se
mona CRIoFè, matrona. non volentieri, almeno pazientemente tutto
quello, che ella ha fatto: all'Argentina dal
Gism. Io non credo che a cercar tutto l'uni l'altro lato, oltra l'amore che le porto, che
verso mondo, si potesse trovare uomo più non è piccolo oggi, ho infiniti obbrighi, co
sgraziato di me nell'amore: almeno fossi io me tu sai ; e sii certo, Pistoia, ch' egli è
affogato in quella tempesta, che noi avemmo forza, che tra loro sia nata qualche gran
sì grande: e forse che la morte non mi do cosa, poichè si sono adirate insieme e hanno
leva; parendomi mill' anni di tornar qua, durato tanto.
dove, essendomi spiccato finalmente, e Dio Pist. Appunto! non sapete voi, che le donne
sa con quanti affanni, della signora Fulvia, hanno poca levatura per l'ordinario, e sono
mi pensava d'avere a vivere tranquillamente fatte come i fanciulli che s'adirano per ogni
in grandissima pace e contento tutto il ri piccola cosa, e bene spesso per nonnulla ?
manente della mia vita colla mia carissima e se si potesse vederne il vero, una pa
donna; e costui m'ha detto per la strada, rola sola sarà stata cagione di tutto questo
ch'ella s' è adirata con mia madre, e ri loro adiramento, e l'arà fatte pigliare il
tornatasene a casa sua. Oh, quanto era il broncio; ma ognuno vuol poi stare in sulle
migliore, ch'io non ci tornassi mai, per non sue, e non essere primo a favellare, per non
avere a intendere così fatte novelle! parere di voler chiedere buon giuochi: e
Pist. Anzi avete fatto molto bene a tornarve però avete fatto molto bene, come vi di
ne, perchè se non tornavate, queste loro ceva pur teste, a csser tornato.
izze sarebbero ite crescendo ogni giorno più, Gism. Orsù, alla buona ora sia : avviati su, e
dove ora ciascuna di loro arà rispetto a voi; di loro come io sono venuto.
e voi, intendendo la cagione di queste loro Pist. Oh oh ! che domin di cose è questa!
differenze, le potrete mettere agevolmente Gism. Taci, io sento un gran correre di qua
d'accordo. Queste sono cose leggieri, e che e di là: Pistoia, accostati all'uscio: fatti
accaggiono tutto il di fra le donne: sicchè più qua.
non bisogna darsene tanta passione, e sti Pist. Oh, oh, l avete voi sentito?
marle così gravi, quanto pare, che voi fac Gism. Taci, non cicalare: questo è un gran
ciate. rumore, questa è qualche gran cosa : Dio
Gism. Che bisogna dire a me coteste cose per m'ajuti.
confortarmi, che sono il più infelice uomo Pist. Voi dite a me, ch'io cicalo, e non re
che viva? Tu ti debbi pur ricordare come state di favellar voi.
io stava della Fulvia, quando fui necessitato Gism. Chetati, dico.
a pigliar moglie, per non dispiacere a mio Criofe. Sta cheta, figliuola mia, sta cheta per
padre; il che feci con tanta mala conten l'amor di Dio, e raccomandati alla Vergine
tezza e passione d'animo, che mi maraviglio Maria.
come io sia vivo; e se avessi pensato quello Gism. Quella m'è paruta la voce di mona
che avvenne, non so quello m'avessi fatto: Criofe madre dell'Argentina: o infelice a
sai ancora, che sdegnata meco e adiratasi me ! ella è dessa.
VARCHI V, I, 53
458 LA SUOCERA
Pist. Perche? mondo, e donde abbiano avuto principio
Gism. Perchè dice! e bisogna, Pistoia, che sia queste vostre discordie. Ma eccolo, che vien
intervenuto qualche gran cosa, o qualche fuora, egli è molto accigliato; ella debbe
strano caso, che tu non mi voglia dire. star male, che si rasciuga gli occhi.
Pist. Io per me non so altro se non che ma Cass. O figliuol mio. -

donna Argentina si sentiva un poco di male. Gism. O mia madre, voi siate la ben trovata.
Gism. Perchè non me l'hai tu detto? Cass. Tu sii il ben tornato, figliuol mio; co
Pist. Perché io non poteva dirvi ogni cosa a me sta l'Argentina?
un fiato. -

Gism. E' alquanto meglio.


Gism. Che male ha ella? Cass. Dio 'l voglia. Di che piagni tu dunque?
Pist. Io per me non lo so. e perchè stai così maninconico?
Gism. Non lo sai! Non l' hanno e' fatta ve Gism. Non, per nulla, mia madre.
dere a medeci? Cass. Che romore è stato quello ? èlle venuto
Pist. Ve ne direi bugie: e ni ... sſinimento nessuno?
Gism. Ma che sto io a fare, che non vo su Gism. Madonna sì.
da me, a intendere che male è questo? O Cass. Che male ha ella? febbre?
povera Argentina: voglia Dio, che il male Gism. Febbre, madonna sì.
sia leggiero; ma sii certa, che quello sarà Cass. Continua?
di te, sarà ancora di me; che senza te non Gism. Dicon di sì; ma avviatevi in casa, che
potrei vivere, nè vorrei. - io verrò là di qui a un poco. E tu, Pistoia
Pist. E'non è bene, ch'io gli vada dietro, andrai incontro allo schiavo, e aiutaragli
perchè so, che non possono vedere nessuno portare quelle cose.
di noi: e non avendo voluto aprire ieri alla Pist. E non debbe sapere la via da sè quel
padrona, direbbero, s'ella fosse punto peg mostaccio di pecora vecchia: sta pure a ve
giorata, che m'avesse mandato ella o a spiarle dere, che bisognarà tenergli un donzello !
o far qualch'altro male, onde ella n'arebbe Che ? aspetta egli il baldacchino, lo sgrazia
biasimo, e io forse danno; però sarà meglio te ? Io andrò prima a fare quanto mi co
giuocare in sul sicuro, e aspettarlo qui in manda Gualtieri, che importa un po' più,
torno all' uscio. poi se trovarò Giambianco, Dio con bene;
se no, suo danno: e'sa la casa da se, il bu
SCENA II folone.

Mona CAssANDRA, matrona, il Pistoia, servidore, S.C E NA III


GisMondo, giovane.
GisMoNDo.
Cass. Io ho sentito un gran trambusto in casa
qui di questi vicini nostri parenti, e ho una Oh, oh, eh! ch'ho io veduto con questi oc
paura, ch'io triemo, che l'Argentina non chi! Oh oh ! ch” ho io udito con queste
sia peggiorata, o venutole qualche accidente orecchie! E mi pareva mille anni di saltar
strano: e sarà meglio, ch'io vada a vederla. fuori per la passione. Io ho un dolore, che
Pist. Padrona, o padrona! madonna Cassan io scoppio. Fidati di femmine: vogli bene
dra, madonna Cassandra ! a donne: poni amore alle mogli; va ora,
Cass. Che sarà questo? va, e non volere disdire a tuo padre; e mi
Pist. Voi ne sarete rimandata un'altra volta. sta bene ogni male: io mi maravigliava ben
Cass. Pistoia, tu eri qui ! che vuoi tu ch'io io, che facendole tante ingiurie, ella se le
faccia? Non debbo io andar a veder la mo passasse così di leggiero. Io mi doleva poco
glie del mio figliuolo, essendo ella malata, fa, e non credeva che si potesse star peg
e qui vicina ? gio; ora io pagarei la vita a essere nel ter
Pist. Se io fossi voi, io non vi andrei e non mine di prima. O Argentina, tu m'hai bene
vi manderei persona a vederla, perchè, chi ingannato: io ho tanta ragione, e più da
vuol bene a uno, che voglia male a lui, fa dolermi ora di te, quanto avesti tu già da
due pazzie: egli affatica sè stesso in vano, rammaricarti di me. E forse potrebbe essere
e fa dispiacere a colui ; poi Gismondo v'è vero quello che m'ha raccontato sua madre,
egli, che non fu prima giunto, che intanò là. che nol voglio negare; ma quando bene
Cass. Che mi di tu, Pistoia ! è venuto il mio fosse mille volte verissimo, non per questo
figliuolo ? - debbo io ripigliarla mai più in eterno. Io
Pist. E venuto grasso e fresco com' una rosa me n andava su tutto pauroso, pensando
imbalconata. bene d'averla a trovare inferma, ma d'uno
Cass. O ringraziato sia Dio! io mi son tutta rac altro male che di quello ch' io vidi poi:
consolata. Ma tanto più voglio andarvi, che perche tosto che le serve mi videro, co
vedrò l'uno e l'altro in un medesimo tem minciarono a gridare tutte allegre, essendo
po, e arò doppia allegrezza. io giunto così alla sprovveduta : egli è ve
Pist. Fate quello che voi volete; ma e'sa nuto, egli è venuto; ma di quivi a un poco
rebbe il meglio non v'andare, perchè, ol m' accorsi, che si cambiarono di colore, e
tre l'altre cose, madonna Argentina, non una di loro corse ratta innanzi all'altre a
vi essendo voi, racconterà ogni cosa a Gis dirlo all'Argentina Io, che mi moriva di
COMMEDIA 4 9
voglia di vederla, m'avvio dietro a colei; quanto al ripigliarla non mi pare onesto,
ma non ſui prima giunto in camera, che ancorachè l'amore me ne stimoli, e che la
conobbi il male, che aveva, perchè il tempo natura di lei molto s'affaccia alla mia. Ma
non le dava agio di potersi nascondere, e io veggo il Pistoia, che viene di laggiù col
bisognava, che gridasse avendo le doglie, Moro: bisogna, che io lo levi di qui, perchè
anzi quasi partorito. Veduto io questo, il egli solo, e non altri sa, che costei non può
che mai non arei pensato di lei, fui vicino essere grossa di me; e se s'avvedesse di
a cader morto, e subito mi fuggii piangen nulla, potrebbe o in pruova, o non se n'ac
do. La madre mi corse dietro, e mi rag corgendo, scoprire la cosa. Ma vengono tanto
giunse in sul pianerottolo della scala, e git adagio, c fermansi così spesso a cicalare, che
tatasi ginocchioni in terra, mi comincia a io posso dare un poco di volta, e tornare.
dire queste parole piangendo sempre a cal
dissimi occhi: O Gismondo mio, ora vedi tu SCENA IV
la cagione, perchè ella si parti di casa vo
stra; ma sappi, che la poverina è innocen Il Pis rosa, servidore, GIAMBIANco, moro,
te, perchè sono circa a dieci mesi, che fu e poi GisMondo, giovane.
sforzata una sera da non so che sgherro,
che mai non sene potette difendere; e per Pist. Di tu, Giambianco, che non avesti mai il
chè nè tu, nè altri s'avvedesse ch'ella fosse peggior tempo a tuoi diº
gravida, feci che si partisse da casa vostra, Giamb. Si dico, Pistoia.
e venissine qua da me. Ma quando io mi Pist. È però si gran faccenda questo andar per
mare l'
ricordo con quali parole, e con quante la
grime ella mi pregava, non posso fare, che Giamb. Maggior che la Cupola.
non pianga. O Gismondo mio, diceva ella, Pist. E possibile? Io mi credeva, che a voi altri
per l'amor di Dio, per la gentilezza tua, se mori, che sete pure usi a stare in galea, pa
ella ti fu mai o cara, o cortese, se tu le resse andare a nozze, quando voi avete a
volesti mai punto di bene, abbi misericor navigare.
dia di lei: increscati della disgrazia sua: non Giamb. Si, a ricor l'ulive a mezzo ! tu non
volere svergognar lei, me e tutta la casa , debbi aver mai provato, eh ?
non solamente nostra, ma vostra ancora in Pist. Non io.

un tempo medesimo: fa conto di vederti Giamb. Non te ne curare anche: pensa, che
qui ginocchioni innanzi e distesa per terra oltra tutti gli altri disagi e stenti, che non
a piedi, non me, ma lei, e che non io, ma sene verrebbe a capo in cento anni, noi
ella ti preghi e ti si raccomandi piena di avemmo una tempesta, che durò tre di e
lagrime e di sospiri. Nè ti chieggio perciò, tre notti continovamente, anzi sci notti in
o ti priego, che tu vogli ripigliarla: questo tere intere, che quivi non si vedeva né
sia rimesso in te, di questo fanne la voglia cielo ne terra, e stavamo sempre per affo
tua, e quello, che meglio parrà, che ti met gare.
ta; ma ti prego solo e ti chieggio per tutte Pist. Togli allegrezza, ch'era cotesta, vivere
queste lagrime, che tu vedi cadermi degli colla morte alla bocca ! tu me n'hai fatto
occhi ( e le gocciolavano di continovo a uscir la voglia, Giambianco.
quattro a quattro) che tu vogli tacerlo, nè Giamb. Tant'è: io per me, se vi avessi a tor
mai palesarlo a persona alcuna, per veruna nare un'altra volta, starei più tosto a patti
cagione. Poi stata così alquanto e rasciuga di fuggirmi dal padrone, che d'andarvi più.
tasi un poco gli occhi, senza mai volersi Pist. Ehi grasso ! io te lo credo per Dio: tu
levare di terra, ancora che io molto ne la ti sei fuggito parecchie volte, per molto mi
sforzassi; soggiunse, pure lagrimando e sin nor cagione; ma la paura del remo ti fa
ghiozzando tuttavia: Il disegno mio e di stare in cervello.
fare in modo, se potrò, che nessuno, nè Giamb. Lasciamo andar coteste cose: come è
anco Guasparri suo padre e mio marito non buon gesso in casa?
lo risappia mai, e mandare il bambino se Pist. Di piano, ed è rincappellato, sai tu.
gretamente agli Innocenti; e se pure s'av Giamb. Dallo al diavolo: bisognarà ch' io gli
vedesse alcuno ch'ella avesse partorito, di faccia quel giuoco, che feci a quell'altro,
re, ch' ella si è stata una sconciatura, che ch'aveva i piè gialli, quando lasciai sturata
nessuno, altro ehe tu, non può non lo cre la botte, e me ne portai il 2ipolo in mano.
dere; e così tu non arai nè danno, nè ver Pist. Doh, furfantaccio, boja! s'io l'avessi sa
gogna nessuna, ed ella non sarà in bocca puto.
del popolo; che sai chi noi siamo a Firen Giamb. S' io non me n' avvidi : hassi egli a
ze, e che perfide lingue e serpentine ci si ri bere il vin cercone ? non avemo noi la bocca
truovamo: ognuno l'intenderebbe a suo mo come i padroni ? Questo ti so io ben dire,
do, e ci farebbero mille comenti in disonor ch'io me ne intendo più di loro; e che tor
nostro, e forse vostro. Io piangeva insieme narebbe forse lor miglior conto, che tutti
con essolei dirottamente, e non poteva te beessimo d'un medesimo: so ben quanto
nere le lagrime, e le promisi, che mai non ne 'ngozza ogni mattina e ogni sera quella
ne favellarei con uomo nato, e così le vo ubbriaca della Cccca, quando va per esso,
glio mantenere, seguane che vuole; ma in e anche a chi ella ne dà di buon ſiaschi
46o LA SUOCERA

per la buca della volta, e dell'altre cose corri, vola. (Io non so che faccenda me gli
so: Ma che porta a me ? purch' io sia vivo dare.)
ogni anno per carnesciale. Pist (Costui mi si debbe voler levar dinanzi.)
Pist. Tu dirai qualche bugia tu, senza esserne Gism. Cerca tanto, che tu lo truovi.
pregato; so bene, che tu le vuoi male per Pist. Chi ?
altro, e forse abbai per la fame: hai tu an Gism. Ben bè: fratelmo; non hai tu inteso ?
cora alzato il fianco ? e digli, che vegga di trovare quel messer
Giamb. Di quel che tu dimandi! E non era Fabrizio mio amico, che io ho bisogno di
ancor dì, che noi eravamo nella volta con favellargli.
un pezzo di prosciutto in mano a 'ncantar Pist. Non v'ho io detto, che mi disse, che si
la nebbia: e ti so dire, che n'appiattammo raccomandava a voi, e che verrebbe a tro
quel poco; ma vè, egli era come egli ha varvi subito ? -

essere. Gism. Fa quel che ti dico io, pezzo d'asino,


Pist. Come, Giambianco ? e non cercare tante cose; escine: vè se si
Giamb. Baciava e mordeva. spaccia: che stai tu costi a musare?
Pist. Basta che non traesse calci. Pist. (E non m'ha giuntato, come si crede;
Giamb. Poi mi sono fermo per la via due anzi è appunto caduta in grembo al zio. Io
volte a scaldarmi un poco. ho maggior bisogno di trovar Gualtieri, che
Pist. Sì, che gli è 'l freddo maggiore ! Non hai non ha il tignoso del cappello: oh, io cre
tu veduto de corbi lungo le mura che son do, che marini, che io non sono tornato a
caduti di ghiado ? rispondergli, ma io andrò ora: e non si può
Giamb. Io dico a fare un zinzino, io: non sai essere in più d'un luogo per volta, nè far
tu come si scaldano i forni? Il bombettare più d'una faccenda a un tratto).
è quel che tien caldo. Gism. Che farò io ? come la governarò io?
Pist. Sta bene: io era in Arcetri. Come t'ab Scoprire non la posso, e ripigliar non la vo
battesti? glio; chè non è onesto. Ed ecco appunto
Giamb. Bene la prima volta, chè era un vino Guasparri e mio padre, che debbon venire
che sgangherava altrui le mascella : la se per favellarmi di questo: che domin dirò
conda male affatto, chè sapeva di muffa, e io loro? chè non fu mai il più impacciato
m'ammorbò tutto lo stomaco ; talchè mi uomo, nè il più sventurato di me.
par mill'anni d'aver posto giù queste ba
gaglie per andare a quella santa. Ma dove SCENA V
trovarò io la verità ?
Pist. Al Porco, o in Vinegia: quattro dì sono
era una buona manomessa; ieri dicevano SIMoss, vecchio, GUAsPARRI, vecchio,
al Frascato. -

GisMondo, giovane.
Giamb. E costi la darò. Ma tu non m' hai
detto nulla della mia Pippa; che n'è egli Sim. Non mi dicesti tu stamane, che ella aspet
della traditoraccia ? tava il ritorno del mio figliuolo e suo ma
Pist. È più grassa e più lorda che mai. rito ?
Giamb. Sì, che la tua Betta non è lorda e Guasp. Sì, dissi, e raffermolo.
grassa anch'ella l Sim. Bè, dille dunque, che venga a sua po
Pist. Ch' ha a fare, che cotesta è una fantac sta, che 'l mio figliuolo è tornato, e la Cas
cia sudicia, sporca, spilorcia, che è come la sandra sua madre m'ha detto, che gli fa
pila dell' acqua : pensa quando ella ne dà vellò or ora.
a te ! Gism. Che ragione allegarò io a mio padre di
Giamb. E la tua baliaccia manigolda non monda non volerla ripigliare?
nespole ; ma l' ultimo a saperlo sei tu : oh, Sim. Chi sento io qua, che favella? oh, oh,
io n'aveva appostata la bella tre di innanzi egli è Gismondo: cosa ragionata per via va.
che noi ci partissimo: che venga 'l can Gism. Voi sete il molto ben trovato, mio
chero a Raugia e all' eredità. padre.
Pist. Tu non lo credi, Giambianco, tu non lo Sim. E tu sii il molto ben venuto, figliuol mio:
credi , tu ti troverai un tratto un ramen Oh come hai fatto bene a venire; e mi pare,
go in sulle calastre. buon pro ti faccia, che n'abbi arrecato una
Giamb. E tua madre un giunco al guindo. buona cera. Quanto è che tu giugnesti?
Pist. Furbo, furbo. Ma io veggo il padrone, Gism. Or ora.
che mi debbe aspettare; vattene in casa tu, Sim. Come ha lasciato roba Giovannagnolo?
ch' io andrò a vedere, se Gismondo vuol Gism. Egli era uomo di buona vita, come sa
nulla. pete, ed era molto de' suoi piaceri: e que
Giamb. Costui ha paglia in becco; io farò an gli, che si vogliono cavar le loro voglie, non
ch'io fuoco nell'orcio di qui innanzi. lasciano mai troppo agli eredi. Egli ha ben
Pist. Voi sete ancor qui, padrone ? fatto questo, che egli ha lasciato di se questa
Gism. Aspettava te: tu hai badato tanto; che fama, che non è poco d'essere vivuto bene,
fai tu qui? va via, corri. mentre che egli è vivuto.
Pist. Dove, e a che fare ? Sim. se tu non hai portato altro di là, che
Gism. Come dove l non lo sai tu ? Va via dico, cotesta sentenza sola.
COMIMEDIA 461
Gism. E non ci ha lasciato si poco, che non Sim. Dissiti io, Guasparri, ch' egli l'arebbe
ci abbia giovato assai. per male, e però ti sollecitava io tanto, che
.Sim. Anzi nociuto. tu la rimandassi innanzi che fosse tornato.
Gism. Perchè? Guasp. Io non lo credeva tanto strano e per
.Sim. Perchè vorrei non fosse morto, e mi co tinace. Che si pensa egli, ch'io gli abbia a
stasse altrettanto del mio. correr dietro, e pregarmelo? egli l'arà errata:
Gism. Voi potete dire a cotesto modo sicura se egli la vuole ripigliare, ripiglila; se no,
mente che per questo non risuscitarà egli. si sene stia, chè io non sono usato di cor
Sim. Guasparri qui, tuo suocero, mandò ieri rere dietro a chi fugge.
per l'Argentina. (Di' d'aver mandato). Sim. Orsù, eccoci: ancor tu t'adiri, e vieni
Guasp. (Non mi punzecchiare) Io mandai. in bestia senza proposito !
sim. Ma e' la rimanderà testè testè. (Di' di sì). Guasp. Gismondo, tu sei ritornato quaggiù
Guasp. (Non mi frugar, dico, io so quello ho molto superbo, non so io quello si voglia
a rispondere) Si. dire.
Gism. Io so come è ita tutta la cosa, che m'è Sim. Non più, e gli passerà la stizza ; benchè
stato raccontato per la via dall'A alla Z. per dirne il vero, egli ha ragione d'essere
Sim. Malanno, che Dio dia a coteste lingue adirato.
fracide, e la mala Pasqua: credi tu, che se Guasp. Io dirò il vero: poichè voi avete avuto
egli avessero avuto a riferire qualche cosa questo poco di roba più , voi avete alzato
di buono, che l'avessero fatto si presto e la cresta, e fate molto del grande.
si volentieri ? Sim. Vuola tu anche meco?
Gism. Guasparri, io mi sono ingegnato sem Guasp. Risolvasi per tutto oggi, se egli la vuole
premai di portarmi in modo verso di voi e rimenare o no, e mandimi a rispondere; chè
delle cose vostre, che voi non aveste ca possa pensare anch'io a casi miei.
gione nè di dolervi di me, nè di farmi in Sim. Guasparri, vieni un po'qua: odi me. – Ei
giuria o villania nessuna giustamente. E di s'è ito con dio : faccia egli : e' m'hanno fra
questo non voglio altra testimonianza, che la cido me, quando io gli avessi tanto soffer
vostra propia, e quella di lei, alla quale, ti: strighinsela fra loro, poichè l'uno se ne
dicendo in favor mio, son certo, che dove va in qua e l'altro in là; e questo non mi
rete credere. Ora s' ella si tiene da tanto, vuol ascoltare, e quegli non tien conto nes
ed è sì altiera, ch'ella non voglia cedere a suno delle mie parole. Ma di tutte queste
mia madre, e sopportare i modi e costumi cose è cagione la Cassandra ; io voglio an
suoi modestamente, come pare a me ragio dare a dirle questa batosta, ch'hanno fatto
nevole che ella dovesse fare, e questa cosa costoro, e sfogarmi addosso a lei. Ma con chi
non si può assettare altramente ; a me pare favella il Pistoia ? Egli è quello amico di
convenevole, e così sono risoluto, d'acco Gismondo, egli è molto alle strette: che ha
modarmi piuttosto alle voglie di mia madre, da fare seco costui? Io mi vo' tirar da un
che a quelle della mia moglie e a miei canto, e stare a udire segretamente; chè non
contenti propi. vorrei che 'I Pistoia lo facesse star forte a
Sim. Odi tu, Gismondo : tu potevi dire poche qual cosa. Egli non suole essere da ciò,
cose, che mi piacessero, quanto coteste mi pure oggi non si può più fidare di persona,
piacciono, e hami toccato il cuore, udendoti tanto è incattivito il mondo: a mio tempo
posporre a tua madre i tuoi comodi e i tuoi non si faceva già così.
piaceri medesimi; ma avvertisci, figliuol mio,
che l' ira non t'acciechi di maniera che tu
SCENA VI
pigli la fallace. -

Gism. Quali ire, mio padre, volete voi, che


m'acciechino? Ella non fece mai cosa nessuna Messer FABRIzio Raugeo, il Pistoia, servidore.
contra a mia voglia, ond' io possa o debba
dolermene: Ho ben molto, ond' io posso e Fab. E' mi disse che verrebbe a trovarmi dopo
debbo lodarmene : e me ne lodo, e l' amo, desinare, e non è venuto; benchè non ebbi
e la desidero, e non mi separo da lei, se anch'io tanta pazienza, che l'aspettassi in
non per necessità ; parendomi, che la ra casa, pensando d'averlo a incontrar fuora, e
gione porti, che si debba più tosto soddis vederlo più tosto, il che non m'è venuto
fare alla madre, che compiacere alla moglie: fatto: ma dove lo potrei io trovare ?
e brevemente, io fo così, per non poter far Pist. Chi lo sa? non lo appostarebbe la carta
altro, e mi duol tanto, che guai a me. da navigare ; io credo bene, che egli cerchi
Guasp. Il ripigliarla o l non ripigliarla è in di me e rinneghi il mondo, che non lo ho
potere e arbitrio tuo. trovato; ma e pare che la fortuna faccia,
Sim. Fa a mio modo, Gismondo: ripigliala, che quando due cercano l'uno dell'altro,
mandale a dire che sene venga. eglino non si riscontrino mai.
Gism. Non farò, ch'io voglio aver rispetto a Fab. Oh Dio, sarò prima morto, che possa
mia madre, come è dovere. intendere quello ch' egli ha fatto !
Sim. Dove vai tu? fermati un poco, fermati, Pist. Che dite voi di morto e di fatto?
ti dico. Fab. Niente; diceva d'uno che morì di fatto:
Guasp. Che ostinazione e questa? ma tu debbi aver buone nuove da dargli,
462 LA SUOCERA
perchè tu ne cerchi così: tu ne caverai oggi Pist. Pure ? così a un di presso.
qualche buona mano. Fab. (Quanto ho io a dire ?) Dugento.
Pist. Per Dio, son nuove da mancia ! Se egli Pist. Poco più è il mondo : voi burlate ! Basta
non si getta in Arno, non ne voglio danajo. bene che ve ne cappiano quattordici, e forse
Fab. Oimè, che c'è? Sta pure a vedere, ch'io più; e vedete come ella par piccina di ter.
gli arò appiccato del mio non poter conse ra: e quella croce sono due travi lunghe e
guir mai cosa ch' io voglia ! grosse.
Pist. Non abbiate cotesto sospetto, messer Fa Fab. Andianci con dio, dico: io non sono uso a
brizio, che egli ve ne porrebbe d'una cap queste cose, e non voglio uccellare persona,
panella e d'un bocciolone. e tanto manco Simone, che m'è come padre.
Fab. Su, che c'è? Di' su, spacciatene per l'a- Pist. Andate di costà voi, e io andrò di qua
mor di Dio, e non mi far tanto storiare: tu a cercarne; che voi sete stato per rovinar
mi tieni in sulla fune. me e lui. Avete voi inteso quel ch'io v'ho
Pist. Poich' io v'ho detto l'altre cose; vi dirò detto ? che vi ricordiate, che Gismondo e
anco questa. Egli aveva ordinato d'andare tutti gli altri sono al piacer vostro: e' mi
stasera di notte, colà con un notaio, e darle par che voi abbiate ingrossate le campane
l'anello segretamente; e credo avesse dise da un pezzo in qua. Volete voi comandarmi
gnato, che voi gli faceste compagnia : e mi niente?
mandò là a dirle che l'aspettasse e pigliasse Fab. Va sano.
quella catena per insino a dimattina, che
gli manderebbe cento pezzi d' oro senza SCENA VII
manco nessuno. Or che direte voi, che la
ribalda, o perchè dubitasse che non fosse SIMoNE vecchio, solo.
falsa, o per isperanza di poterne trar mag
gior somma, poichè vedeva che aveva man Che girandola è stata questa ? Gatta ci cova.
dato quelli.... Ma che bisogna ch'io vi stia Io dubito che 'l Pistoia m'avesse veduto,
a raccontar tante novelle ! Questa è una cin e volesse provare s'io era corribo; e se non
forniata, che non se ne verrebbe mai a capo; fosse, ch'io so che messer Fabrizio è un
la fanciulla ha, fate conto, un quindici anni giovane dabbene, e non terrebbe le mani a
o sedici, e non vorrebbe star più. cosa nessuna, che non fosse onesta, io du
Fab. Dove? o a che fare? bitarei di peggio. Che svarioni sono stati
Pist. Non m'intendete voi ? questi ! Io non ho saputo mai raccozzarne
Fab. Taci, gaglioffo. parola insieme, e cavarne costrutto nessuno;
Pist. A proposito; voi non m'intendete: ella benchè ne perdeva di molte parole. Che ha
è più bella che gli Agnoli. da far la cupola e 'l gittarsi in Arno, col
'ab. Scherza co' fanti, Pistoia, e non co'santi. mandargli cento pezzi d'oro? Questa mi par
Pist. Voi mi volete rovinar del mondo: zi, zi; propio stata una di quelle filastrocche, che
voi non mi rispondete, messer Fabrizio. facevano già venti o venticinque anni sono
Fab. A che ? Nanni cieco e messer Batista dell'Ottomajo,
Pist. Zoccoli, in buona ora: sì, sì, fate le viste che duravano una ora ogni volta che si ri
di non intendere. scontravano per la via, a dire spropositi,
Fab. Che vuol dire costui, con tanto accen senza conchiudere mai cosa nessuna, e le
narmi e chiudermi l'occhio! brigate stavano dattorno a udirgli a bocca
Pist. Non v'ho detto mille volte, che il pa aperta; e molte volte v'entrava qualche
drone, madonna Cassandra sua moglie, Gi buona persona di mezzo, per mettergli d'ac
smondo suo figliuolo, e finalmente tutta cordo, innanzi che la cosa andasse agli Ot
quella casa sono le migliori e più amorevoli to, pensando che dicessero daddovero. Io
persone del mondo, e che vi vogliono tutto non la vo' passare a guazzo questa cosa: io
il lor bene per gli obbrighi che hanno con non credo però, ch'ei sia tanto bestia, che
essovoi ? Non bisogna fare il balordo. si mettesse a uccellare messer Fabrizio,
Fab. O costui è impazzato, o e' vuol fare im sappiendo quanta stima io ne ſo ; ma dubito
Pazzar me. Che atti son quegli, e a che più tosto, che parendogli aver trovato buon
proposito dice queste fagiolate! pastaccio, per lo esser messer Fabrizio a
Pist. Nettatevi qui la barba. (Il padre di Gual quel modo forestiero, ricco e liberale, non
tieri ci sta a udire). Più ancora. (Andatevi voglia piccarvisi, e cavargli con queste sue
accomodando alle mie parole). Non più, no. buffonerie sciocche qualche cosa delle mani.
Oh, rispondetemi ora : non vogliate più il Io la vo'rinvergare questa matassa; chè non
giambo di me. voglio, che la mia famiglia o giunti o uccelli
Fab. Coteste son cose che io me le sapeva persona. Pongasi co' suoi pari lo sciagurato:
mille anni sono; non entrar fra noi tu. costui è gentile uomo: tornasi qua in casa di
Pist. E non vi par che sia grande, eh ? questi mercatanti della sua patria, che tutti
Fab. (Ch'ho io a dire ?) Grandissima. gli fanno onore, e sono nostri amicissimi :
Pist. Quante persone credete voi che v'en noi avemo mille obbrighi con esso lui ; il
trino dentro ? mio figliuolo gli vuol meglio ch'a se; e co
Fab. Come quante persone? che ne posso sa stui cerca di farlo fare, che intesi non so
pere io di cotesta cosa? che di buona mancia. Non ci mancherebbe
COMMEDIA 463
altro, se non che una simil cosa andasse al ſia meglio ch'io vada prima a dare spedi
l' orecchie di Sua Eccellenza: come io arò zione a tutte quelle cose, che bisognano per
sfogato la collera con mogliama, non si pensi istasera. Chi vuole, che le sue faccende si
d'andarne netto: guardisi d'avere errato, facciano bene e a tempo, le faccia da sè:
ch'io gli farò pagare la gabella e 'l frodo, tardi si satolla chi aspetta d'essere imboc
di maniera che darò esempio agli altri. cato per le mani d'altri. Ma chi esce di
casa Guasparri? Ella mi pare mona Crioſe;
ella è dessa, io voglio partirmi.
SCENA II
MADRIALE QUARTO
Mona CRIofà, matrona, GUAsPARRI, vecchio.
«Quant'è più lunga e faticosa l'opra,
Tanto ne giugne più gradito il frutto. criofe. Oimè sciagurata a me, trista a me, do
Seguite, amanti, ch'a chi giusto adopra, lente a me: che farò io? dove mi rivolgerò
Degna mercede dà chi vede il tutto.
Già s'avvicina il fine io ? che risponderò io al mio marito? Guarda
Delle vostre miserie e degli affanni: se appunto e' giunse a tempo: e non ebbe
appena sentito la voce del bambino che pia
Un punto solo, un sol punto mill' anni, gneva, che egli sen'andò in camera dell'Ar
Può ristorarne al fine. gentina cheto cheto, e arà veduto e cono
sciuto il tutto. Oh sventurata a me ! la cosa
è scoperta ! Che partito ha a essere il mio?
che scusa ho io a trovare di non glielo aver
ATTO QUARTO mai detto? Io per me non lo so io: Dio sia
quello che m'ajuti. Uh, io sento un gran
SCENA PRIMA calpestio, sarà egli che verrà diſilato alla
volta mia, come uno aspido; e arà ragione
GUALTIERI giovane, solo. da un canto. Egli è desso: io son morta,
chè non posso nè fuggire, nè nascondermi.
Dove domine si sarà fitto oggi Guasparri? Egli Guasp. La mia buona Criofè, tosto che mi
non è in casa, e io ho parte cerco e parte vide entrare in camera, si fuggì di casa su
fatto cercare in quante chiese ha Firenze: bito: eccola qua questa valente donna. Che
sono stato in Mercato nuovo, in sulla Piazza fai tu costì, Criofe ? ella fa 'l sordo : a te
del Duca, in su quella di Santa Croce, nel dico, Crioſe.
l'Orto di Cestello, in quel degli Agnoli, dalla Crioſe. A chi dite voi, marito mio?
Pancaccia de' Pupilli, da quella del Pro Guasp. A te dico: non odi tu?
consolo, e finalmente non lo truovo nè 'n Criofè. A me, marito mio º
cielo, nè 'n terra. Ti so far certo, che mes Guasp. A te si e mille.
ser Fabbrizio per la prima faccenda che Criofe. Che volete voi da me, marito mio ?
m' ha commesso, si terrà servito da me; e Guasp. Come che voglio! Se tu m'avessi sti
forse che ella non gli importa, o che io non mato per tuo marito, o pur per uomo, e non
gli sono obbrigato in mille modi! E crede per peggio che una bestia, tu non m'aresti
forse, che io non sappia che quella collana trattato come tu m'hai trattato, e fattomi
e la sua; io gliele ho veduta venti volte al quello che tu m'hai fatto.
collo, sebbene la porta coperta quanto può : Criofe. Che domin v'ho io fatto, marito mio?
a quel modo si fanno i piaceri ! In fine uno Guasp. Pur marito mio ! quel che tu m'hai
uomo vale per mille, e mille non vagliono fatto, eh ? L'Argentina ha fatto un bambino,
per uno; e talvolta è meglio, e più giova e tu non m' hai detto mai nulla ! Di chi è
un amico, che cento parenti. Voglia Dio, egli ?
ch' un di me gli possa mostrare grato ; ri Criofe. Di cotesto vi farei io molto bene il
cordevole sarò io sempre. Ma e' mi pare un dovere a dirvi, che voi ne dimandaste suo
gran fatto, che mai non abbia riscontrato padre. (Oh povera a me! io non so che mi
messer Fabrizio : e so che, essendo uscito rispondere). Di chi credete voi ch'e sia, se
di casa sì tosto, sarà venuto a cercar di me, non del suo marito? Guarda di quel ch'egli
che ha anch'egli il tarlo, che lo rode. Ma sta a dimandarmi! -

che ti par del Pistoia, che non è mai tor Guasp. Io credo bene, che sia del suo marito,
nato a rispondermi? Vo' morire, se non s'è e non debbe credere un padre altramente;
posto a vedere a giucare alla palla, o a udire ma io mi maraviglio bene, e non posso in
cantare in banca qualche cerretano. Io sto dovinar la cagione perchè tu l'abbi tenuto
fresco, se s' è abbattuto oggi a uno che gli cosi segreto, e fatto ogni cosa che nessuno
piaccia; egli è come aspettare il corbo. Io lo sapesse. È possibile, che tu sii tanto osti
ho voglia di picchiare qui a casa Guaspar nata e di così perversa natura, che tu facci
ri, che dubito mezzo mezzo non fosse dianzi ogni cosa, che la nostra figliuola non istia
in casa, e facesse dire di non v'essere, col suo marito, e che noi tutti, di parenti
pensando che io volessi ragionargli di quella abbiamo a diventar nemici? Tu non lo puoi
lite, che è tra la nuora e la suocera ; ma aver fatto per altro, se non perchè, aven
464 LA SUOCERA
done un figliuolo, il parentado, mediante Guasp. Madonna no: non istà cosi: ancora chè
questo quasi legame, veniva a farsi più fer egli non la rivolesse, e che tu fossi stata la
mo, e diventare più stabile. Guarda animo prima ad accorgerti, che 'l mancamento
indurato che è questo di costei ! Ed io, bab veniva da lui, non dovevi tu far questo. In
buasso ch'io sono, m'era dato a credere, tendimi, Criofe ? perchè ci sono io? A me
che il difetto venisse da loro, e m'era cruc s'aveva a venire, a me dovevi far capo; onde
ciato da maladetto senno! Or conosco, che mi vien tanta collera. Avevi tu a far una
tutta la colpa di tutti questi scandoli e la cosa a questo modo di tuo capo, senza mia
cagione d'ogni male sei tu: tu, Criofe e non spressa licenzia e comandamento, anzi senza
altri: chè so bene che l'Argentina non fa mia saputa? E mi vien voglia : ma io voglio
nè più qua, nè più là, che te le dichi tu. guardare a quello s'aspetta a fare a me, non
Criofe. Io sono la peggio condotta e la più a quello che meriti tu. Io ti fo intendere,
infelice femmina che viva. che tu non ti impacci mai più da qui in
Guasp. Volessilo Dio! Non maraviglia, (ormi nanzi ne da beffe, nè daddovero di così fatte
sovviene) che tu dicesti, quand'io la ma cose: e risolviti ve”, che il padron di casa
ritai, che non eri mai per patire, giusta tua sono e voglio esser io, mentre che arò vita.
possa, che la tua figliuola avesse per marito Ma io voglio andar su a vedere quello che
uno che si teneva una femmina per bagascia, color fanno intorno a quel bambino. Tu
e stava tutta quanta la notte fuora. m'hai inteso ve”: fa che io non te l'abbia
Criofe. (Ogni altra cagione ho più caro che a dire mai più.
e si pensi, che quella che è). Crioſe. E'non si può essere nel più cattivo
Guasp. Sai tu, Criofe ? io seppi molto prima termine che mi sono io: chi sta peggio di
di te, ch'egli era innamorato, e usava con me, sta per incanto: pensa quel che fareb
lei; ma questo non è tanto gran peccato, e be, se sapesse la verità della cosa; ma io
massimamente in un giovane, che non si mel posso indovinare da quel ch'egli ha
possa e forse debba tollerare: elle sono cose fatto di questa. E non mi mancava altro,
naturali, e che passano via tosto: Il tempo se non che a tutte l'altre sventure e mi
ne fa ben far loro la penitenza, egli, e cava serie mie s'aggiugnesse questa, d'avere al
i grilli del capo altrui. Che credi tu ? come levare un fanciullo per nostro, del quale non
l'uomo piglia moglie, e' comincia punto sapemo chi si sia il padre; perchè quando
punto a 'nvecchiare, e si diventa d'un'al la poverina fu sforzata era bujo, e mai non
tra fatta; vengono altri pensieri per la fan potette conoscere chi si fosse quello sciagu
tasia, badasi ad altro, che a fanfaluche. Ma rato, o torgli qual cosa, donde si potesse
tu fosti sempre la medesima, tu, e mai non poi riconoscere: anzi egli, chiunque si fosse,
hai voluto restare di cavar costei di casa il le cavò di dito per forza un bello anello,
marito, e non per altro, se non perchè fui che era appunto quello col quale fui spo
io quel che gliel diedi: e la maestressa d'o- sata io, e sene lo portò. Dubito ancora, che
gni cosa vorresti esser tu. Gismondo, quando saperà, che un figliuolo
Criofe. Avetemi voi però, marito mio, per tanto d'altri s'abbia allevare per suo, non m'at
non so che dirmi, che voi crediate, che io, tenga la promessa. O Dio, in quante tribo
se pensassi che questo marito facesse per la lazioni sono io oggi! E non veggo via donde
mia figliuola, e fosse a utile nostro, che cer uscirne. Io mi voglio ritornare in casa, che
cassi di levarglielo ? mi par sentir brigate che favellino.
Guasp. Io credo, presso che tu non mi facesti
dire una mala parola: che hai a giudicartu SCENA III
quel ch'è utile, o non utile? Tu arai udito
da qualcuno di questi riporta novelle, che Mona CAssANDRA, matrona, GisMondo,
vanno rinvesciando ogni cosa, quello che è, suo figliuolo.
e quello che non è, che sarà stato veduto
entrare o uscire di casa colei. Ma poi? che Cass. Io so ben, figliuol mio, che tu hai cre
è per questo ? non è meglio far le viste di duto e credi, che la tua moglie si partisse
non avvedersene, e cercar di rimediarvi in di casa nostra, e tornassene a casa sua per
qualche bel modo, che dar che dire alle amor de'miei portamenti verso lei: ma così
male lingue ? e forse che non ce ne sono? mi ti mantenga Dio, e ti faccia felice, come
Ti vo' dir più là, che, avendo egli usato io non feci mai cosa nessuna, ch' io sappia,
con lei tanto tempo, se se ne fosse spiccato perch'ella m'avesse a portare odio. E ben
a un tratto, non mi sarebbe piaciuto, nè chè io non dubitassi prima, che tu amassi
l'arei punto per buon segnale, e non arei me, come io amo te, ora ne sono certissima,
mai potuto credere, che egli avesse avuto avendomi poco fa riferito tuo padre, come
a durare coll'Argentina e tenerle il fermo. tu hai preposto me a tutte quante l'altre
Criofè. Orsù facciam così: lasciamo andare il cose, e a' tuoi comodi e piaceri medesimi.
passato, e di bel patto andate a trovar Gi Ond'io, affinechè tu veggia l'animo mio
smondo, a solo a solo, e dimandategli se ei verso te, e conoschi, che i buoni figliuoli
la rivuole ; se dice di sì, ch'ella si riman sono da Dio e dagli uomini rimunerati, ho
di; se di no, voi doverete allora conoscere, diliberato di rendertene il cambio ; e per
che io ho fatto bene a far così. chè vi possiate star quaggiù a vostro modo,
COMMEDIA 465
e senza rispetto o sospetto di persona, sono Sim. Verratene in villa meco, e quivi soppor
risoluta d'andarmene in villa a starmi lassù taremo l'un l'altro.
con tuo padre: sicchè manda a dire all'Ar Cass. Così spero.
gentina tua moglie, che sene ritorni a sua Sim. Vattene in casa, e metti in ordine tutto
posta. quello che tu vuoi portar con essoteco: spac
Gism. Che è quello che voi mi dite, mia ma ciati.
dre, che disegno è cotesto ? Vi so dire ch'ella Cass. Tanto farò,
sarebbe bella, che voi per la superbia e me. Gism. Mio padre.
lensaggine di lei, ve n'aveste andare a stare Sim. Che vuoi tu, figliuol mio?
in contado: non ci pensate; io non lo com Gism. E non mi piace punto, che mia madre
portarei mai. Quegli che ci vogliono male, se ne vada ad abitare per le catapecchie.
non direbbero che voi ve ne foste ita per Sim. Che cagione ti muove ?
modestia vostra, ma per isciagurataggine mia. Gism. Non son ancor ben risoluto, se la debbo
Poi non è lecito, che a mia cagione voi ab. ripigliare, o ne.
bandoniate le vostre parenti, l'amiche vo Sim. Bipigliala, ben fai. Che bisogna tanto
stre, e vi priviate di non potere andare a pensarci ? ripigliala, ti dico, non istar più
nozze, nè a feste, nè a piacere o consola in questo affanno.
Zlone nessuna, Gism. Egli è il vero, che da un canto io n'ho
Cass. Eh, figliuol mio, coteste cose non mi danno una gran voglia, e appena che me ne posso
più noia oggi mai : io n ebbi anch'io la parte tenere; ma dall'altro son risoluto di non
mia, quando fu 'l tempo. Ora mi son tutte mi mutare di proponimento, e veggo che
venute in fastidio, e penso solamente a con sarà più utile non la ripigliare, che a que- .
tentar voi, e fare in modo, che nessuno sto modo saremo più d'accordo.
m'abbia a disiderare la morte. Io conosco, Sim. Tu non puoi saper cotesto tu ; poi che
che son mal voluta qui, e in buona verità, briga ti dà a te ? Lasciala andare, ella è vec
a mille torti, ed è tempo, che io dia luogo chia, e le fanciulle non possono patire le
agli altri; il che facendo, come son risoluta vecchie: a ogni modo non semo più buoni
di fare, prima liberarò te da ogni sospetto, a nulla noi: che vuoi tu far qui d' un vec
poi leverò via tutte le cagioni a tutti quan chio e d'una vecchia ? Ma ecco Guasparri
ti, e contenterò ognuno. Sicchè, ſigliuol mio, che esce appunto di casa: andiamo alla
sii contento di lasciarmi fuggire quel biasi volta sua; ma odi, ti vo' dir prima due pa
mo che danno le genti alle suocere, dicendo, role da te a me,
che tutte hanno in odio le nuore: la qual
regola, credo che fallisca in molte; in me, SCENA V
so io certo, che ella non ha luogo.
Gism. Chi sarebbe più felice di me, avendo GrAsPARRI, vecchio, SIMone, vecchio,
una tal madre, e una moglie cosi fatta, se GisMoNdo, giovane.
non fosse una cosa sola?
Dass. Non ti sbigottir, figliuol mio; confortati, Guasp. E bisogna, secondo me, che sia una
che se l'altre cose vanno a tuo modo, ed di queste due cose; o che costui sia qual
ella è, come in verità credo che sia, chè che giovane leggiero, che abbia il cervello
mai non vidi un minimo atto di lei in cosa sopra la berretta, il quale l'abbia veduta,
nessuna, se non buono; io voglio che tu la e gli sia venuto voglia de' fichi fiori; o che
ripigli a ogni modo, e che tu mi facci que sia qualche rompicollo; perchè questa sa
sto piacere: deh, sì, figliuol mio caro. rebbe troppo gran ventura, e in questi paesi
Gism. Oh dolente mel non si truovano le vigne legate colle sal
Cass. E me anche, che ho più passione di que siccc. Io so bene io a quanti la feci pro
sta cosa, che non hai tu medesimo. lipi ferire, e in che modo mi fu risposto : io
dubito che Gualtieri che mostrava d'avere
gliala, figliuol mio, ripigliala, non istar più
in tanta agonia. -
un ingegno pellegrino, non ci riesca un ci
vettino. E' voleva pure, che io gliela pro
mettessi oggi a tutti i patti, o volesse il
SCENA IV mondo o no : a bell'agio, non fosse questa
una balla di cotone. Io la vorrò prima molto
SIMose, vecchio, CassanonA, sua moglie, ben vedere e rivedere, per sette e per nove:
GisMondo, lor figliuolo. egli è vero, che io sono povero, ma Sancte,
Deus ! per questo non ho io a gittarla via,
Sim. Io ho inteso, stando qua in questo canto e darla a uno, ch'io non conosco. Oh ! egli
tutto il ragionamento che tu hai fatto con è giovane, egli è nobile, egli è ricco: io non
costui, e m' è forte piaciuto; perchè l'aver dico il contrario; ma se non fossero poi
cervello non vuol dire altro, che sapersi ac tante cose, dove mi trovarei io? Ho io avere
comodare al bisogno, e far della necessità il danno d'avere affogata la mia figliuola, e
virtù, facendo ben volentieri, o almeno mo la vergogna d'averla data a uno che non vidi,
strando di far ben volentieri quello, che a si può dir, mai, senza volermene prima in
ogni modo bisognarebbe fare forzatamente. formare? Gualtieri ci mette parole egli; ma
è giovane, e ha, si può dire, ancora il latte
Cass. Quanto a me io sono per fare ogni cosa. º
VA I LIII V. ,
466 ILA SUOCERA
alla bocca, e non sa il proverbio, che dice: Guasp. Ella non è dispiaciuta meno a me, che
Danari e senno e fede. Guarda se quel a te, Simone, e me l'ho detto una carta di
cervel dell'oca della Criofe s'era appiccata! villania, come ella merita.
Che vuol dir, che questo le piaceva, senza Gism. (S'io tentennava prima punto, ora son
saperne non che altro il nome? Più tosto, fermissimo di non ripigliarla , poichè oltra
che farla monaca, la darebbe al Bratti fer tutte l' altre cose, m'avrei anche a tirare
ravecchio, a un guattero; allo Gnogni la da addosso e fare allevar per mio un bastardo).
rebbe più tosto, che farla monaca. Io non Sim. Gismondo, tu hai udito; non bisogna star
dico, ch'io non avessi anch'io più caro di più a lellarla.
maritarla, e che non fosse meglio ; nondi Gism. (Io sono rovinato intra fine fatto).
manco, e massimamente essendo di già stata Sim. Noi avemo disiderate questo di cento
accettata, non bisogna correre a furia. Io non anni: ringraziato sia Dio, ch'aveno avuto
conosco nessuno, che ami più le sue figliuo uno, che te chiamarà babbo, e me nonno.
le, che mi faccia io, e Dio sa quanto io di Gism. (Io son di là da morto).
siderarei che questo partito fosse buono; Sim. Orsù, Gismondo, fa quello che ti dice
chè io la fo monaca con le lagrime agli oc tuo padre: ripigliala oggi mai, ripigliala ti
chi; ma io non vo' correre in chintana. dico; fa a mio senno in questo caso.
Quelle tante offerte, di volerla dotar di suo Gism. Mio padre, or n' ho io manco voglia
in tante migliaia, m'hanno più tosto fatto che prima; perchè s'ella avesse voluto fi
insospettire che altro. Oggi non si getta il gliuoli di me, e che io le fossi stato marito,
lardo ai cani: e non c' è uovo che non ella non arebbe fatto quello che ha: poichè
guazzi. Io la vo' molto bene intendere, dico, io, conosciuto l'animo suo verso me, non
e informarmene, e conferirla co parenti e penso, che noi fossimo mai più d'accordo:
con gli amici, e fra otto o quindici di gli perchè volete voi dunque ch'io la ripigli?
risponderò, come ho promesso: non son cose Sim. Ella è una fanciulla, ben sai, e ha fatto
queste da farle al buio. Ma chi son questi quello, che le ha comandato sua madre,
qua ? Parti si gran fatto far uno errore? poi dati
Sim. Sono io che cerco di te. tu ad intendere di poter trovare donna nes
Guasp. Che c'è di nuovo? suna, che non abbia qualche mancamento ?
Gism. Che ho io a rispondere a costoro? come Si, che gli uomini forse non fanno degli er
ho io a fare a uscirmene ? rori, e non hanno de'difetti!
Sim. Di' alla tua figliuola, che mona Cassan Guasp. Simone, vicn qua, e tu Gismondo:
dra se ne viene a stare in villa con essome risolvetevi tra voi quello volete si faccia:
co; che non abbia rispetto a tornarsene a se la volete, io la rimanderò: se no, no; io
casa e vivere col suo marito come si debbe. me la terrò in casa: ma che farem noi del
Guasp. La tua moglie non ci ha colpa nessuna Tbambino ?
ella, nessuna: tutti questi scandoli son nati Sim. Oh, tu dimandi delle belle cose ! Che l
da quella diavola della mia: io ho ripescato bambino si renda al mio figliuolo, di chi
ogni cosa. egli è, che lo volemo tener noi, come è do
Sim. Come va questo fatto? vere,

Gism. Purch'io non abbia a ritorla, venga la Gism. Volete voi, mio padre, ch'io tolga quello,
colpa da chi si vuole. che non vuole ella 2
Guasp. Gismondo, per quanto s'appartiene a Sim. Ben sai, ch'io voglio : tu mi pari fuor
me, io vorrei che noi fossimo buoni parenti, del seminato !
come s'arebbe a essere, e come noi siamo Gism. Io per me non lo voglio.
stati infino a qui, e dal mio lato non man Sim. Non lo vuoi ! sei tu pazzo?
carà. Ora se tu l'intendi, o vuoi altramente Gism. Un tratto, io non lo voglio.
per qualsivoglia cagione, rispondimi libera Sim. Diavol, che tu dichi davvero, che tu
mente, perchè io, se tu la rivuoi, te la non lo vuoi: questa sarebbe ben col manico!
mandarò: se no, pigliati il fanciullo, e va Gism. Io dico davvero, io : entriamo in altre.
che sii benedetto. Sim. In altro! ah, ah, Gismondo, io t'ho pure
Gism. (O sorte. Egli ha saputo che ella ha scoperto: io non tel voleva dir qui in pre
partorito. Io non ho più rimedio nessuno). senza del tuo suocero ; ma e' m'è stato
Sim. Il fanciullo ! che fanciullo è questo? giuoco forza. Gismondo, credi tu, che io non
Guasp. L'Argentina, che ci ha fatto un nipo sappia la cagione di coteste lagrime, e per
tino, non vedesti mai il più bello; chè che tu sei stato sì renitente ? Io la so si:
quando se ne venne a casa, era grossa, e io il primo tratto tu trovasti la scusa, che non
non l'ho mai saputo, se non oggi. la volevi ripigliare per rispetto di tua ma
Sim. Tu mi dai una buona novella, e molto dre; or che tu vedi, ch' clla sene vien meco
mi rallegro, che ella abbia partorito a bene in villa, e che questa scusa non ti val più,
e sia maschio. Ma che diavol di donna è tu hai trovato quest'altra, perchè ella ha
la tua moglie? che costumi, che belle crean partorito senza tua saputa: non maraviglia,
ze son queste ? Non aveva ella a farcelo in che tu non volevi, che clla andasse a stare
tendere in tanto tempo? Guasparri, io non in contado, e per le catapecchie; di quivi
potrei mai dire quanto questa cosa mi par veniva tanta pietà, e si grande amorevolez
mal fatta, e tenga d' un non so che. za: guarda carità pelosa, ch'era quella !
COMMEDIA 467
Tu t'inganni, se tu non credi, ch'io ti co Guasp. Si bene, e della buona voglia. Ma che
nosca, e sappia molto bene l'animo tuo, e cosa strana è questa! E non mi par più gran
le tue covate. Fa, fa, Gismondo, che tu ti fatto, che la moglie l'avesse per male, e
disponghi a lasciare una volta le femmine non volesse star con lui: le donne son don
daddovero: tu sai quanto tempo io ti la ne alla fine, e non è cosa , che dispiaccia
sciai voler bene. e prenderne i tuoi piaceri: più loro, che vedere i mariti innamorati di
sai con che animo sopportai sempre tanta altre femmine: e facciamo a dire il vero
spesa, che tu vi facevi: sai che io ti pre qui tra noi, elle n hanno mille ragioni. Si
gai poi, che tu ti volessi disporre a vivere mone, io non te l'ho voluto dire in sua
a uso di buon cittadino, e pigliar donna, presenza: la donna m'ha detto, che questa
come fanno gli altri uomini dabbene : e è stata la cagione, perchè l'Argentina sene
tu, come buon figliuolo e ubbidiente, che tu tornò; io non glielo credeva, ora veggo, che
eri allora, la togliesti. Ora te ne sei inna diceva il vero, e che aveva ragione: io l'ho
morato di nuovo, e ritornato a primi giorni; gridata, e mi sono adirato seco a torto. Co
e per far piacere a una donna pubblica, a stui ha l'animo altrove che alla moglie.
una femmina di mondo, a una vil cantonie Cacasangue, Simone! qui ne va l'onore, la
ra, a una meretrice infame , che si vende roba, e le carni a un tratto.
ogni giorno a prezzo mille volte, a una put Sim. Io sono a tristissimo partito. Che consi
tana, chè dirò oggi tanta disonesta, non ti glio mi daresti tu, Guasparri ? che ti par
curi di fare ingiuria si grande alla tua mo pebbe, che io dovessi fare in questo caso?
glie, al tuo suocero, a me tuo padre, e ſi Ajutami per l'amor di Dio, che 'l cervello
nalmente a te stesso ! Lascia oggiinai, lascia mi va a spasso, e dubito di non avere a dar
andare coteste bresciolde, e attendi a viver la volta al canto.
da buon cristiano, che si farà per te, e per Cuasp. Qui non è rimedio nessuno: io ti sa
tutta la casa nostra; e vedrai quello , che prei più tosto confortare, che consigliare.
io farò in onore e benifizio tuo, Sim. Pure consigliami un poco: io per me non
Gism. Mio padre, dite voi coteste cose a me? so dove io n abbia il capo per la passione;
Sim. A te le dico io: a chi credi tu ch'io le tanto veggo questa cosa inviluppata, e tanto
dica, a Guasparri ? E fai un gran male a mi pare, che Gismondo sia uscito de gan
trovar queste scuse false, onde nascono poi gheri.
tante discordie e tali romori, per poterti Guasp. A me non darebbe mai il cuore di ri
sotto quel colore levar dinanzi la tua mo trovarne il bandolo. Pur giudico, che fosse
glie, e star tutto 'l di e tutta la notte con ben fatto, che noi andassimo a trovare que
quella gambracca, che non vale la vita sua sta femmina, e da prima la pregassimo uma
due mani di noccioli. L'Argentina se n'è bene namente, che per amor nostro e per altre
avveduta sì: e perchè credi tu, che ella si giustissime cagioni fosse contenta di non si
partisse di casa, se non perchè tu stavi tutto impacciar più con Gismondo; poi, non gio
il di e tutta la notte in casa delle berghinclle? vando le buone, venire alle peggiori del
Gism. Mio padre, io vi posso giurare sulla pie sacco : dolersi di lei: gridarla: minacciarla;
tra sagrata , che di tutte coteste cose non bravarla tanto, che ella facesse per forza
è vera nessuna. quello, che non avesse voluto per amore:
Sim. Non bisogna tante parole, Gismondo; noi peggio non ce ne possiamo noi stare. E se
sappiamo anche noi a quanti di è San Bia Gismondo o alcuno de' suoi drudi l'arà per
gio: o tu la ripiglia, o tu di' la cagione, male, scingasi: a noi basta, che quattro e
perchè tu non vuoi ripigliarla. quattro faccia otto.
Gism. Non è tempo adesso, mio padre. Sim. Questo consiglio mi piace sommamente :
Sim. Orsù, vien qua: piglia il fanciullo ora, io mandarò per lei: e ti prego, Guasparri,
che non ha colpa nessuna : che dirai tu. per l'amor di Dio, che tu non vogli abban
qui ? Poi si vedrà a bell'agio chi ha ragio donarmi, che mi pare essere in un labe
ne, o tu o ella. - rinto strano.
Gism. (In quanti modi si può essere infelice, euasp. Io te lo dissi dianzi, e te lo ridico
in tanti sono io, e barattarei lo stato mio ancora un'altra volta: io disidero, che noi
eol più misero uomo, che viva : che posso siamo parenti non meno in fatti, che in
io fare ? che debbo io dire? Mio padre mi nome, e da me non restarà mai; e così
lega per tanti versi, mi strigne con tante priego, che facci tu. Io arò anch'io bisogno
ragioni, ch' io non posso far meglio ch' an del parer tuo in una cosa d'importanza, ehe
darmi con dio, e lasciargli qui; perchè man mi conferì dianzi il tuo Gualtieri, ma non
car di fede, e far delle mie parole fango, è tempo ora.
non voglio per nulla, e contendere con mio Sim. Alla buon'ora: l'opera lodarà il maestro:
padre, non posso, e non istà bene). tutto quello, che io posso e voglio, è così
Sim. Tu fuggil olà : tu non mi rispondi! io tuo come mio.
per me dubito, che sia fuor di sè: colei Guasp. Io ti ringrazio: vuoi tu, che io sia
l'ha cavato del cervello: Dio l'ajuti: que teco, quando tu parlarai a colei?
sta era la cagione, perché egli andò si mal Sim. Non importa: sarà meglio, che tu vadi
volentieri a Raugia. Guasparri, darai il bam in questo mentre a vedere di procacciare
bino a me, che lo farò allevare io. una balia al bambino, cd io mi fermarò un
468 LA SUOCERA
po'qui a sedere in sulla pancaccia, che sono Gualt. Fermati un poco, e poi dirai: correti
anzi stracco che no, a star tanto ritto; che dietro persona?
non son più d'oggi e di ieri. Pist. Me . . . messer no.
Guasp. Così farò: rimanti in pace. Gualt. Fermati ancora un poco, innanzi che
Sim. E tu va in buon ora Vedi, vedi, che la tu dichi: ma un'altra volta non corre
Cassandra diceva il vero, e non ci aveva re, se tu puoi fare altro; ch' io l'arei sa
colpa nessuna : io feci male a darmele così puto più tosto, che io non farò ora. Ma io
gran canata. Ma io sento venir non so che dubito, che questa non sia una ragia, e che
brigate; sarà meglio mi ritiri in casa, e costui non faccia le forche per non parere.
mandi per colei, e quivi mi riposarò un poco. Dimmi un poco: dove hai tu badato tanto ?
a veder fare alla palla eh? chi ha vinto ?
SCENA VI Pist. Io ho avuto tempo da stare a veder giu
care ! che non mi son mai fermo in tutto
quanto oggi, se non poco fa, che stetti un
Gtattieni, giovane, e il Pistoia, servidore. pezzuolo con un ciurmadore a cavallo in
su una mula, che mi domandò a lungo e
Gual. Egli è ben vero, che gli uomini delle molto strettamente di voi ; e vi si racco
sei volte le cinque non sanno essi medesi manda.
mi quello che si vogliono, e bene spesso si Gualt. Guarda s'io m'apposi! Che ciurma
fanno pregare di quelle cose, di che dove dore a cavallo, o non ciurmadore ? io non
rebbero pregare altrui. Dio ha mandato una conosco ciurmadori io.
ventura a Guasparri per quella povera figliuo Pist. Mostrava pure d'essere tutto vostro.
la, ed egli non pare, che la sappia conoscere. Gual. Chi era cotestui ?
Io arei creduto, ch'egli avesse alzato le mani Pist. Un certo vecchio, che pare un di que
al cielo, quando gli dissi, che trovava da gli cavadenti di contado, che vanno su per
maritar l'Agnoletta a un giovane ricco, no le fiere, con quelle bandiere piene di serpi;
bile, bello, virtuoso, il quale non si curava voi non conoscete altri che colui.
di dote, anzi s'offeriva di volerla dotare del Gualt. Io non lo conosco io, e ho paura, che
suo in quanto volesse egli propio ; ed egli tu non mi vogli giostrare.
non li sene movesse punto, anzi quanto Pist. Quel ch'ha quel labbro enfiato, con gli
più diceva io, tanto egli pareva, che cre occhi scerpellini, che porta sempre una
desse manco. E ci fu che fare e che dire, morte al collo, e una corona di paglia al
innanzi che volesse risolversi, non dico di braccio, e tante altre bazzecole.
dir di sì, come voleva io, ma di prometter Gual. Tu vuoi dire il Consagrata tu ?
mi, che ci pensarebbe su, e ci risponderebbe Pist. Non disse così egli,
fra otto o quindici di : e credo certo, se Gualt. Il Pagamorta ?
mona Criofe non fosse stata ella, che non Pist. Manco.
si conduceva anco a questo. Le donne al Gualt. Lo Stradino?
cuna volta si sanno risolver più tosto, e in Pist. Lo Stradino, messer sì, lo Stradino: voi
tendono meglio i partiti, che non fanno gli vi sete apposto: alle tre si cuoce il pane.
uomini: e in su lei bisogna fondarsi, che Gualt. Doh sciagurato ! Tu lo chiami ciurma
Guasparri ini par che cominci a essere quasi dore, eh ? se ti sentisse : cotestui è il mi
barbogio, e in ogni cosa mette mille dubbi gliore uomo di Firenze, e fu già soldato, e
e difficoltà. Sempremai gli uomini desidera bravo; benchè lo chiamino Pagamorta: sai
no le cose, che non si possono avere; e tu ? egli stette col signor Giovanni (1), non
quelle, che si posseggono, o non si cono ti vo' dire altro, ed è la più amorevole per
scono, o non si stimano: e anco, chi si pro sona del mondo.
ferisce, come si dice volgarmente, è peggio Pist. A perdonar vaglia: io lo vedeva a quel
il terzo. Ma dove potrei io trovare messer modo, con tante arme e tante masserizie :
Fabrizio ? Molto mi maraviglio, che non chi non sa, non sa. Egli erra il prete all'al
sia qui oltre, io vorrei pure dargli oggi mai tare, e cade un cavallo, ch'ha quattro gambe.
questa novella, la quale, se non è buona Ma io voglio andare a cercare di messer Fa
affatto, non è anco trista del tutto : chè brizio.
chi ha tempo, ha vita. Ma dove corre si Gualt. Odi prima: che facevi tu dianzi con
forte il Pistoia ? è costui impazzato! Pistoia, mio padre così alle strette?
o Pistoia, fermati, torna indietro: Pistoia, Pist. (A' cattivi). Con vostro padre io?
a te dico, a te si vè come guarda il ba Gualt. Tu fosti pur veduto da non so chi.
lordo ! egli sta trasognato, che par basoso. Pist (Costui vuole il giambo). Cotestui doveva
Pist. Aa... aa... aa . . . avere le traveggole, o mangiato cicerchie.
Gualt. Che cosa è questa. Io non l'ho veduto da jersera, che io lo
Pist. Aa . . . aa... aa . . . misi a letto, in qua ; e dubito d'averne a
Gualt. Questa è una grande asima! toccare un buon rabbuffo per vostro amore:
Pist. I . . . i. . . i . . . io. saranno de' miei guadagni questi l che le
Gualt. Che hai tu ?
Pist No... no... non... po... pos... posso (1) Credo Giovanni de' Medici, famoso guerriero di quel
ra . . . racc . . . raccorre l'alito. l'età, noto sotto il nome di Capitano delle Bande Nere. (M.)
COMMEDIA 469
mosche si posano sempre in su cavagli magri. Gualt. Che º t' è stata levata su da qualche
Gualt. Tu mi stai a raccontare taccolate; e mariuolo ?
delle cose, che m'importano la vita, non Pist. Messer sì ; da una mariuola.
mi di nulla. Ch' hai tu fatto colla signora Gualt. Se tu l' avessi lasciata a lei, come ti
Fulvia ? -
dissi, che tu facessi, non t'avveniva questo,
Pist. Io indugiava a dirvelo il più che io po castronaccio, bue, capassone, imbriaco, che
teva, a sommo studio; perchè chi dà triste tu sei.
nuove volentieri, mostra o d'essere di cat Pist. Non mi dite villania: io feci appunto
tiva natura, o di averle care. come voi mi diceste: chè quando vidi pu
Gualt. Oimè: di tu davvero, o da motteggio? re, che la scanſarda non la voleva pigliare
che c'è ? di via: tu mi farai prima morir da sè, gliela gittai in grembo, e cacciami a
di spasimo. fuggire.
Pist. La prima cosa, ella non volle mai pi Gualt. Perchè di tu dunque, che ella è per
gliar la collana : io potetti ben gracchiare, duta, e che io l'arò a pagare? Pajonti que
ciangolare e arrangolarmi; e mi rispose ste cose da burlare! o è tempo questo da
tutta arrovellata : Di' a Gualtieri, che non stare in sulle berte !
ci capiti più nè per bene, nè per male, Pist. Io non berteggio, io; e questo è appunto
ch' io non gli aprirò. - quello, che io voleva dirvi, per chiarirvi
Gualt. Infin, Pistoia, tu arai pazienza: io non affatto dell'astutezza e furfanteria di questa
lo posso credere, e voglio andare insin là mona Onesta da Campi, che non l' arebbe
da me. fatto la più sucida sgualdrina di Borgo la
Pist. Toti quest'altra ! Ma la pazienza toc Noce. Quando io gli ebbi gittata la collana
carà avere a lui. Fate quanto vi piace. in grembo, ella la prese tutta ingrognata
Gualt. Io non vo dire, che tu non vi sii ito; nel viso; nel cuore lo lasciarò giudicare a
che s' io credessi questo, s'io lo credessi voi: e messasi a corrermi dietro così in un
io ti farei ridere, come piangono i Tede certo modo, che insino a' ciechi arebbero
schi: ma tu potresti aver franteso. veduto, che non mi voleva raggiugnere;
Pist. A mano a mano sarò io cotto l come disse forte, che ognuno poteva sentire che
franteso ? voleva: Digli, che io gliela rimandarò a casa
Gualt. E anche qualche volta fai troppo a ancora oggi per un zanajuolo, se non arò altri,
fidanza col vino. e se egli non rimanda per essa fra due ore.
Pist Che ti dissi ! Gualt. Che sì, che costei farà davvero! Pisto
Gualt. Se costei è trista ella, io vo' dire, che ja, come interpreti tu quelle parole?
non se ne truovi nessuna buona. Pist. Questa è una pentola, che non ha biso
Pist. Ditelo a vostra posta. gno di chiosa, nè di mezzugli: costei vuol
Gualt. E risolviti, Pistoia, di non credere mai la collana, e non ve ne vuole avere a saper
più cosa nessuna a persona. grado; anzi ne vorrà un'altra, se vorrete,
Pist. Bene sta: risolvetevi pur voi, che e'son che ella faccia la pace di questa.
parecchi anni, che io n'era risoluto io. Ma Gualt. Io non t'intendo.
voi non m' avete lasciato fornire il resto, Pist. E' pare, che voi nasceste ieri, e non sap
che vi parrà forse d' un'altra mano e di piate come fanno simili generazioni. Ella dirà
un altro sapore: infine le disgrazie sono co d'avervela rimandata a casa per un vana
me le ciriege. juolo; andate poi a ritrovarla voi: sete voi
Gualt. Peggio di questo non ci può essere, se atto andarvene all'Ufizio, o agli Otto, e farvi
egli è vero, e se la Fiammetta è viva. uccellare; chè sarebbe peggio la vergogna
Pist. Questo è verissimo, e la Fiammetta è che 'l danno.
viva e sana. Gualt. Fosse fatto il patto a cotesto; purchè
Gualt. Che c'è dunque? spediscila che fia ella fosse fornita qui. Io dubito più tosto
l' ultima. ch'ella non l'abbia rimandata a mio padre.
Pist. Non mi si vien manco: arem fatto male Pist. Che cucciolaccio ! Di cotesto ve ne vo
in più modi e sai ch'ella non era bella ! ella glio stare io per un danajo, anzi, per una
mi duole inſino al cuore. ghiabaldana, che sene danno trentasei per
Gualt. Che? arai perduto quella collana? che un pelo d'asino.
io non te la veggo. Gualt. E che mio padre o mia madre non l'ab
Pist. La collana è perduta ella; ma non l'ho biano risaputo, che sai quanto dispiacere ne
già perduta io. piglieranno: e oltre questo mi potrebbero
Gualt. Chi l'arà perduta? io, che me la tro a un bel bisogno impedire, o interrompere in
varò manco. qualche modo il disegno mio: e però voglio
Pist. Voi, che l'arete a pagare a messer Fa andare infin là, senza perder tempo, chè non
brizio. vorrei però, che la fortuna facesse delle sue,
Gualt. Io ti dirò il vero, Pistoja: io comincio e rimanermi colle beffe e col danno. Io ti
a dubitare, che tu non mi vogli far Calan so dire, ch' io ne cavarò la macchia. Egli è
drino: come ti può esser caduta una cosa meglio morir con onore, che viver con ver
a quel modo di tanto peso, e che tu non gogna. Corri, truova messer Fabrizio a ogni
l'abbia sentita cadere? nodo, e gli di”, che io ho bisogno di par
Pist. Io non dico, che ella mi sia caduta, io. largli: muoviti, dico: vè, se corre.
47o LA SUOCERA
Pist. A fatica io andrò, io, adagio. E mi pare mandato per me, e fatto un gran sollecita
essere divenuto un cavallaro a me; io ho re, che io vada infino a lui or ora a ogni
corso tutto oggi, e mi sento le gambe sotto modo; se non, che verrà a trovar me: e ho
tutte fiacche Egli è poca fatica a coman una gran paura, che non mi vogliano fare
dare: e dir : Fa questo e quello; corri qua e qualche acciacco, ora che Gismondo non
corri là. E bisogna aver discrezione de'po c'è: che se ci fosse, non che farmi villania,
veri servidori. Ma io voglio cercar tanto di non osarebbero di torcermi nè anco un pe
messer Fabrizio, ch'io lo truovi, e racco lo, e non mi guarderebbero, non che altro.
mandargli Gualtieri, chè dubito non dia Io ho una gran voglia di non v'andare: ma
nelle stoviglie, e faccia qualche pazzia : egli che ? Farei il mio peggio; perchè a un tal
è subito e delle mani: e colei è trincata, bisogno m'accusarebbero per ladra: e sono
che farebbe fare un uom da sarti, e tanto ricchi e mobili, e hanno degli amici assai,
taccagna, che tirarebbe a un lui, non che e le nostre pari hanno cattivo nome e sono
a una collana di quella sorte; e costui è odiate per l'ordinario: talmente che io non
tanto accecato dall'amore e dalla passio me ne potrei sgabellare, e forse anco, avendo
ne, che non sa quello si dica, e non vede voce di trovarmi danar contanti, ne tocca
quello si faccia: se io pensava questo, io rei qualche buona impennatura ; chè pare,
non glielo diceva. Dio l'aiuti, che n'ha bi che ognuno ci abbia bandito la croce ad
sogno, e naviga per perduto. dosso. Però sarà 'l meglio che io vada: fac
cia Dio: io mi fido nella coscienza mia e
-cost cº
nella giustizia del signor Duca, che non
vuole, che i poveri siano sopraffatti da ric
MADRIALE QUINTO chi, nè i forestieri da cittadini. O che be
nedetto, anzi che santo principe! se gli al
tri fossero così fatti: e tu vedi bene che
Il tempestoso e reo Dio... Ma ecco Simone, che ne viene tutto
Tempo non pur vien meno, affusolato a trovarmi. Dio me la mandi
Ma si volge in sereno: buona
Vienne dunque, deh ! vien, vieni, Imeneo.
O santissimo Dio, Sim. Io voleva rimandar per lei, e s'ella
non veniva, andare io inſin là or ora in
Che con tue caste e legittime faci
Giuste le nozze e giusti i figli fdci, persona. Questi son casi che importano trop
Amoroso disio po; e non bisogna lasciargli dormire; ma
Nessun mai, se non tu, lecito feo: poichè io l'ho veduta qua, cite ne viene, le
Vienne dunque, deh ! vien, vieni, Imeneo. voglio andare incontra: ma bisogna che io
posi giù la stizza, che la collera non mi fa
cesse dire quello che non vorrei, o quello
che non si conviene. Proviam prima, se
ella uscisse colle belle; benchè simili son
ATTO QUINTO formiche di sorbo, e stanno sempre in sul
noce. Questa è una bella presenza di fem
mina: potenza in terra! ella pare una prin
SCENA PRIMA cipessa! e intendo ch'ella se le sa. Bisogna
guardare come l'uomo favella, ch'ell'hanno
Signora Fulvia, cortigiana, SmoNE, vecchio, sempre il Petrarca o 'l Boccaccio in mano.
Dio vi dia il buon giorno, signora Fulvia.
Fulv. Sempre si vorrebbe far le cose, quando Fulv. Buon giorno e buon anno, Simone: io
l'uomo le ha a fare, e non metter mai vengo a vedere quello, che voi volete da me,
tempo in mezzo. Io voleva rimandare a casa prestissima ad ubbidirvi in tutto quello, che
Gualtieri quella collana, affinechè nè egli per me si potrà,
avesse occasione d'avermi a capitare più a Sim. Io credo, signora Fulvia, che voi vi sa
casa, nè il padre o la madre si pensassero, rete maravigliata non poco, nè sappiate la
che fossi io, che lo mettessi su ; chè que cagione, perchè io abbia così in furia man
sto non può essere stato altro, che un fioc dato per voi; ma se voi vorrete esser quella
co, ch'egli arà fatto loro: poi per aspettare donna, la quale io credo, che vorrete es
corposodo, che la riportasse egli e non mi sere, noi saremo d'accordo in poche paro
fidare di zanajuoli, come se i zanajuoli non le; e potrete da qui innanzi disporre di me
fossero le più fidate persone del mondo, e di tutta la casa mia a vostro piacere:
non lo feci. Ed anco non poteva credere, quando che no, immaginatevi, che dove ne
che Gualtieri non avesse a rimandar per es va la roba e l'onore del mio figliuolo e di
sa, avendogli io fatto dire a quel modo dal tutti noi altri, che io non sono per averci
Pistoia, il quale però non credo, che sia pazienza, come ho fatto infin qui: e credo,
una netta farina. Ora il padre, che se la se la pensarete bene, che eleggerete più to
debbe esser trovata manco, o risaputolo sto di provarmi amico, che di sperimentarmi
in qualche altro modo; perchè in questa nemico; perchè sono per ispenderci non so
terra non si fa mai nulla, che non si ri lamente tutte le forze mie, ma tutte quelle
sal'lta in capo a due ore per tutto; ha di tutti i parenti e di tutti gli amici: sic
COMMEDIA 47
chè venite mcco di bello, e non istate a Fulv. Ed avvi detto di me?
volermi mostrar lucciole per lanterne. Sim. Di voi propia; e per tal segno, se n' ha
Tulv. Io non dubito d'altro, Simone, se non rimenata la figlinola a casa, e l'ha fatta
che questo abito, e l'essere io cortigiana, partorire di nascoso, senza che nessuno il
non v'abbiano fatto credere infin qui molte sappia; e non vuol più ch'ella stia dove il
cose, come ad altri, che non sono vere; e ora marito. Vedete di quanti mali, di quanti
abbiano a essere cagione, che non vogliate scandoli, di quante discordie voi sete ca
crederne molte a me di quelle, le quali gione, a lui, alla moglie, al suocero, a me,
sono verissime. La cagione, perchè voi man e a infiniti altri : e dubito non abbiamo a
daste per me, m'avvisai io troppo bene; e ire in voce di tutta Firenze, per certe lin
se mi fossi voluta fidare di zanajuoli, egli gue tabane, che ci sono: e chi ode, poi non
è una grossa ora, ch'ella sarebbe stata in disode. Tutta la casa nostra, tutta la loro,
casa vostra. è in iscompiglio: i mariti, le mogli, le figlino
Sim. (Costei s'aggira; vè quel che fa il pec le, le fanti, i servidori, ogni cosa è sotto
cato ! ) sopra: non fu mai il maggiore garbuglio nè
Fulv. E se non lo volete credere a me, di la maggior combustione; e a tutti questi
mandate il vostro servidore quello, che io danni e travagli potete rimediar voi sola
gli dissi. con una sola parola.
Sim. (Io dubito, che costei non farnetichi.) Fulv. Se io avessi cosa alcuna maggiore del
Fulv. Ma eccovela qui bella e intera, siccome giuramento, per farvi credere quello che è
egli la mi gittò contra mia voglia in grem vero; cioè che io, dappoi in qua che Gi
bo; e se non si fuggiva, o dileguava si to smondo tolse moglie non ho mai voluto
sto . . . . compiacergli; nè ho avuto a far seco in cosa
Sim. (Costei è ita in villa colla brigata: se già nessuna, io ve l'offerirei; ma non l'avendo,
non m' ha preso in iscambio, e se non c'è non vi posso offerire altro, che questo; e
sotto qualche tranello, come dubito più tosto: questo farò ogni volta, e dovunque voi vor
bisogna andare assentito, e stare molto bene rete: e da ora innanzi, se voi mi trovate in
all'erta, che ella non mi facesse qualche bugia, datemi e fatemi dare tutti quanti
giarda o qualche cilecca. Queste genti hanno quei castighi, non solo che merito io, ma
più trappole alle mani e più uncini e più che volete voi stessi.
arzigogoli, che non sono di nell'anno. Ma Sim O sia il disiderio che io ho che così sia,
che domin sarebbe mai, quando bene ella o qualsivoglia altra cagione, io per me lo
fosse contraffatta? Io non vo' stare a guar credo e penso, se non fosse che non vi vor
darla qui; lasciamela mettere nella scarsel reste mettere a si manifesto pericolo. Ma
la, a qualche cosa potrebbe ella servire. io voglio che voi mi facciate un piacere.
Chi sa, che Gismondo non gliel'abbia data Fulv. Cosa che io possa.
egli ? Io sarò sempre a tempo a renderla: Sim. Che voi andiate infin su in casa loro, e
forse che questo potrebbe essere buon mezzo diciate a quelle donne le medesime cose,
a farle fare quello, che noi cerchiamo ch'ella che avete dette a me; perchè farete due
faccia ; che infin qui non s'è fatto niente.) buoni effetti: voi liberarete loro da quella
Signora, io vi ringrazio dell'amorevoli pa molestia, che non è picciola, e voi da que
role e offerte vostre; ma per ancora non sto sospetto, il quale è grandissimo: oltra
s'è conchiusa cosa alcuna, che ci manca il chè farete singolarissimo piacere a me, che
più e 'l meglio: facciamo a dire il pane, pa ve n'arò obbrigo in perpetuo.
ne, e non chiamiamo la gatta, mucia. Fule. Io son contenta, ancorch'io sappia, che
Fule. Dite se volete altro da me, perchè se nessuna altra lo farebbe per nulla : ma io
sarà cosa che il farla sia in mio potere, non non voglio che il vostro figliuolo abbia que
l'arete a dire più d'una volta. sto carico a torto. Egli mi trattò in modo,
Sim. Voi ricettate Gismondo, mio figliuolo. che gli sono obbrigata, e sarò sempre; e
Fule. Gismondo io! Gismondo io! dove io gli possa giovare, non ci metterò,
Sim. Lasciatemi dire: innanzi che egli si legasse come dite voi altri, ne sale, nè olio.
e pigliasse donna, io sapeva tutte le prati Sim. Voi favellate tanto bene, che io sono
che e andamenti vostri, e le sopportai, non forzato a credervi. Sappiate, che non sola
mi curando: state a udire, io non ho ancor mente le donne, ma io ancora credeva, che
fornito. Ma ora ch' egli ha moglie, io vi di tutti questi mali foste cagione voi; e, a
consiglio, che cerchiate d'uno amico più dirvi il vero, v'arei fatto poco piacere. Ora
stabile, e che faccia più per voi, che Gis veggendo, che il fatto sta altramente, fate
mondo non fa, il quale non è per durare conto, che tutto quel poco che posso e va
troppo tempo, e anche voi non sarete sem glio, sia vostro: e se usciamo di questi tra
pre fiori e baccelli: sicchè pensate molto vagli, vedrete quello farò per voi.
bene a casi vostri. Io ve lo dico principal Fulv. Io ne sono certissima, e ve ne rendo
mente in benefizio di lui, ma me m'incresce infinite grazie.
anco per amor vostro.
"lº. Chi v'ha detto, che io lo ricetto?
º. La suocera stessa, che l'ha saputo di
buon luogo.
472 LA SUOCERA
sticcicare le balocche? A chi dich' io? voi
SCENA II non dovete avere inteso eli ? Venitemi die
tro tuttedue, senza fare tante parole.
GUAspARRI vecchio, SiMoNe vecchio, signora Fulvia Sim. Ell'e pur ita su: qual cosa ne debbe es
cortigiana con la SilvestminA e donna BER sere di questa faccenda: ella non mi par
ToI,DA Slte Serºe. però punto smemorata. Ma io voglio andare
a mostrare alla Cassandra quella collana per
Guasp. Al nome di Dio: tutte coteste cose vi tutti i rispetti; e se le cose, ch'ella ha det
si daranno, e non pensate, che 'n casa no to, saranno vere, gliela rimandarò colle do
stra v'abbia a mancar nulla; ma ricordate nora. Guasparri, andatevene anche voi, che
vi, quando arete mangiato e bevuto molto io sento venir gente.
ben voi, di fare che 'l bambino abbia an
ch'egli il debito suo. Queste balie vogliono SCENA III
tante cose; ma vi sono bene spese, quando
sono amorevoli e diligenti. Il Pistoia servidore, signora FULvIA cortigiana.
sim. Ecco il nostro suocero, ch'ha menato la
balia al bambino. Guasparri, la signora Ful Pist. Che sì, che si, che colui farà qualche
via qui giura e stragiura. scandalo? Voglia Dio, che io non m'ap
Guasp. E ella cotesta? ponga. Io ho cercato e ricercato di messer
Sim. Questa è dessa. Fabrizio, per menarlo là, e mai non l' ho
Guasp. Simil brigate non tengono conto di potuto trovare ; che arebbe forse riparato
giuramenti, anzi ne vivono, non so io se tu a qual cosa, benchè Gualtieri è di sua te
lo sai. Io mi maraviglio de' fatti tuoi, Si sta. Sta pure a vedere come ella ha ire:
mone: e bisogna guardarsi dall'invecchiare colei ne potrebbe portare la pace a casa, e
chi non vuole diventare un fanciullo, insegnare all'altre. Chi un ne gastiga, cento
Fulv. Io vi darò nelle mani le serve e tutta ne minaccia: chi vuole essere riguardato,
la famiglia mia; disaminatele e fatele disa non bisogna, che ne lasci passare una: oggi
minare a chi voi volete, e in quanti luoghi bisogna dare ad altri, perchè non sia dato
vi piace. Guarda dove io son condotta og a te: dir male d'ognuno, perchè le brigate
gi! ma per amor di Gismondo non son per abbian paura a dirne di te, o almeno non
guardare a nulla; e non mi darà noia, che ti sia marcio: e in somma, chi vuole essere
si dica, che io sola abbia fatto il contrario rispettato da ognuno in tutte le cose, non
di tutte l'altre cortigiane. abbia rispetto a persona in nessuna: egli è
Sim. Guasparri, e non è molto, che tu crede ben vero poi, che all'ultimo, chi fa quel che
vi, che la tua donna avesse errato, ed io non debbe, gl'intervien quel che non cre
similmente la mia: e amendue c'ingannava de. Ma dove sarà in esser Fabrizio ? certo
mo. Così potrebbe avvenire ora: che ci co egli è ito a veder Gismondo, che gli vuol
sta il provare º che male ne potemo noi fare? meglio, che all'anima sua. Guarda: guarda
chi cerca truova. quello, che egli ha fatto a Gualtieri per suo
Guasp. Proviamo: che domin sarà? poichè tu amore ! Ma veramente e' n' è cambiato: Gi
ti contenti cosi. -
smondo farebbe carte false per lui: la pri
.Sim. Signora Fulvia, voi sarete contenta di ma cosa, di che mi domandò, quando giun
fare quanto mi avete promesso: andate su se, fu quello che era di messer Fabrizio.
in casa, e vedete di giustificar quelle donne Ma, che cosa è questa ! la signora Fulvia
in tutti quei modi che potete. esce di casa questo nostro parente! che ha
Fulv. Io andrò; benchè sono certa mi ve da far qua costei? si sarà venuta a dolere
dranno malvolentieri; perchè le maggiori ne di Gualtieri. Ma ella è tutta lieta e festan
miche che abbiamo noi altre, sono le donne te: che giubilo sarà questo?
maritate, e massimamente quando non istanno Fulv. Tu sei venuto a tempo, Pistoia: va
co mariti, e si pensano, che di ciò siamo ratto, truova Gismondo e Gualtieri.
cagione noi. Pist. E ch' ho io a dir loro?
Sim. Quando clle saperanno quello, che voi Fulv. Che vengano infin qui or ora: or va vè.
andate a fare, vi faranno buona cera tutte Pist. (Costei è molto imperiosa!) A chi di loro?
quante, e vi terranno in palma di mano. Fulv. All' uno e all'altro: se non, al primo
guasp. E io ti dico più oltre, che s'ella giu che tu truovi.
stifica loro, e cava noi di questo errore e Pist. Dico io, che vengano a voi?
di tanti impicci, buon per lei. Fule. A me, o qui in casa di Guasparri: met
Sim. Ella sa bene, ella, quello, che le ho det titi la via fra gambe, e va ratto; e par che
to; e farollo meglio che io non lo dico; e tu abbi le gotte.
se tu colle mani, io colle mani e col piedi. Pist. (Costei m' ha per gonzo: crede, che io
Sicchè, signora Fulvia non vi peritate, nè non conosca, ch ella mi vuole sbalestrare
vi paja fatica ad andare su di sopra e sgan in qualche luogo, perchè io non le dimandi
narle, di quella collana: ella l'arà errata: i cani
Fulv. Uh, i' mi vergogno, che madonna Ar portan le balestre?)
gentina m'abbia a vedere. Ma dove sono le Fule. Spacciati: che stai tu costi a borbot
mie mone saccente ? che stann' elleno a bi fare, che vuol dir, che tu non corri
A COMMEDIA 473
Pist. Perchè non so di Gualtieri, per ciò non a Gismondo, a Guasparri, a Gualtieri e a
e corro. - i! . . . . me medesima. Quanto a Gismondo, io, me
Fale. Se tu non lo sai, imparalo: cercane tan diante l'anello, che egli tolse all'Argentina,
to, che tu lo truovi, o lui o Gismondo? e diede a me la sera, che egli la sforzò, gli
Pist. (Ella fa il buffone!) Ditemi nn po'signora
ho renduto non solo un figliuolo, il quale,
Fulvia, voi non mi rimandaste poi quella i credendolo bastardo, non lo voleva a patto
collana per quel Zanajuolo? nessuno, e lo volevano mandare agli Inno
a s

Fulv. No, ch' io non me ne volli fidare; m centi, ma ancora la moglie, la quale egli
chi te l'ha ridetto sì tosto? avea diliberato, ancorchè l'amasse ardentis
Pist. Non persona, io me lo sapeva, senza che simamente, non ripigliar, mai più in eterno,
nessuno mel dicesse; egli era pur bene ri Quanto a Guasparri e Gualtieri, s'è ritro
mandarla come voi diceste. . o vato mediante l'agnusdeo che io portava
-

Fule. Anzi fu meglio far a quel modo: tu lo e al collo, che la Fiammetta è figliuola di
sai male. Ma va via, che non è tempo da Guasparri e di madonna Criofe, e la chia
badare ora. º e n. , , , mano Caterina: onde s'è ordinato, che si
Pist. Sì per voi fu meglio. Ma dove volete dia per moglie a Gualtieri. E a me hanno
voi ch' io vada ? - i
- fatto tante carezze, e tali offerte, con tanti
Fulv. Quante volte l'ho io a dire? a trovar ringraziamenti e tante affettuose parole, che
Gismondo e Gualtieri, e dir loro, che ven io non baratterei lo stato mio colla prima
gano subito subito qua, subito. reina del mondo. Io voglio aspettare se Gua
Pist. Che c' e di nuovo? Fate che io intenda sparri venisse, per rallegrarmene seco: poi
qual cosa anch'io. i - - andrò a casa a farla un po' rassettare, e
Fulv. Non cercar quello che non ti tocca, e dargli questa buona nuova ; chè come sarà
fa quello ti dico io; che buon per te. venuto Guasparri, vogliono mandare per lei
Pist. A ogni modo ho a ire a trovargli : che colla chinea di Simone. . . . . . .
sarà mai? Io vo: volete voi, che io dica
-

loro altro ? -, - - si -- - scENA IV


Fulv. Sì, vien qua : di' a Gismondo, che, ma - - --

donna Criofè ha riconosciuto quello anello


che egli mi donò quella sera, e dice, ch'e- º SIMonz, vecchio, signora Fulvia, cortigiana,
gli era dell'Argentina sua figliuola: tieni a il Pistoia, servidore.
mente, che tu sappi ridire. -

Pist. Ecci altro? Sim. Questa è stata una delle maggiori e delle
Fulv. Si, dirai a Gualtieri, che quella cosa più belle venture, che mai accadessero, che
non istà più a me, ma che egli arà la miglior Guasparri abbia ritrovato una figliuola a quel
nuova che egli avesse mai. modo. Io me ne sono rallegrato infinitamente
Pist. E tanto farò, se voi dite davvero ; se no, per suo amore. Ma non ritrovarò già il mio
non mi date questa corsa, che per Dio vero, io, che il poverino si dovette morir di pe.
non sono uomini da essere gonfiati questi, ste, come la balia e tutti gli altri di quella
e anch'io cercarei un di valermene a luogo casa, e forse di fame lo sventurato: io non
e tempo: e non guardate che io stia con posso tener le lagrime ; e come egli era av
altri: che ogni serpe ha 'l suo veleno. Non vistato! Non fu mai il più bel bambino : ap
dite poi: tu non mel dicesti, o l'andò, o la punto arebbe oggi, ventisei anni, e entra
stette. -
rebbe ne ventisette: basta, che s'è oggi ri
Fulv. Fa quel ch'io t'ho detto, e buon per trovato la croce che la madre gli mise al
te; ch'io non vendo vesciche a persona. collo, quando lo mandò a balia, per rinno
Pist (Questa mi par propio una commedia; e vellarmi la memoria di lui, e darmi questo
non mi pare essere però da ribuoi affatto, dolore in su questa, allegrezza di Guasparri.
affatto: e pur non so conoscere, se costei Egli è ben vero, che non s'ha mai un con
vuol la baja, o dice davvero. Da un canto tento intero in questo mondo, e sempre coi
costoro hanno il diavolo addosso, e son per piaceri son mescolati i dispiaceri, e vengono
sone di scarriera, che si dilettano di veder poco di poi. Ma io mi struggo di veder la
male, e non istimano se non l' utile : onde signora Fulvia, per intendere donde ella ha
dubito, che questo non sia un inganno sordo avuto quella crocetta, che è appiccata va
per farcela di quarto, o qualche contram quella collana che ella mi porse dianzi.
mina alla cosa, ch'aveva ordinato di fare Veggola io colà? ella è dessa , i
stasera Gualtieri. Dall'altro canto, la casa Fulv. Ecco Simone. Voi sapete, Simone?
dond'ell'esce, l'uscirne si allegra, l'avermi Sim. Io ho inteso ogni cosa da Guasparri, e
detto tante volte, ch'io vada, che buon per m'è stato tanto caro, quanto potete pensa
me, mi dà qualche appicco, onde io speri re, si per conto suo, e si per mio, e ne rin
qualche bene. Ma io non posso intendere grazio Dio principalmente, e poi voi. Ma
che anello sia questo, e che buona nuova ditemi di grazia, ditemi il vero, che questo
Possa avere Gualtieri: io dirò a loro tutto m'importa più che quel di dianzi: donde
quello che ella ha detto a me, forse, lo sa aveste voi quella collana, con quella cro
Pranno dieiferare essi,). cetta, che voi mi deste poco fa ?
-

ºuh. Di quanti beni son io oggi stata cagione Fulv, Oh, non lo sapete voi l Volete
VAh Cnl v,
i" mo
v
474 LA SUOCERA
f, teggiare un poco in su questa buona nuova Pist. Chi sa ? sarebbe un abbattersi. I
- di Guasparri e del vostro figliuolo ? sta Sim. Egli mi disse in quei di, che egli arrivò
Sin. Ditemelo, vi prego, ch'io non lo so e non qua, che aveva bisogno di ragionarmi d'una
il motteggio; anzi, se mai dissi davvero, que sua faccenda, perchè egli era venuto a Rau
sta è quella volta e º º gia; poi non me n'ha mai detto nulla.
Fule. Non è elta quella che mi portò oggi il Pist. Non debbe aver veduto il tempo.
"vostro servidore, per la quale voi mandaste Sim. Sapresti tu quello si possa voler da me,
º per me con tanta fretta? | o quello sia venuto a fare a Firenze?
Sim. Eºl Pistoia donde l'ebbe? I b i Pist. Non so altro, se non che mi pare avere
Fidv. Da Gualtieri penso io; che me la portò spillato non so donde, che egli sia venuto
da parte sua, in I per ritrovar suo padre, che dice che è fio
"Sin. E Gualtieri donde l'arà avuta? o rentino e nobile: ma i clie, mi paiono favole
Fuhº Cotesto non vi so io dire, che non l'ho ol dà veglia ſorp e tit o ti .
"poi veduto, I .Sin. Da chi l'hai tra inteso º .
Sim. Che aveva a far Gualtieri con essovoi, Pist. Non v' ho io detto, che non lo so? per
º che v'aveva a mandar questa eoliana? chè mio fu detto di rimbalzo per cerbottana,
'Falv. Non sapete voi, che voleva tor per mo ch' egli era stato portato via della culla.
º glie la Fiammetta a tutti i patti, e io per Sin. Oth Dio ! questo è un gran riscontro, e
º chè non mi pareva allora che quel paren anch' è appunto su quella età. Ma io non
tado fosse dicevole, non gliela voleva dare, son di quegli avventurati, io. Pistoia mio, va
º e però non la volli accettare, e riportarvela? e trovalo or ora, e menalo qui a me, il più
Simi. Io non ho saputo nessuna di queste cose presto che tu puoi, che se mi riesce un di
io, e maravigliomene; e non credo che segno, che ho nel capo, ti trattarò in modo,
i Gualtieri abbia tanto poco cervello, che egli e tal parte ti farò, che tu non sarai mai più
avesse fatta una pazzia a eotesto modo, e povero: e vedi intanto se tu trovassi Gi
preso moglie senza mia licenza; appena la smondo e Gualtieri, acciocchè tu facci un
vorrà egli, quando gliela vorrò dare io: voi viaggio e due servigi; e di loro che ven
trovarete, che sarà stato qualcuno altro, o - gano subito a me. Io ho speranza in Dio,
egli, per far piacere a qualche suo amico, il quale mai nelle cose giuste e ragionevoli
- non abbandona i devoti suoi.
e l'arà servito del nome: ceriuolo, chiappo
lino che egli è : ch'ha egli a entrare in que Fulo. E' ſia meglio che io m'avvii a casa a
mettere in ordine e raffazzonare un poco la
ste cetere un suo pari, che è ancora un fan
-,
ciullo? Ma e' bisogna, che noi ritroviamo a Fiammetta. o i

ogni modo donde e uscita questa collana. Sim. Signora Fulvia, io vi rivedrò poi più per
Fulv. Io per me non posso dirvene altro; ma e agio, e v'atterrò più con fatti, che non v'ho
il Pistoia doverrà sapervene ragguagliare egli, promesso colle parole. Andate, che Dio v'ac
e per buona sorte lo veggo passar di colà. compagni. º o -

Sim. Pistoia. º º - i
'Pist. O padrone: che comandate? scENA v ED ULTIMA -

-
-
Sim. Dove sei tu stato da ier sera in qua, che -- - --

- non t'ho mai veduto? e dove vai tu ora ? Mi P istoia, GusMondo, Gualtieri, messer Fasataro,
Fulv. Io lo mandai a veder di Gismondo, per - i , o SIMoNR, GuAsPARRI. ,
dargli questa buona nuova. I - i - - l -

Sim Oh sta bene. Vieni un po' qua: chi ti Pist. Ventura, ventura! Eccoli qui tutti e tre;
questa sarà pure una commedia daddovero.
º di quella collana che tu portati oggi qui Gism. Tu berai bianco, Pistoia, e non arai le
a casa la signora da parte di Gualtieri?
“Futu. Di' via, Pistoia, non istare in sui tirato;-
- -
i calze. Guasparri ci ha ragguagliato d'ogni
che ci sono mille buone nuove. cosa appuntino, ed è qua poco discosto che
Pist (Costui debbe sapere ogni cosa, e tenta ne viene : torna, torna anche tu addietro
mi: non voglio, non voglio che mi truovi in con esso noi; che vuoi tu fare ? ,
º bugia, che se facesse le caselle, per apporsi, Pist. Ecci si bujo, che non debba anch'io tor
non direbbe tanti particolari). Dettemela un nare indietro con esso voi? Io l'arò da vo
amico di Gaaltieri. i a stro padre le calze, che v'aspetta con gran
Simi. Non vi dissi io, che non era per conto dissimo disiderio amendue, e ha una voglia
suo, ma di qualche suo amico ? conosco bene e di favellare a messer Fabrizio, ch'egli spa
io i polli miei. E chi è questo amico di sima. È possibile, che io non possa ancora
Gualtieri? non ha egli nome? A intendere, che cosa sia questa, e donde si
"Pist. Quel messer Fabrizio da Raugia, sì gran vengano tante allegrezze! Costoro galluzzano
de amico di Gismondo: non lo conoscete voi? ora tutti quanti, e dianzi parevano morti.
Sim. Domin fallo, che io non conosca messer Di grazia, dicami un di voi, che buone nuove
Fabrizio Raugeo, che gli ho tanti obbrighi ! son queste; ch' io rido anch'io e non vorrei
' Ma donde ha egli cavata questa collana ? però ridere a credenza,
Pist. Penso che l'abbia compera io; ma non Gism. Non dubitar, Pistoia; ridi pure, e sta
-
he so altro: so bene, che la tiene molto ; - allegro, che tu hai anche tu parte in que
ste venture: e n'arai, tal premio, che ti
cara. ,
Sim. Dove lo potrei io trovare? A chiamerai stracontento: ma tu non hai a sa
---
A ! i COMMEDIA 3a 1 i 473
pere più là per ora, chè questa volta non l d'intendere da quei mercanti fiorentini chi,
volemo che si faccia come nelle commedie, fosse mio padre, o di lasciarmi i loro che
dove ognuno risà ogni cosa. a ! ! º mi orimandassero: ma non essendo potuto,
Pist. Ditemi almeno in quello vi ha giovato, entrare nella terra, per venir di luogo sb
- l'opera mia. spetto, e avendo fretta d'arrivare a casa,
Gism. S'io tel dicessi, tu lo saperesti , che è o s'imbarcò, e mi condusse con quel contae
quello, che non volemo, o , i te dino a Raugia; dove, essendo la moglie mor
Pist. Almeno ditemi s'io ho giovato davvero. : ita, e così un figliuolo chi egli avevaiº senza
Gism. Davvero, e te n'avemo obbligo tutti i più, s'ammalò anch'egli, e ventito alla fine
quanti. . . . . .. . o o se della sua vita, fece testamento, nel quale
Pisi. È egli così Gualtieri? a oli oi º i p - m'adottò per suo figliuolo, e mi lasciò ere
Gual. È il Vangelo di San Giovanni in de di tutto il suo, non avendo parenti stretti
Pist. Dovevate pur dire quelle di Monte Var o nè da lato di padre, nè da lato di madre:,
- chi, che è più su: ma se la cosa sia pur che fu tanto, che io ho da contentarmene,
così, io ho fatto migliore opera oggi, non e me ne contento: e se mi potessi cavar
i me ne accorgendo, che in tutto il resto della questa voglia di trovar mio padre, dhe mi
vita mia, volendo. Vedete qua Simone che ha stimolato sempre, ma non ho avuto il
vi viene incontra i a iſ o : comodo di poterne cercare prima che ora,
Sim. Messer Fabrizio, vaglia a perdonare, se non arei invidia a nessuno.
io usarò con essovoi troppa sicurtà, per nonSim. (O felice giorno sarà questo li Costui è
dir presunzione; fate così anche voi meco, - desso corto: appena che io mi tengo di non
, se mai v'accadrà, come fa ora ai me: lº abbracciarlo). Dimmi un po' Fabrizio ave
vorrei in grandissimo servigio, che voi mi sti tu mai altro nome,lche tu ti ricordi, o
diceste come ebbe nome vostro padre- , hai segno nessuno, mediante ilo quale tu
Fab. Io pagarei tal cosa a poterlº dire, che sperassi di poterlo ritrovare, poichè taodi'
non è uomo, che lo credesse : io era sì pic d'esser venuto quaggiù a questo effetto ? o
colo, quando fui portato di qua da nesser Fab. Del nome io nº aveva un'altro, chè Fa,
Grifaldo buona memoria, che non solo non brizio mi pose nome messer Grifaldo.buona
me ne posso ricordare, ma non lo seppi mai, e felice memoria, quando m' adottò, perchè
ne so pure se è vivo 3p e, a questo effetto così aveva avuto nome suo padre, ma io
sono venuto qua da Raugia: e questa è quella non me ne ricordb, nè ho segnale nessuno,
faccenda, della quale, se ben vi ricorda, vi se non una crocetta d'oro, la quale soglia
dissi in su quel principio, che vi voleva far portar sempre al collo appiccata a una col
- vellare. i ti º ai º i ai (i va º, lana; ma oggi per mia disgrazia non l' ho.
Sim. (Oh Dio! Io mi sento tutto commuovere). Sim. O Dio ! tu sei desso, figliuol mio: o o fi
Voi non sete dunque Raugeo, come ognuno º gliuol mio caro, tanto più caro, quanto me
stima, ma Fiorentino ? i o , ne no aspettato: io non mi posso saziare d'ab
Fab. Fiorentino, messer sì, per padre e per bracciarti e di baciarti. Questi son tuoi fra
madre. , i a º º, tegli, e tu sei loro: or così abbracciatevi e
Sim (O Dio, se fosse desso!) Perchè dunque baciatevi insieme, figliuoli miei, io non
vi chiamate Raugeo? e come ve n'andaste là? - posso restar di piagnere per la tenerezza,
Fab. È cosa lunga; pure io vi dirò succinta venga la morte a sua posta, e oggi mai io
mente quello che mi fu più volte raccon o morrò felice e contento. O Cassandra, o Casa
tato poi da chi mi portò. Partendosi di Fi sandra, che nuova felice sarà repuestaſ Ecco
renze l'anno 1552 per sospetto della peste che tu riarai bello e allevato quel figliuolo,
la felice memoria di messer Grifaldo da che tu piagnesti tanto. Che allegrezza hai tu
Raugia, per tornarsene, alla sua patria; quan averne i quanto abbiamº noi a piagnere in
do fu di là dall'Apparita, presso a San Do sieme! Io non posso favellare per le lagri
nato in Collina, pare a me che dicesse, mi me. O Fabrizio mio, s'io non muoia que
vide fuori d'una casa in una zana tutto so sta volta di dolcezza, io non morrò maipiù:
letto, e sentendomi piagnere, gli prese com lasciamiti abbracciare un'altra volta, figliuol
passione di me: e avendo inteso da un con mio, lasciamiti baciare, uh, uh, uh !
tadino del paese, che s'abbattè quivi, che Gism. Nostro padre, egli è tempo da ridere,
la mia balia era morta di peste, e tutti que non da piagnere : voi avete fatto un gran
gli di casa finalmente, perch'io non mi mo guadagno voi, ch'avete acquistato così fatto
rissi di fame, o fossi mangiato da lupi, volle figliuolo ; ma io non ho guadagnato di fra
dare dieci scudi a quel contadino, che mi tello altro che 'l nome, perchè l'amore e
riportasse in Firenze a mio padre; ma egli l'affezione m'aveva io prima da me.
disse, che non sapeva il nome, nè la casa, Gualt. E io medesimamente.
anzi che aveva inteso, che egli era non so Fab. Io non voglio altro segno, che Simone
dove in ufizio, discosto a quivi più di cin sia mio padre, se non la riverenza ch'io gli
quanta miglia : e non si trovando quivi nes portava, e l'aver sempre amati amendue
suno che mi volesse ricettare per amor della voi, come fratelli. Ma e' sarà bene, che noi
peste, egli diede trenta scudi al contadino ce n'andiamo tutti in casa a dar questa
medesimo, e disse, che mi conducesse ad consolazione a nostra madre, che mi con
Ancona; pensando aver comodità quivi, o sumo di vederla.
476 LA SUOCERA COMMEDIA
-
-
Sim Ben sapete, figliuoli miei. º Gism. La Caterina, per innanzi detta la Fiam
Fab. Ditegli quella cosa dell'Agnoletta, metta, sorella dell'Argentina e dell'Agno
Gism. Nostro padre, voi non sapete: e c'è letta.
un' altra buona nuova. " , Sim. Vatti con dio! I paperi hanno menato a
sim. Quale? ber l'oche: dianzi mel disse la signora Ful
Gism. Messer Fabrizio, ch'aveva appunto tolto via, e io non lo credetti, ch'ogni altra cosa
- moglie. arei pensato, eccetto che Gualtieri avesse
sim. Si ? e ſia con cento mila buoni anni: avuto un pelo, che pensasse a tor moglie:
chi ha egli tolto ? se il padre vuole, io ne sono contentissimo.
Gism. L'Agnoletta, sorella dell'Argentina. Guasp. Io voglio, io: son parentadi da rifiutar
Sim. Tanto meglio: Guasparri non me n'a- questi? io ho udito di qui tutti i vostri ra
veva detto nulla. -
gionamenti, e appruovo e confermo e rati
Gism. Non era ancor conchiuso affatto, che ve fico ogni cosa; e'l medesimo farà la Criofe,
lo voleva prima conferire, e non s'aspetta che pur testè me ne stimolava, e non mi la
sciava vivere.
va, se non che voi deste il si. -

Sim. Mi disse bene oggi non so che: si con Sim. Guasparri, io non credo che 'n tutto i
chiuderà come lo veggo. - mondo siano due padri, ch'abbiano da vi
fab. Ve ne ringrazio mille volte, mio padre; vere più lieti, e star più contenti di noi.
ma che si faccia stasera a ogni modo. Guasp. Aggiugni anche due madri.
Sim. Io dico ora io, non istasera, innanzi che Gism. E tre fratelli,
ci partiamo di qui; che Guasparri non deb Gualt. E tre sorelle.
be potere stare a venire. Fab. Chi arebbe mai pensato, che così scura
Gualt. Io voglio anch'io moglie, mio padre. notte e così tempestosa si fosse potuto ri
sim. Anco tu l'arai, figliuol mio, quando sarà volgere così tosto in così chiaro giorno e
tempo; tu sei ancor troppo giovane, ben sai. così tranquillot º -
Gism. E dice da motteggio. Gualt. Ringraziamo Dio d'ogni cosa, dal quale
Sim. Io so ben ch'e'dice da motteggio: do procedono tutti i beni: ed entriamo in casa
min, che tu credi, ch'io non lo sappia! oggimai dalle spose: che si mandi per mona
Gism. E son parecchi mesi ch'ei la tolse. Cassandra e per tutti i parenti e amici, e
Sim. Buon pro gli faccia. diasi ordine, che questa sera si facciano le
Fab. E bella l'ha egli tolta e nobile. nozze belle e magnifiche.
Sim. Io credo, che voi direte daddovero. Sim. Entriamo.
Gism. Credete voi, che noi burlassimo con es Pist. Io dove rimango ? nel ciappolo?
sovoi, e massimamente in questi casi l Io vi Sim. Darem moglie anco a te Pistoia, non du
ricordo, che non ha essere peggio di noi: bitare. -

io per me non sarei contento affatto, se non Gism. Ben sapete che si vuol dargliela, che
vedessi contento anche lui. -
se l'ha molto bene guadagnata.
Fab. Nè io : fateci questo piacere a tutti e Pist. Io vorrei più tosto la dote io.
tre, nostro padre: questa è la prima grazia, Sim. Daremti anche la dote, cotesto s'intende
ch'io vi chieggio, non vogliate dinegarmela. per l'ordinario, ben sai, e grande lati da
Gism. In su questa allegrezza non s'ha a di remo,

negar cosa nessuna. Fab. Il Pistoia merita ogni bene.


Sim. Poichè voi vi contentate così, e che io | Gualt. Vien pur dentro in casa, Pistoia, e la
ne fo piacere a tutti, sia fatto: dica chi egli scia fare a me, che t'ho a ristorar di più
vuole, e da me non restarà che non l'abbia. d' una cosa.
Gism. E non vuol altra che quella, ch'egli Pist. Io vengo. Fatevi con dio, voi altri, e date
ha tolto, o era per torre, ogni volta che segno d'allegrezza, che la commedia è for
ve ne contentaste voi. nita. -

Sim. E chi è ?
-

. . . . . .

- --- .! -- - - -
e,

- a , i
soNETTI i , -

ALL'ILLUsTRIssIMo Ep EccELLENTIssIMo
io questi miei componimenti, qualunque si
- I GN o R E B PA o R o N suo oss ERV A N D IS S IM O siano (perchè di loro non intendo cosa nes
a º a º
suna, nè in bene, nè in male ragionare) a
Slonon
chi che sia per la ragione detta inviare,
DON FRANCESCO MEDICI
non poteva i" convenevolmente nè doveva
senza gran biasimo ad altra persona, che
PRINCIPE DI FIRENZE,
a " a di vostra Eccellenza illustrissima
indirizzarli; sì per lo essere ella non solo
5 figliuolo, ma primo figliuolo, non pure di
L animo mio da principio non era, il duca, ma del duca di Firenze, nel quale
(per lasciare ora stare gli onori ed i be
lustrissimo ed eccellentissimo Principe, pub neſizj, i quali dalla di lui liberalità ho
blicando io la prima parte delle mie rime,
di doverle ad alcuna persona nominatamente molti e grandissimi ricevuto) è si fatta
intitolare: e ciò faceva io sì per imitare mente la fortuna congiunta con la virtù, e
l'esempio dei migliori e più gravi autori, la virtù con la fortuna, che malagevole cosa
che rime abbiano composte e mandate fuo è a potere discernere, a cui egli sia più, o
ri: i quali (siccome in messer Francesco a sè medesimo, o alla ventura obbligato;
Petrarca già, e novellamente nel reveren per non dire nulla, che imitando noi in
dissimo monsignor Bembo vedere si puote) così tenera età le rarissime, anzi singolari
non vollero a niuno particolarmente dedi virtù di lui, credere si dee, che non meno
carle; e sì perchè io sperava, e spero di delle lettere toscane dilettare vi debbiate,
potere quando che sia, se non in maggior nè meno favorirle, che delle greche vi fac
numero, certo con miglior forma stamparle. ciate e delle latine: anzi tanto più quanto
Ma, poscia che io, avendole già sono più queste sono, si può dire, forestiere e mor
mesi, alla stampa date di messer Lorenzo te, e quell'altre non pur vive e nostrali,
Torrentini, impressor ducale, sentii, che al ma fioritissime, e della nostra città proprie.
cuni biasimando e riprendendo m'andavano, Senza che in tutto questo libro sparsamente
dicendo, che nè all'età mia, nè alla pro si leggono non pure le lodi di vostra Ec
fessione si conveniva oggimai d'andare com cellenza sola, ma eviandio di tutti quelli
ponendo e stampando sonetti, mutai subi dell'illustrissima Casa de' Medici, e spe
tamente proponimento; non " perchè io zialmente dell'ottimo e grandissimo Padre
intenda, o con costoro contendere, o dispu vostro, se non con quella nè eloquenza, nè
tare con alcuno per rimuoverlo dalla cre dottrina, che all'altezza si convenia dello
denza ed opinione sua, nè anco, le molte, stato suo, almeno quanto ha la bassezza e
e varie cagioni narrare, le quali a ciò fare saputo e " mio, il quale
giustissimamente mi spinsero, ma solo per altro premio, o guiderdone di questa opera
significare a tutti quale sia in ciò la sen non aspetto, nè chieggio, che l'avere di
tenza e parere mio, il quale è, che niuna mostrato se non la possa, almeno la volontà
età tanto matura si ritruovi, nè alcuna pro di celebrare, per quanto in me fosse, non
fessione così grave, alla quale il comporre pure un lauro solo, di tutte le laudi de
sonetti, e conseguentemente lo stamparli si gnissimo, anzi di qualunque loda per mio
iiudizio
disconvenga; non iscrivendo alcuno gran maggiore; ma eziandio buona parte
fatto cosa nessuna, se egli stolto non è, tutti coloro, i quali a me per qualunque
ad altro fine, che per essere letto: la qual cagione pareva, che di dovere essere cele
brati meritassero. -

cosa, per tacere di Dante, il quale fu non


minor filosofo e teologo, che egli rimatore D' Orvieto, la vigilia del Corpus Domini,
dell'anno MDLV. -
e poeta si fosse e moltissimi altri, si può
non meno agevolmente, che chiaramente Di vostra illustrissima Eccellenza
coll'esempio dei due da me di sopra no Umiliss. e Divotiss. Servo
minati provare. Dirò bene, che dovendo Besenºrro VARchi.
A78 SONETTI

A M. Pierfilippo Pandolfini.
- - - re in qual selva posso io, sopra qual monte,
DE soNETTI Tra quai iº verdi e più graditi allori

DI MESSER BENEDETTO VARCHI - l Cantar l'alto valor, gli eterni onori


Di quel d' ogni mio ben radice e fonte ?
Avessi io pur le forze al voler pronte,
Come le fiamme mie, di cui maggiori,
Nè più dolci non furon, nè migliori
Forano, e sue virtù palesi e conte.
Deh ! che non diede a me chiara arte e 'ngegno
Mia fortuna ed amor, come a lui diede
i PARTE PRIMA Quanto avea bello e buon natura e 'l cielo ?
, Folle, che bramo? Oimè, foss'io pur degno
a -
Di baciar l'orme di quel santo piede,
Che fa l'erbe fiorire a mezzo il gielo !

- -
-
º , º - i
Quel ch'Amor mi dettò casto e sincero S' alcuno ebbe giammai sotto le stelle
D'un lauro verde, ne' miei più freschi anni, Dentro il regno d'amor felice stato;
º Cantai colmo di gioia, e senza inganni, S'ad uomo in questo cieco mar soffiato
Se non leggiadro, almeno felice e vero. Da mille ognor terribili procelle,
Febo, che puoi solo dar condegno e 'ntero, Viver lieto e tranquillo in mezzo d'elle,
Pregio e ristoro alle fatiche e ai danni Concedette infin qui benigno fato, º
- Di quell'alme innocenti, ehe coi vanni Io son quel desso: a me certo fu dato,
Volano al ciel del loro ingegno altero; Mercede vostra, oneste frondi, e belle;
Ch'io viva no, ma ben ti prego umile, Sole per cui, come in ciel piacque, donde
Se mai per te soffersi o freddi o fami, Muovon tutte quaggiù l' umane voglie,
Che non del tutto mi disfaccia morte: Presi la strada, ch'a buon fin conduce.
E quei più d'altri mai ben colti rami E se l'ombra di voi non mi si toglie,
Della tua pianta e mia, con nuova sorte Mio lume e polo in queste orribili onde,
Fioriscan sempre in rozzo e secco stile. Come posso io perir dietro a tal luce?
:
e - e º e
a i - - i

Alsi ed arsi gran tempo, e fu l'algore, O sacra, o santa, o gloriosa fronde, -

E l'ardor così dolce e così santo, Ove ogn'alto pensier s'ha fermo il nido,
Che quel ch'a gli altri suol vergogna e pianto, Fronde, per cui veder tosto m'affido
A me sempre portò gioja ed onore. L'antiche glorie a i nostri onor seconde:
A te vero del cielo alto Fattore Per qual merto, o destin, ditelini, e donde
E della terra sia la gloria e 'I vanto, Verrà chi possa degnamente il grido
E a voi, cui sole adoro al mondo, e canto Portar di voi per ogni estremo lido,
Frondi, degna del sol pregio ed amore. U’ nasce, u gira il sol, dove s'asconde!
Io per me son vil fango, e nulla mai, Ben porria forse in questo umano chiostro
Nato ad ogni miseria o bello o buono, Lingua mortal delle bellezze vostre
Se non da voi sospinto o dissi, o fei. Ombreggiar col suo stile or una, or due;
Per voi le nebbie oggi si folte, e quei Ma la virtù, che l'alte doti sue
Venti, che solo a i buo' contrari sono, Ha tutte larga in voi spiegate e mostre,
-
E quanto era mortal, poco curai. Qual potrà mai ridire o lingua, o inchiostro?
A Girolamo Ricciardi. - -- . -- i -

Come nè più bel mai, ne più gentile, Famose frondi, de cui santi onori, i

Nè più casto arboscel, nè più gradito Per non so qual del ciel fero pianeta
Non vide il Sole o in questo, o in altro lito, Rado oggi s'orna, o Cesare, o poeta,
Dal mar d'India girando a quel di Tile, Mercè del guasto mondo e pien d'errori;
Di quello ond'io nel mio più verde aprile, Qual sarà mai, che degnamente onori
Veduto a pena in loco alto e romito, , g" bello, onde ogni ben par che si mieta?
Che Gioveirato e le tempeste acqueta,
Arsi a me saggio, altrui folle cd ardito,
Poca esca e frale a tanto e a tal fucile; “ E rende umili i più feroci cori ? º
Così mai nè più grande, nè più pio - E qual fia mai, che degnamente ancora
Foco, nè più fedele, o più felice Onorar possa, e quanto si conviene
Non arse petto, od arderà del mio. L'alta bontà, ch'è nel bel vostro involta?
Quindi ogni alta mia speme, ogni disio Io, da che prima nasce l'aurora, i -

Di santo e bello oprare èbben radice; Fin che di nuovo all'Oriente viene,
Chè parle, o pensi il volgo audace e rio. 'V'adoro e 'nchino umili solo una volta.
PARTE PRIMA 479
lo ſi ri o o i -

Sante, beate, altere fondi, a tesa e,


Cara pianta gentil, nelle cui fronde e
I lacci alla bell'ombra e gli ami e 'l visco, acre la speme e i miei casti desiri
In cui legommi Amor, giunsemi e prese, º S'annidan tutti, in te si dolce spiri
Tal ch'ognor più m'allaccio, inamo e'nvisco; Zefiro, e tai ti sian la terra e l'onde;
Io benedico l'ora, il giorno e 1 mese, Che nè caldo giammai, nè verno sfronde
Che fei la pruova, il miracolo e i risco, I tuoi bei rami, cui dove che io giri
Quando m'assalse Amor, ferimmi e 'ncese, La vista, o volga il piè, per sempre io miri,
Onde tremo anc r tutto, ardo e languisco! Nè so viver, nè posso, o voglio altronde:
E chi quanto son dolce, amiche e cari Ch'ogni gioia, ogni pace, ogni riposo
apesse il giogo, le catene e i ceppi, Mi vien, già fugge il terzo decimo anno,
Ch'io porto sempre al collo, al core e a piedi; Dall'ombra, dall'odor delle tue foglie.
Direbbe ben, ch'io vidi, intesi e seppi Quanto per reo costume i volgari hanno
Quel di,nulla
Fuoco checurai,
senza saette spiedi.e ripari,
scorta,oarme º, i
Caro e soave, i buon vile e nojoso, º
Solo il pensare a te del cor mi toglie.
. A Mr. F ncesco di Sandro. 6.I ! º
- , e - e

Quel verde e casto e sacro arbusto, dove Alme celesti fronde, ch'io son fermo
Poser le Grazie e l'Ore ogni arte e 'ngegno, D'amar sempre, ch'io viva, e dopo morte;
- 9" che mi diede il ciel fido sostegno, Ch'altro non è, che qui vero m'apporte
i Verdeggia, lasso ! ed io qui piango altrove. Diletto, e tenga in bene oprar più fermo:
O rami, o fronde, o foglie altere e nuove, Sacro monte superbo, ombroso ed ermo,
º Caro d'Apollo e mio dolce ritegno, Che m'innalzasti a così chiara sorte,
Per cui tutti altri e più me stesso sdegno, Che stato alcun non è sì ricco e forte,
Quando fia mai, ch'io vi riveggia, e dove? Con chi io cangiassi il mio povero e 'nfermo;
Qual fora il cielº senza la luce, e quale Non ebbe uom mai, nè averà, credo, il ciglio
Senza verde la terra ignuda e trista, Di me più lieto e più tranquillo il core,
Tal sono io senza voi, mia pianta e stella. Or compie il terzo e quindicesimo anno.
E, se non che i pensier mi rende quella Cosa mortal, che pro n'arrechi, o danno,
Cara, dolce, cortese, amata vista, Nulla non puote in me, nostro consiglio,
Morte m'eleggerei per minor male. Santi rami del Sol, non mio valore.
e i ti i .. .. ... a - - -
- -
- -

O sovra ogni altra al ciel gradita fronde, Ben si volgea per me felice stella,
La cui virtute inusitata e nuova, Ben era il cielo ad arricchirmi intento ,
Cantan le Muse e l'alme Grazie a pruova, E più ch'altro ancor mai, farmi contento,
La 've'I bel Tebro e'l gran Tarpeo risponde; Che sentisse d'amor faci o quadrella,
Lungo queste fiorite erbose sponde, Quel dì, che l'una vostra e l'altra stella
Ove, alcuna orma ancor di voi si truova, Mirando da vicin, presi ardimento
Indarno piange ognor Damone e pruova, Volere arder per loro, e 'n un momento
Di scemare il gran duol, parlando all'onde: Venni, qual suole al sol neve novella.
E dice: Oimè, quanto doler ti dei i Chè sì dolce era, e voi sì dolcemente
- Meco Mugnon, che quei bei lumi altrove Giravate il bel lume agli occhi miei,
Fan ricco il mondo e 'l ciel sereno e queto. Quasi dicendo : Ecco la luce vostra,
Deh! chi per la pietà di tanti miei Che tutti ad uno i pensier bassi o rei
Sospiri, o uomo, o Dio, mi pon là, dove Scacciò d'alto disio colma la mente,
- Corre 'i picciolo Ren più che mai lieto? Arbor pregio d'Apollo e gloria nostra.
- i

Arbor sacro del Sol, ch'io amai tanto Quanto meco talor m'induro e inaspro,
Ed amo ed amerò, mentre ch'io viva, Veggendo come invan mia vita vole,
E quando poi sarà di spirto priva Tanto pensando a voi vivo mio sole,
La carne, e quello fuor del terren manto: Intenerisco e me stesso disaspro: º
O fatta Angel su in ciel beato e santo, Nè rubin pregiò mai tanto, o diaspro
Od ombra giù nell'amorosa riva, a Il volgo avaro e sciocco, quanto sole
D'ogni altro bel, d'ogni altro bene schiva, Mio cor le care, sante, alte parole -

Amerà l'alma voi; che solo il vanto Vostre, che mi fan dolce ogni agro ed aspro.
TD ogni rara eccellenza avete, e solo E da che mirar voi m' è tolto, in quella
Foste alle notti mie si chiaro sole, Vece miro le stelle, il sol, la luna,
Ch'io non temo giammai perdere il giorno. Fiesole, l'Asinar, Reggio e Morello:
Oggi è quel santo e si felice giorno, E 'n quella parte, ove l'aer più bello
Ch'i vostri rami e le mie voglie sole, Scorgo. Quivi è, dico, la casta e bella
M'alzaro al ciel son ispedito volo. Mia pianta e saggia, ove ogni ben s'aduna.
-
48o SONETTI i
Quantunque bagnan l'onde e scalda il sole,
Non ha, ned ebbe mai pari o simile a M. Francescº Beato, metafisico
-
A voi pianta d' Apollo, arbor gentile, ...
Cui meco ammira ogn'alma saggia e cole. Quanto ha di grave il viver nostro amaro,
Ma qualletante vostre doti e sole - Tutto fammi pareri leggiadro e dolce
Narrar vuole, e presume o lingua, o stile, L' arbor del sol, che la mia vita folce
Quante aggia stelle il ciel, fiori l' aprile, Non men cortese e pio, che casto e chiaro:
Rene il mar, noverar presume e vuole. E quando invidia, o del mio male avaro
Perch'io mi taccio, e del mio folle errore Mi percuote destin, si piano e dolce
Tardi pentito, tacerommi, e solo Tratta la piaga, e con tal sugo molce,
Sempre v'inchinarò la fronte e'l core. Che i dolor torna gioia e I danno caro.
Ben prego e pregarò divoto Amore, Pianta onorata, nel cui santi rami
Ch'a voi mi scusi; e far lo dee, ch'ei solo Alberga ogni mia speme, e virtù regna,
Quel ch'io dentro chiudea, sospinse fuore. Te nè vento già mai, nè ferro sterpe.
Ma come può salir, dove tu i chiami
A M. Bernardo segni (i) º Mio basso, e 'ncolto stil, ch'a pena segna
Quella casta, onorata e sacra pianta, La rena, mentre umil per terra serper
Che le radici sue nel mio cor tiene,
Tante quivi produce e tai vermene, -
: E tante egli ad ognor v'innesta, e pianta; Ben puoi tu, alto e superbo Asinaro,
Ch'altro l'alma non è, che verde e santa La fronte inghirlandar d' abeti e pini,
Folta di lauri selva, onde le viene Poi ci e'i mio Sol coi suoi più, che divini
Tale ombra e tanto odor, che della spene Occhi fa intorno a te l'aere sì chiaro: li
Sola, più d'altro mai, si pregia, e vanta, Quanto or sei più d'ogni altro altero e raro
E spera ancor, se crudel Parca il filo, Mercè de' rari, alteri tuoi vicini ?
Non le recide innanzi tempo, quindi Qual fia sì duro cor, che non t'inchini,
Sì bei cogliere un giorno e frutti e fiori, Quando saprà cui tu fosti sì caro?
Che se non dall'Atlante ultimo a gl'Indi Non temer, che già mai vento, nè pioggia
Primi tal pianta, e dalla Tana al Nilo, T'offenda, o noccia il gran folgor di Giove,
Dalla Macra al gran Tebro almen s onori. Mentre hai presso di te sì verde lauro;
Lauro, in cui con disusata foggia
A M. Francesco Gerini. Virtù crescono ognor tante, e si nuove,
La verde e nobil pianta ch' amò il sole, Ch' eterno può sperarsi il secol d'auro.
Per fare i giorni miei lieti e felici,
Tutte ha dentro il mio cor le sue radici,
Ed ei tanto l'irriga ognora e cole, -

Che crescon sempre e l'alma altro non vuole, superbo monte, ove a tanta bellezza,
E grida : O tronco santo, o rami amici Quanta può dar quaggiù larga natura,
Sol d' onestade, o di me beatrici Degnato fui quel dì, ch'alta ventura,
Frondi e foglie sacrate al mondo sole:
L'arbor mostrommi, che'l gran Giove sprezza;
Ond'io se quella fera Donna e pia, Qual mi punge entro i cor dolce vaghezza
Di ricercar, s'ancor tra l'erbe dura
Che quanto cuopre il ciel, sempre disface, Alcuna orma di lui, ch oltra misura
Non tronca al volarmio per tempo i vanni; Piove negli occhi altrui santa dolcezza?
Lor mercè spero, e pietà tua, verace E non è sasso a queste selve intorno;
Signor, quando sotterra, e polve sia Sterpo non nasce in su questi alti monti;
La carne, restar qui molti e molti anni.
Nè rami han questi boschi, o foglia o fronde;
A maestro Francesco Salviati, pittore. Stilla d'acqua non vien da questi fonti;
Nè fera questa ombrosa valle asconde,
Sotto i più verde e più fiorito alloro, Ch'io non ringrazii mille volte il giorno.
Che covrisse unqua il ciel, sotto i più santi,
Rami, che fosser mai, di tali e tanti
Frutti mi pasco, e si bei fiori odoro;
Che, quasi fra i metalli un più ricco oro, Mentre il santo arboscel, che 'l cielo onora,
Men vo superbo tra i più lieti amanti, E, da cui tal dolcezza e grazia piove,
E sol mi duol, ch' a rimirar bastanti Asinarmio, con sue bellezze nuove
Non sono occhi mortai divin tesoro. Dolce faceva in te, lieto dimora,
Nè può la mente immaginar la nuova, Più volentier, nè più sovente allora
Infinita, ineffabile dolcezza, Non mirava alcun monte Apollo e Giove;
Ch'al cor dintorno giorno e notte stammi. Ma or che i rami suoi fanno ombra altrove
Non si pareggi a me qual più si prezza, Altrove guarda Apollo e Giove ancora.
Come egual sotto il sol nulla si truova E l'erbe, ei prati, e i campi, e i boschi, e l'acque
All' arboscel, che tal nel mondo fammi. Non son più, come già, per questi colli,
Fresche, fioriti, lieti, ombrosi e chiare.
(1) Bernardo Segni, autore delle Storie Fiorentine, visse Ond'io col viso chino e gl'occhi molli
col Varchi in molta dimestichezza, sebbene non fossero dello
stesso avviso in molte cose politiche, come emerge dalle loro A pianger teco sempre e sospirare
Storie. - (M.) Men torno al loco, ove mia vita nacque.
PARTE PRIMA 481

Sacro, superbo, altissimo Asinaro, Nè tante volte altero ei sacro monte, o ,


Lieto, gradito, avventuroso loco, Ch'a te stesso di te ghirlanda fai, - -

U’ spenta ogni viltà, s'accese il foco, Nè si da lungi ti vedrò, giammai, a


Che sì m'arde l'april, come 'l gennaro: O parli, o taccia, o posi, o scenda, o monte,
Deh come è dolce alla memoria e caro Che riverente il cor lieto e la fronte -

Da presso agl'occhi il rimirarvi un poco, Non inchini al bel loco, ov' io m'alzai i
Quell'antico membrando, onesto gioco, Alla strada del ciel, mirato i rai,
Che fu nel mondo, e sarà senza paro. Soli d'ogni mio ben principio e fonte. -
Poi ch' io non posso degnamente al cielo Era l' arbor gentil, di cui mi stanno
Cantando alzarvi in guiderdon di tanti Le radici confitte in mezzo 'l core,
Vostri altri merti e farvi al mondo conti ; Già s'avvicina il sestodecimo anno, i
Non spoglie i vostri onor mai state, o gielo, Carco di sì bei fiori, e tale odore
Ma tra voi sempre al suon d'aure e di fonti Spargea,ch'io dissi (e fu ben ver): Quivi hanno
-
Dolce piangendo Filomena canti. Lor nido cortesia, senno e valore,
A M. Raffaello da Montelupo.
Qui fu 'I principio de'miei dolci pianti; Sacro, superbo, erto, ermo, ombroso monte,
Qui da prima vidi io tenere ancora Che tra 'l Sieve e la Garza altero siedi,
Quelle leggiadre e sacre frondi, ch' ora E d'ognintorno più d'ogn'altro vedi,
Spargono infino al ciel lor rami santi. Di mille abeti e pin cinto la fronte; i
In te, bel monte, che di te t' ammanti, Vivo, vago, gentil, lucido fonte, l . I

E col tuo Biviglian vagheggi Flora, Ch'orma non toccò mai di mortai piedi;
Mirai quel tronco giovinetto allora, Rio, che 'l bel colle mormorando fiedi,
Di cui sempre convien, ch'io pense, o canti, Colle chiare acque tue gradite e conte;
Fra queste erbette verdi, al dolce suono -
Valle, che 'n mezzo di fronzuti poggi,
Di questi vivi fonti, in questi boschi Di verdissimi prati e d'onde piena
Scorsi io la pianta, in cui virtute alberga; Un tempo foste al mio gran Lauro albergo,
Qui lieti un di, s'alme presage sono, Vivano eterne queste rime, ch' oggi
Spargeran latte, e fiori i pastor Toschi, Dopo tanti anni a voi tornato, vergo
Dove 'l gran lauro fu picciola verga. In questo tronco, ch'a ben far mi mena.
A M. Benvenuto dalla Golpata.
Qui vidi io pur quell'alme frondi, ch'ora Fiesole mio, se nella tua spelonca,
Fan sì lungi da me l'aer sereno Tanto da me gradita, il ciel concesso
Là, dove corre lieto il picciol Reno, Viver m'avesse all'alma pianta presso,
E dove corro anch'io collº alma ognora. Ch'illaura il mio terren, non pure ingionca i
Ahi ! quanto a gran ragion Favonio e Fiora L'atra donna e crudel, che la sua adonca
Scherzando vanno in questo prato pieno Falce così raſſina, e mena spesso,
Di mille vari fior, ch'aperti il seno, Forse tra suoi m'avrebbe indarno messo;
Aspettan, che 'l bel piè gli prema ancora, Chè sol quanto è mortal la Parca tronca,
Le rose, i gigli e le viole a prova Ed io sempre del ciel, nè d'altro mai . ) -

Fioriscon anzi tempo in questa piaggia; Curava: Amor con ella il vide, e sallo
Tal cadde allor virtù dagl'occhi santi. Cecero ed Asinar, Mugnone ed Arno :
O sovra ogn' altra bella e casta e saggia Ma ora, lasso! o mio fato, o mio fallo,
Pianta gentile, in te sola si trova Da te lontano, e da quei santi e gai,
Quanto desiar ponno onesti amanti, Rami, ne temo; e voglia Dio che 'ndarno,
A Ser Tommaso Poggini.
Fra questi vaghi fior, sovra este molli, Presso il tuo fonte a piè d'un lauro adorno
Tenere erbette in questo prato adorno Mentre io mi assido, e l'alte stelle miro,
Di mille bei color, fa d' ogn' intorno Fiesole mio, il corno e 'l carro in giro
Quella pianta gentil ridere i colli : Dieder la volta al nostro polo intorno.
Ond' io che penso (o pensier vani e folli!) O notte santa, o benedetto giorno,
Di quell'aura sentir, sovente torno O onda, o pianta, o monte, ov'io respir0
In questa piaggia, e cerco entro e dintorno Solo, e sol vivo, voi sempre sospiro,
Pur lei, cui sola e sempre al mondo volli. E sempre a voi colla memoria, torno.
E credo ben, che i fiumi, i boschi e i monti Ben sanno alme di qui (voglia colui,
Aggian pietà del delor mio, che indarno Che solo il tutto può) vivendo, ancora,
Piango e sospiro ogn'or l'amato nome. Sovra l' ali d'Amor volarne al cielo. ,
Odono i miei sospir Marina ed Arno, Io certo fuor del mio terrestre velo,
Non già Savena e 'l Ren, ch' io non so come, Dodici e dodici ore in parte fui,
Son dove più vorrei, sempre men conti, Dove chi vuol salir, convien che riora.
V A Itc H 1 M . ..
6,
482 SONETTI

'Cecero, mio ben puoi tu dire omai Sacro Mugnon, che giù per queste valli
D' esser più d'altro avventuroso monte, Mormorando tra sterpi e sassi vivi,
Ch'ergi sovra Apennin tua verde fronte, Co' tuoi sì dolci e liquidi cristalli
Fatta superba da quei santi rai. All'alte mura e nel bell'Arno arrivi :
Quante fiate e come umil vedrai Se 'l ciel le sponde tue già mai non privi
Venirmi intorno al tuo limpido fonte, Di suoni e canti e d'amorosi balli,
E 'nchinarmi a baciar con voglie pronte, Questo (ch' altri non ho marmi o metalli)
S' alcun vestigio in te del bel piede liai. Per le tue scorze e ne' tuoi massi scrivi:
Dunque l'alma mia pianta, anzi il mio sole. Ventisette anni e cinquecento avea
Vedesti andar cogliendo or erbe, or fiori, Dopo il mille girato il sole, ed era
«Or all' ombra seder delle sue frondi ? Nel quinto grado della bella Astrea;
Come credo io, ch'allor ninfe e pastori Quando piacque e virtute e beltà, intera
Corresser pien di rose e di viole Mostrarmi al ciel, nell'ora sesta, in Lamro E
Spargendone i bei crin più ch'ero biondi. Verde, d'ogni mio danno ampio restauro.

Tu, che d'ogni erba e verde fronda nudo, Sarò si ingrato mai, Terzolla, ch'io
Scoglio ne sembri, e non mente, Rinaldi, Non faccia a mio poter fede alla gente
«Già fresco seggio ne più giorni caldi Che verrà dopo noi, del tuo lucente,
Desti alla pianta, per cui treno e sudo. E chiaro e dolce e fresco e vago rie;
E la tua fronte a raggi ardenti scudo E delle verdi sponde, u 'i grave e rio
Felle, mentre io con pensieri alti e saldi Terrestre incarco depenea sovente,
In lei gl'occhi temeva intenti e baldi, D'amor cantando all'ombra dolcemente,
Che bella e viva nella mente chiudo: Tutto acceso d' onesto alto disio ?
E se lieto soffrire or caldo, or gielo, Tacerò dunque il mormorio soave
Ridendo quanto la vil gente agogna, Dell'aure cd ende tue ? nè dirò quanti
Altrui virtute e virtù fama acquista; Vernan sempre augei d' intorno all'acqueº
Esser porria, ch'un di, mercè del cielo, l O come spesso al di più lungo e grave
Cotanto andrebbe in su la mia sampogna, Meco il buon Lauro mio tra fiori e canti,
Ch' occhio ben san la perderia di vista. Per le tue rive sovra l'erba giacquel

Tu, ch'altero e gentil qual rege siedi Di vaghe ninfe un leggiadretto coro,
Fra gli altri monti, onde 'l tuo nome prendi; Sparse le treccie inanellate e bionde,
Tu, che la fronte al cicl vezzoso stendi, Cantar, sevra le tue fiorite sponde,
E del chiaro Mugnon fai velo a i piedi; Affrico, vidi a piè di un verde alloro;
Tu, che colle tue spalle, antiche sedi E tai, le voci e tali eran di loro
Di ninfe, mentre verdeggiando splendi, Le bellezzc, ch'io dissi : Or come? or d'onde
Quinci più care il bel Fiesole rendi, Venuto sono in ciel con quella fronde
Quindi l'alto Asinar più presso vedi: Santa, cui sola in terra amo ed onoro ?
Già felice più d'altro e più lodato, Perchè rivolto a lei gli occhi e la mente,
La più bella mirasti, e cara petra, - Del lor ratto fuggir non pria m'accorsi,
Ch'avesse, non che l'Arno, Idaspe o ”l Tago; Che sparite mi far tutte di vista;
Ed or via più che mai chiaro e beato, E fu l'immaginar tanto possente,
Il più santo arboscel miri e 'I più vago, Che, come soglio, umile e lieto in vista,
"Che mai fiorisse o'n valle,o'n piaggia, o'n petra. Inchinandole il oor, la man le porsi.

4 e - a

Etrusco Glimpo, che quasi novello e Mensola, che di Ninfa, mentre il bello
Atlante reggi colla fronte il cielo, Satiro schivi e fuggi, ch'a tutt'ore
E cinto il duro crin d'orrido gielo, Te segue e prega, come volle Amore,
Biancheggi al dolce aprite, aspro Morello: lºiveniste, ei terrente e tu ruscello:
Già verde più d'egni altro e lieto e bello Mentre io fuggendo l'empia turba e 'l fello
Ti fea l' arbor gentil, che ”n mortai velo Stuoie, che ha sempre agli altrui danni il core,
Amò 'ndarno, e segui 1o Dio di Delo, Tra voi lieto comparto i passi e l'ore,
D' ogni viltate e 'indegnità rubello, E taler vosco, ed or meco favello.
Già con lui vidi io in te sopra erbe e fiori, Ascoltate, ma si ch'altri non oda,
Al suon d'acque e di frondi entro e d'intorno Nè lo risappia mai l'avara gente,
Mille a pruova ballar ninfe e pastori: Che del pregio miglior sè stessa froda;
Or ſieri venti e spaventesi orrori Chè quanto al mondo piace, e quanto loda,
Suonau per le tre citne, e d'ognintorno E pregia il volgo, a cui ben vede e sente,
Ti caopron folte nebbie e freddi algori. È nulla, e chi ciò sa, tacito goda.
PARTE PRIMA 483
A M. Antonio Petrei.

Chiaro ruscel che per ombrose valli Sieve, Era, Elsa, Mugnon, Bisanzio ed Arno,
Scendendo al maggior gielo ed ai più caldi S'io vivo, un dì si verde e chiaro lauro
Giorni, di verdi e fioriti smeraldi S'udran dolce sonar, s'all' Indo e al Mauro
Cuopri e nascondi i tuoi graditi calli: Portar nol posso, e me ne struggo e scarno;
Già Ninfa, or linfa, allor Filli, oggi Falli, A questi ancor, s'io non l'estimo indarno
Se mai d'amor sentisti o freddi, o caldi, Ne può celarsi così bel tesauro, º
E cangiasti pensier timidi e baldi, S'inchinaran col Liri e col Metauro,
Cogliendo or bianchi, or fior vermigli, or gialli; Il Tebro e 'l Po, non pur Sebeto e Sarno,
Intaglia e serba si, che gentil core E forse allor dalle mie basse rime
Il legga e 'l creda ancor dopo mille anni, Desto sarà chi non indegno eanti
Se mai gente verrà di noi migliore: Quel, ch' or tratto dal ver, vorria dire io.
Al suon dell'acqua in questo amico orrore, O sovra tutti gli altri e belli e santi º
Col suo bel Dafni senza falli, o inganni, Rami, di cui già il ciel toccan le cime, i
Giacque e fuggio Damon l'estivo ardore. Perchè non ho il poter, quanto è il disio?
- -

.. l

Benedetto quel di, che intento e fiso Deh! nasci, occhio del ciel notturno, nasci,
Sovra le rive tue, vago Rimaggio, -
E del bel lume tuo le selve, adorna,
Quei begli occhi mirando ardito e saggio, Si ch'io scorga il cammin, ch'a quel mi torna
Tutti i frutti gustai del paradiso: -
Monte, ov'io presi gli amorosi fasci:
Non pensar, che giammai da me diviso Così per altra o ninfa, o dea non lasci i,
Sia 'l tuo gran merto; e se rime io non aggio Il vago Endimion tue chiare eorna, -

Dal dolce nome tuo, dal caro faggio, Ma sempre e quando annotta e quando aggiorna,
Cui sotto giacqui sopra l'erba assiso; Te colle braccia sue circonde e fasci
Non sia però, ch'ogni anno a mezzo aprile, Tu vedi il tutto, e sai che 'n quella parte, gi
Coronato di fiori un bianco agnello Come a voi piacque, dove oggi dimora,
Non doni all'onde tue, lieto ed umile; La pianta, ch'ogni cor gentile onora, ,
E dica: Acque felici, arbor gentile, -
Sgombrai del petto ogni viltate fuora, ;
Seggio più d'altro mai, cortese e bello, E venni, tal, che pur la minor parte
Da voi stea lunge ogni ria cosa e vile. Nè so, nè posso altrui stendere in carte
-
A, . . .

Vezzoso fonte, che tra mille onori - -- Ninfe, che questi ameni, aprici colli . . .
Di rose e gigli molle argento scendi, Fate con gli occhi vostri alteri e lieti,
E dal ginepro il tuo bel nome prendi, E voi, dolci, riposti, fidi e cheti a

Vicino a lei, che si chiamò dai fiori; Orrori, u' viver sempre e morir volli:
Anzi, che bagni l'alte mura, e fuori Chi potrà mai, se non con gli occhi molli
Dei picciol letto tuo, suo dritto rendi Tanti veder cipressi, allori, abeti ,
Al gran padre Arno, fiso e lieto attendi Conversi in polve, ond'io mai non m'acqueti,
Fra quante oggi vedrai ninfe e pastori: E l'erbe sempre del mio pianto immolli?
Che per usanza all'acque tue dintorno, º Barbar crudel, ch'avean le querce e gli olini
In questo sacro dì, spaziando vanno, Meritato di mal º Ma ch'altri frutti
E di te fansi a lor bellezze speglio; sperar si puonno da sì feri mostri?
Se più dolce splendor, lume più adorno Ben mi consola in parte, e parte duolmi q
Mirasti unqua di quel, che ha già il quinto anno, Il veder d'ognintorno i campi nostri
Giovin m'accese, ed arderammi veglio,
- -
Biancheggiar d'ossa oltramontane tutti.
-- -

A M. Lodovico Martelli i

Per fede era io di te tanto più degno, Ecco, che pur dopo si lunghi affanni º
Quanto tu di saver gli altri avanzasti, Ch io ebbi a soffrir più di giorno in giorno,
Tu, che 'n si poca età tanto alto andasti, A te, Fiesole altero, umil ritorno, l'
Ch'a pena scorgo, ove ponesti, il segno: Per ristorar tanti passati danni: 9
Or s'io non posso col mio basso ingegno In te lungi dal mondo e da suoi inganni º
Alzarvi, o sempre verdi e sempre casti Farò sicuro omai dolce soggiorno, "
Rami sempre onorati e santi, basti, Pensando, or lungo un rivo, or sotto un orno
Che sacri in mezzo al corvº adoro e tegno: Quanto chi segue non il ciel, s'ingarini.' -

Basti, prego cortesi, altere frondi Altri in palazzi di fine oro adorni, "
(Se bene ortento di portarvi indarno Entro i purporei letti: io presso un fonte
Oltra quell'Alpe, non ch'all'Indo e' Mauro) Giacerò lieto sopra l'erba verde.
Ch'un di, s'io vivo, da più alti fondi In te gradito, avventuroso monte, -- -

Dolcemente s'udran risonar Lauro, Ove del volgo ognor tanto si perde,
Sieve, Era, Elsa, Mugnon, Bisanzio ed Arno. Anelo io di fornir tutti i miei giorni.
484 SONETTI -
-. A M. Cornelio Alavolini.
A M. Gianpiero Malsacconi, musico.
- a a L'arbor che già il quarto anno o vada, o seggia,
l'aer non è per questi colli chiaro, e M'è sempre innanzio'nvalli.o'npiaggie,o'n colli,
Nè l' acque suonan più si dolcemente; . Germoglia entro il mio cor tanti rampolli,
- Tacesi ogni augel tristo e dolente, i
Ch'alta selva d'allori ivi verdeggia;
Il ciel n'è fatto de' suoi doni avaro. Amor, che in ello, come in propria reggia,
Un mugghiar per questi antri acerbo, amaro Alberga, tutti i pensier vani e folli,
Tutte le cure femminili e molli
Ne sbigottisce ad ora, ad or la gente :
Cerer niega i suoi frutti, e similmente Discaccia quindi, e sol lui signoreggia;
Bacco il buon padre, il suo liquor preclaro. E di tanti, e si belli, e casti ogn' ora
L'erbe son senza fior, senza erbe i prati, Disir l'ingombra, e tanto in alto il guida,
I boschi senza frondi, e d'ognintorno , Che 'l mondo tutto e sè medesimo obblia;
Si vede a mezzo april gelato verno : - E se chi tutti ancide, e nullo sfida,
Fiesole mio, dei nostri mali andati ... I Non m'interrompe il corso a mezza via,
Tanti e sì gravi e del passato scorno, i Vivrò quaggiù dopo la morte ancora.
Impresso resta in te vestigio eterno. A M. Bartolomeo Bettini.

- -
Ventiquattro anni avea rivolto a pena
Qual empio cor? qual dispietata mano Il Sol dal di, che nacqui al giorno, ch'io
Nelle tue chiome il duro ferro mise i Vidi entro un bosco, come piacque a Dio,
Fiesole mio? e chi così divise -.
Quell'alma pianta d'ogni grazia piena:
Te da te stesso in atto acerbo e strano? Subito vista ogni mio danno e pena,
Cnde io pur sempre piango, e cerco invano E 'l mondo posi, e me stesso in obblio,
Da questi antri quell'ombre, ove s'assise Tutto acceso d'un casto, alto disio,
Sì dolce, e co'begli occhi il cor m'ancise Ch'al ciel per piana via dritto mi mena.
L'arbor ch'amò già Febo in corpo umano, E sette volte ha già cangiato poi
Barbara gente e vil, che 'i ferro striglie i La terra in bianco aspetto il verde manto,
Co i boschi solo, e crudelmente il foco Ch'io ebbi intorno al cor sì dolce affanno,
Contra le ville abbandonate adopra ! E da ch'ella di ciel scese tra noi,
Deh, perchè non vidi io, lasso ! e pur poco Per aver sola d'ogni gloria il vanto,
Mancò, del suo morir l'erbe sanguigne? Passato è d'uno il sedicesimo anno,
Ma così va, se contra il ciel s'adopra. A M. Fabio Segni (1).
A M. Pandolfo Martelli, L'albero, che da lungo e pigro sonno,
Ha già nove anni, anzi da viva morte
Mira da questi colli il dolce piano, Svegliommi per mia dolce e chiara sorte,
Ch'Arno divide e l'alte mura, ov'io Fattosi del mio cor sostegno e donno;
Fui nato, e lieto vissi, infin, ch” al mio In questo breve e si fallace sonno,
Destin piacque da lor farmi lontano. Ch'altro non è, ch'un volar sempre a morte,
E rimembrando va di mano in mano Quelle m'insegna piane strade e corte,
-, Quanto ebbe unqua il mio core o dolce, o rio, Che da i corpi levar l'anime puonno,
E come il tollerò, di tutto a Dio E portarle tanto alto, che la spera
Degne grazie rendendo umile e piano, Ultima sotto sè veggiano, ed io
Ed a quell'alma pianta, onde più fermo Pure un passo da lui giammai non parto;
Non hanno le virtù scudo e sostegno, E se mente presaga il ver mai spera,
Nè rifugio, miglior gli aſlitti e scampo: E non inganna altrui sempre il disio,
Perch ei ch'a i duri colpi e al ſiero vampo Produrrà in me virtù l'usato parto.
Di fortuna e d'invidia nacque segno, A M. Giovambatista Nasi.
Si fe solo di lei riparo e schermo. L'alto arboscel, che dentro il mio cor sacro
Dieci anni or tengo, e parmi, che pur dianzi
Mentre per l'onde tue le luci giro Fosse quel dì che mi levò dinanzi
Le cure che sol fanno il volgo macro:
Assiso alle tue sponde Arno, sovrano, Quanto nel secol già maturo ed acro
E quinci da sinistra il bel Rusciano, Ebbero o vago, o gentil gli anni innanzi,
Quinci anzi a gli occhi Giramonte miro) Notte e di pommi al core, e agli occhi innanzi,
D'alto, duolo e pietà meco sospiro, -

Parendomi veder non di lontano, Onde a lui sempre mi ridòno e sacro.


E se vegliate notti e giorni puonno
Qui l'italico ardir, quivi l'ispano, Spesi solo in voltar l'antiche carte,
Qua i tedesco furor cingerti in giro: Acquistar ad alcun memoria e pregio;
E sentir d'ognintorno i fiumi, e i monti Forse (oh che spero!) dopo questo sonno
Rimbombar più di mille volte ogniora,
E ricoprirne oscura nebbia il cielo, Sarò tra l'alme illustri in chiara parte,
O bei colli toscan, chi ſia che conti E non avrà il mio nome Arno in dispregio.
l ver di voi, e squarci al falso il velo? (1) Fabio Segni, fiorentino, della famiglia di Bernardo,
Cla'al mondo tutto contrastaste allora. l'istorico, ebbe nome di valentissimo poeta latino º il
PARTE PRIMA 485
A ser Carlo da Pistoia. A M. Girolamo Marcolini.

Già del mio corso uman trapassa il mezzo, Già 'l quarto lustro e 'l terzo anno rimena
Già si volge nel ciel l'undecimo anno, Lo Sol, poscia che il ciel volle mostrarmi
Ch'Amor mi diede il primo dolce affanno, Ogni suo ben dentro un bel lauro, e darmi,
Per cui d'ogni viltà mi venne lezzo; DaOnde
indi addolcir potessi
in qua con ogni aspra
cor lieto pena.
e serena si
Che la pianta gentile, che aura e rezzo
Dona agli spirti miei, ch'altra non hanno Fronte or prose distesi, or tessei carmi,
Requie e riposo, ogni mia noia e danno, Nè poteo cosa vile unqua appressarmi
Ogni men bel pensier rompe nel mezzo. In questa valle di miserie piena.
Onde forse avverrà, che, se la Parca E lunge alla città per colli e monti, -

Non tronca innanzi al natural confine Per prati e boschi, per campagne e piagge
La vita, che volando a morte varca; Men gii tra rivi snelli e freschi fonti.
Tal mi farò, che tra le pellegrine Fiesole ed Asinar chi ſia, che conti
Alme, sola mercè del gran Monarca, Quanto è soave, e quale util si tragge
Vivrò qui molto e 'n ciel senza alcun fine. Del fuggir quel, che i più seguon si pronti?
,

A M. Nicolò Alamanni. A a M. Giovambatista Vandini,


Quella pianta, che già diece anni ed otto Già sette volte e diciasette il cielo
Mise le sue radici entro 'l mio core, Portato ha 'I verno e la stagion de' fiori,
E me santa alla strada erta d'onore Quante portate avea, dachè uscii fuori
Volse, toltomi al volgo vile e 'ndotto: Del materno alvo a soffrir caldo e gielo ;
M' ha con site caste frondi a tal condotto, Poscia ch Amor sotto i più verde stelo,
Che, da che imbruna il cielo al primo albore, Che scaldasse unqua il sol, tutti i tesori
E da che nasce il giorno, a quando muore, D'ogni rara virtù, tutti gl' onori
A me m'involo, e lor ricorro sotto. Mi scoverse del ciel senza alcun velo :
E quivi alla bell'ombra, al dolce suono Ond' io, che 'n fino allor tra nebbie e venti
D” un vivo fonte, sopra l'erbe steso, Quasi cieco, anzi morto, era tanti anni, i
Ad un sasso appoggiato al ciel rimiro Vivuto no, ma sol nel mondo stato.
Tra verdi rami, e d' ogni mortal peso Da indi in là, tutti gl'uman contenti -

Scarco, volo tanto alto (immortal dono Spregiando, e fuor del volgo e de'suoi inganni,
Del cielo e lor) ch'io varco il terzo giro. Vissi più d'altro mai lieto e beato.
a
A M. Francesco Platone. º

Un anno men di quattro lustri il cielo Ancor mi mena antica usanza, e tira
Volge, da ch'io mirai, come a Dio piacque, Dopo tanti anni e tanti a girlà, dove
Quella pianta gentil tra boschi ed acque, Tua merce sola, vero e vivo Giove,
Ch'amò già in terra il gran rettor di Delo. Vidi la pianta, ove ogni saggio aspira :
L' alma, che chiusa nel terrestre velo, Ancor quel monte, in cui Febo e le nove
Grave a sè stessa, e quasi morta giacque, Dive regnaro un tempo, ogn' or rimira
Destossi in un momento, anzi rinacque Lieto il mio cor, che per costume altrove
Allor tra fredda fiamma e caldo gielo. Mai non volge la vista e non respira.
Frondi più liete e più bei rami mai Passato è quasi il quinto lustro, ed io -

Non vide il sol, ne senti certo Amore Colla barba e coi crin canuta e bianco,
Sospir più casti e più cortesi lai. Pure ardo sempre e sempre arder disio,
Quanto col volgo infino allor mirai Puonno alte mura e saldi marmi manco
Tutto ebbi a schivo, ed all'erta d'onore Venir per tempo, o forza, ma no'l mio
Strada mi volsi, e seguirolla omai , Furor, che'nverde più,quantoio più imbianco

Dal dì, che prima in te, superbo e altero Già nove volte ha i ciel girato intorno a
Monte, che reggi colle spalle il cielo, Le sette stelle gelide unque mai, , , , .
Vidi quel vago e casto e dolce stelo, Da ch'io la Brenta e i gran Benbo lasciai,
In cui, già cade il quarto lustro, spero; Per fare a voi, pianta del Sol, ritorno i
Ogni delira impresa, ogni pensiero -
Ne però s'apre ancor quel lieto giorno, a
Men bello (e con piacere il ver rivelo) Che sgombro l'alma d'infiniti guai,
Sgombrai dell'alma allor, che 'l viso e 'l pelo Mi renda il dolce aspetto, ov'io imparai
Crespo oggi e bianco, era disteso e nero. A non curar del volgo o loda, o scorno ,
Da indi in qua le valli e i colli e i monti Quanto mar, lasso! quante selve l quanti
Le rive, i campi, le campagne e i boschi Monti ho già trapassato! e pur non veggio
Furo il mio albergo appo fontane e fiumi. L'arbore ancor, dove han le Grazie il nido.
O erbe, o fiori, o acque, o sassi, o dumi, O sacre foglie, o caste frondi, o santi,
O aere, o venti, o ombre, o antri foschi, Rami d'ogni valor ricetto fido,
Perchè non sete altrui, come a me conti? Voi soli sempre, e null'altro mai cheggio!
486 SONETTI

A maestro Antonio Crocini, intagliatore, Al dottor Roncagallo.


Mentre lungo il Mugnon d'un verde pioppo Sopra alto monte in mezzo a verde cima
Alla nera ombra il di caldo dispenso, Di pin, faggi, cipressi, allori, abeti,
E meco tristo e doloroso penso,
Dentro ostel sacro, tra riposti e cheti,
Come a morte ogn'or corro e non galoppo; Dumi, mi giunse e punse Amor da prima:
In un altro pensier subito intoppo, -
E tal mi fece, ch'uom, chi dritto estima,
Che dice: Folle, non dar fede al senso; Giorni non ebbe mai di me più lieti,
Ben hai d'oscura nebbia il cor condenso, Solo in mirar quei casti, verdi e lieti,
E credi a queste umane cose troppo. Rami, che 'l ciel non tocca, o 'l tempo lima.
Ch'altro è di qua, dove 'I piè muova, o giri Delle cui sacre foglie il crine adorno
Gl'occhi, se non perfidie, oltraggi e 'nganni, Tra le più chiare e più famose fronti,
Ire, invidie, timor, pianti e sospiri ? Forse a dito sarò mostrato un giorno.
Come spesso addivien, ch'altri s'affanni, O monte, o cima, o sacro ostello, o dumi,
O 'ndarno, o per suo mal 2 Dunque sospiri Che mi feste cangiar voglie, e costumi
Chi trarne dee di pene tante e danni? Ben tentarò di farvi al mondo conti.
A M. Galeazzo Alessi, Architetto (1).
Tal dentro il petto mio virtù rimase A M. Jeronimo Ponte, filosofo.
Quel di, che 'n sacra, eccelsa e verde cima A i ſieri colpi di fortuna, a i crudi
La verde, eccelsa e sacra stirpe, prima Morsi d'acerba invidia, a quanti affanni
Mirai, ch'ogni viltà del cor mi rase; Porta seco la vita, a quanti inganni.
Che nulla poi toccommi, o persuase Ha 'l mondo, ei nostri di d'ogni ben nudi,
Ad altro mai, ch'a spregiar quel che stima Sol quelle frondi sante ed elmi e scudi
La gente, e sol far delle cose stima, Mi furo, o mi tornaro utili i danni,
Che 'ndrizzan l'alme alle stellanti case.
Cui tu sacre, mio cor, tre volte otto anni,
Ond'io, dove altro non si vede ed ode, Senza aprirti giammai, dentro a te chiudi.
Chefrondi, eventi ed onde, a piè d'un fonte Solo il pensar di lor, non che 'l vedelle,
Vivo, mi corco sotto l'ombra incerta Rende felice il mio misero stato,
D'un verde alloro, e verso il sol la fronte
E me più d'altri mai, lieto e beato.
Alzando dico: Così qui si gode, Grazie immortali a te, dell' alte stelle
E la strada del ciel si truova aperta. Almo signor, rendo io, che per tai rami
A M. Lorenzo de' Medici. Al tuo regno salir mi mostri e chiami.
Sempre ch'io membro il dolce loco e i tempo, A Marcantonio Villani.
Che quel casto, fiorito, altero germe
In ombrose mirai contrade ed erme, Liquide perle in sì nuova maniera
Nessun luogo m'aggrada e nessun tempo; Da i più begli occhi, che mai vide il Sole,
E quanto io più di mano in man m'attempo, Versavan dolcemente, e tai parole
Tanto le voglie mie più sento ferme, D'avorio e rose uscian là, dove io era;
Ma si frali le forze e tanto inferme,
Ch'io non son più di ringraziargli a tempo. Che qualunche fu mai più cruda fera,
Loco felice, ov'io certo rinacqui, Avria ben pianto, ed io pur (come suole
Siati benigno il ciel, la terra e l' onde, Chi per troppo voler talor men vuole)
Nè mai t'offenda o pioggia, o vento, o gielo, Non potei mai formar parola intera;
Tempo, per cui a me medesmo piacqui, Ne lagrima dal cor per gl'occhi fore
Memoria eterna sia di te, nè 'l velo Spigner, cotal m'avean pietate e doglia
Fatto l'alma di ghiaccio, anzi d'un scoglio.
Giammai ti cuopra, ch'ogni cosa asconde. Or tu, che regni entro 'l mio petto, Amore,
A M. Raffaello dello Scheggia. Di quale ivi scernesti alto cordoglio,
Qual del mio foco o più santo, o più bello, E ch'io non cangiai mai pensier ne voglia.
S'Amor con casta face e con stral d' oro
A M. Emilio Ferretti.
Giovane ancor per giovinetto alloro
M'accese e incise in alto e sacro ostello?
S'io vado o seggio, s'io taccio o favello, Qual tempestoso mar di notte il vermo,
Per gl'Adriaci sen talor si sente
Quanto veggio, odo, penso, palpo, adoro Mugghiar roco, stridendo, onde la gente
Altro non è, che quel, cui solo onoro S'imbianca, e'l buon nocchier perde'l governo;
Verde, schietto, gentil, lieto arboscello, Tal propria in me del gran dolore interno
Per cui, s'io vivo, spero un di tanto alto Fremea l' irata, disdegnosa mente,
Volar, che fuor della volgare schiera, E poco era a venir, che 'l mio dolente
Nulla curi di morte il sezzo assalto.
Mortal, terra si fea, divin l' eterno.
Ma sempre assiso in dolce loco, ed alto
Col mio bel Giulio nella terza spera Ma come anco talor con picciol segno
Viva, e con gl'altri, che più d'altri esalto. Serenar tosto ogni procella suole
Nettuno, il grande dio del molle regno:
(1) Galeazzo Alessi, perugino, fiori verso la metà del se Così le dolci vostre, alte parole
colo xvi, º, mºlte belle fabbriche disegno in Perugia, in Quetàr subito in me l'ira e 'l disdegno,
Milano, e in quest'ultima città fra le ºltre il
Genova e in
Pºlº di Tommaso Marini, duca di Terranuova. (M.) Ch'avrian fatto fermar suo corso al sole.
PARTE PRIMA 487
A Pandolfo Attavanti. Per M. Benedetto Buontempi.
Se 'l mio cor, che fin qui libero e sciolto
Almo spirto divin sì dolce, ch'io Visse lieto, e signor de pensier suoi,
(Ambrosia e nettar non invidio a Giove) Legaste, Donna, e 'mprigionaste voi
Da rose e perle mai non viste altrove Al primo incontro del bel vostro volto;
Sussi con casto e sì ealdo disio,
Meraviglia non fu, ch” a Giove tolto
Che 'l mondo tutto e me stesso in oblio Avrebber l' arme: così dolci i duoi -

subito posi a mie venture nuove Occhi volgeansi, e tal che nulla poi
Sempre meco pensando, e come e dove Mi piacque, o piacerà poco, nè molto,
Cosi tosto sparir l'alma e 'l cor mio; Se non sempre mirargli, e di lor sempre
Ch'all'apparir di lui tremanti e lieti Ragionare, o pensar, ch' altro non voglio
Ratti volar colà, donde era entrato
Altro non so, nè posso altro che questo.
In me cosa di lor più cara assai, E s'a voi l'ardor mio non è molesto,
E questa sola (o alti o bei segreti Ne vi dispiace, che per voi mi stempre,
D'Amor!) tiemmi ora in vita, anzi beato Nè di languir, nè di morir mi doglio.
Mi fece, e tal ch' io non morrò più mai.
Alla signora Tullia Aragona (1).
A Giovanni Boni.
Se di così selvaggio e così duro
Legno sì aspro frutto, oimè, v'aggrada,
Come per venti e pioggie a poco a poco
Perde la terra ogni suo ricco onore, Chi fia, ch'unqua vi miri, e poscia vada
Or che fuggendo il Sol, manca l'umore, Di non sempre penar doma sicuro?
Per cui nel dolce April ride ogni loco; Ben ch'io, poi ch'ognor più m'inaspro e'nduro
In questa orrida, alpestra, erma contrada
Così fuggendo il Sol, che prende in gioco
Del duol, cui lunge a voi fo larga strada,
Quello, onde morte vienmi, alto dolore, E dall' arbor, cui solo in terra curo;
Perde nel petto mio sue forze Amore, Dovrei trovar pietà, ch' asprezza uguale
F divien ghiaccio il cor d'ardente foco.
E certo i venti de' suoi sdegni alteri Nè più selvaggia, o solitaria vita
Non senti mai, nè visse alcun mortale.
Con le pioggie, ch'ognor questi occhi fanno,
Mancando il dolce umor della speranza; Fera legge d'Amor! sperar aita
Dal dolor, che n' ancide, e del suo male
Tal m' apportano al core or tema, or danno,
Ch'io malgrado di lui prendo baldanza, Pascer l'alma via più, che saggia, ardita.
Fuggirgli ognor come nemici feri. Al signor abate Riario.
Come talor chi follemente i rai
A M. Francesco Soderini.
Mira fiso del sol, ch' altrove volto
Io, che da grave e 'ndegno giogo avea Nulla non vede, tanto ancor del molto
Libera l'alma e sprigionato il core, Splendor ritien, che vince altrui d'assai;
Ed omai fuor di speme e fuor d'errore, Tal io nel cominciar tanto gustai
Di mele, e tal dolce ebbi , ch'ora involto
Vivermi in pace e 'n libertà credea;
Tosto che vidi lei ch'esser dovea Nel fel, non sento il tosco, e lieto e sciolto
Mia donna, anzi mia dea, dentro e di fore Vivo fra mille lacci e mille guai. -

Sentii cangiarme, e scorsi chiaro amore E so ben poi, che dopo alcuno spazio
Ch'al dolce lume de begl'occhi ardea. Scorgerò i segni, e piangerò l'amaro,
E quindi tutto baldanzoso, come Ch” or più soave assai, ch'ambrosia parme.
Là, dove l' arco mai non tende in fallo, Ma sia che può , chè la pena, e lo strazio
Mi die per mezzo il cor d'una saetta. Da quei begli occhi m'è sì dolce e caro,
Poi si nascose ivi entro, io non so come: Ch'io non posso da lor, nè voglio aitarme.
Ben so, che dell'altrui non giusto fallo Per M. Bonifazio Bonfio.
Spero e del danno mio degna vendetta. Questo è ben di Madonna il crine aurato,
Per Giovanni di Francesco, detto il Piloto. Di ch'Amor mi legò; questi son quegli
Occhi assai più, che 'l sol lucenti e begli,
Ben mi credea poter gran tempo armato Che 'l mondo lieto, e me puon far beato;
Di pensier tristi e freddo ghiaccio il core, Queste le labbra, onde quel dolce, ornato
Girmen senza sospetto omai, ch'Amore Esce, e saggio parlar, che i più rubegli
Fianco scaldasse più tanto gelato. D'Amor, non che'l mio core, accende e tiegli
Ma rimirando, io non so per qual fato, Vivendo ancora, in immortale stato:
Donna, de' bei vostri occhi lo splendore, Questa è sì di mia donna altera e santa
Voglia dentro cangiai, di fuor colore, L'immagin vera, se solo il difuore
Si mira, e quanto puon cerussa ed ostro:
E trovami in un punto arso, e legato:
Ma qual ghiaccio è sì freddo, e quai cotanto Ma le virtuti interne, e quel valore,
Fur mai tristi pensier, ch'avesser retto Per cui la nostra età si pregia e vanta,
Non cape mente, non che sprima inchiostro.
Al caldo stral, che da' bei raggi uscio?
Io vidi Amore: io 'I vidi, da quel santo (1) Tullia d'Aragona ebbe onorevol luogo fra le chiare
Lume ratto volando, entrar nel petto poetesse del cinquecento; ma la bontà dei costumi non fu in
Vostro dirò, perchè non è più mio. lei pari all' altezza dell'ingegno. (M.)
488 SONETTI
A M. Bernardino Granzìni. Alla signora Cammilla Strozzi de' Malvezzi.
Io non miro giammai cosa nessuna Donna, se tanto la mia penna ardisce
O in terra, o 'n ciel, dove io non veggia quella, E la mano e 'l pensier, che di voi carte
Ch' Amore in sorte e mia benigna stella Verghi, non è che non conosca in parte
Dalle fasce mi diero e dalla cuna. Sì folle error, ma nell' errar gioisce.
Ogni nube m' assembra e sole e luna E se tema gelata ungua assalisce
La mia donna gentil più d'altra bella: Lo cor, che nulla ha da cantarvi parte,
Monte, o valle non vedo, o piaggia, ove ella Più disia di lodarvi a parte a parte;
Per lo mio ben non sia, ch'è nel mondo una: Sì del suo troppo ardir stolto invaghisce.
L'erbe, gl'arbori, i fior, le fronde, i sassi Ma chi porria tacer veggendo in alta
Mi rappresentan sempre, e l'onde, e l'ora, Nobiltate e beltà senno si pieno,
Quel viso, dopo il qual nulla mi piacque. Cor si pudico in sì cortese seno ?
U’ gl'occhi giro, ovunque muovo i passi, Il Po con gran ragion sè stesso esalta
Nulla non scorgo, o sento, o penso, fuora Ch'a noi vi die, Strozza real, nè meno,
Di lei che per bearmi in terra nacque. Che vi ci guarda e serba il minor Reno.
A M. Marcantonio Tombano.

Quando doveva, oimè! l'arco, e la face Donna, ch or di sudor piena e di polve,


L' una spenta del tutto e l'altro stanco, Ricche n” acquisti e gloriose palme;
A questo ardito e tormentoso ſianco, Or d'alti e bei pensier le più chiare alme
Per suo gran danno e mio, troppo vivace, Togli a colei, oh al fin tutti dissolve:
Non breve tregua pur, ma cterna pace Se sol mi sprona il cor gran tempo, e volve
Donar, poi che nel lato e destro, e manco Sotto le dolci tue gravose salme
Per le nevi del capo omai vien bianco Vero d' onor disio, nè d'altro calme,
Il crin fatto d'argento, che si spiace: Che d'una fronda, ove ogni ben s'involve;
Più che mai fresco, e più che mai cocente Concedi a me tuo servo antico, poi
Mi saetta lo stral, m'incende il foco Che sola al mondo più d'ogni altra forte
Di tal ferita e con si caldo ardore ; Vinci tutte le cose e tutto puoi,
Ch'ogni soccorso a mia salute è poco, Che 'l nome mio dietro le fide scorte
Anzi cresce la piaga, e fa maggiore S'erga tanto alto del ministri tuoi,
L'incendio ch' al suo mal l'alma consente. Che meco insieme nol distrugga morte,
Per M. Girolamo Alessi.

Donna bella, e crudel, nè so già quale Placidissimo Dio, ch' alle diurne - -

Crudele, o bella più ; so ben, che sete Cure e pensier di noi egri mortali
Bella tanto, e crudel, che nulla avete Requie dando e ristoro, i nostri mali
Ned in beltà, nè 'n crudeltate eguale, Sospendi tutti nell'ore notturne:
Se del mio danno pro, se del mio male Dalle più trasparenti e non eburne
Alcun bene, e del duol gioia prendete, Porte quel sogno, che cotante e tali
Più dolce assai che non forse credete Gioje portommi, fa, prego, che l'ali
M'è il danno e'l male e'l duol.ch'ogn'or m'assale: Movesse, sorte a me di felici urne.
Ma se 'l morir di me nulla a voi giova, Ripiegato avea già l'oscuro velo
E puovvi esser d'onor questa mia vita, La notte, e fatto Apollo i monti d'oro
Perchè volete pur, ch'affatto io mora? Quando io dormendo ancor gran luce vidi;
Che si dirà di voi ? Costci per nuova E dire udii: Quel sacro, in cui sol fidi
Vaghezza e crudeltà trasse di vita Arbore, che ne sol cura, nè gielo,
Un che tanto l' amò, ch' ei l' ama ancora. T'ornerà il bianco crin di verde alloro,

Alla signora Beatrice Pia degli Obizzi. , A M. Batista Alamanni.

Come dall'occin tutti escon fuore, L'arbor gentil, di cui sempre ragiona
E tornan tutti all'oceano i fiumi; Mio cor, ch'al volgo sol per lui si toglie,
Cosi dal vivo vostro almo splendore Oggi del chiaro onor delle sue foglie
Escon tutti, e'n lui tornan tutti i lumi, In alto e regal seggio il Ren corona:
Quanto ha di vago e di gentile Amore, Oggi il dator de' beni alle mie voglie
Tutto gli danno i vostri amici lumi: Quanto san domandar, benigno dona:
Ben è dritto e ragion, ch' ogni alto core Oggi Bologna in te tutto s' accdglie
Cosi nuova eccellenza arda e consumi. Quanto han Pindo, Parnaso ed Elicona,
In voi fuor d'uso uman crescon con gl'anni Ch' al suo germe diletto Apollo e tutto
Beltà non mai più vista e leggiadria, Il casto coro delle sante Dive
Che fan dolce il pemar, cari gl'affanni. Disceso e qui con palma, oliva e lauro:
Quanto il Sol per distorta e lunga via Oggi di tante sue vigilie frutto
Gira, non mosse piè, nè vesti panni Coglie, ch'assai più val cho gemme ed auro,
Donna, come voi bella, onesta e Pia. L'alma pianta, eh al ciel legge prescrive.
PARTE PRIMA 489

Eero, che quella verde e dotta chioma, Se l'antica virtù degli avi nostri,
Che già cinse e velò dº proprio onore Esempio al mondo di valore e fede,
Bologna e'l Reno, or d'altra e via maggiore Talor, come conviensi, al cor vi riede,
sacrach'a
ghirlanda il Tebro Nè spenta è tutta ancor ne petti vostri:
Ecco, te colla celeste adorna
soma e Roma.i Oggi per voi, forti guerrier, si mostri,
Della mitra e del manto il tuo pastore Che l'italico ardir, se i versi crede,
Sen viene alla cittade, onde s'onore Alla voglia del ciel gran tempo cede,
Non alla possa di sì crudi mostri : f
Piceno, ed egli in lui si specchi e coma.
Ecco, che Tenna più, che mai felice Tornivi a mente, che 'l bel poggio, ch'ora
Rende suo dritto al mar vicino, e Teti E vostro albergo, vide già di loro
In grembo più che mai lieta il riceve. Più che non son le stelle o morti, o presi.
Sol l'Arno duolsi in vista allegra, e dice: Che stranie genti, in che dolci paesi
Quel che'l buon figlio mio frutto a me deve, Trasse da prima, lasso! e tragge ognora
Or tu Roma, or tu Fermo altero mieti. La rabbia nostra e l'empia fame loro?
A M. Giovanni de' Pazzi. º a ata A M. Lodovico Masi.
Se di buon seme Amor, frutto si rio
Ride or lieta la terra, e i fiori a pruova Già canuto cultor mieto e raccoglio,
Delle stelle del ciel di color mille Se lappole diventa e prune e loglio
Risplendon per li prati, è per le ville Quanto nel campo tuo vo spargendo io:
Se d' onesta beltà casto desio
Vestesi ogni arboscel di fronde nuova.
Tace il mar, posa il vento, e non si truova Biasma il volgo ignorante, già non voglio
Cosa, che l'amorose alme faville Lasciar d'esser qual fui, ma come soglio,
Non senta intorno al cordolci e tranquille; Soffrir l'altrui peccato e 'l danno mio.
Ch'ardere or per amor diletta e giova. Dunque sarà, che la rea turba e 'l vile
Gl' uomini, gl'animai, gl' arbori e l'erbe, Stuolo, che contra i buon sempre bisbiglia
E quanto scalda il sol d'amare invoglia i Dal maggior ben che sia quaggiù, mi scioglia?
Virtù, che 'l terzo ciel benigno piove. E certo non fia; chè non ben si consiglia
Sol quelle sempre dolci e sempre acerbe, Quando per falsa tema un cor gentile
Cui folgore non tocca, o vento muove, i Del suo proprio tesor sè stesso spoglia.
Non cangian mai color, se mutan foglie.
- -
Per M. Lodovico Martelli. “
- --
- -,

A piè dell'Alpi, in su la destra riva,


Sopra le colorite, erbose sponde
Adige e Po, che 'l fral di me portate Del bel fiume toscan tra fiori e fronde,
Nel mar, che dall' un canto Italia cinge: ' Vidi io scolpito entro una pietra viva:
Corri, gorgo felice, e lieto, arriva -

Lo spirto no, cui maggior possa spinge,


Là ºve è 'l fior di bellezza e d' onestate; Con rene al mar più che l' usato bionde;
E sopra il frate tuo superbo, l' onde
Deh! se per venti, o pioggie unqua turbate Alza, poi ch'hai di te chi sì alto scriva.
Non siam vostre onde, e se pietà vi stringe
D'un ch'altrui forza e suo voler costringe Cedere ancor meravigliando in vista
Lasciar quanto mai fu senno e beltate: Vedrai Mantova e Smirna, Atene e Arpino,
All'idioma tuo più d' altro bello;
Serbate in questi tronchi e n questi sassi Di che la Grecia ſia turbata e trista, º
Le mie giuste preghiere e 'l mio rammarco,
Che ben ne piangeran le ninfe vostre; E con sei colli il bel monte Aventino:
Ne fia, credo, alcun mai, che quinci passi E quest'opra fia sol d'un sol Martello.
Che, leggendo le pene ond'io vo carco, A M. Ugolino Martelli (1). e
Un picciol segno di mercè non mostre. O di candido argento e terso, o pure
Martel d'oro forbito, anzi di quanti
Fur mai vaghi rubin, perle e diamanti,
Altero Venda e Ruvolon, ch'al paro O s'altre pietre ha 'l mar più belle e dure:
E d' Olimpo e d'Atlante il ciel toccate Qual ſia tanta giammai, che m'assicure
Arte, o saver, ch'io, pur non dico, canti,
Colle superbe cime, e mi tornate Ma scerna un sol de' vostri pregi tanti,
Nella mente Morello ed Asinaro:
Perchè vosco il mio nome eterno dure?
Or che l'arbor d'Apollo a me sì caro Deh sarà mai, ch'un riverente, umile,
Tra l'ombre vostre verdeggiar mirate, Sincero cor solo una volta dica
º a

Ben potete a ragion, come voi fate,


Mostrar viste più liete, aer più chiaro:
Quel ch'ognor mille Amor gli detta e'l vero?
Io vedo, io 'l pur dirò, dentro il pensiero
Ond'io che col gran Bembo, ove la Brenta Nascer d'un sol Martel mille opre antiche,
Quasi nuovo Meandro in sè ritorna,
E rimbombarne il suon più là che Tile.
Vo compartendo le parole e i passi,
Ad ora ad or la fronte, e l'alma intenta (1) Ugolino Martelli, fiorentino, sali in fama pei suoi
A voi rivolgo, e dico : Ivi è l'adorna studi matematici ed astronomici. Egli scrisse alcune opere
Signor, mia pianta, onde alle stelle vassi. sulla riforma del Calendario.
V Al Clil V . I. G2
49e SONETTI

- , Alla signora Tullia Aragona.


Per la signora Marchesa di Pescara
a Sandro Petri (1). Quando all'usato mio dolce soggiorno
Tra valli e colli e boschi e fonti e fiumi
Fuggo; non già da voi, celesti lumi,
La 've più largamente empie ogni seno, Parto, ma bene a me medesimo torno.
E i bei lidi toscan più ricco adorna, Costi, per vero dir, mi sembra un giorno
Alzò 'l padre Arno al ciel l'umide corna, Più di mille anni, e par ch'io mi consumi:
Di gioia tutto e meraviglia pieno i Qui vivo lieto, ove le selve e i dumi
E poscia che tre volte al sacro seno Non cercan sempre l'altrui danno e scorno.
Stese, la bianca barba, sempre adorna Ma se quel, ch'entro il cor tacito e solo
Di verde muschio, di bei rami s'orna, Cantando vo, con più di mille insieme
Che le sue ninfe inghirlandati avieno. Per la Garza, e Forcella, e Tavaiano,
E con unil sembiante, altero disse: Udisse il fero invidioso stuolo,
Ecco il tempo aspettato, il tempo, ch'io Ben vedria quanto è folle, e come in vano
Sopra 'l Tebro e 'l Penèo dovea si alzarmi. Fatica l'ardir suo, ch'al vento freme.
“Quando donna, cui par già mai non visse,
Con negre bende, a calcidici marmi, i
Suo donno e se trarrà d'eterno obblio. Ecco, che dopo il terzo lustro riede
Al patrio nido e a te, Fiesole, quello
Più ch'altro mai, cortese, onesto e bello
Lauro, che fa del paradiso fede:
Muovi, Asinaro, e riverente il piede
Sacro meco gli bacia, e tu, Morello,
sacri, superbi, avventurosi e cari Col tuo picciolo in cima e santo ostello,
Marmi, che 'l più bel tosco in voi chiudete, La fronte inchina umil dall'alta sede.
E le sacre ossa e 'l cener santo avete, L'aer s'allegri oltra l'usato, e l'acque
Cui non fu dopo lor, ch' io sappia, pari: Corran più chiare, e per ogni pendice
Poi che m'è tolto preziosi e rari Ballin ninfe ad ognor, cantin pastori:
Arabi odor, di che voi degni sete, Più che mai lieto e più che mai felice
Quanto altri mai, con man pietose e liete Il suo gran Figlio, onde a sè stesso piacque,
Versarvi intorno e cingervi d'altari: Raccoglia l'Arno, e gli sparga erbe e fiori.
Deh! non schivate al men, ch'umile e pio
A voi, quanto più so, divoto inchini A M. Donato Minerbetti.
Lo cer, che, come può, v'onora e cole.
Così, spargendo al ciel gigli e viole, Quella pianta gentil, ch' alla dolce ombra
Prego Damone e i bei colli vicini Delle sue frondi caste accoglier suolmi
sonar: Povero il don, ricco è 'l disio. Con tal diletto, che mai nulla duolmi,
Se non quando, da lei destin mi sgombra,
Oggi si lieta il suo bell'Arno adombra,
A M. Franccsco de' Pazzi. E di tal gioia par che l'empia, e colmi
Che gli alti pin, non pur le querce e gli olmi
Nuova dolcezza e non usata ingombra.
S'io vissi, gran tempo ha, d'affanni pieno, Io, che 'l digiun già di tre lustri ancora
Nè ebbi un giorno mai tranquillo e lieto, Scioglier non posso, e pur sempre la miro
Col chiaro Arno il gran Tebro e'l bel Sebeto Anzi ho più fame e gola assai che prima:
L'Adria e la Brenta e 'l Po sannolsi e 'l Reno; Con quel che più nel mondo oggi s onora
Che mille volte al fosco ed al sereno Non cangiarei mio stato: o bel disiro
Aer notturno, quando 'l ciel più cheto E santo, che m'accese in alta cima.
Vider mesti, ed udir quel che segreto
Porto alla gente il di, piangendo in seno.
E così va chi fede troppa, e poco Padre del ciel, se pentita alma umile
Senno oprando i più ingordi e feri lupi, Impetrò mai da te vero perdono,
Tien per umili e mansueti agnelli. Perdona a me, che più pentito sono,
Sacra fama d'aver, che “n ciascun loco Ch'altri ancor mai, e più mi tengo vile.
Il mondo tutto con tue brame occùpi, Oggi l'empio lasciando, antico stile,
Le man t'avessi io avvolte entro i capelli! A te con tutto il cor mi sacro e dono,
-
-
E come tu li miei, così perdono
Io gli altrni falli, in questo a te simile.
(1) La Marchesa di Pescara era la famosa Vittoria Co Non voler, Signor mio, che i prezioso
leona, moglie a Francesco Davalos, marchese di Pescara, Sangue, ch'oggi per noi largo versasti,
che alcuni signori italiani vollero innalzare al trono di Napoli Tua bontà santa e tua santa umiltate,
contro Carlo V. Morto egli essendo in verde età, la Vitto
º ne pianse Pacerbo destino e ne cantò le virtù nelle pietose Sia per me sparso indarno; anzi pietoso
Di me, cui più che te medesmo amasti, V
º pºesie, per le quali ottenne il primo luogo fra le poetesse
dell'età sua. M ) Volgi tutte in sospir le colpe andate.
PARTE PARTE 491
-
--

Oggi, Signor, che dal mondo empio, errante, Benigno Re dell'universo, s'io, - -

º
Coronato dell'arbor ch'io tanto amo, Quantunque indegno di trovar mercede,
Tornasti al cielo, umil ti prego, e chiamo, Ebbi ferma in te sempre e spenne, e fede,
Scarco delle mie colpe tali e tante; - Soccorri al grave e lungo affanno mio ;
Ben vedi, alto Signor, ch'esser costante - E, se pur debbo ancor l'ultimo fio
Nel ben, come ora son, mai sempre bramo; Pagare a morte, ch' anzi tempo il chiede,
Ma tanto è meco poi di quel d'Adamo, Non mi lasciar, come ei s'aspetta e crede,
Ch'a resister per me non son bastante. Nell'empie man dell'avversario rio.
Porgi dunque, Signor, la santa mano Muovati più Signor clemente, e sopra -

A me, ch'a tua sembianza in ciel creasti, Stea tua bontade alle mie colpe, e neco
E vinto resti l'avversario rio; Pietate solo e non giustizia adopra. -

Da te Signor son io detto Cristiano: A me fia dolce, sol che d'aver teco
Tu pure, o pietà grande, oggi degnasti Pace alcun segno la dubbia alma scuopra,
Abitar meco sotto il tetto mio. -Di questo uscir terren carcere e cieco.
i

A M. Agnolo Borghini.
Oggi, Signor, che sopra il santo legno È del tutto però così sbandita e - , a - sº
Per ricovrarne dagl'eterni mali, Tra gli dii e tra noi pietate, ch'io,
Pendesti morto, de' miei tanti e tali Non possa al lungo e grave affanno mio,
Falli a chieder perdon pentito vegno. Nè suso in ciel, nè qui trovare aita ,
E se pare ad alcun, ch'io varche il segno Parca crudel, che la mia stanca vita i
Amando, come te, fronde mortali, -
A legno attorci si spietato e rio, , i
Ben sai tu, che sol queste e non altre ali Perchè non tronchi omai, come disio, i
Ho da volare al tuo stellato regno. La tela, ch'è per me si male ordita 2, i
Dunque debbo io perir, se queste mani, Tre volte ha Febo a pien girato intorno ,
Se questi santi piè d'acuti chiodi, L'obbliquo cerchio, onde natura è bella,
Fur, per camparmi sol, forati e morte ? Per lo suo variar, ch'adorna il mondo,
Oggi, lasso! oggi, oimè, per noi Cristiani, Poscia che sempre andai con danno e scorno,
Crudelmente spregiato in mille modi, Quasi vinta e perduta navicella, o
Vilissima soffristi acerba morte. Solcando un mar, che non ha riva o foodo.
A Giovanni Martini. . . .

Quel saggio e santo, che l'antica legge In luogo alcun non ha fiume, o torrente -
Da Dio di propria bocca ed ebbe e diede; L'aer tosco gentil, rivo o ruscello, i
Pria che movesse all'altrui pace il piede, Nè si riposto fonte, clie vedello, , i
L'egizio ancise, come 'l ver si legge ; E sentir nol mi paja ognor presente.
E 'I figliuol di Colui che 'l mondo regge, O chiaro, o fresco, o dolce, almo Lucente, V
Pria che lasciasse altrui di pace erede, : Quando sarà, che 'l mio destin men fello
Col gran Rubello alla tartarea sede Ti mostri agl'occhi così puro e bello, 1,
Tornò l'ingrato e mal superbo gregge. Come fece il desio sempre alla mente? '
Voi, che vicario di Gesù sedete ; il Verrà mai il dì, nel qual libero e sciolto
Sopra l'alta cattedra, se dar pace , Dal duol ch'or sento, e dagl' antichi aflatini
Al mondo e torre a voi guerra volete, Ch'avrian vinto di me più forte e saggio,
Coll'esempio di lor prima anoidete o Men torni lieto a ristorare i danni
Ogni terreno affetto, e l' empio, audace In te, Fiesole mio, quel poco, o molto, º
Avversario, onde uscio, tornate a Lete. Che m' avanza a fornir del mio viaggio?

A M. Annibale Caro. -

O cielo, o terra, o fati acerbi e rei Febo, s'io son pur quel che tanto 6noro
Dunque era nel destin, ch'io fossi spento, L'arbor gentil da te si forte amato;
Dopo sì lungo, grave, aspro tormento Se da che nacqui in ogni tempo e stato
Nel più bel verdeggiar degl'anni miei? Ho te seguito e 'l tuo famoso coro:
Quanto mai dissi in ciascun loco e fei, Se, quanto oggi s'agogna argento ed oro,
Tornami a mente, e veggio andar col vento Dispregiai sempre, e sol vissi beato,
Mie spemi tutte, onde mi lagno e pento Mentre tra colli e boschi, in riva o prato
Del dì, che nacqui e morto esser vorrei, Giacqui, cantando il mio famoso alloro : it)
Sol mi consola in tanti affanni, e frena, Se ti sovviene ancor tanto, nè quanto
Caro, il gran duol ch'io lascio al mondo vivo Del dì, che più veloce assai che pardo,
Voi, che sete di me l'ottima parte: Corresti, onde ebbe Dafne eterno vanto: -
Voi quella fronde d'ogni valor piena, Perch” or sei tanto a muover lento e tai lo
Di ch'io mai sempre o penso, o parlo, o scrivo, Con erbe, o canti, e consolare alquanto
Consagrarete in più vivaci carte. Me,che quallieno agghiaccio e quasi Etna ado?
492 SONETTI
A Lorenzo Lenzi. A M. Bardo Segni.
Caro Lorenzo mio, ch'avete a schivo Mentre, Bardo gentil, ch'io spargo al vento
Quel che più d'altro la vil gente onora, Mille umil preghi ognor gridando forte
E sol cercate, faticando ognora, A chi non m'ode mai. Pietate o morte
Di restar dopo morte al mondo vivo : Stan fine, o scampo al mio lungo tormento;
Io, che gran tempo già fra due mi vivo Voi sete tutto a que bei studi intento,
D'ogni ben casso e d'ogni speme fuora, Che ne mostran del ciel le vie più corte:
Giunto del giorno estremo all'ultim'ora Così fossi io con voi, dura mia sorte,
Ne' miei verdi anni, a voi pensando scrivo: Di mille un giorno solo e voi contento!
Dolci, cari, diletti e fidi amici, Che forse anch'io, mercè del vostro esempio,
Ch'alle tempeste mie tante, e sì gravi M'innalzerei con l' ali alto da terra,
Foste in questo aspro marstella, aura e porto; Quanto ancor mai non si levò colomba;
Vivete senza me lieti e felici, -
E quelle frondi, onde tante carte empio
Nè 'l mio tosto partir punto vi gravi, Principio e fin d' ogni mia pace e guerra,
Ch'allor si vive in ciel, ch'altri è qui morto. Più degna avrian dei lor gran merti tromba,
A Schiatta Bagnesi. -
A Simone della Volta.

Schiatta, e non furon mai


-
giorni più
p scuri, Avrò tanto Simon le Parche amiche,
Nè vita mai, che più sembrasse morte, Ch'io possa anzi il mio di veder quel giorno,
Nè stato più del mio penoso e forte, Ch'io torni lieto a far dolce soggiorno
Nè d'empio e reo destin colpi più duri; Con voi tra colli ombrosi e piaggie apriche!
Piango il presente duol, temo i futuri, E dove più le verdi chiome impliche ,
Larghe al mal vedo, al ben chiuse le porte, O lauro e faggio, o frondosa elce ed orno,
Lunghi sono i desii, le spemi corte, Getti le membra in grembo a l'erbe, e'ntorno
E nulla è che m'ancida, o m' assicuri. senta or Batto sonare, or cantar Siche.
Vivo e bramo il morire, posa non truovo, Poi, quando il sol darà luogo alle stelle,
Forze non ho da gir, seguo i miei danni, Pur lì con Mosso, senza inganni o froda
Fuggo quel che cercar sempre dovrei. M'addorma, infin che'l ciel s'apra e rischiari:
Ogni cosa sospingo, e nulla muovo: O antri, o boschi, o fonti amati e cari,
Stanco son di stancare uomini e dei, O di Fiesole Ninfe altere e belle,
Nè gioir prego, ma minori affanni. Quando ſia mai ch'io vi riveggia, ed odaº
A M. Bartolomeo Tassi, chiamato Bacciotto, A M. Luca Martini.

Mentre io pur coll'usato, aspro tormento Nel mio freddo avvampar, nel caldo algore,
Mi truovo ognor, già son tanti anni a fronte, Ch'io soffro ardendo ed agghiacciando insieme,
E miro invan quel dilettoso monte, Come chi più d'altrui, che di sè teme,
Ove lieto vivrei, morrei contento: Di voi, Luca, sovviemmi a tutte l'ore.
Voi sete, Tassio, giorno e notte intento º E dico: o mondo cieco e traditore,
A far che 'l nome vostro, in pregio monte; Dunque è pur ver,che sempre il miglior genº
A voi son l'opre di natura conte, E tanto m'ange il penar vostro e preme,
Qualscenda
Onde aer giovi altrui, equal
la pioggia, noccia
se la luna vento: e
Che per doppia pietà doppia il dolore,
E per poco è che dietro il gran disio -

Del fraterno splendor si mostri adorna, Non muovo a veder voi, cui sempre veggiº
Chi tempre e volga le superne spere, Lo spirto è pronto, ma la carne è stanca
Come morti viviam ; ma in me solo una Ben cantò il fato mio Cornice manca :
Cura nel mondo senza più soggiorna Come è spesso quaggiù vivere il peggio,
D'onorar sempre quelle frondi altere. Poi che languendo voi, languisco anch'iº
A M. Vincenzio Martelli. A Luca Mini.

Vincenzio mio gentil, mentre che voi, Mino, io già vedo intorno al capo, e sentº
Come spero e vorrei, contento e lieto Morte volar con ali, e volto fosco,
Risonar dolce fate il bel Sebeto, E l'ardir suo e 'l suo poder conosco,
Dando a voi fama eterna e pregio a noi; Ma nè mica per ciò temo o pavento.
Io qui fra due feri contrari, poi E, se non volentier, certo contento
Che non vivo e non muoio, altro non mieto, Esco fuor del natio dolce aer tosco,
Se non dolore; e, se talor m'acqueto, Per lasciar seco questo sordo e losco
Ritorna il duolo, anzi raddoppia poi. Secol, veloce al mal, quanto al ben lº
Ond' io, misero mel ch'altro non sono, Io Ove
poggiarò nell'amorosa spera,
Che di lagrime un varco aſſitto e stanco,
el gran Giulio e'l buon Martello, e dove
A morte cheggio, e non l'impetro aita. L'alto padre di voi varcò pur dianzi;
Sol quelle frondi sante, onde nel manco E forse andrò tanto volando innanzi, ..
Lato m'impresse Amor gentil ferita, Ch'io vedrò almen quell'onorata schiera
Rifugio e scampo alle mie pene sono. Del gran Bembo, che par non ebbe alºº
PARTE PRIMA 493
Per M. Annibale Caro.
Al Bronzino, pittore.
Non pensate, Bronzin, che duol m'apporte, Febo, se mai ti fu dolce nè caro
Nè tema il vedermi io pur verde ancora L'arbor, cui tanto amasti, io tanto onoro;
Vicino al fin di questa nostra, ch' ora Se di te stesso mai, se del tuo coro
Vita si chiama, e dee chiamarsi morte, Ti calse unqua o di me pien d'aspro amaro:
Non è il tosto morire altro, ch' un corte Al tuo, che langue infermo e mio buon Caro,
Far l'umane miserie. O felice ora, Onde ognor mille, e più fate moro,
Che mi trarrà del mondan carcer fuora, Serbando ad ambe il suo maggior tesoro,
E fermerammi alla celeste corte ; - Corri, prego, e soccorri, ad altri avaro.
Ove lontan dalle mortali insidie Questi spento, saria senza il suo lume
Col mio buon Giulio sempre e col Martello, Parnaso e 'l Tebro afflitto e l'Arno mesto
Senza temer più sdegni, ire, odi o 'nvidie, E Damon del suo Pitia, ahi lasso! privo,
Vivrò sicuro; e voi, da basso ostello, Quanto circondi Apollo, e quanto allume,
Questi, al mio sasso, ed all'altrui perfidie Danno non vide mai simile a questo:
Sali, scrivete, al ciel più alto e bello. Lui dunque sano, e me ritorna vivo.
A M. Gabriello Falloppia (1). Per lo Rev. de Gaddi.

Mentre, che di mia vita or fido, or dubbio, Se l'aer tuo, se le tue aure mai
Tra foco e gielo, in fra paura e spene, Furon dolci e salubri, alto e superbo
Quella pianta gentil nel cor mi viene, Monte gradito, a cui me stesso serbo
Che m' è consiglio e scampo in ogni dubbio: L' ultimo di, che s'avvicina omai: -

Dunque, mi dice, incerto vivi e dubbio? E tu, bel colle, che dai verdi mai - -

Nè di me, nè di te non ti sovviene º Prendendo il nome, al dolce, ed all'acerbo


Che dei temer quando troncasse bene Tempo, che 'n te si spesso disacerbo,
Cloto tua tela, non ben pieno il subbio? Fiori, erbe, e frondi ogn' or più ricco dai :
Non sai, che morte a chi ben vive e spera Siano oggi più, che pria temprate e sane:
Nel signor di lassù, ch'è senza inganni, Danne oggi più che mai fronde, erbe e fiori
E'l fin di tutte umane noje e danni ? Mentre infermo il buon Gaddi appo voi giace;
Il corpo è fango : vedi, che non pera Il buon Gaddi, a cui tanto e giova e piace ,
L'alma, che come in te pura e sincera, Il vedervi ed udir, ch'a suoi languori
Scese, tal voli negl' eterni scanni., Non spera altronde, che gl' acqueti e sane.
- - -

Rettor del ciel, s'al tuo sublime scanno


Al Vescovo di Fermo, per M. Lelio Bonsi.
Da questa bassa miseria infinita,
Sali voce giammai, che fosse udita, Tolga il ciel, signor mio, che si bel fiore,
Abbi pietà del mio gravoso affanno: Onde tal frutto e tanto oggi si spera,
A quella pace eterna, o a quel danno Nell'aprir di sua dolce primavera
Trammi che già per te fummi sortita; Svella colei, ch'abbatte ogni alto onore:
Nè fia per tempo omai, che di mia vita In me vince ora speme, ed or timore,
S'appressa il nono e quarantesimo anno. Ne so bene anco, s'io mi viva o pera:
Ben sai tu, Signor mio, che tutto vedi, Ben so, che morte, in cui mia vita spera,
Ch' altro mai di quaggiù nulla mi piacque, M'anciderà, s'ancider può dolore. - - -

Se non l'ombra e l'odor d'un vivo alloro: Pregatel dunque voi, cui tanto amico
Cui sempre, o voli alle superne sedi, Fu sempre, se di me punto vi cale,
- - -

O torni io giù fra l'amoroso coro, Che sol voi già tanti anni onoro ed arno ;
Nel core avrò, che per suo albergo nacque. Pregatel, dico, voi, che 'ndarno io 'I chiamo,
Che i caro Bonsi mio destin fatale
A Ser Benedetto d'Albizzo. Non tolga, e qui me lasci egro e mendico.
Com' esser deve, o può, ch'io rida, o canti, A Maestro Giovan Campani.
Avendo colmo il cor d'ira e di doglia,
Per veder quanto ogn'or percuote e spoglia Ecco, che dolor nuovo agl'occhi e al core ,
Or Austro, or Aquilon quei rami santi? Impensato s'avventa e grave tanto, -

Potessi io pure, e con eterni pianti Ch io temo, lasso! non morir di pianto.
Mantener salda e verde una sol foglia, Anzi morrò, s'uom mai piangendo muore :
Ch'altro mai non faria, tanto m'invoglia Poi che 'l buon Lelio mio, che d'ogni onore
Loro ombra, onde uscian già si dolci canti. Poggiava giovinetto al primo vanto,
Soccorri, prego, alla tua pianta omai, Quasi tenero fior da pioggia affranto,
Febo, che langue al suo più vago aprile, Langue, perdendo ognor forza, e colore,
E me, sanando lei, ritogli a morte.
Nè più bel, ne miglior, nè più gentile
Dunque sarà, che così lietº germe . . .
In sul più bel fiorire e 'n sul far frutto
Arboscel verdeggiò, nè fiorir mai Si secche, ed io qui verde a pianger resti?
Frondi più caste, al ciel mie ſide scorte. Signor, che vedi e odi e reggi, il tutto,
(1) È questi il celebre Falloppia, chirurgo, analomico ed Non soffrir, che quel ben, che tu noi desti,
ostetricante di quel merito che tutti sanno. M Altri ne tolga, e le tue grazie, infernc ,
494 A SONETTI
A M. Raffaello Bonsi. Per la morte di Giuliano Gondi,
al capitano Girolamo Ciai, detto il Rossino.
Già quattro volte le dorate corna
Racceso ha tutte, ed altrettante spente, Mentre, ch'io verso al ciel divoto e umile
La più vicina stella e meno ardente, Lagrime a mille a mille, e chiamo invano
Che tal, qual si diparte, mai non torna. La grande ombra gentil, con mesta mano
Già Febo ad abitar lieto ritorna
Spargete, amici, intorno un lieto aprile.
Col Tauro, e dolce sospirar si sente, Questo è quel tristo dì, ch' oscuro e vile
Zefiro molle, e la stagion ridente Fè 'l mondo tutto, e ne di doglia insano;
D'erbe tutto e di fiori il mondo adorna:
Questi quei marmi son, dove l'umano
Già quanto Apollo ed Esculapio mai Posa di lui, che fu senza simile.
Sepper dell'arte, che gl'infermi cura, Qui giace spenta ogni mia speme, ed io
Provato ha tutto il fisico gentile; Vivo per morir sempre, e 'ndarno prego
Ma non perciò senza gl' usati guai . Quella sorda, che può solº vita darme.
Giace il buon Lelio, od io fuor di paura Ma tu, che presso al fin d'ogni desio
Di restar grave a me medesmo, e vile. Vedi, che nulla qui può consolarme,
Perchè tardi esaudir l'ultimo prego?
Per la morte della signora Faustina Bagliona
degli Orsini. Per la morte di Giuliano Gondi.
Vattene in pace, anima bella, e poi
Che si per tempo hai conosciuto indegno Lieti, fioriti, ombrosi colli, dove
A mezza state ogn' or l'aura si sente
Del tuo valore il mondo, al santo regno Fremer fra i rami sì soavemente,
Sagli e godi ivi sciolta i piacer suoi.
Godi ivi lieta i tuoi pensieri, e noi, Che spesso scende alla dolce ombra Giove:
Che'n gran fortuna e'n disarmato legno E tu, vago Mugnon, che di mie nuove
Lasci senza l'usato alto sostegno Lagrime cresci eterno, alto torrente,
Che nascea sol dal Sol degl'occhi tuoi, Deh ! udite il mio mal, ponete mente,
Mira pietosa, e vedrai lunga schiera S'eguale al dolor mio fu visto altrove.
D'intorno al corpo tuo dolente e trista Nei più verdi anni acerbamente ha spento
Piangere e sospirare in vesta nera: Morte il bel Giulio, anzi ha riposto in cielo,
Ch'a dirne il ver, non fu cosa mortale:
Così nel cominciar di primavera,
Tenero fior nella più dolce vista E me, cui d'altro mai non calse, o cale,
Giace, svelto da man crudele e fera. Che lui seguir, dove chiamarmi sento,
Tien per forza congiunto al terren velo.
Per la morte di Giuliano Gondi,
A M. Benedetto Busini,
a Lorenzo de'Libri.
Oggi è quel tristo ed onorato giorno, Ben potete veder, che nulla vale
Ch” al mondo tolse ogni sua gloria insieme: Tardar, non che tor qui quel, ch'ordinato
Questo spense il mio ben; questo la speme, Fu suso in ciel di noi, ne dal suo fato
Ch' ogni vil cura mi levò dintorno, Puote esser lunge mai cosa mortale.
O spirto eletto d'ogni grazia adorno, Poi che 'l buon Giulio, a cui non ebbe eguale,
E sol d'ogni virtù fecondo seme, Ned avrà il mondo, nel più bello stato,
Dunque sei morto? e poca terra preme Quasi novello fiore in verde prato,
Quanto era bello in questo uman soggiorno? N'ha spento l'empio destin suo fatale:
Scrivete, o sante Muse, acciò che 'l duolo Onde io pur piango, e voi piangere ancora
Sempre rinverda ai buon' l'alto disìo Devete, Busin mio, meco, e chiunque
Di lodar lui, ch'è or con Dio congiunto: È che i gran danni suoi conosca e cure.
Dopo il mille il bel Giulio al mondo solo S'acerba morte si chiara alma, allora
Nel cinquecento e venti sette, a punto Che più viver dovea ne spense, dunque
L'ultimo di d'aprile al ciel sen gio. Chi ſia, che di diman l'altre assicure?
Per la morte di Giuliano condi A M. Antonio Alegretti.
Gondi, ch'avendo il viver nostro a vile, Piangete Anton, che ben più d' altri avete
A punto in sul fiorir de'tuoi verdi anni, Giusta cagion di lamentarvi ognora,
Lasciasti gl'altri e me colmo d'affanni, Versate il duol del cor per gl'occhi fuora,
L'ultimo di del bel mese d'aprile; Che più d'un vosco lagrimar vedrete.
Deh ! s'al ciel mai divoto prego umile Prima la bella donna, che sì liete
Giunse, pon mente dagl'eterni scanni Fea l'ore vostre, tolse innanzi l'ora:
Le mie tante fatiche e spessi danni, Or v' ha 'l secondo ben furato ancora
Ch' io soffro senza te nel mondo vile, Quella crudel, che tutto 'l mondo miete.
Abbi pietà di me, ch' esser vorrei Ma che? Se 'I pianger sempre e notte e giorno
Nel terzo giro, ove or col buon Martello Potesse ricovrar l' anime spente,
Lieto ti godi, e me, son certo, aspetti. E ritornarle nel bel lume adorno,
Dopo te nulla piacque agl'occhi miei, Io piansi, e piango ancor si dolcemente, A.
Ne cosa è più quaggiù, che mi diletti; Che 'l mio bel Giulio avria fatto ritorno,
Chè teco e nacque e morì il viver bello. Cui par non vide mai l'Orto e 'l Ponente.
PARTE PRIMA 495
Per la morte di M. Lodovico Ariosto, Per la morte di M. Francesco Verini, filosofo'
a M. Antonio Brucioli.
Verin, che quell'eterno e sommo Vero,
Pianga Amor, pianga Apollo e pianga Marte, A cui di terra col pensier si spesso
Piangi, Ferrara, e per ogni paese Volavi e sì vicin, sempre ora e appresso
Pianga ciascun 3 morto è chi tutti intese Godi, del tuo mortal scarco e leggiero :
Gl'umani affetti, e gli dipinse in carte: L'Arno, che sì per te ricco ed altero
Quanto puonno altrui dar natura ed arte, Correva dianzi, or povero e dimesso
E l' ore sempre in bene oprando spese, Sen va tristo piangendo, ed io con esso,
Tanto ebbe l'alto figliuol tuo cortese,
Che vederlo, qual pria, già mai non spero;
Ch' ora ha del ciel la più beata parte ; Nè so cosa trovar, che mi consoli,
Per lui l'altero re de' fiumi in vista Veggendo spenti in sì breve ora, alii lasso,
Superbo va più dell'usato assai, Con tal bontà tanta dottrina e senno.
D'oro le corna e di ghirlande cinto: Ben sei del maggior ben privato e casso
E l'Arno, che l' antiche glorie omai Arno, ed essere in te graditi soli
Perdute avea, di dolce invidia tinto, Il mio buon Garbo e 'l gran Vettorio denno,
Mesto s'allegra ognor, lieto s' attrista.
Per la morte di Baccio degli Organi.
A Luca Martini.
Baccio, che sazio omai d'anni e d'onore,
Deh ! non turbate più Luca col vostro Dall'umane miserie e da sì ria
Pianto, che giorno e notte un lago ſace, Gente per ispedita e corta via
Del Martin vostro e mio l'eterna pace, Ten sei lieto tornato al tuo Fattore;
Che 'n sì pochi anni tal virtute ha mostro: A te non si convien pianto, o dolore,
Duolvi tanto però, che d'esto chiostro Che vedi il cielo tutto, e l'armonia,
Mortal, da questo rio secol fallace Senti dappresso, che quaggiù s'udia
Fuggito sia? se 'l corpo in terra giace, . Per le tue man sì dolce a tutte l'ore.
Lo spirto è 'n ciel, che dee sol dirsi nostro. Piango io, ma 'l comun danno, e piange mrco,
Ben piansi anch'io quando l'aspra novella E duolsi il buon Martin, che sparir vede
Mi percosse l'orecchia, e piansi in guisa, I miglior sempre, e rimanere i rei:
Che 'l Tebro altero del mio pianto crebbe, Ortu, che sempre ove 'l tutto si vede,
E 'l Vatican, cui di me forse increbbe, Tutte le voglie miri e i pensier miei,
Gridò mesto: O Filippo, o alma bella Grazia m'impetra, ch' esser possa teco.
Chi t' ha sì tosto, oimè, da noi divisa?
Per la morte di Giovanni Pini,
Al medesimo. al capitano Piero Rucellai.
Credete voi, che solitario orrore Qual già verde e robusto, or vecchio e lento
D' alte selve risposte, o antri foschi, Arbor s'avvien, che quel ch'al ceppo intorno
Posson Luca quetarvi? I monti e i boschi Solo nutria giovin virgulto adorno,
V'accresceran, se crescer può, il dolore: Folgor dal ciel percuota, o sterpe vento;
E, se cercate pur gridando il core. Talio di speme privo e d'ornamento
Sfogar, lunge agl'ingegni sordi e loschi, Rimasi, tolto lui, ch' anzi il suo giorno
O far con voi gl'ameni colli toschi Sali cadendo all'eterno soggiorno,
Piangere il vostro e 'I lor perduto onore; E me lasciò qui misero e scontento.
Giusto e il disio, ma la credenza è vana, Lasso ! che di si lieto e caro germe
Dunque sperate, oimè, piangendo sempre Lscian già tanti e così vaghi fiori,
Asciugar gl'occhi sol di pianto molli? Ch'alle fatiche mie condegno frutto
O che, se ben da dritta doglia insana Sperava. O mie speranze vane e 'nferme!
Uom tratto a sospirar, si strugga e stempre, Perch'io sempre nel cuor ni dolga, e fuori
Abbian pietà dei nostri mali i colli? Non abbia gli occhi mai, nè 'l viso asciutto.
- -

Per la morte del conte Giovanni Romei, al capitan Giovanni Taddei


Giovanni, che dal mondo e dagl' errori Chiaro guerrier, s' una medesma ed empia
Lasciando noi quaggiù miseri e mesti, Fortuna, ch'ai più rei par che si mostri
Lieto e felice al ciel risali, e questi Men cruda, ognor più intenta ai danni nostri
Terren non curi più fallaci onori: Sì crudelmente ne percuote e scempia:
Altre erbe ora, altre frondi ed altri fiori Perchè la fera in noi sue brame adempia,
Da quei, che cari qui vivendo avesti, Venite in questi solitarii chiostri,
Ti godi in più bello orto, e rami innesti A pianger sempre e partir meco i vostri
Via più felici, onde hai frutti migliori: Giusti lamenti, onde ogni valle s empia.
Mira ove 'l tuo bel Po turbato freme; Forse, che 'n fin dai più beati scanni,
E vedràmi tra mille oscuro, e tristo A seder nosco e consolarne alquanto
Pianger di te col Nigrisuolo insieme; Il vostro buon Simone e 'l mio Giovanni,
Anzi di me tu più sicuro acquisto Questi dall'uno, e quei dall'altro canto,
Far non potevi, ed io più certa speme Pietosi e tristi sol de nostri affanni,
Perder dal di che t'ebbi udito e visto. Scender vedremo e ras ciugarne il pianto.
496 SONETTI
Pº la morte di Mr Bernardo Gherardi, Per la morte del cardinal Bembo,
a M. Antonio Anselmi,
Qual fresco e licto giglio, che la fera
Pioggia battuto, o da rabbioso vento, Tosto, che giunse al ciel l'alma gentile,
Folgorato al fiorire, in un momento Ricca di quelle sue virtù celesti,
Sparisce, e nnlla è più che si bello era; Mille angcli le fur d' intorno presti,
Così nel fior della tua primavera E l' inchinaron con sembiante umile.
Per far povero il mondo e me scontento, Beato te, dicean Bembo, ch' a vile
IIa te, Gherardi mio, spogliato e spento Tutti i men bei pensier laggiuso avesti,
Quella sempre fallace e sempre vera: E del tuo gran valor tanto alti desti
Benchè di te fra mille eccelse e dive Esempi, ch'a te mai non fia simile.
Alme più care e men lontane a Dio, Non era degno di tua vista omai
t
La miglior parte e la più bella vive; Loco si basso, e non devea prigione
E vivrà sempre più beata, ond'io Mortal chiuder più spirto alto e divino.
Col tuo buon Barberin che piange, e scrive Qui sempre vivo al sommo Ben vicino,
Notte e di meco, ho di morir disio. Condegno a i tuoi gran merti guiderdone,
Tra 'l maggior Tosco e 'l più leggiadro avrai.
Al signor Fernando Torres, per la morte
della Mancina. Per la morte del signor Stefano Colonna,
Lasso! chi mi darà le rime e i versi al signor Otto da Monteguto.
Eguali al tristo mio pianto e dolore? Fiero ed acerbo Veglio, orrido in vista,
Onde avrò tante lagrime, che fuore Di sdegno il volto e di dolor dipinto,
Parte del languir mio piangendo versi ? Le fulgenti arme e quella spada scinto,
Nè pure io sol, Fernando, ma dolersi Che 'l mondo tutto sanguinosa attrista:
Dovrebbe ogn'alma, in cui non dorma Amore, Donna quanto esser può dogliosa e trista,
Poi che grazia, beltà, senno e valore, Il bianchissimo velo in adro tinto,
Non mai veduti e da non mai vedersi, Rotta l'alta colonna, e quello estinto
Con l'alma donna, in un sol punto, fera Valor doppio, che mai non si racquista;
Morte n” ha tolti si per tempo al mondo, Piangean sopra Arno; e l'uno: Oimè, dicea,
Cui s'è fatto anzi vespro eterna sera: Spento è del tutto ogni mio ardire e senno;
E noi di così lieta primavera L'altra: Ora è morta ogni bontate, e fede:
In tristo verno e nel più basso fondo Ma non morti nel ver, nè spenti avea
Caduti sem dalla più alta spera. Gl'onor, ch'eguale al ciel la terra fenno,
Per Giovanni de' Rossi, Ma per sè tolti chi gli merta e diede.
sulla morte di madonna Lucrezia da Pistoia. Per la morte del signor Giovambatista Savelli.
Di tre vivi e lucenti un sole ha spento Ben puoi, Tebro plorar, poi che 'l maggiore
I suoi bei raggi, onde è pien d'alto orrore Campion, che vestisse arme o'n quella, o 'n
Rimaso il mondo, ed io dentro e di fuore Parte, cangiata in duolo ogni tua festa, (questa
Più d'altro amante mai tristo e scontento. T” ha tolto lei, che toe sempre il migliore.
Nè perciò veggio minor luce, o sento Gente di ferro armata e di valore,
Men caldo, o pruovo men possente Amore: Bene hai cagion gridar misera e mesta,
Tale hanno gl'altri due lume e valore, Ahi morte ria, come a schiantarsei presta
Nè io d' ardere a doppio ancor mi pento: Il frutto di tanti anni in sì brevi ore !
Anzi è sì chiara l'una e l'altra stella, Dio, che ti prendi l'altrui morte in gioco,
Che m'è dolce il languir: ben puoi dolente Ed hai sempre dintorno ira e tormento,
Rider, Pistoia, e versar lieta il pianto; Più lieto ognor, quanto più sangue versi;
Poi ch'ai perduto, e t' è restato tanto, Ben puoi dir, se 'l tuo danno assai, o poco
La tua Lucrezia angelica, innocente, Conosci, o curi i tuoi guerrieri spersi:
Non men di quella antica o casta, o bella. Or sono io morto, il gran Savello spento.
Per la morte del cardinal Contarino, Al capitan Francesco de' Medici, per la morte
a M. Filippo Gherio. del signor Pirro Colonna.
Spirti beati, che più cari molto, Francesco, a i duri colpi d'empio e fero
E più vicini al primo, eterno Bene, Destino, a cruda inesorabil morte,
Infondete in altrui quel che'n voi viene Altro scudo non è più saldo e forte
Dal gran Monarca, in cui tutto è raccolto; Che soffrir, se non lieto, almeno altero.
Poi che n'avete a voi chiamato, e tolto La prima gloria del più vivo e vero
A noi l'alto Gasparro, unica spene Valor, che Marte a i suoi seguaci apporte,
Delle tante miserie, che sostiene Spento ha del secol nostro acerba sorte,
Gran tempo ha,'l mondo in mille errori avvolto: Che non lascia goder mai bene intero.
Piacciavi al men dalle celesti case - Morto ogni ardire, ogni alto senno è morto
Mirar quanto ogni buon si doglia e stempre, Col gran cognato vostro, e 'n somma avemo
E dirne, s'avrem mai pari o simile. Nuovo Pirro perduto e nuovo Achille.
Questo non già, ma che piangete? Il vile L'Italia afflitta e le toscane ville
Terren, come era vostro, a voi rimase, Piangon nosco, e non voi, cui sol tenemo
E lo spirto è fra noi, dove fu sempre. Di tanto danno e duol speme e conforto.
PARTE PRIMA 497
per la morte di Giovanni Mazzuoli, Per la morte di Piero da Vinci, scultore.
detto Stradino.
Come potrò da me, se tu non presti
Giovanni mio quella bontà, che forse O forza o tregua al mio gran duolo interno,
In nulla età, non che a' di nostri, pare Soffrirlo in pace mai, Signor superno,
Non ebbe, e quello affetto singolare, Che fin qui nuova ognor pena mi desti?
Che 'n te d'altrui giovar sempre si scorse: Dunque de' miei più cari or quegli, or questi
Quel casto amore e pio, che mai non torse Verde sen voli all'alto asilo eterno,
Dalla strada del ciel, ti fenno amare Ed io canuto in questo basso inferno
Vivo dal miglior duce, e sospirare A pianger sempre, e lamentarmi resti?
Morto, che fosse mai dall'Austro all'Orse. Sciolgami almen tua gran bontate quinci,
Se tanto i versi miei prometter puonno, Or che reo fato nostro, o sua ventura -

Oggi avrà l'Arno mesto, e forse tutta Ch' era ben degno d'altra vita e gente,
Toscana umidi gli occhi e 'l viso chino; Per far più ricco il cielo, e la scultura
E sopra il sasso tuo: Con guancia asciutta Men bella, e me col buon Martin dolcnte,
Non passar, qual tu sii, ch'eterno senno N'ha privi, o pieta! del secondo Vinci.
Dorme qui dentro, il buon padre Stradino.
Per la morte d'Andrea da San Miniato, di Giu A M. Lucantonio Ridolfi, per la morte di Cosimo
e di M. Clemente Rucellai.
lio Mazzinghi e del capitano Giovanni Tad
dei, a Lorenzo Scali. Mentre, ch'io piango il buon Bettin, cui morte
Scalo, che potrà più fortuna in voi? Spense, Lucanton mio, quasi ancor mai
Che farà il cielo irato ai vostri danni? Offeso non m'avesse, ecco ch' assai
Toltine, lasso! Andrea, Giulio e Giovanni, Men pietosa m'assale e via più forte:
Ciascun nel più bel fior degl'anni suoi Fieno omai l'ore mie dolenti e corte, -

Ed io che più vedrò, che non m'annoi? E vivendo, vivrò mai sempre in guai,
Ch'udrò, lasso, giammai, che non m'affanni? Poscia che tolto n'ha due Rucellai,
Fin ch'io non saglio negl'eterni scanni, Prima Cosmo, or Clemente, invida sorte.
Dove nel mezzo degli antichi eroi, Lassol che debbo, o che far posso in questo
Tra pin di mille e mille schiere spesse Diserto senza voi, coppia gradita,
spaziano i nostri tre, che 'n sì breve ora, Ch'eri quasi al mio verno un doppio aprile?
Si crudelmente si rea sorte oppresse? Ben vi dico, Ridolfi, che molesto -

Quivi, onde sdegno, onde ogni invidia è fuora, Il mondo tutto ed ogni cosa vile
Mirando l'alte lor ferite impresse, Mi sembra, e sol morir può darmi vita.
chi più ebbe valor, via più gl'onora.
A maestro Giovambatista Tassi, architettore, A ser Guglielmo da San Giovanni, per la morte
per la morte del Tribolo, scultore. di M. Pasquino Bertini.
Come volete voi, Guglielmo, ch'io r
Tasso, ben so che 'l Tribol vostro e mio
Che fu di bontà pieno e di valore, Canti, se piango sempre e pianger deggio,
Come chi vive santamente e muore, Poi ch'aspra sorte, e che potea far peggio?
Volò beato alla magion di Dio. N'ha tolto il vostro buon Pasquino e mio?.
Ma piango il comun danno, e vorre' anch'io Anima bella, che da questo rio
Uscire omai di questo carcere fore, Carcer volasti a sempiterno seggio,
Ove con nuova ognor pieta e dolore No'l tuo ben, ma l mio mal, cui sempreveggio,
M' assale e sferza acerbo fato e rio. A lamentar mi fa crudele e pio. -
Increscemi di voi, duolmi del nostro Dunque da fera e traditrice mano
Luca e del Vinci, e 'l Marignolle ancora Mi scampò dianzi e mi difese il cielo,
Lasso! m'affligge, e 'l Pontormo e 'l Bronzino. Perch'io vedessi la tua morte in prima?
Pungemi il figlio, oimè, ferimi ogn'ora O nostra vita, che tanto si stima,
La sconsolata sua consorte e 'l vostro Come si spera, e si sospira in vano !
Davitte caro e 'l mio dolce Crocino. - Ben sei tu neve al caldo e rosa al gielo.
A Simone Strozzi,
A M. Francesco Melchiorri.
per la morte di Gismondo Martelli.
Strozzo, dunque credete voi, che quello Francesco, non che voi, ma qual più fosse
Suon basso e roco del mio vile inchiostro Di ferro armato e di diamante il core,
L'alte virtuti e 'l gran valor del vostro, Non porria mai di sì giusto dolore
Aggiragliar possa e mio caro Martello ? Sì dure sostener gravi percosse.
Quando in un petto giovenile e bello, Tremò repente, e se dal fondo scosse
Vide cotal bontate il secol nostro ? La terra irata, e volle apparir fore,
Dove ingegno sì chiaro ? in cui s'è mostro Quasi dicesse: Or mio pregio maggiore,
Cotanta leggiadria, quanta era in ello ? Or son da me tutte mie glorie scosse,
E pur, qual fior, che dall'aratro sia Quando la bella donna e casta e saggia -

Tocco, o da dura man battuto langue, Lasciò voi sconsolato, afflitto il mondo
Perio Gismondo al suo più vago aprile. Tristo il suo sposo e mesti i cari figli.
Ahi fera destra! ahi crudei donna! ahi ria Pur vi rimembre, ed al penar sottraggia
Fortuna iniqua! Ancor bella e gentile Vostro alto core il suo stato giocondo,
Era l'imago sua pallida, esangue. Tanto che contra il duol l'armi suo pigli.
G.,
VARulli V. 1.
498 SONETTI
Al medesimo. A monsignor Lenzi,
per la morte del reverendissimo Salviati.
s
Melchiorre gentil, contra gl'artigli Non pnr vosco il bell'Arno, ma turbato
Feri di lei, che tutto il mondo addoglia, L'altero Tebro e 'l Po superbo insieme
E del maggior valor prima ne spoglia, Piansero signor mio d'ogn'alta speme
Non val perch'altri fugga, o lancia pigli. Privi nello sparir del gran Salviato:
Morta è la bella donna, anzi a concigli E 'l Sol d'oscuro nembo il crin velato
Del ciel tornata, fuor di quella spoglia, S'ascose, e quasi fuor mostrarsi teme,
Che le fea velo, e v' ha lasciato in doglia Sì grave il giunse, e tanto ancora il preme
Col caro sposo e i suoi diletti figli. Di lui non già, ma 'l nostro acerbo fato.
Ma che piangete e sospirate tanto? Ei non men lieto per lo ciel che lieve
Già non v'incresce del suo bene, e 'l danno Sen gio, lasciato il mondo afflitto e solo,
Vostro torvi non puon sospiri o pianto, Là ºve era seggio al valor suo condegno.
Tutte le cose in questo umano chiostro Ma l'un suo chiaro frate e l'altro deve,
Tardi, o per tempo al lor termine vanno; Che fido avem quaggiuso esempio e pegno
Questo è sol propio e veramente nostro. Dell'alta sua virtù, temprarne il duolo.
Per la morte di M. Mattio Franzesi. A M. Giorgio Benzoni,
per la morte della signora Gaspara Stampa.
Ben veggio omai, che il giorno ultimo mio
Tardar non può tanto è vicino; almeno Benzon, se vero qui la fama narra,
Giunto fosse egli innanzi al tuo, che meno Che così chiara e così trista suona,
Certo era il mio dolor, caro Mattio. Terra è, lasso ! tra voi la bella e buona
S'io venni prima in questo basso e rio Saffo de' nostri giorni, alta Gasparra;
Carcer di pene e d'ogni noja pieno, Onde ogni o saggio o buon di questo inarra
Ben dovea stanco, non che sazio a pieno, Secolo ancor peggiore, e 'n Elicona
Di te prima, o pur teco uscirne anch'io. Febo tra 'l sì e 'l no seco tenzona,
Ma non piacque al Signor, nè deve alcuno Come chi suo gran mal paventi e garra;
Contra 'l voler di lui por giuso in terra E ben sarebbe la più viva lampa
Il suo quantunque grave e frale incarco: Spenta d' Apollo, e'l più leggiadro fiore
Cr tu che del mio ben quaggiuso in terra Di virtù secco al suo maggior vigore.
Fosti, com'io del tuo, sempre digiuno, O d'ogni gran valor, segnata Stampa
Aprimi al cielo, onde ti segua, il varco. La cerva e 'l corvo lungo tempo scampa,
Ma 'l cigno tosto e la colomba muore.
Per la morte di Simone della Volta.
Al medesimo, sopra la medesima.
Volta, ch'al ciel cosi per tempo vòlto Ben dissi io 'l ver, ch'alla colomba e al cigno
Hai di te i mondo e noi per sempre privo, Breve spazio di vita il ciel prescrive;
Onl'io, di senza te vivere schivo, Ma 'l cervo sempre e la cornice vive,
Tutte le mie letizie in pianto ho vòlto: E'l serpe, o s'altro è più ver noi maligno,
Nulla, che non m'annoi miro od ascolto, O più d'altro ancor mai duro e ferrigno
E se non fosse il mio sacro arbor vivo, Secol, che d'ogni ben te stesso prive,
Di cui doppio oggi penso e doppio scrivo, Chi fia, ch'onori più le caste dive,
Ben dal nodo mortal sarci disciolto. O creda Febo a suoi largo e benigno ?
E teco insieme, e col bel Giulio mio, Se 'l primo e più bel fior d'ogni virtute
Che fu sì solo col mio buon Martello
N'ha quando più splendea, svelto e reciso
Che lasciò qui di sè grido si chiaro, Lei, che cieca sua falce attorno gira i
Vivrei lieto e felice in quel drappello, Pianga mesta la terra, e 'l paradiso,
Dove è 1 gran Bembo più di tutti raro, Benzon, lieto s'allegri, che rimira
Cui tosto riveder spero e disio. Cose si race, anzi non mai vedute.
Alla signora Veronica Gambara di Correggio. A Monsignor Lenzi, eletto vescovo di Fermo.
Donna, che veramente unica il mondo, Or dura pioggia a mezzo aprile, or folta le
Come suona il leggiadro nome vostro, Nebbia, che l'universo asconde e bagna,
Correggete con gl' occhi, e con inchiostro La dolente alma mia trista accompagna
Il fate, quanto mai, ricco e giocondo: Da sì lieti pensieri a pianger volta:
Deh ! se 'l bel vostro dolce dir, facondo Nè ragion cura più, ne vede, involta
Acquete il maggior uom del secol nostro, Nel duoi, quanto qui piace, opra di ragna
Anzi di tutti i tempi altero nostro, Essere, e come in van prega e si lagna
A cui lunge sarà chi fia secondo ; Di lei, che tutti ancide e null'ascolta.
Non disdegnate, che i mio rozzo e frale Così da voi lontan gran tempo omai,
Stil coll'ornato vostro eterno tenti, Arbor del Sol, tra nebbie, e pioggie, e venti
L'alto asciugar di lui continuo pianto: Meno la vita in dolorosi guai:
Morta non già, ma ben fatta immortale E, se i ciel meco a pruova e gl' elementi
E la sua bella donna, per cui tanto, Piangon nei più bei mesi e giorni gai,
E tanti sparge invan preghi e lamenti. Chi porrà fine, o quando ai miei lamenti?
PARTE PRIMA 499
Al signor Giovambatista Orsino. A monsignor M. Giovanni Gaddi.

Spirto cortese a null'altro secondo, -- Io ebbi ed aggio e sempre avrò per fermo
Che, spregiando quel ch'or s'agogna tanto, (E sia detto con vostra e d'altrui pace)
Ricchezza e nobiltà, ten porti il vanto Che chi odia le Muse, a Dio dispiace,
D'esser tra i buon'quasi fenice al mondo; Ed è di mente e di giudizio infermo.
Io, che d' ogni miseria giaccio in fondo, Questo n è dato solo e scampo e schermo
M'ergo tutto, e m'allegro, udendo quanto Contra l'ingorda falce e man rapace
È 'n te di quel valore antico e santo, Di lei, che sola a tutte cose spiace
Che sol può fare altrui ricco e giocondo. E sola tiene a tutte cose il fermo.
E prego il ciel, che i tuoi alti pensieri Chi è che tanto sia d'ogni ben privo ,
Conduca a lieto fin, che ben son degni Dell' intelletto, ch' ei non cure ed ami
Del favor di lassù più d'altri mai; Per palma essere in pregio, o per olivo?
E te, che segui ogn' or più caldo i veri Chi, che sè stesso abbia sì forte a schivo,
- Onor, lasciando l'ombre, non ti sdegni, E si vil tenga, ch'ei non cerche e brami
Se pochi teco all'alta impresa avrai. Di restar dopo morte al mondo vivo ?
A messer Bernardino Terminio. A monsignor M. Giovanni Guiduccioni.
Altra ghirlanda assai più cara e bella, Voi, che per darne giovamento e guida
Men pregiata dal volgo alle mie chiome Farvi alla gente di vertute amica,
Sperò, Terminio, sotto dolci some Nasceste in questa fera età nemica
L'alma d'ogni viltà fatta rubella. Di chiunque al suo ben la scorge e guida;
Or, come piace alla mia fera stella, Seguite l'onorata altera e fida
Da me stesso cangiato, io non so come Impresa, che i miglior tutti v'amica;
Prendendo altro cammin, prendo altro nome, Chiamate Italia a quella dolce, antica
Tutta passata omai l'età novella. Libertà, ch' or da lei s'abborre e sfida.
E, cinto d'altre frondi, altro lavoro Mostratele, che i gigli, ancor che d'oro,
Tessendo andrò per più spinoso calle, La sfiorar sempre, e che l'augel di Giove
Che'l mondo oggi più d'altro onora e prezza. l più saldi tarpolle e i più bei vanni.
Ben sempre innanzi avrò quel santo alloro, Creda il vostro Buonvisi, che ristoro
Onde ai bassi pensier volsi le spalle, Trovar ne debbia mai, nè possa altrove,
Che la legge d'Amor tutt'altre sprezza. Che'n sè medesma, de' suoi lunghi affanni.
A M. Leonardo de Statis. A M. Antonio Allegretti.
Lasso l ch'io pensai ben d' altra corona Allegretto, io men vo lieto e pensoso i
Cinger le tempie e di più chiaro fregio, Là 've ha Nettunno il suo più ricco impero;
Non per lor merto già, ma fatto egregio, Lieto, perch'ivi omai vedere spero
Da chi sempre il mio cor pensa e ragiona; La pianta, onde ogni ben vienmi, e riposo:
Ora altrui voglia e mio destin mi sprona Tristo, chè senza voi stato gioioso,
Nè saldo ebbi ancor mai diletto intero:
Lassar quel ch'altri abborre, ed io sol pregio,
La fronda, che per alto privilegio Pure io vosco, e voi meco entro 'l pensiero
Non teme il ciel, quando il gran Giove tuona: Sempre anderemo, a cui nulla è nascoso.
Perchè, rivolto a men leggiadre imprese, E m' udirete in fin del Tebro ognora -

Più gradite dal mondo, altro viaggio Per monti e valli, or che tutto arde il cielo,
Prendo a men belli e più pregiati allori, Di voi cantar colle cicale a pruova.
Così, varcati omai gl'anni migliori, Più vorrei dir, ma la vermiglia aurora,
A forza vengo dopo mille offese, Spargendo intorno un rugiadoso giclo,
Vile a me stesso, ai molti accorto e saggio. . Il mondo all'opre sue desta e rinnova.

A monsignor M. Giovanni de Statis. A M. Annibal Caro.

Ben conosco io, signor, che più gradita Caro, cui già molti anni e saggio e'ntero
Nè di più frutto e men dubbiosa strada Ho provato al buon tempo, e fermo al rio,
Di quella oggi non è, dove la rada Ch' assai gran speme io lasci, o dica addio
Bontate vostra e cortesia m'invita: Per sempre al Tebro e al Vaticano altero;
E non niego, nè posso, che la vita Non v'incresca per me, ch'alto pensiero ,
Civile, innanzi all' oziosa vada, Mi sprona e sferza natural disio
Nè m'è la penna a vil, che lancia e spada . Spregiar quel ch'altri cerca, e gir dove io
Al mio buon padre fu, ch'ancor s'addita. Appari oprare il ben, sapere il vero.
Ma dico sol, che non disio, nè speme Questo a me ſia più ricco e bel tesauro
Di guadagno o d'onor mi torse a quelle S'avverrà mai, che 'n ciel mio prego s'oda,
Carte, ch'io fuggii sempre e fuggo ancora: Che quante ha gemme l'India e' Pattoloaino;
Ma debito rispuardo e pietà, ch'ora Senza che trovar mai pace o restauro , .
Cessan con mio gran duolo, onde a più belle Nè so, nè voglio, ov'io non veggia ed oda
Imprese miglior Dio mi volge e prene. Il mio, colto da voi, ben nato Lauro. .
5oo SONETTI
Al medesimo. A Michelagnolo Buonarruoti,

Caro Annibale mio, poi che me parte Ben vi devea bastar, chiaro Scultore, ft
Non voler, ma destin dal santo coro, Non sol per opra d'incude e martello
Voi ch'avete più d' altri al bel lavoro Aver, ma coi colori e col pennello
Più conforme il saper, più degna l'arte; Agguagliato, anzi vinto il prisco onore:
Fate in mille palese e mille carte, Ma non contento al gemino valore,
Che in questo altero di quel sacro alloro Ch' ha fatto il secol nostro altero e bello,
Scese di ciel nel mondo, alto ristoro L'arme e le paci di quel dolce e fello
Di quanto opran quaggiù Saturno e Marte. Cantate, che v'impiaga e molce il core.
Dite voi per che modi e con quai tempre, O saggio e caro a Dio ben nato Veglio,
Per far nuovo miracolo, in un solo Che 'n tanti e si bei modi ornate il mondo,
Petto, giunse ogni ben natura e Dio: Qual non è poco a sì gran merti pregio?
A me quanto conviensi, umile e pio, A voi, che per eterno "
Poi che penne non ho da sì gran volo, Nasceste d'arte e di natura speglio,
Basti sempre adorarlo e tacer sempre. Mai non fu primo, e mai non ſia secondo.
Al medesimo. A M. Tommaso Cavalieri

Caro, mentre ch'a voi lungo il bel Tebro Quel ben, che dentro informa e fuor riluce,
L'eco risponde del gran Vaticano, Alma e beltate in un spirto, e colore,
Io sopra vago monte e dolce piano Frutto che mai non muor, caduco fiore,
Tra Cecero e Mugnon, mio Calpe ed Ebro, Un raggio è sol della divina luce;
A piè d'un pino, o sotto umil ginebro La qual tutto e per tutto avviva e luce,
Col cor mi vivo riposato e piano, Egualmente spargendo il suo splendore,
Se non quanto m'addoglia esser lontano Ma nulla egual l'apprende, onde or maggiore
Dalle frondi, che sole amo e celebro. Dalle cose, or minor sempre traluce
A cui pensando mi sollevo ed ergo Ma voi tal parte ne pigliaste, e tanta
Tanto da terra, che l'umane cose Ne porgete ad altrui, quanto ciascuno
Tutte sotto i miei piè gran spazio veggio; Secondo il valor suo ricever puote,
E benedico il di, ch Amor si pose Benchè di quanti la miràr, solo uno
Dentro il mio core il suo più ricco seggio, Angel disceso dall' eterne ruote,
Per chiaro farmi e d'alta gioia albergo. La vide intera, e l'amò tutta quanta.

A Luca Martini. A M. Lorenzo Lenzi.

Luca, nel cui sincero petto luce Lenzi, voi dite il ver, se tali e tante
Di valor natural si chiaro raggio, Fattezze e così pronte sono in quella
Aurora del ciel: s'ella è sì bella,
Che per questo mondan cieco viaggio
Uopo non v'è d'altro maestro e duce: Felice è ben Titon più d'altro amante.
Ei sol lieto e sicuro vi conduce Certo a me par, com'io le son davante,
Per dritta strada, ov'io men forte e saggio, Sentir l'aura spirar, veder la stella,
Dubbioso e tristo spesso incespo e caggio Che le va innanzi alla stagion novella,
Fuor del cammin, dove 'l voler m'adduce. Aprir le rose, ed ogni augel che cante.
Pur dianzi accorto, e n'era tempo omai, Nè la notte però punto è men scura
Del mio fallire e del fuggir degl'anni Per tale aurora, e l'aurora punto
Col cor mi volsi umilemente a Dio; Non perde di splendor presso a tal notte.
E 'l prego ancor, che dagl'eterni guai Divino ingegno e man più ch'altre dotte
Salvo mi scorga ne celesti scanni, Ha il ciel più che mai largo in un congiunto,
Non lungi al vostro buon Martino e mio. Perch'arte vaglia, quanto può natura.
Al medesimo. A M. Bartolomeo Tassii, chiamato Bacciotto,

Luca, quando talor fortuna rea, Lungo le rive del chiaro Arno, poi
Che per usanza i buon' persegue e sforza, Che la Brenta or m'è tolta, assai vicinº
Empia v'assale e tal, ch'umana forza Al loco, u' l'arboscel cui solo inchino,
Non basta a contrastar celeste dea; Mise da prima i verdi rami suoi; .
Vostro alto invitto cor, qual già solea, L'ore più calde, e quando parch annoi
Perchè non passe la terrena scorza, Vivere altrui, col vostro e mio Giorginº,
Si tragga al poggio, o soffra sì ch'a forza Sotto un vago e fiorito gelsomino,
Ritragga il braccio, onde ferir volea. Trapasso, Tassio mio, pensando a voi,
Che fra mille alti ingegni, ove è'l gran Bembo
Altro schermo più fido, e più sicuro
Non hanno i colpi suoi sì crudi e ciechi, E 'l mio Lauro gentil, vivendo ancora,
Ch'alta virtute o sofferenza umile. Poggiate al ciel per le più corte strade:
M a che puote esser più che grave e duro E mentre, qual dal ciel candido nembo,
Semico cielo e fier destin v' arrechi, Bianca pioggia di fior sovra noi cade:
Toltomi il buon Martin tanto gentile? Così cade, dico io, la vita ognora.
PARTE PRIMA 5oi
A M. Carlo Strozzi. . Al signor Francesco Orsino, ,
Perchè dalle sirene e dagli scogli - Signor s'all'alta nobiltate e 'ngegno
D'esto ocean, dove eri preso e morto Preclaro vostro, ed al voler sincero,
Mercè di saggio e buon nocchiero accorto, Eguale studio aggiugnerete, io spero
Carlo, altamente ti sottraggi e togli: Veder d'ogni valor giugnervi al segno:
Teco m'allegro, e che tu segua e vogli . Ma, se poggiando al glorioso regno, , ,
Quanto più so, ti prego e ti conforto, Erto trovaste e spinoso il sentiero, -

Mentre ne aspira il vento, entrare in porto, Non volgete le spalle al bel pensiero,
Nè quindi più la tua barchetta sciogli: Ch'ogni altro e vile e di voi certo indegno.
Mira, che vedrai ben l'alto periglio, Ercole invitto, dopo tali e tanti -

Dove false lusinghe e piacer vano -


Vinti mostri e domati, al cielo inteso,
T” avean condotto fra Cariddi e Scilla. Arde sopra Enna in più di mille fiamme:
Dio ne ringrazio, e quel fedel consiglio, Ei ne mostra il cammin, che mai conteso
Per cui quanta altra mai, lieta e tranquilla Non fu quanto oggi, e non fia per innanti:
Corre or tua nave un mar sicuro e piano. Questi dunque, signor, vi scorga e 'nfiamme.
A M. Cosimo Rucellai. - - A M. Vincenzio Girelli,
Cosimo, che del vostro altero e chiaro Vincenzio, io fui si folle, ch'io pensai
Cosmo, ornamento al secol nostro e gloria, A dir di quello altero e raro mostro,
Rinovate la speme e la memoria, Che fa ricco e beato il secol nostro,
Seguendo l'orme sue quasi a lui paro; Vincer l'usato mio cantar d'assai:
Di lode, prego, e di null'altro avaro, E sperando salir, dove giammai s

Poggiate lieto a sì alta vittoria, Per me non fora aggiunto, mi fu mostro,


Onde 'n questa si legga e 'n quella storia, Ch' opra non era da mortale inchiostro;
Cosmo secondo, come 'l primo, raro. Ond'io nel cominciar, vinto restai.
Giovinezza e beltate, e quel che tanto Nè perciò biasmo, anzi gran lode attendo, e i

Più d'altro il mondo appregia oro e terreno Udendo darsi ognor si nuova gloria
Tutto un sol punto al fin ne sgombra e toglie
A chi per bello ardir cadde e morio. º
Solo il frutto gentil dell' arbor santo, Icar per gire al ciel volando, ed io , ,
Cui rado oggi o poeta, o Cesar coglie, Caduto son per sì chiara vittoria, -

Non vien per forza mai, anè tempo meno. Ch'io conosco il mio fallo, e non l'ammendo.
- - -

A M. Piero Alberti. - Alla signora Vittoria Colonna,


marchesa di Pescara.
Voi, che lontan dal volgo avaro, e fuori Alta Colonna, che gl'antichi vanti i
Del costume sì vil dei giorni nostri, Delle glorie moderne assai minori
Seguendo, Alberto, i grandi avoli nostri, Sola rendete sì, che de' migliori
V' alzate giovinetto a i primi onori; Nessuno è che di voi non scriva e canti;
Se bramate, ch' a tanti e sì bei fiori, Deh, s'al vostro alto Sol vostri alti canti.
Ch a 'l primo vostro april spiegati e mostri Giungan lassuso ai più beati cori,
Corrispondano i frutti, e che gl' inchiostri Ed ei di doppi cinto eterni allori,
Di voi mai sempre il mondo tutto onori: Di doppio onor tra lor s'allegre e vanti;
Seguite il cammin preso; e se trovate Increscavi del mondo ancora un poco, I
Fossati, o poggi o pien di spine il calle, Del mondo or bello, e che senza voi fora,
Non rivolgete il passo, e nol fermate. Qual fora l'anno, tolti aprile e maggio ,
Con troppo danno, e non men biasmo falle Rivolgete talor pietosa un raggio !
Chiunque o per lassezza, o per viltate Solo ver noi da quel celeste foco, -

Volge al bel monte di virtù le spalle. Che v'arde sol col signor vostro ognora,
A M. Cesare Richisenti. A Mad. Laudomia Forteguerri,
Cesare, se la vostra onesta e bella Donna leggiadra, al cui valor divino, -

Lavinia, a cui vi diede in sorte Amore, Che'n tante parti e così chiaro suºnº,
Nè potea darle o più bello o migliore, Col cor che sol di voi pensa e rºgººº»
Tosto vi renda men contraria stella; Per tanto spazio umilemente inchino:
Non curate del volgo, e lungi a quella Poscia che l'empio, avaro mio destino
Gente, ch'ha sempre al vil guadagno il core, Lungi mi tien, dove 'l disio mi spronº,
Dietro i pochi la strada erta d'onore La strada che 'l vil secolo abbandona,
Salite, che altra ognor è bugiarda e fella. Di costi ne scorgete a 'l ver camminº i
Non vogliate, se 'l ciel, natura e Dio Ond' io, che 'n questo uman, cieco e fallace
V'adornàr d'ogni ben, quanto altro mai, Laberinto d'error gran tempo errai,
Far voi medesmo a voi medesmo oltraggio. Per voi ritruovi il varco, e vegga onde escº:
Tutte altre cose oscuro, eterno obblio Così del fallir mio donna v'incresca,
Dopo questo mortal breve viaggio, Com'io cerco acquistar più, ch” altri mai
Cuopre: sol la virtù non muor giammai. Per Forteguerra dolce, cterna pace e
Son SONETTI
A M. Lessandra Bartolina de Medici. A M. Giambatista Pellegrini.
Quanto i pastor di Troia nel colle Ideo Come aere non può, se raggio il ficole
Vide mirando già l'altre tre dive, Del gran pianeta o luce altra minore,
Tanto oggi e più nelle pisane rive Non ricevere in sè lume e calore
Vede mirando voi l'antico Alfeo: Qual mostra sperienza e ragion chiede:
Vera donna e degnissima, ch'Orfeo Così non può mio cor, quandunque vede,
Con qualunque altro più leggiadro scrive, Onde speri gioir forma e colore,
Cantin come in voi torna e 'n voi rivive Non arder dentro tutto e mostrar fore
Quanto mai disse il secol prisco e feo. A chi leggere il sa, suo foco e fede.
Beltà con senno, e con reale altezza Ma quel che viene a i più morte e cagione,
Giunta vi rendon tal, che tutte insieme Pellegrin mio gentil, d'affanni e guai,
Vener, Palla e Giunon men furo assai. Giugne a me vita e d'ogni mal restauro.
Ben puon Fiorenza e quel sì chiaro seme Ben più d'ogni altro e con maggior ragione,
Onde nasceste più lieti che mai, Anzi solo amai sempre ed onorai
Dir: Chi è prima a l'altre, a questa è sezza. L'idolo mio scolpito in vivo lauro.

Alla signora donna Giovanna d'Aragona. A M. Giuseppe Orsucci.


Santa, saggia, cortese, onesta e bella Orsuccio mio, che sì cortesemente
Donna, che, come il nome altero suona, Mostrate aver di me cruccio e cordoglio,
Sol per giovarne al mondo, ch' abbandona Quasi più non vi sia qual esser soglio,
Ogni virtute, dalla par tua stella Stando lontan da voi sì lungamente.
Quaggiù scendesti, onde si rinnovella Dunque vi duol? dunque opro iniquamente,
Il chiarissimo sangue d'Aragona, Se 'l meglio e'l più vi dono e 'l men vi toglio?
Che d'ogni alto valor degna corona Non io ch'esser con voi più ch'altro voglio,
In quella età porta meno empia e fella; Ma il vostro e mio destin, che nol consente.
Qual memoria, qual lingua, o quale inchiostro Oh! come volentier, potessi io pure,
Per isprimere il ver tanto alto sale, Col Serchio cangiarei Mugnone ed Arno,
Che pur d' una tua lode arrivi al segno? Per fare ambi, me lieto e voi contento !
In te ben nata a nostri di s'è mostro, Or poi che contra il ciel s'adopra indarno
Di ch'avran tutte l'altre o'nvidia o sdegno, Soffriam, Giuseppe; ma qual luogo fure
Quanto natura può, quanto arte vale. All'alma, o tempo il suo maggior contento?
Alla medesima. A M. Clemente Rucellai.

Donna, che 'n questa etate e di valore Quanto al partir di voi, saggio Clemente,
Potete, e di beltà con quelle prime Con cui sen fugge ogni nostra alta spene,
Girven di pari, alle più alte cime Fia lieto il Tebro tutto e l'Aniene,
Gran tempo giunta, d'ogni vero onore; Tanto l'Arno e'l Mugnon sarà dolente.
Se qual vi pinge entro 'l mio petto Amore Già la gioia di lor, di noi si sente
Tal vi mostrasse in queste incolte rime, Il duol, cui senza voi restar conviene,
Ogni più chiaro ingegno, e stil sublime Senza luce occhi e senza sangue vene:
I pensier tutti in voi spendrebbe e l'ore. O ore a noi veloci, a Roma lente,
Io, quel che posso, i pregi vostri umile Nè vi basta, oime, lasciarne privi
Colla mente e col cor penso ed onoro, Di vostra dolce compagnia, che vosco
Altri più degno poi ne parle o canti; Il buon Vergezio ne menate ancora?
Ed oh! non pur da voi si prenda a vile, O valli, o pioggie, o colli, o fiumi, o rivi,
Ch'uom basso s' erga a tanto alto lavoro, O aer dolce del paese Tosco,
Ch'egli adori il bel viso e gl'occhi santi. Quali oggi sete? e quai sarete allora?

A M. Filippo Valentino. A M. Giovanni Vergezio.


Caro messer Filippo, che tra noi Vergezio, a cui non pur la greca vostra
Sete, onde vosco mi rallegro spesso, Lingua, che tal da voi lume riccve,
Quasi tra basse erbette alto cipresso, Come a suo caro e figlio e padre deve,
Cui folgore non tocchi o vento annoi: Ma la latina e la toscana nostra:
Poscia, che come volli, esser con voi Quel disio, che si caldo in voi si mostra
Nel vostro nido e ragionar dappresso, D'amarmi tanto in così tempo breve,
Non m'è dal duro destin mio concesso, Non sia quale a gran Sol tenera neve,
Che tutti or versa in me gli sdegni suoi; O poca nebbia in ben ventosa chiostra.
Non mi si tolga almen nel vostro altero Non abbian forza della vostra mente
Tanto cortese ed onorato inchiostro, Trarmi il bel Tebro e l'alta Roma, dove
Come soglio vedervi, e come spero: Gite or col Rucellai saggio e clemente:
Nè vi sia grave al mio buon Stufa e vostro La cui bontà, le cui virtuti nuove
Render saluti, e dir che non men fero Fisse mi stanno al cor si altamente,
Si mostra il cielo a me, ch'a lui s'è mostro. Clue rivolgernol so, ne voglio altrove.
PARTE PRIMA 5o3
A M. Giovambatista Guidacci. A M. Sperone Speroni.
Chi fa che ne guidi ora e ne consoli Speron, che tra i più chiari e più pregiati
In questo senza te grave soggiorno, Nobili ingegni si pregiato e chiaro
Guidaccio mio, dove, per far ritorno Splendete in questa fosca età, che raro
All'Arno, tristi n'hai lasciati e soli? Ebbe 'l mondo a voi par negl'anni andati;
Poi che ti celi a queste piaggie, e 'nvoli A voi d'antichi, e mai non tocchi prati
Al tuo Gaglian, non fu sereno un giorno: Piace con saldo e buon giudizio raro
L'aer piange e la terra, e d'ognintorno Sceglier novelli fiori, e quelli a paro
Folgori, e venti ne minaccian duoli. Tesser poi de' più vaghi e più lodati.
Ne pur teco partir Cerere e Bacco, Voi più, ch'altri ancor mai, sincero e scaltro,
Ma sdegnando fuggir con Pane e Pale, Come a casto filosofo convenne
O s'ascosero almen, Flora e Pomona, D'ambi gl'amor parlaste e d'ambi il vero,
Deh, se di noi, se di Rezzan ti cale, A voi di par l'uno idioma e l'altro
Ove ognor te lontan, mi struggo e fiacco, Deve, e più 'l nostro, onde ancor mille penne
- Per non lasciare i tuoi, gl'altri abbandona. Consagraranno il nome vostro altero.
A M. Giuseppe Iova. A M. Girolamo Muzio. .

Iova, il Serchio può ben lieto ed altero Muzio, che nell'età più dotta e grave,
Girsen non pur di libertà, che cara Con stil canuto, in sì nuova maniera
Tanto deve esser più, quanto è più rara Togliete a morte questa dolce e fera
Oggi, e l'Italia sa, s' io dico vero: Donna vostra e d'Amor che par non ave:
Ma d'aver con sì bello e giusto impero Ben m'è, non men che dee, caro e soave
Schiera d'ingegni si leggiadra e chiara, L'esser posto da voi tra quella schiera,
E voi primo fra tutti; ond'ella impara Ch' al ciel viva volando alta e leggiera,
Per lo calle del buon varcare al vero. Non cura forza altrui, nè morte pave:
L' ingegno vostro e la bontà simile Ma non ſia già, ch'io di me stesso mai
A quell'antiche, ch' or men grido avranno, Più la menzogna o possa, o deggia, o voglia
Lei, che non dorme, ad opre eterne sveglia. Credere altrui, ch'a me medesmo il vero.
Or ſia che col Menocchio e col gentile In me franco è l'ardir, pronta è la voglia,
Balbano e gl'altri, che nel cor mi stanno Ma sì frale il poter, che 'n van tentai,
Riveder possa un dì Forci e Loppeglia ? E tento ancor quel ch'asseguir non spero.
A M. Alberto Lollio. Al signor Luigi Alamanni.
Lollio, ch'al re de' fiumi, ove Fetonte Ben potea già, signor, vostro alto ingegno ,
Per bellissimo ardir cadde e morio, Con sì larga, profonda, eterna vena
Gloria da non temer per tempo obblio, Flora e Cinzia adornar, Liguria, Elena,
Con prose date care al mondo e conte : Fuor di suo biasmo e senza lor disdegno :
Se 'l sacro coro in cima al santo monte Or deve, i bei pensier tutti ad un segno
Vi scorga, e di sua man l'aurato Dio, Rivolti, cantar sol chi 'l volve e frena,
Dell'arbor, ch'amò in terra, or adoro io, La casta donna e pia di beltà piena,
Lieto vi cinga la famosa fronte; Nuovo vostro e d'Amor fido sostegno :
Sovvengavi di me, ch'al patrio nido Che, se più chiaro oggetto a più felice
Dopo lunga stagione afflitto ed egro Canto non diede Amor nè dar porria,
Torna via più, che mio voler, destino, Benchè tornasse ancor Lauretta e Bice :
Ma non già parto, come venni, integro, Questa del nostro ciel sola Fenice,
Anzi a voi di me stesso in questo lido, Solo a voi riportar per tanta via
La miglior parte lascio e al buon Ferrino. Lassù conviensi, a tutti altri disdice.

A M. Girolamo Ruscelli. Al medesimo.

Ruscello, onde si largo e cupo fiume Signor, che dietro il vostro e mio gran Tosco,
Nasce d'ogni virtute, onde deriva Di cui par ch'oggi in voi la vena sorga
Mare ampio sì, che non ha fondo o riva Con Arno e con Mugnon, Dnrenza e Sorga
D'ogni rara eccellenza e bel costume : Cangiaste, onde talor vi miran losco:
Se 'l mio si basso stil cantar presume, Poscia che di voi sono, ed esser vosco
E cercando lodar, di lode priva Non posso, vostra man cortese porga
L'alta vostra Aragonia, a voi s'ascriva, A me se stessa, e guidimi, ov” io scorga
Che Dedal foste alle mie inferme piume. Aperto e chiaro il cammin chiuso e fosco.
Come volete voi, che rozzo e vile, Da voi solo e dal vostro ornato figlio
E roco suon della mia canna arrive, Al mio rozzo cantar d'un colto lauro
Dove a gran pena va la vostra squilla? Soccorso attendo ogn'or, non pur consiglio.
Poi l'alma fronde che l'ira prescrive Datelmi tal, che contra 'l fero artiglio
Di Giove, sempre o sia'n cittade, o'n villa, Trovar possa di morte alcun restauro,
Tutto a se traemi per antico stile. Dopo questo mortal si breve esiglio.
5o4 -
A SONETTI ,
A M. Francesco Maria Molza. Al medesimo.

Molza, che pien di quelle usanze antiche Bembo, a cui par fra le memorie prime
Vergate ogn' or di bei pensier le carte, Alcun forse fu già, non già tra noi,
Onde si fan conserve in ogni parte Or, che di tutti solo avete voi
Dell' onorate vostre alte fatiche : Condotto al sommo le toscane rime;
Poi che le stelle a me sempre nemiche Con dir romano in dolce stil sublime,
Mi vietano, or che 'l ciel da noi vi parte, Dietro a chi tanto ſece e scrisse poi,
Venir là vosco, ove 'l popol di Marte L'alta vostra Vinegia e gl'alti suoi
Ebbe l'armi e le Muse un tempo amiche; Fatti innalzate alle più alte cime.
Gite, prego, felice e non vi gravi E degno è ben, che null'altro era degno
In mio nome portar salute umile Di così faticosa e dotta impresa,
Al mio buon Caro, ed al gran Casa vostro. Si come questa a voi sola conviensi:
Si dagl' error di sua gente empi e gravi, Che già gran tempo senza alcuna offesa
Tragge il chiaro di voi cortese inchiostro Di là varcaste dal più alto segno,
La bella donna al nostro santo ovile. Ove alcun non sia mai, che giugner pensi.
A Mons. M. Claudio Tolommei. Al medesimo.

Claudio, cui sol di tanti e si pregiati Bembo, che del gradito e amato vostro
Padri e maestri del tosco idioma, Nome non pur l'un d'Adria e l'altro seno
Ch'amava tanto ed onorava Roma, Avete omai, ma tutto il mondo pieno,
Prudenti al far, come nel dire ornati, Via più ricco d'onor, che d'oro e d'ostro:
Tolto non hanno al mondo amici fati, O degl'uomini altero e raro mostro,
serbando quella venerabil chioma, Carco sì di saver la mente e 'l seno,
Perchè virtute d'ogni parte doma Sol non verrà già mai per tempo meno
Non fosse, e bontà spenta in tutti i lati : Quell'alto, onde scrivete, eterno inchiostro.
Ben ne dimostra sofferendo umile, L'altrui lode, ch'ognor vecchiezza miete,
Vostro alto cor, che nulla forza puote, Quasi da vento e sol bianchi ligustri,
Non che torre, scemar virtute intera. Cadranno offese dall'obblio di Lete.
Fortuna, quasi aspra alpe aura gentile, Voi sol dopo mille anni e mille lustri,
I petti saggi e forti invan percuote: Più chiaro assai che 'l primo giorno, avrete
Ma che dec qui tener chi nulla spera? Pregio sempre maggior fra l'alme illustri,
A M. Trifon Gabriele. Al medesimo.

Santissimo Trifon, ch' ad inudita, Bembo, chi porria mai pur col pensiero
Ineffabil bontate, a singolare Immaginar, non che vergare in carte
Gentilezza di sangue, a mille rare Del vostro alto valor la minor parte,
Doti, gingnete umanità infinita: Che non sen gisse assai lontan dal vero?
La riposata vostra e lieta vita, Poco era ai vostri onor questo emispero,
A quell'antiche di Saturno pare, Nè capia tante lodi, onde in disparte
Ne mostra altrui le strade aperte e chiare, Nuove genti e paesi con nuova arte
Da tornare alla via dritta, smarrita. Cercar convenne al chiaro grido altero:
Io certo al suon delle parole gravi, E son tante trovate e si lontani,
Agl' atti tardi, al mansueto riso, Che pensar si può ben, ch Abila e Calpe
Che può far dolce il fel, cari gl'affanni, Volgan la fronte, ove tenean le spalle;
Udir cose e veder di Paradiso Credette il mondo già, che 'l mare e l'Alpe
Pensai, e tali al cor mi nacquer vanni, Tutto il chiudesse: ora è sì trito il calle,
Che peso uman non ſia, che più l'aggravi. U’ pose Alcide indarno i segni vani.
A Mons. M. Pietro Bembo. Al medesimo.

Bembo, che raro, anzi pur solo in questo Bembo, del cui valor, ch'ogm'altro eccede,
Secol malvagio e pien di frodi, avete Si veggon piene omai tutte le carte,
Più ch'alcuno altro mai lungi da Lete, E di vostre virtù l'ottima parte
Drizzato i bei pensier tutti all' onesto: Intera resta ancor, s'al ver si crede:
E per dritto sentier pria da voi pesto, Non l'aver posto anzi tutti altri il piede,
D' in cima al monte altrui lieto scorgete, E del toscan volgar mostrato l'arte,
Ma chi puote arrivar, dove voi sete, Non tante rime e sì leggiadre sparte,
Se nullo è come voi leggiero e presto? Locato v' hanno in così alta sede:
A quei, che dietro le belle orme vostre Non il greco, o 'l latin, non tali e tanti .
Per più alto destin più presso andranno, Bei don del ciel, che 'n voi risplendon tº
Porgerete la dotta e sacra mano ; Come in lor proprio ed onorato albergº,
A me purtroppo ſia, se di lontano Quanto l'alta bontate e i dolci e santi
Picciol segno da voi talor si mostre, Costumi vostri, ch'or, lasciati a tergo
Mentre che 'ndarno per salir m'aſſanno. -
Gl' umani ſior colgon celesti frutti.
PARTE PRIMA 5o5
Al medesimo. A Mons. M. Giovanni dalla Casa.

Non hanno il Bembo le tue rive, il Bembo Signore, a cui come in lor propria e chiara
Che primo i vaghi tuoi negletti fiori Casa, rifuggon le virtuti afflitte,
Tessendo, ti rendeo gl'antichi onori, Al secol basso e scuro oggi interditte,
Tal che sempre s'udrà risonar Bembo: Se non quanto per voi s'erge e rischiara:
Bembo udirassi; e ſia ben caro al Bembo, Or che la vostra sola, non pur rara
Benchè 'l greco e 'l latin tanto l'onori, Penna ha sì belle e tante rime scritte,
Esser cantato ancor dai toschi cori, Non lasci, prego, senza lode inditte
Saliti in pregio sol mercè del Bembo. Le prose d'Arno, oltra l'usato avara.
Intaglia Bembo entro le foglie, e Bembo Già sa per tutto ognun che quel d'Arpino
Entro le scorze, e ne'più duri massi Torto vi mira, e che di pari spazio
Bembo si legga, e per l'arene Bembo. Ven gite quasi col gran Venosino ;
Perchè mai sempre al gran nome del Bembo, Bembo novello, a cui 'l greco e 'l latino
Le selve Bembo, e Bembo i fiumi, e i sassi Deve, e più il tosco inchiostro, ond'io ringrazio
Rimbombin Bembo in lunga voce, Bembo. Il cielo, e voi, quanto conviensi, inchino.
Al medesimo. Al medesimo.

Ad una ad una annoverar le stelle, Signor, che quanto il Tebro ebbe e 'I Peneo,
E 'n picciol vetro chiuder tutte l'acque Tanto oggi avete, e par, non che vicino
Bembo, pensai, quando disio mi nacque Al vostro andate e mio sì gran vicino,
Vostre lodi cantar tante e si belle : Che sopra l'altre por la sua poteo ;
Già sento io ben quel che di me favelle E per fuggir di questo vile e reo
La gente ogn'or, ma chi per tema tacque, Secolo ingrato, acerbo, empio destino,
Non sa quanto altamente Icaro giacque, Tra 'l superbo Adria e 'l frondoso Apennino,
O quei, cui pianser si le pie sorelle: La 've l'alta cittate Antenor feo,
Non meno ardir, nè men bello è di voi Lungi vi state dalla gente, e vòlto
Voler cantar, che farsi guida al sole, Colla penna il pensier sopra le stelle,
O gire al ciel colle cerate penne; Tutte spregiate omai le cose umane:
Cbè, se pur puonno a quei che verran poi, Felice voi, che d' ogni cura sciolto,
Divine opre agguagliar mortai parole, Opre tessete e si care e sì belle,
Lodar voi stesso a voi stesso convenne, Che duraran quanto 'l moto lontane !
A M. Bernardo Capello. Al medesimo.

Nel puro e grave stil, ch'al gran vicino Bembo toscano, a cui la Grecia e Roma
Vostro s'appressa, e noi secondo onora S'inchina, e l'Arno più, per lo cui inchiostro
La bella, e casta e saggia Leonora, Sen va lieto e superbo il secol nostro,
Cibo da vostro ingegno alto e divino, E ricca Flora e felice si noma ;
Suona, Capello, sì, che da vicino Più chiaro manto voi, più degna soma
S'ode, e da lungi cotal grido ognora, Aspetta, e fregio già più bel che d'ostro,
Che chiunque beltà vera innamora, Come vede ciascun me' ch'io no 'I mostro,
L'alma le 'nchina umil sera e mattino: V” adorna e cinge l'onorata chioma.
Felice lui, ch'ai suoi gran merti pare Nulla deve stimar cosa mortale,
Tromba, e voi più, Bernardo mio, ch'avete Anzi nulla è quaggiù, che non annoi
Al dolce e dotto dir soggetto eguale, Chi ha da gire al ciel, come voi, l'ale.
L' onde, quanto ancor mai pregiate e chiare, Tanto più scende uom qui, quanto ei più sale;
Del bell'Adria per voi, che i fate tale, Io per me dico, signor mio, con voi:
Corron superbe oltra l'usato e liete. Gloria non di virtù figlia che vale ?

A M. Giovangiorgio Trissino. Al signor Annibale Rucellai.


Trissino altero, che con chiari inchiostri Annibale gentil, che del più chiaro
Te 'nvoli a morte, e 'l secol nostro onori, Tosco e maggior che sia, cui tanto osservo,
Rendendo Italia a suoi passati onori Caro nipote e volontario servo,
Di man de' più crudei barbari mostri, Seguite l'orme in poca età sì raro;
Tu con nuovo cantar l'antico mostri Ch'io spero e bramo ancor, se duro e avaro
Sentier di gire al cielo, e tra migliori Mio fato, o braccio altrui crudo e protervo
Le tempie ornarsi d' onorati allori Non tosto mi disgiugne ogn'osso e nervo,
Più cari a cor non vil, che gemme ed ostri. Vedervi a lui vicin, se non di paro.
Per te l'Adria, la Brenta, e 'l Bacchiglione, Allor le nebbie e le nubi, che 'l sole
Al dolce suon de'tuoi graditi accenti, Celano a molti in questa etate oscura,
Vanno al par di Peneo, del Tebro e d'Arno. Tolte saranno e scoprirasse il vero ;
Deh ! se 'l gran nome tuo sempre alto suone, Ch'a tal parelio, come cera suole
E faccia ogni gentil, pallido e scarno, Struggersi al foco, mancarà il pensiero
Tuo corso l'altrui dir nulla rallenti. Di chi sua dritta gloria all'Arno fura.
VARCIll V. 1. - 64
SONETTI
A Monsignor Cola Bruno. A M. Giovan Francesco Lottini.

Qualora io penso, e sempre il penso, Cola, Lottino, or ch'io per erte vie sassose
Il dolce loco, u' pria m'apparve, e 'l giorno, Tra ferro e fuoco al nuovo Marte intorno
Ch'io vidi l' arbor di tai frutti adorno, Calco dell'Appennin la notte e 'l giorno
Ch'ogni gentil convien che l' ami e cola: Le dure spalle mai sempre nevose;
Ratta per man d'Amor tanto alto vola Voi presso il nostro Ren, con amorose
Da questo basso e rio mortal soggiorno, Rime, che fanno ai più lodati scorno,
Ch' obbliando ogni umano oltraggio e scorno, Cercate d'addolcire un vivo, adorno
Al vil peso terren l'alma s'invola ; Scoglio, ove ogni suo bel natura pose;
E 'n grembo a suoi pensier poggiando arriva Nè ſia lungo il pregar, ch'alma non vile
Tra fiori e canti al ciel più ampio, e quivi Cede tosto ai buon preghi, e l'onde molli
S'asside lieta, ove ogni ben dimora; Consuman spesso le più salde pietre.
E mentre mira intentamente i vivi Io pure in fin da questi alpestri colli,
Raggi del sommo sole, ad ora ad ora Il vostro e mio Sebastian gentile
Si volge d'Arno alla fiorita riva. Prego, che giusta omai merce v'impetre.
Al Cardinal de' Medici. A M. Pagolo del Rosso.
Signor, che sparse le virtuti e spente Ben può lodarsi in voi l'alto disio,
Raccogli tutte e le raccendi, e solo Che già molti anni in ogni acerba asprezza
Tale hai di Marte e di Mercurio stuolo, Con povertà, danni e fatiche sprezza,
Che ben puoi pareggiar l'antica gente; Per tornar l'Arno al viver suo natio,
Il tuo bel nome, Ippolito, altamente Ma 'l giudizio non so, che voi ? ched io
Sen va poggiando ognor per l'acre a volo, Potem con pochi ? e seguiam gente avvezza
Tal, che da questo al suo contrario polo, Fuggir quel che per noi si cerca e prezza,
Notte e di sempre risonar si sente; Mentre era franco il nido vostro e mio.
Tu sol frenando l'orgoglioso ed empio Forse per noi saria più san consiglio
Barbaro stuol, fatto hai palese e chiaro, Ritornare a Minerva e lasciar Marte,
Ch'altrui viltà, non sua virtute alzollo ; Pagolo mio or, ch'ei più caldo ferve.
Ren dee l'Italia in tua memoria un tempio, Dio vede tutto, e sa che non periglio,
Anzi mille sagrar, cui grave e amaro Nè sdegno, od ira, o duol, ma sol mcn parte
Giogo, come ognun sa, tolto hai dal collo. Non sperar libertà da menti serve.
A Mons. M. Niccolò Ardinghelli. A M. Antonio Berardi,

Ben avete ragion di viver solo Nè grande speme aver, nè gran timore :
Coi vostri alti pensier degni di voi, Non cercar, nè fuggire ogni periglio:
Reverendo Ardinghel, cui par si annoi Bramar la patria, e star lieto in esiglio;
Tutto quel che più cerca il vile stuolo; Portare a rei pietate, agli altri amore:
Costi da bel disio levato a volo, Fanno, Berardi mio, che dentro ho 'l core
Gite sovente in parte, ove de' suoi Pacato sempre e fuor tranquillo il ciglio:
Cibi l'alma pascete, e quindi poi Mentre che 'l vostro or ferro ed or consiglio
Non v'affanna quaggiù speranza o duolo: Tenta rendere all'Arno il prisco onore.
Quindi è, che solo in questo basso e fosco Ben volli anch'io cinger la spada, e spesso
Carcer vòto d'amor, d'inganni pieno, Tra Vulcano e tra Marte in loco andai,
Sete quasi un bel sol tra pioggie e venti, Dove vidi mia fine assai dappresso:
Dch, potessi io di tanti un giorno almeno Ma poco andò, che, conosciuti cspresso
Per fare i vostri e miei desir contenti, Gi'altrui pensieri e l'error mio, tornai,
Esser col gran Vettorio insieme vosco. Alla Brenta, a Minerva ed a me stesso.
A Mons. M. Marcello Cervini. A M. Vincenzio Taddei.

Cervin, ch'alle più alte e ricche mete Vincenzio, io sto tutto romito e solo,
Giunto col vostro dolce dir sublime, Qual tortorella scompagnata e trista,
Ven gite a paro a par con quelle prime Privo di quella dolce, amata vista
Anime elette e forse innanzi sete : Della pianta, cui sola al mondo colo.
Voi dal greco e latin per fuggir Lete, E se non fosse, che levata a volo
E far ricco Arno alle toscane rime L'alma. che senza lei piange e s'attrista,
Mille prede onorate e spoglie opime, Lieta sormonta in parte, ove ella acquista
Vero nuovo Marcel, condotto avete. Virtù, che spegne, non pur tempra il duolo;
Onde dei vostri onor non por Tarpeo, Ben fora morto, ed io certo vorrei
Ma più bel monte e di più largo grido Essere spento pria che viver lunge
Eterno serberà chiaro trofeo; Da quelle frondi, ove ha virtute il nido.
E 'l vago, ove nasceste, altero nido. Bene e tre volte sventuroso e sci,
Non men forse che 'l Tebro e 'l gran Peneo, Cui dal maggior suo bene e patrio lido
S'udrà sempre lodar per ogni lido. O suo volere o forza altrui disgiunge.
PARTE Phil MIA 5o7
Al medesimo. A maestro Luca Ghini.

Me voler mio con quel drappel congiunge, Ghino, che di salubri erbe e di fiori
Che piange infranto il suo bel fior; ma vui Non pure al buono accoglitor del quale,
Vostro volere insieme e forza altrui Ma quasi a Febo e al suo gran figlio eguale,
Da' bei colli toscan parte e disgiunge: Tanti ne date al mondo e tai liquori,
Ma viviam lieti e con virtù, che lunge Che l' alme spesso poco men che fuori,
Giammai non è, Vincenzio mio, da nui Tornano ai corpi unite, e 'l lor fatale
Colei, che colla falce adunca e sui Corso vincon di molto, onde immortale
Acuti strali in ogni parte aggiunge. Pregio ven segue e sempiterni onori :
Chi sa quel, che di noi si voglia in cielo? Or che i raggi del sol più dritti e gravi
Non è sempre fortuna ai buon' proterva, Fendon la terra, e par che 'l cielo avvampi »

Nè può troppo cader chi in terra giace. Perchè bramar vi fate indarno ancora?
Seguiam pure amendue prima, che 'l pelo Qui dove e i boschi ei colli e i fiumi e i campi
S'imbianchi, l'uno in guerra e l'altro in pace V' aspettan lieti, e vi chiamano ognora
Onorar voi Bellona ed io Minerva. Fior,fronde,erbe,ombre,antri,onde,aure soavi.

A M. Lodovico Boccadiferro, filosofo. A M. Jacopo Nardi.


A te, dalla cui bocca argento ed oro Quando meco e col ver talor consiglio
Piove, non ferro, anzi cose più care Quanto da voi mi venne, e quanto aspetto;
Molto, ch'oro ed argento, o singolare Qual amore ed onor, ch'amato figlio
Saggio, tra quanti già buon tempo foro: Deve e pietoso a buon padre diletto;
Per farmi ricco anch'io di quel tesoro, Tutto e più debbo a voi, che con affetto
A cui non è sotto la luna pare, Paterno sempre or conforto, or consiglio.
E splender forse un dì tra le più chiare, Nel mio sì lungo e vostro eterno esiglio,
Alme, velato il crin d'eterno alloro, Mi deste, e tranquillaste ogni sospetto:
Divoto inchino e dove tocca il tuo Come entrò dunque, caro padre mio,
Sacrato piè, bacio la terra umile, Sì van pensiero in voi, ch'ira o disdegno
Né fossi io pur si d'onorarti indegno. Fatto m'avesse e men grato e men pio?
Pregi ciascun qual più gl'aggrada, e 'l suo Nome del vostro o più dolce o più degno ,
Segua o destino in questa vita o 'ngegno; Nardi, non ho nel cor, sì v'avessi io
Io te sol pregio, e quel che i molti han vile. La bontà, la franchezza e 'l vostro ingegno.
A M. Scipion Bianchini. A M. Anton di Barberino,

Scipio, la rara bontà vostra e 'l vostro Se ben, Anton, l'iniqua vostra e mia
Saper non men della bontate raro, Stella voi da me, lasso ! e me si lunge,
Voi pria fe' conto, e poscia amico e caro Da voi tien sempre, non però disgiunge
Al più saggio e miglior del secol nostro. Quel, che diviso nè fu mai, nè fia:
Ma io, cui tanto e di lingua e d'inchiostro, Perchè 'l pensier, che l'uno all'altro invia,
Come d'ogni altro ben, fu 'l cielo avaro, Quando duo petti amor vero congiunge,
Temo appressarlo e quinci avvien, che raro D' ogni stagione in ogni loco aggiunge,
E cosi bianco agl'occhi suoi mi mostro. Che nulla ha sopra lui parte o balia.
Ben meco entro 'l pensier sera e mattino Questo vegli, o dorma io, pronto e leggiero
Quanto conviensi riverente e umile, Per corta strada mi conduce spesso,
Come cosa del ciel, l' adoro e 'nchino; Dove lieto con voi seggio e favello.
E dico: Ancor saria bello e gentile Ma non per tanto bramo ancora e spero,
Il mondo, se virtù nostra o destino Se mai destin si fa men crudo e fello,
Desse la cura a lui del sacro ovile. Più contento vedervi e più dappresso.
A M. Fabrizio Garzoni. All'eccellentissimo M. Andrea Vessalio.

Fabrizio, che tanti anni e tanti avete Vessalio mio, che così conto e chiaro
Quel, che 'l gran saggio di Stagira disse Il picciol mondo e le sue parti avete,
Volto tutto e rivolto, e quanto scrisse Come ha 'l maggior Colui che 'l fece, e sete
Il buon mastro da Coo tanto sapete: Solo senza simil, non dico paro:
Stanco almen, se non sazio, omai devete Al toscan Duce non di voi men raro,
Prendere alcun riposo ; e chi mai visse Intendendo da me come sarete
Col cor le luci avendo intente e fisse Sopra Arno in breve alle Pisane mete,
Sempre a gl'inchiostri, come voi tenete? Fu dolce più, ch' io non so dire, e caro;
Qui tra Ravone, e 'l Melloncello ognora E ch'io di nuovo caldamente a voi
Spiran per questi colli aure, che i fiori Riscrivessi m'impose, e quanto all'opra
Destano e l'erbe verdi in ciascun prato: Facesse di mestier, tutto fornissi.
Ed i vaghi augelletti ai primi albori Movete dunque, e col favor di sopra
Ne 'nvitan lieti, e già null'altro fora Venite a lui far lieto e tragger noi
Al mio buon Lauro e a me di voi più grato. Col lume vostro di si curi abissi.
5o8 SONETTI
Al Bronzino, pittore. A maestro Antonio Bacchiacca, ricamatore.

Ben potete, Bronzin, col vago, altero Antonio, i tanti, e così bei lavori,
Stil vostro, eletto a sì grande speranza, Che vostra dotta mano ordisce e tesse,
Formare coi color l'alta sembianza Lodi v'arrecan sì chiare e si spesse,
Della donna gentil d'Arno e d'Ibero: Che piccioli appo voi fieno i maggiori.
Ma 'l bel di dentro e quello invitto, intero Chi è, non dico tra i più bassi cori,
Cortese cor, che sol tutti altri avanza Ma fra i più alti ingegni, il qual credesse,
Chi ritrarrà, dove non ha possanza Che poca seta, e picciol ferro avesse
Vostra arte, e nulla val gran magistero? Agguagliato il martel, vinto i colori º
Voi, ma con altro e non men chiaro stile, Onde superbo, e pien di gioia parmi
Nè meno ornato che dal quarto cielo L' Arno veder, che se felice chiami,
Febo v'inspira e con più bei colori; E dica: I figli miei m'han fatto bello:
Raro ed esempio e pregio il mortal velo I bronzi al gran Cellin deono; i marmi
Potete eterno e l'eterno a migliori Al Buonarroto; al Bacchiacca i ricami;
Far dal mar d'India conto a quel di Tile. Le pietre al Tasso; al Bronzino il pennello.
Ad Alessandro Allori, pittore. A Simon della Volta.

Caro Alessandro mio, ch'al primo fiore Simon, se quella graziosa Petra, N
De' più verdi anni, non pur del gran nome Che lungo l'Arno al destro lido luce,
Superbo andate, ma del bel cognome Versa liquor ch'addolce e al ciel conduce
Vostro, ch' io porto sacro in mezzo al core; Ogni cor, che non sia più dur, che petra;
Seguite il tosco Apelle, eterno onore Ond'è, che'l vostro, il qual mai non s'arretra
Dell'Arno, e fate sì ch'ancor si nome Da quel vittorioso e sommo duce,
Il secondo Bronzin, pria che le chiome Che lega l' alme, e dove vuol, l'adduce.
Cangiate, e 'l mondo dopo lui v' onore; Fuor del costume antico oggi s'impetra?
Questo uman sonno così breve, nulla Perchè non tutte rivolgete a quella
Risvegliare altro e far longevo puote, Lodar le rime e i versi, che ben puote
Che d'ardente virtù ben caldo raggio: E versi e rime a voi rendere anch'ella.
Io, che pur dianzi m'addormiva in culla, Io per me prego quell'Amor che solo
Or di neve mischiato ambe le gote, I petti, o vili o rozzi in van percuote,
Quanto vorrei salir, tanto ogn' or caggio. In me s'annidi, e mai non spieghe il volo.
A monsignor da Ricasoli, vescovo di Cortona. Al medesimo.

Sacro santo signor, chi ben pon mente Volta, se l'alta impresa, onde ora volto
Alla grande opra, che 'l buon Mastro feo, Sono in disparte e lungi al casto coro,
Oggi non sol Medusa, ma Persèo Non m'avesse di mano ogni lavoro,
Fanno di marmo diventar la gente: Ed ogni altro pensier dell'alma tolto;
Onde colui, che per ira ed ardente Di quella viva Petra, in cui raccolto
Invidia di Giunone e d' Euristeo, Han le Muse e le Grazie il lor tesoro,
In terra Caco vinse, in aria Anteo, Cantarei sì, che forse ancor d'alloro
Sospirar tristo e lamentar si sente: Cingerei il crine in bianca neve avvolto.
Ma 'l pastorel, che fra sì cruda e tanta Voi dunque, che solete essere ai miei
Schiera nemica, in Dio sperando, solo E difetti e disii soccorso e duce,
Con picciol sasso il gran gigante uccise; Quanto Apollo vi die, spendete in lei.
E quella casta, che tra l'empio stuolo Che se moderno esempio o fati rei
L'orribil teschio al fier busto precise, Non offusca e non spengon si gran luce,
D'aver degno vicin s'allegra e vanta. Arno tanto sarà, quanto io vorrei.
A don Giulio Cova, pittore. A M. Giovambatista Tedaldi.

Se 'l mio caduco e mal purgato inchiostro Non a chi regge impero, o splende in ostro,
Onde talor tingo le carte, e segno, - E meno a lui, ch'or dal Ponente all'Orto,
Come 'l minio potesse e 'l pennel vostro Per far suo dell'altrui, desto in quel porto
Colorir quel ch'ho dentro alto disegno: Corre e ricorre, ed or dal Borea all'Ostro;
Io, ch' ora folle e 'ngiurioso vegno Ma solo a voi, Varron del tempo nostro,
A scemar vostre lodi, onor del nostro Una cortese e dolce invidia porto,
Secolo, allor porria giugnere al segno, Che 'n far lieti e fecondi or villa, or orto,
U la cerussa è per voi giunta e l'ostro, Ogni cura ponete e studio vostro.
E dir, che poco a Macedonia parve Voi tra bei colli e correnti acque, i molti
Dare Alessandro senza par, s'ancora Fuggendo, d'ora in or cogliete i frutti
Giulio non dava senza pari al mondo. Di vostra propria man piantati e colti:
Ei già nell'armi, e voi tra lor secondo Voi, quegli onor ch'esser non puonno tolti,
Non avete ora che i dentro in quel di fora Tedaldo mio, per voi pigliando, tutti
Scuoprono e 'l ver sotto mentite larve. Lasciate gl'altri, che son vani e stolti.
PARTE PRIMA 5o9
Al medesimo. Al medesimo.

Deh ! come volontier vosco e col mio Fu si lieve e sì dolce e caro il giogo,
Bonsi, cui tanto già Minerva deve, Ch'al cor mi pose schietto e bel virgulto,
Colà verrei, Tedaldo, ove 'l bel Sieve Lieto più, ch'altro mai diritto e culto
Accresce l'Arno con non picciol rio: Sopra alto, verde e solitario giogo,
Ben voi sapete, ed ei più d'altri, ch' io Ch' ad Amor sempre, alla stagione, al luogo,
Sol bramo e cerco in questo viver breve, Ed a lui più col mio stil basso e 'nculto
Ch' è quasi a caldo Sol tenera neve, Renderò grazie infin ch'arso e sepulto
Fuggir la gente e tormi al cieco oblio. M' avrà la fiamma del funereo rogo.
Or con chi porria mai più caro, o'n quale E poi che'l corpo ſia nude ossa e polve
Loco sedermi più discinto all' ombra A loro inchinarà mai sempre l'alma,
Verde, e cantar del mio famoso alloro? Per cui franca e del ciel vaga divenne.
Ma quel grave ch'io tesso, alto lavoro Bonsi, si ricca e preziosa salma - -

Sì dentro tutto e fuor mi preme e'ngombra, Già non m' aggrava, anzi mi dà le penne
Che di null'altro mi rimembra o cale. Da gire a Lui, che 'l tutto in cerchio volve.
A M. Lelio Bonsi. Al medesimo.

Non sa, Lelio, la gente oscura e bassa, Lelio, io non so veder perchè, nè come
Nè dee saper qual premio aspetti e brami, Infelice chiamar si debba, o possa
Chi caldo e freddo soffra, e sonno e fami Un che povero sia, ma tenga scossa
Per non cader colla terrena massa, Di cure l'alma, e le rie voglie dome.
Nè può creder non folle un uom, che lassa Nè poco è, dite lor, ch' un di il mio nome,
Oro ed argento, e segue fronde e rami : Quando avrò chiuso il corpo in poca fossa,
Ahi stolta ! e non t'accorgi quel che brami; Forse sarà chi non dispregi e l'ossa
Esser cosa mortal, che tosto passa ? Felici sempre e fortunate nome.
Stato, tesori, onor, tutti in un punto Infelice è chiunque all'ozio e al sonno
Breve sospiro, quasi opre di ragni Dato ed al ventre, o di ricchezze servo,
Dissolve, ma virtù sempre è più viva. Non vive no, ma sol la terra aggrava.
D'ogni mondano ben, chi scerne punto, A me più incresce veramente e grava
Fortuna, o forza, o morte al fin ne priva. Del loro stato così ricco e donno,
Or tolga il volgo e pregie i suoi guadagni. Ch' a lor del mio così mendico e servo.

Al medesimo. Al medesimo.

Mirate, Lelio, ove quei verdi ed alti Lelio, qualunque Fato o Parca innaspe
Abeti e pin fanno ghirlanda a quello Mio stame, il quale omai non sarà parco,
Monte, che tra Mugnon dritto e Morello Se bene oggi per me scoccasse l'arco
Siede sopra fioriti erbosi smalti ? Colei, che fa, come tra l'erba l'aspe.
Quivi i primi già diemmi, e i sezzi assalti Felice vivo: e'l mio Ibero e 'l mio Idaspc
Onesto Amor per casto Arboro e bello : Son l'Affrico e 'l Mugnone, e quando io varco
Quivi d'ogni viltà mi fe'rubello, Di quinci all'Arno, così breve varco,
Onde in me stesso vien, ch'ogn'or m'esalti: Mi par d'esser varcato all' onde Caspe.
Quivi la via, ch'al ciel diritto mena, Fiesole Abila mi par, Morello Atlante -

Quivi il volgo spregiar, quivi imparai Agl'occhi miei, che tra l'un sempre e l'altro
Poco o nulla curar cose mortali: Rimiran lieti l' Asinaro altero.
Quivi gl'occhi e i pie miei sempre rimena Ivi vidi io le luci, ivi le sante -

Costume antico, ov'io lieto lassai Parole udii, che, se dir lice il vero,
Mio cor, che racquistò le perdute ali. Mi fer di rozzo e vil, pregiato e scaltro.
Al medesimo. Al medesimo.

Bonsi, quel verde e vago e casto Alloro, Bonsi, in ameno e verde colle, caro
Ch'amò prima in Tessaglia il biondo Apollo; Oggi si ch'indi il suo bel nome truovo,
Poi sopra Sorga al ciel cantando alzollo Col gran Farnese e'l mio buon Lauro muovo,
Gentil Tosco, ora io terzo all'Arno onoro; I passi lenti, e quinci e quindi apparo:
- Si cari lacci al cor di seta e d'oro Oh! per me sempre altero giorno e chiaro,
M'avvinse, e giogo sì soave al collo, Quanto esser può di ben, tutto oggi pruovo,
Che per lentargli mai non diedi crollo, E dolce all'alma sì, ma non già nuovo
Non che sciormi o fuggir pensi da loro. Le giugne il lor parlar cortese e raro.
Anzi credo, che 'l re, da cui sol parte, Ben denno i prati e questi colli intorno,
Ed a cui solo ogni ben riede, questo E quel bel fonte e quei fronzuti pini,
Soccorso al fral di me pietoso desse ; Ove ora Apollo, or Pane all'ombra siede,
Cui da percosse così fiere e spesse Larga memoria e sempiterna fede -

D'aspra invidia battuto e di molesto Serbar di così lieto alto soggiorno


Dcstin, da bene oprar nulla dipartc. Di due spirti si chiari e pellegrini.
51 o SONETTI
Al medesimo. Al medesimo.

Lelio, quella dolce aura, beatrice Mirate, Lucio, ove quell'alta e verde frli
D'ogni leggiadro cor, casta e gentile, Chioma d'abeti e pini orna la fronte
Ch' ogni cosa mortal mi fece vile, A quel dritto, gradito altero monte,
E sol santi pensier del cor m'elice, Con cui Morello ogn' or gareggia e perde?
Mi percuote l'orecchie ognora e dice: Quivi mostrommi Amor sotto un bel verde
Segui pur, Varchi mio, l'usato stile; Tal virtute e bontà, grazie si conte,
Tal or sia 'l verno tuo, qual fu l' aprile, Ch' ogni maggior miracol che si conte,
Chè sol chi spera in Dio, sempre è felice. Quasi lume a gran Sol, ratto si perde.
S'all'ingiurie d'invidia e di fortuna, Quivi d'alto salir disio mi nacque: Tl
Altro mai non volesti o schermo o scampo, Quivi a me stesso caro e 'n pregio venni;
Che delle foglie mie l'odore o l'ombra: Quivi tutte obbliai l'umane cose.
Or, che l'aer vital per te s'imbruna, Quivi tal lume e sì forte il sostenni
Meco, che sol d'ardor celeste avvampo, Che dal mio cor, come a gran vento rose,
D'ogni peso terren l'anima sgombra. Cadde ogni vile in terra e spento giacque.
Al medesimo. Al medesimo.

Lelio, alto core e peregrino ingegno, Lucio, quel verde tronco in cui s'annida
Che sol di gire al ciel brama, e fatica Virtute e cortesia, quanta Indo e Gange
Non dee curar quel che si pense o dica Non vider mai, quando s'attrista e piange
Di lui la turba sciocca e 'l volgo indegno: Mio cor, che dopo il ciel solo in lui fida,
Non può la gente, che tutti ad un segno Con tai parole e sì dolce lo sgrida,
Suoi pensier drizza, e sol prende fatica Che quasi scoglio che lieve onda frange,
Dietro 'l guadagno, essere a quelli amica, Sostiene il duolo, anzi convien che cange
Ch' hanno del mondo ogni vil cura a sdegno. L'amaro in dolce, e si rallegri e rida.
Ben fiavi anzi mille anni aperto e piano, Che può, dice, nell'alma o duro, o grave
Che contra il ver non può menzogna, e solo Giugner cotanto, che la turbi e muova
Dritto e cortese oprar tutto altro avanza ; A chi fortuna e povertà non pave?
Di me nulla vi caglia, in cui possanza Quel ch'a molti pare aspro, a te soave
Non ha, nè avrà mai quel folle e vano Esser dee, se quaggiù nulla si truova,
Più di sè, che d'altrui nemico stuolo. Che cor gentil, se non sua colpa grave.
Al medesimo. A M. Lionardo Marinozzi d'Ancona.

Lelio, quell'alme frondi, che mi stanno Si casto Lauro il cor mi punse e mulse F.
Già cinque lustri interi in mezzo l'alma, Nella più verde età, che poscia sempre
A chi le segue al fin perpetua palma, Variando il pelo, e non cangiando tempre,
Immortal gloria e vita eterna danno. Santo amore e sincero in lui rifulse:
Ma io ben presso al cinquantesimo anno, Perchè le voglie giovenili e 'nsulse,
Qual chi talor sua navicella spalma, Onde è che spesso alta virtù si stempre,
Poi truova in mezzo 'l mar tranquilla calma, Del petto mio da radice e per sempre
Resto, nè più di poetar m'affanno. Sua bella e sacra man tutte m'avvulse.
Così debile agnel tal volta suole E so ben che la turba audace ed empia,
Per monte erto salir, muover suo corso, Non sa, nè crede, e non sappia anco mai
Che 'nnanzi il mezzo assai, si ferma o cade; Per me, ne creda foco alto e gentile.
E non forte destrier, mentre che 'l morso Ma voi che lungi dal costume vile
Men cura, e quasi par ch'alato vole, Di questi tempi amor nobile scempia,
Vien meno in mezzo di sassose strade. Dolci meco traete onesti lai.

A M. Lucio Oradini. A Lucio Oradini.

Lucio, che 'n questa ria fallace piaggia Da sì felice a sì misero stato
Di sassi piena e di spinose piante, Quando meno il pensai, sì come a Dio
Mentre io per non cozzare, alzo le piante, Piace, ed a voi, signor, son caduto io,
A passo a passo non inciampi e caggia, Non per mia colpa già, ma per mio fato :
Dono è sol d'una fronde onesta e saggia; Ben sono or, come mai, certo e fermato,
Che sempre vammi, ovunque muovo, innante Egualmente soffrirlo o buono o rio,
E dalle foglie sue sì belle e sante Chè quel ch'è proprio e veramente mio
Cotal lume e valor nel cor mi raggia: Non può torlomi alcun: da talm è dato.
Ch' ogni pensier ch'al ciel nol desti e volga, Solo in questa caduca e vile spoglia
Luogo non v'ha, perch' ei lieto e cortese Hanno imperio e ragion fortuna e morte,
Lei sola esalta e sè stesso divolga. Che per uso i men rei prima ne spoglia
Dagli strali d'invidia e gravi offese, L'altro vive immortale, onde men corte
Di fortuna sì ben sempre il difese Non son le vite, perch'altrui ne toglia
Che pur uno non è che mai lo colga. Dicci anni o venti o 'nvidia, o sdeguo o sorte
PARTE PRIMA 51 i
Allo eletto di Fermo. A monsignor Lenzi, vescovo di Fermo.
Mentre ch'io conto ad una ad una l'ore Nuovo non già, caro signor, ma bene
Assai vicino a varcar l' onde stige, Grato e giocondo m' è, ch'ogni mio danno
Più mi tormenta certo e più m'afflige, Ogni profitto, ogni gioia, ogni affanno
Che 'l proprio danno mio, l'altrui dolore; V'apporti eguali a me dolcezza e pene:
Perchè la mente, che del suo valore Ma tranquilli la fronte, e rasserene
Non perdeo dramma ancor, l'amata effige Vostro alto cor le luci, che mi stanno
Cercando sempre, in voi solo s'aſfige, Già varca il quarto e diciottesimo anno,
E vedevi cangiar volto e colore. In mezzo l'alma d' ogni grazia piene.
Al tristo suon della novella ria Perch'io, pietà di chi muove le stelle,
Che dirà : Lenzi, il Varchi vostro fue, Al mio buon duce e grande ufizio intento,
E sol di voi nel suo morir gl' increbbe; Son sano e salvo; e quanto mai contento
Volgete in riso il duol, chè sempre ſia Ma false lingue, o penne, a quel ch'io sento,
L'alma che mai non muor viva lassue, Come più volte già, bugiarde o felle,
E v'arà a caro in ciel come qui v'ebbe. Vi portaron di me triste novelle.
A M. Lelio Torelli. Al medesimo.

Voi, che del maggior duce e più migliore Ben può dirsi or, che la bilancia e quella
Rege, ch'unqua mai fosse, o'n pace, o 'n guerra, Donna, che quando al ciel prese la via,
Benche Saturno ritornasse in terra, Scco la si portò, tornata sia
E si rendesse a Marte il prisco onore; Al dolce suon di si cara novella;
Con giusta lance in man, con fede al core, Poi che la cura a voi, signor mio, d'ella
Chiavi, onde al ver s'apre la porta e serra, In parte di e chi Dio me sembra ; e ſia
La santa mente e saggia che non erra, Ch' a quella antica così giusta e pia,
Eseguite senza odio e senza amore: Non abbia onde invidiar Roma novella :
Lunga stagion vivete, e siavi il cielo, a Voi di virtute amico e d'onestate,
Per lo comune ben felice, quanto Alcun giammai non offendete, e quello
L' alta vostra bontate e senno merta. Sempre a ciascun, ch'a lui conviensi, date;
Così cangiato in bianco il negro velo Onde l'Arno con piede altero e snello,
La bella Flora, e volto in riso il pianto, Mentre corre al Tirren : Felice ſrate,
Dicea, del buon Torel gran tempo esperta. Grida, che del mio danno or ti ſai bello.
A M. Francesco Torelli. Al medesimo.
-

Francesco, chi non sa quanto e qual sete, Ben credeva io, del ciel Motor sovrano,
Poi che del chiaro vostro alto parente Anzi ferma n'avea salda certezza,
Di fuor la cara eſige, e nella mente Ch'a chi suo dritto e le tue leggi sprezza,
La gran bontate e 'l senno raro avete ? Ritorna ogni operar fallace e vano.
Voi quella donna, che dell'alme e liete Ecco che cruda, sconosciuta mano
Menti del ciel d' ira e di giusto ardente All'armi, al sangue, all'altrui morte avvezza,
Sdegno sezza lasciò l'umana gente, Ogni impeto, ogni sforzo, ogni fierezza,
Con dritta lance in man sempre tenete. Contra inerme difesa adopra invano.
Così seguite, signor mio, che tante Frenasti tu, Padre superno, l'empio
Doti altre e tali a voi si largo dato Braccio, e facesti si, che 'ndarno il ferro
Avrebbe il ciel, senza questa una, indarno: Alla fronte, alla gola e al petto venne.
Questa una fa, che Flora lieta e l'Arno Tre volte e più, quasi rabbioso verro,
Di doppio onor col suo gran Duce ornato, Si spinse a far di me l' ultimo scempio,
Per gemino Torel s'allegri e vante. Ma tante il colpo tua pietà ritenne.
A Lelio Torelli, nipote. Al medesimo.

Comincia, almo fanciul, comincia o mai Come, quando talor nel più sereno,
A conoscer dal riso, e ridi ancora, Nel più tranquillo e riposato giorno,
L'avo e 'l gran padre tuo, di cui, com' ora A mezzo april, repente, d'ognintorno
Il bel nome e l'effigie, un giorno avrai Si turba il ciel, dove s'aspetta meno:
La bontate e 'l saper, donde potrai Cotale e tanto al mio felice e ameno
La saggia mente che la bella Flora Stato piovve quel di travaglio e scorno,
Regge, terzo asseguir che 'n fin da ora Che voi, per far col Tebro alto soggiorno,
Tanto spera di te quanto sarai. L'Arno lasciaste e me di doglia pieno.
Non produce il leon debile agnello: Nessun visse giammai di me più lieto
Rade volte e, che non buon frutto dea Certo, mentre ſui vosco; or nessun vive,
Germe ben colto e d'alta pianta nato. Sendo io lontan da voi, di me più tristo.
Pure avrà questo secolo empio e fello, Solo in pensar di voi la mente ac ſueto,
E vedrà nostra etate iniqua e rea Nobil pianta del Sol, che fece acquisto
Cosa non d'oggi e pari al prisco stato. l'er voi d' Apollo e delle sacre Dive.
51a SONETTI

A monsignor Minerbetti, vescovo d'Arezzo. A Giovambatista della Stufa.

Signor, quando la dea falsa e proterva, Stufa, a voi solo e non ad altri ancora
Che volgendo sua ruota, e sua natura Ebbe, ned avrà, credo, invidia mai
Seguendo, in stato picciol tempo dura, Mio cor, che quel bel monte, u'pria mirai
Nè tien patto ad altrui, nè legge serva: L'alma pianta del Sol, vedete ognora.
Reina de men buoni, a gl'altri serva, Deh ! perchè non sono io con voi tal ora
V'assalisce e percuote acerba e dura, Se non sempre costi, dove lassai
Ricorrete a colei, ch' ogn'uorn sicura, Me stesso, è volto il quinto lustro omai,
Onde aveste il bel nome alta Minerva. Ed io tanto ardo, anzi via più, ch'allora.
Ella vi mostrerà che nulla deve E mi torna alla mente il tempo, e 'l loco,
Temer, chi, come voi, Dio teme ed ama Che verde ancor per giovinetto alloro
Vera virtute, e 'l suo contrario abborre. Dolce tutto m' accese onesto foco,
Signor mio caro, in questo corso breve, Per cui, quasi vil soma, argento ed oro
Che i saggi morte, e 'l volgo viver chiama, Spregiato ho sempre, e spregierò quel poco,
Nessun può darvi quel ch'è vostro o tòrre. Che mi resta a compir l'uman lavoro.
Al medesimo. A M. Filippo del Migliore.
Ben pnò, signor, sovra tutte altre altera Già son varcati cinque lustri interi,
Girsen la donna vostra e disdegnosa E 'l sesto al mezzo s'avvicina, ch'io
Poi che là, donde muove e dove posa, L'arbor qui vidi già d'Apollo, or mio,
Altra non vede il sol beltate intera. E parmi, che l'ardor cominciasse ieri.
Per lei convien ch'ogni rea voglia o fera, Quanti dolci sparsi io casti pensieri,
Ogni cura che vil sembri o noiosa, (Sanlo il bel colle vostro e 'l fresco rio)
Ogni basso pensier di mortal cosa Filippo, in questi boschi, eterno obblio
Sol che si miri o pur s'ascolte, pera. In me di quanto il volgo o tema, o speri.
Ch'ella per innalzar l' anime venne Tolgami, priego, il ciel mirar le stelle;
A Dio collo splendor degl'occhi santi, Privi sian gl'occhi miei scorger la luce
E col suon di sua dolce alta favella. Del Sol ; non veggia io mai l'amato alloro,
O voi beato mille volte, e quanti Se più santi desir, s'unqua più belle
Con voi dietro a tal duce ergon le penne Fiamme d'onesto amor pensate foro
Per farsi al ciel sicura strada e bella ! Non che sentite, ovunque annotta e luce.

A monsignor M. Piero Carnesecchi. Al medesimo.

Voi, che quanto ebber mai l'Idaspe e'l Tago Or vorrei io con voi nel vostro caro
Pietre rare, anzi sole e dentro e fuore, E lieto Bivigliam, lungi alla gente
Di chiarezza stancaste, e di valore Viver, ch'al languir mio tremante, ardente
Vincete, tanto or buon, quanto allor vago, Nullo trovar non so scampo o riparo.
Potete sol di voi contento e pago, O dolce colle, o vivo fonte, o chiaro
Ogni terren diletto e falso onore Rivo, dove spirare ancor si sente
Spregiando, in Dio fisar le luci e 'l core Di quell'aura gentil, ſia che presente
Di vera gloria e ben celeste vago. Giammai vi veggia, e te padre Asinaro ?
L' alta beltate e gran virtute vostra, Fia, che disteso sovra l'erba, al suono
Come sa 'l mondo tutto, assai buon tempo Delle fresche acque il ciel rimiri, e dica:
Del ciel sostenne e di quaggiù la salma; Da te viemmi e di qui, se nulla sono.
Onde di voi dirà, non pur la nostra, Mentre vosco, e tra me così ragiono,
Ma ciascuna altra età di tempo in tempo: Tal mi punge dolor, ch'a gran fatica
Bene ebbe questi e bel corpo e bell'alma. Respiro, e del più viver m'abbandono.

Al signor Ruberto Nobili. Al medesimo.

Odi, nobile pianta, altero e raro O d'ermo poggio sacre, verdi, eccelse
Germe disceso da quel sacro monte, Chiome, d'ogni mio affanno ampio ristoro,
Ch' in ombra il mondo tutto e colla fronte Poi che scorsi tra voi quel dolce Alloro,
Sostiene il cielo, a lui che 'l cuopre, paro: Che alto sostegno, amor casto mi scelse.
Nè così lieto mai, nè così caro E sola a mc più, che mille armi ed else,
Crebbe verde arboscel presso un bel fonte, Cara dal di che tue chiare onde foro
Come in voi di di in di, s'alcun ben conte, Specchio a quell'alma pianta, onde 'l bel coro
Crescono i giorni e le virtuti a paro. Gradite frondi alle mie tempie avelse.
Tal che l'Arno s'allegra e non pur brama, O sovra ogn'altra e valle e piaggia e piano, V,
Ma spera, signor mio, coll' alta Roma, Da che l'aureo mio germe in te si giacque
Che già buon tempo ogn'orv'aspetta e chiama, Fecondo, aprico, ombroso Bivigliano,
Di porpora, ch' a voi fia degna soma, Quando potrò gl'arbori vostri e l'acque,
A noi gioia, al gran Padre eterna fama, E i frutti e i fiori e l'ombre almen lontano
Cinta vedervi omai la dotta chioma. Mirare, e dir quanto di voi mi piacque º
PARTE PRIMA 5 13
A M. Antonio Landi. Al signor Giordano Orsino.
Di quel ch' esser dovea quasi indovino Signor, quel chiaro, antico, alto valore,
L'altrº ieri Anton, mentre alla vostra Tana Del padre e tanti invitti avoli vostri,
Fui vosco intorno alla gentil fontana, Non pure eguale in voi par che si mostri,
Di dolce degna e prezioso vino. In così verde età, ma via maggiore:
Or le mani, or le labbra intento e chino Onde al più saggio duce e più migliore,
Bagnava sempre, e sentia non umana Ch'unqua regnasse ne terreni chiostri,
Dolcezza in lei, cui chiara, fresca e sana Specchio in uno e terror de' giorni nostri,
Cede Dirce, Aganippe e Caballino; Sete più presso e più caro a tutte ore.
Ch' or non ha pietra si lucente e bella Quel ch'i ben saldi e più sicuri petti
Tutto'l vostro gemmajo, nè l'Indo o'l Gange, Spaventa in mezzo l'onde or ferro, or fuoco,
Ch'io non cambiassi a lei solo a vedella : Orambi insieme, a voi par riso e gioco:
Mentre tal neve e foco, entro e fuor m'ange, A voi, che notte e di cercate, poco
Che se non parte o'l sido, o la facella, Curando tutti gli altri uman diletti,
Per forza converrà, che 'l viver cange. In terra fama e 'n ciel fra gli dei loco.
A Giorgio Bartoli. Al signor Carlo Orsino.
Ancor che forse, o per mio duro fato, Signor, ch'al padre ed avo e a tanti e tanti
O per lungo silenzio d'ambe duoi, Valorosi campion del sangue vostro
Come è cresciuto in me, gran parte in voi Già tante volte e tante egual dimostro
Sia quel cortese amor vostro scemato; Vi sete, agli altri lungo spazio innanti ;
Se sapeste però mio basso stato, Qual sarà mai, che degnamente canti,
E quanto il viver più mi grave e noi, Nuovo tra noi di Marte e chiaro mostro
Direste e con sospir: Varchi, tu puoi L' alta vostra virtute o lingua, o 'nchiostro,
Dolerti a gran ragion d'esser mai nato. Cui non è pari, e non fu certo innanti?
Deh ! chi mi tien, ch'io non discioglia il nodo I pensier vostri e le parole e gli atti
Alla lingua ed al cor, sì ch'io vi veggia Son tutti, e sempre o vegli il core, o dorma,
Sospirar del mio mal, piangendo meco ? Tra l'armi in mezzo alle nemiche squadre.
O mia fede, o mia stella, o mondo cicco, Quante fate al di chiaro ed all'adre
Di voi m'attristo e lagno, o vada, o seggia, Notti da voi, come da leon torma,
E d'una pianta sol m'allegro e lodo. Gli avversari fuggir vinti e disfatti?
Al Conte Claudio Rangone. Al signor Chiappino Vitelli.
Speme ed onor del secol nostro aſſlitto, Or che l'alto valor, che da' vostri avi
Ch' onorate egualmente Apollo e Marte Tanti e si grandi in voi si chiaro luce,
Empiendo or d'alti e bei pensier le carte, Conto v'ha fatto al mondo, ed a quel duce
Or combattendo tra i nemici invitto : Caro, ch' alzando i buoni, atterra i pravi;
Nullo al vostro valor non fu prescritto Per la Liguria e noi da così gravi
Termine o tempo, onde in ciascuna parte Perigli trar, ch' irato ciel n' adduce,
Saranno, e 'n ogni età palese e sparte Con fortuna compagna e virtù duce,
Vostre lodi si belle e fia ben dritto ; Salite invitto le vittrici navi.
Ch'altro han quaggiù tanti onorati affanni Che potrà l'Aquilon? che l'empio stuolo
Condegno guiderdon, che farsi conto D' Oriente ristretto in picciol chiuso
A quei che nasceran dopo mille anni? Contra le forze di si gran Vitello?
Seguite dunque, che quegli alti danni, Cirne, io già vedo, volge mesta il duolo
Ove correte, Rangon mio, si pronto, In riso, il Gallo folle e 'l Barbar fello
V'innalzeranno ai più sublimi scanni. Questi al fin vinto, e quel vinto e deluso.
Al signor Stefano Colonna da Palestrina. Al signor Don Pietro di Toledo.
L'antiche glorie e quel chiaro immortale Or che l'iniquo ed orgoglioso, ed empio
Valor di ch'andò già si il Tebro adorno Nemico nostro e di Gesù, nasconde
Per voi, salda Colonna, in voi ritorno Di navi i monti, nuovo Serse, e l'onde
Han fatto a nostri guai scampo fatale. D'armi per far di noi crudele scempio;
A voi sol non di voi, ma d'altrui cale Voi, che d' ogni valor nasceste esempio,
Bel pregio a questa etade, all'altre scorno, Con l' aure tutte ai bei desir seconde,
Che già mille anni e più non vider giorno, Movete, signor mio, ch'a voi sua fronde
Ch'ora al vostro apparir s'aperse tale. Apollo, e voi don' vincitore al tempio
Voi mille volte al maggior uopo avete Tosto darete; e degno e ben che tolga
Or col senno difesa, or colla spada A noi la tema, a rei l'ardir colui,
La bella e tanto afflitta Italia nostra; Ch'è dell'alto Toleto e germe e gloria.
E ch'ella vecchia e 'nferma omai non cada, Dunque le prore omai certa vittoria
A voi deve, a voi sol, che colla vostra Per voi del toscan duce, sotto cui
Virtù vivo il suo nome ancor tenete. Si vince sempre, in Oriente volga.
VAii Ulli V. l. º
5 i4 SONETTI
Al signor Jacopo Appiano, signor di Piombino. A Francesco d'Ambra.
Voi ch'all'antica Populonia, donde Caro, dolce, cortese e gentile Ambra,
Tutto signoreggiate il mar Tirreno, Per cui la dotta schiera, onde s'onora
Nella più verde età reggete il freno, Oggi Fiorenza, qual gemma s'indora,
Frate al gran duce delle tosche sponde: O seta inostra, ognor s'imperla e inambra:
Or che mercè di lui, per voi seconde In voi, come talor festuca in ambra,
Gira sue ruote lei, ch'al fin vien meno Bontà si chiude, e fuor traluce, ch'ora
Contra virtute, ben potete appieno Poco si stima, e vederiasi ancora
Rallegrarvi, e con voi la terra e l'onde: Correre al par d'Arno e del Tebro l'Ambra;
Sol l'empio Scita contristarsi, e solo Se non che rea fortuna ed uso vile
Batter la fronte a sè medesimo deve D'esto secol malvagio avaro e fello,
Chi fa suo ben dell'altrui danno e duolo. Ad altre cure vi rivolge e tira ;
Così sparir da tutti lidi in breve Ben può dolersi colla tosca lira
Veggio per voi ciascun nemico stuolo, Il socco, che per voi veniva bello,
Come face a gran Sol picciola neve. E quanto il roman forse alto e gentile.
Al signor Don Garzia di Toledo. A M. Giorgio Dati.
Voi, ch'al bel nome e doti vostre eguale Giorgio, che colle pure vostre e ornate
Grazie avete dal ciel, chiaro signore, Toscane prose, se non senza pare,
Il cui d'armi e di senno alto valore, Quanto altre ancor tra noi leggiadre e care,
Contra i nemici di Gesù fatale. A voi vita, a noi gloria eterna date:
Nacque, e per non servar tutte le scale, Dch ! se 'l pro nostro e vostra lode amate,
Ch'al sommo guidan d' ogni vero onore, L'opera altera, onde 'l latin volgare,
Virtù vostra e mercè del gran Fattore, Moderno adegui il prisco e singolare
Saliste dianzi, e vi feste immortale; Divenga, al mondo omai palese fate.
C)nando il barbaro stuol, che tanto ardiva, Non taccia più nel bel nostro idioma
Quasi vil gregge, con tal danno e strazio Chi scrisse il ver, da che partì colui,
Seguire infin dentro 'l suo chiuso osaste; Che tre volte di lauro ornò la chioma:
Ben convien palma a voi, quercia ed oliva, Voi solo a così grave e ricca soma
Ch'a sì grand'uopo, in si picciolo spazio, Forte con proprio stile e tema altrui,
Ancideste i nemici e noi salvaste. Far potete Fiorenza eguale a Roma.
Al signor Gabriel Moles. A M. Bernardo Giusto.

Mentre voi, quando in onde e quando in terra, Bernardo, giusto è ben, che quella dea,
Caro di Marte e delle Muse figlio, Che dee reggere il tutto, e già vi diede
Moles, or colla mano, or col consiglio L'opere e 'l nome, con sincera fede
Mostrate in pace il valor vostro e 'n guerra: Sia da voi colta e con quel duce stea,
Io, come chi volontariamente erra, In cui, quanto ognor più questa empia e rea
Il miglior vedo, ed al peggior m'appiglio, Età, che d'ogni vizio in cima siede,
Nè so da questo basso e duro esiglio La spregia e scaccia, onor più degno e sede
Lassù levarmi, ove ogni ben si serra. Tanto truova maggior l'aſſlitta Astrea.
E se non fosse un vivo, altero Lauro, Senza costei, cla'al ciel solo ne guida
Che mi scorge del ciel dritto il sentiero, Da questo mar sì tempestoso, fora
Già passa il quarto e ventunesimo anno: Quasi spilonca di ladroni il mondo.
Ben fora il morir mio senza restauro, Beato voi, e chi con voi tuttora
Dove or solo per lui vivere spero, Leale adopra, e solo in Lui confida,
Che rivolge in profitto ogni mio danno. Che fece e muove l'universo a tondo!

Al signor Mario Savorgnano. A M. Piero Angelio da Barga.


Mario, che non men buon, nè manco saggio Angelio, che con largo e puro fiume
Del gran genitor tuo, ch' alle nemiche D' alta eloquenza e la dottrina e l'arte
Schiere con giovin forza e voglie antiche, Or delle greche, or delle nostre carte
Contese il monte, e fu d'alto coraggio: Scoprite, quasi sol che notte allume ;
Lasci altrui dubbio in si nobil paraggio Molto mi piace, che si bel costume
Quai più ti sian l'armi, o le Muse amiche, Antico rinnovar cerchiate, e parte
Tanto par, che di pari ognor fatiche Celebriate quel dì, ch'a voi fe parte
Crescere in ambe con egual vantaggio; Primo dell'aura dolce e vital lume.
Così gli ardenti tuoi desiri e l'alta Ben conveniva al buon Manuzio il vostro
Impresa d'ardir piena e di consiglio, Canto, a me no, che così lungo spazio
Conducano al suo fin Minerva e Marte; Precorre gli altri, ond'io più vi ringrazio:
Come la mente mia, da cui non parte Nè men vi prego, che'l tempo e l'inchiostro
Di cotal padre mai cotanto figlio, Volgiate all'opra del gran Cosmo degna,
D'averti amico in sè stessa s'esalta. Che dei re l'arte e l'esercizio insegna.
PARTE PRIMA 5 5

A Maestro Francesco Lacomi da Montevarchi. A M. Vergilio Vergilii.


Diletto almo terren, che da bel rio Vergilio, ancor mi sta nel cor l'imago
E da fecondo monte varchi all'acque Del caro frate vostro, ch' amor diemme
Dell'Arno, u'prima il mio buon padre nacque, Dolce compagno e fido: ancor sovviemme
E 'l chiaro frate, oimè, poscia morio: Quanto ei fu non men buon che bello e sago.
Ben dee gradirti il mondo tutto, ed io Dopo tanti anni ancor del lieto e vago
Sempre 'nchinarti, poi che'n te (sì piacque Urbin vostro l'aspetto, e quanto femme
A Dio) nuovo Esculapio in cuna giacque D'onor sua dotta schiera, a mente vieinme,
Del secolo oggi e gran tesoro mio; E sol della memoria ancor m'appago.
Questi è quel gran Francesco, a cui natura Nè verrà tempo mai, Fiesole sallo,
Sè stessa aperse, e fu sì largo il cielo, Mugnone e tu, che voi dell'alma fore
Ed ei tanta arte giunse e cotal cura, O mi tragga del petto il mio buon Gallo;
Che quanto seppe chi fermò già Delo, Gallo, di cui per sue virtuti nuove,
Contra colei che solo i corpi fura, Tanto mi cresce d'ora in or l' amore,
Tutto gli si scoprio, tolto ogni velo. Quanto alber, cui rio bagna, aura non muove.
A Maestro Guido Guidi. A M. Alessandro Lenzi.
e

Guido, ch'al sommo di quell'arte guidi Lenzi, perch'io in loco alpestro ed ermo,
Ch'ormantien sani, or toglie i corpi a quella, Dove lungi da voi gran tempo giaccio ,
Ch'al fin tutti gli sface ingorda e fella, Tra fieri venti e quasi eterno ghiaccio
Quasi alto lume e chiaro agli alfei lidi; Contento viva ognor più lieto e fermo ? ,
L'opera che di nuovo ordita vidi Qui meco stesso a passo non infermo,
Al subbio tuo non men dotta che bella, Sciolto dal mondo e d'ogni umano impaccio,
Ovunque luce la maggiore stella, Varco sovente in parte, ov'io procaccio
Soli t' acquisterà perpetui gridi. Agli affanni quaggiù riparo e schermo.
Perch' io non teco pur, ma soglio ancora Quivi mi mostra il ver, ch' amar mortali,
Col grande Arno allegrarmi e con coloro, Cose, qualunque sian, gemme, oro ed ostro,
Che dopo noi di mano in man saranno. Men si conviene a chi più pregio brama.
Tu più bel nome; ei maggior gloria ognora, Quindi imparo a spezzare i duri strali ,
Essi, come alle piaghe, ai morbi loro Della gente, che 'l danno e biasmo nostro
Per te vero rimedio e certo avranno. Cerca via più, che l'util proprio e fama.
A M. Tommaso Ferrini. A M. Adovardo Gualandi.
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Ferrino, a cui non pur la lira e 'l canto Mentre con petto disdegnoso e turba
Col bel sembiante suo, ma i sughi e l'erbe, Fronte mirando or l'alto Ibero, or Senna,
Onde si toglia l'uomo a morte, e serbe Fiere dal quinto ciel, non pure accenna
In vita, Apollo die con egual vanto: Quel Dio che terra e nar scompiglia e turba:
Or che 'l buon Guidi mio, da voi cotanto Voi fuor delle cittadi, e dalla turba -

Amato, è fuor dell'empie mani acerbe Vile lontan, con quell'ali che 'mpenna
Di lei, che l'umili alme e le superbe Studio e fatica, ozio e pigrizia spenna,
Involve insieme entro 'l suo negro manto; Volate u nulla vi spaventa e sturba,
Sgombrate il petto d'ogni tema, e meco Aduardo gentil, per cui l'altera
Grazie rendete a quel Signor, che seco Stirpe vostra e d'antica etrusca Alfea
L'aveva quasi, e a noi lasciato l'ave. Degli andati onor suoi gran parte spera;
Ben perdea l'Arno questa volta, e l'arte, E tal quindi tornate, che se fera
Che sana i corpi, onde ancor trema e pave Invidia, o mai v'assal fortuna rea, ,
Mio cor, degli onor suoi la miglior parte. Riportate di lor vittoria intera.
-
- -

A M. Vincenzio Laureo. Ad Antonio Vecchietti.

Vincenzio, ch'io col vostro alto e felice Or che 'n sì dure e si contrarie tempre,
Cognome impresso e sacro, entro il cortegno, Come fossero un sol luglio e gennaio,
Per rimembranza del mio verde legno, Son dentro foco, e fuor di ghiaccio paio,
Che guerra a tutti i pensier vili indice: Quasi uom, cui fiamma e giel tutto distenpre:
Che quel gran Fiorentin, che cantò Bice, Perch' alquanto l' ardor si scemi e tempre
A tutti gli altri di dottrina e 'ngegno, Penso il bel fonte, e 'l suo chiaro vivajo,
Poniate innanzi, anch'io vosco convegno, U'pria mirai quel leggiadretto e gaio
Che con forza maggior nessun m'allice. Satirisco, ch'al cor starammi sempre.
Nessun, ch'io creda, in nessun tempo e loco E mi sovvien della fresca ombra, dove
Più altamente nè trovò, nè meglio Col mio Carin, per acquetare il duolo
Dispose, con parlar proprio ed ornato, A non grato pastor, Delia cantai:
Quel ch'è, quel che sarà, quel ch'era stato, Col mio Carino allor, che poscia altrove
Tutto nell'opra sua, come in un speglio, Rivolse i passi, ed io, chi ſi pensò ma ?
Ben chiaro appare, e nulla dico, o poco. Per far senno e ragion, ristetti solo.
5 16 SONETTI

Quando menerà il Sol quel lieto giorno, Tutto quel che nel cor mi spièce e pesa
Che dal foco gelato e ardente gielo, Caro fassi e leggier, qualvolta l'onde
(Perch'io sì spesso in uno avvampo e gelo) Tue miro, u' fui colla mia casta fronde,
A te, Parnaso mio, faccia ritorno? Cara, vaga, leggiadra altera Pesa.
E nel tuo verdeggiante, alto soggiorno, Nulla d'invidia o di fortuna oſſesa
Donde, quel sacro e si fiorito stelo Sento, mentre a giacer per le tue sponde
Veduto appena, spiegai l'ali al cielo, Mi sto pensando, come io possa o donde
M'assida lento a fonti e ad ombre intorno ? L'età mia ricovrarsi male spesa.
Verrà mai il di che di sì scuro e tristo Pria, ch'io vedessi in loco alto e silvestro,
Aer mi schiuda, ed al giocondo e chiaro La mia pianta del Sol, ben fui nel mondo
Tra dolci acque mi renda e verdi colli? Non breve spazio, ma non vissi mai.
Gradito, Asinar mio, Fiesol mio caro, Ella o mio cor, dal sentier manco al destro
Non ho ragion, s'a voi lontan m'attristo, Mi volse, e te di grave inutil pondo
Cui sempre vivo e sempre morto volli ? Lieve fece e gentil, quanto tu sai.
A M. Gieronimo Trotti. A monsignor Lenzi.

Nè loco alcun fia mai, nè verrà tempo, Ben potete, signor, l'aurata testa
Che mi smuova dal cor, non dico sterpe, Di non domo vitello antica insegna
Quella casta, onorata e sacra sterpe Portar degl' avi vostri, onde s'insegna,
Ch'Amor dentro piantovvi, ha già gran tempo: Ch'a voi domar fortuna aspra e molesta,
Anzi quanto io di dì in di più m'attempo, Nulla non vale; anzi quanto più infesta
Qual salubre venen d'amico serpe, V' assale, e maggior dar colpo disegna,
Che per le vene dolcemente serpe, Più la fronte ver lei drizzando, indegna'
Tanto cresce l'ardor di tempo in tempo. Di far piaga la fate, agra e funesta.
E mi nutrica si soave, ch'io E bene spesso il braccio indietro tira,
O per natura o per usanza schivo E talor fugge, o si dimostra amica:
Ogn' altro cibo, e sia qual vuol, disdegno. Tal paura ha di chi di lei non teme;
E se la possa agguagliarà 'l disio, Io sotto l'ombra vostra per antica
Quando 'l corpo sarà di spirto privo, Usanza nulla prendo o tema, o speme, Ali

Tutto 'l mondo saprà, qual marse legno. Se soffia irata, o se ridente spira.
Per lo reverendissimo padre Fra Marcantonio A M. Lodovico Capponi.
da Brignano.
Voi, che picciola terra, anzi il vil fango Lodovico, io non credo, e credo il vero
Pregiate sì, che più di lei vi cale Creder, che colle mai più vago e ameno,
Sola, che di quel re che tutto vale; Più di pastori e caste ninfe pieno,
Ed io fui vosco, onde or m'attristo ed ango: Fosse del bel vostro Montughi altero,
Mentre i gran fallo mio conosco e piango, Costi dell'alme ogni più tristo e nero
Per partirmi da voi spiego ognor l'ale; Pensier disgombra il ciel lieto e sereno:
Ma si intricate l'ha visco mortale, Costi l' erbe di fior, d' erbe il terreno
Ch'io caggio sempre, e pur con voi rimango. Pinto, fan dolce ogn'aspro ingegno e fero:
Perch' io conforto quei che sono in via, Costi nessun desio, nulla me preme
Che più per tempo al ciel drizzino i vanni, Vana tema, o sperar: costi sol pruovo
Seguitando chi Pietro e chi Maria. Diletto tal, che poi ridir non solo:
Felici schiere che per brevi affanni Costi le Muse e l'alme Grazie insieme -

Ad eterno gioir si fecer via, Cantan mai sempre a voi d'intorno, o nuovo
E cangiar con mortai celesti danni ! Di beltà, d'anni e di virtuti Apollo.

A M. Donato Acciajuoli, cavaliere di Rodi.


Ben sete voi d'alta bontate e senno Come posso io non arder sempre, e tutto
Raro, Donato signor mio, che quelle Per la mia pianta, o Sol, se dalle sue
Opre, che 'l vostro tante e così belle Frondi ebbi sempre, a cui par mai non fue
Gran Siniscalco e gl'altri avoli fenno, Dolci ombre, amico odor, bei fior, buon frutto?
Rendete al mondo, o quanto a lor già dienno Ben fora ingrato e disleale in tutto
Con faticoso studio amiche stelle, Se l' onorate, verdi foglie tue
Oggi a noi date, onde si rinnovelle Stessi d'amare e riverir fra due,
Quella fama e virtù ch'io solo accenno. Che m'ebber sole a leggiadre opre indutto:
Che se fosse d'acciaio la lingua mia, Tal che se 'l Sol della mia vita il giorno
Donde voi 'l nome avete e 'l petto ancora Anzi vespro non chiude, ove non dorma
Contra fortuna, non però porria Amor, bel pregio avrai, ben colto Allorº º
Dir quanto l'Arno in voi sè stesso esalta; E di me forse udranno e l'Indo e 'l Moro:
E ben felice sovra gl'altri fora, Questi fu certo in questo uman soggiorno
Sº non cagiaste mai Fiorenza a Malta. De'celesti amatori esempio e norma.
PARTE PRIMA 517
A monsignor di Fermo. Al medesimo.

Se mai, signor, tempo verrà, che forse Alto signor, che 'l gregge umano e 'l gregge,
Non è lontan che la virtute e 'l vero Di Dio ne' primi vostri e più verdi anni
Possan, quanto poter dovriano, io spero Senza falli guidasse e senza inganni,
Si falsa opinion del mondo torse. Onde alzarvi trofei questo e quel degge;
Me certo, e voi 'l sapete, altro non torso Colei che senza impero e senza legge
Dal comune sentier, che quel sincero Dando a'rei gioia, ai buon'pene ed affanni,
Cortese, alto, di voi casto pensiero, Tornando amaro il dolce, utili i danni,
Ch'al ciel per piana via dritto mi scorse. Il mondo cieca e forsennata regge ;
Com'avrebbe mio cor potuto mai Può ben torvi di man le chiavi e 'l freno
Spuntar, non che soffrir tanti e si gravi Di lassuso e di qui, ma non già farvi
Di rea fortuna e fera invidia strali? Men caro al ciel, nè men pregiato a noi;
Quel santo di, che voi tra vive travi, Vivete pur, chè tosto ella vien meno;
Sopra ermo monte, in sacro ostel mirai, Ma virtù dura sempre, onde inchinarvi
Tutte spregiar gli fed cure mortali. Vedrem dall'onde Esperie ai liti Eoi.
A M. Bartolomeo Panciatichi. Al medesimo.

La più verde, più sacra e felice ombra, Signor, che 'l secol nostro, come suole
Mio refrigerio sola e mio ristoro, Zefiro i prati alla stagion novella
Del più frondoso e più fiorito Alloro, Tornaste, e Roma vostra ornata e bella,
Ch'odor già mai spargesse o gittasse ombra Perch'egli ed ella umil v'inchina e cole:
Di sì alti pensier l'anima ingombra, - Qual fora il ciel, s' oscura nube il sole
E tal le dona ardir ch'io mi rincoro Velasse tutto e sua chiara sorella ;
Essere un di, s'io vivo, un di coloro, Tal oggi è 'l mondo, mentre ch'atra e fella
Che de' bei rami suoi la fronte adombra. Nebbia cuopre le luci altere e sole
E porrian forse lungo tempo meco Della più casta e più leggiadra donna,
Viver, quando io sarò spento e sotterra, Che mai formasse di sua mano Amore,
Fiesole ed Asinar, Mugnone ed Arno. Ch'or piange tristo i suoi turbati nidi.
Allor vedrebbe il volgo errante e cieco, Ed ella : Già non fia che 'l mio signore,
Che togliendo a sè pace, altrui dà guerra, Dice, d'ogni valor salda colonna,
Quanto per cosa vil fatica indarno. Non veda sempre, come sempre vidi.
Al cardinal Farnese. A M. Bernardo Cappello.
Sacro monte superbo, onde discese Con voi ringrazio il ciel, meco m'allegro,
La pianta, ch'ognor più crebbe e fiorio Bernardo mio, che di sì trista e bruna,
Ben puoi per sempre porre oggi in obblio Si lieta avete e si chiara fortuna,
Gli antichi danni e le novelle offese: Quanto dolente allor, tanto oggi allegro,
Poscia che 'l grande e non men buon Farnese, Già vi vidi io più d'altri afflitto ed egro,
Che nato a pena, la magion di Dio Mentre al vostro signore, in cui s'aduna
Sette e sette anni al buon tempo ed al rio, Quanto è raro e gentil sotto la luna,
Prudente governò, forte difese, Non era il voler suo libero e 'ntegro,
In te si spazia, in te lieto dimora; Or che 'l gran padre all'alta Roma l'ave
L'aer tuo, l'ombre tue, l'aure tue loda, Renduto, che pur lui con voce mesta
E te di sua presenza orna e rischiara: Chiamava ognor da tutti sette i colli;
Scendi dall' alta cima, e tal che s'oda Non più del duol, ma per dolcezza molli
Da lungi, il sacro piè baciando onora, Gl'occhi vi veggio, onde ogni acerbo e grave
Fiesole, e chino ad adorarlo impara: Anch'io depongo, anzi rivolgo in festa.
Al medesimo. A M. Angelo Perozio da Camerino.
Signor, cui gran fortuna e gran virtute Angel, sceso tra noi di paradiso
Dieder fin dalle fasce, o poco meno Con quelle grazie che lassù si danno,
Del ciel le chiavi in man, del mondo il freno, Or che l'altrui sospetto e 'l nostro affanno
Cose di rado, anzi non pria vedute : Cessati sono, anzi tornati in riso;
Tutte le lingue paventose e mute, Per voi si scriva, come mai deriso
Tarde tutte le penne e scarse fieno Non fu dritto pregar nell'alto scanno:
A dir di voi, che sol, per dirne il meno, Non cessò l'altrui tema, e 'l proprio danno
A voi gloria nasceste, a noi salute. Quel dì che 'l vostro e mio signore assiso
Qual più degno al maggior de sacri eroi In loco sacro e dinanzi a colei
Trovar poteva il più gran padre albergo, Stava, che partori nostra salute,
Ch'appo 'I miglior che mai regnasse duce? Pregando il fin di tanto indegni mali ?
Sperate pure in quel Signor, che i suoi O dagli uomini amata e dagli dei
Non abbandona mai, se bene a tergo Ben sei tu sola, e con ragion, Virtute,
Talor gli lascia, mentre u' vuol gl' adduce. Che' tutto in cielo e 'l tutto in terra vali.
518 SONETTI
A M. Annibal Caro. Al reverendissimo padre don Silvano,
romito di Camaldoli.
Caro, io non so ben dir qual maggior sia, Qual fu cor tanto mai debile e 'nfermo ?
Da che si fera e torbida tempesta Qual sì fero o si folle? qual si avvinto
Passata è tutta, anzi è cangiata in festa, Ne terren lacci ? qual si forte vinto
Il piacervostro o la letizia mia. Dal costume ch' è solo offesa e schermo ?
Ben può fortuna ingiuriosa e ria Che 'n questo alto silenzio, alpestro ed ermo
Essere un tempo ai buoni aspra e molesta, Di mille abeti mille volte cinto,
Ma nel fin vince sempre, e 'n sella resta D'ogni cura mortal per sempre scinto;
Virtù, cui saggio cor mai non obblia. Non si rendesse a Dio costante e fermo ?
Come poteva il maggior padre vostro, Io per me quanti miro o volti o celle,
Che serra ed apre a suo volere il cielo, Tanti parmi vedere angeli e cieli,
Mentre giusto e pietoso in terra regge, E tremo tutto in disusato ardore.
Non rendere a sè stesso e al Tebro il vostro Deh ! qualcuna di voi, sante alme e belle,
Sacro signore e mio, che 'l cristian gregge, Seco mi tragga fuor del mondo, e celi
Quasi in fasce guardò, non ch'anzi il pelo? In questo sacro e solitario orrore.
Al reverendo frate Girolamo Baldeschi,
A M. Gandolfo Porrini.
detto il Diruta, metafisico.
Come quando da noi la sera parte, Sopra altissimo giogo, in cima un erto
Per gire al nido suo l'almo splendore, Scosceso monte, assai presso alle stelle
Ogni cosa s'attrista, e quasi muore, Per duro scoglio in mille abissi aperto,
Chiuse entro fosche e ben romite celle,
Quanto s'alluma la contraria parte;
Così l'Arno vidi io rimaso, e in parte Anime alberga oscuro aspro diserto,
Ch” a Dio dilette obbedienti ancelle
Scorsi i miei danni nell' altrui dolore,
Poscia che 'l vostro e mio chiaro signore Seguon lui, ch'ivi, di sua fede certo,
Al Tebro il lume suo volge e comparte. Chiese le piaghe e meritò d'avelle (1),
Io vi giuro, Gandolfo, che con gli occhi Qui il buon Mendozza e la sua bella schiera
Pareva ciascun dir bassati in terra: Colma d'ogni virtute il gran mistero
Dove n'è gito il Sol de giorni nostri ? Contempla, e meco il Fattor suo ringrazia:
E dicean ver, chè quanto a noi si serra Nuovo amor, raro pregio, unica grazia
Di pellegrin sotto gl'eterni chiostri Imprimer sè come suggello in cera,
Tutto par ch'a lui sol per grazia tocchi. Anzi in altrui passar pur vivo e vero.
A M. Lelio Bonsi e M. Lucio Oradini.
Lelio e Lucio, che d'anni e d'ardor pari
Fiesole antica, che dal vecchio Atlante Di torvi a quella, a cui di nulla incresce,
Forma prendesti, e da leggiadra e bella L'aspro sentier, che sì dolce riesce,
Ninfa il bel nome, ch'a l'età men fella, Ambo salite ognor con passo pari,
Fu tal che quasi spenta ancora ten vante: Foste voi qui tra colti colli e cari,
Tua figlia e donna con chiaro sembiante Dove Solon che d'alto e bel fonte esce
Mira oggi, qual pia madre e fida ancella, Perde se stesso e l'onde all'Arno cresce,
Poi che del gran Mendozza or questa or quella Che del gran frate suo corre oggi al pari!
Parte calcan di te le sacre piante. Perchè veder, com' io, poteste quanta
Questi cui sol vera virtute appaga, Bontade e senno entro e di fuor risplende
Pien di filosofia, la lingua e 'l petto, Nel sacro eroe, di cui Burgo si vanta;
Nobiltà poco e men fortuna estina. Mentre egli or grazie a Dio divoto rende,
Dunque con lieto e riverente aspetto, Or pensa, orparla, or legge, orscrive, or canta,
Inchinandoti umil dall'alta cima, Or l'ore meco e le parole spende.
Baciagli il piè dell'avvenir presaga. Al cardinal Mendozza di Burgos.
A don Miniato Pitti. Come potea non piangere anzi, e poi
Non tornar lieto il ciel, sacro signore,
Sopra erto poggio, fra monti aspri, al piede Mirando voi di lui pregio ed onore
Girven tanto lontan dall'Arno e noi?
D'orrido scoglio, d'ombre ricca, donde
Suo nome prese e di freschissime onde, Ben turbar si dovea, se non de' suoi,
Verde, fiorita, ombrosa valle siede : De' nostri mali irato, e poscia fuore
Nella cui cima, sacra antica sede Mandar più che mai chiaro ogni splendore,
D'anime care a Dio, tra prati e fronde Per toglier danno e dispiacere a voi.
D'abeti, al suon di bell'acqua s'asconde; Nuovo non è, ch' anime clette e rare
E non veduta immenso spazio vede. Privilegi talor fuor d' uso umano
Quindi non lunge sopra alpestro e fero Quel sommo Re che le governa e regge.
Sasso, tra molli erbette appo un bel fonte Fermò lassuso il Sol, quaggiuso il mare
Sorge al ciel santo e solitario ostello. Seccò, quando a lui parve; e chi dea legge
Da questo il gran Mendozza, albergo intero A quella sola, onnipotente mano?
Di virtù, mira, ed io seco oggi il monte, (1) Intende di S. Francesco d'Assisi e delle sue Stini
Che dal volgo partimmi errante e fello. malc. (M.)
PARTE PRIMA 519
Al cavalier Rosso. A M. Sforza. Almeni.

Rosso, qual uom, cui sia prccisa e mozza O se del viver mio l'ultima parte -

La strada, o perda la sua fida scorta, Fosse, Almenio, sì lunga, e 'l bello Dio
Tal rimasi io con core e vista smorta, Eguale al gran soggetto e al voler mio
Nel quinci dipartir del gran Mendozza; Ne desse col saver l'ingegno e l'arte:
In cui con tal bontà, tanta s'accozza Come altamente e degnamente in carte
Dottrina e cortesia, ch'altrove è morta, A l'alto e degno Cosmo il giusto ſio,
Che solo al valor suo degna si porta Cortese no, ma conoscente e pio,
Invidia in questa età fallace e sozza. Pagherei lieto, e forse grato in parte !
Fu cieco il Tebro a così chiaro lume; Cantando, che di tanti e duci, e regi, -

L'Arno non già, ch'or di lui privo, meco Ch'hanno del mondo in man la cura, e'l freno,
Sospira mesto e sospirando dice: Ei sol dritto l'allenta e dritto il preme.
Piangiam miseri, frate, e tu felice Felice l'Arno e lui via più, che 'l seno
Adria, superbo più d'ogni altro fiume; Grave di quegli antichi e veri pregi
Godi, poi ch'hai l'alto Francesco teco. Di sè stesso sicuro, agli altri teme !
A M. Andrea Angulo. Al signor Cosimo Medici, duca di Firenze.
Con questa a te del gran Mendozza dono, Donna bella e gentil, già oscura e mesta,
Tazza di puro argento e forbito oro, Or chiara e lieta da sì lunghi affanni
Ch'amasti primo quel sì casto Alloro, Per te tolta, a te sol, del gran Giovanni
Da cui solo mi vien se nulla sono ; Figliuol s'inchina obbediente e presta;
Libo io, famoso Apollo, ed a te dono E ripresa col cor l'antica vesta,
Vittima, invece di gagliardo toro, Sovra tutte altre, ristorando i danni,
Questo lattato agnel, ch'al pio lavoro Siede regina, e dai più alti scanni
Di verdi frondi e bianchi fior corono. T” orna di palme l'onorata testa.
Tu fa, lume del ciel, mio canto tale, E tenendo in te gl' occhi, altera dice :
Che degne lodi al buon Francesco renda, Or son, qual fui Toscana; e parte onora
Ch'è di Burgo e di Spagna onore e gloria. Lei, che teco ti parla e guida e regge;
Cotal pregò Damone, e poscia, quale Così dice a Damon pascendo il gregge,
Chi le sue brame e 'l folle ardir riprenda: E 'n quella il ciel tonò. Vivi felice
Non è, disse, da te tanto alta storia. Beata coppia, Cosmo e Leonora.
Al dottor M. Giovanni Pais Al medesimo.

Pais. che di più bello e di più vero, Signor, che per saldar gli antichi affanni
Che non son gemme e perle, alto tesoro, D'Etruria, e trarla al valor suo primiero,
Più ricco assai che 'l Tago vostro d'oro, Eletto a così alto e degno impero -

Lasciate l'ombre, e v'appigliate al vero; Da Dio fosti, e da noi nei più verdi anni:
Per voi più, ch'ancor mai, chiaro l'Ibero Ecco, che d'ogni parte ai propri danni
Corre e superbo, ond'io s'altro lavoro Corrono, e non a tuoi, s' io scerno il vero,
Nol mi vietasse, e men lontan dal coro Per terra Francia, e per mar l'empio e fero
Fossi, dove aspro mena, erto sentiero, Scita con mille frodi, e mille inganni.
Per far mio dritto e parte al nero obblio, Apparecchiati dunque al grande acquisto,
Non voi, ma me furar, ch'a morte volo Ch' io veggio un'altra volta, altra corona
Senza sperar chi di me parle poi Cinger le tempie tue di palma e lauro:
Leggiadro no, ma ben verace e pio E già voce dal cicl per tutto suona;
Direi, che voi del gran Mendozza, solo Che può contrate Cosmo e'l Gallo, e'l Mauro,
Degno eravate, ed ei solo di voi. Se dal tuo lato sta Cesare e Cristo?

A M. Francesco Astudiglio, teologo. Al medesimo.

Anima cara a Dio, ch'altro Parnaso, Invittissimo duce, il cui valore


Altro Apollo, che noi, sospiri, e pregi Non punto men della bontade raro
Più chiari hai, che di mirto, e privilegi Ti mostra figlio al tuo gran padre chiaro,
Cui nè fortuna mai rompe, nè caso ; E degno a tanto impero successore :
Tu pura e dolce, quell'antico vaso Che più certo argomento, e qual maggiore
D'elezion coi tuoi sermoni egregi Segno d'essere a Dio più d'altri caro,
Piano a noi rendi, e fai che inen si pregi Che il vederli ogni di senza alcun paro,
Non quel di Scozia pur, ma 'i gran Tommaso. Quanto felice più, tanto migliore?
Ben può la Spagna alla Cicilia, e Burgo In te non mutò mai quantunque amica
A Tarso omai, se non di par, vicino Fortuna il buon voler, che teco nacque,
Girsen per voi, del ciel sentiero e varco Ben fece al bel disio la possa eguale;
Astudiglio gentil, per cui già scarco Contrate nulla o forza, o senno vale:
Del mio fango mortal tanto alto surgo, Dicalo l'infelice a te nemica
Che presso al suo Fattor l'alma avvicino. Schiera, che dianzi o presa, o morta giacque.
52o SONETTI
Al medesimo.

Signor, che 'l secol nostro afflitto e privo Non pur mesta la vaga e bella Flora
D' ogni vera eccellenza e bel tesoro, Per l'altero suo duce e più ch'umano
Tornato hai lieto e pare a quel dell'oro, Sospira, e prega già più giorni invano,
Il già spento valor racceso e vivo: Ma tristo langue il terren Tosco ancora.
Questo, che 'n foggia disusata ulivo, Voi, che 'n questa mortal breve dimora
Di sè produce trionfante alloro, Curaste i corpi, or dal regno sovrano
Pace t' annunzia, e vittoria da loro, L'alme curate, Cosmo e Damiano, -

Ch'hanno sè stessi, e l'altrui bene a schivo. Che 'l mondo tutto e via più l'Arno onora:
Godi sicuro omai, che nulla deve Ponete mano ai più riposti e cari
Temer chi, come tu governa e regge Sughi, e tornate al valor suo primiero
Col timor di lassù, che da Dio viene; Il signor nostro sì temprato e forte.
Quando più mai si vide ? ove si legge Sì vedrem poi col cor lieto e sincero
Un sì felice augurio ? Ergi la speme, L'illustre madre, e sua chiara consorte
Ch'ogni dur ti fia molle, ogni aspro leve. Empier d'oro e d'incenso i vostri altari.
Al medesimo. Al duca di Firenze.

Signor, d'Italia tutta ampio restauro, Gl'antichi pregi e quei sovrani onori,
Duce, di tutti i regi esempio e gloria: Che già mille anni e più, lasso ! perdei
Doppia ghirlanda il ciel, doppia memoria Terme, templi, colossi, archi e trofei
Di bianca oliva e verdeggiante lauro Querce, mirti, edre, palme, olivi, allori,
Manda a te sol, che contra il Gallo e 'l Mauro In te, frate, più chiari, e via maggiori
In questo luogo e 'n quel doppia vittoria Ritornar veggio tutti; e ben vorrei,
Solo ne riportasti, onde ogni storia Per saldar l'aspre piaghe e i dolor miei,
Cantarà gl' onor tuoi dall'Indo al Mauro : Teco corso e signor cangiar migliori,
E dirà, come la tua gente invitta E rigar là dove il gran Cosmo insieme
Per l'Augusto e per Gesù la spada Con l'alta Donna, ch' egualmente onora
Cinse in un tempo al maggior uopo e tinse, Questa e l'altra sua ricca ultima Esperia,
Perchè la Francia vincitrice afflitta, Agguagliano il desio, non pur la speme,
E 'l barbaro corsal per corta strada Delle genti a lor serve, e regnano ora
Fuggir volando, ove 'l timor gli spinse. Nuovo Numa Pompilio e nuova Egeria.
Al medesimo. Al Colonnello Lucantonio da Montefalco.
S'alla vostra bontate, e a quel natio Tosto che sovra i molli omeri suoi
Valor, che maggior sempre e miglior sorge, Del gran Duce Toscano ai lidi adorni
E qual merti non ha, che dritto scorge Sentir l'ardito legno, a suon di corni
Da darvi il mondo, e questo secol rio; Saltar Teti e Nettuno, e disser poi:
Piacciavi, alto Signor, clemente e pio, Argo novella, che gl'antichi eroi
Per cui la casta etate aurea risorge, E'l perduto valor de'prischi giorni,
Lieto accettar quei che vi dona e porge Giasone, Ercole, e Tifi al mondo torni,
Dal ciel, per man del suo gran servo, Iddio. Per far beato lui, liberi noi;
A mantener nostra ragione e fede Triemi oggi l'Asia paventosa e fella;
Contra l'empie caterve d'Oriente, Fugga l'Africa indietro, chè di loro
Cingete al fianco l'onorata spada: Cerca nuovo Pompeo corone nuove.
Dell'altro (a quel ch'Italia aspetta e chiede Nè fu vano l'augurio perchè in quella,
Felice augurio) coronata vada Non lungi all'Elba con mirabil pruove
La vostra in verde età canuta mente, Fur visti e vinti l'empio Scita e 'l Moro.
Al medesimo. Al duca di Firenze.

Forte, saggio, clemente, alto signore, Saggio signor, come cervetta imbelle,
Ch'a tuoi felici e gloriosi giorni Se vede il fiero lupo e, damma vile
Col prisco Cosmo, e 'l secol d' oro torni Al latrar de' molossi entro 'l covile
Pace, gioia, bontà senno e valore: Fugge tremando, e nulla indi le svelle;
Qual prato dopo il verno, erba, nè fiore, Così l'Affrica dianzi e le rubelle
Tal tu dopo sì lunghi e danni e scorni Schiere a Gesù fuggir cangiato stile;
Il tuo bell'Arno e l'età nostra adorni, Tosto ch' ndir del vostro Orso gentile
Quanto maggiore ognor, tanto migliore. Fremer la voce e rimbombar le stelle.
Chi avrebbe, se non tu dall'empia fame Questi è, dicean, nuovo African, che nuove
Non pur l'afflitto popol tuo potuto, Viene a portar di noi palme e trofei
Ma turbe saziar tante e si grame ? Al suo gran Cosmo, onor d'Italia e spenne.
Chi, se non tu, gl'alti guerrier voluto Ben ha dunque ragion, se tace e teme,
Lasciar, ch'ai lidi tuoi contra lor brame, Ne sa come scampar si possa, o dove
Batte Nettuno a non pensato aiuto? Fuggir l'empia e crudel gli ultimi omei.
PARTE PRIMA 5a1

Alla signora Maria Salviata de' Medici. Al signor don Francesco de' Medici, principe.
- - arr -, a - - - - A
A te, che tanto il Toschi lidi onori, .. Crescete, signor mio, crescete ai vostri
Madre di così alta e degna prole, A volo e padre a tanti illustri eroi
Porgon, piene le man, gigli e viole, Dell' un sangue e dell'altro eguale, poi
Le Ninfe tosche, e sporgonti erbe e fiori; Che vincer non si puon sì, rari mostri,
Che sicure da lupi e da pastori -
L'alto senno e potere, u' lingue, o 'nchiostri
Per mezzo i boschi accompagnate e sole, Non giungono a gran spazio d'ambeduoi,
Mercè del figlio tuo, che così vuole, Germoglia tutto, e già talmente in voi
Sen van liete cantando i loro amori: .- - Risorge, che ben puonno i giorni nostri
Nè mai guidano i greggi ai prati, o sazii Lieti sperar, che dopo non molti anni,
Gli tornano all'ovil, che te ciascuna Quasi fiero leone e gentile agna, -

Non lodi sempre e 'l figliuol tuo ringrazii, Nuovo Cosmo vedrem, nuovo Giovanni. I
Ne men contenti i pastori tutti ad una r Trema tristo il gran Barbaro, e si lagna
Voce, posti in oblio gl'antichi, strazii, D'udire in voi per suoi ultimi danni, o
Benedicono il ciel di lor fortuna. Giunto insieme il valor d'Italia e Spagna,
- 1 o 1 - - - - - - - ,

Per la morte della sig. Maria Salviata de'Medici. Al signor don Giovanni de' Medici,

Donna, che dianzi a tutta Etruria sola Il nome, signor mio, cui trema ed ama
Speme fosti e conforto, or doglia e pianto, Il mondo tutto, che dal toscan Marte
Poi che lasciato in terra il tuo bel manto Padre del padre vostro avete, parte
Mortal, prendesti in ciel l'eterna stola; Vi spigne all'opre sue, parte richiama,
Arno e la bella Flora tua, che sola Già nell'altera fronte ardente brama
mente vivean per te felici tanto, Sfavilla di mostrar la forza e l'arte -
Posti per sempre in bando il riso e 'l canto, In un d'Italia e Spagna; onde le carte
Oscuri e mesti mai nulla consola; -
Empian la terra e 'l ciel d'eterna fama,
Qual può lingua ridir, qual deve inchiostro Ma ben vi prego, signor mio, che tutto
Segnar, quanto ciascun di sdegno e d'ira Non v'abbia Marte, ch'è più bello Apollo,
Carco del fuggir tuo s'attrista e dole ? ) E s'acquista ben pregio altro, che d'arme.
Il gran Duce tuo figlio, e signor nostro, Il gran Leon, ch' apri 'l ciclo e serrollo,
Anzi padre, cui par non vede il Sole, )
A Minerva vi chiama, il cui bel frutto
Con Leonora sua piange e sospira. Vi cinga il crin: lo scudo, il petto v'arme,
() º . . . . º
Alla sig. Donna Eleonora, duchessa di Firenze, Al signor don Garzia de' Medioi,
Donna, che inſin dall'alto e ricco Ibero, º Signor mio, terza al miglior duce speme,
Non curando il tuo vago e bel Sebeto, Terza gloria al bell'Arno e terzo pegno
Per far l'Arno di te superbo e lieto Dell'afflitta Ausonia, ch'al sostegno
Movesti, anzi a bear questo emispero ; º Ferma di tanti, più cader non teme;
Paura di scemar troppo del vero -
In voi tutte 'e grazie e tutte insieme
Fa, ch' io tengo entro il cor chiuso e segreto Le virtù ricco albergo e vivo regno
Quel, che molti anni già tacito e cheto S'han posto, e già da voi producon degno
Cantando vo del valor vostro altero: Frutto di così alto e chiaro seme,
Bettate oltra misura e singolare Già dopo il gran Francesco e il buon Giovanni
Splendor di sangue illustre ed altrettali S ode infin sopra il ciel sonar Garzia,
Doti e tante, che son si rade al mondo, Garzia, terzo ristoro ai nostri danni:
A voi, ver gl'altri ben veri immortali, Garzia, che mostra al cominciar degl'anni,
Son quasi nulla, e sol per altrui care: l Quanto esser deggia e di cui nato sia,
Tanto vi gira il ciel largo e secondo.
-
All'andare, allo stare, al volto, ai panni,
Alla medesima, Al signor don Ernando de' Medici,
Donna, che quanto avea d'alto valore i Ernando, mio signor, né sdegno prenda,
E di vera pietà tutto l'Ibero - Nè duol chiunque voi gradisce e cole,
Giugneste a quanto avea forte e sincero Che non prima, o seconda, o terza prole
L' Italia tutta con eterno amore : Nasceste al duce, ch'ogni fallo ammenda.
Poscia che 'l ciel d' ogni beltate il fiore Chi tanto empio, o sì folle è, ch'ei riprenda
Col fior d'ogni bontate avvinse, io spero Lui, che fa il tutto e sol può quanto vuole?
Veder frutto di voi si dolce e fero, Non men virtù, nè men bellezza ha 'l Sole,
Che quel molti anni già perduto onore Perchè tra gl'altri il quarto lume splenda,
Torni d'armi e di lettre, e regga il mondo Il gran Francesco e'l buon Giovanni e l'altro
Colle virtù d'entrambi, onde ancor sia Che dalle Grazie il suo bel nome prese,
Il viver più che mai bello e giocondo, Ciascun, quanto esser puote, è bello e scaltro,
Dunque legge alle genti e regedia E 'n voi, signor, cotal beltate, e tanto
Con Leonora il gran Cosmo secondo, Saver dal ciel ne' primi giorni scese,
l
Coppia feroce ai rei, quanto ai buon pia, Che ben dubbio farete il primo vanto,
VAR CHI V , , (50
5 22 A SONETTI I
-
e - . A, : : -

Al signor don Antonio Medici. Questo è, Tirsi, quel fonte in cui solea
a - » , “art sia º nº si -
Specchiarsi la mia dolce pastorella: .
Quinta del mio signor prole novella, Questi quei prati son, Tirsi, dove ella
Tri a far liete di te le tue contrade, Verdi ghirlande a suoi bei crin tessea.
Giunto hai, tra mille nato e lance e spade, Qui, Tirsi, la vidi io, mentre sedea:
All'altre quattro la più forte stella: -
Quivi i balli menar leggiadra e snella:
Cade la sozza, afflitta Italia, ancella Quinci, Tirsi, mi rise, e dietro a quella
Oggi, che vecchia e 'nferma langue e cade, Elce s'ascose si, ch' io la vedea.
Anzi al fiorir della tua verde etade, Sotto questo antro alfin cinto d'allori,
Libera ſia per te, gioiosa e bella: a º La mano, onde ho nel cor mille ferite,
E i Tracio re che all'Oriente il giogo Mi porse lieta e mi baciò la fronte.
Posto, il fren porre all'Occidente agogna, All'antro dunque, all'elce, ai prati, al fonte,
E i nostri lidi ognor percuote e spoglia, Mille spargendo al ciel diversi fiori,
come chi ſi danno suo dormendo sogna, Rendo io di tanto don grazie infinite.
Senza punto saver ciò che l' addoglia, i , i a - , º
Piange del regno suo l'ultimo rogo. a - a . - - - -

Filli, deh! non fuggir, deh ! Filli, aspetta


Il tuo Damon, che più che 'i gregge t'ama,
i - - - -- - - - , E se pur di fuggire hai sì gran brama,
f Non fuggir, Filli mia, con tanta fretta.
soNETTI Anch'io il seguir, che più e più s'affretta,
- Terrò, chè sol piacerti il mio cor brama:

PA s T o R A L I
- -
Tu pur via fuggi qual veloce dama,
O cervo che ferito è di saetta.
-

i - - i Rallenta, Filli, oimè! rallenta il passo


i la che le tenere piante o sterpo, o selce
Non t' offendesse al trapassar del rivo.
- -
-

Così dicendo, fatigato e lasso,


- Ai Mess e R Pien d'alta angoscia e d'ogni lena privo,
ot ..a e i - i cadde Damon
i -
rovescio a piè d'un'elce a 1 - a
A N N I B A L C A RO
a M. Domenico Perini ,
Caro, che con illustri e alteri danni a . Cosi sempre fossi io legato e stretto
Dispregiate egualmente argento ed oro, Con Fillide ver me tanto sdegnosa, -

Bramoso e ricco d' un più bel tesoro, Come e questa cdra a questa que cia annosa,
Che non cura del mondo iro nè 'nganni, Che l'avvinciglia il pie, le braccia ei petto.
Questi miei rozzi pastorali affanni , , , , i Mira come anco senza alcun sospetto
D'oscuro e basso stil giovin lavoro, , Quella vite a quell'olmo in grembo posº:
Dono io a voi, che dar potete loro Me Fillide ognor fugge e non è cosi,
Solo, e vorrete, onde non teman d'anni, Che più che 'l suo fuggire abbia in dispetto
f, se fuor del cammin, nè dritto al segno, , Mille fate ho già senza custode
Che sol, deve seguirsi, andato io sono, Lasciato solo il mio bel gregge a i lupi,
s

Fallir forse non ſia di scusa indegno. Che ne fanno ogni di prede sicure.
Voi ch'avete al voler pari l'ingegno, , , , Un capretto, l'altrº ier da queste rupi -

Con più dolce cantate e chiaro suono Vidi io portarne e piansi; ed ella pºre
Quel già d'Apollo, or mio, diletto legno. Superba stassi, e i" mio pianto gode.
A M. Bastiano, profumiere, - e

Cinto d'edra le tempie intorno intorno Filli, io non son però tanto deforme, .
Sopra un tirso appoggiato allor, che 'l Sole | Se 'l vero agl'occhi miei questa acqua dice,
“Spunta dal ciel, dicea queste parole Che tu, che sola puoi farmi felice,
Il buon Damon di mille fiori adorno: Non devessi talor men fera, accorme.
A te, padre Liec, consagro e adorno Non pascon delle mie più belle torme, i

Di bianchi gigli e candide viole, Ne ha più grassi agnei questa pendice:


Questo capro, ch'ognor far tronche suole Ben già, ma non l'intesi, una cornice l
Tue sante viti or col dente, or col corno. Predisse il fato al mio voler disforme.
Così detto, il terren tutto tremante Io vorrei, Filli, sol per queste valli
Sparse di sangue, e con pietosa mano Senza punto curar d'armento o greggº
Le viscere al gran Dio lieto raccolse: Vivermi teco in fino all'ora estrema. o
Poscia fermato in piè soave e piano, con cui parli meschinº che pur vaness" i
Colmo un vaso di vin puro spumante, -
Non vedi un lupo là fra quei duo calli,
Si mise a bocca, e gl'occhi al ciel rivolsc. Di cui fugge la mandra e tutta trenº,
l'ARTE 1'RIMA 323
A M. Ruberto di Matteo Strozzi.
- - - . . ..
Filli, più vaga assai che i fioralisi,
Ch'al tuo partir portasti il mio cor teco, Nasci, e venendo innanzi, un giorno mena
Ecco ch' un picciol capro in don t'arreco, Santa stella d'Amor, sereno e, lieto - ,t
Tolto alla madre che pur dianzi uccisi; Più che mai fosse, e 'l mar tranquillo e qucto
Cui per aver, ma me n'accorsi e risi, i Si mostre, e l'aria di dolcezza piena
Mi venne dietro in fin sotto lo speco , Oggi spinto io Damon dall'alta pena,
Testili, ed io restar non volli seco, r ) Il foco che m'ardea tacito e cheto,
Che ben conosco i suoi fallaci risi. Scoversi in atto umile e mansueto:
A te lo dono, a te sol guardo e serbo Filli, io v'adoro ed ardo; e 'l dissi a pena.
Due tortore che ier varcando il rio, Ella di neve e rose, il volto mista, i
Appostai, che facean sicure il nido : Vergognando rispose: Damon mio, i, i r
E se più tosto me, che quello infido Dolce m'è l'arder tuo, che te si attrista.
Di Licida vorrai, scerni del mio, i Dunque lieto morrò, che, soldisio , i
Cornuto armento un toro, il più superbo. Di piacervi, soggiunsi; ed ella trista: i
- - - - , º -, No, disse, no Damon, ch'io ardo, anch' io.
: - i 14 e ºt
A Ruberto de Rossi.
Santa madre d'Amor, che inerbi e 'nfiori
Il mondo al tuo venir tutto ridente, Pastor, che leggi in questa scorza e 'n quella
Filli scritto e Damon, che Filli onora, º
Allor che 'l ghiaccio e le pruine spente,
Veston la terra mille bei colori, Sappi, che tanto fu pietosa allora
Di verdi mirti questi bianchi fiori, Filli a Damon, quanto orgli è cruda e fella;
Mentre l'armento sotto il Sol più ardente Io pur la chiamo, io pur la prego, ed eſa,
Rumina all'ombra l' erbe, umilemente Misero, non m'ascolta, e fugge ognora,"
Ti sparge Mosso, guardian di tori. E quanto fugge più, più m'innamora,
E te quanto più può divoto prega a n E mi par sempre al suo fuggir più bella.
Colla lingua e col corº quel, ch'omai pensa, L'altrier menando a ber la greggia al rio,
Sappiano a mente in ciel tutti gli dei, Tutta soletta a piè d'un bianco ulivo,
Che Filli, per cui va gridando omei, La vidi, ch'intessea fragole e fiori:
Non sia tanto al fuggir veloce e intensa, Ma Licisca abbajò, perch'ella fuori º º
O tu da i lacci suoi lo sciogli e slega. Degl'occhi mi spari si ratta, ch'io º º
i - - - º a
Rinasi e sommi ancor tra morto e vivo,
- - - - - su: i 1
A Matteo Fabbro.
e ai -,
Quando Filli potrà senza Damone Sotto questa edra, a piè d'esta alta vite,
Viver, ch'altro che lui non pensa c cura, Lungo queste acque vive, di cui solo o l'
Ad ogn'altro pastore acerba e dura, Mi piace il suon , per discacciare il duolo,
E far salde d' amor mille ferite, l'
Tornerà indietro al fonte suo Mugnone.
Così scritto leggendo in un troncone, Queste colme di vin tazze fiorite, i
A pie dell' onorate antiche mura, A te, gran Dio di Semele figliuolo, lº
Di cui oggi il bel monre a pena dura, Libo io Damon, che più d'ogn'altro colo
Cadde fuor di se stesso Coridone. Tua santa deità più d'altra mite. . I
Poscia pien di furor trasse nel fiume Oh quanta ho già nel cor dolcezza e spenne?
Un baston ch' egli avea di rami cinto, Ogn'alta grazia a me medesimo impetro, i
E la sampogna sua troncò nel mezzo, Mercè del prezioso tuo liquore. I
Ed all'armento che d' intorno al rezzo i Questi l'arme crudei: quel segna Amore;
Si giacea, cominciò : quell'empio lume... Ch'io vivere e morir vo'tcco insieme, i
E se Filli mi vuol, vengami dietro, ſi
Ma non poteo seguir dall'ira vinto, iti
i i si o nº riuniti il
l º . . . . . i
-
A M. Francesco Priscianese.
Per la morte di M. Bardo Segni,
a M. Filippo Buondelmonti.
-

Il medesimo amor, credo io, che sia Cessate il pianto omai, cari pastori, i ti i
Sola cagion che 'l mio cornuto armento E lieti udite queste pie parole,
Si regge a pena in pie, non pioggia o vento Che Pardo stesso all'apparir del sole l
Che l'abbia offeso, nè pastura ria; Disse, evidelo Elpin dagli alti cori: .
Ma che curo io, come l' armento stia, Non piangete di me, non v'addolori o a
Che trarmi a morte d'ora in ora sento ? Il mio morir, che, come i degni snole,
Nè però d'amar Filli ancor mi pento; Vivo m ha fatto il ciel, nè più mi duole
Che farei dunque, oime, se fosse pia? Altro, che 'l veder voi del dritto fuori. -

Oh! s” almen pur sopra questi alti colli, Assai viss'io, se si misura gli anni
Dove spargendo vo lagrime tante Dal saver, di ch' io fui bramoso tanto,
Covrisse il corpo mio, quel verde pino; Ma poco o nulla, a quel ch'or veggio, intesi.
Ch” indi passando un di col viso chino , i Così disse, e disparve. Or voi, ch'oſſesi
Diria forse, e con gli occhi umidi, e molli: Restaste, al suo partir, lasciate il pianto,
Qui giace, Filli, il mio fedele amante, i Ne turbate il suo ben coi vostri affanni.
524 SONETTI

Il
A M. Giovambatista Busini. A M. Alessandro Quistelli.
-

Titlro mio, che sotto l'alma fronde, -

Mai più bel giorno non ſaperse il sole:


Ch'ornò le tempie al gran figliuol di Giove Ridevanº tutti a pruova gl'elementi:
Dolcemente ti stai cantando, dove Tacean per l'acque, e per le selve i venti:
Turbò Fetonte fulminato l'onde; Ogni sterpo floria rose e viole;
Ben deve il re de' fiumi ambe le sponde Quando Damon le luci altere e sole
Conrir di fiori alle tue rime nuove Mirando del bel Jola e i dolci accenti,
Del nuovo Alcide, che l'antiche pruove Bevendo, con sospirº tremanti, ardenti,
Farà col valor suo tosto seconde. º º
Vivi dunque felice, e disacerba I
Osò pur dire alfin queste parole:
Mentre avrà stelle il ciel, la terra fiori,
L'amaro duol d'essere a noi lontano, Pesci il mar, sassi i monti, il bello Jola
Col farti chiaro alla futura gente; Amarà il buon Damon, quanto ei Licori,
Così più verde sempre, e più superba Udlr le ninfe d' Osoli e i pastori
; Cresca la pianta al ciel, pastor Toscano, D'Arno, e cantaron lieti: O beltà sola,
Di cui si dolce canti, e si sovente. O vera fede, o santi, eterni amori:
i , il . . . . . . . . . . .
- - - - - - - --
Queste, ch'io, colsi dianzi la pungenti, Appena poteva io, bella Licori,
Rami, uve e spine, don povero e vile, Giugner da terra i primi rami ancora,
Nell'orto di Dameta, ma simile , l Quando ti vidi fanciulletta fuora
All'agre pene, agl' aspri miei tormenti, Gir con tua madre a coglier erbe e fiori,
Mando, Licori, a te con mille ardenti Possa io morir, se di mille colori
Preghi e sospir, temendo, oimè, ch'a vile Non sentii farmi tutto quanto allora,
Nol prendi, e sdegni l'alta mia gentile Nè sapea ancor che fosse amor, ma ora
Fiamma, cui non fia mai, ch'io spegnertenti, Ben me l'hanno insegnato i miei dolori.
Perchè dal di, che si cortese e bella Già vissi io presso a te felice e lieto,
Mi degnasti, e si lieta al dolce gioco Ora a te lunge mi distempro e doglio,
Le man pomi gittàr, gli occhi quadrella, Testimon questa selce e quel ginebro.
Io son tutto piagato ed arso, e loco Purvo pensando, e 'n questo sol m'acqueto,
Non truovo, che m'acqueti, se non quella Che cangiar tosto deggio, non pur voglio,
Finestra, onde avventasti aranci e foco. L'Osoli e l'Arno a l'Aniene e al Tebro.

A M. Cesare Ricchisensi.

Te sopra tutte l'altre, anzi te sola Deh! se la dolce tua cara Licori,
Di quante colgon ninfe o fronde, o fiori, Che l'altre ninfe tutte avanza tanto,
Te bella e leggiadrissima Licori
Jola mio caro e dolcissimo, quanto
Ama il leggiadro e bellissimo Jola. Tutti cedono a te gl'altri pastori,
Ma fiero e troppo rco destin, che sola Lasci il Tebro, ed all'Arno i primi onori
mente s'oppone ai più cortesi cori, i Rendendo, tolga a tuoi begl' occhi il pianto
Per torne il frutto di si dolci amori, Increscati di te, riposa alquanto;
L' un sempre all'altro crudelmente invola : Dà breve tregua a sì lunghi dolori.
Ond'ei per monti e boschi esangue e scarno, E se di te non vuoi, piacciati almeno
Dolendo orvassi amaramente, e solo Pietate aver del tuo Damon, che teco
Chiama il tuo nome sempre, e sempre indarno,
Ma poco andrà, che 'l suo bramato volo E per te viensi d'ora in ora meno.
D'infinita dolcezza al Tebro, all'Arno Mira, e 'l vedrai sotto un gelato speco,
Infinita sarà cagion di duolo. -
Di pietà doppia e doppio affanno pieno,
- a Del tuo, non del suo mal dolersi seco.
-

E non è sasso, o sterpo in poggio, d'n piano, Pastor, se per rea sorte, o nulla senti
Dove scritto non sia Jola e Licori; D'amore, o pure amando, ami infelice,
Licori e Jola, acciocché i nostri amori Fermati, non varcar, ch'entrar non lice
Crescan, crescendo quei di mano in mano. Nè profani il bell'antro, nè scontenti,
E ben ch'io sia da te tanto lontano, ui sol mirando i santi lumi ardenti
Sempre a te per usanza i più bei fiori Tel bellissimo Jola, e poco dice,
Innaffio e serbo; a te sempre i migliori Più ch'altro mai pastor lieto e felice
Pomi dai rami lor pendono invano, Ebbe tutti Damone i suoi contenti.
Nè veggio il Sol da monti apparir mai, Amor sel vide, e sallo il ver, se mai
Nè la sera sparir, ch'io noi saluti, Arse più casto cor più bel desire,
Parendomi veder tuoi ehiari rai; E più gradito di tutti altri assai.
Quai siano i miei sospir, quanti i miei lai, Volle ben sì, volle Damon morire,
Quante voglie e pensier, senza te muti, E più volte mori; ma i dolci rai
Ben, Licori, il sai tu, che sola il fai, Vivo il tornar, ne sa ben come dire,
PARTE PRIMA 525
Per Giovanni di Daniello, musico, A M. Lodovico Macherrgli, detto il Lasagnino,
-
a Giuliano degli Organi. nelle nozze di M. Luigia Tansillo.
- : - , a ,
Or ch'al più lungo e più cocente giorno i Vienne, santo Imen , vienne, e la fico", º
Giacciono per li boschi e per li dnmi Più che mai lieto e dal più casto foco,
Sovra l'erbe distesi, e presso i fiumi , Accendi, e con eterno riso e gioco ,
Gl'animai stanchi alle fresche ombre intorno; Infiniti n'apporta amore e pace. i o
Ègon per selve e monti entro e d'intorno, Non vedi come tutto arde, e si sface,
Dietro l'orme tue vaghe e i chiari lumi Per gl'occhi il buon Tansillo, e molto o poco
Te segue, o Cromi, e par che si consumi, Non truova, ovunque vada o seggia, loco?
Veggendoti fuggir, d'ira e di scorno. Grida alto il cor, se ben la lingua tace. I
Non fuggir, Cromi, più, bel Cromi, ascolta, Vienne santo Imeneo, vien che la stella ,
Nè creder tanto al color tuo, che sempre D'Amor tanti anni disiata, fuora,
Non men punto di te fugace vola. -
Dell' Ocean sopra l'Ibero appare. I
E tu, folle bifolco, a che si stolta- , Vien dunque, vien, santo Imeneo, che pare
mente segni chi fugge, e ti distempre, i Simil d'amanti non giugnesti ancora: i
Fuggendo chi te segue, Aminta e Jola. Luigi il buono e Luisa la bella.
W.
A Zanobi Bartolini. a M. Giulio Suſa.
r
Giulio, che a quella età, che gli altri a pena
Il più bel pastorello e 'l più gentile, scioglie i i", parole sanno, pe
Che stringesse mai fronda o premesse erba,
Nella di lui più dolce etate acerba Avete innanzi al quindicesimo anno
Dicea mesto sopra Arno a mezzo aprile: enno maturo ed eloquenza piena; .
Ninfa crudel, crudel Ninfa, ch'a vile La strada di virtù che dritto mena º
Tanto hai, e fuggi ognor così superba Al ciel, per cui si pochi oggi sen vanno,
Il Tirsi, tuo, il tuo Tirsi, che serba, i Può solafama,
Eterna darnee vita
in questo
alina ebreve affannol
serena.
A te sola l'armento, a te l'ovile;
Tirsi, che sola te notte e di chiama, Con maggior passo dunque e via pi saldo º
Tirsi, che di te sola o parla o pensa, Voler seguite ognor l'erto viaggio,
E per te sola finalmente muore 3 e , Erto da prima, al fin soave e piano. t
Ninfa, deh ninfa bella, ama chi t'ama : Che varria, signor mio, d'onor sì caldo, ".
Cogli or le rose, e l'april tuo dispensa, Verde, fiorito e vago april, se 'l maggi
Ch'altro non è beltà, ch'un breve fiore. Fosse poi secco, o l'autunno vano?
Al medesimo.

Ninfe, che nude il petto e sparse i biondi Giulio, chi vivo al ciel volare ed oltra» ri i
Crin fin a piè di latte, e 'nghirlandate La Tana e 'l Nilo esser nomato brama,
Di mille bei color, scherzando andate Se benigno astro o miglior forza il chiama,
Con Arno sempre nei più alti fondi; Non segue Bacco, o 'n pigre piume poltra.
Queste verdi d'alloro amate frondi -
Non vive mentre è vivo, non che èltra , l
V'appende, e bianchi fiori a mezza state Cui non incende ardente onrata brama
Vi sparge il buon Damon, perchè guardiate Di quelle caste dee, ch'immortal fama
Dal suo bel Dafni i vostri antri profondi. Acquistan solo a chi per tempo spoltra.
Mentre ei di salci e fresche canne avvolto Voi di sì bel disio si forte ardete, , ,
La fronte, al maggior di per le vostre acque Onorato signor, ch'al terzo lustro e º
Sen va lieto notando, ed io con ello ; Non giunto, giunto all' alte cime sete ;
Membrando meco ognor quanto già piacque E tai di virtù frutti indi cogliete, º
A sè stesso Narciso, e come il bello Che dopo questo uman breve ligustro,
Ila ad Alcide fu rapito e tolto. Per l'altrui lingue ognor volando andrete.
Per lo Speco d'Acquaviva, a Mons. Leone Orsino. Al medesimo.

Taglia, nuovo marito, omai le faci: Giulio, chi cerca fama e restar vuole trº
Spargi, sposo, le noci; ecco che i sole Ne'petti e bocche altrui mai sempre vivo,
Parte e dà luogo assai pria che non suole, D'ogn'altro amor, d'ogn'altra cura schivo,
A te che del desio ti struggi e sfaci. Sol l'alme suore e 'l santo Apollo cole.
Aggiugni ai caldi preghi i cari baci Assai più bella e più chiara che 'l Sole,
Ver lei, che teme in un medesmo e vuole: Virtù risplende, ed ella sola olivo , a

Godi or le tue venture, e grato accole, Può darvi e palma e quel sacro, ond'io vivo,
Piacciati sola, a cui tu solo piaci. Arboro, di beltadi e bontà sole. . .
E tu certa che mai più casta e bella Tutte altre cose, signor mio, quasi ombra. I
Ninfa non colse fior, nè presse l'erbe, Passano, o fiume che ben ratto corre, º
O nell'antica, o nell'età novella, Giovinezza e beltà, stato e tesoro.
Acquaviva gentil, cui tanto sorba Solo il pregio divin del verde alloro, i
D' onor largo destin, di tal novella Ch'ai più famosi cor le fronti adombra,
Alza la fronte al ciel lieta e superba. Sdegno non può, nè forza o tempo torre.
526 - i SONETTI
Al medesimo. Al medesimo, al
- - -

Giulio, quel monte che più alto assai Quando io miro il bel viso, e ascolto il saggio,
De' suoi vicini e più lieto verdeggia, Leggiadro, onesto ragionar gentile, -

Quasi fra gli altri imperioso seggia, E i dolce vostro portamento umile,
Cinto ha la fronte di fronzuti mai; Da far molle e cortese un uom selvaggio;
Quel fu il principio de'miei santi lai: Veder penso ed udir quel che sempre aggio
Quell'un mi trasse dalla volgar greggia, Casto alloro entro l'alma, onde ogni vile,
Quivi tenne alcun tempo Amor sua reggia, Basso pensier, per farmi a lui simile,
Più cortese, più casto e bel chemai, Sgombrai, qual fresca neve, ardente raggio,
Ed or novellamente in voi mi mostra, E tal diletto e gioia tanta prendo, -

Quanto mostrommi sotto un dolce alloro, Ch'esser tornato all'età mia più verde,
Sovran pregio ed onor dell'età nostra; Sopra alto poggio in sacro albergo parme,
Perchè di nuovo all'amorosa chiostra U' d'amor vero e spenne santa ardendo,
Tornare, e ricco di doppio tesoro Scorsi prima, e sentii nel corpassarme
Farsi tra speme e tema il mio cor giostra. L'alma pianta che mai foglia non perde.
- - - -

Al medesimo. Al medesimo.
- -
. - e º -

Giulio, onde avvien che quella dolce e altera Se non pur l'aria di quel dolce viso,
Fronte, ove ha Febo il suo iù caro seggio, Che già ventisette anni entro i cor porto,
Ma la bontate e l'onestade ho scorto
Oltra l'usato pallidetta veggio, -

Qual vivo sol, che un nuvoletto annera? In voi, bel Giulio, e quel celeste riso,
Ma
Sovvengavi signor, ch'anzi la sera -
E tante altre eccellenze che conquiso
Deve essere il mattino, e talor peggio Avriano un tigre, e ad amare scorto
Corre, chi troppo corre: io già non deggio Oltra 'l nome gentil ch'ancor si scorto
Tacer quel ch amor detta e fede intera. Là mi suona, onde mai non ſia divisa:
Chi molto ama, signor, molto anco teme, Se quei sì casti e si felici ardori
se l'antica virtute in voi risorge, o
Geminan tutti, ov' io vi miro odo,
Non ci private di si ricca speme. Come fia, ch'io non v'ami e sempre onori?
L'april fa, signor mio, quanto si scorge Nè trae già chiodo a questa volta chiodo,
Verde e fiorito di ben picciol seme: Anzi il raddoppia, e per novelli amori
- i – -: nº --- ---

Maturi frutti poi l'autunno porge - -


Crescon gl'antichi in disusato modo.
- - --- s - - - -

Al medesimo.
l
Al medesimo.
Pria che la fronte, signor mio, v'increspe, Se voi sapete, signor mio, che 'l volto -

Il tempo che si vola, e noi con lui, E 'l dolce, vostro ragionar somiglia
Montate il poggio di virtù, per cui .. L'idolo mio, ch'ogn'altra meraviglia
Par che si spesso cada il volgo e 'ncespe: Vince, e ad ogni pregio il vanto ha tolto;
Io, ch'or l'argento vil miro e le crespe Sapete ancor, perchè mai sempre volto
Del volto, assai lontan da quel che fui, In lui bramoso il cor tengo e le ciglia,
Sempre di me mi dolgo e non d'altrui; Ed ond'è, ch'or con bianca, or con vermiglia
Fronte fiso vi miro e 'ntento ascolto.
Cotante di pentirmi pungon vespe. . .
Sol mi consola ad or ad or quel lauro r Ben fate voi cortesia grande, ed alta
Vivo, che di mia mente in cima siede, Pietà con gl'occhi e con la voce allora,
Già varca il sesto e ventunesimo anno, Che doppio, amor con doppio stral m’assalta.
Chc mi dice entro 'l cor: Prendi restauro, Oh! vincesse egli almen, ch'a doppio fora
Nè dubbiar, mio fedel, che senza inganno Bcato il cor, che intenerisce e smalta
È quel Signor, che 'l tutto ascolta e vede. L'arbor ch'adorna il mondo e 'l cielo onora.

Al medesimo. . . Al medesimo. A -
Qual meraviglia, signor mio, se voi -- - Il mio bel Giulio primo e 'l mio secondo
Dal cielº disceso, angel sembrate, e tante Bel Giulio, cui si forte, ancor sospiro,
Doti avete e si rare, entro e davante, In voi, bel Giulio mio, ma più rimiro
Che ricco fate il ciel, beati noi? L'arbor mio bello e d'ogni ben fecondo;
lo per me, da ch' udii la voce e i duoi E se quel che di voi nel cor profondo
Lumi vostri mirai, tali e cotante Leggo, e dovunque mai la vista giro,
Sentii nel cor faville e così sante, Ridir sapessi, il casto alto disiro
Ch'ogni cosa mortal par che m'annoi. Comun sarebbe, e non mio, proprio al mondo.
E mi sovviene il giorno e 'l loco e 'l verde, Quel vago e dolce, che di fuori appare
Quando vicino al ciel la voce udii, In voi, quantunque grande, è nulla, a lato
E mirai quei duoi dolci, onesti lumi, Quel buon, ch'io dentro colla mente scorgo:
In cui tra sacri, folti, ispidi dumi, - Ma taccio signor mio, che ben m' accorgo
Tutti posi, e per sempre i miei desii Quanto in laudando voi fora io biasimato,
Facendomi d'uom vivo un lauro verde. Quasi secco ruscel crescesse il mare.
PARTE PRIMA 527
Al medesimo. - a v .
O dolce, e sempre a me cara fenestra,
Credete voi, signor mio caro, ch'io Ch” udisti, e fosti testimona allora, a .

Per lo star lunge a voi, pure una dramma Ch'io ebbi, o per me santa e felice ora,
Scemi dall' alta mia cortese ſiamma, Fortuna quanto mai, cortese e destra:
Che m' arde sì, che solo arder disio ? Da indi in qua mortal peso, o terrestra,
Quel dolce de' vostri occhi altero e pio Cura non m'aggravò, che del cor fora ,
Sfavillar, che secondo oggi m'infiamma, Scacciai quanto era vil, come talora
Quasi gemino Sol dentro il cor fiamma Spirante turbo fa di nebbia alpestra.
Col santo lume del sacro arbor mio. Dolce, caro, diletto, amico foco,
E quelle dolci parolette accorte, e Ch' udisti e fosti testimone al mio l
In mezzo l'alma, che di lor fu preda, Di te più puro e più cocente foco;
Mi suonan sempre, si scolpite e scorte, Ditelo pure omai, ch'uom si giulio, i
Che nessun può, ch'io non v'ascolti e veda, Nè si beato in alcun tempo e loco, f
Quando a me piace, tormi, altro che morte, Non visse al mondo, e non vivrà, quanto io.
Nè so ben anco, che di lei mi creda. - - - i
Al Piovano di Stia.
Al medesimo.
Si dolce canta e sì soave suona
Se 'l cielo al nascer vostro amico e largo Questo angel nuovo, che di mortal peso º
Tanto vi die quanto donar poteva, Carco no, ma vestito, è 'n terra sceso ;
Come alla pianta già, che mi solleva E così santo poi ride e ragiona,
Da terra, mentre ognor sue frondi spargo, Che quando Giove più cruccioso tuona,
Non io, ma chi cantò Micene ed Argo, E con maggior furor di sdegno acceso e
L' alte lode, di voi narrar deveva;
Nè minor acqua, o men rischio correva, Fulmina, o'l mar da venti e pioggie offeso,
Irato spuma, e 'n fino al ciel risuona,
Che quando a Colchi andò la nave d'Argo Tornaria dolce e queto; anzi all'un l'arme
E s'a voi, caro mio signor, non spiace,
Ch'io, quanto posso e quanto so, v'onori,
Di man tosto torrebbe, e all'altro l'ira,
Ciò bontà vostra e non mio nerto face, i Rendendo lieto lui, questo tranquillo.
Chi l' ode e'l vede, ascolta cose e mira
Chi più alto disia, più basso giace:
Ora m'accorgo, che de' vostri onori º
Che spiegar non può prosa, o tesser carme,
Chiunque vuol più celebrar, più tace. E chi noi crede, venga egli ad udillo. ,
Ad Alessandro Davanzati. A M. Giulio, Stufa.
-t , , ,,

Uopo non era a me d'accesa face o E non è loco alcun si caldo, e mai : :
-

Quei bei lumi a veder, che d'ognintorno Non arse fiamma si cocente, ov'io,
Nelle più scure tenebre alto giorno er rinfrescar l' incendio e I bollor mio,
Apron, quando più lungi il sol più tace. Non mi gittassi, e scemo il ver d'assai;
Se, lor sonma mercè, da guerra a pace, i Quantunque volte i dolci e santi rai
Vostri, Giulio, contemplo, 'l saggio e pio
O
Da morte amara a dolce vita torno,
Come non scernerò l' altero adorno arlare ascolto, cui soli desio
Splendor, ch'agl'occhi tanto, ed al cor piace? Dopo i miei sacri e ben fioriti mai.
Ben voi, quanto più so, terrestri Soli : Il foco, ch' arde la vil gente, è ghiaccio
D'angioletto mortale, umil ringrazio, A lato al nostro ; quello i corpi, e questo
Che in me fermaste i vostri tanti rai. Incende l'alme e le consuma e strugge;
Tal già per alti boschi, e colli soli, Questo non parte mai, quel sempre fugge;
L' un seguita il piacer, l'altro l'onesto; -
In loco sacro, e di lieto, mirai º

L'arboscel, cui lodar nunqua mi sazio. - oh quante cose qui trapasso e taccio!,
A M. Giulio della Stufa. A M. Batista degli Organi.
Un guardo vostro solo ha tal virtute, , , Mentre 'l mio buon Carin, quasi novello a:
Cortese mio signor, che non pur tòrre Narcisso, al trapassar dell' onde chiare, i
Tutti gl'affanni può, ch' ogn'uomo abborre, D' Ema, se stesso mira, e le sue rare
Ma dar compitamente ogni salate. , Doti, onde scrivo ognor, penso e favello.
Quando udite, o da chi? dove vedute Vago Coro di Ninfe il dolce, e bello l
Fur più tai grazie, quanto il sol discorre, Volto scorgendo, cui solo uno è pare, i
Se non in quel, che tutti altri precorre Tosto dal fondo sovra l'acque appare, ,
Arboro, onde ho nel cor tante ferute? Più, ch' a sua preda mai rapace, uccello.
Nessun diletto in questa vita è pari , E dopo lunga in van preghiera, seco ,
A quel sommo piacer, che doppio sento, Dal suo destrier con dolce forza tolto,
Quando di lui, voi rimirando, penso. Rapillo, e dentro al bel cristallo il trasse,
Tutte le noie mie, tutti gl'anari , - --- º Ma ei, più d' Ila e saggio e forte, bicco i
Di rea sorte e d'invidia, in un momento Guardolle irato, e i passo indietro volto,
Passan sol, ch'io v'ascoiti o guarde, intenso, Le lasciò tutte sbigottite e lassc. , ,
528 A SONETTI.
A M. Cesare dal Bagno, scultore. Al medesimo.
arr -o - -

Quando il bel Giulio mio con dolce riso Signor mio caro, un gentil cor sincero,
Apre l'un suo vermiglio e l'altro labro, Ch'acquistar pregio brami alto e sovrano,
Cui cedono rubini, ostro e cinabro, Da ogni indegnità viver lontano
Per bear me, che, intento il guardo, il ſiso: Nori pur coll'opre dee, ma col pensiero:
Parmi aperto vedere il Paradiso, Se non il voler mio, ma l'altrui impero
E quanto fe” mai dolce il divin Fabro, Mi vieta esser col volgo iniquo e vano,
E dico: E' non è cor sì duro e scabro, Già son , perchè la mente, non la mano
Che non restasse qui vinto e conquiso, Opra tra noi, chi ben conosce il vero.
E mi ritorna nella mente il giorno Io dal primo fiorir degli anni miei
E l' ora e 'l punto, che 'n fronzuta cima Tal vidi fronde, ch' ogni indegno e vile
L'arbor mirai d' ogni buon frutto adorno ; Pensier lungi dal cor per sempre fei.
E, se giudizio uman diritto estima, Onde per legge antica, e vecchio stile
Cosa non fia già mai, ne mai fu prima, Amar cosa non posso, nè vorrei,
Che questo agguagliar possa, o quel soggiorno. Che non m' assembre il vero bel di lei.
.
A M. Giulio Stufa. Al medesimo.
- --- - - -, - : * -

Se da queste onde, ch'a solcare avete Non pensate, signor, poter già mai
Di Cariddi e di Scille e di Sirene, Celarmi quel ch'al cor sempre ho davante:
E d'altri mille orrendi mostri piene, Folle è chi 'ngannar pensa un vero amante,
Condurvi in porto e salvo uscir volete: Che scorge più, ch'occhio cerviero assai.
Non sol con ambe man gl'occhi chiudete, Se quel ben, ch'entro voi tanto mirai,
. Ma turate l'orecchie, che men viene Non era tale, o mutato ha sembiante,
Ogn' altro schermo, e perir mi conviene, Cangiar convengo anch'io mie dolci e sante
Se l' udite giammai non pur vedete. - Voglie; così da prima l'avvezzai,
Contra la vista lor, contra l'amaro - Quando all'odor delle più vaghe frondi,
Suon, che si dolce a chi l'ascolta pare, E più caste, che mai coprisse il cielo,
Nullo è, se non fuggir, certo riparo. D'ogni men bello oprar nemico venni.
Fuggite dunque, signor mio, se caro S' a quei primi disii questi secondi
V'è ch'io v'ami ed onori, e pinga al paro Somiglianti non son, sfacciasi il gielo,
Delle frondi più d'altre amate e care. Che quattro lune al cor caldo sostenni.
Al medesimo. Al medesimo.

Tenete, signor mio per certa e vera Così cangiaste voi pensiero e voglia,
Cosa, che più vergogna e maggior danno Come cangiarei io voglia e pensiero;
Ne dà la quarta, che le tre non fanno Ma poca etate e molto amor sincero
Tisifone ed Aletto e Megera. Voi di voler, me di potere spoglia:
chi seguendo così sozza e fera E s' avvien che talor mi lagni e doglia,
Ingorda furia, tra quei pochi, ch'hanno perchè troppo temo e troppo spero:
Eterna fama, venir pensa, e stanno Vedere il nero bianco e 'l bianco nero
Sovra tutti altri assisi, indarno spera. Più, che dir non saprei, m'attrista e addoglia,
uesta crudel d'avara madre figlia L'arbor che solo a bene oprarne 'nvia,
Non sol l'avere altrui, ma 'l tempo fura, Tal m'avvezzò ch'io non potrei, nè voglio
Che senza mai posar sempre via vola. Amar cosa giammai che lui non sia,
Questa ad ogni viltà non pur consiglia, O non l'assembri almen: dunque, se ſia,
Ma sforza l'alme: questa, oimè, sola Qual solea vostro core, io, come soglio,
Può scempia far la geminata cura. Sarò, tornando al dolce stil di pria.
Al medesimo. A M. Giovanni Altoviti.

Deh non vogliate, signor mio, che tante Se non facea (voler fosse o destino)
Fiate e tanto invan mi doglia e preghi: Sua fede e mio sperar fallace e vano,
Ascoltate un di tanti degni preghi, Oggi sarebbe, e nollo estimo invano,
Perch' io non torni sol d'un lauro amante. In mille carte e più letto Carino.
E se cortese affetto, o voglie sante. Ben fui di mio dolor certo indovino,
Vagliono il pregio lor, non mi si nieghi, E vidi il danno altrui venir lontano,
Ch'al diritto sentier rivolga e pieghi Nè 'l potei distornar, che nulla umano
Le vostre alquanto traviate piante. Consiglio val contra poter divino.
Non dee chi seguir vuol Febo e Minerva, Pure all'orecchie Amor mi dice spesso:
ln pensier bassi, e vili opere porre (Se quel ch'udir vorrei, veramente odo)
Sua cura, e'l tempo, che si ratto vola. Più 'l tuo dolo, che 'l danno suo gli spiace.
Le Sirene fallaci e quella abborre Vie maggior fallo deve esser concesso
Erinni più d'ogni altra, empia e proterva “A quella età : perch'io tra guerra e pace,
Chi dista, che l'ammiri il mondo e cola. Tra speranza e timor mi biasmo e lodo.
PARTE PRIMA 529
A M. Niccolò Guidi. Al medesimo.

Qual forza, quale inganno o qual destino Dolce signor, se voler vostro o inganno
Repente si dal dritto lato (e forse Altrui da quel sentier lunge vi mena,
Casto amor troppo chiede) al manco torse Che scorge a vera gloria, mia la pena,
Il già si caro a me dolce Carino? Ma la colpa ſia vostra, e vostro il danno.
Pcrchè mio cor l'usato suo cammino Io l' alme frondi che mi fero e fanno
Non volendo lasciar, come s'accorse Beato in terra, e non le scorsi a pena,
Del mutato sentier, subito corse Amerò sole, come fei, con piena
Al poggio, ove di noi regna il divino: Fede già cade il venzettesimo anno.
E quivi scritto in adamante lesse, Quanto è maggiore e più sincero il foco,
Come ad alma gentil più tosto ch'una Tanto più tosto si dilegua e spegne,
Volta fallar, perir mille convenne ; Se non truova alla lingua amico il core.
Ond'ei che ben sapea quanto fortuna In voi, dolce signor, quel dentro regne:
S'opponga a pio voler, l'altro suo bene Quel dentro s orni e non il bel di fore,
Di suo proprio voler perdere clesse. Se curate di me molto nè poco.
A M. Giulio della Stufa. Al medesimo.

Non caggia mai nel pensier vostro, ch'io Ben fu per me quel di più d' altro assai,
Non v'ami, e quanto debbo e come soglio, Nè men forse per voi funesto ed atro,
Se ben meco e col ciel talor mi doglio, Ch'io vidi quello, e seppi onde latrai
Che 'n voi, più che ragion, possa il disio: D'alto sdegno e dolor, si ch' ancor latro:
Anzi dee questo sol mostrarmi il mio i E mentre lo mio cor piangendo squatro,
Sincero cor, che soffrire anzi voglio Per aprirvi quel ch' ivi entro serrai,
Notte e di sempre ineffabil cordoglio, Ben potete vedervi ampio teatro,
Che vedervi non tal, chente disio. Ma dei vostri maggior che de' miei guai.
Onde se di me punto e di voi calve, Io mi starò tra quelle verdi e sacre
O volete provar s io dico vero, Fiorite frondi, le cui caste foglie
Tornate al bello stil vostro primiero. Son dolci all' alme degne, alle vili acre.
Pardo non corse mai tanto leggiero Voi dietro (oh sia non ver!) quel rio fallace
A cercar fonte, o chi da morte il salve, Costume d' oggi, tutte vostre voglie
Come io per veder voi qual bramo e spero. Volgerete a seguir quel che sol piace.
Al medesi Polo, Al medesimo.

Ben mi parea veder certo, ch'al mio Breve stilla, signor, d'assenzio o fele,
Voler di farvi al mondo e conto e caro (Così piacque a Colui che sol misura
S'attraversasse, o mio destino avaro, Dirittamente e tutte cose cura)
O d' esto secol vil costume rio. Può molta inamarir dolcezza e mele.
Lasso! che troppo al mio troppo disio Non si chiama leal, non è fedele
Di veder voi con quel gran Lauro a paro Chi la mente non ha sincera e pura:
Credetti, ed or quel ch'io sapeva, apparo: Picciolo inchiostro gran bianchezza oscura;
Intendami che può ch' io m'intendo io, | Talor troppa pietà face uom crudele:
Nè ſia per ciò ch'io non rifiute, ed odi Non ben la fede e sue promesse attende
Chi l'altrui merti e 'l suo dovere obblia:
Lo mio tanto temer ch' esser presago
Di quel ch'uom non vorria, rincresce e spiace; Non oltraggia nessun chi sè difende.
E ch'io non brami e tenti in mille modi, Raro perdonar suol chi spesso offende:
Che vano il sospettar torni e fallace: Mal fa chi segue altrui per torta via:
Si son di vostra e mia salute vago. E so, ch'altri che voi, nessun m'intende.
Al medesimo. Al medesimo.

Signor, nè più da lungi acuta lince Or che tornato al bello stil di prima,
Sua preda mai, nè mai più chiaro scerne, Quale eravate già tal oggi sete,
Com'io quel ch'ora il volto ed or l'interne Come pria, signor mio, donno sedete,
Parti v'assale, e bene spesso vince : Della mia mente, e sederete in cima.
Però vi prego umil, pria che comince E quel Lauro gentil che quivi prima
Rodervi sempre il verme reo che scherne suo seggio pose, e del nocchier di Lete
Tutte virtù, non sia 'n voi chi discerne, Non teme, con parole oneste e liete
Servo a chi vuol che mal poscia si vince. Dolce accorravvi come feo da prima.
Come ſia mai che voi possiate od io -
Fate pur voi ch'al cor la lingua e l'opre
Voglia soffrir che da si indegna nebbia Corrispondano al dir, ch'io per me sono
Vi sia la strada al ciel contesa e mozza ? E sarò presto ad ubbidirvi sempre.
In me certo l'ardente alto disio E ben so che destrier di forti tempre,
Prima si spegnerà, che veder debbia Che per sè corre a vera gloria sprono;
In si candido vel macchia si sozza. Ma fedele amador nulla mai cmopre.
VAR CHI V I, 67
53o SONETTI
A M. Piero della Stufa. A M. Lucio Oradini.

L'arbor de'miei pensier termine e scopo, Quand'io miro, Oradin, quel dolce sguardo
Sì dal volgo allungommi errante e tetro, D'esto angioletto, mio signor novello,
Ch' io che men giva a tutti gl'altri dietro, Od ascolto il parlar cortese e bello,
Molta gente veggio or venirmi dopo. In chiara onesta fiamma agghiaccio ed ardo:
Questi entro l'alma qual chiaro piropo, E mi sovvien di quel pungente dardo,
Ogn' altra luce fa parer vil vetro: Ch'in alto, erto, ermo, sacro, ombroso ostello
Da costui solo ognor tal lume impetro, Al cor mi trasse il mio primo angiolello,
Che d'altra scorta al ciel mai non ebbi uopo. Per farmi al ben veloce, al mal più tardo.
Ma non per tanto non ben sazio Amore, E tra me dolce sospirando: Come
In questa età forse più fredda e scura Fia, dico, ch'a buon fin non giunga omai
Raddoppiar volle in me foco e splendore. Da due tai messaggier del cielo scorto ?
E tal mostrommi e 'n si nuovo colore, Felice anima mia, cui doppie some
Gh io dissi: Se conforme al viso, è il core, Fan lieve sì, che 'n questo acerbo e corto
Ancora in vita il mio bel Giulio dura. Morir viva e beata a Dio ten vai.

A monsignor Lenzi. A M. Bernardino Ghezio.

Come in cantar di voi dal vero manco Ghezio, a piè di quell'alto e verde poggio,
E mio dover ch' esser non può soverchio: Ove mi tese Amor prima i suoi vischi
Così tutti altri in ben pensar soverchio, Tra faggi, abeti, ontani, orni, elci, almi, ischi,
Nè d'onorarvi inai saziomi o stanco. A schietto alloro, appo un bel rio m'appoggio.
E s'alle crespe della fronte e al bianco E tanto in suso colla mente poggio,
De i crin che male omai celo e coverchio, Chc toltomi alle cure e mondan rischi,
Fornito ho quasi di mia vita il cerchio, Dell'amare Sirene i dolci fischi
Non però fui d'amar lassato un quanco. Non temo, e sol pensier celesti alloggio.
Anzi come 'n ſin qui non tutto, o leve Sovviemmi l'anno, il mese, il giorno e l'ora
Arso m'avesse Amor, che da i primi anni E la stagione e 'l tempo e'l loco e 'l punto
(Pio ne ringrazio e voi) soggetto m'ebbe, Che dell'uso comun mi trasser fora.
L'altrº ier di mio voler, per far più breve Così quel nuovo ch'all'antico giunto
Il volo, e raddoppiarmi al cielo i vanni, Foco, doppio m'ardea, durasse ancora,
Con nuova fiamma il foco antico crebbe. Ch'io più felice, altri più chiaro fora!
Al governator d'Orvieto, A M. Agnol Roscio.
O Sol della mia vita e donno e duce, Mentre seco il mio core appende e libra
S'a voi d'aver pensai trovato pare, Sua fede e 'l guiderdon con giusta lance,
Non ogni cosa e quel ch' agl'occhi pare, Vedendo in alto la seconda libra,
E molte volte ancor non oro luce : Di pallido rossor tigne le guance:
Spesso credenza altrui falsa conduce, Mentre le buone colle triste mance,
Chiamar lucidi vermi stelle chiare: E sue ragion con gl'altrui torti cribra,
Sembrano i vetri ardenti gemme e care : Tai di sdegno e pietà lo pungon lance,
Putre legno talor qual sol traluce. Che seguir solo il primo amor delibra.
Quante fiate sotto dolce mele, Folle è, Roscio mio buon, chiunque lascia
Venenoso s' asconde amaro tosco, La ragion per gli sensi, e chi non crede
E neve ad or ad or gelata incende. Al ver, dà spesso alla menzogna fede.
Sa ciascun che non rado è più fedele Vecchio costume e buon mal si tralascia,
Servo men caro ; e sovente uom non losco Occhio, benchè cervier, nulla non vede,
Men vede; ed ode me chi peggio intende. Quando speme o desio lo vela e fascia.

A M. Lelio Bonsi.

Lelio non dubitate, ch'ab eterno


Non ordinasse l'alto re del cielo,
Che doppia ſiamma onesta e doppio gielo
M' agghiacciasse la state, ardesse il verno.
E chi con l'occhie della mente interno
Come flagro mirasse, e come gielo
Vedria, che 'l sido e l'ardor ch'entro cclo,
Son opra e grazia del Motor superno.
L'incendio d'Etna è men cocente assai,
E 'l rigor della Tana assai men freddo
Di quel ch'intorno al core ho foco e ghiaccio.
Ma sì freddo è 'l calor, sì caldo il freddo,
Che sciolto al tutto d'ogni umano impaccio,
Dolcezza gusto non sentita mai.
l'AllTE PRIMA 53 ,

Quando il mio bel Carino, allorche'l Sole


Rasciutto ha l' erbe, in su la mezza terza
Esce dietro la mandria, e con sua sferza
Dolce garrirla e pasturarla suole:
soNETTI PASToRALI Nape di rose ornata e di viole
Gli si fa incontra, e Me gregge, sferza,
A M E SS E R
Dice, tua verga; e poi lo 'nfiora e scherza
Gaiamente con lui, ch'altro non vuole.
Coppia felice: no 'I ! Il Dio d'Arcadia mai
GiovA NvETTo Rio SOD E RINI Più grazioso pastorel non vide,
Ne Diana ebbe mai ninfa sì bella,
Carin n'assembra il sol, se parla o ride,
Quando esce fuor dell'Oriente; ed ella,
Quando già cala all'Occidente i rai.

A M. Filippo Gondi.

A voi, che l'alto nome e gran valore Mentre al suo bel Carin le chiome introccia,
Del saggio avolo vostro a noi tornate, Standola a mirare io là presso al sorbo,
Giovanvettorio mio, nè dispregiate Sentendo Nape il crocitar d'un corbo,
Le sante forze del celeste Amore, Lasciò tutta smarrita andar la treccia;
Mando io quel che cantò Damon pastore Ond'io, che 'n mano avea l'arco e la freccia,
Per colli e boschi nell'andata state, - Presa la mira, in volto e nel cor torbo,
Mentre del bel Carin seguia l'amante Lo fei di voce privo e di vita orbo
Orma tra riso e duol, speme e timore. Rotolando cader dentro una seccia.
E se la gente vil, che lungi al vero Guardomini in viso, e tutta lieta disse:
Dietro l'ombre sen va, biasma e riprende Caro Damon, sia benedetto il giorno,
In non giovine cor giovin pensiero, Che del suo foco il mio Carin t'accese.
Ditele, che chi ben conosce e 'ntende, Dove sei tu, d'augelli oltraggio o scorno
Non ha più certo e più corto sentiero Non temo od altre pastorali offese.
Al ciel, ch'amor seguir casto e sincero. Poscia nel bel Carin le luci aſſisse.

A Bernardo Menetti.

Mentre l'armento mio la sera cingo, Sì m'è l'attender più noioso e lungo
E dalle fiere e da pastori il guardo, Il mio dolce Carin, dicea la vaga
Veggio Napc e Carin girsene al tardo, Sua bella Nape, che quasi presaga,
Ed io fra me di non vedergli infingo. Che non debbia venir, le capre mungo.
Poscia innanzi me stesso alquanto spingo, Ma non quinci però troppo mi slungo,
Ed odo dire: O bel Carino, io ardo Dove più d'altra fui contenta e paga :
Tutta tutta per te, ma solo un guardo Lasso lei per selve e boschi errando orvaga;
Può sanarmi il gran duol ch'al corristringo. Ed io che fo? perchè non corro, e'i giungo?
Altro da te non cerco, e tu non dei Chi sa che d'altra pastorella l'orme
Volere altro da me, se tanto m'ami, Non segua, o vago di sè stesso, al fonte
Quanto in sembianti e nel tuo dir mostrasti: Nuovo Narciso invan si dolga e preghi?
Anch'io per te tutto ardo, e sol vorrei E forse stanco sopra l'erba dorme;
Mirarti, o Nape, e non men che tu brami, Dorma, ma solo, e non sia chi mi conte,
Bramo io pensier seguir leggiadri e casti. Ch'altra man della mia l'incenda o leghi.
A Federigo Bonini.

Quando il sol vien dal mare Indico fuori Ond' è, dicea Carin, che 'n tua presenza
La bella e casta amorosetta Nape, Non so, Nape gentil, scioglier la lingua?
Non altramente che sollecita ape, E sciolta poi non parla, ma scilingua
Va tutti ad un ad un scegliendo i fiori: Tal, che meglio amarei vivermi senza ?
E dei più vaghi i più leggiadri onori Dovendo io l'altro di girne a Fiorenza,
Dolcemente con man-vergini rape, A cui ciascun pastor le greggi impingua,
E quando il grembo e'l sen più non ne cape, Ti vidi e volli dir: Deh, non s'estingua,
Lungi sen va da ville e da pastori : Nape, il tuo foco in questa mia partenza;
Ond'io di suo voler quasi indovino, Ma non potetti mai. Forse che i lupi
La seguo di lontan, ma si ch'io veggio M'aràn prima ch'io lor veduto; o ſioco
Farne ghirlanda e darla al bel Carino; Fammi più tosto e si tremante Amore?
Ch' indi non lunge sopra erboso seggio Ben notai, che pietà del mio dolore
Lieto l' attende sotto un verde pino, Ti pinse ambe le guance, onde per poco
Dove io, partiti lor, gioioso seggio. Non cadei ſuor di me da queste rupi.
f32 SONETTI

Nai e è sol la cagion, ch'esangue e scarno Vedi, Carin, che fuor di quella siepe
Tutti ricerco ognor questi e quei lidi, Fiso statti a mirar verde ramarro,
Empiendo i boschi d'amorosi stridi, Nè io, perch' a ragion ti mira, il garro,
Mentre seguendo lei, mi struggo e scarno. – Anzi temo da noi si fugga e 'nsiepe:
Vezzoso, Carin mio, tu cerchi indarno, Ma, se d'amor tuo core arde e non tepe,
Se ritrovarla in queste selve fidi; Lieta novella, Carin mio, ti narro:
Io stesso con questi occhi andar la vidi, Oggi colla tua Nape il giorno inarro,
Levando il sol, questa mattina oltr'Arno. – Cui di te mai nell'alma obblio non repe;
Or tu, che fai con questa falce intorno Nel quale al festo di convenir debbia
A questo verde giovinetto alloro, Colle compagne sue, quando al lor divo
Così soletto nel bel mezzo giorno? – Giusto rendranno i sacerdoti onore.
Leggi e 'l saprai: Questo arboscello adorno Or prega tu, che pioggia o vento, o nebbia
Che col cor veggio e colla lingua onoro, Non la ritenga e non cresca maggiore,
Ristoro e sol d'ogni mio danno e scorno.
-
Ch'a guazzo trapassar possasi il rivo.

Questa, che 'l mio Damon fido e cortese Fuggiam, saggio Damon, che tra quella erba
Mi donò via l'altrº ier, vaga calandra, Suole spesso abitar candida biscia,
Mentre intorno a Vaccian colla sua mandra Ch'alla sferza del Sol s'infoca e liscia,
Sen gia cantando nel più lieto mese, E con tre lingue fischia alta e superba.
A te, Nape gentil, di cui m'accese Vedila là, ch' ella si fugge e inerba
Casto amor dentro la tua bella mandra Fra cespo e cespo, e via sguizzando striscia,
Sì dolcemente, ch'io, qual salamandra, Lunga dietro di sè lasciando striscia,
Vivo nel foco, e non vo' far difesa, Che segnata da lei la polve serba.
Dono io Carin con quella stessa gabbia, Non temer, Carin mio, ch'aperto segno
Che d'oro tutta e d'ebano contesta , Ne mostra il ciel, ch'a glorioso fine
N' arrecò il gran Gisgon di là dal mare: I tuoi n andranno e i miei cortesi ardori.
E quando il chiaro suo dolce cantare Già sono io teco, e tu, se quelle spine
T'invita al sonno, o dal dormir ti desta, Nol vietan, veder puoi l'alto sostegno,
Apra il mio nome tue rosate labbia. Nape, della tua vita apparir fuori.

E' non è poggio alcun monte, nè colle, Or conosco io, caro Damon, per pruova,
Ch'agguagliar possa il bel pian delle selve Quanta avevi ragion, che s'io non sono
Tua gran merce, Carin, ch'ivi t'inselve Con Nape, o non la veggio, o non ragiono
Nel di più caldo, e siedi all'ombra molle: Di lei, nulla che sia, mi piace o giova.
Oh stian lungi da te, dove il ciel volle Solo ha pace mio cor, con lei soltrnova (
Locar tutti i suoi don, tutte le belve, Qualche riposo: i balli, il canto, e 'l suono
Che nuocon per li monti e per le selve, Dove ella non appar, dolei non sono,
E le pietre ti sian soffici e solle ! Anzi n'apporta ognun tristezza nuova.
Fate voi, Ninfe, poi ch'a me non lice, Bene appostai l'altrº ier lungi alla via
La guardia al bel Carin, che 'n terra giace, Un cardellin, che tra spinoso vepre,
Si che verme nol tocchi e nol punga ape: Tre suoi bei figliuolin queto copria.
Ma nol guardate già ; che con voi pace Tutti e tre questi e quel vezzoso lepre, -

Mai non avrebbe la sua cara Nape, - Che mi die 'l buon Egon, serbo alla mia
Nape, più d'altra bella e più felice. Ninfa, perchè dal mio suo cor non seprº

Là da Faltucchia, Carin mio, se l'occhio Questo candido fior di verde arancio, -

Non mi falle, vedo io scorrer quell'agna, Tirsi, a te diede il buon Damon, perch'iº
Cui d'avere smarrita Egon si lagna: Da te l'avessi e lo donassi al mio
Pon mente un poco tu, s'io 'l vero adocchio: Foco, che si mi fa pallido e rancio:
Ell' è dessa, Damon, che da quel nocchio Perch'io dentro il mio cor delibro e sanº",
Di quercia or bela, e tutta la campagna Che mai non caggia in me per tempº obblio
Empie di strida, quasi la compagna Di lui, ch'è sol cortese amante e pio».
Chiami: guardiam ch'ella non c'esca d'occhio. Quando gli altrui e l'ardor suo bilanciº
Guardiam, Carin; ma che splendor veggio io Questo ch'ora e si bello e tanto odore
Uscir di là, dove zampilla il fonte Getta, e tosto che sia languido e seccº»
Morgana? or nasce a mezzo vespro il sole? Più non ristora il primo suo vigore,
Quella è Nape, Carin: Carino addio: Alla mia Nape mostrerà che 'l fiore
Io me ne vo, dove m'aspetta al monte Della bellezza, divenuto stecco,
Il buon caprar, che 'l bel riposo cole. Mai non ricovra il suo perduto onore
PARTE PRIMA 533
A M. Bernardo Vecchietti.

Io ho, caro Damon, tutto oggi corso Deh, perchè non sei tu, Carin mio bello?
Per queste selve, riguardando intorno, Perchè non sei tu qui, Carin mio buono,
Per veder s” io vedessi altero, adorno, Tra questi freschi orrori, al dolce suono,
Caro, vago, gentil, mansueto orso. – Che per la Tana fa chiaro ruscello ?
Ed io, scaltro Carin, tutto oggi ho scorso Oh, quanto fora avventuroso quello
Per tutti questi colli attorno attorno, Cespo, che 'l pastorel, di ch'io ragiono,
Per trovare, anzi che fornisse il giorno, Col bel fianco premesse? or dove sono ?
Dalla tua dolce vista alcun soccorso. – Che prego? di chi parlo ? a cui favello ?
Eccomi, buon Damon; si fosse il cielo Pur potessi io di qui scoprir Vacciano,
Benigno a me, che pur di santo ardore Dove egli, or forse il caldo di noioso
Acceso tutto mi consumo e struggo, – Sotto l'ombra trapassa all'aura mobile.
Non dubbiar, Carin mio, che tolto il velo, Felice mio caprar, caprar mio nobile
Che forse appanna quel leggiadro core, Di' mentre 'l miri dal tuo bel riposo,
A te ricorrerà, come io rifuggo. Perchè quinci sei tu, Damon, lontano?
-

Nape, non mio voler, nè mio consiglio Nape, questa vezzosa, ornata gabbia
Da te mi parte, oimè! ma fera stella: Con un bel raperin, che saglie al dito,
Sovvengati di me, ninfa mia bella, Carin ti manda, ed io per lui t'invito,
In questo duro mio, gravoso esiglio. Ch'ei non osa a gran pena aprir le labbia,
Cosi piangea Carin, di bianco giglio Che ti piaccia venir, come il sole abbia
Venuto rosa imbalconata ; ed ella Di man portato il giorno, in quel fiorito
Al tristo suon dell'amara novella, Prato, ov'Amor l'ebbe per te ferito,
Bassò la fronte pallidetta e 'l ciglio; Ond'ei, che muore ognor, vita riabbia.
E poco men, che non morio di doglia: Solo il vederti a lui può dare aita;
Pure alla fin, lui rimirando fiso, Solo un guardo di te può torgli morte:
Con gli occhi, disse, rugiadosi e molli : Sola far lo puoi tu lieto e felice –
Mentre che l'Ema stilla d'acqua, o foglia Ben lo farò, Damon: così partita
D'erba avran tutti questi ameni colli, Facesse via più tosto, e 'n via più corte
Mio cor, non sarà mai dal tuo diviso. Ore scoprisse il Sol questa pendice!

Questo can pescator, ch'appena il suono, Perchè, quando in Carin tutta t'aſigi,
Standomi dietro così quatto quatto, I crin biondi mirando e gli occhi negri,
Sente dell'arco, ch'ei veloce e ratto Tanto allo star di lui, Nape, t'allegri,
S'è gittato nell'acqua in abbandono, Quanto poscia al partir mesta t'affligi? –
Già lo mi diede il mio bel Jola in dono, Se 'l tristo suon delle notturne strigi
Che l'avea seco in fin di colà tratto, Non turbi il chiaro de'miei giorni allegri;
Dove 'I Sol nasce e muor quasi ad un tratto, Se Pale il gregge tuo sempre rintegri,
Ed io a te, caro Carin lo dono. -
E l'uve a te Bacco medesimo pigi; -

Piglialo, prego, e sii certo, Carino, Perchè Damon, quando Carino appare,
Che se lo meni una sol volta teco, Subitamente e volto e color cangi,
Maggior ben gli vorrai, ch'a Venturino. Ed al suo disparir t'attristi e piangi? –
Ed ei costi più volentier, che meco L'amor, Nape, mi sforza – E me l'amare ,
Starassi non men buon, che bel maschino : Damon, costringe: – Ardiam dunque, che mai
Cosi potessi anch'io venirmen seco. Non fur più dolci e più cortesi lai.
A Daniello Angiolieri, A Giuliano della Lira Tiratoro.

Solo il vedere ancor di lontano Ema, Oh ! se per mia ventura alto destino,
Membrando io, che per l'Ema il mio Carino Ch'a miei casti desir spesso compiacque,
Lieto faceva al suo Vaccian cammino, Tra questi molli ontani e lucide acque,
Addolce ogni mio duol, non pure scema. Oggi menasse il mio dolce Carino;
Ma perchè suda si repente e trema Ben porria dire il bel monte vicino,
Mio core? Ahi duro, acerbo, empio destino! Dove la vita mia quasi rinacque,
Egli emmi or lungi, e fu già sì vicino, Quando l'arbor del Sol tanto mi piacque:
Perchè sempre io fuor pianga, ei dentro gema. Al ciel per doppio onor men vo vicino.
E non è tanto spiacevole e lazza Ed io l'antica e si profonda piaga,
A gentil gusto non matura sorba, Ch'Amor mi fe' per non saldarla mai,
Quanto a me da Carin viver lontano. Di mio proprio voler doppiar vedrei:
A lui ogn'altro prato, ogn' altra piazza Anzi doppiò quel dì, ch'altera e vaga
La vista fagli e più la mente torba, Schiera di larve, oh felici occhi mici !
Che quello e quella del suo bel Vacciano. Con non saggio veder, saggia mirai.
53 4 SONETTI
A ser Vincenzio da Falgano.
Non lungi alla scoscesa, antica roccia,
Che sempre mira disdegnosa Flora,
A piè del fonte che stillando irrora, ALTRI SONETTI VARI (i)
Cecero, ond'ebbe il nome suo la doccia,
Stava Damon contando a goccia a goccia
L'acqua ch'indi brillando usciva fuora,
E dicea nel pensiero: Ond'è ch'ognora
Più fera sorte ai più miglior più noccia ?
Perchè non è qui meco il bel Carino?
Chi me l'asconde, oimè, chi lo mi toglie,
Se, dopo l'arbor mio, sol l'amo e 'nchino? Al vessovo di Fermo.
E ben so, ch'ei, s' io non falso indovino,
Per saziar tutte mie sante voglie, Già non mi spiace, onor dell'Arno e mio
Esser vorrebbe a me sempre vicino. Vedervi gli occhi rugiadosi e 'l volto,
Poi che chi lo vi die, per sè n' ha tolto
Il gran Gaddi, a me donno ed a voi zio.
Esser grato ai viventi, ai morti pio
Ed io vicino a lui sempre vorrei Conviensi, chi non è malvagio o stolto:
Esser, ma lo mi vieta or tristo fato,
Or vano altrui temer, perch'io beato Piangete dunque in nero panno avvolto,
Non sia due volte, come allor sarei. Che con voi piango e mi lamento anch'io.
Sannolsi Amore e 'l ver, s'io dissi o fei, Pur vi rimembre, alto signor, che quanto
Anzi, s'io ebbi mai, Carin, pensato Nasce sotto la luna, appena è nato,
Che comincia a morir cangiando stato.
Altro che porvi a quel gran Lauro a lato,
Cui tutti hanno per segno i desir miei. A lui nulla mancò, ch'io ploro e canto,
Per farsi in terra come in ciel beato,
Ma poco a voi e meno a me, può torre Se non la soma delle chiavi e 'l manto.
O 'nvidia, o gelosia, ch'ira ed asprezza
Puon freno a corpi e non all'alme porre;
A Niccolò di Tommaso Martelli.
Chi briga d'arrivare a quella altezza,
Dove ogni cosa per natura corre, Il sacro monte, cui si poco oggi ama,
Virtute sola e veritate apprezza. -

E prezza il secol di virtù rubello;


Quello ond'ebbe e cui diede il gran Martello,
Frate al buon padre vostro, eterna fama
E forse un di venire ancor potrebbe, Ognor voi lieto aspetta e quasi chiama,
Grazioso Carin, se 'l cielo ascolta Ed io vi prego, signor mio, con ello,
I degni preghi con pietà, che tolta Che quivi ogni più dolce, ogni più bello
La vana tema al duro cor sarebbe. Pensier volgiate, ogni più alta brama.
E fra sè stesso e con altrui direbbe Nè vi dispiaccia, alma cortese, ch'io
Forse: Ben cieca fu mia mente stolta, In qualche parte conoscente, possa
Che non seppe veder pure una volta, Pagare a voi quel ch'a lui debbo ſio.
Quel che mille, orbo ognor, veduto avrebbe. Ogni cosa mortal, si piacque a Dio,
Ma tanto allor ne gioveria, quanto ora Chiude breve sospiro in poca fossa :
Nulla n' offende, che s'io fossi solo Sol l'alma pianta mia non teme obblio.
Teco negl' antri de boschi Arimfei.
A M. Antonio Rinieri da Colle.
Sol ti rimiraria, Carino, e solo
I tuoi dolci concenti ascoltarei,
Ma ben due volte appien beato io fora. Anton, ben puote il vostro ingegno altero
E la bontate al grande ingegno pari,
Tra gli spirti innalzarmi illustri e rari,
E mostrar bianco cigno un corvo nero :
Anzi, non punto più fora io beato Ma ch'io 'l creda non già, sebbene spero,
Di quel ch'or son, se non è falso il vero, Mercè vostra e non mia, di lor che chiari
Poscia che nulla temo e tutto spero, Sono e celebri, un di girmene al pari,
Nè ebbe uom mai del mio più dolce stato. Che menzogna talor m'asconde il vero.
Nè avrà, penso, uom mai, di che lodato Pur v” ammonisco, anzi v'esorto e prego,
Sia, dopo il ciel, quel verde tronco altero, Che volgiate lo stil dolce ed ornato
E voi, per cui addoppio e vivo e pero, Vostro a lodar chi sia di me più degno :
Carin, da me secondamente amato. Quel più d'ogni altro verde, e più pregiato
Queste cose cantò, mentre ch' all'ombra Arbor cantate, a cui notte e di spiego
Sedea Damon, di quel sacrato alloro L'ale e i pensier, ch'altro non hanno segno.
Che l'Arno e 'l Tebro co'suoi rami adombra:
Or di cura maggior la mente ingombra, (1) Essi portano nell'edizione del Torrentino questo titolo:
E posto mano a più grave lavoro, Alcuni Sonetti del medesimo Autore, parte ritrovati nello
Il canto e' suon dal corper sempre sgombra, stampare, e parlº desiunta di nuovo.
PARTE PRIMA 5 35
A Giulio Berardi, A M. Francesco da Somaia.

S'io avessi creduto che i più tardi In questa, ch'al suo mal si corre, calca,
Anni canuti a schivo presi, o a scherzo E tra speme e timor giela ed avvampa,
Non aveste, di par forse col terzo Più spesso si rileva e meno inciampa,
Giulio, il quarto m'ardea, gentil Berardi. Chi segue Apollo, e dietro i buon cavalca:
E se ben veglio, e grave son, mai tardi Ma sol non cade mai chi non diffalca
Non però giunsi all' amoroso scherzo, Quanto natura e Dio nel cor gli stampa,
Anzi sì sprono me medesimo e sferzo, E quanto qui le sciocche menti avvampa,
Chè men veloci assai corrono i pardi. Con piè sicuro spegne e saggio calca.
Ben poteste veder, se nella fronte Io, che tra pioggie tempestose e feri
Si legge il ver, che mille volte Amore Venti, quattro anni, avvolto in densa nebbia
Per voi mi tinse e scolorommi il core, Errai Francesco, e quattro lustri interi
Eran per sè le voglie ardite e pronte, Tosto che scorsi i casti rami alteri,
E le forze altresì, ch'a santo ardore Sgombrai del petto ciò, che l'alme annebbia:
Tal'è la bianca età, qual pioggia a fonte. Quinci è ch'a lieto fin giugnere speri.
A M. Lorenzo Vidrosci. A M. Lelio Bonsi.

Vidrosco, io soglio ben, quando talora Dunque mi dite, oimè, dunque è pur certo
Doppio mi sprona onesto alto disio, Lelio, dunque debbo io credere, abi lasso!
Quel che mi detta amor cortese e pio, E non morir, che già l'estremo passo
Mandar con voce, o con inchiostro fora; Varcato abbia, ed io viva, il grande Alberto?
Ma non però crediate voi, ch'allora Ben dubitava, anzi era quasi certo
Pensi di tòrre o l'altrui nome o'l mio Che di lui privo fora il mondo e casso
A quel, che tutti involve oscuro obblio, Al maggior uopo nostro ; or sopra il sasso
Dopo questa fatal cosi breve ora: Scrivete voi, cui fu suo core aperto:
Se non se alcun, cui lungo studio e raro, Si chiara Petra e di sì gran valore
Sublime ingegno, e sua felice stella Chiusa è qui dentro, che per sè la volle,
Rendon sempre quaggiù celebre e chiaro. E là ne mostrò sol l'alto Fattore.
Dunque, se i ver lodar volete, e caro Piangi Arno, che tua luce e quel maggiore
V'è farvi conto a questa gente e a quella, Pregio, ch'al Santo e al Tebro il vanto tolle,
Il gran Casa cantate e 'l mio buon Caro. Scurata e 'n parte e fatto assai minore.
A M. Lelio Capilupi. Al medesimo.

Signor mio caro, ogni pensier mi tira Deh ! se la greggia tua, fedele e caro
A ricovrare il mio nuovo tesoro, Elpisto mio, di bene in meglio avanzi
Ch'io lasciai per seguirlo ogni lavoro La santa Pale, e te null'altro avanzi,
Si che 'l cor lasso altrove non respira. Che'l mio Pitia a cantar, ch'è sol, non raro:
Felice l'alma che per lui sospira, Sgombra, dagli occhi il pianto, e meno avaro
Anzi trionfa ornata dell'alloro, Sii del tuo danno, e non voler quinci anzi
Che col cor veggio e colla lingua onoro Varcar, che Cloto il fil reciso abbia, anzi
Per quel dolce disio, ch Amor m' inspira. Rivolgi in dolce ogni passato amaro.
Altro schermo non truovo che mi scampi Che se 'l bel Tirsi, ch” alle destre rive
Contro i fastidi, onde la vita è piena, Nacque dell'Arno, ov'han le Grazie il nido,
Se non lor vista angelica e serena. Di se le selve e le campagne ha prive,
O poggi, o valli, o fiumi, o selve, o campi, Morto non è, ma'n grembo a quelle D.ve,
Ov' ancor per usanza Amor mi mena, Ch'egli amò tanto e con sì chiaro grido,
Di fuor si legge, com' io dentro avvampi. Salito al ciel, tra i più beati vive.
A M. Giovanni Rondinelli. A M. Lucio Oradini.

Aquila non volò tanto alto mai, Cortese Oradin mio, ben è ragione,
Nè cosi presta, come quel che nacque Che 'l ciel turbato notte e giorno or pianga,
Cigno, Rondinel mio, vicino all'acque Or sospiri, e che qui nulla rimanga,
Di Dirce, e Tebe feo più cara assai. Ch'al pianto mai, ned a sospir perdone;
Questi or gli Dei, or gli amorosi lai Poscia che 'l vostro Anton, nuovo Arione,
Cantando, or l'altrui palme, in guisa piacque, Dietro l' Alberto mio, perch'io rimanga
Ch'ogn'altro dopo lui fu roco o tacque, Con voi dolente e tutto 'l mondo s'anga,
Infin che venne, e n'era tempo omai, Tolto ha colei che tutti a terra pone.
Nuovo Cigno gentil, che sopra il Tebro Ma questa volta quella ingorda mano
Versò si dolci e si chiari concenti Che tutte cose umane o svelle, o iniete ,
Ch'ancor s'aggira, e ne rimbomba il suono. Avrà disteso la sua falce invano:
A questi poscia, ma con altro tuono Che se già ricovrar l'altrui poteo
Udir l'Arno e la Sorga eguali accenti , Anime spente il vecchio e torle a Lete,
Per la pianta, cui tanto amo e celebro. Ben potrà or la sua novello Orfeo.
536 SONETTI
Al medesimo. A M. Girolamo Zoppio.
Dolce amaranto mio, la lunga pompa, Il parto verginale e quell'altera
Ch” io vedo, lasso! in vesta nera a cerchio Progenie santa, eguale al suo gran Padre
Girsen cantando dal mesto Arno al Serchio, Di Lei che sposa fu, figliuola e madre,
Prima al Tebro cantò dotta e sincera
ch'ogni mio
Par Damone,
Caro diletto nel
ogni piacer mezzo rompa.
e pompa l
Musa: or voi, Zoppio mio, vedendo ch'era
Delle selve e de' colli, se 'l ver cerchio In tenebre già chiusa oscure ed adre
Cogli occhi, e non m'inganna anor soverchio, Con voci d'Arno dolci, alte e leggiadre
Vien chi del tutto toglia oggi e corrompa. Le volgete in bel di l'ultima sera:
Quella è la dotta ed onorata schiera, - Così, prego, seguite, che, se vero
Che n'accompagna al ciel colui, che vinse A noi dice la fama, il bel Sebeto
Arione, Amfion, Lino ed Orfeo. Dovrà tosto e non poco al picciol Reno:
Dunque il nostro gran Pan non vive ? ov'era E 'l Tosco fiume, assai di lodi pieno
Febo ? u'le Muse, quando morte estinse Più che d' arene, come io bramo e spero,
Ogni onor loro e muto il mondo feo? Sovra 'l suo frate andrà superbo e lieto.
A Batista del Corteccia, musico. A M. Niccolò de' Medici.
-

E pure è ver, caro Batista, e pure Quanto stato per me fora il migliore
Creder convengo, ali fato indegno e rio! Da 'ngiusta dianzi e crudel man trafitto
Che'l vostro e del buon Giulio Antonio e mio Per non tanta or soffrir doglia e dispitto,
Del mondo più, nè di noi forse cure: Questo breve fornir nojoso errore?
Ahi fera Morte ! tu, potevi pure Felice chi non nasce, o tosto fuore
Mill' altri darne e mille al cieco oblio, Del carcere esce al penar suo prescritto;
E lui serbar, che Lelio e Lucio ed io Come esser può, che 'l corpo egro ed afflitto
Più piangerem, che mille altre sventure. Viva, se l'alma ognor piangendo muore?
Anzi nè luogo mai, nè tempo ſia, E ben piange a ragion, ch' ogni sua spene
Che non pianga altamente, e non sospire Ogni requie, ogni gloria, ogni suo bene,
Chiunque o bontà pregia, o cortesia: Per partirsi da noi spiegato ha 'l volo:
Ma cante o suoni no; chè l' armonia, Ond'io, rimaso sbigottito e solo
Che dal ciel con lui scese, al ciel salire Senza governo in mar, che frange e sforza,
Volle con lui per così lunga via. La mia verde sospiro, amata scorza.
A Madonna Giulia Quistegli. Al signor Paolo Orsino.
Donna, cui mai nè forza, nè consiglio Alto signor, che quegli antichi pregi
Dell'avversario nostro empio e fallace Del Tebro e con la penna e con la lancia
Torcer poteo da quelle carte, u giace Tornate al mondo, e vi prendete in ciancia
Il ver, nè altro uman danno, o periglio: Chi dell'altrui valor si glorie o pregi:
Se quel signor, che da mortale esiglio Tutti i segni d'onor, tutti i bei fregi,
Conduce e guerra a divin regno e pace Ch' ormar l'lbero mai, Lamagna e Francia,
Chi gli par, quando vuol, come a lui piace, Vince quell'un, che la sinistra guancia
V” ha tolto il caro vostro ornato figlio, Vostra onorata par ch' adorne e fregi.
Già non devete voi piangere, e sempre Ben ne mostra or la mano, or il consiglio
Sospirar notte e di recando ognora Di voi, signor mio caro, or ambo insieme,
A lui noja, a voi doglia, a noi tormento. Che degno sete a sì gran padre figlio.
Il suo chiaro splendor, quel sommo, ch'ora O dell'Orsa, o di Roma onore e spenne,
Sente di tutti i ben dolce concento, Quando sarà, che 'l vostro fero artiglio
L'oscuro e amaro vostro allumi e tempre. Quel giogo squarci, che l'Italia preme?
Per M. Pompeo dalla Barba. Al signor Paolo Giordano Orsino.
Dopo le basse, oscure e mortali acque, Quelle, che tante in voi doti e si cara
Dopo 'l bel mondo, che nel mezzo luce, Versàr natura e la fortuna insieme,
L'alte chiare e celesti al sommo Duce, O del Tcbro, e dell'Orsa unica speme,
Nel principio crear mai sempre piacque: A qualunque e maggior vi rendon pare:
Dove si giace in sempiterno e giacque Ma doppia gloria, che l'altere e rare
Divisa in tre splendor l' immortal luce, Menti di lettre e d'armi ingombra e preme,
Ch'alle purgate e illustrate alme adduce Sola porravvi, chè di nulla teme,
Quella perfezion, ch' unqua non nacque. ln cima del miglior tra l'alme chiare;
Occhio mortal non vide mai, ne mai E vi farà non mcn gradito al mondo,
Orecchia udio, nè pensò cor quale ivi Ch'al magnanimo re d' Etruria e d'Arno:
Lume e dolzor per nove cori splende Ch'a voi per donno di sua figlia eletto,
Men famoso, Giordan, men chiaro andrai, Par bene erto e spinoso al primo aspetto
Santo, e tu, Tebro, or che de' vostri rivi Il monte, onde sua falce adopra indarno
Cresciuto al par di voi l'Arno s'estende. Morte, ma è nel ſin piano e giocondo.
PARTE PRIMA 53 7
Al medesimo. A M. Bernardo Puccini.

Se voi, signor, senza ch'alcun v'instigi, Or si rivolge l'anno intero a punto,


All' erto monte di virtù, correte Che'l terzo Giulio tra mentite larve,
Con sì gran passi, e già da voi si miete A gli occhi miei notturno sole apparve,
Maturo frutto anzi che 'l fiore spigi: Ed ebbe al vecchio nuovo fuoco aggiunto.
Se tanti ognor mostrate e tai prodigi O per me fausto giorno, o ora, o punto
Del vostro ingegno, e si verde sapete A voi sì caro! E che potean più darve
Quel, ch'appena i canuti, or che farete, Le stelle tutte e 'l ciel, che raddoppiarve
Varia la barba, e i capei d'oro grigi? La luce, onde 'l mio cor non parte punto?
Solo spera per voi gli andati danni Da indi in qua con geminato ardore
Ristorar Roma tutti, e tornar quale ln dolce, alta, gentil, cortese fiamma
Fu quando visse e regnò senza pare; Doppio sempre m'avvampa, e strugge amore.
Ed io veder nostro vil ferro al pare E'l vedermi io vicino all'ultime ore
Dell' antico oro, e noi vivere eguale Non raffredda l'incendio, anzi l'infiamma,
Al secol prisco senza falli e 'nganni. Che felice amator beato muore.

A M. Alessandro Valenti. A Bernardo Lenzi. -

Come dentro chiuso orto, ove pastore, Bernardo, or che 'l buon frate vostro, e mio
Nè s'avvicini armento, sopra chiaro Caro signor con pietà dritta e legge
Fonte, in aprico loco, amato e caro La vecchia alta cittade amica e regge
Cresce Amaranto, o s'altro è più bel fiore: Al gran pastor, che ne rassembra Dio;
Non altramente il mio buon Paolo, onore Quel più che quinquelustre alto disio,
Dell'Orsa e del gran Tebro, altero e raro, Cui tempo o forza mai non è ch'allegge,
Anzi senza alterezza e senza paro, Cresciuto è dentro sì che fuor si legge,
Maggior fassi ogni giorno, anzi a tutt'ore. Ch'altro non penso e ch” altro non disio,
E questo a voi si deve, o tutto, o parte, Ch'esser là, dove più che mai felice
Alessandro gentil, che non Apollo Con onde chiare e più che mai contenta
Amate sol, nè solo amate Marte, Corre la Paglia alteramente e dice:
Ma l'uno e l'altro insieme, ond' ei comparte Questi nuovo Licurgo e nuovo Numa,
Or a l'armi suo studio, or alle carte, Pietoso stringe il fren, severo allenta,
Tal già facea lo mio verde rampollo. Di si nuova virtute il ciel l'alluma.

A M. Giulio Stufa.
Stufa gentil, le rose e l'alabastro Dimmi: arestù, Damon cortese, visto ,
Non han sì dolce e si vivo colore, Mentre all'ombre d'allori un lauro squilli,
Quanto al vostro è tornato e mio signore, Per queste selve la mia vaga Filli,
Alta di Dio mercede e del buon mastro. Che soleva allegrarmi e or mi fa tristo ? –
Qnal risplende nel ciel più lucente astro, Dolce, caro gentil, fedele Elpisto,
Men grata vista e lume assai minore Che tal col tuo cantar dolcezza stilli,
Scuopre, si può con natural vigore Dianzi la vidi, e seco era Amarilli,
A quantunque gran mal ben giunto impiastro, Di color d'amaranto e latte misto. -
Ponete dunque al gran dolore il freno, Ma tu sapresti del mio bel Carino
E meco lieto i voti omai sciogliete Novella, cui già tanti e tanti di
A chi n'avviva il mondo e adorna il cielo. Indarno, lasso! ognor cercando vo? –
Dite con quello stil, che raro avete Tuo bel Carino all'apparir del di
Eguale a voi, di tutte grazie pieno, L'altrieri umido gli occhi e 'l viso chino
Come ancise Fitone e fermò Delo. Il suo Vacciano e noi mesti lasciò.

A M. Filippo Bravi.
S'alcun mai dagli scogli e dalle sirti Caro leggiadro, amorosetto fiore
D'amor lungi sen gio, s'alcun mai visse Ch'a me'l buon Tirsi, a lui'l mio bello e vago
ln amor senza affanni e senza risse, Carin dolce donò, come presago,
Io son, Bravo, quel desso, e più vo dirti; Ch'egli 'l darebbe al suo fedel pastore;
Che tra quanti ad amar cortesi spirti Color più grato e più soave odore
Destinaron mai stelle erranti o fisse Piaggia, nè colle mai, fiume, nè lago
Me sovra tutti gli altri alto trafisse Del tuo non ebbe: onde io contento e pago
Amor tra pini, abeti, allori e mirti. Più d'altro amante assai, ringrazio Amore.
Ed or, guari non ha, sì come legno E credo ben, che quando il dì s'aggiorna,
Men verde più non avvampasse, nuova Non sia di tanti e così bei colori ,
Fiamma m'accese al cor si dolce e santa ; Chenti rimiro in te, l'aurora adorna:
Che qual Fenice a viver si rimuova, Quanti Adon, quanti Esperia e quanti odori
Talio morendo in doppio ardor, più vegno Ebbe Alcinoo, nella memoria torna
Vivo foco girilio. beata pianta. Questo bel fior di tutti gli altri fiori.
VARCHI V., I, 08
538 SONETTI
A Francesco del Bene.

Francesco, a anel sì vago e sì gentile, Non son vani il sospetto e la mia doglia:
A me sì dolce e caro ornato fiore, Chi più ama, signor, sempre più teme,
Che 'l vostro mi donò cortese core, Metal freddo per voi notte e di preme,
Son gli anni vostri e la beltà simile. Ch'io tremo ognor via più ch'ad Ostro foglia.
l'regiato la diman, la sera vile -
Poca nebbia in un punto avvien che toglia
Resta ei senza vaghezza e senza odore : Infinita talor fatica e speme :
Cosi beltate e giovinezza muore, Non pure i ſior, ma i frutti e i rami insieme
Ne dura più, che quanto è verde aprile. Spesso grandine o vento abbatte e spoglia.
Ma se frutto produce, eterno vive, Picciolo intoppo alcuna volta il corso
E mille piagge e mille colli adorna, Di veloce destrier nel mezzo frena :
Senza temer più venti o pioggie o soli. Tal par gran meraviglia e poi si sprezza.
E chi la fresca età, che mai non torna, Presso alla fin del mio natural corso
Con virtù spende, tra le sante dive, Già sono io giunto, e so qual giovinezza
Pregi n'acquista sempiterni e soli. Non bene spesa e danno apporti e pena.
A Giovangualberto Vecchietti. A M. Giulio della Stufa.
L' arbor, le cui radici entro al cor celo, Un cenno solo, un atto, un guardo scuopre
Venti e sette anni al sole ed agli algori Spesso quel che la mente o fugge, o vuole;
Ha virtù dei più duri e freddi cori Non basta ad uom non folle udir parole,
Lo smalto intenerire, ardere il gielo, Se non vede talor conformi l'opre.
Io ch' or son cera e foco al bianco pelo, E perchè nullo mai cosa vile opre,
Ferro era e ghiaccio a miei tempi migliori, Poco fumo oscurar gran fiamma suole :
E pur tra faggi, abeti, ontani, allori Qual maggior lume, e più chiaro è che 'l sole?
Tai arsi ed alsi ch'ancor flagro e gielo. Eppur picciola nube il vela e cuopre!
Più vi dirò, Vecchietto mio, che dianzi, Troppo con mia gran doglia e danno vostro
Sì m'è dolce avvampar d'onesta fiamma, Credete a gli anni giovenili, e forse
Nuova esca e solfo a focil nuovo fui. Chi sol sè stesso e poi null'altro cura,
N sol Carin dopo il gran Lauro, anzi Oh che lieve è ingannar chi s'assccura !
Chinnque avrà di vero valor dramma, Benedetta la pianta che mi torse
Sarà mio donne, e m'arderà con vui. Dall' errore e viltà del secol nostro !

A M. Anton di Bona. Al medesimo.

Anton, che come i buoni e i saggi fanno, Troppo ha gran forza il cielo, e troppo puonno
Appregiando virtute e sprezzando auro, Le sirene del mondo e'l rio costume
Di quel saldo v'ernate e bel tesauro, Di questa vile età, ch'ha per costume
A cui tutte ricchezze indietro vanno i Le virtuti far serve e 'l vizio donno.
Già da sublime parmi e chiaro scanno Ed io, ch' ognor di me tanti anni indonno
Del suo cingervi Apollo e del mio Lauro, L' arbor seguito già dal quarto lume,
Onde al vostro gentile alto Epidauro Amar ne so, nè voglio uom che le piume
Alta invidia e gentile i dotti avranno. Non fugga e l'ozio in questo breve sonno
E quella zoppa che con sì veloce E s'erga dietro lui per quelle strade,
Passo n' aggiugne e tutte cose sforza, Che conducon lassù felici e salve
Tal che spaventa altrui sol della voce, L' anime degne di salire a Dio,
Userà indarno contra voi sua forza, Perchè se di me punto o di voi calve,
Ch' alla fronda del Sol nulla mai noce, Non più vinca ragion folle desio:
Anzi ella sola ogni potere sforza Piè, che spesso vacilla, alla fin cade.

Signor nuovo, per voi dolore, e nuova Ch'altro bramo, o cheggio io con tali e tanti Mi
Nel profondo del cor pietà m'assale: Preghi e sospir? con tante carte e'nchiostro,
Tal mi dice colei che con cento ale Che quello oscuro vel, ch'appanna il vostro
Porta cento occhi, e va co' venti a prova. Oggi falso veler, torvi davanti ?
Ma se scintilla in voi d'amor si truova
Ed a quei vaghi casti, rami santi A,
Ver me, cui tanto del ben vostro cale, Di smeraldo adornati e degni d'ostro
Deh non vogliate alla vil gente uguale, Rendervi egual, perchè più d'altro il nostro
Oprando, vincer si dannosa prova ! Secol di doppio onor si pregi e vanti?
Non vogliate, vi prego, a me disdegno Ma che posso io, se poca etate o folle
Fe
Giusto e a voi biasmo procacciar che breve Pensicr l' orecchie con sì forte pece
Macchia spesso gran pregio asconde o toglie. Vi chiude che nulla è ch'al cor v'arrivº?
Ogni altro peso assai fora men greve Pianse alcun poi che egli ebbe quel ch'ei volle:
A mc, che sostener giogo non degno in me speranza muor, tema rivive,
Delle mie verdi, sacre, ornate foglie. li Più non dirò, perche più dir non lecc.
PARTE PRIMA 539
A M. Giulio dalla Stufa. -

Potea ciascuno il mio felice stato,


Tal son pur del pregar debile e fiacco, Donna, invidiar, ma solo offendere io :
Ch'a gran pena la vita o mai sostegno
Io sol dalla mia speme alta e disio,
E poi che nulla valni, o forza o 'ngegno, Sentendo a me giusto desir negato,
Tacciomi alfin non sazio già, ma stracco.
Volli e potetti, oimè, partirmi irato,
Oggi del tutto spargo a terra e fiacco Nè mi partii però che 'ntorno al mio
Le mie vane speranze, e nel suo regno
Lume quasi farfalla o qual restio
Vincere Amor e soffrir colpi vegno Destrier m'avvolsi, e non fui mai slungato.
Più gravi assai di quei ch'anciser Cacco. Pur quando poscia il mio bel sol co rai
E per doglia maggior sovviemmi ognora Turbati, avanti il vespro in picciol ora,
Del dolce Lauro e suoi santi atti schifi, Due volte, lasso, tramontar mirai:
Mio fido Automedon, mio fido Tiſi.
Iroso no, ma ben più d'altro uom mai
Dunque vi piace, signor mio, ch'io mora Tristo e pentito inſino all'aurora,
Per voi campar, di sdegno, ira ed affanno ?
Ma non ſia : tai radici al cor mi stanno. A posar no, ma sospirar tornai.

Al reverendissimo padre maestro Egidio Bonsi,


reggente di Santo Spirito.
Ben ebbi al nascer mio contraria quella,
Se dir vero altrui lice, io non invidio Ed avrò sempre omai che cieca gira
Chi gli scettri possiede, e poco apprezzo Sua voltabile ruota e in alto tira
L' oro, fuggir quel ch' altri cerca avvezzo : La gente indegna alle virtù rubella.
Ma voi, novello e pari al vecchio Egidio, O mio forte destin, fera mia stella!
Voi sol di Belzebubbe eterno eccidio Mai non fu, in quanto volve Apollo e mira,
Ammiro, e qualunch'altro allor disprezzo, (Tanto ha il ciel contra noi di sdegno e d'ira)
Per cangiar come il pelo ancora il vezzo, Sorte quanto è la mia crudele e fella.
E trovare a miei danni alcun sussidio; Or che gioisce il ciel, la terra e 'l mare,
Chè per voi d'alto e sacro seggio suona Io sol m'attristo; e quando è verde il mondo,
Con angelica voce in atto umile Si secca, e nuor la mia più viva speme.
Dottrina del santissimo Elicona. Dunque debbo io partir º dunque lassare
Questa entro l'alma oltra l'usato stile L'albergo º onde sì spesso e si giocondo
Si mi penètra e tal quivi ragiona, Vedea 'l mio sol che l'altro oscura e prene.
Ch'ogni cosa quaggiù le sembra vile.
-

A M. Michelagnol Vivaldi.
Ben è folta, Vivaldo, e d'error piena Alto, verde, fiorito, ombroso monte,
Quella, che gl'occhi e 'l cor v'offusca, nube, Ove certa seguendo e breve traccia,
E par ch'a voi tolga voi stesso e rube, Mi prese Amor, come sarà ch' io taccia?
Tal ch'io, ch'ognor lo veggo, il credo a pena: Quanto ti debbo? e come ſia ch'io 'I conte?
Non che la vile mia sì bassa avena, In te le frondi gloriose e contc
Ma quante altre fur mai più care tube Vidi, onde tutto e sempre odia e discaccia
Sarian poco a cantar lui, che già impube Quel che più cerca il volgo e sol procaccia
Da terra alzommi, or vecchio al ciel mi mena. Salir mio cor, dove or raro è chi monte.
Quanto il gran Tosco mai parlò nè scrisse Tal che se non troppo per tempo il filo
Della pianta del Sol, quasi Sibilla, Rompe Atropos della mia vita e picta,
Del sacro arboscel mio tutto predisse. Del cielo ode talor prego non vile,
Pensate dunque, come roca squilla Forse (oh! nol creda invan) la Tana e'l Nilo
D'ignobil canna, quella gentil tromba Un altro ndranno ancor Lauro gentile,
Possa e chiara agguagliar che si rimbomba. Ed avrà l'Arno un di nuovo poeta.
A M. Donato Giannotto.
A M. Jacopo di Puntormo.
-

Mentre io con penna oscura e basso inchiostro Dunque è, Giannotto, sì per tempo spento
Tanti anni e tanti un vivo Lauro formo, Col gentile e leggiadro Benivieni
Voi con chiaro pennello, alto Puntormo, L'onor dell'Arno? or chi ſia mai che freni
Fate pari all'antico il secol nostro. Il pianto vostro e 'l mio giusto lamento?
Anzi mentre io col volgo inerte dormo, Ahi! cruda morte, onde tanto ardimento
Voi nuovo pregio alla cerussa e all'ostro Prendesti allora ? ed or come sostieni,
Giugnete tal, che fuor del vile stormo, Ch'io viva, lasso! e perchè omai non vieni
A dito sete e per esempio mostro. A me che d'esser più mi lagno e pento?
Felice voi che per secreto calle, Troppo mi duol ch'all'onorato incarco º

Ove orma ancor non è segnata, solo Seco non gii, come ci chiedeva insieme,
Ven gite a gloria non più vista mai! Ch or fora anch'io di questa vita scarco.
Onde la donna più veloce assai O Sebeto, qual gloria e quanta speme -

Che strale o vento e ch'è sempre alle spalle, Col gran Giovambatista e col buon Marco
Invan daravvi omai l'ultimo volo. N” ha tolto Marte, e picciol marmo preme.
54o SONETTI
Alla signora donna Vittoria Colonna, A Pierino da Gagliano.
marchesa di Pescara.

Donna, che sete veramente donna Zefiro dolce in questi verdi monti,
D'onestà, di valor, di cortesia, Or ch'ogni arbore è secco, ogn'erba muore,
Donna, a cui par non fu giammai, nè ſia, Da ch'apre il giorno in compagnia dell'ore
Salda di tutti i ben, chiara colonna: Infin ch'all'Occidente il Sol tramonti,
La fronde onor delle famose fronti,
Ogni virtute in voi s'è fatta donna, E sola insegna al gemino valore,
Voi con vera pietate e leggiadria Mentr'io delle sue foglie in fresco orrore
Ne mostrate piangendo tuttavia,
M'assido all'ombra tra ruscelli e fonti,
Quanto in core alto Amor casto s'indonna. Si gajamente e con tal fiato muove,
Piangete pur, che con voi piangon tutti Che giurerebbe ogn'uom ch'Apollo mai
I più leggiadri spirti, e ben n'avete, Viste non vide sì leggiadre e nuove.
E quei giusta cagion di pianger sempre. Io certo, caro mio Pierino, altrove
Qual Scita porria mai tener asciutti Non respiro, che qui dove mirai
Gli occhi, piangendo voi? E voi dovete
La pianta, ch'ogni ben nel cor mi piove.
Pianger, piangendo in così dolci tempre.
Per Carlo Martelli, A M. Giovanfrancesco Giugni.
Ned io più caro e più gradito dono Oh Dio! quegli occhi del bel Jola, oh Dio!
Dar vi potea, nè voi, donna gentile, Quel viso e portamento singolare,
Di men leggiadro e men pregiato stile Oh quelle dolci parolette e care!
Degna eravate e di men chiaro suono. Oh quel riso gentil che si disio ! h
In queste carte, alma cortese, sono Oh quell'andar celeste! ed oh quel ch'io
Sparti, quasi di fior novello aprile, Scorgo entro, oltra quel bel che fuori appare!
Tutti i pregi d'amor, che 'l secol vile Ed oh quanto natura e 'l ciel puon dare
Oggi non cura; e so che parco io sono. Ad uom divino, anzi a terreno Dio!
Queste leggendo, vederete spesso Lungi da me di mio voler sen vanno,
Più chiaro assai, che 'n ben lucido speglio, Là dove il Tebro i sette colli infiora,
Or la bontade, or l'onestade vostra. Ch'eguali oggi a gli antichi onori avranno.
Così avesse alto destin concesso
Ed io qui senza lor con dolce affanno
A lui ch'ornò cantando l'età nostra, Rimaso e senza me, più d' ora in ora
Voi per soggetto, come fu 'l suo meglio! Piangerò lieto il volontario danno.
Per M. Giovambatista dell'Ottonaio, araldo.
Come tutti i più vaghi e bei colori, Guarda, saggio Damon, ch' io temo forte
Che 'l tuo Carin non sia da sè mutato,
Che natura produca od arte mostri,
Rose, amaranti, cocco, cinabri, ostri, Tale il vidi io l'altrier con quello ingrato
Vince sol un de' tuoi purpurei fiori: D'Acaristo parlar passando a sorte. -
Cosi frutti non ha de' tuoi migliori, Elpisto, io temo anch'io che nol trasporte
Arbor discesa dagli eterni chiostri, Altrui, o suo non buon consiglio, o fato
Non dalle arene d'Africa, che i nostri Nè val (tante ho già volte invan provato)
Orti felici più d'ogn'altra onori. O ch'io'l garra, o ch'io il preghi, o ch'io il
Quanti rubini o sotto l'onde il mare (conforte -
Nasconde, o sopra terra il Sole alluma, Che fia dunque di te? Quel che nel cielo -
Stabilito fu già, che l'arbor solo
A pena un de'tuoi pomi agguagliar pnonno.
Quelle che notte e di senza esca e sonno M'ardesse, che nè sol cura, nè gielo;
Il fier dragone al caldo ed alla bruma Se già quel ch'ha dintorno agl'occhi velo
Guardava, eran di te piante men care. Il pastorel cui tanto ammiro, e colo,
Non disciogliesse il cangiar viso e pelo,
A maestro Pietropaolo Galeotti, orafo.
Voi, che solo de i duo primi e maggiori Con qual forte liquor, con quai nefande
Celesti messi il sacro nome avete; Arti, con qual reo carme, o virtù maga
Voi, ch'ai piccioli bronzi oggi rendete Potrai, Damon, così tosto sì grande,
Col mio caro Poggin gli antichi onori: E sì dolce saldar profonda piaga? -
Se bramate che meco ognor v' onori
Il mondo tutto e schivar sempre Lete,
Fedele Elpisto mio, senza che mande
A Massili o per erbe, o donna saga,
Quelle frondi formate, altere e liete, vien, ch'a sè stessa alma gentil comandº,
Che dell' usata via mi trasser fuori : S'è d'altrui danno o suo disnor presaga T
Quelle ch'io spero un di tanto alte e chiare Io vedo certo, che 'l mio bel Carino
Veder, ch'al Sole e a le superne stelle Senza curar di miei lamenti e preghi
D'altezza andranno e di chiarezza pare.
Queste fra tutte l'altre opre più rare (così vuol sua fortuna, o mio destinº)
Non ostante, ch'a me tuttora il nieghi,
E di mano e d'ingegno le più belle Prende, dietro altra scorta, altro camminº Tr
Saran senza alcun dubbio e le più care, Dunque, ſia ch'ancor tu ti torca e il sºs i?
PARTE PRIMA 541
A M. Giovambatista Santini.
Anzi quanto il seguia leggiero e pronto,
Tanto ora il fuggirò pronto e leggiero, Non sempre il regno avran Saturno e Marte,
Usato al casto, verde frutto altero, Santin, nè tutte gireran le stelle
Per cui sì lieve ogni mio danno conto, Alle nove nemiche alme sorelle,
Che mentre l'un con l'altro vero affronto, Anzi avrà Giove in ciel sua dritta parte.
E l'altrui scorgo e il mio sì van pensiero, Sempre non giaceranno afflitte e sparte
Lasso l non più, come bramava, spero Più che mendiche l'arti oneste e belle,
Vederlo al mondo glorioso e conto. L'alme più chiare alle virtuti ancelle
Onde a ragion non già di lui mi doglio Saranno in pregio, anzi del mondo a parte.
Quanto di chi non cura, o non s'accorge, E quando ben mille fiate mai
Che può spiga seccarsi o venir loglio. Non tornasse fra noi Scipio e Fabrizio,
La virtute è virtute e 'l vizio vizio.
Ma sia qui fine al canto ed al cordoglio;
Che s'altra speme altro operar non porge, Gentile spirto dee restar contento
Viver d'un lauro solo e morir voglio. Di sè stesso e del ver: più vale assai
Vedcr solo una volta ch' udir cento.
A M. Jacopo Salviati.
A M. Puccio Ugolini.
Quel vecchio stanco, che con tardi vanni
Corre più lieve assai, che pardo, o tigre, Puccio, non fate al pregar mio disdetto,
Par che non solo i nomi altrui denigre, Se di me, qual solea, cura v'ingombra:
Con quella ch'io mirai si felice ombra,
Ma spenga affatto col girar degli anni. In sacro, alto, selvaggio, ermo ricetto.
Però convien, che chi gli estremi danni
Qui, dove a Garzignan lieto v'aspetto.
Sentir non vuol, spoltri per tempo e spigre, Venite, ove ogni incarco il cor disgombra,
E con le penne della Fama impigre E già nube cortese il ciel n” adombra
Notte e di s'erga ai più lodati scanni. Per celarvi d'Apollo il grave aspetto:
E ben ciò fate, voi cortese e chiaro
Venite o mai, che 'l mio gran Bene e 'l mio
Signore, a cui dieder natura e 'l cielo
Buon Carlo, ambo due voi, prima che sera
Si felice poter, voler si raro. Lasci il sol, meco brama udirvi e spera ;
Seguite dunque, ed a quell'alto, caro Questi e 'l Martello e 'l caro Asino ed io
Nome l'opre aggiugnete, innanzi il pelo, Salutiam tutta quella amica schiera
Al padre vostro e a'sì grand'avi paro. Di gentile infiammata, alto desio.
A Valerio del Borgo. Alla signora Maria Colonna.
Valerio mio, il tempo è sì veloce, Di quell'alta colonna, cui non torse
E questi mortai ben tanto fallaci, I)al cammin dritto mai l'ira di Giove,
Così ingorde le voglie e tal rapaci Nè pioggia, o vento, e che tante e si nuove
Le mani in questo rio secolo atroce ; Corone al Tebro ed a sè stessa attorse;
Che bene è stolto, non vo' dir feroce, Altra Colonna e non men bella sorse
Chi per continue guerre, eterne paci Sovra Arno, nè men ferma, che le pruove
Lascia, e non sa veder come fugaci Di quegli antichi eroi tutte rinuove,
Son l'ore, e quanto il pentir tardo cuoce. Ond'Austro soffia, e dove giran l'Orse:
Quella sozza e crudele or colla fera Perchè già parmi in Oriente il sole,
Sua falce adunca, or coll' acuto strale Per nuovo Mario, ov' ogni ben s'aduna,
Non pure i corpi, ancide i nomi ancora. Nascer più lieto assai di quel che suole,
Sol l'alme frondi, ch' ogni saggio onora, E 'l barbarico stuol tututto ad una,
Quelle, onde non morir mia vita spera, Che gli dei falsi e i vani idoli cole,
Puonno, e null'altro qui farvi immortale, Tremar, veggendo impallidir la Luna.
A M. Stoldo Cavalcanti. Alla sig. Caterina Cibo, duchessa di Camerino.
Stoldo, che per matura e per costume Donna, che, come chiaro a ciascun mostra
Dietro 'l gran Guido e gli altri avoli vostri, Il nome e l'opre più , l'alma del vero
Lunge dall'uso vil degli anni nostri Cibo nodrite, e con divin pensiero
Volate al ciel con amorose piume ; L'alzate ognora alla superna chiostra,
Ben par che vostra alta chiarezza allume Dove, quanto e qual è, tal le si mostra
Questa età cieca, e 'l cammin dritto mostri, Tutto senza alcun velo il Primo Vero,
Dispregiando egualmente ed oro ed ostri Ed ella in atto umilemente altero
E quanto o morte, o tempo ungua consume. Adora quivi sua salute e nostra,
A voi grazia e ricchezza e forza sono, Onde non lungi, appo 'l gran Bembo, luce
Non per sè stesse, o per voi proprio care, L'alta Colonna e 'l buon Valdelsio, a cui
Ma per farne cortese agli altri dono. Fu si conta la via ch'al ciel conduce,
A voi disnore e viltà somma pare Piacciavi dir (poi che le brame altrui
Quel che la gente agli altrui danni avvezza, Scorgete tutte nell'eterna luce)
Oggi solo, o più ch'altro ouora e prezza. Ch'io son qual'era, e sarò quel che fui.
542 SONETTI

Ben sete e poco e male accorto, poi Quanto mi duol, che 'l tuo secondo lume,
Che 'n si caduco fior tanto sperate, Alma, onde a gran ragion t'a filiggi e piagni -

E per falso piacer vero lassate E di te stessa e più d' altrui ti lagni,
Frutto, che 'n vita può bearvi e poi ; Cuopra atra nebbia e vil vento consume ;
A me, caro signor, non dirlo, a voi Poca età, reo consiglio, empio costume
Il non farlo disdice, e troppo errate, Tutte le mie fatiche e i miei guadagni,
Se celandolo altrui, forse pensate, Tutte le spemi, quasi opre di ragni,
Ch'a voi si celi, e meno un di v' annoi. Hanno in cupo sommerse e largo fiume.
Anzi mille anni (oh ! non fosse il ver tale) Dunque non sarà più fida e cortese,
Saperete per pruova, e vi dorrete, Alma sdegnosa, ove Amor casto ha pace,
Che 'l pentirsi da sezzo nulla vale. Ch'a fin conduca tue leggiadre imprese ?
Voi stesso a voi medesimo oggi togliete No: sì precise omai scorgo e contese
Con altrui riso e mio dolor le scale, Le strade al bel desio, ma più mi spiace
Per cui quinci nel ciel si poggia e sale. Veder vile tornar sì caro arnese.

A M. Alessandro Greco.

Il mio sempre cantare or rime, or carmi Un anno men di cinque lustri intorno
Di voi, caro signor, vareato è l'anno, M'avea girato il Sol, quando da prima
Temo ch” un dì , nè porria peggio farmi, Vidi in alta, sacrata, ombrosa cima,
A me rossore, a voi n'apporte or danno ; Quel vago e casto laureto adorno:
Ben vi die 'l cielo, e men del vero parmi Ed ei, nuovo angioletto, entro e dintorno
Dir, quel che pochi, anzi pochissimi hanno: Sen gia, sì pien del ciel, che prosa o rima,
Ma che vale a chi getta in terra l'armi, Dir non porria giammai, qual più s'estima,
E vuol fare a sè stesso oltraggio e 'nganno, Lode di lui, che non fosse alto scorno.
Esser forte e gagliardo ? se non prima, Da indi in qua tutte l' umane cose
Con periglio maggior robusto toro, Spregiato ho sempre e spregierò fin ch'ella
Che non fa debile agno, incespa e cade. Venga, ch' a tutte umane cose viene.
Altrui folle consiglio e poca etade Ma, se indugia il venire, e mal s'appose
Vostra vi privan del più bel tesoro: Chi'ndovina il suo ben dietro a sua stella,
Ma così va chi sopra il ver s'estima. Che venir debba indarno ho ferma spene.
A M. Francesco Vinta.

Ben potete veder, cortese e caro Ben saria folle, se con rozzo e secco,
Oradin mio, quanto è vano e fallace E che non può da terra alzarsi, stile,
Nostro sperare, e come quel che piace, Portar tentassi al ciel, Vinta gentile,
Così tosto sen va, come vien raro. ll vostro verde e mio fiorito Secco.

Di questo vile, invidioso, avaro Ma, se leggiadro ardir bel pregio ebbe, ecco,
Secol, perverso e reo costume audace Che con debili penne e cera vile,
Spento ha del tutto la seconda face, A cader dalle stelle in fondo umile
Che m' ardea quasi con la prima a paro. Vengo, e per troppa tema ardito pecco.
E se maggiore età miglior consiglio Questi, a cui Carlo e 'l suo gran figlio dienno
Non apporta in altrui, come disio, Regger con egual lance e con salubri
Speme non ho, che si racccnda mai. Consigli il regno degli antichi Insubri;
Nè mi doglio però, nè meraviglio, Tale ha nei lieti tempi e ne' lugubri
Ch'ab experto sapea, che solo i mai Eloquenza nel dir, nell'oprar senno,
Del Sol tempo non cangia o dolce, o rio. Che la palma a lui dar tutti altri denno.
A M. Jeronimo Cardano,

Dove, saggio Damon, dove la strada Voi, che quanto esser dee presso e lontano Vi
Ne guida ? o pur, dove ti mena il passo? Nel ciel di man della natura scritto,
Perchè, qual vivo e sbigottito sasso, Leggete, onde per voi poco l'Egitto
Ti mostri oggi, quasi uom, che morto vada? – S'invidia oggi da noi, chiaro Cardano;
Caro Amaranto, a me dolente e lasso La dotta vostra e si cortese mano, E
Pianger più d'altro e non parlare aggrada: Aprite, prego, e quel ch'al sacro, invitto
Oggi il mio ben secondo, e così vada, Anglico rege ultimamente ha scritto,
Di mio voler contra mia voglia lasso. – Questa umil penna mia non cheggia invano,
E fia che cosi chiaro foco e vivo Ditene ancor, nuovo Calcante, a cui Tal
Si spenga? e ch'io non veggia il buon Damone Nulla è nascoso, qual pianeta o stella,
Seguir cantando il suo gentil Carino ? – Ambi sommette a fiera invidia nui.
Fia, anzi è già – Qual forza, o qual destino Vicino al Po mille fiate vui: È
Ti spinge, o quale inganno ? – Alta cagione; Io sopra l'Arno da vil gente e fella,
Piangendo il dico: ed io piangendo 'i scrivo. Morso al vivo e traſitto indarno fui.
PARTE PRIMA 543
A M. Lattanzio Roccolini. Chi è, Damon, quel si leggiadro e altero
Bronzo? e chi seppe così ben formarlo ? –
Lattanzio, se 'l mondo ha nuovo Filippo Elpisto, e il gran figliuol di quel gran Carlo,
A quell'antico ed al gran figlio eguale, Ch'ebbe del mondo e tiene ancor l'impero.
Egli ha bene anche un altro nuovo, quale Quei che formollo così vivo e vero,
Fu quell'antico, anzi maggior Lisippo. E si conto pastor, che nominarlo
Io che piuttosto cieco son, che lippo, Uopo non è, nè meno al cielo alzarlo,
Infin di qua l'altera opra immortale Dove vola per sè pronto e leggiero.
Miro col cor del gran Leone, al quale Basta che l'Arno, oltra quel gran bifolco (1)
Sete voi Tito, ed egli a voi Gisippo: Benvenuto dal ciel, tal prende gloria
Si fosse degno il mio dir basso quelle Per lui, ch'ogni altro fiume oggi l'invidia. –
Alte portare al ciel sue doti, ed io Benedetto sii tu, Damon, che 'l solco
Farmi Varron fra voi, come il disio. Dritto seguendo, senza tema, o 'nvidia
Ben deve ogni gentil sopra le stelle Degna vai de' miglior tessendo storia.
Lo grande Aretin nostro, e Giorgin mio
Alzar, Tosco Mirone e Tosco Apelle. A Marcantonio Bosso.

Al medesimo. Bosso gentil, che con roman sermone


Alzate al cielo, e con eterno canto
Quella che 'l secol nostro altero e bello Date fra tutti gli altri il maggior vanto
Rende sì vera e quasi viva immago, Al dolce bronzo del mio gran Leone,
Lodar del maggior re ch'abbia Indo o Tago, Non dispregiate quel che 'l buon Serone,
E del miglior che suone oggi martello, Ed io di lui con tosca cetra canto,
Opra è non mia, ma del mio buon Cribello. Ch'al par forse del Tebro, Ilisso e Santo
Dotto e grave non men ch' ornato e vago, Si pregiano oggi l'Arno, Ema e Mugnone,
E del vostro alto e dolce Majorago, Mercè del mio buon Caro e del gran Casa,
Che vince gli altri e va di par con cllo. Primo fra tanti eletti e chiari ingegni,
Questi, e 'l gran Secco, e'l Bosso, e tutta quella, Che rinverdono a Flora i vecchi onori;
Cortese Roccolin, pregiata schiera, E dalla pianta, in cui solo è rimasa
Che si superbo il re de' fiumi onora, L'antica lode de' pregi migliori,
Diran ch' all'arte di Leon novella
Cingono il crin, d'immortal vita degni.
Cede ogni antico, e crederassi allora,
0 bronzo, o marmo, o gesso, o creta, o cera. Al Cavalier Vendramino.

Al Cavalier Leone Aretino, scultore. Ben avete, cortese Vendramino,


Di lodar la bell'opra alta cagione,
Leon, s'al vostro ispano, anglico rege E col suo gran metallo il buon Leone
Ogni altrui primo o bronzo, o marmo e sezzo, Commendar tanto al buono e grande Orsino.
Degno è, ch'al par d'Atene e Smirna, Arezzo Io pur vorrei, ma si lungi al cammino
Da ogni alma gentil s'onori e prege: Di Parnaso mi truovo e d' Elicone,
'l gran nome di voi non pur lei sprege Che quanto avvien, ch'io più mi sferzi esprone
Ch'ogni cosa mortal vince al da sezzo, Per appressar così chiaro vicino,
Ma di gloria miglior, di maggior prezzo Men corro sempre, anzi quasi restio
Di di in di, d'ora in or più s'orni e frege. Destrier, via più m'arretro, e, mentre in alto
Onde avverrà, che dopo mille e mille Cerco salir, per tema adombro e caggio.
Anni altamente e'n prose e'n rime cºn carmi, Lodate dunque ad ambi il bel desio,
-Dall'altrui bocche or l'una, or l'altro squille. E scusate il poter, ch'a si gran salto
º già voce ascoltar per tutto parmi: Eguali al buon voler forza non aggio.
A Roma un tempo, oggi alle Tosche ville
I color deve il mondo, i bronzi e i marmi.
Chiaro signor, che già non pur vicino,
A Maestro Domenico Poggini. Ma ben di par, per non dir sopra, a quelle
Alme ven gite gloriose e belle,
Voi, che seguendo del mio gran Cellino Ch'io notte e di colla memoria inchino;
Per sì stretto sentier l'orme onorate, Meraviglia non è, ch' oltra le stelle
Ori ed argenti e gemme altrui lasciate La famosa opra del grande Aretinº
Per bronzi e marmi e creta, alto Poggino, Sen voli, e sol di lei scriva e favelle
E la bell' opra del buono Aretino Il caro vostro e mio buon Vendramino,
Non colla lingua pur tanto lodate, Poscia che maggior re da miglior mano
Ma colla mente ancor sempre ammirate, Più vivo spresso non fu mai, nè fia,
Certo, e meco di lei vero indovino : Benchè Miron tornasse, Apelle e Fidia.
"al gloria all'Arno accrescerete, e tanto Può ben talora, anzi usa spesso invidia
A metalli splendor, che Donatello
opporsi a gran virtù, ma sempre invano;
Se non minor, sarà certo men bello, Chè contra 'l ver non può durar bugia.
Flora al quarto e forse al quinto vanto
ºingnerà il sesto; ond'io di pensieri egro, (1) Bisticcio di cattivo gusto a significare Benvenuto Cel
E d'anni grave a trista età m' allegro. lin, sulle cui orme trasse il Poggini. (M.)
44 - SONETTI
A M. Giuliano Gosellini. Al capitano signor Ernando Sastri. .
Leggiadro Gosellin, sì dolce suona Frnando, il chiaro vostro e gran valore,
E tanto alto rimbomba il Tebro e l'Arno Che già dall'Indo al Tago ognor rimbomba,
Questa vostra gentil, casta Amazzòna, Alta di Marte dee pregiata tromba
Che chi cantar la vuol, fatica indarno. Cantar, non bassa e vil cetra d' Amore.
A lei, che tanto è bella e tanto è buona, Non può 'l Sole agguagliar poco splendore,
Non sol la pianta vincitrice, u' Sarno Nè quanto aquila mai volar colomba:
Corre, ma quella ond'io mi struggo e scarno, Come racchiuderà picciola tomba
Degna prepara già doppia corona. Quel, che v'apre anco il ciel si largo onore?
Onde più ch'ancor mai felice e lieto Crediate pur , che'l buono Osorio e 'l buono
Chiamar parmi or Ippolita, or Gonzaga, Mondragon, che si fidi e tanto cari
E risponder Vesuvio al bel Sebeto. Del miglior Duce al maggior figlio sono,
O Mincio, o Manto, oggi uopo, oggi a voi fora Lor degna parte avrien con voi, se pari
Uopo, ed a noi di quel pastor ch'ancora A quel che di tai tre meco ragiono,
Le selve e campi e le cittadi appaga. Fosser la Tosca lira e gli anni avari.
A M. Giovambatista Giraldi Cintio.

Poscia che lunga e non dubbiosa pruova Cintio, ch'a Febo egual l'aurata cetra,
Quel ch'io cercava sì, donna gentile, E la pianta ch'io tanto e sempre colo
Mostrato m'ha, ch'al bel di fuor simile, Per voi prendendo, a lui lasciaste solo
E la beltà che in voi dentro si truova: Il sonante arco e la grave faretra
Al vecchio ardor ſiamma sì dolce e nuova
S'amico cor da cortese alma impetra;
Giugne tal'esca e si chiaro focile, Degno giammai desir, l'ali a quel volo
Che quanto caro avea, tiene oggi vile Mi prestate, ond'io possa illustre e solo
Dalla turba innalzarmi umile e tetra.
L'alma, cui santo amore apre e rinnova.
Seguite pur vostra alta impresa onesta Ben so quanto è gran rischio e a qual periglio
Ch'io seguirò mentre ch'io viva e poi, Sottentra chi sopra faville vuole
Se di là pnossi amar, sempre onorarvi. Passar, cui polve insidiosa cuopra ;
Sol non vi spiaccia, ogni mio ben, che 'n questa Ma colla dotta in an vostra e consiglio
Morte vital possa talor mirarvi. Fedele, a ſin potria, qual orbo suole,
Altro non cheggio o chiederò da voi. Di severa condurini e dubbiosa opra.
A M. Luca Contile.
'A M. Pirro Musefilo, signore della Sassetta.
Come l'alta Aragonia, che se parte
Pirro, amor delle Muse, a cui preclaro Dal mondo in tutto, e voi fa singolare
Ingegno e lunga esperienza diero Dall'altra gente è sola senza pare
Legger segnato in note oscure al paro Da dove leva il sole, a donde parte;
Di chiunque il segnò l'altrui pensiero: Così le pure vostre e belle carte,
Ben dee pregiarvi a gran ragione e caro Chiaro Contile, a chi più sa, più care,
Tenervi il mondo tutto, e più l'altero Solinghe andranno sempre, non pur rare
Duce dell'Arno invitto, che nel vero Quantunque l' Ocean circonda e parte.
Vostro grande artifizio è più che raro. Felice voi ch' a tal beltade e tanta
Eleno e gli altri che si pochi e tanto Virtute alzò cosi per tempo Amore
Furo all'antica età pregiati e cari, Per farvi vivo ancor volare al cielo,
Non avrien forse in questa il primo vanto E lei, cui notte e giorno, al caldo e al gielo
Al secol prisco assai, ma non per tanto Si chiaro ingegno e si cortese core
Dovemo ancor, sì non fussimo avari Pensa sempre, o favella, o scrive, o canta
D'altro che gloria, a di nostri altrettanto.
Alla illustrissima signora donna Vittoria Colonna
di Toledo.

Signor, mentre che voi, del toscan Giove Come talor nobile verga suole
Nuovo Mercurio, d'una in altra riva L' alto tronco adeguare, ond'ella uscio,
Volando gite al gran Filippo, dove Cui nel fecondo suo terren natio
Coi suoi raggi a gran pena il sole arriva: Dotta mano e felice irriga e cole:
Me sopra l'Arno or morta tema, or viva Così voi donna, quelle tante e sole
Speme combatte e bene spesso altrove Doti e virtù, ch'a chi voi partorio,
Esser vorrei, ma pur l'antiche pruove Dieder si larghi il ciel, natura e Dio,
Ne promettono alfin novella oliva. Eguate tutte, nuovo in terra Sole.
Foste voi qui, lo cui fedel consiglio, Perchè la prima vostra alma Vittoria
La cui rara prudenza e cor sincero Ch' or fia cantata la seconda volta,
Vi mostran degno ai maggior vostri figlio. Prima sarà, ma non già sola al mondo.
Già veder parmi per lo bianco giglio Ma far chiara di voi degna memoria,
ºntra i gialli un fior santo, un leon fero Ch' ogni rara eccellenza avete accolta,
Muover le squadre e 'nsanguinar l'artiglio. Di quel che regge Atlante è maggior pondo.
PARTE PRIMA 545

Ond'è, signor, ch'io tanto ardisca e tema


In un tra fredda speme e timor caldo?
Chi tanto fammi e paventoso e baldo,
Come uom, che'n ghiaccio suda e al foco trema?
Da voi nasce l'ardir, da voi la terna DE' soNETTI -

Solo al mio cor, per cui freddo ave e caldo :


In voi sempre sen vola, in voi sta saldo DI MESSER BENEDETTO VARCHI
Qual nella prima età, tale all'estrema.
Fia mai quel dì, cui tanto e bramo e spero?
Verrà l'ora giammai, che sotto l'ombra COLLE RISPOSTE
- Mi ferme, per cui sola e vivo e pero?
Asinar mio gentil, Fiesole altero, E p ROP O8TE DI DIVERSI
S' una sol volta quel che tanto chero,
Avrò, date ad altre ossa e porto ed ombra,
Al Signor Cesare consaga
Ben denno a voi, signor, non pnr gl'Insnbri,
Che di lui, ch'ancor tanto e s'ama e teme,
Il nome avete e le virtuti insieme, pARTE SECONDA
Ma quanti son dal Nilo a liti Rubri,
Non solo archi e colossi, ma delubri,
Erger, perchè nè tempo mai, nè sceme
Lei vostre glorie, che i più degni preme
Sempre e si pasce sol d'idre e colubri,
Io, che gioir dell'altrui lode soglio,
Pregi udendo di voi si chiari e tanti, A M. Annibal Caro.
L'altero Mincio umilemente inchino:
E quinci, dico, fa chi nel mattino Caro, che nella dolce vostra e acerba
Rivolte l' armi, abbatterà l'orgoglio Etate, intento a sì nobil lavoro,
Del fero Scita, al suo gran padre innanti, Quella pianta, cui sola amo ed onoro,
Fate più d'altra mai lieta e superba,
Alla signora Donna Ippolita Gonzaga. Tra i più bei fior, sovra la più fresca
erba,
Nel mezzo di Parnaso un verde alloro
se, quando a dir di voi celeste pegno Apollo stesso e tutto il suo bel coro
D'onestate e d'amor ratto mi volsi, Per ornarvi la fronte adacqua e serba.
La lingua forse più ch'ardito sciolsi, -

O fortunato voi, che degno eletto


E presi a rimirar troppo alto segno, Cultor fra tutti gl'altri, e si chiara ombra,
Fallir certo non fu di scusa indegno, Conto vi fate a quei, che verran poi!
Perchè sentendo in voi quel, che non suolsi E me infelice eh' uom non già, ma ombra
Sentir quaggiù, le vene tutte e i polsi D' uomo, la morte d'ora in ora aspetto,
Tremàr d'ardente giel non dubbio segno. Poscia col manco piè partii da voi.
Ma chi porria dove virtute agguaglia
Beltà, non avvampar d' onesto foco?
Io per me no, che solo ad arder nacqui. Risposta,
E quella pianta, ond'è chiara Tessaglia
Nella qual sola a me stesso compiacqui, se l'onorata pianta, onde superba
Fede faranne in ciascun tempo e loco. Sen va la gloria vostra e di coloro
che per doppio valor n'han quel tesoro,
A monsignor Lenzi, vescovo di Fermo. ch'a voi solo o pochi altri oggi si serba,
Ambedue n'accogliesse; e meno acerba
Da voi felice e senza alcuno affanno Fosse fortuna al bel vostro lavoro,
Ebbe principio il mio cantare, ed ora N'andrei, mercè di voi, non mºrto loro,
Felice e lieto in voi fornisce ancora Cinto le tempie almen di fiori o d'erba,
Arbor del Sole, al ventottesimo anno. Or nè questo spero io, poi che disdetto
Ma le sante radici, che mi stanno, M' è sì dolce soggiorno, e che da noi
E stetter dentro al cor si dolci, ognora Destino invidioso ognor vi sgombra
In mezzo l'alma, o viva il corpo o mora, O forse il sol, che con geloso aspetto
Fibre maggiori e più profonde avranno, Lunge ne tien dai santi rami suoi,
Per voi della comune schiera fuore Per frodar voi del pregio e me dell'ombra,
Uscii, pianta del ciel: per voi mi volsi
All'erta, e la seguii, strada d'onore.
Altro che voi nè chiesi mai, nè vuolsi,
Nè voglio o cheggio infino all'ultime ore,
Che brl fin fa chi bene amando muºre,
vari Clil V, 1,
546 A SONETTI
Al medesimo. Al medesimo.

Voi, che per onde si tranquille e liete A saziar tutto a pieno il mio disio,
Coi venti al bel disio tutti secondi E beato partir, non pur contento,
Gite cercando i più riposti fondi Nulla certo mancarmi o vedo o sento
Di quel mare, il cui porto è fuggir Lete; Altro che voi caro Anniballe mio.
Portar cantando al ciel, Caro, dovete, Ma, se ciò vuole il Re celeste, anch'io
Perche ne state mai, nè giel le sfrondi, Debbo terra volere, e mi contento
urelle si verdi e si fiorite frondi, - Col cor parlarvi e rimirarvi intento
Onde tante ombre e si bei frutti avete. Nell'alma, u' mai di voi non cadde oblio.
E certo a così degno, alto soggetto Non si chiama morir tornarsi al cielo,
Altri aspirar non dee, siccome a voi E rimaner con doppia vita in terra,
Questo sol celebrar sempre conviensi. Quaggiù restando il mio buon Lauro e voi;
Di me n'incresce, il qual gran tempo aspetto Per cui si scriva al monte, ove io mi celo
O vivere o morir : cotal fra duoi Dal volgo : Questo sasso amanti, serra
ciaccio, ne so ben dir qual brame o pensi. Il più casto e fedel de giorni suoi.
IRisposta. Risposta.
Quei rami, che cantando al ciel spandete, Chi ne dipartirà, s'Amor ci unio?
Varchi son nel mio cor tanto profondi, Varchi, voi pur vivete, ed io qui spento
Che, non avendo stil che gli secondi, Per viver vosco ognora, ogni momento,
Taccio per non gli far d' olmo o d'abete; Da me stesso partendo, a voi m'invio.
E voi, pianta del Sol, si altera sete, Così vi godo insieme e vi disio,
Ch'omai convien ch'Arno o Penco v'innondi, E col danno degl' occhi il cor contento:
Il mio secco ruscel non ch'ei v'infrondi, E'l lauro e'l colle e'l fonte m'appresento,
Ma capace non è pur di mia sete. Ove è Farnese mio terreno Dio,
Quel che poss'io, ben colte entro al mio petto Che Dio mi sembra, e forse è quel di Delo
Terrò le sue radici, e di fuor voi Pastor del tosco Admeto, che mentre cra
Traete inſino al ciel rami alti e densi. Dal cielo, a voi fa giorno e sera a noi.
Di chiaro stile e d'amoroso affetto Almi, Giove, incontro a tuoi sì duro telo?
- Fanno il nostro signor ricchi ambeduoi, Pur t' è figlio, è pur sole e pur s'atterra:
Perchè voi ne scriviate ed io ne pensi. E chi renderà luce al mondo poi?
Al medesimo. A M. Lorenzo Lenzi.

Caro Annibal, nè cervi mai, nè damma Seguite, prego, e non con passo lento
Con tal disie cercar fiume, nè fonte, La magnanima vostra altera impresa,
Com' io quegl'occhi santi e chiara fronte, Lenzi mio caro, e non vi gravi offesa
Che solo a bei pensier l'anime infiamma; Del volgo vil solo al guadagno intento.
Conosco i segni dell'antica fiamma, Io di null'altro più mi doglio e pento,
Che fece le mie voglie ardite e pronte Che d'aver tanto inutilmente spesa
Di schivar Lete e poggiar l'alto monte Tutta l'andata ctade, e più mi pesa;
Onde arsi ed ardo tutto a dramma a dramma. Cla' or tardi a ricovrarla indarno tento;
Perch'io non so pensar qual parte mia Ch'altro schermo avem noi, che questo un solo
Possa, nè perch'io brami, o come spere Contra la donna, che col capo cinto
Dar luogo a nuovo fuoco e piaga emai. Di tenebre ne sta sempre alle spalle?
Eppur nuova virtute e leggiadria Questo un può sol per onorato calle,
Di viva petra e più bella che mai Perchè 'l nome non sia col corpo estinto,
Lucesse, dolce ognor m'incende e ſere. Dopo mille anni e mille alzarne a volo.
disposta. Risposta.
Varchi, fra quanti Amor punge ed infiamma Varchi gentil, per cui lieto e contento
E quanti son di donna oltraggi ed onte Fuggo dal volgo vil, nè far contesa,
Non è strazio e miracol che si conte, Mi può l'usanza ria, ch'a tal difesa,
Che le mie piaghe agguagli e la mia fiamma. Sendomi duce voi, nulla pavento:
Già son cenere tutto e non è dramma Tanto m'infiamma il dir vostro, ch' io sento
Omai di me, che meco si raffronte: Tutta d'alti desir l'anima accesa;
E pur vivo e pur ardo e fuggo al monte, Nè sarà mai, che da viltate offesa,
Ancor che presa e lacerata damma. S'arreste, o tema invidioso vento.
E truovo nel mio scampo nn altro assai Non v'affanni per me, temenza e duolo,
Più duro scempio, e torno a quel di pria, Perchè lassato unquanco, non che vinto,
Ove a mia voglia il cor si strugge e pere. Non fui d'uscir di questa oscura valle;
Così finisco e ricomincio i guai, E dietro a quel Signor che mai non falle,
E morendo io, vive la morte mia: D'ogni pensiero e bassa cura scinto
Ahi di cli n' è cagione empio volere ! Alzarmi per gran varchi all'alto pºlo.
PARTE SECONDA 54 7
Al medesimo. A M. Gio. Battista Adriani.

Quella natia bontade e quello altero Cortese Marcellin, che quelle ornate
Chiaro ingegno divin, che ne primi anni, Tante virtù del chiaro padre vostro,
Fra i più felici ai più lodati scanni, Pregio grande ed onor del secol nostro,
V'innalza per drittissimo sentiero, Seguite tutte in così poca etate;
Non cura, Lenzi mio, sì che dal vero E dietro l'orme sue dritto v'alzate
Cammin torca le frode e i falsi inganni Al più lontan da questo basso, chiostro,
Di quel mostro crudel, che gli altrui danni Ne 'l tosco, o latin pur, ma il greco inchiostro,
Cerca più del suo ben, malvagio e fero. Giunte tre lodi in un, più ricco, fate;
L'invidia, di virtù mortal nemica, Così crescendo in anni ed in virtute,
Rode se stessa sempre, e 'l proprio albergo, Gloria crescete al mondo, onde per voi
Qual tarlo il legno, ognor consuma e strugge. Fia dubbio il nome di Marcello ancora;
Che può falso biasmar, s'oggi men fugge Tanto a voi renda e più, quanto de' suoi
Cotal peste e venen chi più fatica Anni, per far tutte le lingue mute,
Salire al ciel, lasciato il mondo a tergo? Tolse il ciel, ch'or di lui s'orna ed onora.
Risposta. Risposta.
Varchi, il cui saldo e buon giudizio intero Benedetto gentil, che con l'ornate
Par che sol troppo amor talvolta appanni; Rime vostre più bello il secol nostro ,
Io per me ghiaccio in terra, e voi coi vanni Ognor mostrate, e con sì ricco inchiostro,
Varcate al ciel del vostro alto pensiero. Ch” all'antiche memorie scorno fate;
Non crediate, che turbin fosco e nero Ben conosco io, come la veritate º , i
D' invidia, o falso altrui biasmar m'affanni, Vinta si giace dall' aſſetto vostro, .
Ne che 'l malvagio cor punto m'inganni, Che vi spinse ad ornarmi più che d'ostro,
O torca altrove il mio voler sincero; Per farmi conto alla futura etate. - e

Chi brama di poggiare a quella antica Scorsi ben già nel ciel l'alta virtute, , , i
Vera virtute, dee volgere il tergo Che si bella m'accese il cor, che poi i
A lei, che rode sè medesma e sugge. Più bel disio non ebbi, ed hollo ancora;
Quanto dunque ver me più freme e rugge Onde poi sempre andai cercando i suoi, !
Questa furia crudel de'rei sì amica, Atti schiavi appressar, poi ch'a salute,
Tanto più l'ali al ciel disioso ergo. Per si dritto sentier ne scorge ognora, i
A Schiatta Bagnesi. A M. Gio. Battista Strozzi.

Schiatta, Amor, mi legò con tanti nodi Strozzi gentile, ch'agl'Euganei monti,
E così stretti, ch' io non spero mai, Fra mille eletti peregrini ingegni,
Nè bramo, si mi piacciono i miei guai, Risonar dolcemente il nome insegni
Che morte, non che tempo ungua gli snodi. Della tua bella Cintia in versi conti: -
Ben furo alte e cortesi quelle frodi, Arno, e tempo n' è ben, se i giorni conti,
Che colà mi menar, come tu sai, Meco ti prega umil, ch' omai ti degni
Ove io mirassi quei celesti rai, Tornar dopo tanti anni ai patrii regni,
Che passàr l'alma, quasi acuti chiodi, U' ti chiamano i pin, le quercie e i fonti.
Ond'io servo divenni, ed ella ancella; Non ho, dice, ancora io mirti ed allori ,
Ma certo son, ch'al ciel più piana via Degni d'ornarlo ? e dentro il nostro grembo
Non scorge, o n'apre in terra il Paradiso. Non spazian Ninfe a qualunque altre eguali?
Schiatta, io ti giuro, che la vita mia Non han le rive mie molli erbe, quali ,
Era morta, ed io scco; or vivo ed ella, La Brenta, ed onde ed antri ed aure e fiori?
Mercè di due santi occhi e d'un bel viso. Sì, gli rispondo; allor, ma non il Bemba.
Risposta, Risposta.
Varchi, io so ben che ne più stretti nodi , Varchi gentil, che non di questi monti ,
Tien l'alme Amor giojose, e non ſia mai, Uopo hai, nè d'altri al tuo bel lauro ingegni,
Ch'io nol ringrazi anch'io de dolci guai, Per ritornarlo al cielo, e che n'insegni
Sempre pregando pur che non mi snodi, I dritti calli gloriosi e conti;
E benedico anch'io d'Amor le frodi, Tu, non Arno mi chiami, e non mi conti
Che m'involaro il cor, come tu sai, Vero; ma poi ch'a tanto oggi mi degni,
Allor che i dolci, accesi, onesti rai Ecco ch'io torno, e già veggio i bei regni,
. Mi furo al cor via troppo acuti chiodi e U' te seguono i pin, le quercie e i fonti.
E, se l'anima mia n'è fatta ancella, O sagri mirti, o veramente allori , , I
Questo che a lei, se per si fatta via Degni del Varchi: ma chi Ninfe in grembo
Le si dimostra aperto il Paradiso? Accoglie a quelle della Brenta eguali?
Qual libertà pareggia questa mia - -
Le Ninfe Arno non ha, se l'onde, quali i -
Si dolce servitù così sia ella
-
- . La Brenta; o Brenta, o dolci erbette e fiori
Mai sempre meco, ed io presso al bel viso! Cintia sol mi vi rende, e non il Bembo.,
548 SONETTI
A M. Ugolino Martelli. Al medesimo.
Voi ch'alla prima e più gradita etate, Carlo, come è, che quel leggiadro, altero
Mercè del vostro studio e 'ngegno raro, Vostro, s” alcun fu mai, divino ingegno
Gite, Ugolin, coi più canuti a paro, Discendesse ad amor superbo e 'ndegno,
Non pur gli eguali a voi dietro lassate; Conoscendo in altrui, più ch'altri, il vero ?
Con " dolci vostre rime, ornate,
A più chiaro soggetto e via men fero
Onde già conto al mondo sete e caro, Volgan vostro alto cor giusta ira e sdegno,
Del vostro Luca e mio, l'acerbo e amaro Or che falso veder di voi non degno,
Pianto, che n'è ben tempo, omai temprate, Più non v'appanna il buon giudizio intero,
Che, sebbene ha nei più verdi anni in terra Ben è dritto e ragion, se tristo e negro
Lasciato la sua bella e frale spoglia Roco augel, lieto, canoro e bianco
Il buon Martin, che fu d'onor si degno, Cigno non cura, anzi 'l dispregia e fugge.
L'alma che mai non muor, nel santo regno Quanto pria vosco, e poi meco m'allegro,
Beata vive; se non quanto in doglia Veggendo saldo il vostro lato manco,
Tanta lui vede e 'n così dura guerra. E fatto bel seren delle nostre ugge !
Risposta. Risposta.
Voi, che tanto alto sovra gli altri andate, Varchi, cui troppo amor fa dritto e vero
Varchi, col cantar vostro altero e chiaro, Parere il falso e 'l torto, io ben m'ingegno,
E da cui solo ognor sì lieto imparo, Ma non pur veggio, non che tocchi il segno,
Mentre, vostra mercede, al ciel n'alzate : U' mi scorgete per dritto sentiero i
Voi, prego, che potete, consolate -

Non può, quantunque saggio e buon nocchiero,


Il nostro Luca sl di pianto avaro; Da tempesta guardar sempre il suo legno;
Voi i dovete acquetar col vostro Caro Ma, se salvo nel tragge, maggior segno
Annibal, ch' a ragion si, forte amate. Mostra, e più arte del suo magistero,
Io per me, tanto il duol con lui m'atterra, Io, che dianzi più d'altro afflitto ed egro
E così di saper l'alma mi spoglia, Fremea, piagato intorno e dentro il fianco,
In dubbio spesso del mio stato vegno. Qual de nostri leon più forte rugge;
Pur mi sovvien, che chi varcando il segno, Or Dio ringrazio, e voi lieto ed allegro;
Troppo dell'altrui morte ognor s' addoglia Nè temo più, d'odiar me stesso stanco,
Tacito accusa Quel che mai non erra. Ch'ombra crudele e ria buon seme addugge,
A M. Carlo Strozzi, A M. Piero Alberti.
Carlo, non pianger, no, ma ben dovete Tirsi, ch'al chiaro suono e al bel sembiante
Meco Dio ringraziar, ch'al ciel tornato
Sia 'l caro vostro e mio dolce Narchiato Il biondo Apollo e te stesso simigli,
Ch'or de'snoi bei pensier buon frutto miete Queste candide rose e bianchi gigli
la gran bontà di lui, ch” oggi vedete Al puro cor di lui don simigliante,
Damon, più ch'altro mai, cortese amante,
Spenta quasi del tutto in ciascun lato, Lieto ti manda, e chiede umil, che 'l pigli
Era ben degna d'immortale stato; Coll'alma insieme, e lei guidi e consigli
E voi del gioir suo dolor prendete ? Secondo i merti di sue voglie sante.
Ma, se v'affanna il comun danno vostro, Così la Ninfa pia, che di bellezza,
E vi incresce così, che l'Arno sia
Privo sì tosto di sì buon vicino i Non men che d' onestà, Diana agguaglia,
Ben n'avete ragion, chè rado ſia Dolce esca sempre alle tue fiamme porga
Onde Clori il bel nome a tanta altezza
Chi voglia, o possa nel volgar latino Per lo tuo canto e 'n si gran pregio saglia,
Tanto giovar con voce e con inchiostro. Ch'ambo invidie, te l'Arno e lei la Sorga.
Risposta. Risposta.
Varchi, il nostro Martin, non me devete
Consolar, ch'ora a piangere è tornato, Damon, ben conosco io come bastante
Non sono a ringraziar, non che consigli
Poi che Morte n'ha tolto il buon Narchiato
Che miglior sempre per usanza miete Vostro alto cor, che prega umil, ch'io pigli
i i b
Quel don, per cui grazie gli debbo tante,
lo piango sol, che, come chiar vedete, Vostro foco gentil m'è sempre avante,
Oggi regnano i vizii in ciascun lato, E sempre caro, e quanto vuol bisbigli
E m'allegro del suo felice stato; La gente bassa e vil, ch'entro gli artigli
Dunque del mio dolor gioia prendete, D'Amor chi più saggio è, più passa innante,
i ristorate il comun danno nostro, Ed io per pruova il so, ch'ho l'alma avvezza
Perchè doglioso più l'Arno non sia Ad arder sempre, e non par che le caglia,
D'aver perduto si dolce vicino, Se non d'Amor ch'al ciel la guidi e scorga,
oggi rado è chi possa e rado ſia, Tutte altre cose quasi nulla sprezza,
Innalzar tanto il gran nome latino, E sola onora Clori: almen le vaglia
Con degna voce e con purgato inchiostro, Questo, e con ella insieme ad alto sorga.
PARTE PRIMA 549
A M. Lelio Bonsi. Al medesimo,

Lelio, la strada di virtù, che 'n cima Lelio, quell'arbor santo, che dal cielo
Ne porta al sacro monte, ove s'impara Scese, e per darne il ciel tra noi soggiorna,
Dispregiare e fuggir quel che l'avara Il cui verde, fiorito e dritto stelo,
Gente al guadagno intenta segue e stima: Ogni sventura mia sempre distorna :
U' che si miri, o volga il piè, da prima Dopo tre lustri a far lieta ed adorna
Vile n'assembra e più ch'assenzio amara, La riva d'Arno, di sacrato velo
Ma riesce nel fin si dolce e cara, La fronte cinto e me con altro pelo
Ch'al ver giugner non basta o prosa, o rima. Vedere omai, al suo bel nido torna.
Seguite dunque il vostro alto lavoro, Già s'avvicina il giorno, e forse l' ora,
Non curando del volgo empio e fallace; Che tutti ristorar deve i miei danni,
Più val senno e virtù ch'argento ed oro. Già sentir parmi della sua dolce ora;
Quanto più grida contra i buon, più tace E se, come parti, tornasse ancora
La turba vil; quello è vero tesoro, Seco il mio caro e cortese Alainanni,
Che poco ai molti, e molto ai pochi piace. Felice appieno, anzi beato fora.
Risposta. ARisposta.
Varchi, quel che mi trasse ad amar prima, Quell'alma fronde, che chi regge Delo
Poi seguir l'erta strada, ove oggi rara Amò in terra, or dal cicl cotanto adorna,
Gente varca, si par vile e discara, Ed io con voi nel petto e colo e celo,
Spiegando l'ali all'alta Cagion prima, Perchè di doppio onor l'alma s'adorna;
E quel che dalla turba oscura ed ima A noi sol per bearne oggi ritorna,
Terra mi scorge al monte, e quella chiara Dopo ch' andati sono e state e gielo
Lnce vostra, che 'l mondo orna e rischiara, Quindici volte, onde di patrio zelo
Quanto altra in questa età, se 'l ver s'estima, Piene l'Arno superbo alza le corna;
er voi spero appressar l'amato alloro, E più lieta che mai la bella Flora,
Ch'illustri, alteri inganni a morte ſace, Dice ridendo : Tutti i nostri affanni
E veder da vicin quel santo coro. Sì dolce e chiaro figlio appien ristora.
Tenete, prego, voi salda la face, E se fosse con lui quel ch' oggi onora
Ch'io seguirò, non curando coloro, Col gran padre la Sorga, ne bianchi anni
Cui l'altrui ben, più che 'l lor danno spiace. Meco felice affatto il Varchi fora.

Al medesimo. Al medesimo.

Bonsi, ben può quel duro, aspro sentiero Lelio, poi che dal forte e fero artiglio l
Condurmi dritto al cielo, e torvi a Lete, Di lei, che sotto il ciel tutto disface,
Che voi, ne duce, così pronto avete Tratto v'ha da guerra aspra a dolce pace,
Preso, e 'l seguite ognor forte e leggiero; Più ch'umano saper, divin consiglio :
Se, come bramo certamente, e spero, Voi, quasi caro padre, amato figlio,
La donna sempre e la bilancia avrete, Che vogliate, qual saggio e pio cor face,
Nuovo Lelio, anzi agli occhi, e sol vorrete Render sol grazie a quel Signor verace,
Quanto vi dettaran pietate e 'l vero. Da cui piove ogni ben, prego e consiglio :
Più dirò ancor, che di si erto e chiuso E colla mente d' ogni affanno scarca,
Fare il potreste tanto aperto e piano, E di sè donna, omai tornare a quelli
Che 'l poggiarlo saria dolce e giocondo. Studi, che far vi puonno alto e pregiato.
Non v'inganni od alletti il moderno uso ; Questa vita mortal, come bel prato
Non le leggi a chi ha giudizio sano, Di verdi erbette pieno e fior novelli,
Ma le leggi e pietà reggono il mondo. In brevissimo tempo al suo fin varca.
Eisposta. Risposta.
Ben so, Varchi gentil, che 'l destro e altero Or, che pietosa oltra l'usato il ciglio r
Varco, ch'al ciel fra le più chiare e liete Quella crudel d'ogni mortal rapace
Alme conduce, ove voi già tenete, A quella vita m'ha, che tanto piace
Ed io bramo arrivar, seggio primiero; Renduto e tolto a sempiterno esiglio:
Per questo che preso ho spinoso e fero Meco, Varchi, m'allegro e meraviglio
Cammin, mentre che voi duce mi sete, Spesso d'esto mortal corso fallace,
Varcar si può, ma non già se spegnete E dico: Ancor quando è più fresco, giace
Quel lume, che mi scorge il sentir vero ; Talora, e sorge poi battuto giglio.
Ch'avara brama e dir lungo e confuso Perch' io con tutto il cor l'alto Monarca
Tornato l'hanno così torto e strano, Solo ringrazio, e i vostri saggi e belli,
Che quanto vo'salir, più caggio al fondo. Qual figlio umil da caro padre amato,
Seguite dunque voi, come sete uso, Prendo lieto consigli; ed ho fermato
Scoprir con vostra benedetta mano Volgere al porto u' mi chiamate, ed elli
Quelle leggi e pietà, ch'io dentro ascondo. I La navicella mia sol d'error carca.
55o . 'SONETTI i
Al medesimo. A M. Lucio Oradini.

Lelio, chi d'altro il Re celeste prega Ben potete, Oradin, se gl'altri ed io


Che di piacere a lui e con virtute Non miriam torto, a vera gloria intento,
Viver, quel ch'è contrario a sua salute Di natura e del ciel pago e contento
Ben spesso chiede e ch'a ragion si niega. Tenervi affatto e render grazie a Dio.
Ma la gente volgar che mal impiega Che maggior , che miglior , ch' alto disio
Ogni suo studio, e tien sempre l'acute Entro un bel petto e natural talento
Luci al guadagno, par ch'odi e rifiute Di salir quella strada erta, che, spento
Chiunque l'ali al cammin destro spiega. Il mortal, toglie altrui d'eterno obblio?
Ma voi seguite, e da sinistra mano Seguite dunque, e non vinca il di fuore,
Lasciate andar la turba vil che spera Ch'è poca polve, e passa via come ombra,
Aver pace d'altrui, dando a sè guerra; Quel che dentro può sol chiamarsi bello.
E dite meco umil mattino e sera: Di voi frutto s'aspetta eguale al ſiore:
Signor, che reggi il ciel tutto e la terra, Sol non l' aduggi vil costume e fello
Dammi queta la mente e 'l corpo sano. Di questa età ch'ogni buon seme adombra.
Risposta. Risposta.
Ben conosco e dritto è che spesso niega Varchi onorato, egl'è ver, che dal mio r

Di far le voglie il Re del ciel compiute Destin chiamarmi a vera gloria io sento,
Di chi par che ragion col senso mute, Ma indarno ognor fatico, ed ognor tento
Il quale i corpi affligge e l'alme lega, Per me quel che per voi spero e disio:
Io da che intesi voi, per cui si piega Onde a voi, quanto posso, umile e pio
Dal manco al sentier destro, a vil tenute A tutt' ore ricorro, e non con lente
Ho le cose del mondo care avute Passo vengo a trovarvi, e sol mi pento
Dal volgo, cui chi vuol, commendi e sega; Del tempo che fin qui tutto in van gio.
Ch'io per me vosco dal Rettor sovrano Voi solo a quella strada erta d'onore
Lasciando a stanca la sinistra schiera Mi potete indrizzar che morte sgombra,
Che nel più chiaro giorno abbaglia ed erra, E bianco cigno far di roco augello.
Altro non prego o pregherò che intera Deh ! se vi cale o calse mai d' un core,
La mente aver fin ch'io ritorni terra, Cui disio di saver sol preme e 'ngombra,
E'l corpo fermo e non da voi lontano. Fate, prego, che 'l mio, qual è, sia quello,
Al medesimo. Al medesimo.

Lelio, sì dolce e si cortese forza Oradin mio gentil, che fa? che dice
Mi fece Amor quando all'età più fresca La bella vostra e si cortese Dori,
Quella verde mostrommi e sacra scorza, Scesa quaggiù dai più beati cori,
Che i più leggiadri cor più tosto invesca, Per fare adorno il mondo e voi felice?
Ch'io, qual secca a gran foco e vivace esca, Onde vostro alto cor, cui solo allice
Arsi e tutto ardo ancor, chè non s'ammorza La casta fiamma de'suoi santi ardori,
Casta fiamma per tempo, anzi rinforza, Guerra mortal come di lui minori
i Tal l'accende aura ognor, tal la rinfresca. A tutti gl'altri, e fa gran senno, indice.
Ed or ch' alla canuta ultima etade Nocchier più fido e men dubbioso legno,
Giunto mi vede a raddoppiare i miei Per gire al porto di salute e gloria
Santi diletti infino al giorno estremo, In questo mar di venti e Scille pieno,
Tal m'ha virtute e tal mostro beltade Non ha che Amor, nè più saldo sostegno
Sotto angioletto si giulio, ch' io temo, Chiunque brama dall'agon terreno
Bonsi d'ardere a doppio anzi vorrei. Riportar scco in ciel chiara vettoria.
IRisposta. Risposta.
Varchi, se casto amor doppio vi sforza Chiaro Varchi gentile, onde s'elice
Canuto e crespo, anzi benigno adesca, Virtù d'uscir del volgare uso fuori,
E doppiamente il doppio ardor rinforza, Ed a quegli alti e più pregiati onori
Perch'a doppio valor di voi doppio esca: Salir da questa bassa e vil pendice:
Bene è ragion che non vi spiaccia o 'ncresca, Dori d'ogni mio ben fonte e radice,
Che 'l tempo i corpi e non l'anime sforza; Quanto ha vera virtute e frutti e fiori,
Seguite dunque l' amorosa forza Piove ne' casti e più cortesi cori,
Onde a voi fama a noi virtù s'accresca. A cui soli mirar tal lume lice.
Or che suona per voi dall'Indo a Gade Dunque vostro alto e peregrino ingegno,
Quel dagl'uomini amato e dagli dei Per cui tanto Fiorenza oggi si gloria,
Arbor d'ogni virtù giunto all'estremo: E che sol può cantarne e deve a pieno,
Per dal volgo non mai segnate strade, Posto da parte ogni lavor men degno,
Il bello Stufa onde ogni bene avemo, Lunga tessa di lei si chiara storia,
Fra gl'Anfion guidate e fra gl'Orfei. Che non venga giammai per tempo meno.
PARTE SECONDA 551
Al medesimo. Al medesimo.

Lucio, la donna ch' era scorta e duce Lucio, come talor lucida face
Al vostro alto, gentil, casto pensiero, Che trascorrendo giù per l'aer vada,
Quella che fra tutt'altre il pregio intero Quasi stella che d'alto in terra cada,
Ebbe d' ogni valor ch'al ciel conduce: Passa questo mortal viver fallace:
Tolta da questa breve e fosca luce, Onde chi d'aver brama o quaggiù pace,
Somma di lei ventura e destin fero O lassù gioia eterna, quella strada
Di nostra età, non lungi al primo Vero Tosto abbandoni ch'a i più tanto aggrada;
Più che mai bella e graziosa luce : Che mal si segue ciò ch'al volgo piace.
E quindi ognor da queste nebbie vili Io, che con gl'altri, lasso! un tempo andai,
Or con cenni vi chiama, or con parole Dietro gl'error del mondo e i falsi inganni;
A lei seguir sopra l' eterne spere. Notte e di piango i miei passati danni;
O voi beato, a cui terreno Sole E sempre a quel felice ch'io mirai
Fatto è celeste, onde con più sottili Sacro sterpo del Sol ne più verdi anni
Raggi e foco maggior v'incide e fere ! Volgo la mente, ed ei queta i miei lai.
Risposta. Risposta.
La bella che mi fu porto, aura e luce Varchi, voi dite il ver, che più fugace r

In questo mare, or nel celeste impero Questa vita caduca e manco bada,
Assisa in alto e ricco seggio altero, Che vapor d'alta nube, onde è più rada,
Vicina al sommo bene angel riluce: Uscito, o stral da saldo arco non face.
Ond' io che senza guida e senza luce Ma come la diurna immortal face
Rimaso sono in cieco aspro sentiero, Del mondo alluma e scuopre ogni contrada,
Trovar da me la strada unqua non spero, Così voi ne scorgete, onde si vada
Se non quanto nell'alma ancor traluce Al poggio di virtù ch'al volgo spiace.
Da' suoi begli occhi alteramente umili Io pianger deggio, lasso! io, che lasciai
Grazia e splendor, ch'ad opre eterne e sole Il cammin destro: ed or tarpato i vanni,
La 'nvoglia e scorge ove ogni vizio pere. Ch'alzano al ciel da questi umani affanni,
Ben prego lei che per usanza suole A me non dico : Folle ove ne vai?
I più chiari furarne e i più gentili, E rider voi ch'ai più sublimi scanni
Che caldo adempia omai giusto volere. Su per l'arbor del Sol salite omai.
Al medesimo. Al medesimo.

Lucio, quel che la turba o pensa o parla, Lucio, da che cortese onesto e degno, r

Che sempre a Bacco od al guadagno intende, Amor sopra erto poggio il primo cibo
Nè altro frutto di sua vita attende, Diemmi, sempre di lui mi pasco e cibo,
Che morte che sol può d'affanni trarla, Ch'ogn'altro nodrimento ha l'alma a sdegno:
Nulta curar, ne cercar dee di farla E quel ch' or dentro or fuor d'un sacro legno
Saggia, che folle indarno opera prende Or colla vista, or col pensier delibo,
Alma ch' al cielo aspira, e da lui pende Di giorno in giorno, a parte a parte scribo,
Che di sua libertà degnò crearla. Nè sete mai però nè fame spegno:
Come gran vento poca nebbia, o sole Perchè veggendo Amor forse che sazio -

Tenera neve; così salda e 'ntera Unqua non fu, ma vie più ingordo ognora,
Virtù vincer le voci e 'l volgo sole, Nuova esca innanzi, e sì cara mi pone,
E col volgo è chiunque dalla schiera Ch'io temo, anzi desio che voglia ancora,
Scevro de' buoni, o'l suo non cura, o vuole Nuovo amo io prenda dopo tanto spazio,
Che l'altrui ben languisca a torto e pera. E ripingermi al ciel con doppio sprone.
Iisposta. Risposta.
Dritto è che chi la via, ch'erta a montarla Varchi, dalla cui bocca e chiaro ingegno
E 'n prima vista, alto pensiero accende, Tal di sapere, e d'eloquenza bibo
Poggiar nulla non curi, o invano ammende Fiume, che non pur mai l'altra non libo
La gente vil, se pur cerca aitarla: Fonte, ma spregio tutte l'altre e sdegno:
Tal erbe e si possenti a trasformarla Anch'io di santo amor felice segno,
Opra la bella maga e si l'offende, Pensier casti e leggiadri ognor describo
Dentro e di fuor che poscia indarno stende Nel core, a cui per lungo uso prescribo
La man chi tenta a quel di pria tornarla. Ogn' altro oggetto come vile e 'ndegno.
Ulisse il saggio in questa bassa mole Nè d' arder mai nè di languir mi sazio:
Sol potea tòrre a Circe empia ed altera Perchè voi lodo mille volte l'ora,
Ma per divino aiuto e con parole Che volontariamente andar prigione
Superbe i suoi, ched ella aveva in fiera Disiate di nuovo e v'innamora
Sozza cangiati e trargli delle gole Si giulivo angiolel, che Dio ringrazio,
Di mille mostri a via sicura e vera. Ch'ambi solo ad amare alto dispone.
f,5a SONETTI
A M. Sforza Almani. Al medesimo.

Sforza, in cui pose ogni suo studio e sforzo Sopra quel che mirate altero giogo,
Natura e 'l ciel per farvi e conto, e caro Vivaldo, in quelle piagge ombrose ed erme
A quel signor, che solo è senza paro, Mi punser prima, anzi beato ferme
E ch'io portare al ciel ma invan mi sforzo: Acute spine d'annoroso rogo:
I 1,
Quanto m'aggrada or che raddoppia l'orzo E dite ver che più soave giogo
Febo ai destrier, che voi col vostro raro Di me, nè voglie, o più sante, o più ferme
Ingegno, sol di lode e gloria avaro, Non ebbe uom mai, ma le mie poche e 'nferme
Non facciate da lui giammai divorzio : Forze, che puon contra l'estremo rogo º
Anzi con saldo piè più fresco ognora Voi dunque, come suol talvolta calce Pi
L'alto monte poggiate, ove si fugge Fredda pioggia scaldar, destino un poco
Morte e s'acquistan sempiterni onori. Queste mie roche e quasi mute voci;
Quanto il ciel cuopre, scema il tempo e strugge Poi la donna che con così veloci
Se non fama e virtù, che d'ora in ora Passi ogn'uom giugne e trae tutti ad un loco,
Crescon quasi a bel rio novelli fiori. Stenda invan sopra me l'adunca falce.

Risposta. Risposta.
Varchi, al cui grave stil non pur rinforzo Non però tanto di saver m'arrogo
L'ardir, ma gire al ciel più dritto imparo, Io, che non pari a voi deggio tenerme,
E tanto il non saper sento oggi amaro, Che di portarvi ne'miei versi afferme
Che per troppo voler me stesso sforzo: Da questo basso a quel sublime luogo i
Potessi io pur, com'io non scemo o smorzo Ma bene in parte un bel desir disfogo,
L'onorato disio di venir chiaro Qualora avvien ch'io di lodarvi ferme,
Per fama al mondo, o per virtute caro Varchi, d'Apollo e di Minerva germe,
A lui, ch'è solo in questo uman consorzo l Se bene a merti vostri alti derogo.
Ma che posso io, se da che l'aurora Io no, ma quel che sotto abete o salce
Nasce a che 'l Sol all'altre genti ſugge, In poggio o 'n piaggia, il cor v'incese foco
Convien ch'a posta altrui vada e dimori? E 'ncende ancora in si soavi croci,
Assai mi par che non del tutto adugge Sol far vi può gl'estremi danni atroci
Questa ombra, dove io son, quel che pur ora Schernir di lei, che tutti a poco a poco
Seme gentil comincia a spuntar fuori, Convien ch'avara al ſin svella ed affalce.

A M Michelagnolo Vivaldi, Al medesimo.

Vivaldo, io non saprei così nel chiaro Già m'ha di neve questa algente bruma
Suo coro Apollo me, come voi conte, Velato il mento e l'una e l'altra tempia,
Fiume più vago di Mugnon, nè monte Già par che l'arco per me tiri ed empia,
Di Fiesole trovar più dolce e caro: Chi le cose di qui tutte consuma:
Quinci è, che si di mal talento e raro, Nè però il cor, se foco è dove fuma,
Quanto sapete, questo poggio smonte, Men sovente arde e men soave scempia,
Dove con cor tranquillo e lieta fronte Doppio furor ch'ogni vil cura ed empia,
Spregiare il mondo e più me stesso imparo.
Qui dall'opra cui già molti anni intendo,
E che m'ha di man tolto ogni lavoro,
In bando posta, al ciel l'ali m'impiuma.
Ond' ei senza timor l' ultimo colpo
Aspetta, che ben sa ch'altro che'l corpo
- i
º

Men spesso parto e più tosto mi rendo; Quella giusta e crudel giammai non rompe.
Qui l'alto giogo ove quel verde alloro Ed io, quanto più posso ognor lo scolpo A
Pria vidi, miro, per cui solo attendo Vivaldo, e sol ne gl'altrui danni torpo,
Pregio che vince ogni mortal tesoro. Spregiando il mondo e le sue vane pompe.
Risposta. Risposta.
Varchi, e non è chi con voi certo a paro Quando lo Dio, che 'l terzo cielo alluma Di
Scenda il bel colle di Parnaso e monte, Raccende il foco in voi, l'arco riempia,
Nè chi del patrio suo nido racconte Però che l'alma che non ben si scempia
L'opere andate in stile altero e raro; Forse a sua voglia, ripiagar presuma,
Grazia a voi fa, poi che con lieve piuma P
Nè chi securo truove alto riparo,
Se dove adombre un poggio e righe un fonte, Cerca l'ingegno vostro che contempia,
Vi state voi contra gl'assalti e l'onte Salire al ciel, la 've sue brame adempia,
Di chi colmo è d' occulto fele amaro: E i pari suo splendor chiaro rassuma.
Io che soggiorno ove 'l mio mal comprendo, Ed a me dice : Io non incendo, o colpo L
Non fui, nè forse sarò mai di loro, Te, che mortal non sei sì degno corpo;
Ch"Apollo chiama, ed io seguir contendo; Quinci è, che nulla in me stempra o corrompe.
Ch'altro pregio non è ch'argento ed oro Di lui mi doglio e mia fortuna incolpo,
Vinca, se 'l ver con giusta lance appendo, Ch'ogni lodata impresa, ond'io m'attorpo,
Ch' essere accolto nel suo dotto coro. Felice Varchi, o mi niega, o 'nterrompe.
-
PARTE SECONDA 553
Al medesimo. Al medesimo.

S'Amor, quanto mai più mi mostra doppio Come nebbia dal vento si dilegua,
Di bontade e beltà, sommo valore, E molle cera a gran foco si strugge;
Come posso, o non deggio, entro e di fuore Tal da me parte ognor, Vivaldo, e fugge
Non arder tutto, e liquefarmi addoppio? La nuova fiamma, e non è chi la segua ;
Mentre l'arbor del cielo, e questo accoppio Ond'io che non sperai pur breve tregua,
Nell'alma angelo uman, tanto dolzore Eterna pace avrò, tal par ch'adugge
Pruovo, e si fatto, che l'antico ardore Ombra il buon seme, ch'or si sprezza e fugge,
Pel nuovo, e 'l nuovo per l'antico addoppio. Dell' interna beltà, cui nulla adegua.
Più vi dirò, caro Vivaldo, ch'io -
Sol quella pianta che cangiò Tessaglia,
Non due,benchè'n due fiamme,anzi unsoloardo, Non curando di sole, o pioggia, o vento
Tal questi quello, e quei questo simiglia; Produce or frutto, che 'l bel fiore agguaglia
E ben so quanto per lungo uso e rio Perch'a lei sola, ogn'altro ardore spento,
Di questa età la vil gente bisbiglia: Lo cor, che solo alla sua vista abbaglia,
Ma io per l'altrui dir, ben far non tardo. Ritorno più che mai lieto e contento.
Risposta. Risposta.

Se gemino d'amor venenoso oppio Si come di leggier non si dilegua


Dolce vi corre per le vene al core, Gravosa febbre, ond'uom si stempra e strugge,
Per ivi intepidir forse il bollore, Così non mai costante amor sen fugge
Varchi, che tutto vi disface doppio; Per lieve sdegno che lo cacci, e segua.
Fin che fortuna o morte alcuno stroppio Dopo cotal di pochi giorni tregua,
Non truova al vostro oprar, questa d'amore Temete guerra pur, che quella adugge,
Doppia fiamma seguite, che maggiore Ch'or si cerca da voi, da altri si fugge
Non uscio d'altra mai lampa, nè scoppio. Pace, cui ben maggior qui non adegua.
Ma dove contra il vostro alto disio L' arbor, che vide già cangiar Tessaglia
Il volgo, a ben pensar sempre si tardo, Solo non turbò mai folgore o vento,
Mormorare a gran torto si consiglia, Ma non sempre ogni merto il pregio agguaglia
lo più savere ed a ragion disio, Però non fu giammai quel foco spento,
Come 'n un'alma un sol foco s'appiglia, Nè questo mancarà che si v'abbaglia,
Per doppio di due visi amato sguardo. D'ardervi tutto e farvi alfin contento.

Al medesimo. A M. Bernardo Sostegni.


In quelle sante luci, ov'io mi specchio Bernardo mio, che del bel nome vostro
Novellamente, e l'alma affino e tergo, E di tante altre doti altere degno
Quel mio sacro arboscel, cui tante vergo Dal più sublime in questo basso chiostro,
Carte, rimiro, come 'n chiaro specchio: D amor scendeste e d' onestà sostegno;
Quinci è, Vivaldo mio, che 'l nuovo e 'l vecchio Se, come sete quasi solo al nostro
Sono un sol foco, e dentro al core albergo Secolo di beltà, così d'ingegno,
Per due visi una fiamma, onde al ciel m'ergo Perchè vi canti ogni purgato inchiostro,
Tanto felice più, quanto più invecchio. Esser bramate, e di virtute segno;
Segua pur contra me l'usato stile ; Fuggite il volgo inerte, e le sue lustre
Biasmi, e riprenda ognor quel che lodare, Lasciando, il poggio faticoso ed alto
Nè sa, nè può, nè dee la turba vile. Salite, ove è mestier, ch'altri s' industre.
Amor cortese solo al cor gentile Io quella pianta, per cui m' ergo in alto,
S'appiglia, ond'io tutte altre cose a vile Continovando il mio sospir trilustre,
engo, e non so, ne voglio altro ch'amare. Con pensieri entro, e fuor con rime esalto.
Risposta. Risposta.
Ditemi, ora in qual parte oggi n'appare Più che le perle possedere e l'ostro,
Benedetto amador, che s'assimile Che darne puote all'uom questo e quel regno
Pur poco a voi, di cui da Battro a Tile Fora a me caro esser veduto e mostro
Lodi mille sen vanno altere e rare; Lontan dal cieco e sordo volgo indegno:
oi che tanto, ed ognor di dolci e chiare Però Varchi, degl' altri unico mostro,
Fiamme con doppio e si casto focile A voi, nuovo cultor, divoto vegno,
Lo cor v'incende, e nell'età senile Se ben fuori alla scorza aperto mostro
Amor, che favvi al mondo senza pare. Esser già quasi fatto arido legno,
La gente, che biasmando altri da tergo Che colla dotta vostra mano industre
Gir suole, a cui drizzar non deve orecchio Del mio ingegno rompendo il duro smalto,
Uom di salda virtute intero albergo; Di me facciate altera prova illustre.
uanto posso, ancora io sprezzo e postergo, Sì forse avverrà poi, che 'l fero assalto
Varchi, se ben caduco inchiostro aspergo, Di morte ria schernendo, io m'alzi, e illustre
Quando scriver talor versi apparecchio. Quanto il vostro arboscels'erge e splende alto.
VARCHI V, I, 7o
554 SONETTI

A M. Filippo Angeni. A Andrea Lori.

Angenio mio, che queste basse e frali Lori, a cui l'oro e l'ambra, e'l marmo e l'ostro
Cose spregiando, e fatto eterno niego Cedono di vaghezza e di colore,
Giovine a quel Signor, ch' io vecchio sego, Se non che tosto il bel ch'appar di fuore,
Con fermo passo a vera gloria sali; Sparisce quasi fior tenero ad ostro;
Ho vo' che sappi, come Amor suoi strali Perchè fortuna nell'eterno vostro -

Aguzza per ferirmi, ed io nol niego, Ragion non abbia, o 'l trapassar dell'ore,
anzi quanto più so divoto il prego, Fate ch'al volto sia conforme il core,
Entro 'l mio cor sen voli e perda l'ali; Che null'altro di voi può dirsi nostro.
Chè si lucente e di sì gran valore Non v' inganni il lungo uso, e non crediate
È quella petra, ove ei gli aſſina e 'ndora, Alle false lusinghe, perchè mai
Che beato e chi per lei langue e muore. Non fu senza onestà vera beltate.
Ma fugga chi non è del volgo fuore, lo che dietro il voler gran tempo errai
E non corra tal rischio indegno core, Misero e folle, indarno or quella etate
Che quanto essere uom può, misero fora. Piango, che da manº destra il ver lassai.
Risposta. Risposta.
Spesso ad Amor, onde tu tanto vali, Varchi gentil, che con purgato inchiostro
Questa divoto anch'io lingua dispiego, In mezzo al coro delle nove suore,
E questo core umilemente piego, Volate al cielo ognor con quello onore,
Primier tra gl'altri suoi servi leali. Ch'a si nuovo conviensi e chiaro mostro:
Ei scioglier mi può sol dalle mortali Me che 'n questo mondan sì scuro chiostro,
Cose caduche, ov'io m'avvolgo e 'mpiego; Ne' lacci avvinto del terreno amore,
Ma non mi valse mai martire o prego; Vissi passando d'uno in altro errore,
Si fere son ver me stelle fatali. Poi che m'avete il vero varco mostro,
Ben diede, Varchi, a te, degno amadore, Piacciavi ancor da queste onde turbate,
Alta petra gentil, che sola onora Guidarini in porto, ed a quel ch'io spregiai
La nostra età di pregio, e di splendore; Da man destra cammino, or mi tornate.
Perch'al sommo del ciel caro Fattore Solo uno a me di tanti vostri rai
Quindi t'alzassi, come fai tutt'ore, Scoprite si, che per l'orme segnate
Questa a vile tenendo ima dimora. Da voi m'indrizzi, e n'è ben tempo omai.
A Gio. Battista Santini. A M. Francesco Berni.

Quanto m'aggrada, Santin mio, che 'l vero Sacre Muse toscane, o voi mi date
Non scemi o cresca in voi speme o timore; Un dolce stil, quale ha il mio Berni, od io
Tanto mi spiace poi, che troppo amore Tacerò sempre e frenarò il disio
Spenga quel vostro buon giudizio intero; Di ledar lui, che voi sì forte amate:
Ch'altro lodare in me, se non sincero Le pure rime sue senza arte ornate
Volere o puote, o deve amico core ? Non lungi molto a quelle van, che 'l Dio
E voi mi fate tal, ch assai minore, Di Cinto canta ad Euterpe e Clio;
Sarei via più di quanto o bramo, o spero: Onde ben puonno al mondo esser lodate;
Ma vada per color, che troppo forse E, se pur solo a lui concesso avete
Tinti di quel color, che 'l proprio danno Si raro don, sospesa a questo pino
Non fa, ma l'altrui pro, notte e di solo Muta sempre starà la mia sampognae
Lungi dal cammin dritto, onde gli torse Cosi come uom che le sue voglie sogna,
O folle invidia, o non giusto odio vanno Dicea Damon, quasi invidiando Elpino:
Procacciando altrui biasmo, ed a sé duolo. Or tace, e del tacer bel frutto miete.
Risposta. Risposta.
Varchi gentil, quando lo mio pensiero Varchi, quanto più lode voi mi date,
Muove per farvi con la lingua onore, Tanto più l'abborrisco e rifiuto io,
Altro non fa, se ben discerno errore, Che so, che vinto da gentil disio,
Che soggetto pigliar cotanto altero. Altri più, che voi stesso a torto amate.
Però temo io, che 'l vostro merto vero Le rime mie senza arte e non ornate,
Non il mio stil, quanto conviensi, onore, Assai lontan da quelle van, che 'l Dio
S'io tento poi col più scelto colore Di Cinto canta ad Euterpe e Clio,
Pregio acquistargli a tutt'altri primiero; E dalle vostre, a gran ragion lodate;
E che sentendo il vostro nome porse Da quelle che d'altrui diverse avete,
Da me non là, dove i più saggi l'hanno Quanto l'umil ginebro all'alto pino,
Posto mai sempre, il fero, invido stuolo Da stridol canna nobile sampogna ;
Non tempri quel che dentro al cor gli corse Quanto dall'uom ch'è desto, a quel che sogna.
Più volte, e corre ancor livido affanno Or canti il buon Damone, e taccia Elpino,
Di veder voi nel mondo unico e solo. Ch ei sol del suo bel dir buon frutto miete.
PARTE SECONDA 555
A M. Pietro Aretino. A M. Trifon Bencio.

All'alta fama che di voi ragiona, Trifon, s'è vero, oimè! che 'l vostro e mio
E vi chiama fra noi mortal divino, Molza, che giace già tanti anni, forte
Non prescrisse unqua il ciel tempo o confino, Languisca or sì, ch'omai vicino a morte,
Onde più larga sempre e maggior suona. Scorga le nere case e 'l fiume rio;
Non odio voi, ma caritate sprona Come è che Febo al suo più caro e pio
Biasmar chi torce dal vero cammino; Sacerdote non corra e non gl'apporte
Come chi male accorto pellegrino E sughi e canti, ond'ei s' erga e conforte?
Garrisce, che 'l sentier dritto abbandona. Già negli Dei cader non deve oblio.
Ed or veggendo pur, che l' empio e rio Io certo ancor che giorno e notte vinto
Secol nostro a mal far più pronto ognora, Dall'ardente languor che si m'aſſlige,
Nulla ha del fallir suo vergogna o tema, Non più del mio, che del suo mal midoglio:
Colla penna e col cor rivolto a Dio, E s'avverrà, ch'egli anzi tempo spinto
Fate sì, ch'ogni buon lieto v'onora, Da chi tutti ne sforza, varchi Stige,
E tristo ciascun reo paventa, e trema. Dietro gl' andrò, che soprastar non voglio.
Risposta. Risposta.
Le sacre man del puro ingegno vostro Signor mio caro, il Molza vostro e mio
Ad oltraggiar la morte e 'l tempo pronte, Già quasi un lustro inter giacendo, forte
Far denno i varchi, onde si poggi al monte, Languisce si, che talor presso a morte
Ch'a pochi in ogni età piano s'è mostro. Scorto ha i pallidi chiostri e 'l fiume rio:
F però il Molza col felice inchiostro Pur tai sughi e parole al saggio e pio -

Ingemmata di lodi havvi la fronte, Suo figlio par, che Febo or presto apporte,
E 'l Cammillo anco, le cui lingue conte Ch' indi vigor ne prenda e si conforte :
Son due squille maggior del sermon nostro. E ben degno è, che 'n ciel non regni obblio.
Certo giusta cagion gli alti intelletti Il duol dunque, che voi si oppresso e vinto
Dei duoi rivolse a quei leggiadri onori, Tiene, ed ognora il cor v ingombra e afflige
Che vi fanno il mortal porre in obblio. Pel male, onde ancor io vosco mi doglio;
Ma voi muove con dolci e puri affetti Cessate omai, e d'allegrezza spinto,
Natia bontate, e i suoi teneri ardori Dite: Poi che 'l buon Molza è fuor di Stige,
Vi fan notare in carte il nome mio. Esser più mesto non deggio io, nè voglio.
A M. Bernardo Tasso. A M. Dionigi Lippi.
Tasso, nè caro più, nè più pregiato Lippo, non lippo già, ch'occhio cerviero
Don potea darmi tutto il secol nostro Non fu mai, come 'l vostro acuto e presto
Di quel che voi del chiaro ingegno vostro A vedere e fuggir quantº oggi ha questo
Oggi m'avete riccamente ornato; Secol folle e malvagio d'empio e fero:
Ond'io superbo sempre, e voi beato Come notte e di sempre entro 'l pensiero,
N'andarem per si puro, altero inchiostro, Parmi tutto vedervi afflitto e mesto
Poco invidiando altrui le perle e l'ostro, Del partir mio, ch'a voi grave e molesto,
Che turban spesso un più tranquillo stato. A me certo saria dolce e leggiero !
Ricco sete ben voi, non chi possiede Ben puonno il mio bel Giulio e'l buon Martello,
In questo loco e quello oro e terreno, Ch'io non gli segua, omai dolersi, ed io
Che breve spazio ne mantengon fede. Altro che rivedergli unqua non bramo.
D' ogni cosa mortale a sciolto freno Venticinque anni ha già, ch'ogni suo bello,
Fanno il tempo e fortuna ingorde prede, Ogni suo buon perdette il mondo, e 'l mio
Sol gl'onor vostri mai non vengon meno. Viver morì con lor, cui piango e chiamo.
Risposta. Risposta.
Voi, cui dal ciel si largamente è dato Varchi, se l'amor mio puro e sincero
Si come di virtute altero mostro, Com' egli è dentro, v'è fuor manifesto,
Ornar questo terreno oscuro chiostro Ben sapete con quanto e quale io resto
Coi rai del vostro onor chiaro e lodato: Dolor, che voi partendo, anch'io non pero.
Potete ognor nel campo fortunato Già non dovria sì tosto il nostro intero
Della gloria mortale, ove io sol giostro Farsi, toltone voi, mezzo e funesto,
Coi bassi ingegni, e poco valor mostro, Nè 'l mondo cieco, ancor che tanto infesto
Gir spaziando ai più famosi allato. Alla virtù, ch'ha in voi si grande impero.
Picciol fu il don, che buon voler vi diede Deh non vi prema sì di veder quello
Dei versi miei, perchè nel bel sereno Santo e caro collegio, alto desio,
Del vostro almo splendor movesse il piede; Che senza voi qui tutti orbi ne stiamo.
Ma voi di gentilezza e d'amor pieno, Baste il Martello al ciel, bastigli il bello
Varchi, per farmi d'alta laude erede, Giulio per ora, e ne conceda Iddio,
Cortesemente il vi portate in seno. Che voi lunga stagion quaggiù godiamo.
556 SONETTI
A M. Lodovico Dolce. A M. Francesco Bolognetti.
La bella donna, che tra Bice e Laura Sol potevate voi, Francesco mio,
Non men forse di lor pregiata e colta, Con degno canto, e dovevate solo
S'asside in ciel dal mortal velo sciolta, Portar dal nostro all'Antartico polo,
E 'l paradiso tutto ingemma e innaura; Sotto il bel nome di Costante Pio,
Di sì folti sospir condensa l'aura Quel saggio e santo, altero Duce, ch'io
Veggendo il suo fedel, a Dio rivolta, Come servo signor, padre figliuolo
Che con ella pietoso i preghi ascolta, Divoto inchino e riverente colo,
E 'l pianto che già mai non si restaura. Quasi uom celeste, anzi terrestre Dio:
Del pio fallir di lui fra lieta e trista Onde per voi via più di glorie pieno
Chiede perdon tacendo, e parte vede Corre, che d'onde e toccherà le stelle
Ricco seggio adornar più d'altro chiaro; Il vostro grande omai, non picciol Reno:
Or confortate lui, che qui sè attrista; E l'Arno in vista più, che mai sereno
E turba in cielo altrui, ch'a tanto amaro Con arene più bionde, acque più snelle
Solo il vostro alto stil, Dolce, richiede. N” andrà più ricco al gran padre Tirreno.
Risposta. Risposta.

Quei che cantò molti anni e pianse Laura Se 'n me la possa egual fosse al disio,
A par di cui questa altra ornata e colta, Varchi gentil, ben mi vedreste a volo
Sen va fenice, e dal mortale sciolta Poggiar col canto, onde a me stesso involo
Nel divin Sol le sue bellezze innaura; Me stesso, e uscir fuor del terreno oblio.
In voi l'eletto stil, ch'addolci l'aura, L'alto Cosmo cantando, il cui natio
Dal cielo infuse e di lassuso ascolta Valor cangia in letizia ogni mio duolo,
La lingua vostra all'armonia rivolta, Visto da lui d'infernai mostri un stuolo
Che 'l già spento valor tra noi restaura: Fuggir nel centro, onde ancor prima uscio.
Poi fermi gl'occhi in quella eterna vista Fraude, invidia, discordia che 'l terreno
Del gran Bembo ode il pianto e'l volto vede, Tosco avea con l'inique lor sorelle,
Non men di lui quaggiù pregiato e chiaro. Colmo d'ira e di rabbia e di veneno,
E dice a voi: Quel caro, che se attrista, Fuggir veggo, e l'ingorda empia Celeno,
Fedel conforta, ch'a sì lungo amaro Ch' infette avea le pure mense, e belle
Mio stil, che vive in te solo richiede. Scender veloce all'oscuro Orco in seno,

A M. Alessandro Piccolomini. A M. Fortunio Spira.


Alessandro, se mai tanto da terra Fortunio, a cui non pur l'Arno e 'l Peneo
Lungo studio, o destin, non proprio ingegno Rendono e 'l Tebro onor più largo ognora,
M'alzeran, ch'io non sia del tutto indegno Ma lungi il gran Giordan v'inchina ancora,
Scriver d'amor, che 'l varco al ciel disserra, Ch'a i nostri rado e forse mai non fed:
Allor di quella dolce e forte guerra, Qual forza, quale inganno, o fato reo
Ch'amor vi diede, e'n tutto il suo bel regno Fa che'l mal viva, e'l ben languisca e mora
Trovar soggetto non potea più degno, In questa vile età che sola onora
Dirò quel, ch'or temenza entro 'l cor serra. Chi di più colpe e maggior frode è reo?
Ma voi ch'alta ventura e senno pria Ben vedete or come negletta e trista
Guidar di cerchio in cerchio all'alte stelle, Giace virtute sbigottita al fondo,
Poi vi mostraro i tuon, le pioggie e l'aura: E 'l vizio in cima baldanzoso regna.
Cantar devete in voci altere e belle; Un solo ha, si può dir, perfetto il mondo
Se l'Arno ebbe già Bice e Sorga Laura, D'ogni rara eccellenza ; e quel n'attrista,
Frasia oggi ha l'Arbia e la gran Laodomia. Dando a gran merti suoi mercè si indegna.
Fisposta. Risposta.
Varchi mio, ch' a gran volo alto da terra Varchi, il famoso giovinetto Ebreo,
Gite su l'ali del bel vostro ingegno, Che fra sì pochi il mondo ama ed onora,
Tal ch'ove fu di gire ogn'altro indegno, Tra i più negletto e sconosciuto fora,
Vostra virtute il varco apre e disserra, Se non vincea l'ardito Filisteo:
Ben dite il ver, che dolce e forte guerra Il grande uom, cui Giunone ed Euristeo
Sostenuto ho molti anni entro il bel regno In pace non lasciar mai stare un'ora,
D'amor, ma non però mi veggio degno Per girne al cielo, ove si gode ancora,
Di cantar quel che 'l core asconde e serra: Vince i mostri, non pur Caco ed Anteo.
Ma voi col vostro stil, dove non pria Virtute è combattuta a prima vista,
Orma fu d'uom vicino all'alte stelle, Ma vince al fine, e'l vizio mette al fondo,
Ove non nasce o neve, o pioggia, od aura, E lungamente gloriosa regna:
Portate nuove, come aveste, e belle, Questo vostro signor, che si v'attrista,
S'Arno ebbe seco Bice e Sorga Laura Vi fate a rallegrar, mostrando al mondo,
Scco oggi ha l'Arbia la gran Laodomia. Per quai fatiche a maggior grado uom vegnº
-

l
PARTE SECONDA 557
Al medesimo. Al signor Gabriel Moles.
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Fortunio, a cui dal quarto cielo spira Moles, che com'uom forte e saggio suole
Quanto ha di raro il biondo Apollo e cui Nella più verde età di doppio onore
La sacra, oltre la greca e tosca lira, Ardendo or con Bellona, or con Amore
Più deve assai, che non suol fare altrui: V' alzate al ciel dalla terrena mole:
Io, che gran tempo già dubbioso fui, Molto m'incresce in veritate e duole,
Nè so bene anco, perchè amica gira Che 'l Richisensi mio col suo valore
Fortuna a rei, e gl' altri in basso tira, Misurando l'altrui, poco splendore
Per non sempre dubbiar, ricorro a vui. E fosco, ampio vi fesse e chiaro Sole :
Quando sarà, s' unqua esser dee ch'al vizio Chè ben so quanto da sublime e come -

Ne stean di sotto le virtuti? e quando , Tosto cadrò che la menzogna in alto


Tornare, s'unqua dee tornar, Fabrizio? Può ben portar, ma non fermarvi altrui:
Verrà giammai che l'alme belle e pure, Pur voi ringrazio mille volte ; e lui
Ed amiche del vero, escan di bando, Prego, ch Amor mi die cortese ed alto,
E sian, se non pregiate, al men sicure? Non ischifi oggi le mie bianche chiomc.

Risposta. Risposta.
Da che è 'l mondo, da che s'ode e mira; Mentre col bel di quelle luci sole,
Da che tornano i giorni chiari e bui, Che son, Varchi gentil, scala al Fattore
Sempre a miglior fortuna aspra s'adira, Pareggio il vostro stil che 'l primo onore
E ride a rei, quasi a seguaci sui. Così toglie all'altrui, com' elle al Sole:
Ma un uomo saggio, come voi, tra nui, Nulla invidio color, che questa mole
Varchi gentil, ch'a veri studi aspira, Vinsero già col gemino valore,
Tutti gl' assalti di questa empia e l'ira Ma solo voi per iscemar l'ardore,
Vince beato cinque volte e dui. Che quelle a morte, e me dal volgo invole.
Vedi Anassarco nel maggior supplizio Or poi, che come voi, non posso il nome
Come lieto e securo iva sprezzando Oscuro e basso altrui far chiaro ed alto,
L'empio autor del suo non degno esizio: Ne trarlo fuor de mesti chiostri bui,
Vedi molti a di nostri che le dure Vi prego chi di par giostra con vui
Cose e le molli vanno ad un calcando, Ben che'l vaglia da sè, fermiate in alto,
Volte sempre a virtù tutte lor cure. Ch'io per me ben vorrei, ma non so come.
A. M. Lodovico Castelvetro. Al medesimo.

Voi, che da fragil vetro il nome e l'opre Moles, al cui valor gemino rende
Più salde e belle ch'adamante ed oro Apollo e Marte doppio onor, chi vuole
Avete; voi, in cui luce e si scuopre Portare acqua nel mar, dar luce al Sole,
D'Apollo ogni nascosto e bel tesoro: Altrui non giova e sè medesimo offende:
Or che ben poca polve il vostro cuopre Tal è proprio colui ch'a lodar prende
Gandolfo e mio, che si gradito al core O le virtuti o le bellezze sole -

Fu delle nove, vostra lingua adopre, Di questa donna che qual Febo suole,
Che tanto il pianga ognun, quant'io l'onoro, La terra, ogn'alma oscura illustre e accende:
Bene è 'l vivere uman, ch'altrui si piace, Perchè quanto il disio ne spinge e sprona
A continovo Sol tenera cera, Al dir, tanto al tacer n'arretra e punge
Od a fiero Aquilon picciola face, Ragion ch'uom dritto mai non abbandona.
A pena apre le piaggie primavera, Ambo dunque, voi presso ed io da lungº,
Che bianche il verno le campagne face; Non la lingua cantiam ch'al ver non giugnº,
Nè cosa è mai quaggiù che sia qual era. Ma col core onoriam l'alta Aragona.
Risp Osta. Risposta.
Come la gloria delle nobili opre Ben so, Varchi gentil, che muove e ascende
Via più gradite assai che gemma ed oro A troppa altezza i suoi pensier chi vuole,
Del buon vostro Toscano, in cui si scuopre Per dar lode a costei, formar parole,
Ognora più d'Apollo il bel tesoro, Onde sè stesso e 'l gran soggetto offende;
Al gran sasso sottrae, che morto il cuopre Ma il bel disio chi spegnerà che prende
E vivo il rende all' amoroso coro Acceso ai raggi di sì altero Sole,
Senza che lingua altrui, o mia s'adopre Ardir di favellarne, e tanta mole
In lodar lui, che pur col cuore onoro: Non pur l'arretra, ma lo spinge e 'ncendc?
Così mentre vaghezza che si piace Così l'alta cagion, ch'a ciò lo sprona
Addurrà amanti men forti che cera Seco accordi lo stil, che si disgiunge
Di due begli occhi all'infiammata face; Dal ver che dentro al cor meco ragiona;
E quando Zefir mena primavera, Ma so che prego umil lassù non giunge,
E quando orrido verno Aquilon face Onde dal doppio onor dell'Aragona,
Per sè Gandolfo nostro fia qual era. Quanto m'appresso più, più ne son luºgº
558 SONETTI
Al signor Vincenzio Vitegli. A M. Metello Gentil Senarega.
Signor, che per le tante e così chiare Se di quell'arbor santo, alla cui ombra
Orme de tanti e così chiari vostri Dolce sol dell' odor beato vivo,
Avoli invitti andate, sì che i nostri E del qual sempre orpenso, orparlo, or scrivo,
Giorni avran pure a quegli antichi uom pare: Onorato disio Metel, v'ingombra;
Già sentir l' alte grida, e già mi pare E meco esser bramate or dove ad ombra
Veder per tutto i più lodati inchiostri Verde elce o faggio, or dove corre un rivo,
Alzarvi sopra i più sublimi chiostri, D'ogni vil cura e pensier basso schivo,
E di voi lunga, eterna storia fare. Per lei fuggir, che'l mondo tutto sgombra;
Ben mi scuopre e dispiega ad ora ad ora Meraviglia non è, che ben nata alma
Nel cor che dir dovrei chi Delo onora, E ben nodrita il suo fin cerca, e solo
Ma non dammi al voler la possa eguale; Virtù tutte può far sue voglie sazie:
Benchè qual tanto o prosa o rima vale Perch'io meco dell'un vi lodo, e grazie
Che di mille narrar bastasse un solo Vi rendo all'altro, e per me certo, solo
Di quegli onor che 'n voi preveggio e colo? Ch'io sappia e possa, alloro avrete e palma.
Risposta. Risposta.
Varchi, le lodi che di ben felice Gentil Varchi onorato, io che pur l'ombra lo
Alma degne sariano e le pregiate Non il vero abbracciando, infin qui vivo,
Virtù che date a me, perchè m'amate, A voi tremante e vergognoso scrivo,
Da me son lungi, se 'l dir ver mi lice. Tal temenza e rossor l'alma m'ingombra,
Raro tra noi sarebbe, anzi fenice Ben spero il vostro Sol, quel che l'adombra CoEV.
Chi delle doti, che voi raccontate Velo di nebbia, un di disfaccia, o rivo,
Pur parte avesse, non che 'n me locate O elce, o faggio, già d'ogni altro schivo
Sian tutte, trai bei cigni atra cornice : Mio cor, pensando a voi, viltate sgombra.
Ond' io la molta vostra cortesia O felice quaggiù benedetta alma
Vie più ringrazio, a cui di me si cale, Scesa fra noi dal ciel più alto, solo
Che veritate e 'l suo costume obblia; Per far le brame altrui del tutto sazie,
Pur se fortuna a mia gran voglia eguale Quando lodarti e degne render grazie
Darà la possa, forse un giorno fia, Potrò ? Non mai, anzi pur sempre, solo
Ch'io salirò quai mi mostrate scale, Mi vaglia il buon voler, ch'aver dee palma.
A M. Gio. Batista Busini. A Bernardo Vecchietti.

Sovra l'altero monte, ove Quirino Già non è maraviglia, anzi dovete,
Ebbe dal cielo il più felice segno, Dolce Bernardo mio, con mesta fronte
Perch'ei chiamar dal nome suo fu degno Meco e con tutti lor, ch'al sacro monte
La gran cittade e 'l buon popol latino; Ansano, u' fama e non morir si miete:
Lunge da voi men vo, caro Busino, Non pur note dal cor nemiche a Lete,
Per antri e grotte, ov'io sempre disdegno Ma dagl'occhi versar perpetuo fonte,
Colla mente quel verde e sacro legno, Poi che secca del tutto è quella fonte,
Cui già 'l gran Tosco, or io secondo inchino; Che n'accese e ne spense ogn'alta sete.
E rimirando d'ognintorno ognora -
O veloce al tuo mal, quanto al ben tardo
L'alte ruine, che i più saggi e forti Sccol, qual sei rimaso e cieco e vile
Empiono ancor di meraviglia e tema ; Il maggior pregio, e 'l più bel lume spento?
Quell' alme adoro che d'affanni e morti Quanto avea 'l mondo buon, quanto gentile,
Nulla curar per libertate, ch' ora Caro Vecchietto mio, con Lionardo
Giace spenta del tutto, non pur scema. Quasi fior cadde, e spari, come vento.
Risposta. Risposta.
Sempre da voi lontan, Varchi divino, Poi che securi dall'oltraggio ed onte
Col pensier vosco, e la memoria vegno, Del secondo morire altrui rendete,
Per l'antiche rovine, ove 'l gran regno Varchi, novello Orfeo, ben forza avrete
Di Marte aperse il gran monte Aventino: Di tornar l'alme a noi d' oltra Acheronte,
E meco stesso piango il reo destino Dunque cantando omai rendete pronte
Di tanto impero, pien d'ira e di sdegno, Ver gl'Elisi le piante, u' solo avete
Che di simil valor vestigio e pegno Le vie fra mirti all'amorose e liete
Non mostra, od ave il mondo empio e meschino. Alme non men, ch' ad Elicona conte.
E molto più m'affligge e discolora, Ivi a Dante, al Petrarca, al Bembo intento
Che vendetta non ſia de' nostri torti Al vostro amico dir chiedete umile
Perch'altri il male oprar paventi o tema. La fonte, oime, qui secca, ond'io tutto ardo:
Pur voi che pe' sentier fioriti e corti Ma vi scaltri partendo indi contento,
Di gloria gite, ove 'l gran Tebro infiora, Chi Plutone addolci con nuovo stile,
Non ponete in oblio Mugnone ed Ema, Che tanto il volger pianse a dietro un sguardo,
PARTE SECONDA 559
Al medesimo. A M, Carlo Zancaruolo.

Mentre che voi, dolce Bernardo mio, Se ben le crespe della fronte e'l bianco
A voi palese, a tutt' altri nascoso Canuto crine alla terrena scorza
Godete sciolto il vostro almo riposo, Sceman più d'ora in or destrezza e forza,
Ogni cura mortal posto in oblio: Che vien col tempo e per etate manco:
In me cresce ognor più l'alto disio Non perciò, Carlo mio, d'ardire, o manco
Di lui vedere, in cui solo riposo, Di buon voler, che quel dentro non sforza
Dopo l'arbor gentil vittorioso, Lungo del ciel girare, anzi il rinforza,
U’ prima Apollo e poi fui 'nvescato io. Che mai d'amar sazio non fu, nè stanco.
Ma perchè, s'occhio uman tanto alto aggiunge, Già son varcati cinque lustri ch'io
Contra 'l destin non val forza nè 'ngegno, In si dolce arsi e 'n sì cocente fiamma,
E seguir vien, dove ne mena il cielo; i Ch' ogn'altra tosca può chiamarsi e neve:
Qui resto io colle membra, e col cor vegno Nè questa algente bruna e verno rio
Al bel Vacciano; e 'n doppio, onesto giclo Spengon del santo ardor solo una dramma,
Tanto ardo più, quanto più son da lunge. Ch'esscr qui meco in terra e su in ciel deve.
Risposta. Risposta.
Io non cerco di questo, e non desio Come destrier, s' ha spento il vigor franco,
Altro più bel soggiorno, perch'io poso Che la stagion men fresca in tutto ammorza
Qui solo ogni vil cura, ogni noioso Nel generoso spirto ancor s'afforza,
Pensier ch apporte o cresca il tempo rio. E i piè fa pronto e agevolisce il fianco.
Varchi, qui sempre, e non altrove obblio Si se' tu, Varchi, ardendoti pure anco
La mortal mia bassezza, ond'io son oso Amor che d'ogni tempo il cor ne scorza;
Quasi tarlo, ch'un tempo il cor m'ha roso, E 'l viver nostro come ei vuole accorza
Il mondo odiar d'ogni ben far restio. Alle nostre speranze or destro, or manco.
E parmi, sì del ciel cura mi punge, Me con te parimente arde, un disio,
Di mia salute aver più fido pegno, Ma men di chi m'avvampa, in corso damma
Quanto dal vulgo più lontan mi celo. Fuggitiva si rende ol vento lieve.
Con voi m'allegro, a cui doppio sostegno Dal freddo giel di Scizia al mondo uscio
Fa doppia, onestamente, e non col pelo Pur quell'empia freddezza, e si m'infiamma,
Cangia il desir, ma nuovo foco aggiunge, Che 'l mio petto un altro Etna in se riceve.
A M. Pero Gelido, A M. Daniello Barbaro.

Come gelida petra in fresca parte Barbaro mio, che intento ad alte imprese
Talor largo stillar pura si vede Sol di trovare il ver sempre argomenti:
Liquor senza opra altrui, che poi con piede Tal sono in te contra nostro uso, spenti
Errante infiora le campagne e parte: I vizi tutti e le virtuti accese:
Tal, Pero, a voi senza alcun tempo, od arte Dinne, onde avvien, che più spesse l' offese
Dolci versar chiari concetti diede Pruovo d'amore e più gli strai pungenti
Colui che solo in sè tutto possiede, Qui, dove io pur credea tra sterpi e venti
E tutto sempre all'universo parte. Più leggiermente far da lui difese ? -

Cosi quel ch'ad altrui cercar conviene Ma dovunque io mi volga un faggio, un pino,
Lunga stagion con sommo studio, a voi Un sasso, un colle, un rio m'assembra, e l'ora,
Quasi impensato ed improvviso viene: Quell'alma pianta, ove ogni ben s'aduna.
Che giunto alla bontà vostra, ed all'altre Poi, come più dappresso umil le 'nchino,
Doti, tanto v'innalzan sopra noi, Tosto sparisce, ond'io di mia fortuna,
Ch'altri nol sa pensar, non ch'io lo scaltre. Di me stesso e d'amor mi doglio ognora.
Risposta. Risposta.
Mentre che in altrui lode inchiostri e carte Benchè di fila d' or le reti tese
Spendi per fare or questo, or quello erede M'abbia colei che fa gl'uomin contenti,
D'immortal gloria, tu come ognun vede, Varchi, non è però ch'io non paventi,
Varchi, da questa bassa in alta parte: Pensando quanto ognor le sia cortese.
Ben ali aver vorrei per dietro andarte, Pur ti dirò per qual cagion palese
Ma volar così alto si concede - Più si dimostra amor me tuoi tormenti,
Oggi a te solo, e tu sol ne fai fede Quando meno dappresso il credi, e vienti
Quanto ad uom possan dar natura ed arte. Dietro volando per ciascun paese; -
Così ricco d' un proprio e vero bene Mentre per alcun tempo il tuo divino
Insegni santamente ai cari tuoi Oggetto nel pensier vivo dimora,
Il dritto varco, onde al ciel gir conviene; Ciò che vedi t' assembra e sole e luna.
E ben questo a te sol fare appartiene, Così ten godi, ma se 'l tuo destino
Poi che Dio tra i più chiari spirti suoi Per vano error la bella effigie imbruna,
T'ha scelto, e sol tra noi per ciò ti tiene. Non scorgendo il tuo ben ti lagni allora.
56o SONETTI
A M. Giulio Camillo. Al medesimo.

Il grido, signor mio, che di voi nacque, Signor mio caro, il vostro e di voi degno
E crebbe sì, che mai non verrà meno, Giron cortese, a chi ben scerne il vero,
Tale ha non pur questo emisperio pieno, Dove poggiar Virgilio e 'l grande Omero,
Ma l'altro che fin qui nascoso giacque. Spesso sen vola e talor varca il segno:
Nè mai il padre Ocean con tutte l'acque Onde 'l Po con men grido e più disdegno,
Porria 'n parte ammorzar, non ch'ora a pieno Porta 'l suo dritto all'Adria e l'Arno altero,
Spegnerlo Isauro tutto e 'l picciol Reno, Per voi tornato al valor suo primiero,
Che'n questo solo a sè medesmo spiacque. ſien fra tutti altri glorioso il regno.
Breve stilla, signor, d'acqua in gran foco Quanto esser può bontà, senno, valore,
Altrui non nuoce, anzi sè stessa offende, Forza, ingegno, giudizio e leggiadria,
Nè poca nebbia mai gran luce asconde. Tanto ebbe e mostra altrui Giron cortese.
Prender si den cotai sciocchezze in gioco, Ben fora il mondo sovra il prisco onore,
Combattuta virtù via men s' asconde, Se tal fosse oggi di cavalleria
Onde oggi il vostro re più chiaro splende. L'arte che sol da noi tutta s'intese.

Risposta. Risposta.
Perchè li numerosi atti concenti Come or sovra ciascun mi stimo e tegno
Che non capir nel fin del Tosco metro D'aver, Varchi onorato, il pregio intero,
Mentre io risposi a quei del divin Petro, Poi che dal vostro stil ch'oggi ha l'impero,
Truovo del tutto esser da voi preventi, Non pur descritto ma lodato vegno:
Verran degl'altri a vostra lode intenti, E ben verso di sè può dire indegno
Quai dal bel cristallin liquido vetro Qual già mai fosse errante cavaliero
Non sassoso, non torbido, non tetro Giron, se l'opre sue chiare si fero
Vi dan le muse per dolci alimenti. A chi vince i miglior d'arte e d'ingegno.
Dico, o gentile, o mio onorato Varchi, Or tale il vostro dir m'infiamma il core,
Che voi varcando già di colle in colle Che tosto spero a lui compagno ſia
Vi condusse ad Apollo una del coro: Un del sangue medesmo e del paese;
Ed ei, serbati sol gli strali e l'arco Ma con più accorto piè del volgo fore
D'umor celeste vi fe” tutto molle, Gire il farò per men segnata via,
E die la cetra a voi, diede l'alloro. Se le forze al voler non fian contese.

A M. Luigi Alamanni. A M. Battista Alamanni.

Qual ricco eterno fonte, che con piena Dolce Battista mio, ch” all' alto e chiaro
Onda sempre maggior, sempre più bella Parente vostro in giovenile etate
Versa più fiumi, e questa riva e quella Di senno e di bontà vicino andate, l

Infiora e 'nfronda ovunque 'l corso il mena; E sete nel cantar quasi a lui paro:
Così l'eterna vostra e ricca vena, S a vile ora non v'è quel che si caro
Or Flora or Cinzia adorna, or la rubella Già fuvvi, e me quanto io v onoro, amate,
D'amor ligura pianta, or la novella, Perchè si rado in man per me pigliate
Ma più casta e più saggia e cara Elena. La penna fuor dell'uso vostro avaro ?
Poscia raccolte in un sue forze al fine Mio basso stato e queste annose chiome
Per dar suo dritto a Teti con dorate Fatte di vile argento oggi non denno
Arene entra nel mar carco di prede ; Men grato a voi, nè men pregiato farme.
E voi raccolto ogni sapere e fede, Cosa più cara a me del vostro nome,
Nell'ampio e cupo mar delle divine Dopo quelle ch'amore e 'l ciel mi dienno
Lodi immortal di Beatrice entrate. Sacrate frondi, non può il mondo darme.
Risposta. Risposta.
Ben dite il ver, che l'amorosa pena Nel vostro ornato stil leggiadro e raro
M' ha spesso indotto e la mia fera stella, Ver me sì caldo amor, Varchi, mostrate,
Si che m'udir cangiar voglia e favella, Che lui seguendo, il ver dietro lassate,
L'Arno, il Rodano e 'l Po, Durenza e Sena, Tal foste di mia gloria e sete avaro.
Ma con sì basso stil che 'nfra la rena Io ben cerco il sentier che ne segnaro
Di far si giacque, e sì crudele e fella Le paterne vestigia alte e pregiate,
Gli fu ciascuna che sua donna appella, Per farmi a lui sinil, ma in veritate
Che d'ascoltarlo sol degnossi a pena. Nol truovo, nè di mille un'orma apparº
Più dopo molti sterpi e molte spine Il gran vostro valor nel cor m'è, come
Ho ritrovato il fior d'ogni beltate Le frondi a voi, ch'Apollo amante fenno,
L'alma Beatrice, cui tutt' altra cede. E che porrian con voi le tempie ornarº
Questa, Varchi, spero io, vostra mercede, Onde nè di fortuna ingiuste some,
Far con voi sì, che 'l gielo e le pruine Nè tempo un ſua potranno il nome e' º
Del verno scampi, e non la cangi state. Vostro e l'alta bontà del petto trarnº
PARTE SECONDA
Al medesimo, Al signor cardinal di Burgos.
Mentre ch'or fuoco or ghiaccio in varie tempre, Signor, cui tutto die natura quanto
Portano all'alma ognor diversi affanni, Dar può quaggiuso ad uom mortale, e voi
E che l'estremo di degl'ultimi anni Con lungo studio e somma industria poi
Vicino è già che mi dissolva e stempre: Tal vi faceste e v'aggiugneste tanto,
Perchè sommo piacer non pur contempre, i Che i gir velato di purpureo manto,
Ma vinca tutte le paure e i danni, E splender fra i più illustri e sacri eroi,
Il mio caro e dolcissimo Alamanni Chiaro da i regni Ispani a i lidi Eoi
Mi torna a mente, anzi v'è dentro sempre. È di tanti altri vostri il minor vanto:
E parmi al tristo suon vederlo insieme Qui, sacro signor mio, dove non pure
Col suo buon frate e gran parente mesto, E buono il fonte, ma la gente ancora
Asciugar gl'occhi tumidetti e molli. Dispregiatrice d'ogni bene umano;
E dire: O mondo cieco, o pensier folli, Si queta vosco e si dolce dimora
Come qui solo e sconsolato resto, Traggo fra Rivonero e'l bel Larchiano,
Da che 'l mio Varchi eterno sonno preme ! Ch'aggio posto in obblio tutte altre cure.
Risposta. Risposta,
In quai dogliose, lasso! e crude tempre Varchi, a Fiorenza ceda e Smirna e Manto,
M'assalirono il corº feroci affanni, Poi ch'ella ha voi tra primi cigni suoi,
Quando udì, Varchi mio, che de'vostri anni Che 'l ver ponete in celebrando noi
Presso era il fin ch'ancor par che mi stempre! Vinto d'amore, e cortesia da canto:
Ma perchè il sommo ben quaggiù contempre Io sol mi pregio al mondo e sol mi vanto
Ogni aspro mal, ne tolse i mortai danni, ! Non già de'ben, che tu Fortuna, toi,
Rendendo quel tesoro all'Alamanni, E doni a chi talor men giusta vuoi,
Senza'l qual mendico era e'n pianto sempre. Ma del soave vostro altero canto.
Or col mio buon parente e frate insieme A questo intente le belve aspre e dure
Ringrazio il ciel che 'l viver vostro al mesto | Vengono, e dei selvaggi alberghi fuora
Rogo rito!se, e poi con occhi molli Corrono e fauni e ninfe a mano a mano,
Per gran dolcezza dico: O amari e folli Simile usare Orfeo doveva ancora,
Desii da me fuggite; io lieto resto, Quando per la sua donna, e non invano,
Nè più grave dolor m'affligge e preme. Scese alle case dell'inferno oscure.

A M. Bernardino Daniello. A M. Giulio dalla Stufa.


Voi che 'l gran Tosco piano avete e chiaro Stufa, già parmi a queste genti e a quelle
Fatto alle genti, Daniello, ed ora Sotto ogni clima, in ogni estranio lido
L'opra vulgate al mondo onde s'onora, Volar la fama vostra e 'l chiaro grido
Pietola d'Ascra più, non dico al paro; Di sè sempre maggior ferir le stelle.
Non pure il Serchio oggi per voi si raro Già veder mille penso altere e belle
Inchina, e l'Arno assai più ch'altro ancora, Opre di vostro ingegno, ond'io m'affido
Ma piange il Tebro e si lamenta ognora, Che quel ch'Achille e quel ch'ancise Dido,
A sè stesso più vile, altrui men caro. Cedan l'antiche alle glorie novelle;
In voi per doppio ben vive e risorge, º E l'Arno cotai fiori e tanti coglia
Quel santo Veglio e saggio, in cui l'antica Frutti per voi ch' ognor s'allegri e cante,
Età fiorisce e 'l viver casto e bello; Quanto'l Tebro e'l Peneo s'attriste e doglia.
Ei solo in questo vil secolo, e fello, Di me v'incresca sì ch'antica voglia -

Senza prego aspettar, la mano amica S'adempia di restar qui vivo innante,
Per trarne seco al ciel, dispiega e porge. Ch'io mi disvesta la terrena spoglia.
Eisposta. Risposta.
Varchi, che le sorelle alme lattaro, Varchi, nuovo Mirone e nuovo Apelle r

L'alnue sorelle ch' Elicona onora, Delle memorie nostre, e duce fido
Poi della fronde che verdeggia ognora Al sacro monte, ond'è ch'io non diffido
A Febo sacra il dotto crime ornaro: Veder dappresso un di l'alme sorelle:
Voi quanto è virtù dolce e 'l vizio amaro, Ben par che 'n voi ristauri e rinovelle, º
Com'uom saggio l'un sprezza e l'altra adora, Apollo quel, ch'ad ognor piango e grido,
Ci dimostrate, ove le piagge infiora Valor perduto, e poi m'acqueto e rido,
L'Arno con alto stil leggiadro e raro. Vedendo, come per voi s'orni e s'abbelle
Si fossi io vosco, e quei ch'anco ne scorge Il secol nostro: ond'io quanto ho gran doglia
Al ciel per strada al volgo aspra, nemica, Per lui, tanto ho per voi piacer ch'innante
Cui tanto spiacque che per fuggir quello, Sete a tutt'altri, in cui virtù s'accoglia:
Ove d'un sasso chiaro fonte sorge, In me solo è 'l disio ch'or più m'invoglia,
O per verdi erbe fugge rivo snello, Da che voi, sol per farmi al ben costante,
S'ascose in cima un colle o in valle aprica. Mi vestite di quel che 'l ver mi spoglia.
-
VARCHI V. I. 7i
56a SONETTI
Al medesimo. A M. Alessandro Neroni.

Stnfa, or che 'l ciel con disusata foggia Alessandro, qual mai lingua nè 'nchiostro
Nel più verde, fiorito e vago mese, Porria degno cantar l'alto e gentile
Irato versa con mille altre offese -
Sincero core al gran nome simile,
Fredda ognor sopra noi più folta pioggia; Quanto contrario al soprannome vostro?
Voi nel cui petto ampio teatro e loggia, Se lei ch' orna ed onora il secol nostro,
Delle muse e d'Apollo amor s'accese Non prenda i preghi e sospir vostri a vile,
D'ogni virtù quelle onorate imprese; Tenete in bene amar l'usato stile,
A cui per erto e stretto calle uom poggia, Che fede tanta e tal costanza ha mostro.
Seguite tutte, e fate sì ch'ancora Esser non può ch'alma cortese e bella
S'oda infin sovra il ciel sonar Vacciano, Degne fiamme d'amore odie e rifiute,
Vaccian ch'oggi per voi tanto s'onora: E non gradisca leal servo e fido;
Del mio cor che costi con voi dimora Io ch” all'antica dianzi esca novella,
Tra quelle frondi ch'amò Febo invano, Giunsi per doppio ardore e doppio sido,
Sovvengavi di me, prego, talora. - Doppia ho gioia nel cor, doppia salute.
Risposta. Risposta.
In voi, Varchi mio buon, con Febo alloggia, Varchi onorato, in cui chiaro s'è mostro
E con sue frondi a leggiadre opre intese In questa etate oscura tanto e vile,
Ogni più bel costume, ogni cortese Core agl'antichi cor non dissimile.
Oprar, per cui da terra al ciel si poggia: Che più pregia virtù, ch'argento ed ostro:
In voi mai sempre ognor più cresce e poggia Se fedel, se costante a lei mi mostro
Onesto Amor che doppia fiamma accese: Cui non fu par, nè fia da Battro a Tile,
In voi la gloria del toscan paese, Mio dover faccio, e render cerco umile
E del nostro idioma oggi s'appoggia. Quella, di tutte l'altre altero mostro.
Io che sol bramo uscir del volgo fuora, E spero, come m'affermate, ch'ella,
Senza voi truovo ogni mio desir vano Ch'è sola albergo d' ogn'alta virtute,
In questa dolce mia trista dimora: Gradir mi debba, e 'n questo sol m'aſilo.
Dolce, perch' a Vaccian nulla m'accora; Di voi, cui doppia, onesta arde facella,
Trista, perch'io son pur da voi lontano, M'allegro e più, che tal ven segue grido,
Se ben viveggio e parlo a ciascuna ora. Ch' ogn' altre voci puon chiamarsi mute.
Al medesimo. A M. Filippo del Migliore.
Ecco che già, signor mio, nuovo riele Filippo, e non è fronde o foglie d'erba
Quel tanto acerbo giorno e tanto degno, In tutto quanto il vostro ameno colle,
Nel qual trenò la terra e'l Sol die segno Nè sasso han questi monti, ove il ciel volle
Che Quei pativa ch' ogni cosa eccede: Beato farmi nella etate acerba,
Quel dunque, che felice alta vi diede Cui non inchine il cor, che viva serba,
Stella, volgete pellegrino ingegno E vera quella sacra, ch'a lui tolle
A piangere e cantar quel santo Legno, Ogni delira impresa e pensier folle,
Che del vero suo ben fe 'l mondo erede; Pianta più ch'altra umile, e più superba.
E più Colui che sol per liberarne In questi verdi boschi, alla dolce ombra
D'eterni danni, e farne al ciel la via, Di questi freschi ontani, appo il bel rio,
Discese in terra e prese umana carne. Che grato mormorio fuggendo porge:
Che più doveva? anzi potea più farne? A piè di questo vivo fonte, obblio
O pietà somma o nuova cortesia, D'ogni cosa mortal nell'alma sorge,
Per donar vita altrui, morte a sè darne! Tal memoria e si forte oggi l'ingombra.
Risposta. Risposta.
Varchi gentile, in cui tutto oggi riede Benedette le frondi, i fiori, e l'erba,
Quell'antico valor pregiato e degno, Che d'ognintorno han cinto il nostro colle:
Voi che varcando al ciel ne date segno, Dal dì che piacque al cie, dal di che volle
Che 'l vostro merto ogn'altro merto eccede; Ivi condurvi in quella etate acerba!
A voi Mercurio, a voi non a me diede Benedetta qualunque ancor si serba
Chiaro, sublime e pollegrino ingegno, Orma del sacro allor! Deh chi ne tolle
A voi dunque convien cantar quel Legno, Ivi lieti mirarlo ? ahi vana e folle
Che 'l mondo fe” del Paradiso erede. Cura mortale, a che pur gir superba?
Io ben prometto che per liberarne Varchi gentil, che più della dolce ombra,
L'alma che cerca sol del ciel la via, Che più dei verdi ontan, del fresco rio,
Spregierò sempre questa umana carne. Ch'ognor vaghezza tal fuggendo porge?
Ben debbo e ben vorrei, ma che può farne Bene a ragion si truova eterno obblio
Un che sa nulla ? Vostra cortesia Di bassa voglia, in cui quell'alta sorge;
l'egni consiglio, prego, e aita darne. Felice voi, che il bel pensiero ingombra!
PARTE SECONDA 563

A M. Anton del Migliore. A M. Bernardo Davanzati.

Anton, che come il vostro altero nome Bernardo, il piano, il colle, il fiume, e 'l monte,
V'insegna de'miglior l'alte e profonde Le valli, i campi, i boschi e quel natio
Orrue dritto seguendo avete, donde “Orror d'ombre e di sassi, e 'l vago rio,
Più che buono a ragion ciascun vi nome. Che così chiaro spande e fresco fonte;
Queste, che neve e vile argento chiome Si mu' allegraro il cor, gli occhi e la fronte,
N'assembrano ora, eran dorate e bionde, Ch' esser pareami al dolce loco, ov'io
Quando io la bella e casta e sacra fronde, Ogni volere e disvoler di mio -

Qui vidi e presi l'amorose some. Voler perdei con voglie ardite e pronte,
Tra questi colli, in questi boschi, dove Ne curo più ch'Atlante, Olimpo e Calpe, i
Giace superbo Bivigliano altero, Odano i versi miei, nè Battro e Tile,
D'ombre, d'acque, di fior, di frutti adorno: O 'l Nil, ma sol la Tana, ove fui vosco.
Sopra quel verde poggio, u col pensiero Qual si colta campagna, e tanto erma alpe
Ventisette anni omai notte e di torno, Ha, se non una, il bel paese Tosco,
Nè trovar pace, o voglio, o posso altrove. Che t'assomigli pur, Tana gentile ?
Risposta. Risposta.

Varchi, quanto il Peneo più chiaro il nome L' ombrose valli e 'l dilettoso monte, -

Sovralza al cielo, e più larghe e profonde Varchi, e gl'aprichi colli, e 'l bel natio
L'acque sue sparge, poi che mira d'onde Verdeggiante terreno, e l'aure e 'l rio
La bella figlia oggi si cante e nome! Ch'esce del cristallin liquido fonte;
Quanto s'allegra Sorga, u' quelle chiome Di maraviglia m'ingombrar la fronte,
Già si lodar più ch'altre e crespe, e bionde, Ma più quel dotto ragionare, ond'io
Poscia ch'all'arbor suo, di nuove fronde Così alto levai l'ingegno mio, -

Sente porsi da voi gradite some. Ch'ancor mie voglie ne son vaghe e pronte.
Ma quanto più d'ogn' altri Elsola? dove Nè potea ricercando Olimpo e Calpe
Poggia sovra alto giogo il dorso altero, La nuova gente, il Nil, l'ultima Tile
Il superbo Asinar d'abeti adorno, Gioja trovar quanto alla Tana io vosco.
Spera per voi salir, dove 'l pensiero Avventuroso rio, pian, boschi, aure, alpe,
Quando tanto alto s'erge, a noi ritorno Ch'aveste, che di voi scrisse il gran Tosco,
Non face pur, non ch'ei gradisca altrove. Felice possessor Landi gentile. º

A M. Anton Landi. Al medesimo.

Landi, del vostro ingegno e del valore Mille fiate e più sovviemmi ognora,
Tanta in me gioia e meraviglia nacque, Davanzato gentil, del fresco speco,
Che non osò la lingua, e però tacque, Ove a suon d'acque col buon Landi e teco
Quel ch' or tenta mandar l'inchiostro fore. Sì lieta feci, e sì dolce dimora. - -

Raro un silenzio, un solitario errore E dico: Mentre or vampa algente, ed ora


D'ombrosa selva mai tanto mi piacque, Ardente ghiaccio mi tormenta meco
Quanto la bella Tana e le dolci acque O viver nostro frale, o mondo cieco,
Vostre, ch'io terrò sempre in mezzo al core. Quanti vani pensier disgombra un'ora ?
Ne sarà loco, o verrà tempo mai, Quanto oro e quanto argento è sotto il cielo
Che spegner possa, anzi scemar l'ardente Non potrebbe scemar pure una dramma
Brama ch'io ho di rivederla ognora: Della mia calda neve e fredda fiamma;
Se non l'alto Asinaro, ov'io imparai Così, mentre ad un tempo e flagro e gielo,
Poggiare al cielo, e non curar niente Senza saper che mi raffredda e 'nfiamma,
Del mondo vile e 'l bel Fiesole ancora. Tremo in mezzo del foco, ed ardo al giclo.

Risposta. Risposta.
Varchi, s'un tal vivace e bello ardore, Della nemica mia, che si m'accora,
Come già sopra Fiesole vi nacque, Varchi, e de pensier miei la chiave ha seco,
E nell'alto Asinar, la 've si giacque Ne' cui begl'occhi rimirando accieco,
La vostra Musa un tempo a fargli onore; E 'l cor paventa, e 'l viso si scolora,
ºso o destin mai vi stampasse al core Non tante volte Amor mi punge ognora,
Dentro la Tana mia, che si vi piacque, Quante quelle erbe, aure, acque, ombre, antri,
Bene al ciel n'andrebbe ella, el'ombre e l'acque Di riveder desio: e penso meco (speco
Famosa allor, mercè vostra e d'Amore Che debbe fare il mio gentil Varchi orº º
Quando io le fiamme sue quivi provai Che mentre il sole arde, la terra e 'l cielo,
Lontano per quegli antri dalla gente E forse il cor pien d'amorosa fiamma,
L'umile avena mia già trassi fora, Empia febbre crudell' incende e 'nfiamma?
la subito m'accorsi, onde io restai, Ma se ben chiusa sta in languido velo -

ºle quanto o bello, o buon si scorge o sente, L'alma, di sua virtù non perde dramma;
ºol mio rozzo cantar poco s'onora' Virtù non sente mai caldo, ne gelº.
564 SONETTI
A M. Girolamo Zoppio. A M. Domenico Veniero.

Zoppio, dal buono e si cortese vostro Voi, che l'alte vestigia dentro l'orme
Sincero sor, non da giudizio dritto Del Bembo vostro, solo in ogni etate,
Vien quel ch'avete con purgato inchiostro Ponete, e tanto altrui dietro lassate,
Delle mie lodi, ma non vero, scritto. Quanto forte destrier debili torme,
Non sapea già, che del paese nostro Dotto e chiaro Veniero, se le forme -

Partito foste d'alto duol trafitto: D' uomini e dei (che già da lor mutate
Or ch'io non possa, assai più ch'io non mostro, In nuovi corpi, or son da voi cantate)
Mi duol vedervi e consolarvi afflitto. Vivano esempi al ben tradurre e norme (i),
Il mio buon Lelio e 'l mio buon Lucio insieme L'ore migliori e 'l più sincero inchiostro
Vi rendon grazie e 'l buon Vivaldo ancora Volgete tutto al buon Mcndozza, in cui
Meco pregando il ciel, ch'allegro e sano, Vive il pregio maggior del secol nostro:
Tosto vi renda: voi con lieta speme E me, che dianzi sì contento fui,
Vivete, e 'l chiaro a mio nome Ercolano Or si dolente son lungi a tal mostro,
Consolate col dir cortese vostro.
Cognato vostro salutate ognora.
Risposta.
Risposta.
Bene avria desto il pigro stil che dorme
Or perchè non posso io del valor vostro, Lunga stagion delle mie rime usate -

Varchi gentil, seguire il cammin dritto ? Varchi, quel suon ch'in voci alte e lodate
Che non farebbe il mio nal colto inchiostro Muove il dir vostro al gran rumor conforme,
Onta a quanto di voi fin qui v'ho scritto? Ma con qual senno a tanta impresa porme,
Ma tanto oltre non giugne il poter nostro, E tentar nuovo il mar che voi solcate, l
Ond'io ne resto d'alto duol trafitto, Perch'uom si degno, e'l verso onde l'alzate,
Oltre, ch'assai più, che di fuor non mostro, Dovesse il pregio d' ogni lande torne?
Da velenosa piaga ho il core afflitto. L'un nacque all'altro in questo umano chiostro
Però di me il miglior prendete, e 'nsieme Per alzar doppiamente ambo duo vui
Il buon Lelio e'l buon Lucio e l'altro ancora E l'ostro il lauro, e 'l lauro ornasse l'ostro.
Salutate per me. Ch'allegro e sano E qual più deggia, o 'l cantar vostro a lui,
Tosto mi renda il cielo ho lieta speme, Od egli al canto, in me dubbioso giostro; l
Per darvi gioia: in tanto l'Ercolano, Ciò per conforto ad ogni duol vi mostro.
Cognato mio, vi risaluta ognora. A Mons. M. Giovanni Della Casa.

A M. Bernardo Capello. Casa gentile, ove altamente alberga


Ogni virtute, ogni real costume,
Bernardo, non pur io doglioso nembo Casa, onde vien, che questa etate allume
Di lagrime e sospir cocenti allora E le tenebre nostre apra e disperga:
Mesto versai, ma fu veduto ancora All'austro dona fiori, in rena verga;
Cader dagl'occhi un fonte al sacro Bembo; Suoi pensier scrive in ben rapido fiume
E le Muse dolenti, aperte il grembo, Chi d'agguagliarsi a voi, stolto! presume, l
Spargere atri cipressi, e come irrora In cui par ch' ogni buon s'affine e terga.
L'erbette april, bagnar le guance ognora, Quanto allorche'l gran Bembo a noi morio,
Sciolte il crin, nude il petto, oscure il lembo; Perdero in lui le tre lingue più belle,
Quando il buon Cola, amor del Bembo e gloria Tutto ritorna, e già fiorisce in voi, l
Seconda a nostra etate, in ciel salio, Per cui l'altero vostro nido, e mio,
Lasciato il mondo abbandonato, e tristo :
Che gli rendete i pregi antichi suoi,
Or voi ch'avete uguali al bel disio Risonar s'ode infin sopra le stellc.
Le rime, e l'uno stil con l'altro misto,
Chiara di lui tessete eterna storia. Risposta.
Varchi, Ippocrene il nobil cigno alberga,
Risposta. Che in Adria mise le sue altere piume,
Varchi, quando il buon Cola al sacro Bembo Alla cui fama, al cui chiaro volume
Tolse colei, ch'ogni uom toglie e scolora, Non fia che tempo mai tenebre asperga;
Dissi: Il pianger costui soggetto fora Ma io, palustre augel, che poco s'erga
D'uom che sedesse all'alme Muse in grembo, Su l'ale sembro, o luce inferma, e lume
E non di me, cui cela oscuro nembo Ch'a lieve aura vacille e si consume,
Il monte, ove con lor fate dimora ; Nè può lauro innestar caduca verga
Nè posso unqua ver lui drizzar la prora D'ignobil selva. Dunque i versi, ond'io
Del periglioso mio smarrito lembo. Dolci di me, ma false udii novelle,
A voi dunque conviensi ampia memoria Amor dettovvi, e non giudizio: e poi
La mia casetta umil chiusa è d'obblio,
Tesserne, o Varchi, a voi, ch'amando Clio,
Fatto avete de suoi amori acquisto; Quanto dianzi perdeo Vinezia, e noi,
Varchi, di cui non men, che 'i nido mio Apollo in voi ristauri e rinnovelle.
Lieto si sia del suo gran Bembo visto, (1) Allude alla versione delle Metamorfosi d' Ovidio
Superbo il chiaro vostro Arno si gloria, impresa dal Veniero, come allrove si noto. (M.)
PARTE SFCONDA
A Francesco Nasi. A M. Lodovico Martelli.

Francesco, in cui quanto è fra noi rimasa Se quella virtuosa, altera fronde - ,
In questa avara età, cortesia vera, Dell' onorato lauro non si sdegna,
Con non finta bontate, e fe” sincera, Ch'a la sua ombra a ricovrar mi vegna,
Si stan qual bronzo o marmo in ferma basa; U', più ch'altrove, il ciel sue doti infonde:
Che face ora il gran vostro e mio buon Casa, i Fia forse tempo ancor ch'ella circonde
Nel qual con lunga, e larga, e folta schiera Colle sue braccia le mie tempie ; avvegna
Di virtù, senno e d'eloquenza intera, Che 'l suo primo amator la fesse degna
S'annidan sempre come in propria casa ? Di gran trionfi e rime alte e gioconde.
Voi pur sapete, ed ei, ch'alto coraggio Che perchè basso e rozzo sia 'l mio stile, ,
Nulla non cura, perchè 'l mondo onori Non è, ch'io non avessi aperte l'ale
Il men buon più sovente, e 'l manco saggio. Da girne al ciel per via dritta e spedita.
Ditegli dunque, il meritar gli onori Ma invidia, madre antica d'ogni male, i
vera gloria, che non pate oltraggio, Mi toglie dall'impresa alta e gentile,
Gl'altri son falsi e torbidi splendori. Or truovasi dal ver vinta e schernita.

Risposta. Risposta.
Varchi, la virtù vostra in chiara basa, Quella onorata pianta, a cui seconde
Come alto poggia tra divina schiera; Son l'altre tutte, non sol non disdegna
Cosi la mente mia, la mira vera Vostro alto stil, ma duolsi esser indegna,
Drizzar non sa, che fra via è rimasa, Che si cantin da lui sue basse fronde :
Ma nell'ornata ed onorata casa, Ma s'al principio il mezzo e 'l ſin risponde,
Ove abitar l'immagin venne intera Come dentro 'l mio cor di sua man segna
Del bel dire ed oprar, mai non è sera, Amor, perch'ivi ogni mortal si spegna,
Perchè luce celeste ivi s'accasa. Desio, e ciò che il ver fura o n'asconde,
Bene ella scorge, come 'l buono e saggio Tempo certo verrà, che non a vile
Non pregia d'adornar quel ch'è di fuori, Prenderassi per lei farsi immortale
Che solo è ombra in sì corto viaggio. La: musa vostra infino al ciel gradita,
In lei e 'n voi veggio i perfetti onori, E quel malvagio mostro, a cui sol cale
Che non posson patir nessuno oltraggio, Far d'uom chiaro e pregiato, oscuro e vile,
Sendo innalzati negli eterni cori. Sforzavi al bello oprar, non pure invita.
A M. Antonio Allegretti. M. Vincenzo Martelli.
Il quinto lustro omai trapassa, ed io Gl' antichi scorni e le novelle offese, -

Già m'avvicino al cinquantesimo anno Che l'alma han carca di vergogna e duolo,
Poi che sempre entro e fuor senza alcun danno Mi fan lungi da voi pensoso e solo
Arsi, Allegretto, in casto foco e pio; Dolce parere ognor nuovo paese;
Anzi con si gran pro, che dopo Dio, Biasmo ben l'altrui lingue sempre intese
A quelle frondi, che sue radici hanno A seguir di Lucilio il nobil volo;
In mezzo del mio core, e sempre avranno, Che poi, tacendo il ver, ragionan solo
Tutto debbo me stesso o buono, o rio; Quel che le mostra d'alta invidia accese.
Perchè, se nacque mai cosa non vile Nè mi spiace ancor men vederli ognora,
Di me, ch'ancor non fui di scriverlasso, Come al mal presti, al dir ben lenti e parchi,
A lor si deve, e non a me la gloria; Frodando i buon del suo debito onore.
voi 'l sapete, senza il quale un passo Ma taccian pur, s' ei san che d'ora in ora,
Non mossi un tempo: onde vi prego umile Esce di voi si chiaro grido fuore,
Farne a quei che verranno alta memoria. Ch'uomo non è che non onore il varchi.
Risposta. Risposta.
Quel foco, che sì dolce arse il cor mio, Soffrite, alto Martel, sì ingiuste offese;
spense morte cinque lustri or hanno, Prendete in grado tal vergogna e duolo;
È i vostro un lauro accese, come sanno Ch'altro fe raro Ulisse, anzi pur solo,
Del superbo Asinaro e 'l colle e 'l rio; Che 'l gir cercando ognor nuovo paese?
º me morì la speme ; in voi il disio Le lingue tanto a gl'altrui danni intese
Nacque dall'aite frondi che vi stanno Seguon l'antico e più spedito volo,
In mezzo il core, e tosto v' orneranno, E questo anco soffrirsi dee, che solo
si spero, il dotto crin, non pur disio. Contra chi men dovrian, più sono accese.
ºrchi, a voi si convien con alto stile Viviam pure e speriam, ch è forse ancora
farne memoria eterna, che 'l mio basso Vedremo a quel valor ritesi gl'archi,
Non può far degna de' suoi merti storia. Quando era in pregio e'l più saggio e'l migliore.
ºcia, qualunque sia, tutto al bel sasso Ben prego il vostro cor, che quale è ora,
Sacrai, che chiude quella, onde si gloria Tai sia ver me, ma uom più degno onore,
º mondo, ch'era e non e più gentile, Perchè di tanto ogni dover non varchi.
566 SONETTI
Niccolò Martelli. Il medesimo.

Varchi gentil, se voi sapeste quale Nè all'Arabia i suoi più cari odori,
E quanta in me dolcezza e divin spira Nè gemme ed oro a liti orientali,
La bella donna mia, quando ella gira Varchi gentil, cagion di tanti mali,
Ver me la vaga luce alta e 'mmortale; E di quei ch' or vedete alti romori;
Direste bene ch' al mio stato eguale Ma solo invidio voi, che degl'onori
Non sia tra quanti il Sol ne scorge e mira; Non curate del mondo, onde immortali
E sì in alto il pensier talor mi tira, Glorie già tante riportate e tali,
Ch'obblio tutto il terrestre ed il mortale. Ch'alma gentil non è, che non v onori.
Così la sua mercè del mondo ognora Ed or, lasciato scompagnato e solo
Imparo di schernir ciò, ch'uom disia Me, che'l vostro tornar sogno e sospiro,
Di stato, di tesoro e ponipe vane. Ed oh pur sempre non sospiri indarno!
E chieggio sol che ver me sempre sia, Tutto ardente di doppio alto disiro
Qual sempre è stata, e quale ella è pure ora: Gite al gran Bembo ed al buon Lauro a volo,
Poscia s'abbia chi vuol ricchezze umane. Onde la Brenta ride e piange l'Arno.
Risposta. Risposta.
Ragione è ben ch'a voi si mostri, quale Così vosco a volar dietro i migliori
Dite, la donna che divina spira Amore e 'l mio destin m'impennin l'ali,
Dolcezza al cor, quando i santi occhi gira, Caro Martel, che già ne date eguali
Per far voi lieto e sè chiara e 'mmortale; Frutti all'alta mia spene e ai vostri fiori,
Meraviglia non già, ch'al vostro eguale Com' altro ora non è, che più m'accori,
Stato non sia quanto 'I Sol volve e mira, Ch' esser lungi al bel nido, u pria mortali
Se di lei che vi scorge in alto e tira, Vidi cose, e sentii, ma caldi strali
Più bella non fu mai cosa mortale. D' amore e carità men trasser fuori.
Ben avete onde alzarvi al cielo ognora, Ben spero in breve al disiato volo
Schernendo il mondo, e quanto uom più desia Muover le penne tarde, ond'io m'adiro,
Delle cose di qui caduche e vane. Che di voi riveder mi struggo e scarno. -

Io con voi spero e prego Amor che sia Solo appago, il voler mentre odo e miro
Ver me qual sempre fummi e quale è ora, Il gran Bembo e'l buon Lauro ch'io sì colo,
Spregiando, s'alcun mai, ricchezze umane. E'l viso dentro e le parole incarno.
M. Ugolino Martelli. Il medesimo.

Voi ve n'andate senza me per l'onde Varchi, io son qui, dove con rapida onda
D'Adria al gran padre delle Muse, ed io La bella Pescia le sacrate piante
Vosco sempre verrò, Varchi, ch'al mio Della Diva, di cui par che si vante
Pensier nulla già mai vi toglie o asconde: La dotta Atene, ancora irriga e innonda;
Deh! se tranquillo il nar, l'aure seconde E se bene e ne iniei desir seconda
Aggiate e 'l ciel sereno al bel disio, Fortuna amica alle mie voglie sante,
Per cui lasciate a pagar l'alto fio, Pur lunge voi, ch' io ho sempre davante,
Tutt'altre cose, come a lui seconde ; Non m'è la vita mai cara e gioconda. -

Infinite per me grazie rendete Ma se foste qui voi, cui sol disio, -

Unilmente al gran Bembo, e'l buon Trifone E cui con gran ragion più d'altro onoro,
Salutate a mio nome, e 'l Lenzi rostro, Del tutto certo viverei contento;
A voi salute i duoi migliori e 'l vostro E mi vedreste or sotto un verde alloro
Ugolin mandan, che con gran ragione Garrir coi venti, ora a quei studi intento,
Vivran sempre con voi tra l'alme liete. Che non curan di Lete il lungo obblio.
Risposta. Risposta.
Ben sete degno già dell'alma fronde, Mentre che voi tra l'una e l'altra fronda
Cli amò già Febo in terra, ora io disio, Di Minerva e d' Apollo in bel sembiante
Per fare illustre inganno al tempo rio, Ven gite lieto e tristo, u' con errante
Ch'indi sol può sperarsi e non d'altronde; Passo la Pescia infiora l'erbe e 'nfronda,
Felice Ugolin, voi ch'avete donde -
Io qui, Martel, nell'antenorea sponda
Non temer, nato a pena, il tardo obblio, Col gran Bembo, a cui solo o poscia od ante
Tal grazia e tanta in voi l'altero Dio Non fu, nè fia simil, muovo le piante
Di Delo inſin dal quarto cielo infonde. U', sè nuovo Meandro, e noi circonda,
Quindi il buon seme vienvi, onde poi miete Ma se fosse il poter, quanto e'l disio
Vostro ingegno il bel frutto, alta cagione, Costi, dove con voi sempre dimoro,
Ch'uom poggie al ciel da questo basso chiostro. Più veloce verrei, che strale o vento:
Io per me spero sol nel puro inchiostro E vedrei or di Ninfe intorno un coro,
Viver di voi, quando d'esta prigione Or di pastori, or sotto un ſaggio, lento
Mortal varcato avrò l'onda di Lctc. Cose cantar che non so ridire io.
PARTE SECONDA 567
Il medesimo. Antonfrancesco Grazzini.
Non torse mai così velocemente Se disio sempre di fama e d'onore
Timida pastorella il piede esangue, V'accese l'alma a gloriose imprese,
Quando giacer fra l'erbe ascoso l' angue Onde son le vostre opre chiare e'ntese
Tardi s'accorge, e già ferir si sente; Fin dove nasce il giorno c dove muore:
Com'io l'innamorata, allitta mente Non si turbi ora il generoso core,
Cerco, Varchi, ritrar da lei, che 'l sangue Però che i foco, che l'invidia accese,
Di di in di più mi sugge, onde il cor langue, E morto in tutto e già 'l volgo scortese
Che si vede la morte ognor presente. Di se gl'incresce e duolsi del suo errore:
Ma troppo, lasso me! pungenti i chiodi, Sempre coll'arco in man ne sta vicina,
E le catene dure son d' Amore, E dove men dovria le sue quadrella
Con ch'ei mi strinse, e mi trafisse il core; Fortuna avventa, quasi cieco mostro;
Voi prego, e 'l vostro usato alto valore, Ma come l'oro che nel foco affina
A darmi un salutifero liquore, - La virtù vostra più lucente e bella,
Ond'io saldi le piaghe e i lacci snodi. Adorna d' ora in ora il secol nostro.

Risposta. Risposta.
S'amor che sempre più velocemente Grazzin, giusta pietà, ma troppo amore,
Più face ogni gentil pallido esangue, Che sempre in cor gentil ratto s'apprese
E quasi tra bei fior giovinetto angue, A voi stesso bugiardo, a me cortese
Quando si teme men, via più si sente: V han fatto per quetarmi entro e di fore:
La vostra inſino a qui gelata mente Non pensate che mai del dritto fore
Col suo fuoco arde, e delle vene il sangue Trarmi l'ingiuste e dispietate offese
Vi sugge si che pauroso langue Possan del vile stuol che sempre intese,
Lo cor che vede ognor morte presente. Procacciar solo a buon danno e disnore.
Non pensate giammai di trarre i chiodi, A colpi di colei che l'arco inchina -

Martello, o sciorvi, onde vi strinse amore, Contra i miglior d'ogni virtù rubella,
Se non cangiaste i bei costumi e 'l core: Sarò qual cerro antico al soffiar d' ostro;
Che dove è leggiadria, senno e valore, E, se mente al suo ben fu mai divina,
Nulla trovar si puote erba o liquore, Vincerà 'l vero e rimarrassi in sella:
Che tai saldi ferito e lacci snodi. Saper non mio, mal del mio duce e vostro.
Il medesimo. Il medesimo.

Sommergi pure il meno umido legno L'alte vigilie e gl' onesti sudori,
Nel pelago più cupo e più profondo; Il lungo studio, onde tale oggi sete,
Premi la pianta poi con maggior pondo, Che con ragione invidiar non dovete
Che merto è sola ai vincitor condegno; Gl'altrui moderni o i primi antichi onori,
Questo risorgerà senza altro ingegno Varchi gentile, or di voi mandan fuori
Sopra salendo all'arenoso fondo, Valor da non temer l' obblio di Lete,
L'altra levando il grave a sè giocondo, Onde maturi frutti e dolci miete
S'innalzarà più che l'antico segno. Fiorenza bella, non pur fronde o fiori:
Tal sete, Varchi, voi, che sovra l'onde E col chiaro Arno umilemente insieme
Di ria fortuna e contra invida salma, Divote porge al ciel preghiere sante,
Onde or coperto ed or gravato sete: Che tranquilla vi doni e lunga vita:
Leggiero e forte al sommo v' ergerete, Però che certa tien verace speme,
Quasi suvero all' acqua e quasi palma, Che coi gran figli suoi Petrarca e Dante,
Ch'al maggior peso meglio assai risponde. Terzo le diate un di gloria infinita.
Risposta. Risposta.
l'en porrian forse invidia, ira e disdegno L' alte lodi, che voi del dritto fuori
In questo cieco mar, dove secondo Forse per troppo amor dato m'avete,
Vento non ebbi ancor, mettere in fondo S'altrui palesi, come a me farete,
ll mio ben frale, e già sdrucito legno: Saran tutte miei biasmi e vostri errori.
Ma, ch'io lasci il governo, od a men degno Mio basso e rozzo stile i duo migliori,
Porto il volga, se ben talor secondo Che stanno in cima dell'etrusche mete,
La tempesta, ond' io temo e quasi affondo, Ne lodar deve ancora, e voi 'l sapete,
Non faran, credo mai, tal ho sostegno. Non che'l bello Arno e te, Fiorenza, onori:
l mio buon duce, dico, e quella fronde Ben d' ornare ambo due mi punge e preme
Santa che nuovi rami in mezzo all'alma Disio, quanto alcun mai, ma se bastante
Sempre m'innesta e lontan fammi a Lete;
n di ogni mio soccorso, indi si miete
Non son per me, nè spero altronde aita,
Non è meglio il tacer, che fare sceme
9gni mia speme, indi s'appressa e spalma Per difetto d'ingegno tali e tante
La mia barchetta solo, e non d'altronde. l Glorie, da vostra schiera alma e gradita.
508 SONETTI
Il medasimo. Il medesimo.

Come è, Varchi, di nuovo in voi risorto Alle lagrime triste, almo pastore,
Foco amoroso, che v'incenda il core? Pon fine e lascia il languir tuo cotanto;
Dunque è acceso e vivo quell'ardore Pensi tu forse che 'l soverchio pianto
In voi già tanto tempo spento e morto? Faccia da te partir stanco il dolore?
Io pur credea, che già vi foste accorto Dove è l'antico senno? ove è 'l valore
A mille prove, che chi serve Amore Che nell'altrui sventure oprava tanto?
Miser pruova con danno e disonore Or non sai tu che nel beato e santo
Lungo e gran duol per piacer breve e corto. Regno sen va, chi ben vivendo muore?
Mirate il gran periglio, a cui si presso Dunque a che più dolersi ? a che più fare
Già foste, oime, per cader nel profondo, Grave a sè stesso e dagl'amici oltraggio
Dove ha l'aer mai sempre oscuro velo; Piangendo sempre indarno l'altrui bene?
E ricovrate la vita e voi stesso, Spoglia, Damone, omai, spoglia l'amare
Drizzando tutti a quel Signor giocondo Doglie vane, e col nuovo e lieto maggio
l pensier vostri, che vi aspetta in cielo. Vesti nuova dolcezza e lieta spene.
Risposta. Risposta.
La fiamma, ch'io portai nel core e porto, Si Pole al buon Elpin sempre in migliore
Non che spenta giammai, del suo valore La greggia avanzi, e Pane il suo bel canto
Non scemò dramma, anzi crebbe a tutt'ore, Oda e gradisca si che'l primo vanto
E cresce ancora; e se val mio conforto, Dopo lui porti e 'l più sovrano onore:
Mai sempre crescerà, ch' ad altro porto Come Damon del suo pietoso core
Vele non volge mai chi brama onore, Pago si tenne e surse lieto alquanto
Perch'io di lei mi lodo, e quel signore Al chiaro suon che pria dal duolo affranto,
Ringrazio umil che m' ha tanto alto scorto: Mesto in terra giacea pien d'alto orrore;
Chè ben so quanto è folle chi sè stesso E con sue stesse man rime sì care
Crede forte a tal lume, che gran pondo Entro la scorza d'uno antico faggio,
Regger non può da sè picciolo stelo. Che stampa d'ombra al melloncel l'arene,
Non so qual già dite periglio; e spresso Scrisser lor sovra in note larghe e rare;
Veggio voi dietro il volgo in basso fondo, Leggi, pastor, che fuggi il caldo raggio,
Mortal voglia chiamar celeste zelo. L'altrui dolce pietà, l'aspre mie pene.
Il medesimo. Al medesimo.

Tempo è omai, poi che cangiate il pelo, Spoglian le piaggie l'erbe, e l'erbe i fiori,
Che pensieri e desir cangiar dovreste, Languidi sono i gigli e le viole,
Varchi gentil, volgendogli da queste Lieto non più, nè chiaro, come suole, -

Cose basse e mortali a ben dei cielo; Rende Arno al gran Tirren suoi dritti onori.
E quel signor, per cui già caldo e gielo Piangon le ninfe, dolgonsi i pastori
In un medesimo tempo al cuore aveste, Con sospir gravi e con meste parole,
Lasciate in tutto e 'l santo amor celeste Tanto a ciascun quaggiù rincresce e duole
Meco seguite pien d'ardente zelo. Glorioso pastor de' tuoi dolori.
Dall'uno arete dispiacere e guerra, Ma sopra tutto, oime! la bella Flora - -

Dall'altro sempre mai diletto e pace; Piange e sospira, e tra 'l pianto e sospiri
Quello è di biasmo e questo d' onor ducc. Dice, rivolta al ciel la fronte lieta :
L'un poco giova e l'altro sempre piace ; Scaccia il duol, prego, omai del petto fuora
Quel manda il corpo e l'anima sotterra, Al buon Damone, e con dolci desiri
Quest'altro al ciel per dritta via conduce. Rendimi, o Giove, il mio maggior poeta.
ARisposta. Risposta.
Se bene io cangio d'ora in ora il pelo, Per me non hanno i prati erbe, nè fiori,
Non cangio mente mai, nè voi dovreste Lappole e stecchi son gigli e viole,
Saggio cercar di torcermi da queste Per me sol toglie e non dà cone suole,
Cure che vivo altrui fanno ire al cielo. Al mondo Febo i suoi graditi onori.
Quel caldo stesso, quello stessogielo, Odio le ninfe tutte, odio i pastori,
Ch'io provai sempre, or pruovo e voi s'aveste Le mie non curo, nè l'altrui parole,
Scintille mai di vero amor celeste, Sol mi rincresce Elpin pietoso e duole,
Ardete meco d'un mcdesmo zelo. Che più forte sono io, che i miei dolori
Non dee vostra credenza o l'altrui guerra E credo ben, se la mia bella Flora -

Farvi turbar la mia certezza e pace Udisse un pur de'miei tanti sospiri,
\º cieco offrirsi ad uom non losco duce. Che 'n parte cangiaria sua fronte lieta.
Se la strada d'onor per me vi piace; Deh, perchè spiro ancor º perchè non fuora
º bramate per voi non star sotterra,
Di vita sono ? O Giove, i miei desiri
L'amor ch'io seguo è quel, ch'a ciò conduce. Adempi, e tu gli canta almo Poetº
PARTE SECONDA 569
M. Michelagnolo Vivaldi. Il medesimo. -

Quando io talora il vostro animo altero Voi con sì fermo piede e per sì corte
Pronto mai sempre a far nobile schermo Strade insegnando gite a parte a parte
Contra colei, ch” addosso vi tien fermo Nel fiorentin sermon, Varchi, quell'arte
Troppo il suo piede instabile e leggiero, Ch'acquista vita all'uom dopo la morte,
Miro fiso con gli occhi del pensiero, Che con più chiara invidia e con più scorte
Varchi, tra me di non vedere affermo Lodi non mai volàr forse le carte
Chi di fortuna ogni potere infermo Del saggio Mastro di Stagira in parte,
Faccia, se non se voi prode guerriero. Dove le vostre ognor dotte ed accorte;
Da tal vostra virtute alto coraggio Però gran senno fa chiunque brama
Lieto prendo ora e forte a lei procaccio Cinger di verde alloro ambe le tempie,
Si contrastar, ch'anco me rota e gira, Ora ascoltarvi ed or leggervi intento.
Che più non temo il suo nemico braccio, Lo mio disir, ch'ad udir voi mi chiama,
Mi contenda fornir l'erto viaggio Ogni prescritto giorno, anco non s'empie,
Del poggio, ove salir mio core aspira. S'io con questi occhi il vostro dir non sento.
Risposta. Risposta.
Non a me, no, se dir volete il vero, Se quel cammin, che per vie chiuse e torte
Ch'altro certo non son ch'un picciol vermo, Guida al ciel l'alme, e dal morir le parte,
Date, caro Vivaldo, s'io mi schermo Aprir potessi o dirizzare in parte,
Talor da cruda invidia e destin fero: Qual ebbe uom mai di me più lieta sorte?
Ma a quel Signore, in cui m'affido e spero, Ma voi, Vivaldo, non che di mie scorte
In cui tutte mie voglie e pensier fermo. Non abbiate mestier (tal vi fè parte
Che può manco guerrier, che nè star fermo Natura e Dio) potete anco in disparte
Sa, nè fuggir contra nemico intero? Di Febo entrar le più segrete porte ;
Onde voi non da me, che, se non caggio, E tale al nome vostro indi trar fama,
Mi reggo a pena in piè, s'uscir d'impaccio, Che fortuna, nè tempo unqua lo scempie,
Cercate, e gire u' bel disio vi tira ; Quando 'l corpo sarà di vita spento.
Ma sol dall'alto Re, com' anch'io faccio, Pur io ch'altra non ho più calda brama,
Ardir prendete, non men pio che saggio ; Ch'altrui giovar, poi che l'udir non v'empie,
Di quindi e non d'altronde ogni ben spira. . Son che veggiate ancor più che contento.
Il medesimo. Il medesimo.

Io di dover dal sommo Ben primiero, Non preme ancora voi doglia e disdegno,
Varchi, sperare ogni mio ardir confermo ; Varchi, a vedere il mar tutto e la terra
Ma che dall'Istro al Nil, dal Tago all'Ermo Arder del foco, che quaggiù chi serra
Truovo io che poco pur n' apra il sentiero La quinta spera ognor n'avventa indegno ?
A me, che sotto cielo aspro e severo, - Io cotanto di ciò m'attristo e sdegno,
Dubbio per loco erto, intricato ed ermo Però ch'affatto gir d'Apollo a terra
Da voi consiglio attendo, come infermo Veggio il valor, che ben diritta guerra
IDa saggio, accorto medico sincero ? Al ciel nemico far spesso convegno.
Qual da Dio pregio e da me quale omaggio E dice: Oimè, quando mai fine avranno
Acquistarete voi di questo, io taccio, L'ingorde voglie delle stranie genti,
Ch'altro ingegno bisogna ed altra lira: E della nostra Italia i feri scempi:
E più quelle ch'al core impresse io aggio Che del giusto regnar gl'antichi escmpi
Grazie debite a lui ; però ch'io traccio Rinnovin si, che ristorato il danno,
Voi sol, come egli stesso ognor m'inspira. Le già spente virtù tornino ardenti?
Risposta. IRisposta.
Vivaldo, tutto quel ch'io schietto e vero Vivaldo, a cui di morte ira, nè sdegno
Di me l'altr'ier vi dissi, oggi raffermo, Nuocer non puote omai, tanto da terra
Anzi tanto ognor più debile infermo, V'innalza ognor colei, che di sotterra
Che miracolo è ben, ch'omai non pero. Trae l' uomo, e 'l fa di viver sempre degno:
Dunque da cieca vista occhio cerviero Ben sapete, ch'anch'io m'addoglio e 'ndegno
Soccorso attende, e come puote inermo Di vedere or per onde, ed or per terra
Tiron donare a duce armato schermo? Venir da questa genti e quella terra,
O guidar remator saggio nocchiero? Per preda e scempio far del nostro regno.
Pur io quanto di voi dal cor ritraggio, Ma che giova il mio duolo, o'l vostro affanno?
Vi conforto oggimai romper quel laccio, Fuggir non puossi; onde soffriam contenti
Che qui sdegnoso tienvi e non senza ira: Quel che ne danno i fati acerbi ed empi.
E gir là dove più benigno raggio Ben verrà, credo, un di, che questi tempi
Del ciel forse distrugga il duro ghiaccio Antichi detti e felici saranno;
Di fortuna, ch'a i buon talvolta aspira. Poi tornaran tutti i valori spenti.
V Alt Cl1t V, I, -2
-
SONETTI
Il medesimo. Il medesimo.

Varchi gentil, delle cui lodi al segno, La ricca gemma, ond'ognor più s'accende
Chi presume oggi d'arrivar troppo erra, L'aer, com'ella ognor più anco innostra
Che del vostro Chi il cicl chiude e disserra La terra, poi che dei due primi mostra
Non mandò mai quaggiù più alto ingegno; Fu dallo stil, che 'n su tanto s'estende,
Con voi di nuovo a lamentarmi vegno Forse ch'io muova quella penna, attende
Non già di lui, che muove intorno ed erra Ch'ardita s'è con voi talor dimostra ;
Quinto nel ciel, ma sol di chi m' atterra Ma questa mano anzi tremante inchiostra,
Possente amor, se ben per mio sostegno Che fermo scriva quel che 'i core intende,
Donna bella mi dà ; di cui mi fanno Però non io, ma voi, Varchi, del coro
I caldi raggi degl' occhi lucenti Sarete ancor, per cui s'ave speranza,
Queste tempie fiorire, anzi m'attempi; Ch'ogn'altra affondi, ed ella solo emerga.
Onde esser veggio là, dove io contempi Io della schiera sarò ben di loro,
Le voci, che spargendo ognor si vanno, Ch' hanno in voi d'apparar salda fidanza,
Favola fatto a tutte quante genti. Come alto in carte il valor suo si verga.
Risposta. Risposta.

Michelagnolo, io ben cerco e m'ingegno, Tra speranza e timor mia mente pende,
Quando morte nude ossa e trita terra Vivaldo, e con ragion dubbia si mostra,
Fatto m'avrà, restar quaggiuso in terra, Che non ben rozzo stil s'ingemma e innostra,
Ed emmi quasi ogn'altra cura a sdegno. E mal fa chi suo tempo indarno spende:
Ma, se non fosse un vivo e verde legno, Dall'altro lato poi chi mi contende
A cui, perch' ogni ben dentro si serra Ch'io non segua il dover 2 ch'ove si giostra
Nella sua scorza, umil l'alma s'atterra, Con tai campioni in tanto aringo, mostra
Non avrei contra Stige alcun ritegno. Che sia valor, se ben vinto si rende.
Ond' io, non che d'Amor, le selve il sanno, L' alta perla, che sola ogni tesoro
Mi doglia, o d'allentar le fiamme tenti, Di tutti i tempi in ciascun loco avanza,
Lo prego, ch'ognor più m'incenda e scempi. Più ch'altra mai luce e virtute alberga.
Poser gl'antichi saggi altari e tempi Io sol la 'nchino e riverente onoro
A lui, ch'io presso al cinquantesimo anno Inſin di qui, nè sia questo arroganza,
Lodo e ringrazio ; e tu già ten lamenti? Altri cantando poi sopra 'l ciel l'erga.
Il medesimo. Il medesimo.

Poi che tante da voi sovrane rime - -


Se del bel Giulio, onde voi dolci pene,
Scritte si son fin qui con si muova arte, Varchi, di casto amor soffriste innante,
E da noi con tai lodi accolte e sparte, Giulio, di cui non sazio mai le piante
Che lor seconde andran tutte le prime; Ora seguite, il chiaro nome tiene:
Di nuovo torni il vostro stil sublime Se del gran Lauro, ch' entro al cor mantiene
Nello sciolto sermone a vergar carte : Vostro ancor fermo sue radici sante
Perch'affatto veggiam come in disparte Porta l' onesto giovenil sembiante,
L'idioma toscan si pinga, o lime. Giulio, ch'ogni viltà spenga ed affrene,
Ch'altro non è di voi duce più fido, Se di simile nobiltade nato
Che là ne scorga per aperte strade, Giulio, cui dopo gir gli altri scorgete,
Dove Mercurio ancor s onora e cole. D'ambodue veste il raro ingegno amato.
Si non men chiaro alla futura etade Meraviglia non ho, se tutto ardete,
Del saver vostro acquistarete grido, Ma ben mi meraviglio, se gelato
Chc delle vostre prose altere e sole. “Marmo per meraviglia omai non sete.
Risposta. Risposta.
Chi e, Vivaldo mio, che tanto stime Quella, che di desio m'empie e di speme,
Sè stesso, o ponga il ver così da parte, Pianta gentil sovra tutte altre piante,
Che creda, essendo in terra, a chi i diparte M'è col bel Giulio mio sempre davante,
Dagli altri, e l'alza alle più degne cine? Ch'ancor nel cor, come'n suo albergo, viene:
Che val che lo mio stile o prosi, o rime Ma questo angel novello, che ritiene
Se dal volgo a gran pena si diparte? Di lor nome e sembianza e doti tante,
Cercate dunque in più sicura parte M'addoppia il santo ardor, cui poscia od ante
Men caduchi color, più forti lime. Non ſia mai, nè fu par, chi scerne bene.
Io di restar quaggiù tanto m'affido, Ond'io, ch'al mondo fui per amar nato,
Quanto i vostri e gli altrui scritti e pietade Fiamma di fuor, dove veder potele,
Mi terran vivo, e non mie ciance e fole. Vivaldo, il seguo in ciascun tempo e latº:
Ben tutto d'amor pieno e d'onestade Ma dentro freddo marmo, u non vedete,
Quel vivo lauro, av'ha mio core il mito, Son per doppio miracolo, e beato
Canto, come chi vuol dar luce al Sole. Trapasso l'ore mie tranquille e liete.
l'All I E SECONDA 57 l
M. Giovambatista Busini. Il medesimo.

Varchi, se 'l tuo fra noi gradito lauro Arsi con dura e 'nsopportabil sorte,
Mai sempre verde al ciclo alzi le chiome, Varchi, a cui sol l'Arno s'inchina e l'Ebro,
E bianchi cigni in alto il suo bel nome Sotto l'alto Tarpco lungo il gran Tebro,
Portin cantando dal mare Indo al Mauro; E 'n cosi fatto ardor languisco a morte,
Qui dove ai danni miei prima restauro Che monti, o fiumi, o vie lunghe e distorte
Venne Tirsi in soccorso, io non so come, Non mi celan colei ch'orno e celebro,
E dove il Po da me sì gravi some Or all'ombra d'un faggio, or d'un ginebro,
Sgombra cinto di canne e carco d'auro, Ne truovo chi m'ascolte o mi conforte.
Volgi i passi, lasciando il picciol Reno Da questa soma omai scuotere il dorso
Col tuo caro Alamanni e col Martello, Non voglio o posso, in modo mi diletta,
Che vincon, merce tua, l'altrui valore; Consumando il mio core, arder mai sempre,
Si le Ninfe vedrem dell'alto onore Sol prego, che pietà raffreni il corso
Tolto alle piaggie, ond' è verde il terreno, Di questa pura e candida Angioletta,
Liete coprir questo sentiero e quello. E talor lei coi miei desir contempre.
Risposta. Risposta.
Quel mio sacro, leggiadro, altero lauro Ben riconosco in voi quel saggio e forte ,
Di che bramo e fatico ornar le chiome, Animo invitto, poi che carco ed egro
E far sì che per lui mio scuro nome D'anni e d'amor, cosi franco ed allegro,
Chiaro divenga e conto all'Indo e al Mauro, Canta e si toglie alla seconda morte:
È d'ogni danno mio largo restauro, Ond'io, eh or colle chiome e bianche e corte
E m'alza in parte il cor, ne so dir come, Vi son, qual già col crine e lungo e negro,
Che le cose mortai, quasi vil sonne, Voi lodo quanto so, meco m'allegro,
Dispregia, e nulla cura argento, od auro. D'ogni ben vostro e mal sempre consorte.
lo per saziar vostre.e mie voglie a pieno, E prego il cielo anch'io, non già che 'l dorso
E'l buon Nardi veder con quel drappello, Di quel peso mi sgrave, che diletta
Che piange, più che 'l suo, l'altrui dolore; Cotanto il cor, ch'ei vuol portarlo sempre;
Di man coi duo che dite, al primo albore Ma che non tagli alla mia vita il corso ,
Moverò per venir dove men pieno, Fin, ch'io possa pregar questa Angioletta,
Ma più superbo il Po corre e più bello, Che col suo bello il buon di voi contempre.

Il medesimo. M. Battista Alamanni.

Varchi mio, che dal cielo e dalle stelle Ben contender mi può l' empia mia sorte -
Scendeste, e vosco il ben ch'ivi s'asconde, Il potervi veder, Varchi onorato,
Alle nostre speranze alte e gioconde Che d'ardente virtù sete infiammato,
Portaste, perch'ogn'uom di voi favelle: Tal che schernite la seconda morte;
Il sacro poggio e le sue onde snelle Ma di chiuder non ha forza le porte
È le piante ognor più verdi e feconde, Allo mio cor, ch'ad ora, ad ora allato i
Lodate col favor di quella fronde, Non vi stia lieto e 'n si felice stato, i
che tutte l'altre fa parer men belle; Che da voi sol par, ch'ogni ben m'apporte.
º che i gran padre, a cui da Giove e dato Egli al corpo comparte tal dolcezza, i 2
Pel Tabro il regno, e l'una e l'altra chiave Ond'io ne viva con caldo disio -

Tener del ciel con giuste lodi e sante, Di voi mirar, cui 'l mondo ama ed apprezza,
ºtº v'accoglia, e 'n più felice stato Poi talor volgo umil miei voti a Dio, a
Vi ponga tal, che i cieco mondo errante Che mi faccia gioir tanta allegrezza,
ºer voi scemi il gran peso, ond'ei va grave. Ch'al vostro sia congiunto il viver mio.
Risposta. Risposta.
º a voi, caro Busin, e queste e quelle, Qual mai più fide e più sicure scorte
Quando dell'Arno alle fiorite sponde Per questo erto cammin da tanti errato,
Nasceste, più che mai larghe e seconde, Porria trovar, che voi col vostro ornato
Dieder quanto dar puonno, alme sorelle, Padre che sa le vie più piane e corte ?
"Iue del sacro poggio e le novelle Or lungi ambodue voi per aspre e torte,
ºute, a cui tanta il ciel virtute infonde, Come piace al mio duro iniquo fato,
Cantardovete, mentre eco risponde Tristo men vo solingo e sconsolato e
bal Tebro e 'l Vatican, superbi d'elle. Ovunque il calle o 'l pie mi guidi e porte.
º Per me, volto ad altro studio, e dato Ond' io, non che poggiarlà've si sprezza º
cura e via più grave,
l ºrºtempo a maggior
ºn
ho sempree'l mio gran duce avante; Il secondo morir come disio, - -

Ma tremo solo in rimirar l'altezza.


poi lºantunque basso e male, ornato, Pure oggi al vostro suon fatto più ch'io,
Sol º una fronde vien, che scriva e cante
Tutti i miei passi e l'alma, per vaghezza
º stil, che sola in e tutte grazie ave.
Di star sempre con voi, v'addrizzo e'nvio.
572 SONETTI I
Il medesimo. A M. Luigi Alamanni.
Varchi gentil, che lontan dalla gente Io avrò sempre, Varchi, nella mente
Vivete lieto in solitaria villa, Bacchiglione e Rivalto e tutti quelli
Dando omai requie a quella stanca mente, Fiumi e torrenti e lucidi ruscelli,
Che forse ancor non ebbe ora tranquilla, Ove noi fummo già si dolcemente :
Dite quanta dolcezza or pruova e sente E quei colli gentili in cui si sente
Lo vostro core, in cui luce e sfavilla L'aura fresca ad ognor, e i fior novelli
1)ell'antico valor lumc sì ardente Si veggion sempre sì leggiadri e belli,
Che 'nfiamma il mondo con chiara favilla. Che l'ottobre non par che 'l giel pavente.
Io certo son ch'a voi più giova i campi Ma più d'ogni altro poi la casta e pia,
Dolci abitar, le verdi rive e i boschi, Sola de miei pensier vaga Beatrice,
U' qualche ombra il terren fronzuta stampi, Che mi fa senza il core andare a torno:
Che l'invide città tra sordi e loschi Voi tengo in mezzo l'alma e non porria
Ingegni, che pur mai ne divin lampi Svellarmi indi fortuna atra o felice,
Non volgon gl' occhi tenebrosi e foschi. Nè del passo mortal l'ultimo giorno.
Risposta. Risposta.
Quando io odo sonar tanto altamente, La bella e casta e pia donna, possente
Caro Alamanni mio, la vostra squilla Arder d'amor quai fur mai più rubelli,
Che già si rara rimbombar si sente Luigi, ove ch'io sia, taccia o favelli
Più su che dove Marte arde e scintilla, Con voi m'è sempre agl'occhi e al cor presente;
Tanta mi prende gioia e si possente, E la veggio or sedersi umilemente
Che per dolcezza il cor lagrime stilla, Sovra erbe e fiori, or lungo chiari e snelli
E dice: All'alto suo chiaro parente Rivi, tra schietti e frondosi arboscelli
Questi solo e null'altro eguale squilla. Muovere i dolci passi onestamente ;
Io per cessar d' invidia i feri vampi, E voi si intento agl'atti e all'armonia
Per antri e selve tra i bei colli Toschi, Di questa nuova occidental fenice,
Fuggo, nè so ben dir com'io mi scampi; Di cui si mostra il nostro cielo adorno;
Chè dovunque io m'inselvi, in antri e 'n boschi, Ch'io dico entro'l pensier: Certo ancor fia
Mille trovo lacciuoli e mille inciampi, Se non m'inganna Amor, che Laura e Bice
Ed ascosi entro un mel cento o più toschi. N'avranno invidia, e le minori scorno.

Il medesimo. Il medesimo.

Se quel Sol, la cui chiara ed alma luce Nè per me sol, ma per colei ch'è degna
Fa verde a Sona l'una e l'altra riva, D'esser soggetto al lodator d'Achille,
E lo spento valor tra noi ravviva, Al mio Bembo divino a mille a mille
E senza notte fa sempre più luce, Grazie ognor rendo, che cantar m'insegna,
Vedesse or voi con vostra altera luce E che meco ragiona e non si sdegna
Varchi, com'io so ben ch' a questa diva D'innalzar l'amorose mie faville,
Lo stil che d' Elicona alto deriva, E che dal suo gran rio talor distille
Rivolgereste a darle eterna luce. Qualche poca onda alla mia sete indegna;
Sallo il lidolfi mio, che 'l vivo lume Per lui son fatto a me medesimo caro,
N
Seguendo di virtù truova il sentiero, Varchi, e mi tegno sovra ogn' uom felice,
Ch'a pregio e fama il guida alto e immortale. Che di gloria e d'onor mai fosse avaro.
Dunque spiegate l'onorate piume Ditelo voi costi ch'a me non lice,
Col vostro ingegno, che soggetto eguale Che con l'ajuto suo pregiato e chiaro
Nè questo mai, nè l'altro ebbe emispero. Farò gire anco al ciel la mia Beatrice.
Risposta. Risposta.
Dal vostro chiaro stil tanto traluce Sì chiara stampa il nome vostro segna,
Quel Sol che l'altro Sol di lume priva, E tal non pur per le toscane ville
Ch'ancor sopra Arno il suo splendor s'avviva Risuona quasi d'alto acute squille,
E dentro il petto mio santo riluce. Ma quanto l'oceano abbraccia e segna;
Ma dir poi come scalda e al ciel conduce, Che chi più sa, più care ave e più degna
Dolce Alamanni mio, fiamma si viva, Le rime vostre, in cui par che sfaville
Opra è proprio da voi; per voi si scriva Amore, e tal dolcezza e grazia stille,
Dunque che scorta sete agl'altri e duce, Qual è negl'occhi, ond'ei vi sforza e regna.
Qual è sì largo d'eloquenza fiume, Ben può 'l gran Bembo solo, non pur raro, N
Se non se 'l vostro che minor del vero Lodar vosco e cantar questa fenice
Non sia cantando si gran luce e tale, Che mai non ebbe e non avrà mai paro:
Ch'ogn'altro ingegno abbagli e'l vostro allume? A me tacer conviensi, e 'n quella vice
Pur io per voi seguir spiegato ho l'ale Adorarla e 'nchinar, che si preclaro --

Dietro a quel volo ch'asseguir non spero. Soggetto a rozzo stil troppo disdice.
-
PARTE SECONDA 573
Il medesimo. Il medesimo. -

Io per me ne vo innanzi, e lascio indietro Varchi, il cui bel pensier sovrano e saggio,
Nell'Italico sen tutto il mio bene, Solo accompagna dolce onesta pace,
Meco portando sol fra doglia e pene Lunge dal volgo vile empio e fallace
D'adamante timor, sperar di vetro: Uso fare a miglior maggiore oltraggio:
Nè dal mio fato in questo esilio impetro Vieppiù v'aggrada umil di Lauro o faggio
Alcun breve conforto, e non mi viene Sedervi all'ombra a voi stesso verace,
Di lei novella che mi tenne e tiene Che di superbi tetti, ove sol piace
Sotto mille catene in carcer tetro: Menzogna, e di virtù non tocca raggio:
Pensate or voi qual sia la vita mia, Tal ch' io vo dir, che s'un pietoso sdegno
Varchi, e vi prego che pietà talora, Non fosse ch'entro il cor v'agghiaccia e 'n-
Quando ve ne sovvien, di me vi prenda: (fiamma
E la donna che'l fa crudele e pia, -
Scorgendo il mondo a dura pruova cieco
Per vostra lingua o vostra penna intenda, Costi di somma gioia andreste al segno,
Come è cagion che lagrimando io mora. O pur vedeste in lui di valor dramma,
Bench'allor nosco abitarestg o seco.
Risposta. Risposta.
Luigi, e non fu mai negl'anni addietro, Bronzin, passai omai l'aprile e 'l maggio
Nè per innanzi ſia, s'io scerno bene, Dell'età mia più bella e più fugace,
Chi con doglia maggior, con minor spene Ch'altro deggio io ch'a Lni che tutto face,
Lasciasse u' regna il successor di Pietro: Volger la mente e di lei fargli omaggio?
Il che di voi sentendo agghiaccio e 'mpetro Ma quanto ho pronto il buon voler, tanto aggio
Di pietate e dolor, nè mi sovviene La carne stanca a cui più d'altro spiace
Di me che 'n tal pregion da tai catene Seguir quel ch'io più brano, ed è si audace
Chiuso e legato, invan piango e m'arretro. Che non cura né mio nè suo dannaggio.
E dritto è ben, che s'uom mortal disia Perchè sol del mio mal m'agghiaccio e sdegno,
Con frale occhio mirar nel Sole ognora, Che più veloce assai che cervo o damna
La poca vista il troppo lume offenda: Mi giugne ovunque io fugga, e sempre è meco.
Ben pregarò ch' a voi men fera e ria, e Pur qui, se non del tutto in parte spegno
Quella bella e gentil pace omai renda, Quella d'oro e d'onori ardente fiamma,
Ch'a me solo il morir salute fora.
Ch' ogni diritto oprar rivolge in bicco.
Bronzino pittore. Il medesimo.

Varchi, ch'a par de' più saggi e migliori Come 'l Sole, u' che volge i raggi suoi
Per la strada d'onor saliste in cima, Discaccia ogn'ombra e fa sereno il fosco;
Giunto a felice fin con prosa e rima Così 'l gran raggio di virtù, ch'è vosco,
Di mostrar della lingua i frutti e fiori: Tosto che fu rivolto verso noi,
Già v'inchinava con debiti onori Sgombrò lungi ogni nebbia, tal che poi
L'Adria e 'l Tirreno, e d'eccellenza prima Vide ciascun quantunque lippo e losco,
Vi tenea in pregio; or sovra umana stima Vera dottrina e vero parlar tosco,
Spande il bel nome vostro i suoi splendori. Varchi gentile, e ne ringrazia voi:
Nè si poteva giunta a tanta altezza E la schiera de' rei spari volando,
Vostra gloria innalzar, senza il mortale Come face a gran vento arida polve,
Colpo d'invidia al fin di voi prigiona: Che virtù contra il falso è troppo forte:
Ben sete ora alto ove più non si sale; E questa in voi si va tanto avanzando
Primo e non pari; onde di voi ragiona Che 'l nome vostro quanto il mondo volve,
Quanto il sol vede e loda, onora e apprezza. Vive securo di seconda morte.

Iisposta. Risposta.
Bronzino, io cercai sol dietro i migliori Come potrò caro Bronzino, o quando,
Poter, quando che sia, non dico in cima, Con quali scale mai, dietro quai scorte
Ma tanto alto salir ch'o'n prosa o 'n rima, Ergermi, u voi con dolci rime accorte,
Cogliessi un pur di tanti o frutti o fiori; Ma vane e false, ognor m'andate alzando?
E più che pago de secondi onori, Ben posi io già tutt'altre cure in bando,
Lieto lasciava altrui la gloria prima, E cercai sol del ciel le vie più corte,
Ma vero amore in voi non vera stima, Per tormi a Lete; ma contraria sorte
Fa parer basse nebbie alti splendori. Più mi vieto quel ch'io più gia cercando:
Nè mi debbo io doler, s' a quella altezza E la schiera, cui par che solo annoi -

Non si può gir senza il colpo mortale L'altrui ben dal suo grave antico tosco,
Di lei ch'ogni alma vil sempre ha prigiona. Nè perchè adopre in van, già non m'assolve,
Quella è sol vera gloria ove si sale Io di nessun mi lagno, e sol di duoi
Per così duri gradi; e chi ragiona Mi lodo, e se per pruova il ver conosco,
Di te, molto ti loda e poco apprezza. Mal lega altrui chi se medesmo involve.
574 SONETTI
Il medesimo. | Il medesimo.

Varchi, al vostro destrier ben puote opporsi Varchi, voi mi chiamate a quello onore,
Nuovo Pegaso intrepido e securo, Ove a pena arrivar puote il pensiero:
Superbo, invido stuol, vil, falso e duro Tanto v' appanna e non vi lascia il vero
Leoni e serpi e tigri e lupi ed orsi. Scorger troppa bontate e troppo amore;
E chiaro al vostro Sol contrari accorsi Se già non vuol mostrar vostro valore,
Abisso e notti, e tenebroso c scuro Che sa far bianco cigno un corvo nero,
Nembo di pioggia, aer gravato e 'impuro Che tal son io, se non che con sincero
Per qual sia rea cagion nemico e persi. Cor v'amo e riverisco a tutte l'ore.
Ma lui non pur piegar dal dritto corso Ben mi duol non potere all'alte stelle
Potran giammai, nè pur velare un raggio Vosco poggiar, nè seguitare in parte,
Del bel lume atra nebbia, o 'ncontro fero: Ove forza non hanno ire ne 'nganni.
Fin che felice all'alto segno corso Felice voi che con altere e belle
Quegli avrà il pregio, e questi ogn'alto omaggio Opre conto vi fate in mille carte,
Di vera gloria, al mondo aperto il vero. Che chiare viveran dopo mille anni!
Risposta. Risposta
Quel cortese che già gran tempo scorsi Simone, il vostro buon giudizio intero,
Afletto in voi, caro Bronzin, cui furo Conforme a così fido e saggio core,
Tutti gl'altri secondi, quasi muro In questo sol del cammin dritto fore,
Tra ne s'oppone e mille invidi morsi i Mi dà quel ch'io giammai d'aver non spero;
E ben potrebbe a questa volta apporsi, Anzi ne bramo ancor, ch'a Dio sol chero
Quanto altro vero mai sì poco curo, Umil che fuor di speme e fuor d'errore,
Quel che garra di me l'empio e spergiuro D'esto servaggio umano, u' sol si muore,
Folle stuol, che non sa quali ho soccorsi. Mi tragga al vivo suo celeste impero:
Mentre ch' io non isbramo e svisco e smorso Chè ben conosco, oimè, quanto si parte
Gl'amati rami, onde temer non aggio Dal ver chi per disio ch'altri favelle
Di smarrire il cammin sicuro e vero. Di lui, non spiega al sommo Bene i vanni.
La fronte sempre, e non mai devo il dorso Tempo egli è omai da così lunghi affanni,
A fortuna mostrar nemica uom saggio, Da si fosche e terribili procelle,
Dcnch'io, Donno del ciel, solo in te spero. Calar le vele e raccoglier le sarte.
Simone della Volta. Il medesimo.

Se molti, che han d'invidia il rio cor pregno, L' altera e lella donna, cui tanto ama,
Lacerando vi van più d' ora in ora, E tanto onora ogn'anima gentile,
Pei dolci frutti e vaghi fior che fuora A voi s'inchina riverente umile,
l'roduce il fertil vostro e colto ingegno i Varchi, e'n voi spera, e voi con ragion chiama.
Già nol prendete a maraviglia o sdegno, Giacque un tempo nel fango afflitta e grama,
Che più gl'aſſligge il verme e li divora, Fin che 'l gran Bembo a cui non fu simile
Quanto il valor, per cui v'ama cd onora Nè ſia, se non se voi, con dotto stile
Cosmo, è più raro e di sua grazia degno: Alzolla, e le rendeo l' antica fama.
E molti ancor che di bontà son carchi Or tocca a voi che di lei vera storia
Veggion, ch'altri non ci ha che con più saggio, Tessete e le donate ogni scienza,
Accorto piè muova al bisogno, e varchi Con modi di parlar leggiadri e chiari
L'onde dubbiose e perigliosi varchi Quanto utile a noi ſia, quanta a voi gloria
Del faticoso, dotto, alto viaggio, Per cui s'innalzarà l'alma Fiorenza
Se non voi, forte ed onorato Varchi, D'Atene e della prisca Roma al pari.
Risposta. Risposta.
Simon, nè maraviglia mai nè sdegno, Ben conosco il mio folle e vano errore,
Ma ben presi pietate, e prendo ognora Carlo, e si dico al cor; stolto che fai?
Di me non già ch' assai più basso, fora Non pianger, che tornar non puonno ormai
Lungi oltra i merti miei di là dal segno: Quei che volar del loro carcer fuore:
Ma di lei che non vede quanto indegno Ma pietà doppia incontra e doppio amore
Soggetto, e quanto a torto oggi l'accora, Di nipote e d'amico che giammai
Ma indarno a questa volta opra e lavora, Non deggio ricovrar, vincom d'assai,
Ch' umil soffrenza vince alto disdegno. Ond' ei ritorna al pianto e sol non muore.
Gl'altri ch'a bcne oprar dritto hanno gl'archi, Perch'io che tardo ogni soccorso umano
Di
Stiman grande splendor ben picciol raggio, Pruovo e poco al mio scampo e d'ogn'intorno
Come voi d'amor gravi e d'odio scarchi. Veggio in questo aspro mar notte atra e verno:
Cosi del signor nostro alteri i carchi Prego il Signor che sua pictosa mano Br
l'orti io felice, come io ch bi ed aggio l'orga, e non tarde il mio ultimo giorno:
l cicli al nascer mio poveri e parchi. Altra aita d'altronde ormai non scerno,
PARTE SECONDA
Il medesimo. Di M. Alberto Del Bene.

L'erto sentiero, onde si poggia al monte, Lasso! io ben veggio quanto tosto vola
U’ Febo voi con sì pochi altri onora, Il tempo e i miglior dì sen porta seco,
Varchi gentil, di quanti infino ad ora Mentre voi il vero, ed io quel crudo e cieco
Derivaro acque mai dal sacro fonte, Segno, che l'alme altrui rapisce e 'uvola:
Cerco io salir con voglic ardenti e pronte, E come al fin da questa errante scola
Ma fredde e frali forze a trarne fuora Nulla riporto, se non pianti meco:
Picciol rigagno, s'io potessi ancora O speranza, o desir fallace e bieco
Far l'altrui doti e le mie pene conte. O alma d'ogni ben spogliata e sola !
Ma senza il vostro altero e chiaro ingegno Ben cerco omai l'usato aspro viaggio
Non spera il basso, oscuro mio lontano Lassar, ma son le vie tanto erte e torte,
Farmi da sè nella futura etate ; Ch' io torno sempre nell'antico oltraggio.
Perch' a voi lieto e vergognoso vegno Or tu Varchi gentil, cui dato è in sorte
Possente trarmi a l'un morir di mano Salir al ciel con piè sicuro e saggio,
E'ndrizzar l'altro al ciel, come ognor fate. Drizza i miei passi, e me ritogli a morte.
Risposta. Pisposta.
Tai furon l'opre sue, tante è la fama Se i vostro alto gentil franco coraggio
Che'l gran Bembo lasciò, ch'ogn'uom non vile, Cerca, fatto oggi in sua ragion più forte,
Quanto è più pellegrino e più gentile, La vera strada ch'a buon fine il porte,
Tanto l'onora più, tanto più l'ama: E l' eterno fuggir grave dannaggio;
Ma chi folle coprir l'orme sue brama, Non me, ch'a ciascun passo incespo e caggio
o pensa stolto a lui farsi simile Prenda ehe 'l guidi per vie piane e corte,
Brama fiori al gennaio, ghiaccio l'aprile Ma Quel che ruppe le tartarce porte,
Pensa trovar nella più calda lama. E faccia a lui di sè fedele omaggio.
Per lui si vanta più d'ogni altro e gloria Ei sol quell' ali, onde ratto si vola
L'Adria superba, l' Adria ch' a Fiorenza Al ciel da questo oscuro e basso speco,
Oggi non cede e va con l'Arno al pari. Può darne e suole ad una umil parola;
-

Io non che far d'altrui degna memoria, Perch'io con giunte man divoto il preco,
Privo dell' alta sua dolce presenza, E null'altra speranza mi consola,
Chi m'insegni non ho, nè donde impari. Ch'omai ne scorga al cammin dritto teco.
M. Carlo Strozzi. M. Mattio Franzesi,

Varchi, s' ad alcun mai pianto e dolore Io pure ascolto e non odo novella,
Convenne, a voi convien più ch'altri mai, Varchi, di voi, da voi fedele amico
E ben sospirar vosco e tragger guai Ond' in vari pensier la mente intrico:
Com'io, devrebbe ogni selvaggio core Si il cor paura e gelosia puntella.
Ma viver sempre in tenebre ed orrore, Forse la mia fatal nemica stella,
E gire empiendo il ciel di mesti lai, Come d'ogni altro ben, così mendico
A voi non giova e turba lor ch' assai Farmi vorrà del vostro amore antico,
Tosto s'alzar, cadendo, al suo Fattore. E della dolce vostra, alta favella.
Onde se 'l pianger nostro è folle e vamo Meravigliomi ben che 'n cor gentile
Per lor, che su nel cielo alto ed adorno Possa tanto, e si vaglia o ira o sdegno,
Ridon di questo basso e tetro inferno; Ch' obblio gli nasca di chi l'ama e cole.
A che tanto affannar sè stesso in vano ? Ma, se la mente d'ogni nebbia vile
Ch'altro si cerca qui, che far ritorno, Sgombrate omai del mio più caro pegno,
Quando a lui piace, al gran Motore eterno? Vostra alma amica ſia, come esser sole.

Risposta. Risposta.
Carlo, che con gran passi a fuggir l'onte Sì forte ognora in me si rinnovella
Di Lete, e farvi tal, che mai non mora Disìo d'esser con voi, di cui più amico,
Il nome vostro, giovinetto ancora Nè più fido trovai, ch'io maledico
Poggiate, ove raro è chi vecchio monte; Il destin vostro e la mia sorte fella;
Dunque venite a me, che di voi conte Che'n questa voi, e me sospinge in quella
All'età, che fia poi quel, ch' io non fora Parte mai sempre, ed a me spesso dico:
Nè pensar degno ancor, se ben m'infiora Ben volge il cielo al voler mio nemico,
Le tempie il tempo e crespa ho già la fronte? Aspra fortuna si, non già novella.
Di troppo varcan d'ogni lode il segno Nè pensate alla lingua dissimile
In bello e nobil cor via più ch'umano Trovar mio cor, che sol del suo sostegno
Ingegno, cortesia, senno e bontate, Verde si loda e di nessun si dole.
Ben ha, per altro d' ogni biasmo degno, Ben può talor nuova ira antico stile
Onde gradissi il secol nostro vano, Piegar, ma romper no: serbar disdegno
E l'Arno più, cui voi più ch'altri ornate. Alma gentil nè sa, nè dee, nè vole.
r. - SONETTI
576
Bernardo Vecchietti. Monsignor M. Lorenzo Lenzi.
Varchi, ch' or colla voce, or coll' inchiostro Varchi, chi sa quanto ognor v'amo e quanto
Si spesso avete e'n cosi dotte carte Più debbo amarvi ed onorarvi ognora,
Mostro, che sete per natura ed arte Sa, la cagion, perchè nell'alma o fora,
L'Arpinate e'l Maron del secol nostro: Quando partii da voi, non tenni il pianto:
Volgete omai, che ben conviensi, il vostro E meno assai quando poi scorsi quanto
Faticar dolce a raunar le sparte Spazio da voi mi divideva, allora,
Vere lodi di quel che Giove e Marte Che quel monte varcai nevoso ancora,
Di bontate e valor ne dier per mostro. Che dall'un parte Italia all'altro canto.
Poco onor fora a voi men degna impresa, E certo, se non era il vostro e mio
E grave error, se voi tacendo, ardisse Dolce e cortese, e gentile Alamanno,
Del gran Cosmo cantar men dotto stile: Che quasi al par di me v'onora ed ana;
E come or d' intagliarlo ha sol lo stile Sol per esser con voi, cui sol disio,
Tornava indietro a ristorar l' affanno:
Del Cellin grido, allor senza contesa
S' udrà, che solo il Varchi alto ne scrisse Ma risponder convien quando il ciel chiama.

Risposta. Risposta.
Vecchietto, bene in voi chiaro s'è mostro, Signor mio caro, il cui cortese e santo ,
Come in chi da virtù giammai non parte, Oprar, che par non ebbe e meno ave ora,
E seco elegge al fin la miglior parte, Di dì in di, d'ora in or più m'innamora,
Sete pur d'altro che di seta e d'ostro. E di null'altro mai mi pregio e vanto;
Ben può'l Cellin ch'al mondo omai n'ha mostro Lo mio stato felice, e 'l riso e 'l canto,
L'alto valor che 'n lui larga comparte Onde ben misero uom beato fora,
Natura e studio, intagliar tutto o parte Tutto portonne e disperde quell'ora,
Il miglior ch'abbia Duce o'l Borea, o l'Ostro: Anzi il rivolse in sempiterno pianto,
A me troppo è disdetto e troppo pesa Che voi dal picciol Ren, d' alto disio
L' altero incarco ch'al cantor d'Ulisse Caldo e di speme, come i saggi fanno,
Fora ed al Mantovan soma non vile. Correste a spregiare oro e mercar fama,
Io solo; ed oh non pur sel prenda a vile E con voi l'altra di me parte, ond'io
Il signor, vostra speme e mia difesa, Doppio ho temenza al core e doppio danno,
Dirò, che pari a lui giammai non visse. E doppia d'ambedue riveder brama.
Il medesimo. M. Tommaso Soderini.

Quando fia mai ch'al disiato obbietto, Varchi, se pareggiasse il gran dislo
Di cui più bello occhio mortal non vede Lo stil, forse sarebbe in parte degno
Volga questi occhi? ai quali Amore e fede Di voi lodar, che sete al mondo un pegno
Fan parer grave ogni più vago aspetto ? Di quanto sanno dar natura e Dio.
Sarà giammai ch'io renda all' intelletto Ma quanto è pronto l' un tanto è restio
Il suon, cui la celeste armonia cede ? L' altro che si conosce al tutto indegno
E 'l soave agli spirti odor, ch' eccede Ne con quel freddo questo ardente spegno,
Gl' Arabi e per virtute e per diletto? Nè 'l tardo affretta il presto voler mio.
Quando fia, divin nettare, ch' io torni Nè questo è mio, ma pur vostro difetto,
Al dolce nodrimento ? e che 'l mio caro Perchè, pensando a vostra alta virtute,
Tesor, come solea, m'allegre ed orni? Nasce un'altro pensier che 'l primo assale:
Varchi, ogni senso il mio vivere amaro Ond' io, temendo loro e mia salute,
Più sfida ognor, quanto io più lieti giorni Lascio di gire al fin ch'aveva eletto,
Piango e men via da ricovrargli imparo. Ed essi fuggon, come avessero ale.

Risposta. Fisposta.
L'alto e si giusto duol, caro Vecchietto, Tommaso, quel valor che 'n voi natio,
Che per bella cagion nel cor vi siede De grandi avoli vostri aspira al segno,
Quantunque volte nella mente riede E vi fa sopra gl'altri come è degno,
Mi contrista per voi la fronte e 'l petto. L'alta virtù seguir che'n lor ſiorio,
Ma ben lieto vedervi in breve aspetto, Rivolgete a lodare uom degno, ch'io
S al sognar del mattin può darsi fede; Se ben talor co' primi alzarmi ingegno,
Voi pur sapete che non ben si crede Dietro gl' estremi per buon spazio vegno,
Al disio, e che qui nulla è perfetto. Ne studio val contra fato aspro e rio.
Già parmi esser con voi tra quercie ed orni, Pur mercè vostra e non suo merto aspetto
Nel bel vostro riposo, ed ogni amaro Anzi che in neve il crin tutto si mute,
Con quei dolci cangiar queti soggiorni. Veder mio nome, ove per sè non sale;
Bernardo, il gioir nostro e corto e raro Poscia ch' allo stil vostro, onde venute
In questa vita, e spesso o danni o scorni Lodi maggior mi son di mortal petto,
N apporta, troppo di sè stesso avaro. Portarlo al cicl, quantunque indegno cale
PARTE SECONDA r
5,7
Andrea Lari. M. Francesco Sansovino.

Varchi gentil, lo cui chiaro idioma Varchi, se 'l ciel vi preste ali al gran nome,
Di tanti frutti empie la lingua nostra, Ond' ei sen vole al Mauritano tlante
E di tai fiori ngnor l'imperla e inostra, Dall'Indo mar si ch'ei trapassi quante,
Che Smirne e'l Mincio e Arpin l'invidia e Roma; Glorie mai coronaro altrui le chiome;
Ben vi si deve omai cinger la chioma Dopo che nel mortale è l' alma, come
Al par de tre gran Toschi, poi si mostra Pone in obblio l'alte, celesti e sante
Nella dottrina ed eloqnenza vostra Prime sostanze ? onde è che le sue tante
Quanto e come il Toscan si terga e coma i Virtù dal fragil senso unan son dome?
Che solo in voi par che di par si scorga S'ella è luce immortal, perchè i terreno
Col Greco e col Latino, onde s'onora Velo per lei non divien santo e chiaro.
Un Omero, un Virgilio, un Tullio, un Varchi, Se'l minore il maggior mai sempre adombra?
Alza, Arno, l'onde tue, tue rive infiora Questo dubbio pensier starà nel seno
Poscia ch'adegui, anzi di molto varchi Alla mia fede o sommo Tosco o raro,
Il Tebro, il Santo, il Po, Durenza e Sorga. Tanto ch'ella per voi d'error sia sgombra.
Risposta. Risposta.
Si dolce e casto e sì grave idioma Francesco, io temo no'l mio spirto tome
Ebbe dai tre maggior la lingua nostra, Nella verde, amorosa selva innante,
Che qual gemma s'indora o seta inostra, Ch'al dubbio vostro, che m'è sempre avante,
Chiara divenne al par d'Atene e Roma: Dir possa, come l'alme il senso dome:
A lor dunque le tempie, a lor la chioma Pur, quant'io scorgo, le terrene some,
Cinger Lori, conviensi, in cui si mostra Come appanna atro vel chiaro diamante,
Quel che di me canta la musa vostra, i" sì, ch' obblio del ben davante
Come 'l Tosco volgar s'adorni e coma. Le preme infin ch'uom le rischiara e come.
Con lor si spense, e non è in cui risorga Nè può raggio di solvil fango a pieno
La gloria nostra, anzi eravamo allora Illustrare, onde mai non splende a paro
Ricchi e cortesi, or sem poveri e parchi. Di vetro, se ben luce alta l'ingombra.
Solo il buon Casa pare a me ch' ancora Ma noi, cui scorge infin dal più sereno
Qui serbi il prisco onore e non si scarchi Cerchio lume si certo e si preclaro,
Del vero pregio e'l cammin dritto scorga. Perchè lasciamo il ver, seguendo l'ombra?
Giovanni de Rossi. Luca Sangallo.
Varchi, voi dite ognor, che più felici Un nome stesso, un stesso albergo in vita
Quei son che stando in lor paterna villa, Ebber quei duoi, ch' una medesima sorte
Appresso un rio, che mormorando stilla Pria giunse insieme, e poi sospinse a morte
Tra folti boschi, in cima a colli aprici; Rada e forse non mai nel mondo udita:
Nè curando cercar l'altrui pendici, Mentre cercan di dar l'un l'altro aita,
Menan la vita sua lieta e tranquilla N'andaro insieme alle celesti porte;
Senza punto temer, che suon di squilla Così lasciando le vie aspre e torte
Gli sveglie o tolga a suoi più cari amici. Volaro alla bontà somma, infinita:
Se questo dunque è ver, come voi dite, Dove ha, son certo, anch'ei sua dritta parte
Perchè non fate a voi quassù ritorno, Quel di me nato spirto benedetto,
Lasciando il volgo invidioso e ignaro? Che rigar fammi sospirando carte:
Deh! se vi cal di me, Varchi, venite, - Però, signor mio Varchi Benedetto,
Che'l dolce viver mio volto ha in amaro Temprate il duolo e confortiamo in parte
L' esser qui senza voi pur solo un giorno. Voi di zio, io di padre il grande affetto.
Risposta. Risposta.
Giovanni, io chiamo e chiamarò felici Or amore, or pietà, Luca, si forte
Via più color che 'n solitaria villa, A sospirare e lamentar m'invita,
A piè d'un faggio, u' chiaro fonte stilla, Percosso da mortal doppia ferita,
Vivon tra colli ombrosi e campi aprici, Per cui fien l' ore mie dolenti e corte,
Che quei ch'avari ognor nuove pendici Che nulla è, che tal duol tempri o conforte
Cercan senza ora aver lieta e tranquilla, Altro, se non che tosto omai fornita
O cui desta dal sonno or tromba or squilla, Sarà la tela al mio vivere ordita,
Poco a sè stessi e meno agl'altri amici. Ed essi al partir mio verranno scorte;
Ma voi, ch'ogni mio ben tanto gradite; E là mi guidaran, dove ha ricetto
Sol perch'a voi non così tosto torn 0, Quel che dal volgo vil tutto vi parte,
Temete ch'io di me sia fatto avaro º r Qui figliuol vostro e'n ciel puro Angioletto,
Quasi ascoso mi sia ch' alle ferite Quivi io, mirando il sommo bene, e parte
Di fortuna e d'invidia altro riparo Il mio bel Giulio che fu sol perfetto,
Non ho che i boschi e' far con voi so ggiorno,
i Aheril t . it
Viverò lieto sempre in chiara rº pe
n
5-8
-m
SONETTI
M. Francesco Sangallo. M. Pier Alberti.

Quei tre spirti del ciel pregiati e chiari, Varchi, il cui chiaro nome altero varca
Che 'l mondo illuminar con prose e carmi, Dove rado, o non mai giunse altri ancora;
Par che preghino ognorche'n bronzio'n marmi Varchi, cui tanto pregia e tanto onora
Mostrin, ch'a Flora sian graditi e cari, Ogn'alma sol che sia d'invidia scarca:
Dunque, Varchi gentil, ch'adorni e schiari Se lungo stame e felice la Parca V
Ad Arno l'onde, e ch'hai troncato l'armi Attorca al subbio vostro, e d'ora in ora
Dell'empia invidia, sì che voce parmi Più lieta vi si mostri ella, ch'ognora
Sentir: Pon questi a quei tre primi pari; E per lungo uso ai più miglior più parca;
Ajuta quanto puoi sì belle imprese Me che l'orme seguir de' miei desio, L.
Che 'l tuo buen Cosmo invitto unico duce E salir vosco, ove virtù s'impetra
Pe'tuoi preghi a gran Toschi sia cortese: Togliete, prego, dall'eterno oblio:
Ei gloria eterna avrà se ciò conduce, E s'umil prego mai mercede impetra, 0
Per te sien sempre tai memorie intese; Rendami il valor vostro e studio mio,
Io per quel viverò con maggior luce. Di scura a vil pregiata e chiara Petra.

Risposta. Risposta.
Francesco, se così pregiate e chiari Alberto, la mia frale e debil barca, Bor
Fossero al mondo o mie prose o miei carmi, Rotta dagl'anni tutta e dentro e fuora,
Come i metalli vostri e i vostri marmi A pena osa d'entrar picciola gora,
Sono ad ogni gentil graditi e cari ; Non che varcar l'Egeo, sol d'error carca:
Ben porria tra gli spirti eletti e rari Ma voi che 'n poca età quasi monarca, S
A ricco seggio ed enorato alzarmi; Sedete in cima e tal fate oggi Flora,
Or giaccio in terra, e mai quindi levarmi Che spero un di veder prima ch'io mora
Non spero non che gir coi primi a pari. Nuovo fiorire in lei chiaro Petrarca:
Ma perciò non ſia già che l'alte imprese Seguite pure, e quel vostro natio Ch'
Vostre non lodi e non preghi il mio duce, Valor che da virtù mai non s'arretra,
Che voglia ai tre gran Teschi esser cortese; - Lassù vi scorga dove non posso io:
Il cui valor, che gloria tanta adduce Ben vorria vosco al ciel da questa tetra N
In ogni tempo e per ciascun paese,
Via più risplenderà ch'oro non luce.
M. Ventura Strozzi.
Prigion mortal, da questo secol rio
Volar, mio cor, ma più grave è che petra.
Il medesimo.
;
Viva Petra, ove ognor più largo infonde Damon, che sete tra gl'altri pastori,
Alte virtuti Apollo e santo Amore, Quasi Pan fra le selve con quel canto
Pi nuova gloria carco e vero onore Che s'ode sì lontano e dolce tanto,
Riluce si sopra le Tosche sponde, Portate al ciel la mia vezzosa Clori:
Che le ninfe spargendo e fiori e fronde Ne pensate che mai più casti amori
L'onoran tutte, ed ogni buon pastore Fosser, nè più soave e dolce pianto,
L'interno suo gioir mostrando fuore, Nè languir mai cosi cortese e santo,
Non volge i passi o la zampogna altronde: Nè fiamma più gentile arse duo cuori:
Poi dolce quinci e quindi Alberto, Alberto Ben vi so dir, che la mia ninfa è bella
Fan risonare insieme ma non tanto, Non men ch'onesta, ed io bellezze sole
Ch'a sì rara virtù poco non sia: Non amo, ma virtuti ; e questo è quello
Varchi, voi dunque con quel chiaro canto, Ch'a così chiara e colta pastorella
Ch'a pregi eterni i nomi e l'epre invia, Me così scuro e rozzo pastorello
Deh! porgete ugual lode a sì gran merto livolge ognor come elitropio al sole,

Risposta. Risposta.
Strozzo, le stelle fur tanto seconde, Quanto i più vaghi e i più saggi pastori
E tal piove dal ciel grazia e favore Colla dolce zampogna e dotto canto,
In questa Petra, ove par ch'a tutt'ore, Sorvoli, Tirsi mio pregiato, tanto
Maggior virtute e più bel lume abbonde, Tutte cedon le Ninfe alla tua Clori:
Ch'io vorrei ben cantar; ma dove o donde Avventurosi e ben graditi amori,
Cominciar debbo l'alto suo valore? Sia da voi lungi sempre e doglia e pianto,
Più salda nave, e via nocchier migliore Nè mai si stretto nodo e così santo
Avrebbe uopo a solcar così cupe onde. Cappio discioglia il tempo in si bei cuori.
Dunque volete voi, ch'a lungo ed erto Non ebbe l'Arno ancor Ninfa sì bella,
lo
Cammin, zoppo destrier dagl'anni affranto, Nè sì vago pastor, bellezze sole,
Muova e non tema di mancar fra via ? Sole grazie e virtuti han questa e quello :
Non dee, non che sperar, bramar tal vanto Cara, leggiadra e gentil pastorella, R
La stridevole e rozza canna mia: Gentil, leggiadro e caro pastorello,
Icar un'insegna dir: Chi sonº che merto º Qual vide coppia mai più degna il sole ?
PARTE SECONDA 579
M. Lelio Bonsi. Il medesimo.

Varchi, per cui da lunga alta quiete, Come l'aer notturno e fosco e greve
Anzi da pigro sonno mi svegliai All'apparir della lucente stella,
Tosto ch'udii la voce e scorsi i rai Che quarta volge oltra le belle bella,
Del vostro ingegno, onde si chiaro sete: Torna sempre sereno e chiaro e leve:
Voi quell'ardente ed onorata sete E come quando dopo il freddo e breve
che nacque in me quel di che voi mirai, Giorno vien la stagion, che rinnovella
E sentii il suon che men non verrà mai, Il mondo e ad amar lieto l'appella,
Per vostra cortesia, prego, spegnete. Conversi in erbe il ghiaccio, in fior la neve;
Lasso! che più di giorno in giorno veggio Così 'l mio basso e vil cieco intelletto,
Quanto era fuor del cammin dritto l'alma, Conversi in isplendor le nebbie e i venti,
Che rozza si giaceva oscura e mesta ; Alto pregiato e luminoso venne
Ortal son fatto, ch'io non oso o deggio Tosto, Varchi gentil, che dell'ardenti
Pensar qual era; a voi dando la palma, Virtù vostre divine entro 'l mio petto
Per cui si bel desio nel cor si desta. Breve scintilla a illuminarmi venne.

Risposta. Risposta.
Bonsi, che per fuggir l'obblio di Lete, Ad altri, e non a me, Bonsi mio, deve
E viver conto al mondo, le mortai Render grazie ed onor, se ver favella
Cose, bassa cagion de nostri guai Vostro leggiadro stil ch'alta novella
Poste in non cale, anzi per nulla avete ; Fiamma il cor v'arda, e si da terra il leve;
Se come dite, ed io vi credo, ardete Scende d'alto ogni bene, al re si deve
Di quel disio che 'n voi santo destai, Del ciel quanto per noi s'opra e favella;
Più fida scorta e via migliore assai A lui l'alma volgete e la favella
Duce che non sono io, guida prendete: Per lungo far di questa vita il breve:
Ch'omai rotto dagl'anni, e quel che peggio E se pur qualche mio cortese detto
Mi nuoce, oppresso da novella salma Ebbe forza giammai di fare spenti
Di nojosi pensier grave e molesta, I pensier bassi e darvi al ver le penne,
Non pur colmo di doglia in basso seggio, Non da me no, ma da quell'alte menti -

Ma giaccio al fondo; or voi la destra ed alma Ciò conoscete, onde ogni umano effetto
Strada seguite più quanto è men presta. Piove, e da lui che lor tal grazia dienne.
Il medesimo. Il medesimo.

Varchi gentil, che così chiaro lume Varchi, se mai ove uom per sè non sale º
Di così scure tenebre innalzate Trasse alcun saggio vostro e scorto dire,
A nostri di, che questa oscura etate Così vi faccia il ciel sempre gioire,
Par ch'al vostro splendor tutta s'allume: Dando a vostra virtù merito eguale, -

Sol voi seguir che con altere piume Innalzatemi in su colle vostre ale
Sovra tutti altri, quasi aquila, andate, Tanto ch'io sorga, ond' è, che mai partire
E nell'orme di voi por mie pedate, Non può da noi quel natural disire,
Alto, ma vano in me desir presume, Che ne dona e ne toglie al ciel le scale:
Non può cantando mai roco augello, Forse qual vermo, che sè stesso inchiude
Canoro cigno; nè correndo mai Nel suo propio lavor, l'alma s'asconde
Destrier forte agguagliar debile agnello. In queste membra, onde non scerne il vero,
Pur mercè vostra, e di quei santi rai, E perchè a poco a poco indi si schiude,
Che mi dettan quanto io scrivo e favello, Non può lasciar quel primo desidero,
Forse 'l monte sarrò, cui sempre amai. Qual leggier legno, cui gran peso affonde.
Risposta. Risposta.
Lelio, che lungi dal volgar costume Lelio, troppo v'inganna Amor, ch'io tale
Dei giorni nostri, in così poca etate, Non son che possa o debba a voi ridire,
Con verde chioma e cor canuto, fate Perchè l'alto disio ch'è in noi di gire
Nascer di Pindo e d'Elicona fiume: Al ciel toglier non può cosa mortale:
S'all'alto e bel disio l'ali v'impiume Pur, come dite voi, nulla non vale
Amor santo e cortese, e se bramate Far che suver non voglia alto salire,
Fuggir l'eterno oblio, non me vogliate, Quandunque può da basso fondo aprire
Ma seguir chi più splenda e meglio allume. L' onde secondo il natural suo quale.
Io sol vi pregarò che così bello La terra che 'l divin circonda e chiude,
Pensier, che vince tutt' altri d'assai, Spegner non può se ben cuopre e nasconde
Questo secol non spenga avaro e fello; A l'alma un tempo il suo valor primiero.
Rado, se non se in voi anzi non mai, Pigro sè stesso e non le stelle crude
Quanto ho cercato, o'n questo lido, o'n quello, Dica qualunque lascia il ver sentiero,
La possa al buon voler pari trovai. Ne a chi sempre lo chiama, unqua risponde,
58o SONETTI
-
Il medesimo. Il medesimo.

Varchi, che quanto da benigna stella, Quegl'occhi ch'ad ognor si largamente


Valore in cor gentil giammai discese, Piovon ne petti altrui sì dolce lume,
Tanto piovve nel vostro alto e cortese, Che qualunque gli mira per costume,
In cui l'antica età si rinnovella: Prende fuggir la bassa e volgar gente:
Sempre fin che dal cor l'alma si svella, Di sì alti pensier colina la mente
Arderà in me dislo, ch' al petto accese M'hanno c'impennate al cor sl lievi piume,
Pensier di seguitar le belle imprese Che quanto giri Febo e quanto allume
Vostre e fuggir la turba avara e fella; Sotto sè, tutto vede l'alma e sente:
E mai non fia ch'io non ami ed onore Quegli alla turba vil che 'l fango apprezza,
Il gran nome del Varchi, e 'l Varchi solo Ed agl'amanti ancor felice esempio
Mi starà sempre fisso in mezzo al core, Faranno me, cui sol nel mondo adoro:
Opri sue forze invidia, e 'l vile stuolo Da quei, Varchi mio buon, tanta dolcezza
Segua 'l costume suo ch'al vero onore Prendo sovente, e di tal gioia m' empio,
Mi alzerò dietro a voi con dritto volo. Ghe le gemme mi sembran vili, e l'oro.
Risposta. Risposta.
Non a me, felio mio, ma solo a quella Chi non sa quanto Amor cortesemente
Luce ch'al nascer vostro in alto ascese, A'suoi fidi seguaci l'ali impiane?
Grado sappiate, se ben tutte spese E come dolce si sfaccia e consume
Avete l'ore dell'età novella Alma gentile al suo bel sol presente?
E lungi alla vil gente che rubella A me sempre sovvien non pur sovente,
D'ogni virtù sempre al guadagno intese, Dell' arbor sacro mio terreno nume,
Le voglie avete a far l'anima accese Che 'n verde solitario alto cacume,
Donna de' vizi, alle virtuti ancella : Vidi e raccesi al ben le voglie spente:
Colui che regge e fu del ciel fattore, Per lui, Bonsi, mio cor tutto disprezza
Lodate dunque e ringraziate solo, Quel che più cerca il volgo avaro ed empio
Se grato esser volete a tutte l' ore: E sol chi virtù segne, amo ed onoro.
E me che come augel tarpato volo, Beato voi, cui per casta bellezza
E lume sembro che vacilla e muore, D'alto e sincero foco arder contempio,
Lasciate in terra e si ven gite a volo, Dietro color che veri amanti foro !

Il medesimo. Il medesimo.

Or che si fredda e si fera stagione, Varchi gentil, se non del tutto indegno,
Che primavera avea quasi sbandita Sono io dell' alte vostre e dolci note,
Con venti e pioggie, verde e colorita Ond'è che tal pallor vi segni e note
Si mostra, e ride il ciel, caro Damone: Spegnendo il sezzo amor nel suo bel regno!
L'alto Fiesole vostro e a gran ragione, Io per voi spesso e per me in dubbio vegno,
Ch'avrà sempre per voi gloria inſinita, Che s' Amor vien dalle celesti rote,
Lieto vi chiama ad ora ad ora e 'nvita, Come fuggir da noi si deve e pote,
Nè men colle sue Ninfe il bel Mugnone: Chè contra il ciel non vale umano ingegnº
Ed io via più che tornar bramo a quella Se volle il ciel, che foco onesto e pio
Dolce vita innocente che mi face, Pria v'infiammasse, e nel secondo loco
Dell'età sovvenir del secol d'oro: Di tanto ardor v'accese e si giulio,
E di nuovo non pur quanto qui giace, Come potrete mai, ditemi un poco, -

Ma tutti i corsi di ciascuna stella Non arder sempre? E non prendete in giocº
Gir misurando si lontan da loro. Il mio basso dubbiar ch'alto è il disio.

Risposta. Risposta.

Bonsi, qual chi talor dura prigione Perch'io mentre la fiamma ultima spegno,
Fugge e sen torna a sua magion gradita; Di dolor pinga e di pietà le gote,
Tal io Fiorenza a solitaria vita Come talor chi mal suo grado scuote
Cangiaria e farei senno e ragione: Cosa da sè che gli facea sostegno?
Ma sempre or questa, e quando altra cagione, Lasciar di mezzi i suoi pensieri il segnº,
Perchè mia voglia in ciò non sia compita, E le promesse altrui di fede vòte
Come chi nega a preghi degni aita, veder, vince ogni duol; ma che non pº
Al giusto desir mio pugna e s'oppone: Giusto, leggiadro e valoroso sdegno?
Nè deve alma, nè puote esser rubella, Come ab eterno il ciel dispose, ch'iº
Od a quel contrastar che di lei piace Arder devessi in doppio onesto foco,
A lui ch'è d'ogni oprar fine e ristoro Così termin prefisse all'arder mio:
Pur sua mercede, a quella dolce pace, Il Spegner
primo mai tempo dovea, nè locº
Dove natura e 'l dir vostro m' appella, nè morte ancor, ma l'altro poco
Spero diman tornar, s'oggi non moro. Durar che quasi al cominciar finº
PARTE SECONDA - 581
M. Lucio Oradini. Il medesimo.

Varchi gentil, quel vostro alto valore, Caro Damon, la mia leggiadra Dori,
Che guida altrui per cammin dritto al cielo, Che più chiara del Sol gl'occhi m'abbaglia
Squarciato quel che 'ntorno agl'occhi velo Co'suoi bei lumi, ove qual fiamma a paglia,
Avea, di bei desir m'accese il core: Corrono i più gentili ed alti cori.
Ond'io, sol per uscir del volgo fore, Voi che vincete tutti altri pastori,
Cangiato il nome e l'opre innanzi al pelo, Fate che 'n fama e degno pregio saglia
Ardo di così caldo e altero zelo, Nè d'altro come a me giammai vi caglia,
L'orme vostre seguendo a tutte l'ore, Che celebrare i suoi perfetti onori.
Ch'io spero con gran varchi all' alto monte Non a mia bassa e mal cerata canna,
Poggiar, dove dormendo alto disio Ma a vostra alta zampogna e chiara avena
Trasse l'antico e si lodato Ascreo ; Cotal ninfa, anzi dea cantar convicnsi:
Voi dunque nuovo fiorentino Orfeo Ma che debbo o posso io, s'Amor m'affanna
Conducetene prego al sacro fonte, Di lodarla a tutt'ore ? e vuol ch'io pensi
Che gustato ne toe l'eterno obblio. A sprimer quel che può intendersi a pena?
Risposta. Risposta.
Lucio, che solo al ghiaccio ed all'ardore, Dolce Amaranto mio, la bella Dori
Mentre io d'onesta brama or flagro, orgielo, Vostra, che non pur voi, ma 'l sole abbaglia
Sole ed ombra mi sete al caldo e al gielo, Della sua luce, e qual chiara ambra paglia,
Quando entro foco son, neve di fore: Allice e fura i più leggiadri cori:
Se per salir la strada erta d'onore, Degnissima è, ch'appo tutti i pastori,
E farvi caro al fermator di Delo, Sovra ogni ninfa al sommo pregio saglia,
Dietro l'orme ch'io segno e'l ver ch'io svelo, E che d'altro a miglior non membre, o caglia,
Nome prendeste e studio assai migliore: Ch'alzarla al ciel con immortali onori:
Miun giammai sarà sol ch'abbia conte Ma che posso io ? che può stridevol canna?
L'usanze di color quando fiorio, Dunque roca zampogna e bassa avena,
Virtute al tempo buon ch' oggi è sì reo, Cantarà quel ch'a tromba alta conviensi?
Che voi non lodi, ond' il Tebro e 'l Peneo Ben d'ornarla con voi disio m'affanna,
Giugnete all'Arno, perch' un di la fronte Per far mio dritto, non che sprimer pensi
Vi cinga il merto vostro e'l voler mio. Quel ch'io comprendo colla mente a pena.
Il medesimo, Il medesimo.

Varchi gentil, se i dolce vostro e ornato Dori, la bella ninfa mia, che sola ,
Stil, ch'omai varca d'ogni lode il segno, È 'I Sol di questa cieca, oscura etate,
Avessi, e come voi chiara arte e 'ngegno Tale la bellezza in sè, tanta onestate,
E savere e giudizio alto e purgato: Ch'a tutte l'altre ogni alta lode invola:
Amante unqua non fu tanto al ciel grato, Dunque, saggio Damon, di cui si vola
Quanto io, tal è colei ch'io tenni e tegno, La fama in ciascun loco, e ch'avanzate
È mai sempre terrò quantunque indegno, Quasi Pane a cantar, meco lodate
In mezzo il cor d'onesto amor piagato : Costei, che le maggior tutte sorvola :
Dunque, poi ch'al mio sol non vede paro Voi pur sentiste, e testimon n' è l'opra,
L'altro che gira il tutto ovunque mira, Onde mai non morrà ben colto alloro,
È del vostro cantar nulla è più chiaro: Quanto Amor casto in cor non vile adopra:
A voi convien non a mia bassa lira Perchè Dori, cui sola al mondo onoro,
Il più alto soggetto e 'l più preclaro, Portate al cielo, e fate che non cuopra
Che fosse mai quantunque il mondo gira. Tempo, ne morte mai sì bel lavoro.
Risposta. Risposta.
Caro e cortese Oradin mio, se dato La vostra bella e casta Dori sola
M'avesse stil, com' ha voi fatto degno Può dirsi casta e bella in questa ctate,
D'ogni alta grazia, il ciel, lei ch'è sostegno Poscia che di bellezza e d' onestate
Del viver vostro e può farvi beato, Alle più caste e belle il pregio invola,
In ogni tempo sola, e 'n ciascun lato Caro Amaranto mio, ma perchè vola
Andrei cantando, ove or tacer convegno, Il tempo, voi con quello, onde avanzate
Che me medesimo in un sprono e ritegno, Tutti altri, ornato stile, omai lodate
Di calda voglia e fredda tema armato: Lei, che tutt'altre Ninfe una sorvola:
Troppo è solo nel mondo, non pur raro Che 'l mio volto in disparte a più grave opra,
Quel Sole, u' l'alta mente vostra aspira, Che sì rozzo cantò sì colto alloro,
E Febo a me delle sue frondi avaro, Come può sol, non quanto deve, adopra;
Ma voi cui tanto il sacro coro aspira, Ben con la mente ognor divoto onoro
ch' andate già co' più lodati a paro, L' idolo vostro, ma che mai nol copra
Spiegate in versi quel ch'Amor vi spira, Morte, nè tempo è sol da voi lavoro.
582 SONETTI
Il medesimo. Il medesimo.

Varchi, del cui valor, ch'al mondo parte Varchi gentil, che tra i più chiari lustri,
Sue gran virtuti, e qual l'eterna luce Come oro fra i metalli, anzi fai tale
In ogni luogo egualmente riluce, Ciascun altro cantando, e a te non cale
Son quasi piene omai tutte le carte: Di questi umani, a dir proprio, ligustri:
Poi che da voi non mio voler mi parte, Tu chiaro cigno sei, gli altri palustri
Ma reo destin, ch'altrove mi conduce Negri augelli, e sol colle tue ale
Malgrado mio, che senza voi la luce In lieta parte, e tanto alto si sale,
Od io, ch'a l'alma ogni suo ben comparte: Che sprezza i giorni, i mesi, gli anni e i lustri:
Siatemi, prego, guida, e se mai porse Ben sallo il vostro d' ogni lode degno
La vostra penna in solitaria villa Arbor sacro gentil, ch'al ciel ne 'nvia,
Soccorso a chi si sta tra balze e rupi, Di ch'egli è qui tra noi si certo pegno.
Porgalo a me, ch'ad uom mai non soccorse E non pure ei di ciò testimon fia;
Più dubbio, e faccia mia mente tranquilla, Ma 'l bel Carin, ch'al gran foco di pria
Ch' or si turba in luoghi aspri, incolti e cupi. Giugne seconda fiamma alta e giulia.
Risposta. Risposta.
Lucio, in cui tanto di natura e d'arte, Lucio, chi vuol fra le pregiate, illustri
D'alma e di corpo, e cotal lume luce, Anime lungo tempo, anzi immortale
Ch'esser potete scorta agli altri e duce Rimaner dopo il corso suo fatale,
In questo mar, di ch'io la maggior parte Convien che notte e di s'adopre e'ndustri:
Ho già senza governo, ancora e sarte Il mio cantar non che i più scuri illustri
Varcato, e, se non fosse amica luce Ogni più chiaro adombra, e non che scale
D'un vivo allor, che dove vuol m'adduce, Faccia in alto ad altrui, per sè non vale
E gira il legno a ben sicura parte, Tra i lodati salir spiriti industri.
Già fora io preda alle Sirene, e forso E se pur cosa mai d'arte o d'ingegno
Nel largo ventre di Cariddi e Scilla Uscio di me, non è la gloria mia,
Con mille abbaiarei molossi e lupi : Ma del mio fido, antico, alto sostegno:
Ma voi, cui nulla mai dal dritto torse, Chè questo nuovo pare a me che sia
Seguite pur l'usata, alma favilla, O volere, o costume, o sorte ria,
Nè temete reo mostro unqua v' occupi. Rivolto, e ben men doglio, ad altra via.
Il medesimo. Di M. Annibal Caro.

Chiaro Varchi gentil, che i più migliori, Vibra pur la tua sferza, e mordi il freno,
E i più dotti e i più saggi oggi avanzate: Rabbiosa invidia: abita o speco, o bosco;
Varchi, che verso il ciel tanto varcate, Pasciti di idre, e mira bieco e losco,
Che v'aggiugnete ai più beati cori: E fa d'altrui tempesta a te sereno;
Quel sacro allor, che eguali a suoi bei fiori Che'l mio buon Varchi è puro e saggio e pieno
Oggi i frutti produce e verno e state ; D'ogni valore, e non pur mentre è nosco
Quel, cui non solo voi tanto onorate, Ma vivrà sempre, e seco il suo gran Tosco,
Ma quanti son tra voi leggiadri cori; A cui sta Giove in fronte e Febo in seno.
Per farvi più ch'altro uom lieto e felice, Non vedi omai, ch'ei tra l'angoscie e i danni
E darvi quanto aver potete appieno, S'avanza d'umiltade? e d'onor quasi
Dopo tre lustri Amor vi rende e 'l cielo: S'impingua e gode, e tu sei magra e trista?
E dritto è ben, ch'al gran Signor di Delo, Coi mostri tuoi contra te stessa affanni
Ed a voi sol convien si ricco e pieno Un nuovo Alcide, chè per varii casi
Arbor celeste; a tutt'altri disdice. Sofferendo e vincendo il ciel s'acquista.
Risposta. Risposta.
L'arbor, che dentro sì buon frutti e fuori Quel, ch'io sapeva in voi regnare a pieno
Sì vaghi fior produce in ogni etate, Ver mc contra rabbioso invido tosco,
Lucio, e cui tanto a gran ragion lodate, Dolce affetto cortese or riconosco
Divini merta e non mortali onori: Quanto mai dolce e non cortese meno,
Onde dritto è, ch'ogni gentil l'onori, Nelle vostre alte rime, ch'unqua meno
Ed io via più, poi che le mie 'nfiammate Non verranno; onde meco insieme e voscº
Voglie d'onesto amor, tanto a lui grate M'allegro, ch'io non più negletto, e foscº
Fur sempre e più, quanto le vostre a Dori. Sarò, ma chiaro o tra i non vili almeno;
Ed or, s'ad uom mortal dir tanto lice, E voi, caro mio Pitia, con quei vanni -

Di cotal gioia il petto m'empie, e 'l seno, Ch'Amor vi die tra i Bembi, i Molzi e i Casi
Ch'io non temo di morte il duro tclo: V' alzate sì, ch'uscite a noi di vista;
E già parmi veder mio bianco pelo E lei, che 'l riso altrui fa propri affanni,
Tornar quale era nel dolce e sereno Co” cigli in terra di baldanza rasi,
Stato, ch'al cor m' andò l'alta radice. Di fuor tacita guarda, entro s'attrista.
PARTE SECONDA 583
M. Francesco Maria Molza. M. Fabrizio Storni.

Mentre che lieto vi godete all'ombra, Varchi, che delle Muse al sacro varco,
Varchi del vostro casto, amato lauro, A ogni vostro voler sì ben varcate,
E con saldo martel formate d'auro Onde vanto si alterne riportate,
L'immagin donna, che d'amor v'ingombra, Che spogliate d'onor chi n'è più carco ;
L'alta beltà, ch'ogni vil voglia sgombra Spezzar vi vedo al crudo arcier già l'arco
All'alma stanca, e a lei porge restauro, Col dolce suon dell'alte rime ornate,
Ricca d'un suo gentil proprio tesauro Vincer la morte, e lunghe le giornate
Il core in parte or quinci, or quindi a d ombra Brevi del tempo far rapace e parco.
E duolsi pur, che lunge al nostro fine O voi beato, che nel tempo nostro
Fragil barchetta a duro scoglio appoggia, Voi vivo ancor vedete in mille carte
U' rompe il cieco suo popol perverso, Pascere eterna gloria il nome vostro.
Ch or le contrade strane e pellegrine Il cielo ad altra penna non comparte
D'Egitto membra, e sotto verde loggia Ne più felice, nè più degno inchiostro
Di Faraon trionfa in mar sommerso. Di quello ch'alla vostra instilla ogn' arte.
Risposta. Risposta.
Sperai ben già sotto la sua dolce ombra S'io fossi come voi leggiero e scarco,
Ornar, Molza, cantando un vivo lauro, Fabrizio, in dolce e cara libertate,
E del suo gran valor più saldo, ch'auro Vosco forse tra l'alme alte e pregiate
Che d'alta gioia e bei pensier m'ingombra Salirei il monte, ove per me non varco;
Opra formar di quelle, che non sgombra E ben fora uopo ogni terrestre incarco
Morte, tal hanno contra lei restauro : Da sè lungi sgombrar, come voi fate,
Or, non che sprima il suo ricco tesauro, Chi volesse appressar le verdi, amate
Lo stil mio frale, ma non pur l'adombra. Frondi, di cui lo cor non mai discarco.
E con voi duolsi, ch'a non vero fine Dunque beato voi, non io, che mostro
Vada la bella, ch'a vil piombo appoggia A dito in questa sete e 'n quella parte,
Speme di vetro con pensier perverso, Ricco d' altro tesor, che gemme ed ostro,
Dietro l'empio suo stuol, che peregrine Mentre io senza governo, ancore e sarte,
Strade or rimembra sotto ombrosa loggia, In questo mar con rea fortuna giostro,
In più reo mar, che Faraon sommerso. Ove ha men doglia chi più tosto parte.
Mons. M. Leone Orsino. M. Porzio Romano,

Con questi ormarò io l'altero crine Varchi, ch'al mondo le faville spente
Al Varchi mio, poi ch'ei col vago stile Della virtù raccendi, e ogni gentile
Orna il mio nome, e non si prende a vile Spirto fai gire al ciel con chiaro stile,
Alzarmi al ciel con sue rime divine. Che 'n versi e 'n rime risonar si sente,
Faccia di fior vermigli e mattutine Deh ! se lieto riveggi la tua gente,
liose a voi intorno il ciel mai sempre aprile, Non ti sdegnar, se forse prendi a vile,
E sian col vostro canto alto e gentile Ch'io cerchi col mio dir si basso e umile,
Le sante Muse dal principio al fine. Farti gir dove il merto tuo consente.
Con voi, mio figlio, il suo celeste suono Ch'a ciò il mio gran disio mi sforza e accende,
Accordi il sacro Apollo, e siavi ognora Se bene uopo non ſia che 'l tuo gran nome
Felice ai versi vostri, ai vostri onori, Chi pensa far maggior, s'adopra invano.
Sopra la riva d'Arno in alto tuono Chè tutti san che rado in altri splende
Così lieta dicea la bella Flora, Tanta gloria ed onor ; tutti san, come
Verdi lauri tessendo e bianchi fiori. Ercol ti vede a sè poco lontano.
Risposta. Risposta.
D'edera sacra il sacro e dotto crine, Porzio, in me son tutte faville spente
Pastori, ornate, e voi col vostro stile Se non quelle d'Amor ch'ogni gentile
Venite, o Muse, e non aggiano a vile Ne sforza ad amar voi col vostro stile,
Cantar lode mortal voci divine. Che lodar tanto a tal ragion si sente.
Altri fiori, altre rose mattutine Così lieto veder possa mia gente,
N'apporta al mondo il vostro ricco aprile, Com'io men pregio, non che prenda a vile
Mansueto Leon, d' Orso gentile: Vostre alto dir, che basso oggetto umile
Tale è 'l principio, or che ſia dunque al fine? Sua merce, non mio merto alzar consente.
Già s'ode infino al ciel l'altero suono, Il bel disio, ch'oltra 'l dover v'accende,
Ch'al suo bel Tebro e a sette colli ognora Rivolgete a lodar più degno nome,
Rende gl'antichi lor perduti onori. Che 'l mio chi cerca ornar, fatica in vano.
Si disse lieto, e poi cangiato tuono Cantate quanto ognor più chiara splende
Si volse e sospirò Damone: O Flora Del gran Leone Orsin la fiamma, e come
Pruni e stecchi son fatti i tuoi bei fiori. Ercol gli deve, non al ver lontano.
584 -
SONETTI
M. Jacopo Marmitta. Mons. M. Daniello Barbaro.

Varchi, alle rime vostre chiare e pure Varchi, d'oneste hrame anima piena,
Qualora io pongo le mie fosche a paro, Ch'al vero ben poggiando, il falso e 'l torto
Il ciel sereno, e delle stelle il chiaro Non sprezzi a caso, anzi prudente accorto
Scorgo nell'ombre della notte scure. Gir ti sei messo ove virtute mena;
E conoscendo quelle esser secure Non guardar s'io con affannata lena
Già dall'ira del tempo invido, avaro, Te seguo, che dal tuo lume son scorto,
In me nasce un disio, se vi ſia caro, Spinto da puro affetto, e veggio il porto,
Che seco a morte il nome mio si fure, Benchè non abbia ardir sperarlo appena:
Questo avverrà, se lieto accoglieranno - Deh ! dimmi, come avvien, che tanto o quanto
Lui nel suo grembo, e porteranlo al tempio Non scemando il desire, il cor s'agghiaccia,
Dell'immortalità col vostro insicme: E'n mezzo del timor diventa foco?
E poco è lor, che con illustre esempio Perchè tra la speranza si procaccia
Non solo a me, ma al secol nostro danno La morte ? e nel gioire abbonda il pianto,
D'eterno onor, d'immortal vita speme, Mentre Amore il travaglia in pena e'n gioco?
Risposta. Risposta,
Se morte o tempo omai non scemi o scure, Anima bella e di bontate piena,
Marmitta, il nome vostro è grande e chiaro, Che'l vero amando e'l dritto, il falso e'l torto
Anzi più d' ora in or pregiato e raro, Saggia discacci, e con leggiero, accorto
Fra più rari e pregiati eterno dure: Piè poggi il monte, ch'a virtute mena;
Come è che 'l vostro stil, che gli altri pure Io son, che i passi e l'orme tue con lena
Dicon tutti lodando alto e preclaro, Seguo affannata, e 'n questo mare scorto
Sì delle altrui, solo a voi stesso amaro, Dal tuo bel lume, omai prendere il porto
Delle mie basse e 'ncolte rime cure ? Cerco, ma di lontan lo scorgo appena.
Io per me canto a disfogar l'affanno So ben per pruova, e non men doglio, uanto
Del mio bel nido, e lamentar lo scempio Spesso si teme e spera, arde ed agghiaccia,
Duro che 'l Leon frena e 'I giglio preme: In mezzo a calda neve e freddo foco.
Onde se ben me stesso e voi contempio, Come, non so ma forse Amor procaccia;
Le mie note per voi note saranno, Dar morte e vita insieme e gioia e pianto,
Non le vostre per me, sole e supreme, Che soli anciderian la pena e 'l gioco.
M. Mario Bandini. a M. Michele Barozio.

Varchi, di cui la saggia ed alta mente Varchi, col chiaro ed alto e dolce suono
D'error nemica ognor fugge e si toglie Delle rime, che sono al mondo sparte
Da quanto segue il volgo, e giuste voglie Portando il nome vostro in quella parte,
Avete al bene oprar sempre più intente; Dove per mio destin sovente io sono,
Io m'allegro veder l'armi in voi spente Piacciavi poi ch'io i bel stile abbandono,
Di fortuna crudel, che dona e toglie Ch'a voi non manca nè l'ingegno o l'arte,
Come a lei piace, e ricchi pregi e spoglie Di lodar la mia donna in mille carte;
Dà spesso a sciocca e più malvagia gente. Di cui anch'io talor scrivo e ragiono.
Voi ven gite ora a quella fiamma viva Ma degno è ben, ch'una bellezza tale,
Di virtù acceso, ch'Arno e 'I Tebro altero E l'angelico suo raro sembiante
Chiude egualmente nel capace seno. Sia da voi, signor mio, fatto immortale,
Deh! ditele, un che d'Arbia in su la riva Che volate nel ciel con tali e tante
Nacque, servo or di Marte orrido e fero, Ali d' eterna fama fresca e verde,
Desia nel veder voi saziarsi appieno, Ch'al mondo alcun vigor giammai non perde
liisposta. Risposta.
Saggio signor, dalla cui alta mente Deh, non mettete, prego, in abbandono,
Osni basso pensier fugge e si toglie, Barozio, il bello stil, che voi diparte
Si tutte avete al ciel dritte le voglie Dall'altra gente alteramente, e parte
Al giusto solo e comun bene intente: Fa di se largo altrui gradito dono:
Che più porriano accese in me che spente Io per me quasi roco augel risuono
L'armi di lei, che tutto dona e toglie, Tra i più canori cigni, e voi in disparte
S'ella rado, o non mai povere spoglie Sormontando i più chiari, a parte a parte
Sospese al tempio suo d' oscura gente? Lasciate indietro quei che primi sono.
Ma voi, che quasi ricca fiamma viva, Dunque, se fu giammai voce mortale
Tra folte nebbie e pioggie con altero Forte a cantar cose divine e sante,
Lume d’esto atro mar scorgete al seno, All' alto volo, e di voi degno, l'ale
Pi tener più fortuna giunto a riva, Spiegate omai signor, ch'a tutti innante
Cercate umile in pace e 'n guerra fero, Andate si ch'ognor più si rinverde
Nel gran Bembo veder, 3azi vi ap, ieno, La fama vostra, e mai nulla sen perde,
PARTE SECONDA 585
M. Bernardino Tomitano. Mf. Emanuel Grimaldi.
-

Varchi, chi tiene il tuo pensiero oppresso? Pien di casto desir, di santo ardore,
Amore, o forse a libertà sei giunto ? Signor, vi veggio, onde infiammato anch'io,
Tienti la donna tua più il cor compunto, Vo tra me rivolgendo il bel disio,
E 'n atti ed in parole si dimesso? Ch'ad onorato vol m'impenna il core;
O pur d' intender Dio t'è omai concesso, Quinci Amor mi ritrae, quindi l'onore
Per far de'studii tuoi ricco trapunto, Mi spinge, e punge, e sprona, che pur mio
Da impallidire ancora in un sol punto Sarà 'l danno e 'l disnor, se non m'invio
Italia tutta, e forse il mondo stesso ? Per quel sentiero, onde mi tolse Amore.
Ch' è di colui, che delle sagge Muse Varchi, io non so pensar più dritta strada,
Governa il coro, e tiene il primo seggio, Nè più piana d'alzarsi al ciel, che quella
Bembo, che di par teco onoro ed amo ? Ch'amica vi fu sempre da' primi anni.
Io per colei, che 'n la prigion mi chiuse Lei ben cerco io, ma a mie voglie rubella
D'amor via più che mai stolto vaneggio ; Mi s'asconde, e mi fugge, e doppia affanni,
Sol te nei danni miei sospiro e chiamo, Convien dunque per voi, ch'ad essa io vada.
Risposta. Risposta.
Bernardo, amor che i più gentili spesso Grimaldi, io vorrei ben fuor degl'inganni
Più lega e stringe, in così forte punto Del mondo cieco per via dritta e bella
M' avvinse, ch'io non fui poscia disgiunto Alzarmi al ciel, ma sorte acerba e fella
Pure un' orma da lui, nè sono adesso, Mi spenna sempre a si bel volo i vanni:
Nè sarò, credo, mai, se ben me stesso Ond'io che da vicin gli ultimi danni
Conosco e mia vaghezza, e dove giunto Vedo, e già sento lei, che rinnovella
Alto n” ebbe destino, allor che appunto Ciò ch'è sotto la luna, di mia stella
Il quinto lustro era al fornir ben presso. Mi doglio e temo non invan m'affanni:
Questi le vie del ciel tanto erte e chiuse Voi ben conforto e prego, or che favore
M'apre, e fa piane sì, ch' omai non deggio Del ciel vi chiama, a così santa e rada
Non isperare al crin l'amato ramo; Opra seguir fuor dell'eterno obblis;
Quel chiaro mostro, in cui natura infuse Ma più fidata scorta e via migliore
Tutte sue doti e 'l ciel, sì come io cheggio, Duce di me prendete, che restio
Felicissimo vive e dove bramo. A ciascun passo non adombre e cada,

M. Antonmaria Paccio. Il medesimo.

Di corona di lauro cinte intorno E volar cervi e abbandonati e nudi


Spero, Varchi, veder prima ch'io mora Pesci del suo natio umido albergo
Le tempie vostre, e 'l nome ch'oggi onora Viver vedransi, e senza i dolci e crudi
La città d'Antenòr, vostro più adorno: Strali l' arcier, cui tante carte vergo,
Perchè s'alle opre, che di giorno in giorno Prima ch' io lasci il gran valore a tergo,
Fate più belle, anzi pur d'ora in ora, Con che i vostri alti ed onorati studi,
Non ſia avversa fortuna, infino ad ora Varchi, là ºve io col vostro esempio m'ergo,
Fatto avete alla morte ingiuria e scorno. V' eternam sol più che martello, o 'ncudi,
Però v'esorto a seguitar l'impresa, Non temessi io, che la mortal mia lingua
Che sola vi può far degno di fama, A parlar delle vostre immortali opre
Lasciando addietro il volgo inerte e vile. Non ritrovasse al bel principio il fine ;
Lasciate all'altra di guadagno accesa Come, s'avvien che col pensier distingua
Gente seguir quel che più prezza ed ama, L'alte virtù, che 'l terren vostro cuopre,
E voi tenete il vostro usato stile. M' accendo a dir di voi cose divine,

Risposta. Risposta.
Tanti mi stanno al cor dentro e d'intorno Se d' ogni ingegno abbandonati e nudi
Pensieri agri e si forte ognor m'accora, Pensier nutriti in basso e scuro albergo
L'andato tempo, e 'l veder l'ultima ora Che contra i colpi tanto spessi e crudi
Sempre più presso dell'estremo giorno, Di fortuna e d'invidia in carte vergo,
Che per far lieto e scarco ivi ritorno, Non volete lasciar, Grimaldi, a tergo, -

Dove l'eterno e sommo Ben s'adora, Che farete degl'alti e chiari studi,
Scaccio dall'alma ogn'altra cura fora, Di quei, per cui talor da terra m'ergo
E solo a Dio colla memoria torno, Per farmi qual non puon martello o 'ncudi?
E 'I prego umil, che non mi sia contesa Mla tento indarno, e sol la vostra lingua
La via da gire ove mi scorge e chiama Là puote alzarmi, ove non giunsero opre
Voce dal ciel, che nessun tiene a vile ; Mortali, ancor ch' hanno col tempo fine :
Dietro quell'alma pianta, ch'ogni offesa Dunque, perchè dagl'altri vi distingua,
In pro sempre mi volge e mi richiama Spieghi omai vostro stil quella, che copre
Dall' altra gente, e fammi a se simile. Vana temenza in voi, virtù divine.
VARCI il V 1, a
586 SONETTI
Il medesimo. M. Bernardin Ghezio.

Poi ch'Alessandro la famosa tomba Perchè non erge a voi Toscana altari,
Del buon cultor del bello, amato alloro Varchi famoso, a cui la nostra etate
Alzò con rime che portate foro, Deve più ch ad alcun, poscia che fate
U' non salio qual miglior arco o fromba, Gir l'Arno al Tebro e al gran Peneo di pari?
Al vivo suon dell'onorata tromba, A voi, spirto rarissimo tra i rari,
Ordite, Varchi, un sì gentil lavoro, S'inchinan tutte l'anime ben nate,
Che mostri quanto al chiaro stil sonoro Quante oggi son tra noi, dotte e pregiate,
Più che 'n guisa mortale al cici rimbomba. Mercè de' vostri inchiostri alteri e cari.
Si non v'apporti duro oltraggio e scorno A voi si denno i verdeggianti allori,
Nemica stella, e de felici odori A voi, cui tanto alzaro arte e natura,
V'ornin le Ninfe l'amoroso scno ! Che dell'uso comun vi trasser fuori.
Si sempre l'aer vi si mostri ameno, Invidia, se ben tarda, pur non fura
Per voi risuoni d'Alessandro intorno A chi n' è degno i meritati onori,
Il sacro nome, e gli si spargan ſiori ! E nulla mai contra virtute dura.

Risposta. Risposta.
Avventurosa e ben gradita tomba A que bei rami soldi gloria avari,
Del gran cultor del primo verde alloro, Che mai non perdon fronda, o verno, o state
Le cui lodi pur dianzi alzate foro, Si deve, Bernardin, quanto voi date
U'non gingne pensier, non ch'arco o fromba: A me per far le piche ai cigni pari.
Poi che chiara non ho condegna tromba, Dagli inchiostri di voi non da me impari,
Che dietro così ricco alto lavoro, Le vostre prema, non le mie pedate,
Secondar possa il dolce stil sonoro Chi brama dopo l' ultime giornate
Del picciol uom, che sì grande or rimbomba; Restar qui vivo tra gli spirti chiari.
Per cessar l'altrui biasmo, e 'l proprio scorno Voi, voi, dico, non me legga, ed onori,
Taccio, ma 'n quella vece arabi odori S' alcuno in questa età di ferro cura
Porto, Grimaldi, pien le mani e 'l seno. Seguir del santo Apollo i sacri cori.
Fd umilmente sopra il colle ameno L'invidia, Ghezio mio, sempre procura
Gli andrò versando alle sacre ossa intorno. A se stessa dolor, biasmo ai migliori,
Spargendo lieto al ciel fronde, erbe e fiori. E virtù vince ogn'aspra cosa e dura.
M. Francesco Matteucci. M. Antonmaria Carobello.
Varchi gentil, cui scuopre ogni cagione Varchi, che per questo ampio, umido seno
Dell'opre sne natura alte e stupende, Varchi sicuro le più orribili onde,
S'ella il fin solo, in cui s' acqueta, intende, Deh! se mai sempre a tuoi desii seconde
E per lui sempre il tutto opra e dispone: Spirin l'aure, e si mostri il ciel sereno;
Ond'è che meta al suo desir non pone Questo mio legno, ch'ha sì debil freno
Amante mai? se ben null'altro attende Carco di gravi errori ambe le sponde,
Dalla sua donna, cui benigna rende Pria che per troppo ardir fra scogli affonde,
Amor? s'al voler suo nulla s'oppone? Scorgi del verno fuori al lito ameno:
E s'in un luogo star non ponno insieme Tal che Nettuno ogni suo fero orgoglio,
Mai duo contrari, ond' è che si sovente Ogmi turbata vista adopre invano,
E ghiaccio e foco in lui, timore e spenne? Merce del sagro, valoroso ingegno;
In ne starà, signor caro e prudente, E Teti poi dal più gradito scoglio
Questa nube, ch'assai m' offusca e preme, Canti, e seco le Muse a mano a mano;
Fin che men sia per voi sgombra la mente. Varchi, tu varchi il più onorato segno.
Risposta. Risposta.
Il vostro grande Amor, fuor di ragione, Carobello gentil, chi spiega il seno
Francesco, in me lodar troppo si stende: Alla sua vela, e non sa come, o donde
Natura sempre solo al fine attende: Vada, come feci io, forza e ch'affonde
Sol questo a lei, ch'adopre e cessi, impone. La nave, e tanto pria quanto e più pieno;
Ma chi crede, ch'Amor, s'avvien che done Ma voi d'ogni saver colmato il seno,
Quanto ha, doni anco il fia, non ben lo'ntende: Cinto le tempie di quell'alma fronde,
Corpo non entra corpo, e non si rende, Ch'io bramai sola e sempre, perch'altronde
Un d'ambi, snde seiolta è vostra quistiene. ſcercate quel che 'n voi si truova a pienº
Ben avvampa ed agghiaccia e spera e teme Pure io, qualor più mi spavento e doglio,
Servo d'Amor, ma non già insiememente, Veggendo in questo orribil mare insano
Ch ora è gielo, or è foco, orride, or geme. Gir per perduto il mio smarrito legno;
Senza che privilegio han si possente A quel Nettuno, pien di speme soglio
Gl'amanti e forze amor tanto supreme, Volger la voce, e 'l cor, che scarso e vanº
Ch'a nulla sottostar legge consente. Prego gialamai non fece unile e degno.
PARTE SECONDA 7
M. Filippo Valentino. M. Bernardo Capello.
Benedetto, io son là, dove 'l troiano Sciolgasi in tutto da terreni affetti
Semc pria obbli l'antica Troja Chi di poggiare al ciel vestir vuol piume;
E come piace a Dio, tanto da noia False di ben sembianze e breve lnme
Quanto dalla mia patria io son lontano: Son vostre glorie e vostri uman diletti.
Qui di speme il tuo allor, che di sua mano E quale incauto augel, cui 'l cibo alletti
Piantàr le Grazie, e m' empie ognor di gioia, A visco, o lacci il senso, il rio costume
Qui miro io lui, che perchè pur si muoia, Del mondo cieco par, che l'almc impiume
Non ha donde temer del caso umano; Pur dietro a lor, come a salubri obbietti.
Dico il gran Bembo, cui con tanto onore Misere! ch'a prigion dura le guida,
Canta, ed è ben ragion, tuo stile altero, Ove rado, o non mai uscio si chiude
lo talor con lui parto i passi e l'ore. A chi ferma ambo oltra la soglia i piedi;
Così ci fossi tu col corpo intero, Cosi'l gran Bembo inſin dal ciel mi ".
Com'io, e pure hai qui contento il core, Varchi, e con l'ali della sua virtude
Ombra e vista di te degna nel vero. M'erge pietoso alle beate sedi.

Risposta. Risposta.

Quanto il contento vostro alto e soprano, Se lui, che fu de'pensier vostri eletti
Valentin mio gentil, m'aggrada e 'ngioja Condegno albergo e mio terrestre nume,
Tanto mi spiace poi, tanto mi moja Dal più bcato e bello alto cacume,
Dalla Brenta e da voi viver lontano; Ove or s'asside in mezzo ai più perfetti:
Quivi è 'l bel Lauro, che di mano in mano Com'uom, che sempre negl'altrui sospetti
Dolce tutto mi fa quel, ch'altri annoia Dar consiglio e soccorso ebbe in costume,
E'l buon Bembo, che sempre o viva, o muoia, Di questo d'ogni error profondo fiume,
Avrà di me la miglior parte in mano. Vi mostra il guado agl'eterni ricetti;
Così mi desse il signor nostro Amore Ragione e ben, che dietro a così fida
Condegno stil, che non scemasse il vero, Scorta v'alziate, ove quel ben si chiude,
Cantar d'entrambi il singolar valore : Al qual ne chiama il sommo Padre eredi.
E si ben questo aver giammai non spero Ben sento anch'io talor l'amiche grida,
Non fia però, ch'io non gl'ami ed onore E m'ergo al ciel, ma'l varco il senso schiude,
Quanto debbo e potrò dentro il pensiero. E guarda più, che mille lance e spiedi.
Mons. M. Pietro Bembo. M. Agostino Beatiano.
Varchi, le vostre pure carte e belle, Varchi, scolpito del gran spirto avete -

Che vergate talor per onorarmi, Nel petto il nome, quale in marmo segno,
Più che metalli di Mirone e marmi E di dottrina ricco, ire e d'ingegno
Di Fidia mi son care e stil d'Apelle. Al par di qual si voglia oggi potete;
Che se già non potranno e queste e quelle Di lui non però al merto anco giagnete,
Mie prose, cura di molti anni e carmi, Nè vi recate ciò, ch'io dico a sdegno;
Nel tempo che verrà lontano farmi, Si fu di loda sovra ogni altro degno;
Eterna fama spero aver con elle. Onde inſinita or fama e gloria miete.
Ma dove drizzano ora i caldi rai Voi con quella del dir sì larga vena
Dcll'ardente dottrina e studio loro Col tosco ragionar, col modo accorto
I duo miglior Vittorio e Rucellai ? D'alta virtù mostraste l'alma piena,
Questi e 'l vostro Ugolin, cui debbo assai E mentre averà Febo occaso ed orto,
Mi salutate. O fortunato coro, L'aer vento, onde l'Adria e 'l lido arena,
Firenze e tu che nel bel cerchio l' hai. Vivo terrete il Bembo così morto.

Risposta. Risposta.
Bembo, il ciel non potea tutto e le stelle Beatian, chi pensa all'alte mete -

Più saldo nome e maggior gloria darmi, Delle lodi arrivar di lui, che 'I segno
Che far dal vostro eterno stil cantarmi, Varcò qui d'ogni onore, or nel suo regno
Perchè 'l mondo di me sempre favelle; Gode fra l'alme più felici e liete;
0 dolci, inaspettate, alte novelle, Del tutto è folle, ed io, se nol sapete,
Perch'io, che 'nfino a qui solea spregiarmi, Di me medesimo mi vergogno e tegno,
Quasi in odio a me stesso, or voglio amarmi, Ch'ogn'altro stil sia di parlarne indegno,
Quai sian le sorti mie benigne, o ſelle. Se non se quello, onde voi chiaro sete,
Lo studio del duoi buon vince d'assai Come dunque poteva umile avena
Se stesso vòlto (ond' io via più gl' onoro) Di pastor poco scaltro e male accorto,
Al comun ben che langue in nuovi guai; Gir dove va tromba sonora a pena?
Questi e 'l caro Martel ch'io salutai Io ben nell'alma portai sempre, e porto
A nome vostro, o mio nobil tesoro, Con quella fronda, ch'a buon fin mi mena
Fur di voi sempre, cd or son più che mai. Il nome, ond'è l'antico onor risorto.
588 SONETTI
M. Luigi Tansillo. La signora Laura Terracina.
Mentre lunge dal ricco e nobil piano, Varchi, in cui dalle sacre amate fronde,
Ch'adombra il gran Vesevo e bagna il Sarno, Il biondo Apollo ogni eccellenza infuse,
Di regno in regno io corro 'l mondo, e'ndarno Tal che le voglie di tutt'altri escluse,
Cerco al crin di fortuna gittar mano; Solo al canto di voi gode e risponde;
Rotto dal corso in su 'l terren toscano Un bel disio, che nel mio cor s'asconde,
Di febbre e di dolor mi struggo e scarno, Dove l'alta virtù vostra lo chiuse,
Benchè, s'io cado in su la riva d'Arno, Vuol ch'io mi scuopra, e me stessa v'accuse
Non mi parrà d'aver sepolcro strano. Del mio ardir, ch'al saver non corrisponde,
Se scritto è pur ne'libri delle Parche, Questo vi mostra una ignoranza spressa
Ch'io qui mi ghiaccia, ad uom fuor del natio Di giovin donna, che con passo errante
Nido, spento, non sian vostre man parche; Va cercando del ciel la dritta via;
Perchè 'l nome non chiuda eterno oblio, Perchè lascia l'impresa, in ch'era messa,
E l'ombra anzi cento anni Stige varche, E cede a voi com'uom saggio e costante,
Vi raccomando, Varchi, il cener mio. Quel che pensava di dover dir pria.
Risposta. Risposta.
Tansillo, che quel dolce e lieto piano, Laura novella, in cui chiude ed asconde
Dove siede Vesevo e corre Sarno, Quante già nell'antica ascose e chiuse
Col cantar vostro alzate si, che 'ndarno Grazie e virtuti il ciel, rade volte use
Stenderà morte sopra voi la mano: Di pari ornar, se non la Febea fronde :
Ben del vostro languir tristo il toscano Al vostro dolce suono ambe le sponde, PMl
Paese duolsi, ed io tutto mi scarno U' più fiate le toscane muse
Veder mesta con voi la riva d'Arno, Vinser cantando i Menci e l'Aretuse,
Che v'ha fra noi maggior, non tienvi strano. Inerbi e 'nfiori il bel Sebeto, e 'nfronde.
Io quel che posso, umilmente le Parche E voi, ch'a nostri di Minerva stessa
Divoto pregarò, ch'al bel natio Col senno ne rendete e col sembiante,
Nido vostro tornarvi non sian parche, Che i più feri e selvaggi al cielo invia,
E perchè 'l vostro nome eterno oblio Perchè mostrarvi a me tanto dimessa?
Non teme, vedrò sol che l'ombra varche, A me, che di lodar non son bastante
Coprendo insieme il cener vostro e mio. Vostra alta impresa, non che farla mia?
Il medesimo. La medesima.

Varchi, se forza mai d'amor s'intese, Il cor mi trema e mi s'infiamma il volto


E per pruova da voi quanto ella sia, Qualor penso io di por la penna in carte,
Di scusa indegna questa man non ſia, Chiaro scorgendo in me poco, nè molto
S'a tor penna per voi si raro intese. Senno, giudizio, stile, ingegno ed arte.
Da poi che ne suoi lacci Amor mi prese, Che farai dunque o dislo vano e stolto?
Tutto m'ha posto nell'altrui balia, Avrai baldanza di si innanzi farte,
Nè mi lascia di me parte sì mia, Ch'ardisca a dir del raro onore accolto
Che mostrar me ne possa altrui cortese. Nel gran Varchi figliuol d'Apollo e Marte?
Da che si desta il sol fin che si corca U’ mai si vide un più dolce soggiorno,
Della nemica mia mai non perdo orma, Qual nel Varchi gentil, dotto e costante,
Ed agl'altri ed a me m'ascondo e niego: Che fa d'oscura notte un chiaro giorno?
Poi quando il piè convien che da lei torca, Or taci, stil di nessun merto adorno;
Tutta notte con l'ali, o vegli o dorma, Che s'avrete più ardir spingervi innante,
Ora del sonno, or del pensier la sego. Di fama in vece acquistarete scorno.
Risposta. Risposta,
Non pria quasi entro i cor dal ciel discese, Come polve talor cui l'aura, tolto
Tansillo, l'alma per si lunga via Da bassa e vile in alta e cara parte
Ch'ella per benigno astro e sorte pia, Sospigne, i maggior re sorvola e molto
D'alto foco e gentil tutta s'accese: Da sè malgrado suo fuggendo parte:
E poscia di di indi, di mese in mese Tal io, cui 'l vostro dir leggiadro e colto
Per l'alta già d'Apollo ed oggi mia Dal volgo umile alteramente parte,
Pianta ognor crebbe, e cresce or tuttavia: Fra i più sublimi spirti al ciel rivolto
Si fu viva la fiamma, e tal l' accese. Virtù vostra, e non mia, seggio in dispartº
Perch'io non che vi scusi, assai vi prego, Ma quante volte colla mente torno
Ch” un punto solo a mia cagion non torca Al mio stato primier, tutto tremante
Dall'usato suo stil la vostra norma; Temo non fare, onde partii, ritorno.
Seguite pur: così chiaro v'attorca Così speme e timore entro e dintorno Del
Stame la Parca, senza scusa o priego, M'assicura e mi sfida; onde ora avante
La bella impresa, come Amor v'informa. Lieto trapasso, or tristo il piè distorno,
PARTE SECONDA 589
M. Gio. Alfonso Mantegna Il S. Giovannantonio Seroni.

Varchi, che i bei leggiadri e degni effetti Di si bel volto mai si caldi insieme
D'ogni altero pensier conduci al varco, Lucidi rai non ebbe al mondo alcuna,"
E sgombro d' ogni vil terreno incarco, Come costei, ehe d'alba e stelle, e luna
Il piè dove altri mai non pose, metti; Col sol de' suoi begli occhi oscura e preme.
Sappi che nella schiera del soggetti Non abbia alcun mai più nessuna speme
Io sono di colui che mai non parco Od in arte o natura od in fortuna:
Fu del sangue d'altrui, nè 'l suo forte arco Che 'l Mastro eterno di sua man quest'una
Colpi fe mai da cor non vil negletti, Feo di lume e valore altero seme.
Mercè d' una gentil colonna, in cui Varchi, il cui chiaro suon riluce e tuona
Il fiero Arcier s'appoggia e pien d'ardire Da terra al ciel, se voi ferì con l'armi,
Scocca quei dardi ond'io piagato fui. Od arse mai con la sua face Amore,
Così conviemmi, lasso me! languire, Pregate lui tra l'ombre in Elicona,
Nè perch'io me distrugga, o-preghi lui, Neghittoso non sia salute darmi,
Spegner basto gli sdegni o placar l'ire. Ch'ella m'ha quasi omai tutto arso il core.
Risposta. Risposta.
Dolce Mantegna, gl'amorosi affetti, Così 'l tempo giammai non tolga o sceme,
Onde vi duol, se 'l ver comprendo, ir carco, Ch' ogni nostra chiarezza al fine imbruna,
Spedito vi faran sentiero e varco Seron mio, vostra gloria, che nessuna
Da volar sopra gli stellanti tetti: Altra forza nè 'ngegno o 'nganno teme;
Io per me senza lor già mai non stetti Come non vide in me sue fiamme sceme -
Nè mai starò, che sol per questi varco, Amor, quasi dal dì ch' uscii di cuna,
D'ogni peso mortal libero e scarco, Ed or l'arco e le faci insieme aduna
A spregiar tutti ad un gl'uman diletti, Perch'a doppio arda in doppio foco e treme,
Mercè d' un verde e sacro alloro, i cui La bella e casta che si chiaro suona
Santi rami felici al ciel salire Per ogni parte ne' vostri alti carmi,
Fan di sè scala, e non guardano a cui. Eterno avrà per voi nome ed onore.
Perchè sdegnarvi no, ma ben gradire Quel Dio ch'al ciel l'alme non vili sprona
Dovete, che vi sforzi Amor tra' sui Prego che voglia e ſia, che dritto parmi,
Per si chiara colonna in alto gire. O'l ghiaccio in lei, o 'n voi spegner l'ardore.
M. Bernardino Rota. M. Lodovico Dolce.

Varchi, che dagl' Esperii a liti Eoi Varchi, che lieto al glorioso monte
Varcate solo, e ben con ricco arnese, Poggiando per gentil, spedito varco,
Da cui si varca, ove altri raro ascese, Gustato hai già di si bei frutti carco
Per cui varcano al ciel donne ed eroi; Il felice liquor del sacro fonte;
Gentil saluto, e fu degno di voi, Ben deve Febo omai la dotta fronte
A vostro nome, o dl lieto e cortese, Del vero lauro, onde è tra noi si parco
Passero diemmi, pari al Veronese, Cingerti dolce alle sue chiome incarco
Passer caro a' lontani e caro a suoi. Per guiderdon di tue virtuti conte.
Vana fama di me tanto oltra venne L'alto splendor, che 'l tuo fiorito nido
Ch'a mezza via senza dar nome al mare, Lassò fuggendo col più chiaro ingegno,
Caderà giù con liquefatte penne: Che producesse mai la riva d'Arno,
Io vi dono di me quanto uom può dare. Molti e molti anni in lui bramato indarno,
Certo che Dio talor pago si tenne Per te ritorna, e 'l tuo famoso grido
Con picciol fumo di negletto altare. Di più sublime onor ti mostra degno.
Risposta. Risposta.
fota gentil, che co' bei raggi tuoi Così vosco il mio nome altero monte,
D'ogni intoppo sicuri e d'altre offese, Spirto gentil, là ºve io per me non varco,
In alto ognor rotando, al lor paese Che non son come voi leggiero e scarco,
L'alme tornar, quantunque gravi, puoi: Nè le forze ho, quanto le voglie, pronte;
Ben debbo io dirmi omai felice, poi Come 'l vostro terrà perpetua fronte
Che quel ch'al desir mio fin qui contese In questo d' uomin spazioso parco:
Peso terren, dove altri ungua non stese Ma chi fia, cui non pieghi il grave carco,
L'ali, portarme alteramente vuoi. E che tante alte doti vostre conte?
Rara all'orecchie mie voce pervenne Ben l'immagin di voi nel core annido,
Più del Passero dolce; e mai più care E d' onorarvi col pensier m'ingegno,
Rime mio cor, nè don più grato ottenne Ma non potendo poi, mi struggo e scarno.
Del vostro ; e s' io non sono al merto pare, Basti dunque, s'ognor più a dentro incarno
Pur mi vi do, come già dare avvenne Il buon volere e disioso grido:
Vili arme oscure per pregiate e chiare. Dolce, perchè sono io d' ormarvi indegno '
59o SONETTI
Il medesimo. M. Lodovico Domenichi.

Varchi, che i lieti e bei vicini campi Varchi, sì come fu quel vecchio santo,
Ai lidi d'Adria alteramente onori, Mentre visse, da voi sempre adorato
Onde l' Arno sdegnoso ai nostri onori E con stil d'ambi due degno lodato,
Par che d'invidia sospirando avvampi: Ch'all'uno e all'altro ſia d' eterno vanto:
Deh, s'Amarilli tua coi chiari lampi Così credo or che ben l'avrete pianto,
Degl'occhi, ove lor seggio hanno gl'amori, E con rime e sospiri accompagnato,
T” apra le piaggie, e nascan rose e fiori, Alla memoria sua cortese e grato,
Dovunque il bianco piè l'erbetta stampi; Al suo verso di voi amor cotanto.
L'empio desir dell'ostinata mente Ma che fanno ora i vostri empi vicini,
Cinto di mille intorno aspri martiri, Colla musa di voi novelle piche;
Accheta col tuo stil cortese e pio. Sospiran più de' suoi pregi divini?
Così diceva Elpin mesto e dolente, Come han cangiato gl' odi e l' ire antiche?
E più volea seguir, ma dai sospiri Ben è ragion, che 'l Bembo ognuno inchini,
Fu interrotta la voce e qui finio. E che gli sian tutte le penne amiche.
Risposta. Risposta.
Dolce, se gl'amorosi ardenti vampi Domenichi, al gran Bembo ch'io cotanto
Accendon sempre i più cortesi cori, Amai ed onorai, da lui amato
Come ſia mai che da sì cari ardori Sua benigna mercede ed onorato,
Il vostro sì leggiadro e chiaro scampi? Di che più d'altro assai mi glorio e vanto,
Io per me prego Amor che tutte accampi Riso e gioia convien, non doglia e pianto,
Sue forze intorno al mio tal ch'entro e fuori Chè nel suo bel paese ritornato,
Di lui sempre arda, perchè negl' errori Ed alla par sua stella alto e beato,
Giammai del volgo non incorra e 'nciampi. Gode quel ben cui bramò solo e tanto.
Che puote ad uom gentil più dolcemente Che puonno i folli ed empi miei vicini
L'alma infiammar, che santi alti disiri, Con voi, cigno gentil, garrule piche,
Che 'i faccian quasi di mortale dio? Contra tanti di lui pregi divini?
Si rispondea Damon lieto e ridente, L'usato stile e le ree voglie antiche
E volea dire: Elpin perchè sospiri?, Tengan pur questi, e solo al Bembo inchini
Ma vinto da pietà più non seguio. Cui son le muse e le virtuti amiche.

Il medesimo. Il Mascherino.

Varchi, mentre che voi spiegando l'ali Il grido che di voi sì altamente
Del vostro alto intelletto in grembo al vero, Rimbomba in più d'uno idioma e s'ode
Fate non pure il secol nostro altero, Tal che d' udirlo ognor s'allegra e gode
Di rime, a cui ne van poche altre eguali; Il ciel che suso in ciel mai par non sente,
Ma vi schermite dai pungenti strali Ha sì di sè invaghita la mia mente,
Di morte e al tempo rio ponete impero, Che s'ella osasse dir le vostre lode,
Poggiando per drittissimo sentiero Gentil mio Varchi, ella si strugge e rode
Alle palme d'onor chiare e 'mmortali i Di scrivere il pensier che cria sovente
L'alma d' un bel disio tutta mi accende, Ma s'egli è pur conteso al poter nostro
E pur vorria, facendo a morte guerra, Si bel poter, che voi non giate altero
Fuggir l'oblio dell'infelice fiume: Però del valor vostro e chi vel vieta ?
Ma troppo è grave il peso che l' offende, Onde or può dire ogni gradito inchiostro,
Se non men scarca e levami da terra Inviato a parlarne e dirà il vero,
La salda aita delle vostre piume. Che Fiorenza ha bene oggi il suo poeta.
Risposta. Risposta.
Dolce, le prose mie, nè i versi tali Quai larve o dove mai si falsamente
Non son, nè ch' esser mai debbiano spero, Mi vi mostràr? qual sì mentita lode
Che da voi mertin lode ed io nol chero, Di me vi piacque? quale o forza o frode
Si poche sento le mie forze e frali; Fè vostre voglie a celebrarmi intente?
Pur m'arrischio talor quei miei fatali Come sì lunge e si caro si sente
Rami sfrondar cantando, che nel vero Quel che qui da vicin nessun non ode ?
Del Mantovan degnissimi e d' Omero, Dunque è costi chi poca luce lode
Hanno, onde non curar voci mortali, Cotanto, e creda il sol faville spente ?
In van dunque da me soccorso attende Ben puonno darmi il dolce affetto e 'l vostro
Chiunque, come voi lontan da terra Ingegno chiaro, onde bel frutto intero,
Sopra le penne altrui volar presume. Ma non già mio, degl'altrui campi mieta;
Ben pregarò colui, ch'ognuno intende, Perchè forse avverrà ch'a dito mostro
Che quello incarco che gl' animi atterra, Tra quei ch'a morte alta rapina fero,
Vi sgombri e agire al ciel l'ali v'impiume. Sarò, non mia virtù, ma vostra picta.
PARTE SECONDA 591
M. Bellesanti da Modena. M. Cintio Aurelio.

Quali mie rime mai tanto illustraro Come in l'Indico mar l'ardita pietra
Il nome mio ch'ei nel paese vostro, Tira a sè 'l ferro; così Varchi io sento
Varchi, sia così chiarº quai penne, o'nchiostro Me da me trar, mentre la fama intento
Appo voi tanto grido gl'acquistaro? Di voi sento sonar l' ornata cetra:
False lodi costà forse il portaro, Onde ogn'aspra durezza all'alma spetra
Da voi lume ed onor del secol nostro Si il dolce suon ch'ogni pregiato accento
L'hanno si chiaro ed onorato mostro Tengo per vile e son d'udir contento
Ch'a legger le mie ciancie v'infiammaro ? Sol la loda di voi ch' ogni altra arretra.
Dalle quai, sospirando il dico, ſia Già di lei suona ogni onorato lido,
Si ben l' acceso desir vostro estinto, E la fama gentil con piume d'oro
Che non s'udrà, che più vi scaldi il petto. Poggiar vi face alla più alta sede;
Quindi il grido che m'ha tra voi sospinto Ond'io che godo al bel pregiato grido
Quanto cangiato, oimè, dal primo aspetto Vostro, ch'a questa etate ogn'altro eccede,
Mi tornarà donde mi tolse pria. Sempre coll'alma e col pensier v' onoro.
Risposta. Risposta.
Il nome vostro è tanto illustre e chiaro, Spenda pur tutta in me la sua faretra,
Bellesanti gentil, non pur nel nostro, Raccenda, prego, Amor l'ardor non spento,
Ma ne' più stran paesi ch'ogni inchiostro Che nè languir, nè di morir mi pento,
Ne scrive e loda più chi è più raro: Poichè tal grazia in lui seguir s'impetra.
Ond io che volentier dai buoni apparo, Nessun del gioco suo giammai s' arretra,
Vo cercando imitar l' ornato vostro Che di fiamma acquistar porti talento
Dolce e gradito stile, in cui s'è mostro Senza il caldo di lui pauroso e lento
Ch'oggi agl'antichi si può gir di paro. Torpe freddo ogni core e quasi impetra:
Così di quella altera fronde e pia Perch' io, già sedici anni, albergo ſido
Degno facesse me lo Dio di Cinto, Dell'alma a rami fci d' un certo alloro;
Che d'ogni vil pensier mi sgombra il petto, Che sacro infino al ciel sorger si vede.
Come 'l grido ch'ha voi tanto alto spinto, Questi, se nulla or son, del che diffido
Crescendo sempre dal primiero aspetto, M' han fatto Cintio e la mia pura fede,
Vi portarà, dove non giunse uom pria! Dunque onorate non più me, ma loro,
M. Petronio Barbato. Il medesimo,

Varchi, che per drittissimo cammino Varchi, sì come col pensier v onoro,
Saliste di Parnaso al sacro monte, Così vorrei poter lodarvi a pieno,
U' ragionate al mormorio del fonte, Ma 'l vostro alto valor fa venir meno
Or con Virgilio ed or con quel d'Arpino; Ad ogni bel disio tanto lavoro:
Porgetemi la man, ch' a voi vicino Bastivi pur, che d' onorato alloro
Spedito e lieve omai, poggi e sormonte, V” orni le tempie il mondo e dal bel seno
E lungo l' acque velocette e pronte In voi versi ogni musa nel più ameno
Con voi m'asseggia sotto un mirto, o un pino. April ſiori ad ognor dal sommo coro.
O almen s'avvien ch' a tanta gloria alzarmi Sarebbe il lodar voi dar lume al sole,
Non possa, fate colassù si scriva E far con picciol rio maggiore il mare,
Dal vostro ornato stile il nome mio; E col piombo far l'or purgato o degno;
Che sempre ne' vivaci vostri carmi Ma ben l'alma ad ognor v onora e cole,
Usi far ch'altri a par del tempo viva, E tien che siete tra l' altre alme rare
Io mi sollevi dall'eterno oblio. Quella, ch' arrivi al più onorato segno.
Risposta. Risposta.
Barbato, io sperai ben, ma dal mattino Cintio, le dolci rime vostre altere,
Di mia novella etate, ornar la fronte Che troppo amore e cortesia dettaro,
Di quelle frondi gloriose e conte L'ardente affetto vostro e 'ngegno chiaro
Nello cui gran valor mi tergo e affino; Tanto più mostran, quanto men son vere;
Poscia, pia forza e mia, non mio destino, E si dirà di voi: Calde e sincere
Onde convien, ch'ancor pianga e n'adonte, Voglie ebbe sì, ma non giudizio paro,
Colà mi torse, ove par, che più monte Credendo col suo dir, quantunque raro,
Che più fugge Elicona e Caballino. Far bianchi i corvi e le colombe nere.
Perchè non pur dovete voi scusarmi Io da me nulla son, ma talor dietro
Che da me così tardo si riscriva, L'alta pianta del Sol mia scorta e guida,
Nè dea quello ad altrui, che non ho io, Dal mondo tento e da me stesso torme.
Ma io al fermo stil vostro appoggiarmi, Dunque soggetto degno a lui conforme
Perchè vosco e per voi mio nome viva, Prenda vostro alto stil, che 'n van si ſida
Quell'è che per gran tempo invan disio. Far diamante parer ben fragil vetro.
592 SONETTI
M. Pietro Medonio. M. Gio. Battista Pellegrini,
Varchi, se 'l bel disio ratto vi guide Varchi, prima vedrò senza acqua il mare,
Al primo grado degl'antichi onori, Senza erbe i prati, e le campagne prima
E 'l crin vi cingan d' onorati allori Bagnarà d'esti colli ogn' alta cima
Del gran Parnaso le sacrate guide: Arno con l'acque sue più dolci e chiare;
Or che la terra d' ogn'intorno ride Che mai le doti si pregiate e rare
E voi sovente disioso fuori Del bell'animo vostro invidia opprima,
Traggon l'erbette e gl' odorati fiori, O con sua forte velenosa lima
I quai parte la fresca aura e divide: Le renda al mondo men gradite e care.
Deh ! non vi spiaccia con l'ornato stile Seguati pur per scuri balzi e ville
Che sì grato a ciascun per tutto suona, L'empia, nè da te mai si parta un'ora,
Formar risposta a " basse rime: E di doglia abbia il cor sempre trafitto.
Ch'io spero ancor col mio dir basso e umile Tu mal grado di lei mille anni e mille
Poggiar l'altero monte d' Elicona, i Vivrai famoso, e leggerassi ogn' ora
Scorto dal vostro esempio alto e sublime, | In mille parti il tuo bel nome scritto.
Risposta. Risposta.
Per valli e monti, tra riposte e fide Cortese Pellegrin, ben chiaro appare;
Selve i più folti e più profondi orrori, Ch” a voi si deve già la gloria prima,
Al più gran gielo e da più caldi ardori, Che 'n sì pochi anni d'ogni lode in cima
Amor, ch'unqua da me non si divide, Senza invidia sedete e senza pare:
Cercar mi fàce, e mai, stelle empie e 'nfide! La rada vostra anzi pur singolare
Erba non truovo o fior, che i miei dolori Bontà, poscia ch'ugual non ebbe uom prima,
Possa, non che sanar, render minori, Tanto sovra il dover mie forze stima,
Tanta è la mia vaghezza e tal m'ancide. Ch'io non l'oso pensar, non che sperare:
Voi sol, Medonio, al cui dotto e gentile Ben veggio quanto ardente in voi sfaville
Cantar si deve omai degna corona, Brama di rintuzzar l'empia ch' ancora
Medicina maggior ch' altri non stime Cerca farmi oltra il danno, onta e despitto
N' apportate al mio cor cui sembra vile Di che vi debbo assai, ma tai faville
Ogn'altra donna, e sol pensa e ragiona Non ispegne tale acqua, anzi pure ora
Pur lei, ch'Amor più forte ognor l'imprime. Cresceran più cocenti e fia ben dritto.
M. Girolamo Mentovato. Il medesimo.

Benchè di mille glorie ornato e chiaro, . Varchi, mentre te ad alte cure intento
Varchi, vi procacciate immortal vita, Veggio con tanta ed eloquenza ed arte,
Acciocchè 'l mondo, vostra fama udita, Pianger d'Etruria in così dotte carte
D'ogni anima gentil v onori a paro; L' alto valore, i gesti e l'ardimento:
E benchè Febo il crin famoso e raro Io notte e giorno il tuo bel nome tento
V” orni dell' albor già da lui seguita, Al cielo alzar tanto desio, che sparte
Ed alla schiera dotta e riverita Sien per me le tue lodi a parte parte,
Dell'alme Muse siate ognor più caro, Destarmi ognora in mezzo l'alma io sentº
Non vi spiaccia però che 'l basso ingegno, Così fossono a tanto peso uguali
E questa umile e rozza penna mia Le forze, e al buon voler giugnesse stile,
Cerchi ritrar vostro valore in carte. Nè mi vietasse il ciel sì bella impresa:
E se pur son di tanta altezza indegno, Come ho sol di cantar l'anima accesa
Al men questo da voi sol mi si dia, Pur che tu, signor mio, non m'abbia a vile,
Ch'io v'ami, adori e 'nchini in ogni parte. L'alte virtuti e i tuoi pregi immortali,
Risposta. Risposta.
Girolamo, se 'l vostro ornato e chiaro Pellegrin, quello ardor, per cui non lento
Stil, che può darne altrui perpetua vita, Mi diedi all'alta impresa che mi parte
Saglia tanto alto che per tutto udita Da tutte l'altre cure, oggi gran parte
Voli sua fama del bel nome al paro, E raffreddato e poco men che spento,
Degno di lui soggetto altero e raro Ch'a sì grande opra ond'io mi pregio e pento,
Prenda, s' all'alma fronde invan seguita Di mille ch'uopo son, pure una parte
Da Febo, e da me sempre riverita In me non veggio, ma da ogni parte
Cerca d'essere ognor più amico e caro. Quanto rimiro più, più mi sgomento.
Non deve un così alto e ricco ingegno Sol mi consola, che se poche e frati
Di me cantar, nè può la penna mia Le forze sono, e 'l dir povero e vile,
Quel che sente di voi chiudere in carte; La mente e'l buon voler non pate offesº i
Or poi ch'io son degl'onor vostri indegno, Questa ch'è tutta al ver narrare intesa,
A voi con gran ragion tutto si dia Lodar sola potete, alto e gentile
Quel ch'a me date a torto in ogni parte. Spirto quasi divin tra noi mortali.
PARTE SECONDA 593
M. Adriano Graziosi. Il medesimo.

L' alte virtù che 'n voi, signor mio caro, Qual madre che perduto abbia il figliuolo,
Risplendon sì, ch'ancor dopo mille anni, Sua dolce spene, si contrista e duole,
F mille vi faran con saldi vanni E gl' alti dei crudeli e Luna e Sole
Volare infino al ciel gradito e chiaro: Chiamando, al pianto dassi in preda solo:
L'animo vostro invitto, alto e preclaro Tal divenni io di te ch” onoro e colo,
Che mostrate ad ognor schifando i danni Rie novelle intendendo, ed in parole,
Di fera invidia che sol cerca affanni Ed in atti mostrò più che non sole
A chi è di bontate e senno raro, -
L'alma il suo interno ed angoscioso duolo.
Ma poi ch'a tua bontà l' invidia fera l
Hanno talmente i bei spirti gentili
Acceso d'uno ardente e puro zelo, Cedendo, si conobbe il gran valore, º
Che tutti stanno a rimirarvi intenti: Di che t'ornàr le tue benigne stelle,
Ma gl'altri poi che son più bassi e vili, Per soverchia letizia è fatta altera,
Tal d' ignoranza intorno agli occhi velo E ne loda ad ognor con tutto il core
Portan, ch'i più bei raggi a lor son spenti. Quel che fe 'I eielo e l'altre cose belle,

Risposta. Risposta.
Ben può il dir vostro Grazioso, a paro Così da queste cose basse a volo
Dei più cortesi a i più graditi scanni Mi levi fuor della terrestre mole,
Poggiar, senza che tema o duol l'affanni A quell'alte e divine ove si cole
Giammai di morte, nè di tempo avaro: Il Signor che l'un fece e l'altro polo
Ma questa volta, come vede chiaro Come quel che vér me benchè non solo,
Ciascun, cui d'amor nebbia non appanni, Bencio, dolor prendeste assai mi duole,
Troppo fuor del dever par che s'inganni, Più che non face tutto e sia qual vuole,
Ch'a voi fia biasmo più ch' a me discaro: O odio, o invidia del malvagio stuolo.
Io fra i più scuri, incolti ingegni umili Chi dritto adopra in terra e solo spera
Posto, fora troppo alto, non ch” al cielo Nel ciel, vince alla fin, chè mai non muore
Volare Icar novello o speri o tenti: Il ver, se ben talor false novelle
E color ch'or le lingue, ed or gli stili La menzogna n'apporta. Io quale io m'era,
Distinguon contra me che in me mi celo, Tal sono, onde con voi lieto a tutt'ore
Faran quel, che di polve arida i venti. Chi regge lodo e queste cose e quelle,
M. Trifone Bencio. M. Antonfrancesco Rainero.
Assai dolor, ma poca maraviglia, -
Nel mar che varchi a più gran rischio vanno,
Mi dà, Varchi, il timor ch'a voi sovrasta, Varchi, sempre i migliori, e chi tra l'onde
Che sol virtù da invidia si contrasta, Fu sordo al suon delle sirene immonde,
Nè amò l'una mai l'altra o le somiglia. E chi fero all'arpie rapaci il sanno:
Ma se turbate move in voi le ciglia Tu col senno il valor contra l'inganno
Questa malvagia, onde ogni ben si guasta, Mesci, e'n quel duce sol ti specchia, donde
L'alta vostra virtù per forza basta Muovonsi i raggi e l'aure a te seconde,
Farlavi cara, come a madre figlia. Tal ch' ira i mostri invidiosi n'hanno.
Ben può fortuna inviluppar talora E mentre l'empia calchi e l' onde solchi
Ma romper no lo stame alto e pregiato, Loda lui solo, e dei suoi rari merti
Che drizza al cielo, cui virtute onora. Segui l'incominciato tuo lavoro.
Da questa veggio voi preso e guidato Si vedrem poi te per li campi aperti -

Da basso loco e tristo che m'accora, Di Nettuno spiegando il vello d'oro,


Lieto salire a più sublime stato, Incoronato ritornar da Colchi,

Risposta. Risposta.
Dolce e cortese Trifon mio, chi piglia La molta tema e' non picciolo affanno,
Per sua difesa della saggia e casta Che 'n voi, Rainer mio, per me s'asconde,
Vergin lo scudo in braccio e vibra l'asta, Le rime vostre a poche altre seconde,
Che vince sempre e non fu mai vermiglia : Del che molto vi debbo, aperto m'hanno:
Può non curar di lei che sol s'appiglia Ma io senza paura e fuor di danno,
All'alme vili o picciol tempo basta, Non temo, il legno mio vil vento affonde;
E spregiar l'altra che i miglior contrasta, L'acque d'invidia si larghe e profonde
E batte ognor, non pur turba e scompiglia: A chi men teme maggior gloria danno.
Ma io, mercè del signor mio, che fuora Nè però fia giammai, ch'io calche o solchi
Non uscio mai del dritto, assai beato Onde, o sentier così fallaci e 'ncerti -
Non temo il verme che i più rei divora i Senza 'I duce alta speme e mio ristoro,
Anzi dove è fin qui tanto indurato Ulisse e gl'altri più del mondo esperti
Villan dispetto, veder spero ancora, M'insegnano a soffrire e seguir loro,
Se non amor, cortese affetto e grato, Che con Giasonne diventàr bifolchi,
r-:
VARCHI, V, I, r
594 SONETTI
La S. Tullia d'Aragona. La medesima.

Quel che'l mondo d'invidia empie e di duolo, Se 'I ciel sempre sereno e verdi i prati
Quel che Sol di virtute è ricco e adorno, Siano al bel gregge tuo dolce pastore,
Quel che col suo splendore un nuovo giorno Vero d'Arcadia e di Toscana onore,
Chiaro si mostra all'uno e all'altro polo: Più chiaro fra i più chiari e più pregiati:
Quel sete, Varchi, voi, quel voi che solo Se tanto in tuo favor girino i fati,
Fate col valor vostro oltraggio e scorno Che tor mai non ti possa il dato core,
A più lontan, non ch'a vicin d'intorno, Filli, nè tu a lei tuo santo amore,
Ond' io v'ammiro, riverisco e colo. Onde vi gridi ogn' uom saggi e beati:
E di voi cantarei mentre ch'io vivo, Dinne, caro Damon, s' alma sì vile
S'al gran soggetto il mio debile stile E sì cruda esser può ch'essendo amata,
Giugner potesse di lontano almeno; Renda in vece d'Amor tormenti e morte?
O pur non fosse a voi nojoso e schivo, Ch'io tema, lassa ! se 'l tuo dotto stile
Questo mio dire scemo e troppo umile, Non mi leva il dubbiar d'esser pagata
Che per voi renderasse altero e pieno. Di tal mercede; sì dura è mia sorte.
Risposta. Risposta.
Se da bassi pensier talor m'involo, Ninfa, di cui per boschi o fonti o prati,
E me medesimo in me stesso ritorno: Non vide mai più bella alcun pastore,
S” al ciel lasciato esto mortal saggiorno, O delle grazie o delle muse onore,
Sovra l' ali d'Amor talvolta valo; Più cara sempre a più cari e pregiati:
Questo è sol don di voi, Tullia, al cui solo Cosi siano a Damon men feri i fati,
Lume mi specchio, e quanto posso adorno, Nè gli renda mai Filli il dato core,
La 've sempre con voi lieto soggiorno, Ed ella arda per lui di saldo amore,
Da dolce e bel disio levato a volo; Più ch” altri fosser mai lieti e beati.
E se quel ch'entro al cor ragiono e scrivo Come alima esser non può sì cruda e vile,
Del vostro alto valor, donna gentile, La quale essendo veramente amata,
Ch'avete quanto può bramarsi a pieno Non ami un cor gentil già presso a morte
Sentiste, o come il vostro raggio divo Dunque, s'a dotto no ma a fido stile
M'incende, ben sarei d' oscuro e vile Credi, ama e non dubbiar; chè ben pagata
Forse altrui caro a me certo sereno. Sarà d'alta mercè tua dolce sorte.

La medesima. Jacopo Salvi.


Varchi, mostrivi Amore ogni mio affetto, Varchi gentil, se le spietate offese
Che i segreti dei cuor vede ed intende, Di fortuna e di morte aspre e pungenti
E scorgerete in che guisa m'incende Cagion vi danno, onde con tristi accenti,
Vostra virtute e l'alma e l'intelletto; Le luci abbiate a lagrimare intese:
O ver m'aprite dolcemente il petto Non vogliate però si discortese -

Per accertarvi, come dentro scende A voi stesso mostrarvi, onde i tormenti
Il raggio vostro che si chiaro splende V'affliggan sì, che l'animo paventi,
In me ch'ogni altro fa scuro e negletto: E renda le virtù vostre sospese.
E poi che 'l vostro vivo ardente lume Ma spargete d' intorno i gran tesori,
Mi fa provare ognor più d'una morte Di ch Apollo e Minerva il ricco seno
Col fulminar de' suoi possenti strai, v'empiero, e titol dier di nome eterno;
Non vogliate, ch'ardendo io mi consume: Tal che per voi si spenga il secco verno,
Fate, prego, al disio le strade corte, E fioriscan le rive al picciol Reno
Non è per tempo vostra aita, omai. Di mille olive verdi e mille allori.

Aisposta. Risposta.
Tullia, se come 'l bel, cosi'l perfetto Salvi, che si pietoso e sì cortese -

Di tutte l'altre, in voi sola risplende, Spegner cercate i miei sospiri ardenti,
Se sol da bei vostri occhi nasce e pende E me quetar con dolci alti concenti,
Mio ben, mio mal, mia moja e mio diletto: Cui pur troppo fortuna e morte offese;
Come è che sola a voi par che interdetto Dal pianto ben vorrei, ma far difese -

Sia dove Amore ognor più lume accende, Nè so, nè posso; e però dalle genti .
Veder qual io mi sfaccio ? e donde attende Fuggo per colli e monti, ove i lamenti
Mio cor soccorso, in mille modi stretto ? Non sieno e tante mic querele intese.
E non è poggio o valle o selva o fiume, Così tra boschi e solitari orrori
Che non sappia quanto è mia pena forte, Piangendo notte e di la vita meno,
Mentre io vivo lontan da' vostri rai; Per disfogare il gran dolore interno.
Che giorno e notte per lungo costume Voi dunque in cui dal ciel tal grazia scern0
- Grido pregando il ciel ch'omai n'apporte Lodare il picciol Ben potete a pienº,
Della mia vita il ſine, o de' miei guai. Anzi dovcie e dargli eterni onori.
PARTE SECONDA 595
M. Francesco Bolognetti. Il medesimo. -

Varchi, non già per cosa dotta o bella Varchi, mentre io contemplo il bel lavoro
Quel libro vi mandai, ne perchè degno A nostro uso del mondo aperto e chiaro,
Di voi mi paia, per cui d'alto ingegno Per si alto oprar scorgo l'immenso e raro
L'antica cede a questa età novella; Ben di lassù, ch'avanza gemme ed oro;
Ma foste voi, che mi chiedeste quella Onde avvien, che qui in pace ogni martoro
Sciocca e ridicola opra, onde nè sdegno Son fermato soffrire, e tener caro
Vi prenda, che s'error commisi, vegno Ciò ch'altri sprezza, e in somma d'ogni anaro
A satisfarvi in atto ed in favella. Sperar dolcezza nel celeste coro.
Ben veggio io ancor, che sol lappole e stecchi Voi dunque povertate a buon nemica,
Di sì sterile campo e paglia ignuda Con quel cor tollerando, che pur suole
E felce senza frutto alcun si miete. Di fortuna ogni colpo render vano.
Pochi fiori vi son fetidi e secchi, Cantate meco, bench' io sia lontano,
Tal che di siepe, o d'altro, onde si chiuda, E 'n lungo esilio dalla patria amica:
Uopo non ha, ch'altrui furarli viete. Dalle tenebre al fin si spera il sole.
Risposta. Risposta.
Alrna cortese, in cui si rinnovella Saggio e cortese signor mio, coloro
L'antica età, quando Saturno il regno, Che ciò, ch'altri più prezza, dispregiaro,
Lunge da 'nvidia e senza ira e disdegno, E sol nel Re del ciel speme fermaro,
Tenea quasi oro, onde ancor tal s'appella: Ebber sempre da lui largo ristoro:
Ben dite il vero; io fui, che per vedella, Perche spero veder voi, ch'un di loro
Chicsi quell'opra, e non men pento o sdegno, Sete, anzi il primo, dopo acerbo, avaro
Anzi mi sforzo, e quanto posso ingegno Destin, tornare a stato alto e preclaro,
Non minor, che 'l piacer trar frutto d'ella. D'ostro velato il crin, non pur d'alloro.
L' errare è proprio umano, e son gli specchi Io con nuovi travagli e sorte antica
Di noi l'altrui scritture, ove si suda Lieto mi vivo, e 'n quelle frondi sole,
Bene spesso assai più, ch'uom poi non miete. Dopo Dio spero, ch'amò Febo invano:
Loda, non che perdon, sol che non pecchi Di voi, ch'avete già buon tempo in mano i
Di suo voler, merta chi trema e suda L'alma e'l cor mio, non è mestier, ch'io dica,
Per noi giovare e sè togliere a Lete. Quanto m'allegra il ben, del mal mi dole.
Mons. De Rossi, vescovo di Pavia. M. Alessandro Menchi.

A voi, Varchi gentil, saggio pastore, Varchi, che nulla degl' umani onori
Tiresia invece delle Muse dona Curando, o poco, con sì bel pensiero
Oggi di mirti e allori una corona Poggiate, e così spesso al primo Vero,
L'altrier contesta in compagnia d'Amore, Ch'alma saggia non è che non v'onori;
Con che giunto ne viene il primo onore: Io, che molti anni omai dietro i migliori
Fra i più dotti Toscan cotal risona Di gir m'affanno, e tanto erto il sentiero
Del vostro nome il grido in Elicona, Truovo, e tanto spinoso, ch'io non spero
Ove elle con virtù dispensan l'ore. Uscir giammai per me del volgo fuori.
Taccia dunque ogni lingua al ver nemica, Ma se voi, come già buon tempo fate,
Ed ubbidire alla ragione impari, Mi porgerete ognor la dotta mano,
Raffrenando il disio d'invidia pieno; Giugnerò forse alle più alte cime,
E meco umile ad ognor canti e dica: E farò sì, che morte e tempo invano -

Questi col suo bel stil c'insegna a pieno, Spese tutte lor forze, in ogni etate
Come agl'antichi si può gir di pari. Viverò fosco, e voi tra l'alme prime. .

Risposta. Risposta.

Al dolce stil del più saggio e migliore Alessandro, s'a primi, e veri onori ,
Pastor, che quasi Pan fra gl'altri suona, Sormontar cerca il vostro alto pensiero,
Come chi il sangue subito abbandona, Non me, che nulla son, ma 'l primo Vero,
Cangiò tosto Damon voce e colore; E solo, e sempre umilemente onori.
Sentendo il maggior pregio a sè minore Poscia per quella strada, ove i migliori n.

Darsi di tutti gl'altri; onde il ridona Lasciaro impresso e segnato il sentiero,


A lui, che Febo di sua man corona, Nell'orme for ponete il piè, ch'io spero
Perché ciascuno il segua, ami ed onore. Lieto vedervi e del vil volgo fuori: i
Ed io, se mai sarà cotanto amica - Di me quel che posso io, tutto sperate,
A miei preghi fortuna, e gl'anni avari E seguite ognor più di mano in mano
A così bel disio non vengan meno, Stendere in carte or prose, or tesser rime.
Ogni studio porrò, tempo e fatica, Ma sempre aggiate e giorno e notte in mano
A cantar di Tiresia, per cui fieno -
Di Stagira il gran saggio, se bramate,
Gl'onor d'oggi agl'antichi, anzi son pari. Opere far che 'i tempo mai non line,
r SONETTI
596
Antonio de' Bardi. M. Lorenzo Fiamminghi.
Padre e signor, cui tanto amo ed onoro, Varchi, ch'acceso il cor da fiamme antiche
Quanto degno padron buon servo umile Tenete, e forse la novelle ancora,
E caro padre pio figliuol gentile, Mirate come viva, o come mora
Che lascian per seguirlo ogni lavoro i Chi ne'lacci d' Amor la mente intriche,
Voi sol potete, che l'età dell'oro E se di tante gravi aspre fatiche,
Saggio vivete, a voi farmi simile, Che sofferendo va chi s'innamora,
E fuor trarmi del volgo oscuro e vile, Spirto alcun di pietà per me v'accora,
Ch'altro mai non pregiò, ch'argento ed oro. Che le voglie bo per voi preste ed amiche;
Dunque seguite a mostrarmi il sentiero Con dolci preghi, o con parole accorte
Erto che guida al dilettoso monte, Rendetemi non pia, ma men crudele
Onde si miete eterna gloria e fama; Silvia, ch'ha in mano e mia vita e mia morte,
Ch'io per me cerco e d'altro non ho brama, Che se nè cura altrui, nè mie querele,
Quando al sezzo mio giorno il sol tramonte, Ond'io non sia nel sostenermi forte,
Restar qui vivo, e sol per voi lo spero. - La vostra Musa il mio morir non cele,

Risposta. Risposta.
Caro nipote e figlio, ogni tesoro o Quanto m'incresca, Amor, per me v'espliche
Verso quell'un si dee prendere a vile, Ch'io non porria giammai, sì m'addolora
Da chi non segua il reo moderno stile, Vedervi in pena, e come ad ora ad ora
Ch'Apollo dena e 'l suo famoso coro. Il preghi, o che dai lacci suoi vi striche,
Or tu se cerchi o di mirto o d'alloro O vi renda men crude e men nemiche
Nel tuo sì verde e già fiorito aprile, Le voglie di colei, cui sola onora
Frutto cogliere al fior non dissimile, La penna vostra, che far puote ognora
E gir volando ognor dall'Indo al Moro ; Di corvi cigni e di colombe piche.
Prima con pura mente e cor sincero, Ben lunge altra è da voi mia lieta sorte,
A Lui, ch'è d'ogni ben principio e fonte, Che " ha santo Amor nettare e mele,
T'inchina umile, e quegli onora ed ama ; Frondi mi danno, al ciel felici scorte.
Poscia qual, uom ch'alta ricchezza brama, E s'avverrà, che vostro cor fedele
Or ardi, or trema, ed alle voglie pronte Giunga anzi tempo alle tartaree porte,
Notte e di giugni or l'opra, ora il pensiero. Fia chi la storia altrui mesto rivele.
M. Lorenzo Mauri. Il medesimo,

Mai non potranno bene alte parole Varchi, di lauro a cui tesson corona
Nè mortal mente mai quelle divine Via più pregiata, che di gemme e d'oro
Opre tue pareggiar, ch'ogni confine Quelle suore gentil, che in Elicona
Varchi d'ogni saper nelle mie scole. Fanno il celebre, sacro e santo coro:
Tu dopo il primo mio Toscan le sole Non sai che l'empia dea, di cui risuona
Mie sempre verdi fronde e pellegrine La fama all'Indo ed all'estremo Moro,
Sì dolce canti, che ben merti al fine Tutta venendo in me, Cipro abbandona,
Di lor corona aver di man del Sole. Nè sentii tale o tanto unqua martoro?
Mentre che 'l bello Dio così dicea, A te consiglio, a te soccorso chieggio,
Da ninfe e da pastor con voce altera A te che fosti già di me non meno
Dolce cantar s'udio del Varchi il nome. A lei soggetto, e so ch'io non vaneggio.
Indi mosse la vaga eletta schiera Or quanto sei d'alta facondia pieno
D'Apollo in compagnia, mentre ei le chiome Ed esperto in Amor, sperar ben deggio,
Del suo gradito alloro a lui cingea. Che tu mi sane il velenato seno.

Risposta. Risposta.
Quel sacro arbor gentil, ch'all'ombra e al sole Sì dolce intorno al cor sempre mi suona
Nulla temendo o venti, o nebbie, o brine, -
La viva voce di quel sacro alloro,
Fa fiorir la mia speme, e senza spine E tale ad ora ad or meco ragiona,
Frutti produrre e fior celesti sole Che sol ventisette anni in terra adoro,
A chi delle sue frondi altere vuole Ch'ogni men bel pensiero, ogni men buona
Velar la fronte degnamente e 'l crine, Voglia indi rade, ed un fammi di loro,
Onde assai più che pria, dopo il suo fine, Che notte e di pur quel ch'amico dona
Per le bocche d'altrui vivendo vole, Febo e null'altro qui cercan tesoro.
Chiede altro ingegno e men fortuna rea, Dunque, quanto io d'Amor conosco e veggiº,
Che non aggio io, ch'ognor l'ultima sera Altri non è, che bear possa appieno
Fuggir vorrei, ma non so dove o come. L'alme, e locarle in più gradito seggio.
Ben venni altro uom per lui da quel ch'io era, Ma vana speme di piacer terreno -

E spero ch'al por giù di queste some, Mesce, Lorenzo, a voi, nè può far peggio,
Non del tutto morir mia vita dea, Da salutifera erba empio veleno.
PARTE SECONDA 597
M. Simone della Barba. Il medesimo.

Varchi, s'al vostro nome eterno e chiaro, S a legittimo, eguale, e dolce foco -
º

Che varca sovra i più pregiati eroi, Ch'ingombri l'alma di soave incarco,
Stil potesse arrivare oggi fra noi Aveste unqua, o buon Varchi, fatto varco,
Non molto disuguale al vostro raro, Non credereste al mio dir così poco,
Come per altrui lingue essi n'andaro E forse invidia avreste al mio bel loco,
Per lor già chiari e più famosi poi E d'ogni altra amorosa soma scarco,
Per ogni lingua, ancor potreste voi Non sareste di dir subito parco :
Coi maggior Toschi al ciel girvene a paro. Questo è perfetto Amore, e gl'altri gioco.
Ed io, che i vostri onori amo ed ammiro, Pavento il mondo, il tempo e la fortuna i
Con altra penna ancor, con altri carmi Non che le cangi suo santo desire,
Sfogarei più d'ogu'altro il bel desiro: Che sopra spirto non ha forza alcuna;
Ma poi che invano ogni fatica parmi Ma come or turbe, o vietimi il fruire,
D'adeguar voi, se di lontan vi miro, Quinci nasce il timor, sol da questa una
Non vi sdegnate almen talor mirarmi. Fonte deriva il mio tanto languire.
Risposta. Risposta.
Quel dolce, che da prima al cor mandaro, Più dolce mai, nè più cortese foco
Simon, le care di voi rime, poi Non arse alma gentil, nè presse incarco
Che i vostri merti riconobbe e i suoi, Men grave e caro più, di quel ch'al varco
Via più ch'assenzio gli si fece amaro, Presi d'amore e so ch'io dico poco.
E'n vero io ebbi, ed ho cotanto avaro Onde nè tempo, Alato mio, nè loco
Il ciel, come sai, tu mia stella, e vuoi Videmi unqua, o vedrà di quella scarco
Ch'io stesso par che me medesmo annoi, Soma cui di lodar mai non fui parco,
Non ch'esser pensi altrui pregiato e caro. Stimando verso lei tutte altre gioco.
Pur quando gl'occhi della mente giro Così fosse men fera a me fortuna,
A quell'arbor gentil, che per levarmi Come l'ardente mio casto desire
Alto da terra, ogni pensier deliro Varietate mai non ebbe alcuna !
Sgombrò dell'alma, cotal sento farmi, E voi facesse appien tutto fruire -
Ch'io spero dopo l'ultimo sospiro, Quel ben, che pose il ciel largo in quella una
Quaggiù vivo con lui gran tempo starmi. Che ben ristorar può vostro languire.
M. Gio. Antonio Alati. M. Paolo Giovio Secondo.

Avvampo ed ardo, ed altri non mel crede, O delle sacre Muse alto sostegno,
Varchi gentil, se non sola colei, Varchi, a cui di virtù, nè d'altro cale;
La qual, possibil fosse ! io non vorrei, Mentre v'alzate al ciel battendo l'ale,
Ch'avesse del mio cor cotanta fede. D'ogn'onor sete e d'ogni pregio degno:
Da poi che l'alma mia tutta possede, Qual più ricco tesor, qual più bel regno
Convien, le pene mie riceva in lei: Può rimirar quaggiuso alma mortale,
A me, perchè la sua li spirti miei Quando d'ogni valor disio l'assale
Governa, al fine ogni sua doglia riede. Che 'l vostro dotto e si famoso ingegno ?
Non temo o mondo, o variar del cielo Bene ha voi Iºio fra tutti gli altri eletto,
Le cangi voglia: tal la sua virtude, Da che per lo stil vostro alto destina
La fede sua scolpita ho nel pensiero. Al gran duce toscano eterna fama.
E s'Amor cieca in chiaro, aperto velo, Chi dunque non v' onora e non v' inchina,
Ben può di quel che dentro il petto chiude, Poscia ch'a tanta impresa il ciel vi chiama,
Farmi tener verissimo il non vero, Si chiara tromba a sì divin soggetto ?
Risposta. Risposta.
Quanto Amor possa in voi, chiaro si vede, Giovio secondo, che si presso al segno
Ed io, che nulla ho invidia, invidia avrei, Gite del primo Giovio, e quasi eguale
E col vostro il mio stato cangiarei, A lui gl'altri avanzate, esser ben tale
Se dessi intera a detti vostri fede. Vorrei, qual dite, e me ne sforzo e 'ngegno.
E so, che chi se stesso ad alma diede Ma fragil, vecchio e già intarlato legno,
Non vil, diventa incontamente lei, Non ch'altrui sostener, regger non vale
Ed ella lui, ma volentier saprei Sè stesso, onde o trovar più forti scale,
Come in amante cor tema non siede. Od in terra giacer sempre convegno,
Se può fortuna e 'l variar del pelo E, se non fei, come dovea, disdetto
Altrui cangiar, convien ch'ardendo sude All'alta impresa, onde la fronte china
Qualunque avvampa o vil foco o sincero, Porto, e dubbioso il cor fra tema e brama,
Ma l'un rea gelosia, l'altro buon zelo Fu, perchè a cote troppo ardente aſlina
S'appella, e sopra a questa o quella incude Sue quadrella il disio: pur da chi ama,
Batte suoi strali amor benigno o fero. Quantunque nudo il ver, bcl pregio aspetto.
598 SONETTI
Il medesimo. Il medesimo.

Quanto a voi, Varchi, eternamente deggia Varchi, che fuor del volgare uso e tetro
Il nobile Arno e la famosa Flora, Guida vi fate a pochi, ch' all'onesto
Sassel chi virtù segue e s'innamora Muover vorrian, nè sanno il sentier pesto
Di lei, che 'n gentile alma signoreggia. Da voi trovare, onde vi corron dietro:
L'alto vostro e bel dir cui non pareggia S'esser pure uno de'seguaci impetro
Qual più fuor dell'invidia oggi s'onora, Vostri, vostra mercè spero io che 'n questo
Si altamente il secol nostro indora, Secol malvagio e rio sarò ancor presto
Che nullo è che di voi più alto seggia: Tanto avanti a passar quanto or m'arretro,
Bene clla il sa che di voi madre a volo Omai pur che si desti in me quel sene
Alteramente al ciel poggiando dice: Di virtù ch'era quasi spento dianzi,
Chi m' assicura dal fuggir degl'anni? Eseguir parmi il mio dolce viaggio.
Figlio, la penna tua ch'almo e felice Però voi che potete a tanta speme
Rende il Tosco paese, e per te solo Alzartni, poi che sete tanto innanzi,
Alzarò sempre al ciel più viva i vanni. Del vostro Sol non mi celate il raggio.
Risposta. Risposta.
Chi fa si folle mai che non s'avveggia Ben può vostro alto e ricco e dolce metro
Quanto del cammin dritto usciste fuora, Con arte e somma cortesia contesto,
Giovio, al gran Giovio quasi eguale, allora Far d'ogn'uom basso e vile alto e rubesto,
Uhe qual mente talor saggia vaneggia, E quei che primi son tornare addietro;
Me dalla bassa gente e volgar greggia Poi che del mio si frale e scuro vetro,
Col vostro dir che i più chiari scolora, Fatto ha perle e rubin, ma non per questo
Traeste al cielo, e quello stil ch' ancora M'innalzo o glorio che di me più presto
Ne gravi anni canuto parvoleggia? Fede ho a me stesso ch'a Giovanni o Pietro.
Bcn vorrei, ma non oso alzare il volo, Oltra che, giunto quasi all' ore estreme,
Negro corvo con voi bianca fenice, Non son, Diego, non son qual era innanzi;
E portar l'Arno ai più sublimi scanni. Che gl'anni anco alla mente han fatto oltraggio.
uanto a voi si convien tanto disdice Dunque io sol pregherò che qual vi preme
Cantarlo a me: pur vi ringrazio, solo Desio testè, tal sempre al cor s'avanzi:
Ch'amor voi, non voi me, cortese inganni. Altra speme ove alzarvi, e sol non aggio.
Don Diego S. Dovaldicastro. Il signor Gabriel Moles.
Varchi, gran tempo è ch'innalzar convengo Fu si cieca la notte in che lasciaro
Del vostro alto valor la minor parte; Gl'accesi raggi delle luci amate
Ma perch'io temo di scemare in parte Questa alma, quando al mio partirpietate
Vostre lodi cantando mi ritengo: Le fe” tremanti, e poi si dileguaro;
Cosi del buon voler l'alma sostengo, Che riportarmi il di lume men chiaro
Che vorria farvi onore, e con nuova arte Non potea mai di quel che voi mi date,
A nuove genti palesarvi in carte, Varchi dolce e gentil, ch'oggi lustrate,
Nè l'opra adempio, nè la sete spengo. Di chi nel mondo più risplende a paro:
Ben veggio che 'l mio dir sarebbe eguale E se come le mie tenebre in parte
A quel di lui che 'n Po cadde e morio, Fate chiare, poteste ancor quel laccio
O di chi diede eterno nome al mare. Render men duro, ond'io mi scuoto indarno,
Ma carro da guidar l'alto Sol mio Lasciando i miei pensier tutti in disparte
Non ho, nè per lo ciel da volare ale; Per voi armato il cor d'eterno ghiaccio,
Però mai non ardisco a incominciare. L' umil Sebeto cangiarei con Arno.

Risposta. Risposta.
Diego, ben conosco io che mal convengo Ben so per pruova anch'io, cortese e caro
Soggetto al vostro dir che m'alza in parte, Moles, che 'l bel Sebeto in poca etate
Di voi, non di me degna, e però parte Or colla spada, or colla penna alzate,
M'allegro e parte vergognoso vengo. Dove altri rado, anzi non mai l'alzaro;
Ma chi mi biasmerà, s' ora divengo Quanto in alma gentile a senno raro
Caro a me stesso, poi che mi comparte Possa congiunta singolar beltate,
Tanto onor l'alto stil che voi diparte E che viver lontan come voi fate
Dal volgo a quei cui sol beati tengo ? Da sè medesmo e più che morte amaro:
Ben tra lor cerco anch'io salir, ma scale Non che spegner del tutto, so che in parte
Non ho nè penne onde solo il disio Chi scemar vuol la fiamma o sciorre il laccio
Uom puote, e non l'effetto in me lodare. D'Amore in alto cor s'adopra indarno:
Ma voi, vostra mercè cantando, tale Perchè tutt'altro posto oggi in disparte,
Fatto m'avete omai che i cicco oblio Prego non già che v'armi il cor di ghiaccio,
Non potrà sopra me sue forze usare. Ma che vi parta il ciel tosto dall'Arno.
PARTE SECONDA 599
Il medesimo. M. Federico Lanti.
Varchi, se solea far chiaro il suo fondo Varchi mio, 'l grave mal, da cui non sono
Arno a quel suon de'primi accenti rari, Libero bene ancor, sallo Urbin tutto,
Ch'addolcir l'aura, or di novelli e chiari Ch' io non poteva, a tal m° avea condutto,
Frutti, vostra mercè fa ricco il mondo. Mandar fuor le parole, e a pena il suono :
Quel fu 'l suo primo onor, questo è il secondo, Parmi ito via, mentre con voi ragiono,
E ben ne va con l'un l'altro di pari: Nè il mal passato mi dorrebbe in tutto,
Si sparse ad ambi il ciel doni alti e cari, S'appo voi solo ci che m'avea distrutto,
Dal suo più largo seno e più profondo. M'impetrasse pietade o almen perdono.
Felice voi ch'ogn' altra cura spenta, La debile mia man, lo spirto afflitto
Per li rami d'Apollo al ciel volando, Rispondervi più volte volle e 'ndarno,
Sol contemplar l'alta cagion v'appaga! Onde schernita fu l'ingorda voglia.
Tal io mai sempre chi la dolce piaga Scusinmi dunque tutti ch' è ben dritto, º
Mi fece, onde non mai guarrò mirando, E Fiesole e Mugnon, Firenze ed Arno,
Pascer soglio il digiun ch' or mi tormenta. Ch'io tremo ancor com' in albero foglia,
Risposta. Risposta.
Moles, se come a voi così secondo Non solo al languir vostro oggi perdono,
Girasse il ciclo a me, nè gl'anni avari Ma sentir nol potei con viso asciutto,
Mi togliesser l'ardire e fosser pari Lanti, e più giorni già con mcco lutto,
Le mie picciole forze a si gran pondo: Ned a cessar tal pcna era io più buono.
Quel disio ch'entro il cor gran tempo ascondo Non potea dunque più gradito dono
D'esser dei rami degno alti e preclari, Darmi la penna vostra, che dal lutto
Fora adempito, e 'l nome vostro a pari Tormi, che dentro il tristo cor produtto
N'andria di qual fu mai più chiaro al mondo. M'avea nunzio di voi non troppo buono.
Or pronta ho ben la voglia, ma si lenta Nè però vivo ancor senza sospetto a -

La possa, ch'io non so se non pregando, Parendomi vedervi esangue e scarno,


Come chi suo dover dell'altrui paga, E quasi fuor della terrena spoglia:
Rendervi il merto: quella dolce maga, E sempre il petto avrò di duol trafitto,
Che voi nel foco, e di voi stesso in bando Fin che mi riscriviate: Io mi rincarno,
Pose, sua parte delle fiamme senta. Varchi, e son fuor d'ogni periglio e doglia.
- M. Antonio Gallo. M. Girolamo Zoppio.
Nè marmi, nè metalli, nè colori, Varchi gentil, la folta nebbia e nera,
Di che meglio intagliò, sculse e dipinse, Che mi fa cieco al bel lume del Sole,
Colui che l'Oriente corse e vinse Sgombrarmi piaccia a voi con le parole
D'anni leggiero ancor carco d'onori Vostre, che fanno umile ogn'aspra fera.
Io non invidio: poi che fra i tesori Onde è che l'alma in me vivendo io pera?
Della vostra memoria me ristrinse E già son foco e ghiaccio ? onde mi duole,
Qnella bontà, quella virtù che cinse Che due luci tra noi celesti, e sole
A voi le tempie di perpetui allori. Altro m'han fatto assai da quel ch'io era.
º Ben ch'io mi servi in sì prezioso loco Né so ancor quale io sia? Ahi come fura
Come in un ſine elettro animal vile, Vana bellezza uno intelletto, e spesso
Qual mirando la gente pregi e lodi: Idol diviene ed obliar fa Dio !
Ma a tanto merto che può Gallo roco, Tal s' accidente o effetto di natura e

; Se non destar ciascun cigno gentile


Del Metauro a cantar le vostre lodi ?
Sia, voi 'l sapete, ditelmi, perch'io
Cerco e disio per ritrovar me stesso,
-

IRisposta. Risposta.

Ben è cortese amor quel che vi spinse, Come fiamma d'amor casta e sincera
Gallo, a cantar di me, squillando fuori L'alme innalzar dalla terrena mole,
Sì chiaro e gentil suon che de' migliori Così gravarle sempre a terra suole
Cigni presso al morir le voci estinse, Di folle e ceco ardor vil voglia e fera.
E d'onesto rossore ambe a me tinse -
Dunque, Zoppio mio buon, perche non pera
Le guance, come avvien che si scolori La vostra, anzi al gran di lieta sen vole
Vergin, se mai dal sen furtivi ſiori, Dal suo Fattor, queste mondane fole ,
Non s'accorgendo, anzi alla madre scinse. Lasciate, onde si teme indarno e spera.
Troppo era a me, ehe non prendeste a vile Ogni animale e pianta ama e procura i
Di stare in parte oscura si, che poco I)i produr cosa somigliante ad esso,
Qual uom che chiara gemma in piombo annodi, E questo è proprio natural disio.
Cara vi fosse; or poi che 'l bello stile Ma l'uom come più degno, a maggior cura,
Vostro tanto m' onora, a riso e 'n gioco Nasce e col don della ragion natio,
Prendo, ch'altri mi biasme o del ver frodi. Deve a Chi tutto fa girsene appresso.
6oo SONETTI
M. Antonio Landi.
SONETTI SPIRITUALI
Varchi, non Tempe, non Parnaso o dove
Ebber le Muse mai più bel ricetto, DI MEssen
Han forza di crear nell' intelletto
Cose sopra natura altere e nuove. BENEDETTO VARCIII
Primiero, al parer mio, ne sveglia e muove
Amor la sua virtute in gentil petto,
Da cui quanto è più degno poi l'oggetto, D E D I CA D E I GIUNTI
Escon tanto più degne e maggior prove,
Non Fiesol dunque e non l'alto Asinaro
Vi fanno pareggiar, che far nol ponno, AL serenissiMo GRAN Princi PE DI ToscaMA
Mantova e Smirne, e l'una e l'altra lira;
Gradito Amor che sol v'è scorta e donno, FRANCESCO MEDICI
A tanto alto cantar vi spinge e tira,
Ond'è 'l grido di voi famoso e chiaro. slo, Notte

B PADRONE NosTRO ossERVANDISSIMO


Risposta.
Anton, quella virtù che sempre piove
Dell'alte ruote, onde ogn' umano effetto Non altrimenti ch'avvenir suole di lu
Nasce quaggiù, se vero è quel ch'ho letto,
Ha qui forza maggior, minore altrove. cido e ben forbito specchio, il quale se in
i segreta ed oscura parte posto sia, nè va
Cortese Amor, l'arbor gentil che Giove
Si privilegia, fra tutti altri eletto ghezza od utile d" apportare; laddove se
M'ebbe, ma sopra verde, eccelso, eletto nella chiarezza di sereno giorno si mostrasse
Monte, cui mai da me nulla rimuove, apparirebbe tutto splendente e vago: così,
Quinci è, che più d'ogn'altro amato e caro Serenissimo Principe, parevaci della pre
Porto nell'alma, e di me stesso indonno sente opera n' avvenisse, che comechè di
L'Asinaro, onde al ciel presi la mira. bellezza e dottrina piena sia, standosi non
Ficsol, s'io veglio, a gl'occhi, al cor nel sonno dimeno racchiusa, e non ne facendo altrui
Appar, tal aura ancora indi m'inspira: altrimenti partecipe, non porgeva ad al
Non son già nel cantar come voi raro, cuno nè i" nè piacere. Senza
che credevamo defraudare M. Benedetto
M. Bernardo Davanzati.
Varchi, autor d'essa, dell'onor per ciò do
Non ha l'Arabia tanti grati odori, vutogli, ed errare, non mostrandolo ancora
Nè l'Affrica, e la Libia arene ed aspi, dopo morte grato all'A. V. che cotanto
Men, credo, nevi i Rifei monti e i Caspi, ne tempi ch'egli visse lo favorì e benefi
cò. Laonde ner non scemare a lui la con
Men, credo, erbette il mattutino irrori:
Nè lumi il cielo innanzi a primi albori, venevole lode, e fuggendo l'errore, mo
NèondeArno, Ebro, Ren,Gange,Indo,e gl'Idaspi, strare in parte il grande obbligo suo e no
Nè Persia ostro,or, zaſir, perle, ambre, diaspi, stro, che come devotissimi servi teniamo
Nè tanti ha vaghi l'iride colori: con la sua Illustrissima Casa e con Lei, ve
Non ebbe il Mincio bianchi e dolci cigni, gniamo a dedicargliela, rendendoci sicuri,
Nè mai tanti tesori ascosi il mare, che apparendo V. A. sino ad ora quasi
Nè Sicilia tiranni empi e sanguigni: - splendentissimo Sole mercè delle sue ope
Non tante ha il ciclo alme beate e care, razioni nel giudizioso governo de suoi ſe
Nè, tu fanciullo Dio, tante alme strigni licissimi stati, quest'opera altresì tenuta in
Quanto ha la Tana doti altere e rare, bregio da " elevato " che già
Risposta.
i" dall'autor proprio la vide, seſia data
in luce sotto la protezion sua, sia per
Clai degnamente mai la Tana onori pigliare dal suo gran lume tanto di chia
Non ſia, se ben con mille rocche ed aspi rezza che si faccia vedere al mondo leg
Fili lo stame di sua vita, e innaspi giadra e giovevole. Degnisi dunque V. A.
Lei, che tutti al fin tronca i suoi lavori, accettarla con quel grato animo, con cui
Antri più freschi e più romiti orrori le cose de letterati, come questi fu, suol
Non veggion gl'Arimfei, nè gl'Arimaspi: riguardare e favorire: chè siamo certissimi,
Cento Gangi, cento Indi e cento Idaspi allora che da un tanto Principe sarà accet
Acque non hanno o più chiare o migliori, tata, sia per mostrarsi a ciascuno che con
Ben furo i cieli a noi larghi e benigni, i sano occhio la vedrà, riguardevole e de
Bernardo, il di, se 'l ver sempre non pare, gna. Che Dio la contenti.
Che ne feo di veder la Tana digni. Di V. A. Serenissima,
Chi ebbe tante mai? chi si preclare ?...
Ahi, folle e vano ardir dove ne spigni! Umilissimi Servidori
Dire io quel che non puote altri pensare? FILIPpo E Jacopo Givariº
-

SPIRITUALI 6o i

Al Reverendissimo Monsignor M. Lorenzo Lenzi, Al medesimo.

Vescovo di Fermo e Vicelegato d'Avignone.


Qual meraviglia s'alto e santo e solo Mentre io, che son fra tutti gl' altri sezzo,
Fu quell'ardor che già per voi m'accese; Del primo Duce, che mai fosse in terra
Poscia ch'in alto e santo e solo arnese L’alte e sante opre or di pace or di guerra
Nacque e primo mi die da terra il volo ? Narro senza odio altrui, senza disprezzo;
Perch'io poco curando quel che solo Voi sacrosanto mio signore, avvezzo
Pregia la gente vil, tutte ebbi intese Dar premio ai buoni e gastigar chi erra;
Mie voglie, a far vostro valor palese, Bassar chi s'alza, innalzar chi s'atterra;
Fate felice e glorioso Arezzo.
Quasi penne avess io da sì gran volo.
Or tutte l'ho, sola pietate e grazia Qual non pigro Pastor ch'entro il suo chiuso
Guarda la notte, e 'l di custode e pasce
Di quel Signor, che fece e regge il ciclo,
Il gregge a verdi e freschi rivi intorno:
Che già d'altrui non può venir tal grazia.
Rivolto a lui, ch'a chi con puro zelo Tal voi del vostro ovil la notte e'l giorno
Cura tenete, ond'ei si nutre e pasce,
Si pente, perdonar mai non si sazia:
Io scuopro a lui quel ch' a me stesso celo. E'l ſier de lupi urlar resta deluso.
Al Reverend. Monsig. M. Lodovico Beccadello, Al Reverend Monsig di Giovambatista
vescovo M. Pistoi Ricasoli,
-. Omola
Arcivescovo di Raugia.
Fonte di pietà vera, esempio vivo Signor, che sazio de' mondani onori,
A noi d'ogni oprar santo, ancor mi giova Come prudente e temperato non degge;
Esser quaggiù, poi che quaggiù si trova Il pingue vostro obbediente gregge
Ond' esca di virtù si largo rivo. Di sacre erbe pascete e santi fiori;
Ld or tra chiari fonti e verdi allori
In me che l'alte e giuste opere scrivo
Del buon duce Toscan, tal spirto innova Ove ognor siede la divina legge
Voglie e pensier ch'io vincerò la prova Studiando fate quel ch'ivi si legge,
Contra Satan di mia salute schivo. Che far denno a lor mandrie i buon pastori
Anch' a me detto fu ch'io entrerei Si fussi io un di vostra greggia, o vosco
Vivessi almen, che tanto o ladri o lupi
Nel riposo del Cielo: ed io con pura Temerei io, quanto lieve aura bosco.
Fede e sincero cor sempre il credei.
E 'I credo or più che mai: e se ben fei Or temo, tal me stesso e lui conosco,
Cammin torto in sin qui, folle è ch'indura Che con l'astuzie sue l'Angel m'occùpi,
Suo cor, che questi solo uno è de'rei. Che fu lucido già, quanto ora è fosco.
Al Reverendiss. Monsig. M. Bernardino Brisenno Al Reverend Monsig. M. Giovanni Gaddi,
vescovo di Cortona.
abate e nunzio apostolico.
Quanto al vostro apparir, cortese e saggio Signor mio sacro, il meritar gl'onori
Signor, tutto si feo lucente e lieto E vera gloria, che non pate oltraggio:
L'Arno allumato da sì chiaro raggio, Gl'altri, come scrisse uom prudente e saggio,
Tanto attristossi e s' oscurò Sebeto. Son tutti foschi e torbidi splendori.
Io, che 'n questo mondan cieco viaggio, Ma 'n voi, gia pari ai vostri alti maggiori,
Misero pellegrino irrequieto Si chiaro di bontà risplende raggio,

Andai gran tempo errando, oggi m'aqueto, E tal dianzi di voi Trento ebbe saggio ;
E di pace trovar grande speme aggio, Che degno è ben che'l Tebro ancor v'onori.
Anzi certo ne son ; chè la parola Benche vero valor non cerca pregio
Di Dio non manca a chi 'n lui crede, ed io Di gemme e d'ostro, che l'adorni e segne,
In lui sol credo, in lui confido solo. E virtù di se stessa è premio e fregio.
E voi, sacro Brisenno, al santo volo Io per me vosco, signor mio, dispregio
Penne m'aggiugnerete, onde quel rio Le false ch'io bramai d' onori insegne :
Scornato resti, che ha di me tal gola. E sol piacere a Dio commendo e pregio.
Al Rever. Monsig. M. Bernardetto Minerbetti, Al Reverend. Mons. M. Piero Camajani,
vescovo d'Arezzo. l vescovo di Fiesole.

Signor, quando la dea falsa e proterva, Già so ben, sacro santo signor mio,
Che volgendo sua ruota e sua natura Per la bocca di lui, che, da mentire
Seguendo, in stato picciol tempo dura, lnfuori, il tutto può che l'obbedire
Nè tien patto ad altrui, nè legge serva: Accetto è più che 'l sagrifizio a Dio.
Reina de'men buoni, agl' atri serva, Ma tant'ha sopra a me non solo ardire,
V'assalisce e percuote acerba e dura, Ma forza ancor quell'aspe antico e rio
Ricorrete a colei, ch' ogni uom sicura, Con sue lusinghe e falsi preghi, ch'io
Onde aveste il bel nome, alta Minerva. Non posso il vero, anzi nol voglio udire.
Ella vi mostrerà, che nulla deve Anzi l' odio, e nol curo: onde se vostra
Temer, chi come voi, Dio teme ed ama Bontà non dammi al maggior uopo aita:
Vera virtute, e 'l suo contrario abborre. D'appresso veggo il mio dannaggio e morte.
Signor mio caro, in questo corso breve, In voi sol vien, ch' io speri, e mi conforte:
Che i saggi morte e 'l volgo viver chiama, Solo in voi, signor mio, pietà s' è mostra
Nessun può darvi quel, ch'e vostro, o torre. Di mia salute ch'altramente era ";
v Aitchi V. 1. -
6on SONETTI
Al medesimo. Al medesimo.

Poi ch'al gran re del ciel, poich'al buon Dnca, " Come potea non piangere anzi, e poi
Ch' Etruria regge in tanta gloria e pace, Non tornar lieto il ciel, sacro signore,
Poi ch'a voi, mio signore e pastor, Piace Mirando voi di lui pregio ed onore
Ch'io'l gregge vostro, mandria mia conduca; Girven tanto lontan dall'Arno e noi?
Tanta in me da Gesù grazia traluca, Ben turbar sì dovea, se non de' suoi,
Redentor nostro, Uom vere e Dio verace, Dc nostri mali irato, e poscia fuore
Ch'io 'l sappia e vaglia dal demon fallace Mandar più che mai chiaro ogni splendore
Guardar si, che non seco, alfin l'adduca. Per toglier danno e dispiacere a voi.
Non ostinato cor spesso è che voglia, Nuovo non è, ch'anime elette e rare
Tanto 'l piacere e l'ubbidir gli è grato, Privilegi talor fuor d'uso umano
Far dell'altrui voler sua propria voglia. Qual sommo Re, che le governa e regge.
Cangiar dopo tanti anni abito e stato, Fermò lassuso il Sol, quaggiuso il mare
Che senza il voler suo non muove foglia, Seccò, quando a lui parve: e chi dia legge
Dal Crocifisso e non d'altronde è nato. A quella sola, onnipotente mano?
A Monsignor Muzio Calini, arcivescovo di Zara Al molto Reverendo M. Alessandro Strozzi,
e vescovo di Terni.
Da voi, chiaro signor, prendere esempio Se dictro i sacri vostri alti vestigi
Puote e dovrebbe ogni alto cor gentile Poneva i passi miei da miei primi anni;
Da voi, che 'n tanti e tali onori umile Come v onorai sempre or degli affanni
Feste e fate di voi sacro a Dio tempio. Non temerei de laghi averni e stigi.
Quando il vostro e l'altrui viver contempio, Ma vane di ben far mentite effigi
Che sete solo a voi stesso simile, False larve mostrarmi, ond' a' miei danni
Voi solo ho'n pregio, e tengo gl'altri a vile Corsi e 'nvece d'alzare al cielo i vanni:
Che si fan di fortuna o schermo o scempie. Mi giacqui avvolto in questi uman litigi.
Gl' altri superbi amara infesta guerra, Io mi credea ch'aquistar fama e gloria
Voi mansueto dolce amica pace, Per impedir di verde fronda il crine,
Voi seguitate il ciel, gl'altri la terra. E lasciar qui di sè lunga memoria,
Lo stato vostro si tranquillo piace, La prima fosse e più chiara vittoria:
A cui chiave cristiana il ver disserra, Ma veggio or ch'a maggiore e miglior fine
Quanto l'altrui si turbolento spiace. Ne fece e mandò qui l'eterna gloria.
A Monsignore M. Guido Guidi, Al molto Reverendo M. Bartolommeo Giugi,
proposto di Pescia.
Mille e mille onorate e chiare palme, In dubbio di mio stato or piango, orrido,
A voi sacro si denno e pio signore, Or temo, or spero, oravvampo, oragghiacciº
Che non i corpi pur, ma con maggiore Or quel che più vorrei gridando taccio:
Cura e studio miglior sanate l' alme. Or quel che bramo men, tacendo grido,
Io sol procaccio, e di null'altro calme, Or mi dispero in tutto ed or m'affido,
Sciormi da lacci del mondano errore, Or volo al cielo ed ora in terra giaccio,
E dopo tante e si male spese ore A me medesimo in un piaccio e dispiaccio:
Sgombrar da me queste terrestri salme. Ho smarrito la strada, e gl'altri guido.
Sì mi detta lo spirto, nè la carne Veggo il migliore ed al peggior m'appiglio:
Ripugna, mercè sol di Lui, che prima Ho bisogno di pace e cerco guerra:
Volle crearci e poi degnò scamparne, Non so me stesso, e pure altrui consiglio,
Ond' io senza curar che prosa o rima In tanto dunque e sì grave periglio
Segni il mio sasso, m'apparecchio andarne: Dell'alma trista, che vaneggiando erra,
Pur bramo e spero ancor vedervi prima. A voi soccorso, a voi cheggio consiglio.
Al Reverend. ed illustrissimo Cardinale Mendozza. Al molto Reeerendo M. Giovambatista Deli,

Signor, cui tutto die natura, quanto Sacro signor, di quel puro innocente
Dar può quaggiuso ad uom mortale, e voi Sangue solo una stilla era bastante
Con lungo studio e somma industria poi A scancellar quante mai fero e quante
Tal vi faceste e v'aggiugneste tanto, Colpe faranno mai l'Orto e 'l Ponente.
Che 'l gir velato di purpureo manto, Non può nè potrà mai l'umana gente
E splender fra i più illustri e sacri eroi Tanto peccar, quantº una delle sante
Chiaro dai regni Spani a i lidi Eoi, Piaghe lavò: che dunque tutte quante
È di tanti altri vostri il minor vanto: Fero e faranno a chi di cuor si pente?
Qui, sacro signor mio, dove non pure Quinci è ch'io sperai sempre e spero ancº
E buono il fonte, ma la gente ancora E spererò fin che da me si svela
Dispregiatrice d'ogni bene umano, L'alma che qui mal volontier dimora,
Si queta vosco e sì dolce dimora Voi ben potete, signor mio, talora
Traggo fra Rivomero e 'l bel Larcliano, Coll'orazioni vostre far sì ch'ella
Ch aggio posto in obblio tutte altre cure. Esca men grave del suo limo ſuora,
SPIRITUALI ſso 3

Al molto Rever. M. Giovanfrancesco Infangati. Al molto Reverendo messer Pu cio Ugolini.


Qual chi cosa talor per la via scontra Reverendo signor, se vi sovviene
Che scontrar non vorrebbe, indietro il passo Degli onesti piacer, che la citate
Distorna o 'i ferma, o pur nel primo sasso D'Antenor dienne alla più dolce etate
Tacito guarda che con gl'occhi incontra: Col Lenzi, collo Strozzi e col buon Bene;
Tal io, sacro signor, quando m'incontra Di me vi prenda, che l'infernal pene
Il comune avversario, oltra non passo; Vorrei, nè so fuggir, qualche pietate;
E'l viso in terra vergognando abbasso, Per me un dir di paternostri fate,
Ne'miei pensier che mi stan tutti incontra. Che picciol ramo gran fascio sostiene.
Pur mi sovviene e mi consola al fine, Quando io mi pongo meco a contar gli anni,
Ch'altri ch'io stesso non può tormi quello, Che senza alcun mio frutto andati sono,
Che mi donaro acuti chiodi e spine. Anzi con mille e mille, or biasmi, or danni;
Null' è, chiaro Infangato, uom cosi fello, Ho tal paura, no'l gran di mi danni,
Ch' una lagrima sola in su la fine Ch'io non so quel ch'io faccia, o dove sono,
Non lave e 'l torni di Gesù fratello. E così va chi crede agli altrui 'nganni.

Al molto Reverendo M. Chiarissimo de' Medici. Al molto Reverendo M. Tanal de Nerli.

Se negli Angeli suoi trovò nequizia, Amore e propria carità m'assenna,


E quel ch'era il più bello e a Dio più caro, Che 'l suo dritto e l'altrui mai non obblia,
E tanti e tanti da lui ribellaro Ch' a voi ricorra, e m'accomandi pria,
Nella prima del ciel santa milizia: Ch'io dia riposo alla stancata penna :
Meraviglia non è s' alla malizia Le piume, onde si vola al ciel, mi spenna,
Di lui, ch'ora in bruttezza non ha paro, E mi ritorce dalla dritta via,
Non volli, o seppi, o potei far riparo Per far del tutto sua l'anima mia
In tanta di mal far quaggiù dovizia. Quell'idol falso ch'abitò Geenna.
Ma ei con lor del suo peccar contento Perch'io pavento e vo col cor gelato
Persistette ostinato nell'errore, Qualor rimembro il ghiaccio e quella arsura,
Dov'io, chiaro Signor, men doglio e pento. Ove in eterno, oime ! vivrò dannato,
E se infin qui tardo fui sempre e lento, Tanai, caro signor mio saerato,
Farò, qual riposato corridore, Chi quelle spregia e queste cose cura,
A racquistar tutto il perduto intento. Può bene, anzi dee dir d'esser mal nato.
Al molto Rever. M. Giovambattista Corbinelli. Al molto Reverendo M. Piero Stufa.

Cortese e reverendo Corbinello, E d'un pensiero ancor, non che dell'opre


Soccorretemi, prego, dall'insidie Dovem, Stufa mio caro, al giorno estremo
Tante, ch'ognor mi pon con sue perfidie Render ragion: perch'io già tutto tremo,
Chi ora è brutto, quanto già fu bello. Tante in me colpe il mio avversario scuopre.
Costui, non fuor di sua nsanza, fello Nè val ch'io ingegno, od eloquenza adopre,
Il ben preso cammin quasi m'invidie, Chè quanto io più le mie nequizie scemo,
Or con gole, or con ire, or con accidie Tant'ei l'accresce: ond'io mi taccio e temo
Cerca sviarmi dal sentier novello. Che 'l ver dinanzi a lui nulla ricuopre.
E lo farà, se le preghiere vostre Dunque, mentre siam qui, mentre viviamo
Tosto non sien cagion, ch' io impetri aita In questo breve inferno; se fuggire
Da Chi ricoverò le colpe nostre. L'altro eterno volem, bene operiamo.
Quell'alta vostra cortesia 'nfinita Tutti perduti ad un, tutti eravamo
Qual sempre agl'altri, tale oggi si mostre Dannati, oimè! ma Dio per noi morire
A me, perch'io non perda eterna vita. Quel ci rendè, che n'avea tolto Adamo.
Al molto Reverendo messer Guido Adimari. Al molto Rev. M. Jacopo Aldobrandini,
Già per ornar di verde onor le chiome, Caro e cortese Aldobrandin, se queste
Ed acquistar tra più pregiati vanto, Cose terrene son, come son nulla:
Piansi e cantai gran tempo; or piango e canto Perchè tanto ne piace e ne trastulla
Per iscemar degli errori miei le some. Questa vita, e ne toe quella celeste?
Più non bramo piacer, ma cerco come Tutte l'utili vie, tutte l'oneste
Possa pregando uniliarmi tanto, Impariamo a fuggir fin dalla culla:
Ch'io impetri grazia su nel regno santo, D'intender Cristo e di seguirlo è nulla;
Dopo questo morir, che vita ha nome. Ma così già non fate voi, nè feste.
E perchè poco di me stesso fido, Anzi da primi giorni vostri, e quasi
Anzi non punto, umile a voi ricorro, Entro le fascie a Dio, com'è dovuto,
Non men buon che cortese messer Guido. Sacro feste di voi largo tributo.
Voi certa scorta, voi mio duce fido Ma io dianzi, che tardi ho conosciuto
Guidatemi al mio ben ch'io per me corro L'arti e l'insidie del serpente astuto,
Al male, ed ho vicin l'ultimo strido. D'offender Dio non già me ne rimasi.
Go4 - SONETTI
Al molto Reverendo M. Antonio Benivieni. Al Reverendo M. Niccolò Guidi.

Dunque io morrò senza poter nè voi, Quella, Niccolò mio, che 'l Signor nostro
Caro Benivien mio, nè 'l buon Martello Pace diede e lasciò, quando da suoi
Vostro veder, che del suo gran fratello Partio l'ultimo di, sempre con voi
l'remendo l'orme, adegua i maggior suoi ? Dimori, e tutto queti il viver vostro.
Questo e non il morir par che m'annoi; Io, poscia che dal ciel lume s'è mostro,
Ch'uscir di secol sì malvagio e fello Ov'io scerno chi dice: Pria che muoi,
Grande è grazia di Lui, che 'n vile ostello Teco e tra lor concorda i pensier tuoi;
Nacque, visse e morio per salvar noi. Altro da quel ch'io era, altrui mi mostro.
Or se non muove qui solo una foglia E cerco sol che 'l mio voler discorde
Senza 'l giusto voler del gran Monarca, Dalla Donna non sia, che 'n cima siede,
Nessun non ha donde a ragion si doglia. E dce regnar, ne cura altra mi morde.
Chi è, che sappia pur quel ch'ei si voglia ? Gli occhi ciechi, oimè ! l'orecchie sorde
D'ogni miseria è questa vita carca: Ebbi al mio ben gran tempo, e mossi il picle
Io per me fatto ho sua d'ogni mia voglia. Per vie non dritte e d'uman fango lorde.

Al molto R. M. Francesco Cattani da Ghiacceto. Al Rev. M. Alessandro degli Albizzi.


A voi, ch'al mal di ghiaccio, al ben di foco, Passano i nostri di, ch'altro non sono,
Signor mio, sete, ogni alta loda viensi Ch'un chiuder d'occhi, via con maggior fretta,
Ch'alla ragion sottoponete i sensi, Che mai da corda non fuggì saetta,
Schifando parimente il molto e 'l poco. Ond'io, ch'era un fanciullo, or vccchio sono.
Ma io, ch' ancor giammai molto, né poco E così vecchio a lui mi sacro e dono,
Non feci quel che far sempre conviensi, Sacro Alessandro mio, che tutti aspetta
Di me non so quel ch'io mi dica o pensi: Con braccia aperte in su la croce, eletta
Dio non s'inganna, e non si prende in gioco. Per dar salute ai buoni, a rei perdono.
Qual premio avranno dopo morte i buoni, Perdon gli chieggio umilemente, e certo
Tal fia de' rei la pena : chè 'l Signore Son ch'io l'avrò, che le parole sue
Quant' ha pietà , tant' ha giustizia ancora. Mentir non puonno, e si me l'hanno offerto.
Pregatel dunque che nel suo furore E poi ch'un sol volere è di noi due,
Non mi riprenda, e ad uno ch'or l'adora, Spero, sua gran pietà, non già mio merto,
Quanto l'offese, i falli suoi perdoni. Dover essere un di con voi lassue.

Al molto Rever. M. Antonio Petrei. Al Rever. M. Dionigi Lippi.


Questa povera mia terrestre gonna, Reggere altrui, altrui corregger, peso
Che fia tosto nuda ombra e poca polve, Non è dalle mie braccia; e s' io non reggo
Troppo di me, caro Petreo, s'indonna, Me stesso, oimè! nè gli error miei correggo,
Ne dai piacer mondani ancor m'assolve; Riprender no, ma debbo esser ripreso.
Ond'io, ch'aspetto ognor l'audace donna, Poscia io son tutto alla gran opra inteso,
Che tutte umane cose alfin dissolve, E quando tace il sol, leggo e rileggo
A Lei ricorro umil, che sola è Donna Quel che'l di scrissi, e mentre o vado, o seggo,
Del cielo e Madre a Chi l ciel tempra e volve. Il falso e 'l ver con giusta lance peso.
E per lei spero che 'l suo dolce e caro, Non è ognuno ad ogni cosa buono:
Che 'l tutto e fece e regge, unico Figlio, Distinti son tra noi gli uſizii, ond'io
E mai non fu delle sue grazie avaro; Quel ch'a me già die Roma, oggi a voi dono.
Avrà di me nel mio partir pietate, Voi Lippo, Lippo, voi del bel natio
E scamperammi dall'eterno esiglio; Paese, che col cor non abbandono,
Merto, Anton, mio, non già, ma sua bontate. Eleggo archimandrita in luogo mio.
Al Reverendo M. Donato Minerbetti. Al Rever. Monsignore Don Vincenzio Borghini,
Priore degl'Innocenti.
La vostra tanto adorna e così vaga Signor, che 'n questa veramente oscura
Villa e i suoi chiari fonti m'appresenta Selva allumate le smarrite genti
Sempre agli occhi il pensiero, e mi rammenta Collo splendor di mille vostre ardenti
Fiesole bel, ch'altrui vedendo appaga. Virtù, cui morte mai, nè tempo oscura:
Non mira il Sol quanto girando vaga Quel pio paterno affetto, quella cura
Monte nessun che più renda contenta Grave, che 'n voi non par che mai rallenti
La vista e'l cor, se non quell'un che spenta Nel governo de pargoli innocenti,
Ogni vil voglia, feo l'alma mia saga. Del ben ch'hanno i beati v'assicura.
Sovr'esso in breve legno, o 'n picciol sasso Io che mai feci, o faccio or, che m'accerti
Gran tempo, signor mio, volli e sperai Di non dover nel più profondo abisso
Chiudere il corpo di suo spirto casso. Tra lor cader, che del suo mal son certi 2
Ma dianzi, omai vicin l'ultimo passo, Ma tanti sono e così grandi i merti
Questo ed ogn'altro uman pensier lasciai, Di Gesù, che per noi fu crocifisso,
Del mondo e de' suoi 'nganni sazio e lasso. Che nessun è, che 'l ciel per lui non inerti.
SPIRITUALI - Go 7

Al Rev. Padre D. Antonio da Pisa, Ab. di Classi. Al Rever. Padre Predicatore Frate Egidio Bonsi,
reggente di Santo Spirito.
Di tre casti amor'arsi un tempo, ed ora Se dir vero altrui lice, io non invidio
D'un sol, ch'è trino ed uno ardo si forte,
Padre mio venerando, che la morte,
C i gli scettri possiede, e poco apprezzo
L'oro. fuggir quel ch'altri cerca, avvezzo;
Ch'altrui si spiace, a me diletto fora. Ma voi novello, e pari al vecchio Egidio,
E se 'l peccato mio m'è contro ognora, Voi sol di Belzebub eterno eccidio
Più è di lui la mia speranza forte; Ammiro, e qualunch'altro allor disprezzo
Tanto par che m'affidi, e mi conforte Per cangiar come il pelo, ancora il vezzo,
Chi morir volle sol, per ch'io non mora. E trovare a miei danni alcun sussidio ;
Or se i vostri di voti ardenti preghi Chè per voi d'alto e sacro seggio suona
Al mio vero pentir s'aggiugneranno, Con angelica voce, in atto unile,
Non ſia che 'n lui sperar, Gesù mi nieghi. Dottrina del santissimo Elicona.
E'l vostro Razzi e mio, ch'e senza inganno,
Questa entro l'alma, oltra l'usato stile
Farà 'l sepolcro a cui dinanzi spieghi: Si mi penetra, e tal quivi ragiona,
Questi fuggio piangendo il suo gran danno. Ch' ogni cosa quaggiù le scmbra vile.
Al Viev. Padre Predicatore Frate Andrea
Al Rev. Padre D. Garzia, Priore degli Agnoli.
da Volterra, dell'Ordine di Santo Agostino.
Sia lodato il Signor, lodato sia Chi vuol vedere ed ascoltare in terra
L'alto Signor, che fece e cielo e terra, Di celeste eloquenza ondanti fiumi,
Che solo egli è quel ch'è; tutti altri terra E d'ardente virtute accesi lumi,
Siamo, anzi fango vil, ch'ognor va via. Vegga cd ascolti voi, chiaro Volterra.
E voi, padre don Garzia, che la via Voi quella via, che si spesso oggi s'erra,
Mostrate agli altri, che si spesso s'erra, Mostrate, e si da folti ispidi dumi
Oggi, prima ch'io sia spento e sotterra: Purgate ognor, ch'omai par che s'allumi,
Per me pregate il Figliuol di Maria. E s'apra il varco, che malizia serra.
Per me, che fui concetto ed in peccato A voi non d' edra, o lauro, o verde mirto,
Nacqui, e son visso e viverò, che sempre Ma di quercia, di palma e verde oliva,
Ho quel perverso e frodolento a lato. La fronte cingerà divino spirto.
Che mi gioverà, lasso! aver cangiato In me, poi che di voi buon padre o forza
Vita e costumi, s'a le prime tempre Umana, od arte di demon mi priva,
M'avrà quel falso lusinghier tornato ? Il genio mio non buono ha maggior forza.
Al Rever. Padre Don Silvano Romito dell'Eremo. Al Reverendo Padre Predicatore, Fra Giustiniano
da Scio, dell'ordine di S. Francesco.
Qual fu cor tanto mai debile, e 'nfermo? Somma eloquenza in voi, somma dottrina
Qual si fero, o si folle? qual si avvinto Delle greche e latine e tosche carte,
Ne terren lacci? qual si forte vinto Che lunghissimo spazio vi diparte
Dal costume, ch' è solo offesa e schermo? Dagli altri, onde ciascun v'onora e 'nchina:
Che 'n questo alto silenzio, alpestro ed ermo E poco e quasi nulla alla divina
Di mille abeti mille volte cinto, Vostra bontate, ove null'altro ha parte;
D'ogni cura mortal per sempre scinto, Se non ch'ella a ciascun sè stessa parte,
Non si rendesse a Dio costante e fermo ? Quella imitando ognor, ch'è sola e trina.
lo per me quanti miro o volti o celle, La gente tutta ad ascoltare intenta
Tanti parmi vedere angeli e cieli, Trema di dolce maraviglia, e pare
E tremo tutto in disusato ardore. Che tutto il ben del paradiso senta.
Deh qualcuna di voi, sante alme e belle,
Io per me, padre mio, potrei giurare
Seco mi tragga fuor del mondo e celi Ch' essere in cielo, ogni vil voglia spenta,
In questo sacro e solitario orrore. Mi par tra l'alme elette, a Dio più care.
Al Reverendo Padre Don Silvano Razzi, Al Rev. Padre Predicatore D. Gabriello Fiamma,
Monaco degli Agnoli. Canonico regolare, lateranense.
Or conosco, or sent'io, caro Silvano, Ogni alto foco, ogni più calda fiamma
Mentre languendo or Elsola, or la Doccia Neve parmi, anzi ghiaccio a lato a quella,
Penso, quanto m'annoi, quanto mi noccia Che, quando vostra dolce, alma favella
L'esser gito e star voi da me lontano. Odo, tutto entro e fuor m'incende e'nfiamma.
Ma pure spero, e spero che non vano O di celeste amore ardente fiamma !
Fia 'l mio sperar, ch'io non pure una goccia Quale è alma tant'empia e si rubella
Verso, ma mille ognor, qual larga doccia, Di Gesù, qual si fredda e tanto fella,
Trovar pietà dal mio Signor sovrano. Che non avvampi, ove 'l tuo lume fiamma?
Perche con gli occhi e con la mente a Dio Qual miracolo è quel, quando al Signore
Rivolto, vedo il suo dolce Figliuolo Che pende in croce, ti rivolgi e 'l preghi
Pendere in croce mansueto e pio. Con tai parole e con sì fatto ardore '
A voi piaccia, buon Razzi, al tumul mio Stupe la gente, e crede ch'i tuoi preghi,
Vergar con larghe note un carme solo: E fa ben forza al ciel divoto cuore,
Questi contento assai visse e morio. Lo muovan sì, ch'ei lor nulla mai nieghi,
6o6 SONETTI
Al Reverendo Padre Predicatore Al Reverendo Padre Don Miniato Pitti,
Fra Giovanni Salone da Valenza. monaco di Monte Uliveto.
Padre, ch'ardendo di celeste zelo Sopra erto poggio, fra monti aspri, al piede
Conformi l'opre a sì bei nomi avete : D' orrido scoglio, d' ombre ricca, donde
Tanto giovate altrui, tanto valete Suo nome prese e di freschissime onde
In far l'alme aringando or fiamma or giclo ; Verde fiorita, ombrosa valle siede: |

Io che, cangiato già molti anni il pelo, Nella cui cima, sacra antica sede
Di cangiare anche il vezzo ho degna sete, D'anime care a Dio, tra prati e fronde
A voi ricorro umil, che ben sapete D'abeti, al suon di bell'acqua s'asconde,
Che forza pate e violenza il ciclo. E non veduta immenso spazio vede; |
E poi ch'inutil servo il mio talento Quindi non lunge sopra alpestro e fero
Senza alcun fritto sotto terra ascoso Sasso tra molli erbette, appo un bel fonte
Tenni, veloce al mal, quanto al bel lento : Sorge al ciel santo e solitario ostello. (
Or che del mio fallir mi lagno e pento, Da questo il gran Mendozza, albergo intero
Per me pregate quel Signor pietoso, Di virtù, mira, ed io seco oggi il monte,
Ch' è tutto e sempre a perdonare intento. Che dal volgo partimmi errante e fello.
Al Reverendo Padre Predicatore
Al Reverendo Padre Don Onofrio da Codognuola, A

Fra Niccolò Biliotti, dell'ordine di S. Domenico. canonico regolare di S. Salvatore, Agostiniano.


Or ch'io son giunto quasi al punto estremo Padre, voi pur sapete che dal bene,
Della mia vita, e come speso ho 'l tempo, E da chiunque è buon , lungi è l'invidia,
Tra me ripenso, in un medesimo tempo Dunque a voi che bnon scte, avere invidia
Padre mio reverendo, io sudo e tremo. E nascondere il ben , mal si conviene.
Bianca ho la barba e quel vigore scemo, Le sante vostre omelie dolci e piene
Che seco arreca e se ne porta il tempo: Di dottrina e bontà sol la perfidia
E conosco ch'omai troppo m'attempo Dell'avversario antico oggi ne 'nvidia:
A produr frutto, onde mi sdegno e fremo. Ma vostra alta pietà come il sostiene? A
Pur mi conforta e mi consola, ch'io, Come è, padre mio buon, che non vogliate
Se ben son peccator, fui battezzato; Di sì bel don di Dio fare a noi parte?
lº credo in Un ch'è trino e solo Dio. Di Dio, non vostro è quanto o dite o fate. C

Pietà vi prenda del mio dubbio stato; Chi sì dal cammin dritto oggi vi parte?
Nessuno al mondo è sì malvagio e rio, Vero sete cristian, Cristo imitate:
Che se si pente alfin, non sia salvato. Vivan vosco e per voi si pure carte.
A
Al Reverendo Padre Predicatore, Fra France Al Reverendo M. Francesco Astudiglio, teologo,
sco Buratti da Monte Pulciano, cappuccino. Anima cara a Dio, ch'altro Parnaso, L

Fussi io, Francesco, voi, ch'io sarei pure Altro Apollo, che noi sospiri, e pregi
Dal mondo tutto, ancor vivendo, sciolto! Più chiari hai che di mirto, e privilegi
Miser chiunque troppo o vile o stolto Cui nè fortuna mai rompe, nè caso: M
Perde sua vita in queste umane cure ! Tu puro e dolce quell'antico Vaso
O felici, o tranquille ore sicure, D' elezion coi tuoi sermoni egregi
Che voi vivete in rozzi panni avvolto; Piano a noi rendi, e fai che men si pregi
E colla mente al ciel sempre rivolto Non quel di Scozia pur, ma 'l gran Tommaso, M
Godete in terra quelle menti pure ! Ben può la Spagna alla Cicilia e Burgo
E 'n poco spazio notte e di racchiuso A Tarso omai, se non di par vicino,
Di stretta cella e solitaria, aprite Girsen per voi, del ciel sentiero e varco, E
Largamente il sentier ch' a Dro conduce. Astudiglio gentil, per cui già scarc o
Per voi sian, prego, dall'eterna luce Del mio fango mortal tanto alto surgo,
Che'n voi si raggia, mie preghiere udite: Che presso al suo fattor l'alma avvicino.
Tronchi Cloto il mio fil che pieno è 'l fuso.
Al medesimo. Al signor Iacopo Appiano, signore di Piombino,
Nè perciò temo, anzi mi pare ognora Voi, ch' all'antica Populonia, donde
Mille anni e più di questo scuro e vile Tutto signoreggiate il mar Tirreno,
Terren carcere uscir ; ch' alma gentile Nella più verde età reggete il freno,
In albergo non suo trista dimora. Frate al gran Duce delle Tosche sponde:
Padre, io posso giurarvi che, qual ora Or che mercè di lui, per voi seconde
Del mio sovviemmi fortunato aprile, Gira sue ruote lei ch” alfin vien meno
Quando in alto cangiai pensieri e stile Contra virtute, ben potete a pieno
Per la fronde che doppia oggi s onora, Rallegrarvi, e con voi la terra e l'onde.
Dico dentro al mio cor: Ben puoi contento, Sol l' empio Scita contristarsi, e solo,
Anzi dei lieto omai dopo tanti anni Batter la fronte a sè medesmo deve
Quinci partir dove morto è chi vive. Chi fa suo ben dell'altrui danno e duolo.
Nè temer ti convien gli eterni danni: Così sparir da tutti i lidi in breve
Già sai che 'n te le mie tre fiamme vivc Veggio per voi ciascun nemico stuolo,
Ebbcr del tutto ogni rea voglia spento. Come face a gran sol picciola neve.
SPIRITUALI 6o7
Al conte Clemente Pietra, cavaliere di S. Stefano. A Fra Paolo del Rosso, cavaliere di Malta.

Al vostro alto valore, in cui si specchia Forse di questo falso mondo i fiori
Quale è più prode e più gentil persona, Posson piacer, Paolo mio, ma i frutti
Saggio e forte Clemente, ampia corona Riescon vani, o son tanto aspri tutti,
Il buon duce e gran mastro oggi apparecchia. Ch' alcun saggio non è che pur gl' odori.
Che 'l barbaro furor, com'è già vecchia Portan vergogna alfin gl' umani onori:
Fama, la qual per tutto omai risuona, Tornan gl' utili danni, i risi lutti :
Cotal sua stella o suo voler lo sprona, Spina, ogni fiore, e s'alcun è che frutti,
Affrontar l'Europa s'apparecchia. Vien bozzacchion di sua natura fuori.
Ond' io vi veggio tra i nemici in mezzo, Perch'io commendo il voler vostro meco,
Di fuoco e ferro, or col ferro or col fuoco, Ed ammiro il poter dopo tanti anni
Mandarne mille nell' eterno rezzo. Viver si lieto in così gravi affanni.
Qual carta? qual inchiostro non ſia poco? lo, che ſin qui sordo son visso e cieco,
S' alcun potrà non dico il tutto o'l mezzo, Oggi per ischifar gl'estremi danni,
Ma 'l principio narrar, non farà poco. Cerco in dritto cangiar l'oprar mio bicco.
A messer Ridolfo Lotti, cavaliere di S. Stefano. Al capitano fra Lorenzo Guasconi,
cavaliere di Malta.
Quanto dall'un de' lati ognor mi sfida Quella pietà, quel senno, quel valore,
Quei, che null'altra che dannarci ha cura: Onde da tutti i più famosi Malta
Tanto dall'altro anzi più m'assicura Oggi, non men che già Rodi, s'esalta,
Chi morto in croce i delinquenti aſfida. Chiaro specchio dei buon, de rei terrore;
Tu dunque, alto signor, scorgimi e guida, Contra l'empio barbarico furore
A Cui 'l ciclo ubbidisce e la natura: Ch'ognor minaccia, e già quasi l'assalta,
Tu dammi lena, ond' io ti segua, e cura S' appresta a dolce, disiata, ed alta
Che 'l mio nemico e tuo di me non rida. Gloria portarne e sempiterno onore.
A voi, Ridolfo mio, che 'I dritto segno Dunque vostra virtù, Guascon, si rada
Con tutti i vostri alti pensier mirate, Per difender Gesù, per salvar noi
E solete a chi cade esser sostegno: Si cinga al fianco l'onorata spada.
Caglia, prego di me, che le pedate E col Valori e 'l buon Rondinel suoi,
Altrui torte ho seguito; or farmi degno E col Ginoro e con tant'altri vada
Cerco d'aver su 'n ciel qualche pictate. A far suo dritto, e fia contenta poi.
Al signor Abate M. Bernardo Giusti,
A messer Lelio Bonsi, cavaliere di S. Stefano. segretario di sua Eccellenza il Duca.
Lelio, chi d'altro il Re celeste prega, Bernardo mio, questi terreni fasci
Che di piacere a lui, e con virtute M' aggravan l'alma forte sì, ch' ogn' ora
Viver, quel ch'è contrario a sua salute Mi par mille anni, e più che di lor fuora
Ben spesso chiede e ch'a ragion si niega. Uscendo in terra omai la terra lasci,
Ma la gente volgar che male impiega E tu che gli occhi della mente fasci,
Ogni suo studio, e tien sempre l' acute Speme, che 'l miglior sia far qui dimora,
Luci al guadagno, par ch' odi e rifiute Via da me fuggi, e chi ti crede, ognora,
Chiunque l'ali al cammin destro spiega. Falsa di tue vane lusinghe pasci.
Ma voi seguite e da sinistra mano Questa vita mortal che tanto piace,
Lasciate andar la turba vil che spera Altro non è che breve notte oscura,
Aver pace d' altrui, dando a sè guerra, , Ove virtute ha guerra e 'l vizio pace.
E dite meco umil mattino e sera: Chi voi, Giusto signor , chi me sicura
Signor, che reggi il ciel tutto e la terra, Ove 'l torto è gradito e 'l dritto spiace?
Dammi queta la mente e 'l corpo sano. Volgasi dunque al ciel vostra e mia cura.
Al medesimo. Al signor messer Bernardino Grazzini,
segretario di Sua Eccellenza il Duca.
Lelio, io so ben che voi sapete ch'io Ciò ch'è nascoso a noi, ciò ch'è palese,
So, che quanto da noi si dice o face Quanto soffiano i venti e bagnan l'acque,
Dee farsi sempre e dirsi nel verace Quel che si disse mai, quel che si tacque,
Nome di Gesù Cristo, uom vero c Dio. Di Dio fu grazia ed è, Grazzin cortese.
E 'l vorrei far: ma 'l serpe antico e rio, Sol feo mobile il ciel: sol ei sospese
Per darmi guerra e tormi eterna pace, La terra che nel mezzo al tutto giacque;
M è d'ogni tempo a lato, e mai non tace Ei sol per sè ſia sempre, ei mai non nacque;
Pigro per far suo pro del danno mio. -
Null'altro lui ed ei tutt'altri intese.
Ma io fido in Colui che tutto vede Quanto si cela dunque, e quanto appare
E tutto sa, nel qual solo ebbi ed aggio Di questo globo, a Dio deve, a Dio solo
Ed avrò notte e di speranza e fede. Nuovo la notte e 'l di carme cantare :
Che non sperar? che temer dee chi crede Ed al suo pari a lui caro Figliuolo,
In lui? Quel Sol ch'ogn'altro lume eccede, Che per noi volle, o pietà singolare!
Dell'immensa sua luce è picciol raggio. Morir con tanto strazio e con tal duolo.
6oS SONETTI
Al signor cavaliere Saracini. A messer Baccio Baldini, fisico.
Io me ne vo, signor mio caro, dove D'Apollo onore, di Minerva pregio,
Siede l'antica gloriosa Alfea Quel ch'io cercai tanti anni e con tal brama,
A quel buon duce, che la bella Astrea D'acquistar tra i più chiari onore e fama,
Porta nel petto e nella fronte Giove. Oggi, mercè di Dio, fuggo e dispregio.
Ed al gran figlio sno, nel qual si muove Che giova essere o 'n pace o'n guerra egregio
Splendon virtù, che lui che pria parea A chi quel sommo eterno ben non ama,
Non aver pari al mondo, e non l'avea, Che sol si dee pregiar? Stolto si chiama
Or l'ha, quasi sè stesso ognor rinuove. Ed è, chi fuor di lui pensa aver pregio.
E mentre io giù per l'acque i rami sego, Ei sol può darne eterna vita e gloria
Da quel Signor che fece e regge il tutto, Vera, che mai non venga meno: ei solo
Lunga vita e felice ad ambi prego. Non cbbe inizio e non arà mai fine.
Signor mio caro, a giusto ed umil prego, Tornici, Baccio, tornici a memoria
Tant'è di calda orazione il frutto, Quel che sofferse il suo caro Figliuolo,
Mai non si fece in ciel, ne farà niego. Coronato per noi d'acute spine.
A messer Cesare dell'Amica, guardaroba. A messer Giovanni Campana, fisico.
L' erbe, le piante, i fior tutti e le fronde, Soave è il giogo di Gesù leggicro,
Ch' apre ne verdi colli il nuovo aprile, Tutto è quel peso che per lui si porta,
Scuoprono a noi, Cesare mio gentile, Giovanni mio: perchè via più conforta,
Quel ben, cui fango all'alme nostre asconde. Ch'ei non affligge un corpuro e sincero.
Sol dal voler di Dio, né mai d'altronde Io, che fornito poco men che 'ntero
Ogni cosa, qual sia pregiata o vile, Il cammino ho di questa vita corta,
Esser prende e vigor, ch'a lui simile Per l'eterna acquistar, chieggio voi scorta,
Vuol farsi; ma il poter non corrisponde. Che mi mostriate il sentier dritto e vero.
Nulla al mondo non e, dove non possa Che tarde non fur mai grazie divine:
Vedersi, e voi 'l sapete, anzi non debbia In quelle spero ch'anco in me faranno
L'infinita di lui perpetua possa. Altere operazioni e pellegrine.
Ma 'l veder nostro corto d'una spanna Tutti oggi i pensier miei vanno ad un fine,
Oscura di mondani affetti nebbia Di farmi tal, che fuggir possa il danno,
Con gran vergogna e danno nostro appanna. Ch'è maggior di tutti altri e non ha fine
A messer Scipione della Palla. A messer Maggio Bazzanti, fisico.
Scipio, cui si di me pietoso veggio, Maggio gentil, d' ogni virtù fiorito,
Così mi dia de falli miei perdono Quanto ier m'aggradi vostro soggiorno!
Quei tre ch'è uno, e quell'un che tre sono, E fu ver ch'io cercai, ma n'ebbi scorno:
Com'io la notte e'l di piangendo il cheggio! D'esser mostrato anch'io tra i pochi a dito,
Quel che posso, foio; non già quel desgio: Ma quando, il che fo sempre, al mio graditº,
E quanto o faccio, o dico, è tutto dono Sacrato allor colla memoria torno,
Del ciel, ch'io poco, anzi pur nulla sono ; D'ogni bel fior, d'ogni buon frutto adornº,
E merto assai, del mal ch'io soffro, peggio. Solo a santo operar m' accendo e 'nvito,
Voi con Ascanio e 'l Manzian divino, E conosco che qui nulla è che vaglia:
Col dotto Tizio e tutta l' alta schiera E che saggio non è, se non colui
l)ella grande Isabella e 'l grande Orsino, Che ben se stesso e le sue opre vaglia,
Vivete lieti, e quel destro cammino Ov' è or Lumi? Ov è ora Urbisaglia? -

Seguite nella vostra primavera, Pochi puon dire: io son; ma molti: io fui;
Ch'io presi il verno alla fin mia vicino. Quanto vive quaggiù fuoco è di paglia,
A messer Gabriello Falloppia. Per messer Pompeo della Barba.
Mentre che di mia vita or fido or dubbio, Dopo le basse, oscure e mortali acque,
Tra foco e gielo, in fra paura e spene, Dopo 'I bel mondo, che nel mezzo luce,
Quella pianta gentil nel cor mi viene, L' alte chiare e celesti al sommo Duce,
Che m' è consiglio e scampo in ogni dubbio. Nel principio crear mai sempre piacqueº
Dunque, mi dice, incerto vivi e dubbio? Dove si giace in sempiterno e giacque
Nè di me, nè di te non ti sovviene? Divisa in tre splendor l'immortal luce,
Che dei temer quando troncasse bene Ch' alle purgate e illustrate alme adduce
Cloto tua tela, non ben pieno il subbio ? Quella perfezion ch” unqua non nacque
Non sai che morte a chi ben vive e spera Occhio mortal non vide mai, nè mai . .
Nel Signor di lassù ch' è senza inganni, Orecchio udio, nè pensò cor quale vi
E 'l fin di tutte umane noie e danni ? Lume e dolzor per nove cori splende.
Il corpo è fango: vedi che non pera Men famoso, Giordan, men chiaro andrai ,
L'alma, che come in te pura e sincera Santo, e tu, Tebro, or che dei vostri ri"
Scese, tal vole negl' eterni scanni.
-
Cresciuto al par di voi l'Arno s'esterº
SPIRITUALI 6 9

A messer Francesco Ruggieri d'Arezzo, fisico, A Madonna Fiammetta Soderini de' Soderini.
ed al cavaliere Rosso.
Quella che splende innanzi al giorno fiamma,
Coppia, che l'orfanelle abbandonate Lume portando a noi mortali e luce,
In povertà, colpa non lor, venute, Non così chiara e si propizia luce,
Per condurre ad onor lor gioventute, Lassù, quanto voi qui, celeste fiamma.
Con tale e tanta carità curate ; Qual' è più pura e più lucida fiamma
Cristiano uſizio e degna opera fate Della vostra cortese, onesta luce
Della gran bontà vostra e gran virtute: Meno arde assai, ne quella immensa luce,
Onde a loro ed a voi gloria e salute Ch'alluma il mondo tutto, a voi par fiamma.
E qui tra noi e su nel cielo oprate. Ma questa di quaggiù mortal beltate
Non sempre in terra aver mosco potemo E fior, ch'ostro percuote; onde vie meno
Quel che n'aperse il ciel vero Messia: Dura che 'l verno Sol : nube la state.
Ma 'n quella vece i poverelli aveno. Però sciogliete ai pensieri alti il freno,
Dunque seguite la bell' opra e pia, Nobilissima donna, e v'appigliate
Che una è delle sette; anzi 'l ver scemo, A l'eterna che mai non verrà meno.
Ch'ella è la prima e meglio a Dio ne'nvia.
All'Illustrissima signora Caterina Cibo, A Madonna Laura Battiferra degli Ammannati.
duchessa di Camerino.
L'alto ch'io tesso ognor grave lavoro,
Donna, che come chiaro a ciascun mostra Peso non mio, ma da più forte braccia;
Il nome e l'opre più, l'alma del vero Molti e molti anni già , tutte discaccia
Cibo nodrite, e con divin pensiero Da me le Muse, e me tutto da loro.
L'alzate ognora alla superna chiostra, Quinc'è, secondo mio bramato alloro,
Dove quanto e quale è, tal le si mostra Ma non secondo ardor, ch'io di voi taccia;
Tutto senza alcun velo il primo Vero, Il cor non già, che per antica traccia
Ed ella in atto umilemente altero
A voi pur vien, suo terzo almo ristoro.
Adora quivi sua salute e nostra, E con voi parla, e vi dice ch' omai
Onde non lungi appo'l gran Bembo, luce Lasciato il mondo, altro non ho disio,
L'alta Colonna e 'l buon Flamminio, a cui Che far, ma con Gesù gl'ultimi lai.
Fu si conta la via ch'al ciel conduce, Scrivasi dal buon Razzi al cener mio:
Piacciavi dir, poi che le brame altrui Questi, per non sentir gli eterni guai,
Scorgete tutte nell'eterna luce, Tutti alfin volse i suoi pensieri a Dio.
Ch'io son qual era e sarò quel che fui.
A Suor Cherubina del Ghirlandaio, sua sorella.
All'Illustrissima signora donn' Isabella Medici
degli Orsini, duchessa di Bracciano. Suora, che 'l sesto e sessantesimo anno
Donna real, che non pur di beltate, Sotto bianca cocolla e negro velo
Ma di soavi angelici costumi Con casto a Dio servite e caldo zelo,
Vincete ogni altra, e co' bei santi lumi Ne curate del mondo utile o danno.
Il sesso tutto e 'l secol vostro ornate: Per me, che sol piacergli oggi m'affanno
Quella che di Gesù vera pietate Tutto cangiato colla mente il pelo,
V'accende, arda voi stessa e gl'altri allumi; Pregate il vostro sposo, re del cielo,
Chè le cose di qui son ombre e fumi, Ch' io di Satan forza non tema o 'nganno.
Ne giunte a pena son che son passate. E s'apra omai quel disiato giorno,
Nell'alto padre e nel buon frate vostro, Che 'l divin dal mortal si sepri, o faccia
Ed in tutta la Medica famiglia L'uno a la terra e l'altro al ciel ritorno.
Quanto di Dio fervor sempre s'è mostro? | La spene mia son le pietose braccia,
Da loro e da sè stesso esempio piglia E i preghi vostri ; onde non mai distorna
Il gran consorte che le gemme e l' ostro Un pensier, che da me tutt'altri scaccia.
Sprezza, e solo al valor vero s'appiglia.
A messer Baccio Valori.
All'Illustriss. signora Donna Giulia Gonzaga.
Immortal donna, anzi mortale dea, Mentre languendo già buon tempo giaccio,
Spregiar tutte le cose umane avvezza, E colla negra non pur non contendo,
La vostra unica in terra, aſma bellezza Ma volentieri a lei vinto mi rendo, -

Di quante furo e fien beltati idea, Mai del vostro valor, Valor, non taccio.
La somma in tutte l'altre esser potea E voi, caro, gentil, cortese Baccio,
Delle lor doti, e 'n voi nulla s'apprezza Non venite a vedermi; ond'io comprendo
Ver la bontà, cui ciascun'altra è sezza, Certo che noi sappiate, e pur v'attendo
E questa sola è di mia morte rea. Tra freddissimo fuoco e caldo ghiaccio.
Ch'io vorrei pur dietro la norma vostra Voi, cui tanto il mio ben diletta e piace,
Alcun riposo in questo uman viaggio, Pregherete il gran re che nel suo regno
E pace intera nell' eterna chiostra. Darmi gli piaccia sempiterna pace.
Ma tanti inciampi e dentro e di fuori aggio, E'l mio buon Razzi in qualche marmo o legno
E tali il tentator spine mi mostra, Segnerà : Forestier, quei che qui giace
Che quanto più brigo salir, più caggio. Tutte ebbe alfin l' umane cose a sdegno.
va in C11t v . l. a -
61 o - SONETTI
A messer Carlo Ruccellai. A messer Alberto dalla Fioraja.
Quella, Carlo, ch'a Dio strada conduce, Alberto mio, ch'a questi uman piaceri
Seguir, come voi fate, anch'io vorrei: Falsi avendo già fatto eterno niego,
Ma tutti per lungo uso i passi mici Così per tempo e così pronto i veri
Colà se 'n vanno, ov' il piacer gl'adduce. Seguite, ch'io sì tardi e lento sego:
Pur tanto ancor della sua grazia luce Quel ch' io vi dissi, e voi non negaste, ieri,
Nel petto mio che, per non gir tra i rei, In buona parte ripigliate, prego,
Tutti ne scaccio i pensier vili e rei: Ch'io v'apersi del cor tutti i pensieri
Ma poi seguo il voler com'orbo duce. Con voi facendo, come l'uom fa sego.
Così vivo intra due; pure ho speranza Nulla cosa è tanto perfetta e santa,
Nell'innocente e prezioso Sangue, Cui non possa usar mal chi male adopra,
Che le cinque per me piaghe versaro. E 'l falso e'l reo col vero e buono ammanta.
O misterio di Dio ch'ogn'altro avanza ! Voi ben potrete, e ſia lodevole opra,
Veder suo santo Figlio unico e caro Degna dei vostri fior ben nata pianta,
Pender da legno vil, pallido, esangue! Far sì, che'l falso al ver non stia disopra.
A messer Giulio del Caccia. All'Illustrissimo signor Mario Colonna.
Io cerco ardendo il mio Signore, e sempre Mario, nè chiara nobiltà di sangue,
Porto scolpito in mezzo alla memoria Ne 'i saper dire il numero, in che enno
Delle grandi opre sue la vera storia, I motor di lassù, nè mondan senno
Ch' ei fece tante e 'n si mirabil tempre. Guardar puonne e scampar dall'antico angue
Ma che questo ardor mio non spenga o tempre O non felici, a cui si vanno a sangue
Acqua d'uman piaceri o mortal gloria, Le delizie di qui, che per lor fenno
Si forte pavento io, che la vittoria Servi sè stessi, ed ubbidiro al cenno
Dispero, ancorch'io me ne strugga e stempre. Di chi per torne il ciel, giammai non langue
Pur questa tema poi dal cor mi scaccia E voi beato che drizzaste il collo l
Il Re, che morto in su la croce pende; Per tempo al pan degl' angeli, del quale
E qualunque uom ch'a lui si volge, abbraccia. Vivesi qui, ma non si vien satollo!
Or voi, cortese ed onorato Caccia Fugga, signor, da noi ciò ch' e mortale:
Se basso dire e rozzo stit v' offende, Chiamiam nel cantar nostro il vero Apollo:
A voi la colpa mia perdonar piaccia. Chè; poco l'altro, anzi pur nulla vale.
A messer Vincenzo Godenini. al signor M. Alessandro Piccoluomini

Oggi dovem, messer Vincenzio mio, Voi veramente, signor mio, sapete:
Tutti goder: questo è quel santo giorno; Da voi gl'altri apparare e puonno e denno,
Che vinse morte, e fece al ciel ritorno Ch' a singolar prudenza, a raro senno
L'immaculato Agnel, figliuol di Dio, Unica probità congiunto avete.
Oggi per sempre ho detto e dico addio, Voi lungi al volgo in dolce, alta quiete
A quanto piace in questo uman soggiorno: Quanto dissero mai, quanto mai fenno
Oggi d'altra corona il crine adorno Gl'antichi saggi, ed a gran pena accenno,
Gesù prego e Maria, non Febo e Clio. Non ch'io trapassi il ver, tutto scrivete.
Oggi non un, quantunque casto, coro, Voi di carità pieno e d' umiltate,
Ma nove ognor con tutte le mie voglie, Come vero di Dio servo e figliuolo,
E 'n tutti i miei pensier chiamo ed adoro; Gl'altri non men che voi medesimo amate!
Onde quel ch'io tanto amo e tanto onoro, Ma io che fo» perchè, se non pietate,
Il crin non già delle sue sante foglie, Almen perdon da lui, ch'è trino e solo,
Ma 'l cor m'adornerà sacrato, alloro. Debba trovar delle mie colpe andate?
A messer Paolo Vinta. Al Conte Cesare Ercolani.

Signor mio, voi che 'n così verde etate Quanto a voi die maggior doti e migliori
Le canoniche leggi e le civili Lo Re del cielo, onde sì raro sete;
Con veraci ragion, non pur sottili Tanto voi, caro conte mio, devete
Vive tenete e più le sacre amate, Rendere al Re del ciel grazie maggiori.
Come conviensi; e quel ch'è degno fate Che 'l buon vostro di dentro al bel di fuori
Del padre e maggior vostri; che i gentili Risponda è don di lui: quanto tenete
Animi tengon tutte basse e vili E suo: indi la voce, indi movete
Le cure, che non fan l'alme beate ; I passi: ei si ringrazie, ei sol s'onori.
Ne può strada più corta e più spedita Fece noi senza noi; ma non già senza
Condurle al ciel, che seguitar colui, Noi vuol salvarci: e noi per noi non semo
Ch'è sol la via, la verità, la vita; Non ch'adoprar, pur a pensar bastanti.
lo, che gran tempo già smarrito fui, Felte tenebre son quanto vedemo:
lº per breve cangiai gloria infinita, Pretta ignoranza e qui nostra scienza:
Di me stesso or mi dolgo e non d'altrui. Non cappion tutto il ben gl'angeli santi.
SPIRITUALI
A messer Girolamo Zoppio. A messer Lucio Oradini.

Il parto verginale e quell'altera Lucio, come talor lucida fare,


Progenie santa, eguale al suo gran Padre Che trascorrendo giù per raer vada,
Di lei che sposa fu, figliuola e madre, Quasi stella che d'alto in terra cada,
Prima al Tebro cantò dotta e sincera Passa questo mortal viver fallace:
Musa: or voi, Zoppio mio, vedendo ch'era Onde chi d'aver brama o quaggiù pace,
In tenebre già chiusa oscure ed adre O lassù gioia eterna, quella strada
Con voci d'Arno dolci, alte leggiadre Tosto abbandoni che a i più tanto aggrada,
Le volgete in bel dì l'ultima sera. Chè mal si segue ciò ch'al volgo piace.
Cosi, prego, seguite, che se vero Io, che con gl'altri, lasso! un tempo andai,
A noi dice la fama , il bel Sebeto Dietro gl'error del mondo e i falsi inganni,
Dovrà tosto e non poco al picciol Reno: Notte e di piango i miei passati danni;
E 'I tosco fiume assai di lodi pieno E sempre a quel felice, ch'io mirai
Più che d'arene, com'io bramo e spero, Sacro sterpo del Sol, ne più verdi anni,
Sovra 'l suo frate andrà superbo e lieto. Volgo la mente, ed ei queta i miei lai.
Al Commendator M. Annibal Caro. Al medesimo.

Como quel chiaro e pellegrino ingegno, Quanto bramo, Oradin, come disio
Che i Re del cielo a voi sì largo diede, D'esser omai di questa carne sciolto,
Dolcissimo mio Caro, ogn' altro eccede: In cui due volte e più, sei lustri involto,
Così di Lui cantar nullo è più degno, Altro mai che morir non ho fatto io:
Ch' oggi tra duo ladron, sopra vil legno, Grano non già, ma sol zizzania il mio
Ambe le mani e l'uno e l'altro piede Campo ha prodotto ; ond'io solo ho ricolto
Confitto pende, sol per fare erede Cattivo seme, inutil sempre e stolto
L' uman legnaggio del celeste regno. Figliuol contrario a i buon, ribelle a Dio.
Egli, o pietate l o possanza inudita ! Ma così va chi dorme; e ben convicne
Col suo morir morte distrusse, e poi Aver conforme alla cagion l'effetto,
Risuscitando a noi rendeo la vita, E senza penne in alto mom mai non vola.
A noi che prima eravam morti. Or voi Si, mi giacqui e giaccio io; pur mi consola
Cantate come sua bontà 'nfinita Ch'a chi crede in Gesù, ch'è sol perfetto;
Feo nostri tutti i sì gran merti suoi. Nulla non è che non adopri in bene.
A M. Tommaso Machiavelli, Bolognese. A messer Benvenuto Cellini.

Tempo è ben di pagar, Tommaso mio, Benvenuto, il tempo è che queste cose
Quel ch' ogn' anno a Gesù dritto pagate: Basse lasciamo a chi dopo noi viene,
Già scura il sol : già sopra 'l legno pate E tutta ergiamo al ciel la nostra spene:
Quel, che 'l sol fece e la natura, Dio. Restan le spine sol, colte le rose. -

Dunque lo stil, cui gl'altri tanto ed io Il ver che 'n fino a qui colui m'ascosc,
Lodiam, quanto sol voi sempre il biasmate; Che i più dentro sua rete avvolti tiene,
A piangere e cantare omai spiegate, M'aperse lui che 'n tanti strazi e pene
Cortese no, ma conoscente e pio. Il viver nostro al suo morir prepose.
Già s'avvicina, anzi è venuta l'ora, A me, dotto Cellin, prose, nè carmi
Che pianga il ciel, pianga la terra: e quando, Per far del regno glorioso acquisto;
O di che piangerà chi non piange ora? A voi non gioveran bronzi, nè marmi.
Cristo, Figliuol di Dio, per cinque fora, Pigliar la croce addosso e seguir Cristo
Più della propria nostra vita amando, Bisogna, se vorrete od io salvarmi:
Versa or suo prezioso Sangue fuora. Pigliam dunque la croce, e seguiam Cristo.
A M. Biagio Pauli, lucchese. A messer Bartolommeo Ammannati.

Pioli mio, ciò ch'è sotto la luna, Nè l'essere Ammannato or Scopa, or Fidia,
Tutto si cangia al variar dell' ore, Nè co' vostri palazzi al cielo alzarvi
E'n meno assai che non balena, muore; Da gl' inganni di lui potrà guardarvi ,
Tanto puonno quaggiù tempo e fortuna. Che giorno e notte l'alme nostre insidia.
Io, che dianzi piangeva entro la cuna, L'aver voi quasi omai vinto l'invidia,
Già sento e veggio lei, che sola fuore Alle cose di qui forse giovarvi,
Di calda speme e di freddo timore Forse bastante fia: non già scamparvi
Può trarmi a me di neve a gli altri bruna; Dalla sua contra noi sì gran perſidia.
Chè quanto il viver mio torto mi sfida, Ma la grazia di Lui, che 'n su la croce
Tanto il morir di lui, che tutto regge; Confitto bevve amaro assenzio e ſele,
E 'l mio pentire, anzi vie più m'affida. Sola ne scampa, e salva ogni fedele.
Ab eterno i signor del cielo elegge Ciò che qui ne diletta, di là nuoce:
Chisempre o mesto pianga, o lieto rida; Ben è contra sè stesso empio e crudele
Ma ciascuno a se stesso è norma e legge. Chi sprezza del signor la santa voce,
SONETTI
Al Bronzino, pittore. Al compare Antonio Crocini.
D' ogni cosa rendiam grazie al Signore Scioglierà 'l cappio omai, non romprà 'l nodo
Che le ci dà, che così vuole Dio, Che qui mi lega, ov” ogni ben si fugge,
Caro e chiaro e cortese Bronzin mio , Quella ch'ogni mortal biasima e fugge,
Cui ebbi ed aggio ed avrò sempre onore. Ed io più lieto ognor l'aspetto e lodo.
E se 'l vostro Alessandro al primo fiore Se ben veggo gl'agguati e la voce odo
La bell' opera ha fatto, ove ancor io Di lui, che quasi fero leon rugge
Sempre vivrò fuor del comune oblio, Per divorarmi, e tutto in van si strugge,
Solo è stata di Dio grazia e favore. Non però temo più suo 'nganno e frodo;
Noi siam nulla, Bronzino, e voi che sete Ch'io ricorro, Crocin, subito a quella
Si grande Apelle e non minore Apollo; Croce che mi salvò con tutti loro,
Nulla che vostro sia, no , nulla avete Chc battezzati crederanno in ella.
E che voi Bronzin mio, come dovete, Altro non ho, nè voglio aver tesoro,
Ogni ben vostro e suo da Dio tenete; Che lei: ella è sol buona: ella è sol bella:
Il credo certo, anzi per certo sollo. Abbiansi gli altri perle, argento ed oro.
A messer Giorgio Vasari. A ser Tommaso Berni.

Quant'avete maggior l'ingegno e l'arte, Son pieni i cieli ed è piena la terra


Tanto devete più, sublime spirto, Della gloria di Dio, ch'in alto regna :
Lodi rendere e grazie a quello Spirto Ciò ch'è lassù, ciò ch'è quaggiù n'insegna
Divin che 'n tutte cose ha sì gran parte. Lodare e ringraziar Chi mai non erra.
Ei sol, non saper vostro vi diparte Ma la nostra si poca e si vil terra
Tanto dagl'altri, quanto lauro e mirto D'alzar gli occhi al suo ben per uso sdegna:
Si pregian più, che molle ontano ed irto Quinci è ch'io dietro alla comune insegna
Rusco ch'altrui da sè pungendo parte. Non mi levai, Tommaso mio, da terra.
Ben puonno in questa i colori e 'l disegno Ma or seguendo il vostro vivo esempio,
Fama darvi tra noi, ma l'altra vita Quando lume del ciel mi s'è mostrato
Per Lui s'acquista, e non per arte o'ngegno. In questo solo a Dio sacrato tempio;
Fia 'l pennel vostro e la squadra gradita Cangio l'antiche brame e 'l costume empio,
Col mio chiaro Puccin : ma non è degno E non più fama, no, ma 'n dubbio stato
Posporre a breve onor gloria infinita. Cerco sol di schivar l'eterno scempio.
A messer Vincenzo Danti. A ser Benedetto d'Albizio.

Ben mi credea dopo mie tali e tante Questa degli anni miei nevosa brama
Colpe da lungo desto e mortal sonno Contraria in tutto al dolce tempo, ch'io
Ringraziar Dio lodando: or più m'assonno Ebbi con voi, ser Benedetto mio,
Che prima, e meno ardisco andargli innante. Nell'età calda, che sì tosto sfuma:
Perch'è grande il Signore e sopra quante Mercè del mio Signor, m'apre ed alluma
Lode mai furo, o sono, od esser puonno: La mente e 'l cor, ch' omai pagare il fio
Formidabile ancor, perch' egli è donno Debbo a colei, tal fu l'antico rio,
Di quant'è, quanto fia, quanto fu innante. Ch' ogni cosa mortal sola consuma.
Voi dunque, Danti, e si chiaro e si pio Nè già mi spiace o duole, anzi vorrei
Col dolce vostro a me sì caro frate, Che questo d'oggi, se tal prego e degno,
Per me lodate e ringraziate Dio. Fosse l'ultimo di de giorni miei;
A lui potenza, a lui fortezza date : Mentre io di quanto mai dissi, nè fei
Qual non è poco, anzi pur nulla fio Contra Gesù, rivolto al santo legno,
A chi nacque per noi, visse e morio? Grido pentito: Miserere mei.
A messer Domenico Poggini. A ser Guglielmo da S. Giovanni.
Nelle cose di qui che tosto han sera, Guglielmo, egli è ben ver che polve ed ombra
Anzi son tutte vanitati espresse, È questo nostro rio peso mortale:
Onde sono in non cal dai saggi messe, Ma la parte miglior resta immortale,
Folle del tutto e cieco è ben chi spera. E vive sol, quand'è da lui disgombra.
Non tante arene ha 'l mar, fior primavera, Qual saper º qual follia le menti ingombra
E le stelle del ciel son meno spesse Che stiman proprio ben quel ch'è lor male?
Delle pene di Lui, che stolto elesse Più scende qui, chi più degli altri sale;
Quello, onde l'alma insieme e 'l corpo pera. Ov'or tema, ora speme il vero adombra.
Nè le vostre o di marmo o di bronzo opre, Felice voi, che di picciolo stato,
Se ben far sanno gl'uomini immortali, Lungi fuggendo dal comune errore,
Giovar puonno a schiſar gl'eterni mali. Lieto vivete, non vo' dir beato!
La ragion dunque, e non il senso adopre Non deve alcun, se Dio nol chiama, onorº
In voi, diletto mio Poggin, che fuora Per sè pigliar: non sè medesmo Aronnº
Del cammin dritto non usciste ancora. Clarificò: non lui, che noi salvonne.
SPIRITUALI 6i3
A M. Luca Mini. A M. Giovambattista Busini.

Oh ! come vorrei io, diletto Mini, i Voi, che ne verdi miei giovenili anni -

Esser con voi sopra quell'alto monte, Con cura quasi e con pietà paterna
Ch' ha tanti alberi in cima, e colla fronte M insegnavate come l'uom s' eterna,
Sacra tocca del ciclouasi i confini! Ed al mio volo impennavate i vanni ;
E quivi in pensier casti e pellegrini, Or che le frodi degl'umani inganni
Or sotto elee frondosa, or presso un fonte Conosco tutte, alla strada superna
L' ore passar, ch'al fuggir son si pronte, Rivolto ho i passi, e sol di quella eterna
Come sa lei, che ne sta sempre a crini. Vita penso fuor d'ire e fuor d'affanni.
Dopo 'l grande Asinar, Fiesole prima, Cosa pregiar, che 'n un momento passa,
Ove terra esser deggio, e poi la Doccia E non curar di quel ch' eterno dura,
Più mi si fa sentire e più m'approccia. Senza danno e disnor nostro non passa.
Miser non men che folle e s'alcun stima Ben chiama il Creator sua creatura,
Le cose di quaggiù, ch'un punto solo Ma ella e sorda, e trasportar si lassa
Non son senza lor morte e nostro duolo. Da quell'angel ch'a Dio l'anime fura.
A M. Giovanbattista Santini. A M. Lucantonio Ridolfi.
Voi, che conforme all'opre il nome avete, Tempo è, Lucanton mio, ch'al patrio nido
Santin mio buon, per me pregate, ch'io Torniate omai, che si v'aspetta e chiama
Non per gloria di moudo, ma di Dio, Più veloce che cervo, e più che dama
Quando spento sarò non varchi Lete. Fugge e trapassa il tempo a null'uom ſido.
Non lei, che 'l fila, ma colei che mieto Io che tanto soffersi or caldo, or sido,
Lo stame nostro, mai veder disio, Or fame, or sete per acquistar fama,
Per rivedere il Bembo, il Molza e 'l mio E viver morto: or ho cangiato brama,
Gondi e 'l Martello in parti altere e liete. E solo in Lui, che mi creò, m'affido.
Ne morrei tutto, no, lasciando in terra Qui, dove l'Arno più che mai felice
Il mio buon Lenzi e 'l mio caro Anniballe, Corre e più lieto, col buon frate vostro
Ch'eguale ai primi due, gli altri sorvola. Farete, ed io con voi dolce dimora.
Per l'un tornai dal manco al destro calle, Se chi mentir non può, chiaro vi dice,
E coll' altro cercai tormi da terra: Che Dio del giusto Rege s'innamora,
Ma io tra via rimasi; egli ancor vola. Perchè non adempiete il desir nostro ?
A Pierfrancesco Lapini. A M. Giuseppe Nozzolini.
Voi ben potete, Lapin mio, chiamarvi Giuseppe mio, Nozzolin mio, se mai
Felice in questa non felice etate, Di piacermi o far cosa desiaste,
Che sol Gesù con tutto il cuore amate, Che m'aggradisse: se leggiadre e caste
Per glorioso eternamente farvi. Preghiere il cor di voi toccar giammai :
Oh sapess'io, non vo' dire imitarvi, A me, che 'n questo mar gran tempo errai,
Ma riscaldare alquanto le gelate Ed erro, dove voi mai non erraste,
Voglie, e quelle ch'altrui porto celate, Mostrate o porto, o spiaggia, o sen che baste
Volessi per guarir, piaghe mostrarvi. Trarmene salvo, e darmi posa omai ;
Ma vergogna e timor fan ch'io non osi Sì che s'io vissi in guerra ed in tempesta,
Le mie colpe scoprir tante e sì grandi, Mora in pace ed in porto, e se la stanza
Ch'io tremo sempre, ovunque o vada, o posi. Fu vana, almen sia la partita onesta.
Signor, cui solo i miei pensieri ascosi S'io ho fede in Gesù , perchè speranza
Non sono, in me della tua grazia spandi Non debbo aver ? Sempre a perdonar presta
Tanto, che teco alfin nel ciel riposi. E sua pietà, che 'l fallir nostro avanza.
A M. Antonio Allegretti. A M. Giulio de Nobili.

Quasi nel mezzo di due chiari fiumi, Mentre io or fuoco, or neve ardo e languisco,
Garza e Sieve, dall'Alpi si diroccia Le fresche ombre, i bei fonti e i lodati agi
Un'alta, un'erta, uua frondosa roccia, Mi sovvengono ognor de' vostri magi,
Fra mille ombrose piante e verdi dumi. Nobile ingegno e pari al secol prisco.
Quivi in sacro sacel quei santi lumi Quivi dopo tanti anni, a pena ardisco
Vidi, u' non lunge il bello Elsola goccia, Dirlo, gli spirti miei venner presagi,
Che mi fer (tanto è'l ben, che da lor doccia) Che quei non son, nè den chiamarsi sagi,
Cangiar nel più bel fior voglie e costumi. Che si lascian pigliar dal mondan visco:
Non vi sovvien, caro Allegretto mio, O se presi da lui, non tosto l'ale
Quale era prima, e qual mi fece poi Strigan, come voi feste, ed io vorrei,
Picciolo allor, ch'ora è sì grande alloro? Ma troppo in me l'empio avversario vale;
Per coglier frutto de'bei rami suoi, Se mai d'uom peccator calsevi o cale
Salii giovin Parnaso: ed or per loro Di me v' incresca, che gran tempo ſei
Vecchio mi volgo tutto e dono a Dio, Non diritto cammin per torte scalc.
614 SONETTI

A M. Simone Rondinegli. A M. Bartolomeo Lenzi.

Vivo è 'l sermon del Signor nostro, e molto Mai non odo sonar notte o di squilla,
Più che ferro tagliente entro penetra, Caro Bartolommeo, ch' io non mi senta
Ed ogni cor, benchè di sasso, spetra Commuover tutto, e dica: Ben è spenta
Ch'a chi tutto creò, nulla è sepolto. In me del vero ardore ogni favilla.
Misero è ben, non punto men che stolto E mentre che del duol per gli occhi stilla
Chi per non udir lui, chiude od arretra Lagrime il cor, quel reo che l'alme tenta,
L' orecchie, e come duro smalto impetra, Ad una ad una tutte mi rammenta
In queste basse umane cose avvolto.
Le mie nequizie, anzi l'accresce e immilla.
Simon, che cosa è l'uom, ch'abbia aver cura Ond'io, ch'altro non so, nè posso o voglio,
Tanta di lui " pio, dolce Signore, Alla Croce m'atterro, e con pia mano
Da chi dipende il cielo e la natura? Divotamente mi pereuoto il petto.
Simon, perchè da noi tanto si cura E di quel santo segno, che l'orgoglio
Il corpo, che 'n un punto e nasce e muore, Del demonio fallace rende vano,
E l'alma no, che sola eterno dura? Armo la fronte e poi nulla sospetto.
A M. Girolamo Tanini. A M. Bernardo Vecchietti.

Che fate voi, Tanin, quando gli amori Non piacciamo a noi stessi, chè non piacque
Sacri del saggio rege e i lor misteri A sè stesso Gesù; piacciamo a Lui,
santi ne spiana in sì chiari e'n si veri Che piacque al Padre; e gl'improperi sui
sensi il buon padre ai più divoti cuori? Sopra sè tolse, e per bear noi nacque.
Io per me tutto di me stesso fuori Chi favellò di sè medesmo; e tacque
sento voglie cangiar, mutar pensieri ; Le giuste lodi e vere glorie altrui,
Fuggo que ch'io seguia, mondan piaceri, Non uno error commise sol, ma dui,
E sprezzo tutti ad un gl'umani onori. Ch' offese il cielo, ed alla terra spiacque.
Cupido dissolvi, e bramo esser con Cristo, Così non fate voi, gentil Bernardo,
Cui veggo prima in su la croce, e poi Ch'agl'altri largo, a voi si parco sete
A la destra di lui, ch'è padre a Cristo, Tanto veloce al ben , quanto al mal tardo.
Tanin, caro Tanin, se Gesucristo Orio, mentre in un tempo agghiaccio ed ardo,
In su 'l legno morir volle per noi, Del bel riposo vostro all' ombre liete
Coeredi siam noi di Gesucristo. Corro più presto assai che cervo o pardo.
A M. Girolamo Ricciardi. A M. Antonio Landi.

Ringraziate Gesù, Ricciardo mio, Ogni cosa è tra noi fallace o vana:
Dal qual nasce ogni ben, se quella strada, Null'è qui, che non sia men che niente
Per cui sola convien ch'a Dio si vada, Verso il ciel, più che rapido torrente
Prendeste prima assai, che non feci io , Corre e trapassa via la vita umana.
Parte da me, parte dal falso e rio E che può darne il mondo, che mondana
Belzebù venne, il qual, dovunque io vada, Cosa non sia ' Però leviam la mente,
sempre m'è dietro, e perch'io inciampi e cada, Landi mio caro, a Dio: fuggiam la gente
Più pommi innanzi quel che più desio. Negl'altrui danni e ne lor propri insana.
Ma tal di carità m'arde oggi fiamma, Dunque fuggiamo i ben della fortuna,
E si fervente è quell'amor che tutta Che gl'eterni di Dio meglio ameremo,
La notte e'l dì, dentro e di fuor m'infiamma; E 'I sepolcro fia simile alla cuna.
Ch'io spero di dover vincerla lutta, Quant'è, fu e ſia mai sotto la luna,
Non mia virtù, ma del Signor che dramma Se drittamente giudicar vorremo,
Non lascia in me, che non sia quasi strutta. Delle cose lassù non val pur una.
A M. Alessandro Lenzi, A M. Bernardino Davanzati.

Lenzi, perch'io in loco alpestro ed ermo, In Dio si glorii e non in sè, s' alcuno
Dove lungi da voi gran tempo giaccio Dee gloriarsi, come fate voi,
Tra fieri venti e sempiterno ghiaccio Che fra quanti oggi sono, e quanti poi
Contento viva ognor più lieto e fermo; Saran, dovete invidiar nessuno ;
Qui meco stesso a passo non infermo, Caro mio Davanzati, se ciascuno
Sciolto dal mondo e d'ogni umano impaccio, Non dalla sorte, ma dai merti suoi
Varco sovente in parte, ov'io procaccio Dee misurarsi, e se più vale in noi
Agl'affanni quaggiù riparo e schermo. Bontà, della qual sete ognor digiuno;
Quivi mi mostra il ver, ch'amar mortali Ch'ogni altro ben, che sia sotto la luna,
Cose qualunque sian, gemme, oro ed ostro, E ch' esser possa, perchè in questa sola
Men si conviene a chi più pregio brama. Ogni altro bene, ogni virtù s'aduna.
Quindi imparo a spregiar gl'acuti strali Io, che 'l viver mondan tengo ombra e fola,
Della gente, che 'l danno e biasmo nostro A lui, che 'n sè tutte bontati aduna,
Cerca via più che l'util proprio e fama. Volsemi e seguirò sua santa scuola.
SPIRITUALI 615
A M. Donato Giannotti. l A M. Giovanni Martini.

Quell'amor, ch'io da miei verdi anni e quella Quanto mi duol, Giovanni mio, che morte
Ch'io portai sempre a voi rara osservanza, M'avrà prima tra i suoi riposto, ch'io
Oggi, Donato mio, se stessa avanza, Esser con voi, com'è il comun disio,
Quando il cielo ambo noi quasi rappella. Possa e colla gentil vostra consorte.
Ne io men doglio, o temo lei, che fella Ma con lieto coraggio, non pur forte
Agli altri, a me fia grata: ho ben dottanza Soffrir conviensi ciò, che piace al mio
Non cader tra color, cui, la speranza Dolce Signore e vostro, il qual soffrio
Perduta, Dite ognor torce e flagella. Morir, sol per aprirne al ciel le porte.
Quinci e, che dianzi al ciel la penna e 'l core E nondimen tanto è 'l disio, che spero,
Umilmente rivolsi, e i pensier miei Sua benigna merce, dovere ancora
Tutti e me stesso a Dio diedi e sacrai. Sanarmi e rivedervi, anzi ch'io mora.
E spero in lui, che non il peccatore, A me per altro par mill'anni ognora,
Ma 'l peccato odia, e disse all'un dei rei: Sol che piaccia al Signor, che solo è vero,
ln paradiso meco oggi sarai. Uscir d'esto mortal reo carcer fuora.

A M. Jacopo Vettori. A M. Carlo Martini.

lacopo, se cercate, come io spero Carlo, se dietro le vestigia impresse


E bramo, aver non sol chiara memoria Dal frate vostro, mio più che fratello,
Dietro il gran padre vostro, ma vittoria Amate me, come io faceva quello,
Contra l'arte e 'l saper dell'agnol nero: In cui tutti i suoi ben natura impresse ;
Fuggite queste che non son da vero, Da queste umane vanitati espresse
E seguite l'eterna, immortal gloria. Fuggite meco in alto, ombroso ostello
Non può pocma farvi, non può storia Sacro al buon Padre, il qual si feo suggello
Gradito a Dio, ma cor puro e sincero. Tal di Gesù, che 'n se sue piaghe espresse.
cari vostri e si leggiadri figli, Quivi o dove con dolce mormorio
L'avo seguendo e i genitor, saranno Il fresco fonte della Doccia face
Quasi tra bianchi fior candidi gigli. Chiaro tra erba e fior fuggendo rio;
lº, che pur dianzi a schivar mio gran danno, Quel ben seguendo, il qual solo a se piace,
Tutte le forze mie, tutti i consigli Con cor tranquillo, mansueto e pio
Volsi, or me stesso e forse gl'altri affanno. Avrein qui requie e'n ciel perpetua pace.
A M. Bernardo Minerbetti. A messer Giorgio Bartoli.
Che fa, caro e cortese Minerbetto, Giorgio, il vostro Giorgin che fu sì mio,
Il dolce vostro e 'l dolce mio Romena ? Quant'io suo fui, mi torna a mente ognora:
Che 'l Mini ? che 'l Biscion? qual vita mena. Anzi v' e dentro e mai non uscio fuora,
Il buon Sostegno nostro e 'l buon Guidetto? Come unqua lui di me non prese obblio,
º tutto tema, e tutto doglia aspetto Mentre qui visse; ed or vicino a Dio
De gravi falli miei non lieve pena. Veggendo quanto io sia del dritto ſuora
Pur mi tranquilla il core, e rasserena Per me, son certo, sua pietate adora,
LaPenitenza
fronte quel
può ch'al
trovarpiomercede,
Ladron fu detto. Grato non gia; ma ben cortese e pio.
Se
E quinci e forse che con nuovo stile
E se pietà ancor può quantº ella suole; lIo cangiato l'antico, e son venuto
S'aver solo in Gesù speranza e fede Diverso a me medesimo e dissimile.
Impetra grazia nell'eterna sede, O spirto amico, che col mio gentile
Mercede avrò , che più chiari che 'l sole Tasio, che fu d'ogni virtù compiuto,
Vede ogni mio pensier Chi tutto vede. Quel che gl'altri han più caro a vesti a vile.
A M. Andrea Benivieni. A messer Ridolfo de' Bardi.
Caro Andrea mio, questo terrestre limo, Ridolfo, io vorrei ben , ma questo giorno
he ne circonda intorno, intorno l'alma, Santo fa ch'io non possa, e ch'io non deggia
l'e si gravosa e tenebrosa salma, Nell'alta vostra solitaria reggia,
Ch'ella spesso n'obblia lo suo ben primo. Tra colli e boschi far con voi soggiorno.
enche, se drittamente il vero estimo, Oggi dolente, per far ira e scorno
Nostra e la colpa, perchè pura ed alma Al reo che da me sempre o vada o seggia,
La ci infuse il Signor, per darle palma Par che l'usato suo tributo cheggia,
A l'uscir suo di questo carcere imo. Le passate mie colpe a pianger torno.
º noi, ond'è chi a danno il pro ne torna, . Oggi schernito e flagellato pria
pal verme che sedusse Eva, ingannati Da gente vile e nequitosa in croce,
Contra 'l nostro Fattore alziam le corna. Fu per noi morto il suo Figlio a Maria.
Tui i credenti che son battezzati, Oggi trista e pentita ogni alma pia
Vuol Cristo salvi, e ciò non ei distorna; Pianger col cor devrebbe, e colla voce
ºa noi, noi che vogliamo esser dannati. Cantar lodi al Signor ch'a se n'invia.
616 SONETTI
A messer Giulio Scali. A messer Agnolo Guicciardini.
Giulio, la scala onde di grado in grado Quando dalla grande opra mi diparte,
Si saglie al ciel, quel buon Padre ne porge, Ch' io tesso ognor del buon duce toscano;
In cui con tanta carità si scorge O stanchezza o voler, tosto la mano
Singolare eloquenza e senno rado. Volgo e la mente a le divine carte.
Ei di questo torrente alpestro il guado Questo non fosse, ogni mio studio ed arte
Non sol truova per sè, ma gl'altri scorge; Di voi sarebbe , e del cortese umano
E 'n quelle parti altrui scorgendo sorge, Suocero vostro, e già più volte in mano
Ov'altri spesso inciampa, io sempre cado. Preso ho la penna che dal ver non parte.
Pur la legge di Dio, nella qual sola Ma truovo peso non dalle mie braccia:
La notte tutta e 'l di studiar conviensi, Nè ovra da pulir colla mia lina,
La sconfortata mente mia consola. E però dico: Il miglior è ch'io taccia.
Che ſia di me non so; ma quel ch'io pensi, Angel, che per sicura e dritta traccia
Perchè di Dio non può fallir parola, Tornate al cielo, onde scendeste prima;
Staran di sotto alla ragione i sensi. Ch'io segua l'orme vostre, a voi non spiaccia.
A messer Bastiano Antinori, A messer Alessandro Pucci.
consolo dell'Accademia.
Se tal sono al gennaio, qual fui l'aprile, Noi ch'eravam di tenebre figliuoli,
E me stesso infin qui non ben consiglio, Or siam figli di luce, alta mercede
Quando saprò º come potrò consiglio Di Chi quaggiù dalla superna sede
Dar buono a voi, Sebastian gentile ? Tra noi discese e morì per noi soli:
Poscia io pentito del mal preso stile A Lui che dopo angoscie tante e duoli
Sol di servire a Dio mi riconsiglio; Per noi sofferti dalla destra siede
E per fuggir quel grave eterno esiglio, Del Padre eterno con sincera fede
Ogni cosa mortal prendo oggi a vile. Grazie rendiam le notti tutte e i soli.
Pur mi giova sperar, che l' idioma Mentre il Sol luce, e quando è notte oscura,
Toscan, consolo voi, tanto s'avanzi, Rendiani grazie al Signor puri e divoti,
Ch' ad Atene non ceda, e vinca Roma. Ch' ebbe maggior di noi che di sè cura.
Quinci è che con amor vi consiglio, anzi E so ben signor mio, che tra le doti
Vi prego umil, che l' onorata soma Vostre tante e si rare questa cura
Dietro si gran valor tiriate innanzi. È 'l primo in voi di tutti gli altri voti,
A messer Vincenzio Alamanni. A messer Antonio Lanfredini.
Non può, Vincenzio mio, lunghezza d'anni, Antonio, io parto, e sa Dio se m'incresce
Nè gran distanza di lontan paese Per voi partir dalla famosa Alfea,
Il vostro e mio sì dolce e si cortese, Vera di Dio città, dove io vivea
Pari al gran padre suo sacro Alamanni, Lieto, ch'esser con voi mai non rincresce
Trarmi del cor, ch' oggi i passati danni, Ma nel dolce di qui sempre si mesce
E l' ore tante tanto indarno spese Alcuno amar, per ch'io che ciò sapea,
Piange, e rivolto a via migliori imprese La dolce vostra, a me sì cara idea
Sol d'esser caro a Dio par che s'affanni. Racchiusi in parte, onde già mai non escº
Sol da Cristo Gesù ricorre e spera E con ella men vo pensando in questi
Soccorso aver nell'ultima partita Santi giorni a que chiodi, a quelle spine
Del giorno estremo ch' è vicino a sera. Crude, onde vera in me pietà si desti;
Ei colle braccia aperte ognor n'invita E grido: o poverel presso è tua fine ;
Ed abbraccia ciascun perchè non pera, Nè tu 'ngrato però d' offender resti
Che gli dimanda umilemente aita. Altrui non già, ma sol te stesso alfine
A messer Giovambatista Strozzi. A messer Francesco Buonamico.

S' a voi, Cigno dell'Arno alto e gentile, A voi, che sete buon non pure amico,
La voce avessi e 'l roco canto uguale; Ma cristiano e dottor, ben si conviene
Non Tebe, o Delfo, o cosa altra mortale, Insegnare ad altrui qual sia quel bene,
Che nulla è sotto il ciel che non sia vile : E quanto, per cui solo oggi fatico;
Ma col leggiadro vostro e puro stile, Non può nuovo disio costume antico
Ch' è così dolce e tanto in alto sale, Vincer del tutto: ond' or m' affida spenº
Quel Signor di cui solo oggi mi cale , Or mi sfida timor: quinci le pene
Che non disprezza un cor contrito umile; Che ne minaccia Pluto, il gran nemicº;
Divoto canterei la notte e 'l giorno, Quindi la gioia dell'eterna
Che Chi mentir non può,luce,
promesso º -
ave,
A sua potenza, a sua bontà infinita
Grazie rendendo ognor del mio ritorno. A sera omai di questa breve luce
Il viver nostro in questo uman soggiorno. Sospiro: or voi saggio maestro e duce,
Anzi il nostro morir ch'uom chiama vita, Fido l' erto sentier non vi sia gravº
E breve fior ch' a mille spine intorno. Additarmi ch'al ciel dritto conduce.
SPIRITUALI 617
A messer Filippo Nerli. Al medesimo.

Se quel che l'età mia non pur matura, Non son le rime mie, nè fur mai degne,
Giovin nato a virtù, ma quasi mezza Ne saran mai cantar d'un angel tale:
Vede dolendo, onde fugge e disprezza, Sol l'esser padre a voi più valse e vale,
Quanto dagl'altri oggi si segue e cura; Che quante furo e son d'onori insegne.
Veduto, o suo gran senno o sua ventura, Poca acqua mai gran foco non ispegne:
L' acerba avesse il ver spregiare avvezza, Nè può volare al ciel chi non ha l'ale.
Quella che prima fu, sarebbe sezza Ne poco temo ancor ch' essendo quale
Stata di farmi conto al mondo cura. Io son, ne prose mie ne versi degne.
Poco, anzi nulla puon gl' umani onori Poscia l'opera grande a cui già volto
Verso i celesti, e nulla è qui che sia Molti e molti anni sono, ogn'altra cosa
Filippo mio dell' altra morte fuori. Fuor che Cristo Gesù m'ha del cor tolto.
In infinito e più begli e migliori La vera strada che gran tempo ascosa
Son d'Apollo e di Clio, Cristo e Maria: Mi fu, seguendo il volgo cieco e stolto,
Quel dunque e questa sol da noi s'onori. Mi si scoperse dianzi erta e sassosa.
A messer Giulio della Stufa. Al signor abate M. Agnolo Stufa.
Giulio, non pur l'età mia lunga e grave Abate, mio signor, che 'nnanzi al fiore
Fa ch'io non empio il mio dover più spesso Di vostra verde età tai frutti e tanti,
D'esser con voi ch'io ho sempre dappresso, D'ingegno e di bontà mostrate, quanti
Ma tema ancor ch'io non v'annoi e grave; E quai non ebbe ancor canuto core:
E via più quelle e si folli e si prave Gran diletto gli studi, e grande onore
Usanze, che ha lungo uso e reo concesso V'apporteran, ma via maggiore i santi
A questi infandi giorni, e lui con esso Costumi vostri: i primi e veri vanti
Ch'altra che noi tentar, cura non ave. Son gradire a Gesù ch'è ver Signore.
È precetto di Dio prendere scherno Ben si conosce chiaramente in voi,
D'un miserel ? Sua legge è che colui Angel sceso quaggiù dal paradiso,
Che più può, faccia a chi men puote oltraggio. Quant'ama Cristo i pargoletti suoi,
Infelici color che l'odierno Di Giulio mio, vostro cugin l'avviso,
Vezzo voglion seguir! Beato vui, E l'esempio seguite ; ch' è tra noi
Che diverso da lor fate viaggio! Vivendo ancor dal suo mortal diviso.

Al medesimo. A messer Vincenzio Buonanni.

Ecco che già, Stufa mio caro, riede Se vi piace e v'aggrada il vero Lete
Quel tanto acerbo giorno e tanto degno, Fuggir, Buonanni, in questo secol rio;
Nel qual tremò la terra e 'l Sol die segno, Quell'alte doti, che v'ha date Dio;
Che quei pativa ch'ogni cosa eccede: Solo a lui ringraziar, tutte volgete.
Quel dunque, che felice alta vi diede Le greche carte, onde voi tanto sete
Stella, volgete, pellegrino ingegno, Lodato e le latine ; e 'l vostro e mio
A piangere e cantar quel santo legno, Sermon, dotto puon farvi ma non pio:
Che del vero suo ben fe''l mondo erede. Dunque alle sacre il cor volger dovete.
E più Colui che sol per liberarne Così vivendo vincerete gl'altri:
D'eterni danni e farne al ciel la via, E dopo questa breve e mortal vita
Discese in terra e prese umana carne. Avrete sempre in ciel gioia infinita.
Che più doveva º Anzi potea più farne? Ma uopo a voi non è di chi vi scaltri,
O pietà somma o nuova cortesia, Ch'altrui saggio scaltrite; e 'l Migliorotto
Per donar vita altrui, morte a sè darne ! Già pareggiate non men pio che dotto.
Al medesimo. A messer Bernardino da Romena,

Di Dio solo è la gloria: a Dio l'onore Quanti cieco desir, quanti ne mena,
Si dia, Giulio mio buon, s' ogni mortale Caro Bernardin mio, fuor della via
Cosa sol per Gesù posta in non cale; Folle saper 7 Non è, non è follia
Ardete tutto del suo santo amore. Cangiare a piacer breve eterna pena?
Felice voi che 'n su 'l più vago fiore Di mille error di mille inganni è piena
Di vostra verde età già sete quale Questa vita per sè malvagia e ria:
Cerco essere io nella più secca e frale, Dunque Cristo seguiam, preghiam Maria,
Or di speranza pieno or di timore ! Voi nella prima, io nella quinta scena.
Temo pensando a le mie colpe: spero Oggi la santa sua voce ascoltiamo,
Mirando lui che per mie colpe volle Che n'alletta e ne 'nvita: e se volemo
Morir confitto in croce uomo e Dio vero, Entrar nel regno suo, non induriamo
Abbia di me, quantunque vano e folle, I petti nostri. Io per me ch'all'estremo
Pietà l'Agnel di Dio puro e sincero, Son giunto, mentre umil pietate chiamo,
Che le peccata altrui del mondo tolle, Or lieto spero, or paventoso temo. r
º n Cill V . I. -
C 18 SONETTI
A messer Lorenzo Fiamminghi, abate. Al Lasca.

Io ebbi, ed ho, signor, ferma credenza Lasca, altro Febo, altra Minerva omai
Se per l'innanzi, come spero, avrete Se stolti ambo non siam: cercar dovemo.
Quella ch'aveste e quella ch'ora avete Dunque, vecchi all'età, giovin saremo
Quasi novello Giobbe, pazienza; A sapere schivar gli ultimi guai ?
Che dal Re del celeste regno, senza Dunque vani farem notte e di lai,
Lo qual nulla si fa, come sapete, Ed al principio ſia pari l'estremo?
Condegno guiderdon riceverete Dunque al più chiaro Sol ciechi n'andremo,
Non dopo sol, ma 'nnanzi alla partenza. E suo dritto a Gesù non darem mai?
In questa sì fugace e si mejosa Dunque al tremendo di non de' chiamati,
Vita mortal d' ogni miseria piena, Ma sarem di color ch' al fuoco eterno
Chi è più caro a Dio sempre men posa. Fien tra pianti e stridori, oimè, dannati?
Pensate a quei che nell'eterna pena Dunque al regno del ciel, dunque a i beati
Son tormentati senza aver mai posa, Spirti, dunque a chi fia sempre ab eterno,
Voi breve duolo a lunga gioia mena. Cangerem questo basso e breve inſerno?
A messer Lionardo Salviati. A frate Alessandro Gobbo, di Santa Croce.
Cigno toscano, i dolci vostri canti, Padre mio buon, quel buon gran padre vostro,
Onde si chiaro e si lodato sete, Che predicando al ciel l'anime invia;
S' a me che v' amo sì, creder vorrete, Eloquenza gentil, dottrina pia
Tutti fien di Gesù da quinci innanti. Saldo giudizio e bontà rara ha mostro.
Di Gesù Cristo solo e de' suoi santi Ancor non è questo vil secol nostro
S' a senno mio, come vorrei, farete : Steril del tutto: anzi or fiorisce, e ſia
Notte e di state e verno canterete Cise d'Arno avran pietà Cristo e Maria:
Tristo e pentito che noi feste innanti. Tanto nel popol suo zelo s'è mostro.
Le prime mostre e più care primizie I più selvaggi, i più feroci cori
Da chiunque ha bontate alcuna o senno, Molli fatti e pietosi alla parola
A Dio donare anzi render si denno. Di Dio sospirano entro e piangon fuori,
Non le pompe del mondo e le delizie Ben n' hai degna cagion; se Lugo onori
Placato lui, ch' il tutto regge, ſenno; Fiorenza, di bellezze al mondo sola,
Ma le di puro e retto cor mendizie. Può si buon frutti darne e sì bei fiori.

A messer Giovambatista Deti. A messer Piero Corteccia.

Deti, io ho dato e darò sempre a Dio S'io avessi non pur la dolce vostra
Da quinci innanzi ogni pensiero e voglia, Voce gentil, ma la pietate ancora,
Onde non è che più m'allegri o doglia, Quei ch'io salmeggio santi carmi ognora
Nè per cosa mortal temo o disio. sarien più cari a Dio nell' alta chiostra:
È ciò voler di lui, non saper mio, E quella, ch'oggi in me voglia si mostra
Che di questi terreni affetti spoglia D'ubbidire al gran Re, ch' ivi s'adora,
Chi vuol, quando gli piace: e si ne 'nvoglia, Molto non sol maggior, ma miglior fora,
Che tema fassi ogni men bel disio. Che in me, quanto e più fin seta, s'innostra
Qualunque è sotto il ciel cosa più degna Questa di noi mortali umana scorza,
Ver l'alto poter suo niente vale; Corteccia mio, ch'altro non è che poca
Anzi posta con lui meno è che nulla. Terra, anzi fango vil, troppo ha gran forza,
Ei solo è: ei sol vive : ei solo regna. Ma cui l'amor di Gesù Cristo infoca;
Beato quei, cui di null'altro eale, Schiva ogni inganno alfin, vince ogni forza,
E sol divino amore arde e trastulla! Se 'i nome suo divotamente invoca.

A messer Giovambatista Cini. A messer Domenico Mellini.

Cino gentil, nel bel vostro alle Rose S'in me fosse il poter, quale è la voglia
Fui io, ha già buon tempo, e tal mi parve Di fornir, Mellin mio, senza periglio . .
Dentro tutto e di fuor, che di tornarve Questo, altrui breve, a me si lungo csiglio,
Caldo poscia disio sempre mi rose. Già sarei fuor della terrena spoglia.
Quivi solete voi dalle noiose or fra speme e timor, piacere e doglia
Cure che 'l viver dà, spesso appartarve; Chero chi tal mi dia forza o consiglio;
E fuggir queste veramente larve, Che dal foreuto e sì tenace artiglio.
Che larve son tutte l'umane cose. Dell'avversario d'ogni ben mi sciogliº,
Nulla è quaggiù che non sia finto e vano. E prego lui, donde'l bel nome avete:
Dunque la mente al vero ben volgiamo. čh'omai quinci mi tolga, e tra colorº
Che Cristo dee seguir chiunque è cristiano Ch'io amai tanto vivi, or morti onorº
Giovambatista mio, quando nasciamo, Mi ponga; e questi son, se nol sapete,
Comincia il morir nostro; e mai lontano Il Bembo, onor del purpureo drappellº:
Iº a noi punto non è, mentre viviamo. Il buon Molza, il bel Gondi e'l gran Martellº
SPIRITUALI 6:9
A messer Gherardo Spini.
Chi sa di noi qual sia di Dio la mente? Padre del ciel, se pentita alma mile
Chi fu, Spina gentil, suo consigliere ? Impetrò mai da te vero perdono,
S'alcun prima gli die possa o sapere, Perdona a me che più pentito sono,
Ch'ei gli si renda, la ragion consente. Ch'altri ancor mai, e più mi tengo vile.
Dunque stare a ragion con Dio la gente Oggi l'empio lasciando, antico stile,
Stolta presume, e che solo il volere A te con tutto il cor mi sacro e dono;
Segue ? O beato lui, ch'anzi 'I cadere E come tu li miei, così perdono
Di questa vita si ravvede e pente! Io gl'altrui falli, in questo a te simile.
Non tardi alfin, ne doppia morte aspetti Non voler, Signor mio, che 'l prezioso
Chi, come io, suo gran mal non vide prima, Sangue ch'oggi per noi largo versasti
E non tema che Dio lieto l' accetti; Tua bontà santa e tua santa umiltate,
Che più gloria è nel regno degl' eletti Sia per me sparso indarno, anzi pietoso -

D'uno spirto converso e più si stima, Di me, cui più che te medesimo amasti;
Che di novantanove altri perfetti. Volgi tutte in sospir le colpe andate.
A messer Alessandro Serra.

Serra, s'al piacer mio piacer bramate, Oggi, Signor, che sopra il santo Legno
E quel debito far, ch'ad uom conviene, Per ricovrarne dagli eterni mali,
Che sia vero cristiano, oprando bene Pendesti morto, de' miei tanti e tali
Dio sopra tutte l'altre cose amate. Falli a chieder perdon pentito vegno.
Quel che per voi fareste, agl'altri fate: E se forse ho varcato e varco il segno
Ne ciò per tema dell'eterne pene, Amando, quanto io ſo, fronde mortali,
Ma solo il fate perchè il bene è bene, Elle prime, e tu 'l sai, mi dieder l'ali,
E le leggi osservar che Cristo ha date. Ond' io m'alzassi al tuo celeste regno.
Non indugiate alfin ch' innanzi al pelo Dunque debbo io perir, se queste mani,
Vien la prudenza a chi divoto legge, Se questi santi piè d'acuti chiodi
E crede nel santissimo vangelo. Fur, per camparmi sol, forati e morte ?
Sommo precetto è che servar la legge Oggi, lasso l oggi, oimè! per noi Cristiani
Sempre si debbia, e quegli ha vero zelo, Crudelmente spregiato in mille modi,
Che pria sè stesso e poscia altrui corregge. Vilissima soffristi, acerba morte. -

Agli uomini carnali.


Voi, che picciola terra, anzi vil fango Oggi, Signor, che dal mondo empio, errante,
Pregiate sì che più di lei vi cale Coronato dell'arbor ch'io tanto amo,
Sola, che di quel re che tutto vale, Tornasti al cielo, umil ti prego e chiamo
Ed io fui vosco, ond'or m'attristo ed ango; Scarco delle mie colpe tali e tante.
Mentre i gran fallo mio conosco e piango, Ben vedi, alto Signor, ch'esser costante
Per partirmi da voi spiego ognor l'ale, Nel ben, come ora son, mai sempre bramo;
Ma si intricate l'ha visco mortale, Ma tanto e meco poi di quel d'Adamo,
Ch'io caggio sempre, e pur con voi rimango; Ch'a resister per me non son bastante.
Perch' io conforto quei, che sono in via, Porgi dunque, Signor, la santa mano
Che più per tempo al ciel drizzino i vanni, A me, ch'a tua sembianza in ciel creasti,
Seguitando chi Pietro e chi Maria. E vinto resti l'avversario rio.
Felici schiere che per brevi affanni Da te signor son io detto Cristiano;
Ad eterno gioir si fecer via, Tu pure, oh pietà grande! oggi degnasti
E cangiar con mortai celesti danni. Abitar meco sotto il tetto mio.

Benigno re dell' universo, s'io, A te, solo di Dio Figliuol verace,


Quantunque indegno di trovar mercede, Che tutto sai e tutto vedi; e puoi
Ebbi ferma in te sempre e spenne e fede, Quanto può farsi, anzi quanto tu vuoi,
Soccorri al grave e lungo affanno mio; Chè tanto è sempre, quanto a te sol piace;
E se pur debbo ancor l' ultimo ſio Ricorro e prego umil per quella pace,
Pagare a morte, ch'anzi tempo il chiede, | Che già nel tuo partir lasciasti a tuoi;
Non mi lasciar, come ei s'aspetta e crede, Abbi pietà del bell'Arno e di noi,
Nell'empie man dell'avversario rio. Che languiam, mentre il signor nostro giºce.
Movati più, Signor clemente; e sopra E se non è quel gran giorno dell'ira, a
Stia tua bontate alle mie colpe, e mcco Quel gran giorno dell'ira e tanto amaro
Pietate solo e non giustizia adopra. Venuto ancor per nostro ultimo danno;
A me fia dolce, sol che d'aver teco Il gran Cosmo, il buon Cosmo, in cui sospira
Pace alcun segno la dubbia alma scopra, Italia tutta ed ogni pregio raro, -

Di questo uscir terren carcere e cieco. Sana, a noi tema, a lui togliendo affanno.
-
62e COMPONIMENTI
vostra affezionatissimo, tengono il primo
luogo le Pastorali; e se non il primo (il
se solo in te tutti questi anni addietro
Ebbi io, Signor del ciel, fede e speranza, quale molti danno ai componimenti e rime
Quel che del viver mio sì poco avanza, fatte nella traduzione di que libri di Boe
Da lor non torca, o si rivolga indietro. zio, che sono intitolati: Della Consolazione
Quella vana del tutto e questa vetro della Filosofia) almeno il secondo: era io
Non sia, pregoti umil, non dar possanza stato buona pezza con molto desiderio di
A l' avversario tuo, che per usanza vedere o tutte o buona parte insieme rac
Più mi persegue, quanto più m'arretro. colte delle dette Rime Pastorali, quando al
Grandi son le mie colpe, alto Signore,
Io 'l conosco e 'l confesso; ma di loro, lora che forse meno a ciò pensava, e me
E di tutte altre è tua pietà maggiore. n'era quasi tolto di speranza, mi è venuto
Quell'innocente che si largo fuore fatto primieramente di conoscere e divenire
Sangue l' empio versò pietoso foro, amico di uno e forse il maggiore amico,
Lavò chiunque te chiamando muore. che avesse il Varchi nell'ultimo della sua
vita; ed appresso, di avere per suo metro,
essendo egli uno degl' esecutori dell'ul
Deh perchè tarda l'anno e'l mese e 1 giorno tima volontà del Varchi, la maggior parte
E l'ora e'l punto, ch'io di questa scorza e migliore delle dette Rime Pastorali: non
Esca che mio malgrado ognor mi sforza come se ne leggono alcune sparsamente
A me far danno, a te, Signore, scorno. nel primo libro de Sonetti del medesimo;
Benchè s'al ver colla memoria torno:
ma in quel modo che negli ultimi anni
Nessun, se non io sol, far mi può forza.
Libero è 'l mio voler; ma lo mi sforza suoi, pregatone da suoi amici, l'autore stessº
Quel serpe rio che mi sta sempre intorno:
gli acconciò come volle che stessono. Nel
Dammi tu, pio Signor, tal senno e possa leggere delle quali rime, due cose mi sonº
Contra le tante sue malizie e 'nsidie, venute in mente: l'una che, essendo elle
Ch'ad ambe il fango mio resister possa. bellissime e non pure, quanto più non si
Già gl' inganni del mondo e le perfidie può dire, dolci e piacevoli, ma piene di
Conosce l'alma, e prega omai che mossa infinite locuzioni degne d'essere sapute da
Le dia chi sola par che tutti invidie.
chi fa professione della fioritissima lingua
-scº
che oggi è tanto e meritamente in pregiº
e non per mio giudizio solamente (il quale
intorno a ciò non so più che tanto) ma li
COMPONIMENTI PASTORALI molti amici miei di tali cose intendenti;
ed in particolare del signor Giulio Leoni e
rot Messera
signor Valerio Rinieri ed altri, con i qualia"
sai spesso mi trovo in ragionamento di si
BENEDETTO VARCHI
fatte composizioni, farò a molti, facendole
stampare, cosa gratissima: e l'altra, ch'es
sendo io obbligatissimo a V. S. molto illu
DEDICA DELLº E1)IZIONE DI BOLOGNA stre ed a suoi onoratissimi figliuoli, facendo
le umilmente dono di quel poco, che ci ha
di mio, verrò, non dico a pagarle parte di
AL MOLTO ILLUstrE sIGNOR Conte
cotal debito, ma sì bene a mostrarle alcun
picciol segno di gratitudine e di essere al
AGOSTINO ERCOLANI meno, per quel poco ch'io posso, conoscenº
de'benefizi. E nel vero a chi altri più con:
UNO DEI SIGNORI DEL REGGIMENTO D1 BoloGNA venevolmente si devono queste rime del
IoloNissimo AMBASCIATORE APPREsso s. B, Varchi ch'agli Ercolani? quando è cosa
certissima che primamente voi e appresº
MIo SIGNORE COLENDISSIMO
i vostri illustri figliuoli foste al Varchi,
quando l'ultima volta fece assai lunga di
mora in Bologna, il maggiore e più carº
ed amorevole amico, che fra molti altri º
Avendo io sempre inteso, molto illustre avesse. Il che fece egli a tutto il mondo
signor Conte, e da uomini intorno a ciò palese, non molto dopo che di qui fu lº
di molta scienza e giudizio, che fra tutte tito, nel suo Dialogo delle lingue, intitolatº
le composizioni in rima di M. Benedetto l'Ercolano, nel quale è principalmente º
Varchi, il quale fu di voi e tutta la casa trodotto a parlare il signor conte Ceº
PASTORALI (io 1

vostro ſigliuolo e mio signore. Ma che dico signor conte e capitano Aurelio vostro ſiglino
io nell'Ercolano? Anzi molto prima e men lo, il quale dopo essersi trovato alle guerre
tre si godea le belle stanze de' vostri ric di Francia e Fiandra contra gl'Ugonotti,
chi e magnifici villaggi, dimostrò egli il ultimamente al servizio de'signori Veneziani
grande amore suo verso voi e quanto vi nell'armata contra il Turco fornì sua vi
fosse tenuto, in quella parte di questi so ta. Potrei, dico, di questi ed altri molti
netti, che sono intitolati i Tirinti, cioè gli illustri signori Ercolani ragionare lunga
Ercolani, celebrandovisi i detti vostri luo mente; ma perciocchè nè io sono a ciò
ghi. Poichè adunque a lei si deono queste fare atto, nè la modestia di V. S. molto
rine e per rispetto del Varchi, e per quel illustre il comporterebbe, mi tacerò, la
poco che ci ho io, essendomi preso cura sciando di ciò cura, a chi con migliore
di farle stampare, V. S. molto illustre le ac occasione e con altro sapere che non è
cetti con lieto animo e con quella beni il mio, il quale davvantaggio conosco quanto
gnità, che è sua propria. E quando talora vaglia, al mio difetto in questa parte sup
l'è conceduto poter ciò fare da suoi molti plisca.
e importantissimi negozi e dal carico che
ha meritamente di essere Ambasciatore della Di Bologna li 1 o d'ottobre 1576.
sua illustrissima Repubblica appresso la San
tità di N. S. Gregorio XIII per compi
Di V. S. Inolto illustre
mento di tutti gli onori che si possono
avere nella nostra città, conseguiti da lei
con somma sua laude e contento universa
le; non le sia grave fra gl'altri suoi di Aſſezionatissimo e devotissimo servidore
CesARE SALvizTTI.
porti pigliarsi anco talvolta questo, di leg
gere alcune di queste rime fatte dal Var
chi quando si trovava in villa, dove assai
più volentieri che nelle città si dimorava,
e più per passarsi tempo, scrivendo pasto
rali e boscherecci amori, che per affetto, A monsignor Battista messer Alamanni
che avesse non convenevole alla sua età e vescovo di Bassas.

professione. Rimarrebbe ora, che secondo


voi, caro signor, che da primi anni,
il costume di chi oggi dedica libri (e po A Dietro l'alte orme ch'il gran padre vostro,
trei farlo acconciamente quanto alcun altro D'ingegno impresse e di bontate al nostro
e con verità) io mi distendessi nelle lodi Secolo inerte e pien di tutti inganni:
della illustre famiglia Ercolana, onoratissima Spiegando al ciel con doppia gloria i vanni,
veramente nella nostra città di Bologna, Di verde or cinto il crin, ch'un di ſia d'ostro,
e ragionassi non pur di voi, ma di alcuni Per vivo esempio avete agl'altri mostro,
de' vostri maggiori; e particolarmente del Quai siano i gradi ai più pregiati scanni:
l' eccellentissimo signor Nicolò Ercolano, Quel che Damon del bel Tirinto e buono
Dafni l' altrº ier con vile e roca voce,
giureconsulto, il quale per i suoi molti me Cantò dolce piangendo in tristo suono,
riti e valori, fu carissimo alla serenissima Di voi non già, ma di lui degno dono,
Giovanna II reina di Napoli; del signor Che'n ghiaccio l'alma e'n doppio foco coce,
cavaliere Giovanni, di questi fratello, il quale Quanto più possa umilemente dono.
non pur fu nel medesimo regno gran con II
sigliero e preside della Camera Regia, ma
anco poco innanzi si era in Sicilia ono
Appena il buon Damon lassato e vinto
ratamente adoprato in servigio del re La Da lungo e grave duol, vedendo meno
dislao, dell'eccellentissimo giureconsulto Bar Tutte venir le speini sue, di seno
tolomeo, di esso Nicolò figliuolo, il quale S'era piangendo il bel Carino scinto:
le civili leggi interpretando, prima in Bolo Quando Amor, non qual pria fallace e ſinto,
gna ed appresso in Ferrara, sotto il duca Bor Ma di sincera lealtade pieno,
La 've corre oggi si felice il Reno,
so, tenne i primi luoghi, e parimente demolti Il vago gli mostrò forte Tirinto,
meriti del signore Marcantonio vostro fra
Che di quel prisco e si famoso Eroe,
tello, il quale essendo agente dell'illustris Che vinse i mostri, ond'è disceso, il nome,
simo e reverendissimo cardinale Sermoneta, E l'altero valor serba e ritiene.
appresso Enrico II re di Francia ed al Perch'ei di nuova, dolce onesta spenc
l'uno ed all'altro gratissimo, si morì in Acceso, l'amorose, antiche some
Parigi; e finalmente, per tacer de vivi, del Crescendo al doppio languir suo tornoc.
62 a COMPUNIMENTA
III VII

Nè mai pastor fu di sì cari avvinto. Donde buon Tirsi? – E tu Damon ? – Da villa


Lacci, nè preso a più soave visco, - l
Canonica d' intorno al bel Mulino,
- - -

Quant'io onde ognor più m'allaccio e'nvisco, Ove, tutto in obblio posto Carino,
Non men che da beltà, da virtù spinto. D'altro foco m'accese altra favilla. –
Che 'l mio sì vago e sì forte Tirinto, Ed io ch' ancor non ebbi ora tranquilla,
Come alla lotta, al salto, al corso, al disco, Per Alessi trovar, men vengo in fino
Così vince di grazia il secol prisco, Da Medicina u vidi esto mattino,
Adon, Croco, Narcisso, Ila e Giacinto. Tuo bel Tirinto e sua vaga Tesilla.
E s” ei non fosse, che del bel Carino Onde tra me, dove è Damon ? Damone
M'incresce, mai non fu sotto la luna, Ora dov'è? dissi io tra me, che suole
Più lieto amante e con miglior fortuna. Seguirlo sempre e mai nol lascia un passo -
Or voi, caro e gentil mio Costantino, Damon che tanto ed a sì gran ragione
Se mai d'Amor provaste, o tema o speme, L'ama, il giva cercando e con parole
Piangete meco e v'allegrate insieme. Si doleva da far piangere un sasso.
IV VIII

Tutto quel che soleva in Aracinto, Là ve di mille vari fior distinto


Al buon tempo cantar l'alto Anfione, E più ch'altrove, molle era 'l terreno,
A te cantar vorrei lungo il Mugnone, L'aura più dolce, e l'aer più sereno,
In questo, ove ogni lume è quasi estinto. ll bianco crin di verdi fronde cinto;
Così da nuovo ardor casto ripinto Lieto sen già da doppio amor sospinto,
Colla zampogna sua dicea Damone, Damon cantando, lungo il picciol lieno,
E poi seguiva: O mio più bel ch'Adone, Ora il buon Dafni d' ogni beltà pieno,
Vago, dolce, gentil, forte Tirinto, Ora il vago, gentil, prode Tirinto.
Ma come ascolti ad ora ad ora, il suono Quando tutto giacer soletto all'ombra
Di questa rozza mia, stridevol canna Vide Tirsi pensoso a piè d'un faggio,
È troppo roco; io poco esperto sono. Come uom, cui doglie o grave cura ingombra,
Pur mentre che di te penso e ragiono Egli disse: Ahi buon Tirsi, ahi Tirsi saggio,
Sgombrando il duol che per Carin m'affanna Sgombra del petto ogni tristizia, sgombra,
Talvolta a bocca la mi pongo e suono. E col mondo t'allegra al nuovo maggio,
V IX

Mentre 'l buon Tirsi ognor lungi e dappresso Mentre del vago mio, forte Tirinto
Segue chi 'l fugge ognor presso e lontano, Men vo, Toro, lontan colmo di duolo,
Il suo bello e spietato Alessi, in vano Per monti e selve sbigottito e solo
Seco si duole e lo rampogna spesso. D'un pallor di viole e d'amor tinto;
Non vedi ormai crudel ch'io moro espresso Negl'occhi porto, e più nel cor dipinto,
Per te ? dice piangendo; e pur Montano, Quant' io brami ad ognor levarmi a volo,
Ch'è non padron, com' io, ma guardiano, Ed a quella tornar cui sola colo
A starsi teco, oimè, chiami tu stesso. Pianta, da dolce forza risospinto.
Pigliati in don questa zampogna ch'io E con quel dotto e si chiaro drappello,
Dal bel Tirinto dianzi, e Tirinto ebbe Vostro vedere e riverire insieme,
In fin l'altrº ier dal suo fedel Damone, Coi due Conti Ercolani il buon Vitello,
Damon del gran Resterio, e con ragione E quel del Reno e suo gran padre insieme,
Per averla ogni cosa Elpin farebbe: Bolognetto gentil, non men che bello,
Dove son? chi m'ascolta? a cui parlo io? E 'l Grifon, che di lui l' alte orme preme
VI X

Tirsi, dove si ratto esto mattino, Mentre che quasi nudo e non lontano
E si per tempo ? – A veder s' io potessi, Dalla druda, Idumon colla sua forca
l)amon, vedere il mio leggiadro Alessi. In man, le paglie e trite spighe inforca,
E tu ? forse a cercar del bel Carino ? – E l'ammonta, per poi mondare il granº
No, ma villa Canonica al Mulino, Molle Zefiro, dice, or che pian piano
Ove mirai Tirinto, e si l'impressi Se ne va 'l giorno e'l sol già par che torº
Nel cor ch' ei quasi pria, ch'io lo vedessi, Da noi, per girne al nido, ov'ei si corº,
Di tutte le mie voglie ebbe il domino. Surgi, ti prego, omai soave e piano.
Che poco oggi, anzi nulla, o teme o cura Fa, più caro de venti, che la loppa
Di me Carin, ne io di lui, ma solo Tutta e la lolla, e le festuche via
Tirinto appresso Dafni amo ed onoro. Volino al tuo spirar col caldo insieme;
Ben temo, onde già piango e mi scoloro, Ed io, se poca non sarà, nè troppa,
Ch'a lui suo senno apporte e mia sventura, Alla dolce aura tua, colmo di speme,
Danno e vergogna, a me vergogna e duolo. Spargerò fior con larga mano e Piº
PASTORALI 623
XI XV

Idmo, leggiadro più d'altro pastore, Tirinto, se orsa cruda o leon fero
Ed infelice, Amor più d'altro ardendo, M'ancidesse, io sarei del viver fora,
La vaga sua fra l' erbe un di vedendo Ma tu m'ancidi mille volte ognora
Sedersi all'ombra e sceglier fior da fiore : Ed io mille rinasco, e mai non pero.
Ninfa, disse tremando e di colore Così vita non ho, morte non spero:
Di neve, Ninfa, onde la vita prendo, Viva sono infelice, estinta ſora
Altro da te non chieggio e solo attendo, Bcata: così va chi s'innamora,
Che senza darmi il tuo, pigli il mio core. D' angelico sembiante e cor guerriero.
Ella udito tal suon, prima con torte Perche mi fuggi o bel Tirinto mio ?
Luci guardollo, e poi senza far motto, Bel si, mio no; non mio, ma di Tesilla,
Drittasi tosto in pie, la diede a gambe, Che non e bella e non t'ama quant'io.
Perch'ei sol non mori, gridando forte: i Cosi dal dolor vinta e dal disio,
Oh miei folli pensier, oh spemi bambe Dicea lungo il Ren Nisa, e Tirsi udilla,
Dove voi stessi avete e me condotto? E la vide versar di pianto un rio.
-

XII XVI

Mentre il fido Damon, con rozzi accenti, Colmo d' ogni beltà, di pietà nudo,
Tutto d'un dolce ardendo alto disio, Perche nulla hai di me, Tirinto, cura ?
Cantava il suo buon Dafni, appo un bel rio, Perche, Tirinto, il cielo e la natura,
Spargea Tilermo al vento esti lamenti. Non ti fero o men vago o manco crudo?
Perchè, Ninfa crudel, non acconsenti, Per te, Tirinto, agghiaccio tutta e sudo,
Ch'io sia il tuo drudo e spregi il pregar mio? l)icea la bella Nisa, ch' alla dura
Già non ha più che un toro il cielo, ed io Matrigna ingiusta ognor s'asconde e fura
N'ho in questo loco e'n quel pieni gl'armenti. Per Tirinto veder suo caro drudo.
Non han più d'un monton tutte le stelle, E seguia: Queste fragole con questi
Dove io mille ne pasco in mille boschi; Fiori intrecciate a te, Tirinto mio,
Esse non n hanno, io ho manzi e vitelle. Coll'alma insieme e con me stessa dono:
Se tu vedessi le mie pecorelle, Prendil, Tirinto mio, prendilo ch'io
Quanto elle saltan ben: nessun de' Toschi Non ho più ricco e più gradito dono
Pastor, diresti, l'ha più grasse e belle. Da darti, e nel tuo cor meco si resti.

XIII XVII

Deh! perchè quando umil ti chiamo e prego, O io morrò del gran dolore, od io
O bello e crudelissimo Tirinto, (Dicea la bella Nisa intorno all'acque,
Più volte hai già di non udirmi infinto, Dove tanto a Damon Tirinto piacque)
E ch' io ti miri pur fattomi niego ? Vedrò dappresso il crudel vago mio.
Misera me che chi mi fugge, sego, Tirinto a me spietato, ad altrui pio,
E chi mi segue ognor, Tirsi e Perinto, Perchè non vieni al bel mulino, u' nacque
Fuggo, nè volli mai dal bel Cherinto, Quella, che poi ch'a te fiamma dispiacque,
Non che doni accettare, ascoltar prego: Mi trae degl'occhi giorno e notte un rio?
Ne mai certo vorrò, ch' affanno e morte Perche t'involi a questi prati, dove
Da tuoi begli occhi m' è più dolce e caro, Pria che ti fosse il mio guardarti a sdegno,
Che gaudio aver da qualcun altro e vita. Ti stavi il di più volentier ch' altrove?
Così tutta dolente e sbigottita, Tanta da' tuoi bei lumi e cotal piove,
Là 've corre oggi il Ren coll'Arno a paro, Grazia e dolcezza Amor, ch'ad arder vegno,
Diceva Nisa e sospirava forte. Come farfalla, e non so gire altrove.
XIV XVIII

Ben sei, Tirinto mio, più che 'I Sol bello, D' un antica elce alla negra ombra assisa,
Ma più crudele ancor ch'un tigre ircano, Poi che gran pezza, sopra un verde prato
E nel fuggir per chino o per montano, Indarno il bel Tirinto ebbe aspettato,
Colle, via più che veltro o damma, snello. Dicea piangendo e sospirando Nisa :
Deh ! non sii tanto di mercè rubello, Perchè solo da te, tien me divisa
Ver me che per tuo amor lasciai Silvano, Pietà? per ch'a me sol ti mostri ingrato,
E fuggo sempre, qual cervetta alano, O vago e forte pastorello, amato
Ogn' altro, e sol di te penso e favello. Tanto da me, quant' io da te derisa ?
Prendi, ti prego, questi fiori o vogli, Mille fiate Mosso, Aminta, Egone
Ch'io miri un poco i tuoi begl'occhi fisa, E 'i bello Alessi e 'l suo buon Tirsi, ho io
O da lacci d'Amor, se puoi, mi sciogli. Per te spregiati e 'l tuo fedel Damone.
Cosi piangendo, e singhiozzando in guisa, E tu mi fuggi? O dispietato, o rio
Ch” avrebbe rotto di pietà gli scogli, Qual tigre orbata, o piagato leone,
Dicea vicina al Ren la vaga Nisa. Perchè non sei o men bello o più pio?
G24 COMPONIMENTI
XIX MXIII

Questo, Ninfa dicea, ruvido selce, Questo bianco monton che da sè torna
Dove per rimembranza ogni di seggio Alla mandria la sera, ov'io l'inchiavo
Al bel Tirinto e me soffice seggio, Colle mie mani e la mattina il cavo,
Già facea Tirsi, oimè, sotto quest'elce: Tosto ch' all'oriente il di s'aggiorna;
E questa così dura orrida felce Ed ei l'aer ferendo colle corna,
Che con gl'occhi e col core ognor vagheggio, Sen va superbo, e più ch' un toro bravo;
Tal ne fa, ch'egli ed io ringraziar deggio A te, Tirinto mio, pettino e lavo:
Amor, che molle e cosi solla felce. Nisa dicea di mille fiori adorna.
Pon dunque mano alla tua nobil cetra, Tu quei begl'occhi, ove ha 'l suo nido Amore,
Canta il mio fato, e rendi grazie a quella A me rivolgi una sol volta lieto,
Dolce erba, cara pianta, amica petra. Che tutta ti donai l'anima e 'l core;
Ed io questa zampogna ornata e bella, Poi felice morrò, ch” ogni dolore,
Ti donarò che suona, anzi favella In rimirando te non pure acqueto,
Si dolcemente, ch'ogni grazia impetra. Ma per dolcezza esco di vita fore.
XX -
XXIV

Deh! perchè non, come or, fior, erba e foglia, Mentre che 'n questi dolci e cari orrori
Onde dianzi dipinto era 'l terreno, Dove 'l novello amor di Damon nacque,
Dicea Nisa gentil lungo il bel Reno, Tra rivi e colli il bel Tirinto giacque,
Lascian la verde lor gradita spoglia; Seco avesti, o Mulin, tutti gl'onori.
Così, Tirinto, mio la dura voglia, Ma poi che per colmar Ninfe e Pastori
Che si m'ha inaccrbito il petto e 'I seno, Di duolo, il vago Ren lasciar gli piacque,
Ch'anzi tempo convien, ch'io venga meno, Non verdeggia il terren, non corron l'acque,
E la sua fera crudeltà non spoglia? Non sanno o voglion più splendere i fiori,
S'a tutti gl'altri e più cortese e pio, Non ondeggian le biade per li campi
Ch'ogn'altro, e'l buon Damon che i dice sallo, Non gettano ombra per li boschi i rami,
Onde a me sola è si spietato e rio? A gran pena per gl'antri Eco risponde.
Qual forza altrui, qual mia colpa o mio fallo, Zefiro tace sempre, il Sol s'asconde,
Quale inganno o destin fa che solo io, O mira in altra parte i vivi lampi,
Sola sempre lo chiami, e preghi in fallo? Cui tu, Nisa infelice, indarno chiami.
XXI XXV

Chi sa che 'l bel Tirinto ora le stelle Deh ! perchè non mi feo natura l'ale,
Non miri? onde ancor io mirar le voglio, Poi ch'ella non mi diede occhio cerviero,
Nisa dicea, mentre a ragion mi doglio, Ch'io potessi volar pari al pensiero
Ch'elle tanto mi sien crudeli e ſelle. E lui veder che sol tutti altri vale?
O graziose luci o luci belle, Sordo più d'aspe e più che tigre fero,
Del garzoncel più sordo assai, che scoglio, Perchè nulla di me, mai non ti cale,
Che v'ho fatto io? perchè tanto cordoglio Che per te muoio? e m'è sì dolce il male
Mi date ognor si di pietà rubelle? Ch'io non bramo il guarire e men lo sperº
Ma ecco già che la Diana spare, Anzi m'anciderei, sol ch'io credessi
Surgendo il sol cinto di raggi: oh come Di poter senza te vivere un'ora, -

Men bello a me, del mio Tirinto pare, O da te lungi pure un punto stessi; -

E men lucente ancor. Cosi mirare Chè sì nell'alma ho i tuoi vaghi occhi impressº,
Potessi i suoi dolci occhi e crespe chiome, O bel Tirinto mio, ch'indi mai fora
Come a lui non fu mai, nè mai ſia pare ! Non porria trarli, quando ben volessi.
XXII XXVI

Io mi struggo, io mi sfaccio, io vengo meno, A che v'intreccio? a che m'adorno, o fiori,


Neve al Sol, nebbia al vento e cera al foco; Se 'I bel Tirinto mio, più d'alpe duro,
Nè posso mai posar, nè trovar loco, Veder non vuolmi, ed io piacer non curº
Fin ch'io non veggia il tuo volto sereno. Ad altri, e 'l sanno ben Ninfe e Pastori
O bel Tirinto, d'ogni grazia pieno Così ben sapesse egli i miei dolori,
Pur che tu fossi men crudel un poco, E 'l core avesse, come 'l viso puro,
Nè ti prendessi il mio languire a gioco! Ch'amanti più beati mai non furo,
Dicca la bella Nisa appo il bel Reno. Nè più cocenti e più felici ardori.
E soggiugneva: Io non prego ch'Amore O fortunata sì, ma non già bella,
Per me t'incenda, o che tu voglia mai, Tesilla, fossi io te, che del mio Sole
Sciolto da lacci tuoi, rendermi il core; Vedi si spesso l'una e l'altra stella!
Ma che solo una volta de'miei guai Queste al vento mestissime parole,
T'incresca e non t'aggadi il mio dolore, Mentre rose intessea, calta e viole,
E non mi fugga ognor, come tu fai. Nisa spargeva all'apparir del sole.
PASTORALI G25

XXVII XXXI

Non vedi come tutto arde e scintilla Egon, ben è col mio bel Dafni degno
Mio cor, mentre è ne'tuoi lieti occhi fisso, Esser portato il bel Tirinto al cielo,
O pastorello, a me più che Narcisso, Perch' arde l' alme in nuovo foco e gielo,
Bello e crudel, ma sol bello a Tesilla ? Poi che spense Carin non vile sdegno.
Cotai parole, Ergasto, appo la villa, Ma stil più chiaro e meno oscuro ingegno
Dove sì dolce Amor m'ebbe trafisso, Fora uopo ai due maggior, ch'entro'l cor celo
Che sempre o'n cielo, o'n terra, od in abisso, Cantar; ne valmi che chi nacque in Delo
Sereno il ciglio avrò, l'alma tranquilla, Amò quel che amo anch'io, in terra legno.
Mandò fuor Nisa sospirando; ed io: A pena il picciolo Elsa e l'Asinaro,
Quanto è vago, le dissi, e quanto è bello, Non che Permesso e Pindo canteranno
Tanto è gentil Tirinto e tanto è pio. Dafni e Tirinto miei, sì nobil paro.
Si vergl'altri, o Damone, a me più rio, Ben con Astura Calvoli e Calvano
Rispose, è che tigre orba, e sol vedello I miei rammarchi e l'alte pene udranno,
Chieggio, nè altro mai penso o disio. Mentre or Lenzi sospiro, ora Ercolano.
XXVIII XXXII

Poss'io morir, se non m'ancido un giorno Tu ch'a tutti altri vai tanto sovrano,
Colle mie proprie man, poi ch'a gran pena, Elpin, che l'ombra tua si scorge a pena,
Dopo mille anni, e non Amor rimena, Non io, che giaccio in sulla piana arena,
Tirinto a me, ma 'l festo, altero giorno. Cantar Dafni dovresti ed Ercolano. –
Allor io quanto posso e so m' adorno Anz io ch' a tutti gl'altri deretano
Di calda speme e timor freddo piena, Men vo con poca ed affannata lena,
Ma quanto il gran disio, tanto la pena Damon, tanto a te cedo, e n' ho ben pena,
Cresce al vederlo più di tutti adorno. Quanto cede a pavon pica o fagiano. –
Gl' occhi sembran due stelle, anzi due soli, Pastor, che siete intorno al gajo fonte,
La bocca avorio e rose, e 'I vago riso U' piango sempre e talor roco squillo,
Apre intorno un terrestre paradiso. Cingetemi di baccare la fronte.
O Sol, per che quel di, non, come suoli, E tu, superbo e invidioso monte,
Ratto ten fuggi ? Ma nel cielo assiso, Apriti, e mentre il duol per gl'occhi stillo,
Anzi in terra ti stai nel suo bel viso. Rendimi il mio gran Lenzi e'l mio buon Conte.
XXIX XXXIII

Poi che villa Canonica e 'l Mulino, Se dell' antica tua sì cara Filli,
Tirinto ch'al bell'Ila il pregio tolle, Sovvienti ancor, cni già sopra il Mugnone,
Cangiare, oimè, con Medicina volle, Dolce cantasti si, saggio Damone,
Ed io'l vidi partir questo mattino; Che non forse oggi si soave squilli;
Qual fia Ninfa o Pastor quinci vicino, Prega a mio nome il tuo gran Dafni, e dilli
Che sia cotanto cruda e così folle, Che per tua prima e poi per mia cagione,
Ch'alla trista novella il petto molle Prender gli piaccia in don questo montone,
Non faccia tutto e porte il viso chino? Di lunghi adorno e bianchissimi villi,
A me sembrò che l'erba e i fiumi e i monti, E con esso monton prenda non meno
Gridasser meco: O bel Tirinto mio, Il cor non mio, ma di tuttº i pastori,
Deh ! non partire, o tosto almen ritorna. Ch'oggi per lui felici alberga il Reno. -
O occhi miei, occhi non già, ma fonti, Prode Tirinto, il tuo dono e gl'onori
Mentre tutto il mio ben lontan soggiorna, Vostri, quanto esser den, graditi fieno,
Quando sarete asciutti e contenta io? A chi mai non uscio del dritto fuori.
XXX NXXIV

Questo baston, che già più volte in vano Ben mi paiono omai più di mille anni,
Mi chiese Aminta, ed era degno allora Ch'io non ti vidi, e pur l'altrº ier con teco,
D'esser amato ed io l'amava ancora, Caro Damon, sotto fiorito speco,
Perchè gli parve il non l'aver più strano; Mi giacqui all'ombra senza falli, o'nganni -
Dono io a te, caro Pastor sovrano, Ed io, con mille al cor gravosi affanni,
Cui quanto già Carin, tanto innamora D'allora in qua non ho la vita meco,
Oggi Adon nuovo, onde le selve ognora Che dove non sei tu, son sordo e cieco,
Suonan liete or Tirinto, or Ercolano. E non conto pur un de' miei gran danni.-
E l'alte valli di Parnaso e Cinto, Dolce Tirinto mio, che di bellezza
Con lunghe voci dolcemente al cielo, Il Sol, quando ei più luce, e d'onestate
Ercolano or rispondono, or Tirinto; Diana, o s'altra è più pudica, agguagli,
Tal ch'ei gran tempo col suo picciol Reno, Ed or di tanta gioia e tal dolcezza,
In compagnia del sacro Arbor di Delo M'empi, mentre dappresso m' abbarbagli,
N'andra di gloria e vere lodi picno. Ch'esser mi par colle mie froidi anate.
VAllulll V. 1. 79
626 coMPONIMENTI
XXXV XXXIX

Mira, mio buon Damon, quanto sfavilla Il pianto, che per gli occhi si distilla
La luce, onde al cor vienni e tema e speme, Dalla mia mente tempestosa, avvezza
Perchè ghiacciando avvampi, ardendo treme: Mirar la vostra angelica bellezza
Quell' è la dolce mia cara Tesilla; Onde Amor col suo stral si dolce aprilla,
Da' cui begl'occhi e viso Amor distilla Ristagna, ed ella tosto si tranquilla,
Foco gelato e calda neve insieme: Ch'io dentro il cor pensando a quale altezza
Ortu, che gentil laccio annoda e preme, Salii, mercè di lei, tanta dolcezza
Colla Zampogna tua sue lodi squilla. Sento, e tal che tale uom mai non sentilla.
Chè non pure io, cui tu sì forte onori Così vivo felice, rimirando
Ed ami col tuo sacro, unico alloro, I bei vostri cortesi, onesti rai,
Quanto io te senza pari amo ed onoro; O di lor meco stesso ripensando
Ma quante alberga il Ren ninfe e pastori, Così cantò di fede e d'amor pieno
Con lei, primo di lor pregio e tesoro, Il più bel pastorel che fosse mai,
Grazie ti renderan di tanti onori. E Tesilla sonò, Tesilla il Reno.
XXXVI XL

Tu sola sempre e null'altra mai piace Tra Carelli e Larniano, ove con torto
Al bel Tirinto mio, te sola chiama: Piede in petrosa valle il chiaro Astura
Te sospira, te pensa, onora ed ama, Corre in guisa di serpe, a sè si fura
Da te sol viengli ogni sua guerra e pace, Sotto alpestre Damon fresco diporto,
Vaga Tesilla; onde s'a te non spiace, E 'l bel Tirinto suo, ch'altro conforto,
La mia pastoral canna, da cui brama Dopo Dafni, non ha, nè d'aver cura,
Esser Nisa cantata e l'Alba, fama Quando il sol luce, e quando è notte oscura,
Tra l'altre Ninfe avrai chiara e verace. Vcdc, benchè lontan, palese e scorto:
Chè non pur la Canonica e 'l Mulino, Ch'ei porta sempre innanzi agl'occhi e dentro
l Casalecchio e Medicina ogn' anno, Il cor l'altiero e mansueto viso ,
E 'l monte e 'l bosco al picciol Ren vicino; Ch'apre tutti quaggiù gli onor del cielo.
Ma l'Asinaro e Fiesole, che fanno Ne membra cosa mai, che più addentro
Ombra al Mugnone, e sopra gl'altri stanno, Il tocchi, di quel vago e dolce riso,
Il tuo bel nome e l'alte lodi udranno. Che di nuovo addoppiò la fiamma e 'l giclº
XXXVII XLI

Cosa al mondo non è, che più mi piaccia, Folto, fresco, crmo, intonso, orrido Panna,
E mi dilette in più soavi tempre, Ch'avesti il nome dal tuo vago e bello,
Caro Tirinto mio, che viver sempre, E forse il desti a lui, dolce ruscello,
E poi morir nelle tue dolci braccia; Che 'l mio duol mormorando disaſſanna;
Solo ch'a te, novello Adon, non spiaccia, Se non mia colpa a pianger mi condanna,
Ch'io nel mirarti mi distrugga e stempre, Ma mio destin d'ogni pietà rubello,
E''l tuo bel guardo, come suol, contempre Anzi frode e furor d'uom fero e fello,
L'ardor che tutta, e notte e di m'agghiaccia. Cui sdegno e 'nvidia il buon vedere appanna,
Queste proprie parole appo la villa Non ho ragion di lamentarmi e dire,
In cui s'onora il gran divo Ercolano, Che bontà poco giova e troppo nuoce
E dove or tutte il ciel sue grazie stilla, Malizia che dovrebbe omai perire -

Cantò, mentre d'amor trema e sfavilla, Benchè 'l buon Dafni e 'l bel Tirinto mio
Con dolcissime voci in atto umano veggio, che tanto al cor malvagio cuocº,
La vaga e felicissima Tesilla. L' un via maggiore ognor, l'altro più Pº
XXXVIII XLII

Questo fonte gentil non versa stilla Calvoli altero, e ſia ch'io 'I creda ? e purº
D'acqua, nè questo bosco sacro ha foglia, Il vedo e'l sento e'l provo e'l piango ognora
Nè sasso il monte, od erba ch'io non voglia, Ch'io stia lontan dal picciol Reno ancorº,
Mentre vivo, e non debbia riverilla; E viva in pene acerbe tanto e dure?
Poi che la bella Ninfa, che travauilla Quivi le greggie
Pascon, mercè più
del che
mio mai
buonsicure.
Dafni ed ora
Mio cor turbato, ed ogni amara doglia
Nell'alma addolce, che mia stella e voglia D'ogni paura, non che danno, fuora
La fer divota obbediente ancilla; Le guida, ch'altri le molesti o fure.
Qui con sì dolce guardo e si sereno, Quivi a guisa di stella, anzi di chiaro
A me si volse, ch'io non credo omai sole nel mezzo di, tra gl'altri splendº
Certo dover morir, nè sentir guai. Il bcl Tirinto, a me sì dolce e carº
Così cantò di gioia e d'amor pieno, o mia sventura, o mio destino avaro!
Il più bel pastorel che fosse mai,
Dch chi mi toglie l'un, chi non mi rende
E l'irinto sonº, Tirinto il Reuo. L'altro, tanto miglior, quanto più raro:
-
PASTORALI 6a
XLIII XLVII

Quei dolci, alteri luni, ove gli strali E pur son questi sassi ermi e silvestri:
Cortese e onesto Amor dora ed affina Pur e men lungi d'Arno esta rivera
Quegli a cui sempre ogni bell'alma inchina, Al picciol Reno, ove 'l gran Dafni impera,
E che 'n sorte mi dier stelle fatali: E dove i passi ebb'io l'altrº ier si destri;
Oggi con chiari lampi a Febo eguali Quando tutt'i pensier bassi e terrestri,
Fan superba la villa, che vicina Del bel Tirinto l'umil vista altera,
Al gran divo Ercolano è Medicina, Sgombrò dell'alma, onde poco innanzi era
Come ne mostra il nome, a nostri mali. Carin per modi uscito aspri e sinestri.
Ed io lungi da lor, tra selve e monti, E se non fosse quell'alpestre scoglio,
In chiusa valle, ove a gran pena il cielo Che'nfino al ciel drizza la fronte, ond'io
Scorgo, con passi tardi e pensier pronti, Tanto, e con tal ragion di lui mi doglio;
Men vo piangendo; e pure a questi fonti Forse il loco vedrei, dove disio
E prati e boschi, dove altrui mi celo, Doppio sempre mi tira, e fora il mio
Farò 'l buon Dafni e 'l buon Tirinto conti. Cor, come 'n fino a qui, senza cordoglio.
XLIV XLVIII

0 di beltate e d'onestade solo, Oh! se quelle che tu, gradito fonte,


D' ogni grazia e virtù Tirinto pieno, Con cui mi doglio al fosco ed al sereno,
Se non fosse 'l pastor, che 'l tuo gran Reno Querele ascolti ognor, fossero almeno
Oggi, ed io sempre ammiro tanto e colo: Ai miei buon Dafni e bel Tirinto conte!
Mentre ch'io piango in questi boschi, e solo Invido, avaro, ingiurioso monte,
Del possente dolor non vengo meno, Che m'ascondi il minor, ma più bel Reno,
So ben, dicea Damon, che tu non meno Perch'io non sia qual fui, beato appieno,
Piangi, tale hai di me pietate e duolo. E le mie pene a chi non l'oda conte !
Ma fra tutte le noie e quei che tanti Se non se forse in questa alpest.a valle,
Soffro martiri ognor, nullo è maggiore, Ch'indi chiude Carelli, indi Larniano,
Che star lontan da' tuoi bei lumi santi. S appiatta alcun rio Satiro, o Silvano.
Oh Dio ! sarà quel dì, verran mai l'ore, Ben fu più ch'altro mai core inumano,
Ch'io ponga fine a così lunghi pianti, Quel che per sì coperto e torto calle
E ti mostri negli occhi aperto il core? Feo sì, ch'io diedi al dolce Ren le spalle.
XLV XLIX

Questi non sono, Elpisto mio, quei colli, Oh ! se quando colei che tutto sgombra,
Queste non sono, Elpisto mio, quell'acque, Per tutto empiere il mondo in breve tratto,
Questi non son quei prati, Elpisto, u'giacque M'arà di queste membra stanche fatto
Meco Tirinto sopra l'erbe molli; Tra verdi, ombrosi mirti amorosa ombra ;
Quel dì, che dopo tante e tanto folli Qui dove fresco laureto adombra,
Spemi del bel Carin, che si mi piacque, Da me piantato il gajo fonte, un tratto
Mentre che di piacermi a lui non spiacque, Da fortuna venisse o d'amor tratto,
L'alta fiamma di nuovo addoppiar volli. Lo mio buon Dafni, o'l bel Tirinto all'ombra;
Qui non ha 'l picciol Reno, ov'io mirai Certo non so, ma credo ben, ch'al cielo
Si dolcemente gli occhi alteri e lieti, Farebbe forza così dolce, ch'io
Tosto ritornarei nel mortal velo :
E le parole udii sagge e soavi.
Ah! qui non Casalecchio, che i miei guai, Sol che dicesse, o quegli, o questi: Il mio
Qui non è la Canonica, ch'acqueti Damon dov'è ? perchè non vien qui ora
Tutte l'acerbe cure e i pensier gravi. A far, qual già solea, lieto dimora?
XLVI L

Dolce Amaranto mio, quanto più caro Tesilla amo, Tesilla onoro, e sola
Questo picciol mi fora, incolto albergo, Tesilla ovunch'io vada, ascolto e miro:
Dove tante rivolgo e tante vergo Dice per questa valle opaca e sola
Carte, per farmi al mondo illustre e chiaro: Tirinto, cui secondo ardo e sospiro,
S'ei l'alto e frondosissimo Asinaro, Poi, come stella, che repenta vola
Per cui le voglie mie tutte al cielo ergo, Agl'occhi nostri, con dolce sospiro,
Dinanzi agl'occhi avesse, e non da tergo, Forse a sfogar l'ardente suo desiro,
In questo solo a miei diletti avaro: Ratto per boschi e monti alti s'invola.
O piuttosto quel monte, che coll'opra Boschi felici, avventurosi monti,
Suo nome agguaglia, e mi contende il loco Ben sieno i nomi, e gl'onor vostri un giorno,
Del bel Tirinto, ov'il buon Dafni regge, Quanto Pindo e Girneo lodati e conti.
Non fosse, o fosse ov'è Frassino. Ahi legge Bel, gajo, e tu di mille frondi adorno,
Di natura e d'amor! per quanto poco Fra i nobili sarai più chiari fonti,
Il più lieto non son, ch'oggi il ciel copra? Ov'ei si giacque alle fresch' ombre intorno.
628 - COMPONIMENTI
LI

Vaga ninfa o pastor, che sagli o smonte, DUE EGLOGIE


Entra il fresco antro risonante, e sgombra
ia stanchezza e la sete all'acqua e all'ombra, DI MESSER BENEDETTO VARCHI
Partendo inchina umil gl'occhi e la fronte.
Al gajo suon di questo opaco fonte, IN V E a SI SC 10 LT a
Che d'orror l'alme e di dolcezza ingombra,
Qui giacquer meco, e con Elpisto all'ombra, IN D IR I TT e

Il buon Bona,il buon Zoppio e'l mio buonConte.


Queste parole entro una viva scorza A MESSER PIERO STUFA
Vergò Damon di quel casto e gentile GENTILUOMO E CANoNICo FloraENTINo
Arbor ch'il guida al ciel con doppia forza;
Poscia ch'al mille cinquecento e sette, -

Dopo cinquanta, il bel mese, ch'aprile


Segue, portato avea chi mai non stette.
A M. PIERO STUFA
LII

Qui fu Tirinto il bel pastor, seconda A voi, saggio signor, che tanto siete i

Fiamma del buon Damon;quest'acque il sanno, Caro alle Muse d'Arno, e tanto loro
E questi boschi e questi prati, ch' hanno Amante, e tanto che le gemme e l'oro,
Più bei fior, più fresca ombra e più molleonda. Verso di quelle in nessun conto avete:
Deh! perchè quella dolce, amena fronda, Quel ch'ei già, or con meste, or con non liete
Ch'a doppio oggi mi toe noia ed affanno, Voci, or pianse, or cantò, non d'alto alloro
Anzi torna in profitto ogni mio danno, Cinto, ma d' edra umile, e tra coloro
Tanta in lei grazia e largitate abbonda? Ultimo, ch'han per segno il fuggir Lete:
Non venne anch'essa, il sesto giorno altero, Non già che 'l pensi di voi degno, o fama
A far lieta del tutto esta pendice, Credavi dar, ma sol lo sferza e sprona
E me tre volte sopr ogni uom felice? Di parer non ingrato, ardente brama,
Ma se non ogni cosa indarno spero, Al suo fedele Alcon, che di par suona
Nè sempre il falso al cuor disio ridice, Con Pane, e tanto lui gradisce ed ama,
Chied'ella, e brama quel ch'io bramo e chero. Damon con tutto il cor consacra e dona.

LIII

Altro che tu, dopo 'l gran Dafni mai EGLOGA PRIMA
Non fia, ch'agl'occhi miei, Tirinto, piaccia,
E meno all'alma, che più certa traccia AMARILLI
Non ha, che i dolci vostri, alteri rai ;
Per trovare ogni ben, per tutt'i guai Io vo cantando a trovare Amarilli
Fuggire, onde unqua non sarà, ch'io taccia
La bella donna, sol ch'a lei non spiaccia Per far tutto quant'oggi all'amor seco;
Mia canna umil, che tu tanto alta fai. E le caprette mie, Titiro, guarda.
Ogni beltade, ogni bontà traluce Titir, da me di buono amore amato,
Da te Tirinto mio; dunque qual deve Titiro, a me sopra tutti altri caro,
Essere e quanta, onde tal vienti luce ? Pasci il mio gregge, e ben pasciuto il mena
Alla penna, ond'io scrivo, amico e duce Là dalla Gora a ber, ma guarda il becco
Fu questa volta, e me da lungo e grave Per via non incontrar, ch' ei cozza e fugge.
O Amarilli mia dolce e soave
Peso sgombrò colui che 'l giorno adduce.
Più ch'il mel d'Ibla, e più vezzosa e lieta
LlV Ch'un giglio bianco allo spuntar del sole,
O fresca rosa all'apparir dell'alba;
Dafni mio bel, Dafni mio buon, la cui Perchè non più, come solevi, all'ombra,
Mercè, s'al mondo fu felice uom mai, Sotto questi antri a star teco mi chiami,
Trenta anni intieri ha 'l sol girato omai, Che sai ch'altra, che tu, nulla mi piace,
Felice affatto, e veramente fui. E ch'io lasciai per te Simeta e Dori?
A voi sempre e 'nfinito, dopo lui Forse mi schivi, oimè ! forse mi sdegni,
Grazie umil rendo, che ne' vostri rai Bell'Amarilli mia, perchè ti pajo
Del suo lume mostrommi, ov'io mirai, Aver lunga la barba e 'l naso piatto;
Piana la strada, ch'è tanto erta altrui. Nè ti sovvien, che tal l'ha Pane anch'egli,
E quando più fremea Bellona e Marte E che camusi son gli dii de boschi ?
Nel secol solo agl'altrui danni intento, Ben sarai tu cagion crudel, ch'io spezzi
Per partir me da chi tutti diparte, Con queste man la mia zampogna, e poi
Lontan dal volgo in solitaria parte Per farti ira maggior, me stesso uccida.
Vivea più, ch'alcun mai lieto e contento, Ecco che per piacerti, entro un canestro
Gl'onor vostri scemando in mille carte. Di vitalba e d'ibisco, attorto in guisa,
PASTORALI 629
Che non vedesti ancor lavoro eguale; Di fior di gelsomin, d'appio e di spigo,
Cingel nel mezzo intorno intorno un ricco Onde tu stessi con Diana a paro,
Fregio, scolpito d' animali e d' erbe, Nè più vaga di te Ciprigna fosse,
Si ben che 'l Tasso il lodarebbe ancora, Che non ebber giammai corona tale.
Ne 'l crederebbe mai villesco intaglio; Vieni, Amarilli mia, vientene omai,
E dentro ha tutto e fuor dipinto il fondo, Che 'l vento, un pezzo fa t'aspetta e chiama,
Con si vivi color, con si chiara arte, Tra questi molli e freschi salci al rezzo,
Che non ch'altri, il Bronzin l'ammira e loda. A voltolarti su per l'erbe meco.
Questo a Decimo già sopra la Grieve, Deh, vien dunque, deh sì, ch'amendue soli
Tratto dal nome di sì gran bifolco, Com'altra volta già, sotto quest' olmo,
Per udirlo cantar, diccie al Vettorio, Trastulleremoi qui, lunghesso l'acque;
Un pastor da Bascian, di cui più dotto, Or che tutt'arde a mezzo giorno il ciclo ;
Non sono mai pastor zampogna, o cetra, E per li campi, e per le selve han pace
Nè l'Arcadia udi mai note si chiare; Gli uomini e gl'animai; se non ch'al mio
Venuto infin dagl'Euganei monti, Canto rispondon pur grilli e cicalc.
Ove la Brenta i lieti campi irriga, Nè temer, che nessun ci scuopra, o noie.
Ch'al buon seme trojan ricetto furo. Si folta è l'ombra e si profonda l'erba,
Ed ei lo mi donò, ch appena il volli, Oltra che 'l buon Cervin, compagno fido,
Dopo un lungo pregar, per non far privo, Che conosce le stelle erranti e fisse,
Di sì bel guiderdon, si caro amico, Un'erba m'insegnò per queste valli,
Che ben n'era di me, più degno assai. Che può far gl'occhi altrui di lume spenti;
Con esso, colte di mia mano or'ora E l'ho provata già due volte vera,
Dell'arbor che tant'ami, in don t'arreco, La qual ti mostrarò, quando tu vogli,
Dieci pere cotogne, ed altrettante Che ben potrebbe un di venirti ad uopo;
Diman ne porterò forse e più belle, Bench'io giurassi a lui tenerlo ascoso,
Con un altro panier non già si vago, Nè mai l'ho infino a qui detto a nessuno,
Ch'io vinsi, oggi ha tre di, correndo a pruova, Nè 'l direi fuor ch'a te, vita mia cara.
Al figliuol di Montan, che pianse quasi, Il tuo sempre fuggir per balze e greppi,
E pur sai quanto egli è leggiero e destro; Ed appiattarti in questa fratta e 'n quella
Ed io era d'Amor si vinto e frale, Farà, ch'io mi morrò di doglia un giorno,
Ch'a gran pena potea muovere i passi: E lascierò Baruffa e 'l Serchio, e questa
Pensa quel ch'io farei, stu fossi pia. Tasca nova al Martin, col mio di pero
Deh ! pon mente, Amarilli, e guarda, come Nocchioluto baston ritorto in cima,
M'ha concio il gran dolore, e quant' io sono Che di morte si rea vendetta faccia;
Pallido e magro, che mi reggo appena. E mal grado di te presso a Lucente,
Oh ! potess'io almen talvolta un poco In sempiterna tua vergogna e danno,
Diventar pecchia, e gir tra l'erbe verdi Anzi il tumulo mio con larghe note,
Mormorando e tra fior, ch'io fora sempre Tal che si scernan di lontano, scriva:
D'intorno al tuo bell'antro: e volarei « Questi anzi il giorno suo condusse a morte
Nella felce e nell'edra, onde sovente, » D'Amarilli crudel l' orgoglio altero.
Contra i raggi del sol, la fronte adorni, » Fuggi, chiunque sei, fera sì cruda. »
E più bella di lui m'abbagli e 'ncendi; Lasso ! che deggio io far, ninfa crudele?
E quivi sempre a rimirarti intenta, Se non mi stringi e non mi sleghi, certo
Per non turbar la tua quiete e 'l sonno, Che trattomi di dosso esto tabarro,
Sovra l'ale starei sospesa e queta, Mi gittarò nel maggior fondo d'Arno,
Senza muover giammai la bocca e gl' occhi. Colà dalle mulina o dove suole
Or so io, lasso me! ciò ch'amor sia. Lungo 'l Pignon di bel verno, a ricisa
Nell'orride Alpi, tra i più duri scogli, Tuffarsi Ammeto con le reti al collo;
La 've sempre Aquilon turbato freme, E se ben non morrò tu pur n'avrai,
Sovra le nevi sempiterne e 'l ghiaccio, Non restando per te, diletto e gioco.
Fu partorito d'aspre fiere, e 'l latte, Ben mi disse una vecchia che col vaglio
Dalle più infeste tigri ircane bebbe; S'appon sempre, e 'ndovina con lo staccio,
Nè si può pensar pur mostro sì reo, Cercand'io di saper se tu m'amavi;
Che 'nfino all'ossa mi divora e strugge. Non s' era volto mai da parte alcuna.
O Amarilli, che sì bella in vista, Ed io l'altrº ier in su 'l mio pugno posi
Si pietosa negl'atti e nelle ciglia, Una foglia di rosa, e non sentii
Tutta hai di ferro e di diamante il petto. Percotendola forte, uscirne suono;
Deh ! se ti cal di me, guatami almeno, E pur provando Alcon saggio e fedele,
Nè ti dispiaccia ch'io t'abbracci e baci; Qual fosse l'amor mio verso Amarilli,
Che tale e nel baciar dolce diletto, Dovesti in fin di qui lo scoppio udire.
Se ben altra seguir gioia non deve, Due leprettin sotto la madre a covo
Ch' un amante sen può restar contento. In una macchia con gran rischio presi,
Poichè non m' odi e non m'ascolti, in mille Vedi, ch'ancor tutto ho graffiato il braccio.
Parti n'andrà questa ghirlanda, ch'io E per dartegli sol gl'allatto e serbo :
Nel grand'orto d'Elpin, proprio a Quaracchi, Benchè scherzar l'altrº ier gli vide Filli,
Per ornarti il bel crin, tessuto avea E le parver si belli e monnosini,
63o COMPONIMENTI
Che per avergli ognor mi segue e prega, Fanne del cantar tuo cortese dono,
E gl'avrà poi che tu mi fuggi e sprezzi. Del tuo cantar, che per le selve i boschi,
L'occhio destro mi brilla : or saria mai Se non m'inganna il troppo amore o il poco
Ch'io la vedessi in queste selve? Io voglio Tempo e saver, risuona sì, ch' omai
Corcarmi a piè di questo ameno faggio, I nostri campi e le toscane ville,
O sotto quel fronzuto e verde pino, Poca hanno invidia a Siracusa e Manto.
Il cui dolce fischiar col suon dell' acque, Dam. Ben m'hai, giulio Carin, Carin ch'al core
Sì grata rende e si scorta armonia, Così caro mi stai, per arbor tale,
Ch'al mio rozzo cantar bordon faranno ; Scongiurato, che muto anzi pur morto,
Ed ella m'udirà benigna forse, Cantarei, credo, non che veglio e roco.
Che non ave però di sasso il core. Ma perchè non ancor per quella nuova
Anzi or, certo di me pensa o ragiona, Fiamma che cresce sì l'antico foco,
Che 'l cor mi batte oltra l'usato e forte Mentre pur casta e pur soave incende,
Zufolarmi entro ambe l' orecchie sento : Ch'oggi in duopetti,e non m'incresce,avvampo;
Ond'io comincierò così prosteso, Che doppiando l'ardor doppia la gioia,
l'er veder s'ella vien questa canzone. E di due morti eterne, eterne ognora
Ippomane già preso d'Atalanta, Nascon due vite si gradite e care,
Dall' esperida pianta i pomi colse, Ch' alcun non è così contento al mondo,
E così lieto volse in riso il pianto. Nè puote esser alcun felice tanto,
Endimion fe” tanto che la Luna Che pur un sol de miei tormenti agguagli,
Nella più bruna notte a lui venia, Non che i doppi piacer tutti pareggie?
F seco s'addormla. Felici loro, Car. Canta dunque, Damon, canta che 'l tuo
Non chi l' oro possiede ! O te bcato, Carin per lo tuo Dafni umil ten prega,
A cui dal ciel fu dato un sonno eterno, E prega umil che mille il prego vaglia.
A te la state e 'l verno invidia porto. E canta sì, che del tuo dolce e solo
Vener poi che fu morto dall'acuta, Lauro il cantar tuo per tanto spazio,
Profonda aspra feruta il giovanetto, (E, che non puote oprar gemino Amore )
No 'l si parte dal petto; e quanti e quanti Giunga all'orecchie, e le percuota in guisa,
Furon giojosi amanti senza guai ? Ch'al cortrapassi e 'l buon giudizio appaghe,
Ma non vo più cantar ch' omai son roco Dam. Ben canterò, che 'l pregatore e i preghi
Anzi poi che 'l mio duol piacer t'apporta, Tai sono e tanti che non pur del mio
O ingrata e disleal, disteso in terra, Petto elicer porrian parole e versi,
Giacerò tanto qui che gl'orsi e i lupi Ma dall'onde trar foco e dal foco onde,
Saran del tuo caprar sepolcro indegno, Forza averian. Ma tu che 'n quella etate
E pur dovrai, crudel, saziarti allora. Grazioso Carin, Carin giulivo,
In quella acerba età che gl'altri a pena
--
Scioglier la lingua e far parole sanno,
Non ben fornito il terzo lustro ancora.
Coi più vecchi bifolchi e co più saggi
EG LO G A S E C O N DA Pastor, quasi di par cantando vai :
Perché non canti, ond'al bell'Arno ed Ema
lo A M on ts Ceda il gran Mincio e l'Aretusa un giorno
Car. Dov'è Damon, Carim cantar non deve.
Dam. Anzi dov' è Damon, canti Carino,
Che più dolce del suo non ode suono,
Carino e Damone. Qualunque ascolte mai che parli o cantº,
Car. Or che poss'io cantar che 'l pregio merti
Car. Dehl famoso Damon, che varchi al paro Dam. Non ti vid'io l'altr'ier, quando al suo divº
Degl'antichi pastor, per quella altera Giusto rendendo i sacerdoti onore,
Pianta, ch'ha nel tuo cor le sue radici, Tra mille caste verginelle e mille
E con le frondi il ciel dorato fere; Giovinetti pastor, d'amore ardenti,
Or che nel mezzo del più verde e bello Al suon d'alte zampogne e dolci cetre,
Fiorito mese, al di più caldo vibra Celebravano il di festo ed altero,
Febo i suoi raggi, e fa l' ombre minori, Che mi starà nella memoria sempre,
Qui, donde il mio Vaccian fra piagge e colli Per rimembranza di si lieto giorno;
I tuoi bei monti, Fiesole, Morello Non ti vid' io con queste luci all'ora,
E più lungi Asinar, come in suoi spegli, Che non miran di te cosa più cara,
Dopo Ema ed Arno ognor ſiso rimira, Poi che scorresti d'ogni intorno il loco
E sè medesmo e lor lieto vagheggia; Dolce facendo al tuo cantar tenore
Sotto quest' ombra di castagni, al dolce Batto, di cui nessun più chiaro tromba,
Fischio del zufolar ch'a piè del poggio, Con la voce e col suon, d'armonia pieno,
Che fa il pian delle selve, il vento muove, E di dolcezza e meraviglia i cuori ;
Vicino al gran tugurio ove sovente, Non ti vidi io, dico io, più dolci e cari,
Col suo caro consorte in sacro ostello, Ch'altri ancor mai e più leggiadri balli
Vago e puro ermellin sè stesso vede ; Con le ninfe guidar? che se le Grazie
Qui dov'è il ciel sereno e l'aer queto, l Son tai, certo più belle esser non ponno,
PASTORALI 63 i
Canta dunque di lor l'alta beltade, Il tuo fuggir così veloce e presto,
E di', che se le tre ch' a mirare ebbe Ogni mio bel piacer rivolto ha in pianto,
Pari nel colle Ideo celesti dive, Ogn' alta speme mia, tornato ha in doglia,
Fossero state come queste pari, Che dianzi era io felice, or nulla sono.
Non potea vero mai giudizio darne : O terra, o ciclo, o rie fallaci stelle,
Tant' è l' una sorella all'altra eguale Come parl' io, s' ogni mio spirto è muto º
Di beltà, d' onestà, d'ingegno e d'arte. Come veggio io, se 'l mio bel sole è spento
Car. Ben mi punge egualmente alto disio Come vivo, se morta è la mia vita ?
Di lodar tutte e tre, Ginevra bella, Dianzi ero io pur felice, or nulla sono.
Margherita gentil, Maria cortese, O valli, o campi, o piaggie. o colli, o monti,
Ch'avete quanto il ciel può dar ciascuna. O fonti, o rivi, o ruscelletti, o fiumi,
Ma or nuovo dolor mi chiama altronde. O selve. o cupi boschi, o augelli, o fere,
E per tristo cammin l'alma travia, Vedeste mai ? udiste mai tal sorte,
Tal che più che cantar pianger m'aggrada, In alcun tempo, e quanto gira il sole?
Pensando, oimè, che de'nostri orti ha Morte Dianzi era io pur felice, or nulla sono.
Con la spietata sua rapace mano, O Driadi o Naiadi e Napee
Ch' ogni più ricco onor superba toglie, O Pane, o Bacco, o Cerere, o Pomona,
Il più pregiato e più bel fiore svelto, O pecorelle, o agne, o manzi, otori,
E spento affatto il Sol degl'occhi nostri. Quanto avete perduto, e quanto manca
Dam. Dunque è rimaso qui misero e solo, Alle selve, alle viti, a campi, a gl'orti!
ll già sì lieto e fortunato Alessi ? E a me sol più ch'a tutti gl'altri insieme,
Alessi a te per sangue amato e caro, Che dianzi era felice, or nulla sono !
A me per amistà diletto e fido. Or chi mi tien, che questo grave incarco,
Dunque è la bella e sventurosa Flora Sol per gran danno mio vivace troppo,
Del suo vanto maggior spogliata e priva ? l Con le mie proprie man non ponga in terra?
Dunque per sempre ogni ben nostro è morto? Chi fa, ch'io non mi sfaccia e non m'ancida?
La nostra speme, il nostro bene e il nostro Chi mi vieta il seguir, cui sola e sempre
Vanto, il Sol nostro e 'l nostro fior solo era La notte e 'l dì con la memoria seguo 2
La bella Delia ch'or di vita è spenta; Altro che speme di vederla in cielo,
Delia, che pose spesso in dubbio altrui, E di nulla, tornar felice e lieto.
Qual più fosse o cortese o casta o bella, Dam.Deh non dir più, Carin, che tal m'ingombra
Chi più potesse in lei, studio o natura, Pietade e duol del miserello Alessi,
Quale avesse maggior bontade o senno. D'Alessi a te parente a me compagno,
Car. Segui, caro Damon, che far più grata Che se non fosse il gran piacer, che l'alma
Cosa non puoi al tuo Carin ch' al cielo Del tuo dir dolce e del mirarti prende,
Delia portar co' tuoi graditi carmi. Di dolor e pietà morto cadrei.
La bella Delia, ch'or di vita è spenta ; Ma credo ben che Carpinetto altero,
Delia che pose spesso in dubbio altrui Ov ha l mio buon Egon suo antico albergo,
Qual più fosse o cortese o casta o bella, Per udir da vicin canti sì novi,
Chi più potesse in lei, studio o natura, E più presso veder con gl'occhi suoi
Quale avesse maggior bontade o senno. Così scaltro e leggiadro pastorello,
Dam. Ben seguirò, dolce Carin, ma prima Quasi nuovo Anfion, novello Orfeo,
Di', prego, tu, che sol più d'altri il sai, Cinto la fronte onde il bel nome tragge,
Quanto si dolse il mesto Alessi all'ora, Scender vorrà del suo natio cacume.
Alessi a te parente a me compagno, Tai sono i versi tuoi, tai son Carino,
Con la terra, col cielo e con le stelle, Le rime e tal di te presagio danno,
Con le fere, con gl'arbori e con l'acque, Anzi il primo fiorir de più verdi anni:
Che la trista il ferio, novella amara, Tal è l' ingegno tuo, l' industria e l'arte
E chi in quel punto lo scampò da morte. Che se stella crudele o vil costume
Car. Lasso ! chi piangerà, se non piango io ? Di questo secol reo, come pavento,
Gridava Alessi, e sì gridando nn caldo Anzi come veder di certo parme,
Fiume dagl'occhi singhiozzando versa ; Non s'attraversa al mio volere, e rompe
Che dianzi era io felice, or nulla sono? I tuoi studi nel mezzo, un di Vacciano
Misero me, chi con maggior ragione Tanto s'avanzarà tanto nel colmo
Sospirò mai ? e si gridando i boschi Poggerà, tua mercè, d' ogn'alta lode,
Facea crollar, tal sospirava forte, Ch' Elicona, Parnaso, Irmaro ed Emo
Che dianzi era io felice or nulla sono. Men saranno di lui pregiati e conti.
Povero Alessi, e che giovato t' hanno E 'l bel fonte che fa Vivaio si chiaro,
Il tuo pudico amor ? la tua costanza ? Cui non senza cagion ringrazio e lodo,
La tua sincera fe ? se Delia, Delia, Poi che pria vidi in quei contorni il bello
Ch' era non saggia men ch'onesta e vaga, Satirisco Nireo, Nireo gentile,
Miseramente in si freschi anni i casti Cui l'antico Nireo ceduto avrebbe;
Occhi chiudendo ha te cieco lasciato, D'Ippocrene non fia per te minore.
E tua giornata ha co'suoi piè fornita, Car. Taci, caro Damon, che mal conoscere
Che dianzi eri felice or nulla sei? Può 'I ver chiunque col disio consigliasi,
O Delia, o Delia, il tuo partir si ratto, E secondo ch'Amor gli detta, giudica ;
632 GOMPONIMENTI
Ed odi quel che l'Arno afflitto e misero, Conosco, pur così, così mi perito,
Con voce spaventosa e lamentevole, Dubbiando, oimè, di non venirti a sdegno,
-
Spargendo tutta via sospiri e lagrime, Che più tosto ameria non esser nato.
Disse, quando da noi Delia spario. Car. No, no Damon, che 'l poverello Alessi,
Dam.Di'purCarin,che'l tuo dir più che'lzucchero Alessi a me maggiore a te compagno,
M è dolce, e cotal porge all'alma giubilo, Che dianzi era felice, ora è niente,
Che tutto in ascoltando io mi solluchero; Più d'altro i versi tuoi d' udire agogna:
E col volto e co gesti al core imprimolo, Ed io per me maggior diletto prendo
Tal che cantarlo ancor forse potrebbero Del cantar tuo, che quando chiuso in riva
Fiesole ed Asinar, Morello e Cecero, Gabbia vezzoso lucherin nidiace,
Monti più belli assai che Pindo e Menato. Od un fringuel dalle sei penne ascolto,
Car. Se pari al danno esser potesse il duolo, Dunque, Damon, se vuoi piacermi, canta,
Se piangersi convien, quanto è l'affanno, Dam. Piangea la terra sconsolata e trista
Infinita saria la doglia e 'l pianto. Delia, da ſera e crudel morte spenta:
Morta è la bella Delia, e con sua morte Nè sperava al suo duol riposo o tregua,
Ha morto il bello Alessi, e a me per sempre Non che di mai trovar ristoro o pace.
In un momento ogni bel pregio ha tolto, Ma il cielo oltra l'usato allegro e lieto,
E fatto tristo e tenebroso il mondo. Si fea del pianto nostro altero e bello
Or chi sarà, che degnamente mai, Più che pria chiaro e più lucente assai.
Quanto ognun doverria, dolgasi e pianga ? E lei novella de' superni chiostri
Quai son l'erbe alla terra, al mare i pesci, Abitatrice e cittadina vede,
All'aere i venti, al ciel le stelle e 'l Sole, Ch' in mezzo a mille schiere elette e dive,
Tal ſu Delia alle genti onore e gloria Sotto i suoi piè le nubi e l'alte stelle,
Or chi sarà che degnamente mai Tutta di gioia e meraviglia piena,
Quant ogn'un deverria, dolgasi e pianga? E tra due figliuoletti un d'ogni lato ;
Ma tu, che più vicin corri a Formello Del suo perfetto oprar merto riceve;
Ed ognor miri Cinestretto gaio, Ne le dispiace aver cangiato albergo.
D'esta diva mortal villesco albergo, Ma bet, le duol d' aver lasciato solo
Ben dei con meco, Fulione altero, Con cinque figli pargoletti in pena,
Altero e caro già, mentre la bella Il caro e dolce suo fedele sposo,
E casta ninfa alle sue vaghe e dolci Tra più ricchi bifolchi ornato e chiaro,
Luci, di cui non fu luce più chiara, Cui più vivendo, che sè stessa amava.
Delle pure onde tue specchio facea; Ma perchè scerne nell'eterno lume
Or più ch'altro giammai, dimesso e vile; Dopo questa mortal breve dimora,
Lagrimar sempre e sospirar poi ch'ambi Stabilita a ciascun la sua salute
In assai men, che non balena, ahi! lassi ! E prepararsi già lor sede in parte,
Quanto era in noi di buon, perduto avemo, Ove gli mirarà sempre e dappresso:
Or chi sarà che degnamente mai, Infinito piacer gioisse e gode.
Quant ognun doverria, dolgasi e pianga? Dunque le selve e l'altre ville liete,
Così dicea piangendo in voci meste, Dell'altrui bcn, non de' suoi danni triste,
La barba e 'l crin di verde muschio pieno, Si rallegrino in vista e dentro al core,
L'afflitto veglio al suo gran frate eguale, Facendo festa e giulleria, che Delia,
Da colmar di pietà lupi, orsi e tigri. Che 'l fior fu qui delle più caste e sagge,
Ma tu tessendo omai l'ordita storia, Or ch'ha deposto la sua bella spoglia
La tua promessa al tuo Carino attendi, In alto seggio umilemente assisa,
Glorioso Damon, cui tanto denno Cresca su tra gli dei splendore e gloria.
Gl'abeti, i faggi, i pin, le querce e gl'olmi, E tu, Carin mio caro, al buono Alessi,
E lauri, mirti, olivi, edere e palme, Alessi a te parente, a me compagno, .
Quanto ad altro pastor, ch' oggi zampogni; Per mia bocca e di sua, già donna or diva,
Sì dolcemente fai squillare i boschi, Dirai, che spoglie omai la guerra e'l duolo,
Al chiaro suon della tua dolce avena, E pace eterna e gioia eterna vesta:
Sedendo all'ombra d' un sacrato alloro, Sicuro di dover, quando che sia,
Che d'odore e color tutt'altri avanza; S'al principio risponde il mezzo e 'l fine
E ben te n'hanno invidia Aminta e Tirsi. Della sua vita, ch' è celata altrui,
Dunque, Damon, se vuoi piacermi, canta. Più che mai bella e più che mai cortese,
Dam. Altro ch'a te piacer non cerco e bramo, Eternalmente rivederla in cielo.
E per te, vago pastorel gentile, Car. Tal è il tuo canto a noi, divin poeta,
Lieve mi contarei portare Atlante, Qual è il dormir, quando altri è stanco, all'º
Che con le spalle il ciel puntella e regge: Sopra tenera erbetta, e quale al caldo (brº
E per mirar solo una volta dove Estivo, quando il Sol la terra fende,
Fur le vestigia de tuoi piedi o l'ombra Spegner la sete a chiaro fresco e vivo
Toccò pur de tuoi, panni, in alcun tempo, Fonte, che dolce mormorando corra.
Mille fiate e più morir torrei. Deh! perchè non è qui quel caprar nobile
Ma temo di nojarti, e non vorrei Col suo caro german, non meno amabile,
Colui ch' io brigo d' onorare, offendere; Ch'ha vicino a Faltucchia il suo piacevole
E se ben te discreto ed amorevole Tugurio, ch'a ragion Riposo chiamasi,
PASTORALI 633

Ove si spesso a tuo diporto invitati, Car. Troppo cortese sei, Damone, ed io
Nel dritto mezzo de' duoi prati floridi Forse troppo ardirò. Per quel pastore
Cinti d'alti cipressi, che le coccole Tuo caro Pitia sì famoso e raro,
Muovon soffiati da soavi zefiri; Che più d'altro benigno e più severo,
Tal che dolce armonia d'intorno rendono, Del Gran Duce toscano il nome tiene,
E gl'augelletti ad albergarvi allettano? Non ti sia grave, e per amor d'Alessi
Questi vecchio di senno e d'anni giovine, E mio, che tanto t'amo e tanto onoro,
Usato di toccar liuti e cetere, Quanto figliuol diletto amato padre
E gonfiar cornamuse, avene e calami Giugnere ancora a tuoi concenti gravi,
Appo il bel fonte che Morgana appellasi, Quel che sempre nell'urna insculto leggasi
Suo diletto Aganippe e suo Castalio; Che sia dell'amor tuo segno perpetuo,
Lodar potrebbe i tuoi versi dolcissimi E del valor di lei pegno certissimo.
Co' versi suoi che i più lodati lodano, Dam. Chi vorrebbe o porria versi negare
E dare al canto tuo canto dicevole. A Carin delle Muse amico e donno?
Ma io che posso così rozzo e povero, Che ne fa tanti e così cari ognora,
Se non umili e 'ndegne grazie rendere Dando a sè gloria e meraviglia altrui;
In mio nome e d'Alessi al tuo gran merito, Che piombo è ben, chi non l'ammira e loda,
Alle tue note che si alto poggiano ? Non ch'io che tanto t'amo e tanto onoro,
Dam. Nè tu, Carin, nè 'l caro Alessi deve, Quanto diletto padre amato figlio,
Alessi a te parente, a me compagno, Di' pur, Carin, ch'io canti e poscia ascolta.
Rendermi grazie, assai contento e pago, Car. Canta purtu, Damon, ch'io sempre ascolto.
Terrommi sol che non molesto sia, Dam. Delia, che sola tra tutt'altre il cumulo
All'orecchie di lui strider sì roco, Ebbe d'ogni eccellenza, anzi il suo giorno,
Della mia bassa e mal cerata canna : Per fare il ciel di sue virtuti adorno,
Ch'a te dovemo, ed egli ed io, se cosa Lasciò 'l corpo sepolto in questo tumulo.
Udrà che non gli spiaccia o pur gl'aggrade.

FINE DEL PRIMO VOLUME DELLE OPERE DEL VARCHI

VAR criI v. I. 8o
IN DIC E
DI QUESTO PRIMO VOLUM E

GLI EDITORI. EZIONE UNA

allori - - - - - - - . pag. 36
L E Z I O N I Quistione se i calori sono differenti tra sè,
o pure sono tutti d'una medesima spezie
spezialissima . . . s» ivi
Parte prima. Ragioni . . . . . . » 37
Dedica dell'edizione del Giunti - pag. Autorità . . . . . . . . . . . » 39
Parte seconda . . . . . . . . . » 4o
Dei calori . . . . . . . . . . » 42
LEZIONE UNA Del calore solare . . . . . . . », ivi
Del calore elementare . . . . . se 44
Sulla Generazione del corpo umano . » Del calore naturale . . . . . . . » ivi
Dichiarazione di M. Benedetto Varchi, so Parte terza. I calori come calori essere tutti
pra il venticinquesimo Canto del Purga un medesimo . . . . » 47
torio di Dante . . . . . . . . » Sperienza - s» ivi
Del sangue . . . . . . . . - po Autorità . . . . . . . . . . ss 48
Della digestione . . . . . . - - x: Il calore esser equivoco . . . . . » ivi
Dello sperma dell'uomo - ap
Risposte alle ragioni . . . . . . ” 49
Del mestruo . . . . . . . - se
Risposta alle Autorità . . . . . . » 5o
Dello spirito . . . . . . . . . » Del calore celeste ovvero tepore cterco . » 5 i
Capo I . . . . . . . . . . . »
Capo II . . . . . . . . . . . »
Capo III - . . . . . . . . . »
Capo IV . . . . . . . . . . » LEZIONI OTTO
Capo V . . . . . . . . . . . »
Problema primo . . . . . . . . » suLLE TRE CANZONI DEGLI OCCHI
Problema secondo . . . . . . . »
Problema terzo . . . . . . . . » Lezione prima . . . . . . . . . » 52
Problema quarto . . . . . . . . » Capo I. In che genere . . . », 53
Problema quinto . . . . . . . . » Capo II. In che stile . . . . » ivi
Capo III. In che spezie di poesia s» ivi
Capo IV. Soggetto . . . . . . . » 54
Capo V. In che siano simili, e in che dis
LEZIONE UNA simili . . . . . . . . . . . » 55
Capo VI. Se dipendano di sopra o no » ivi
Dell'Anima . . . . . . .. . . . » 26 Dell'artifizio . . . . . . . . . » ivi
Dichiarazione di Benedetto Varchi sopra Delle parole . . . . . . . . » 56
la seconda parte del venticinquesimo canto Della composizione . . . . . . . » ivi
del Purgatorio . . . . . . . . » 27 Della dignità . . . . . . . s» ivi
Parte prima. Della nobiltà della scienza del Dell'artifizio delle parole in questa canzone ivi
l'anima . - - - - - - - - º?
29 Dell'artifizio delle sentenze di questa canzone ivi
Parte seconda. Delle molte e varie opinioni Lezione seconda . . . . . . . » 57
degli Antichi intorno alla quidità ed es Stanza prima - - - - - . . . » 58
senza dell'anima . . . so 3o Stanza seconda . . . . . . . » 6i
Parte terza. Della diffinizione dell'anima Lezionie terza - - - - . . . » 62
secondo Aristotile . . . . . . . » 3I Lezione quarta . . . . . . . . » 69
Parte quarta. Della divisione dell'anima nelle Lezione quinta . . . . . - - » 76
sue parti, ovvero potenze ed operazioni º 33 Lezione sesta - - - . » 81
636 INDICE

Lezione settima. . . . . . . . pag. 87 zione quarta. Sopra alcune quistioni d'a-


Lezione ottava . . . . . . . . . º 92
º ; pag. 198
Quistione prima. Qual sia più nobile o l'a.
mante o l'amato . * - - - - a
» 202

Quistione seconda. Qual sia più forte e più


LEZIONI DUE possente passione, o l'amore o l'odio', 2o3
Quistione terza Se ogni amato necessaria
Sopra la Pittura e Scultura . . . . » 98 mente rama - - . º no! -

Lezione prima . . . . . . . . . » 99 Lezione quinta. Intorno a varie quistioni di


loo
Sonetto di Michelangelo Buonarroti. . » amore . . . . . . - » no5
Lezione seconda . . . . . . . . » i 14 Quistione quarta. Se chiunque è amato, è
Disputa prima. Della maggioranza e nobiltà tenuto di dover riamare l'amante . » º no6
dell' arti . . . . . . . . . . ” I 15 Quistione quinta. Se nell'amore onesto si
1
Disputa seconda. Qual sia più nobile, o la sentono passioni . . » - - 2o8
Scultura o la Pittura . . . . . » 124 Quistione sesta. Se alcuno può innamorarsi,
Disputa terza. In che siano simili ed in o amare senza speranza - - - - » a lo
che differenti i Poeti ed i Pittori . »e 132
Quistione settima. Se amore può essere senza
gelosia . . . . . - so 21 l

APPENDICE Quistione ottava. Se alcuno può solo per


fama e d'udita innamorarsi . . . » ivi
Lettera di Michelangelo a Luca Martini » 134 Lezione sesta. Sopra alcune quistioni d'a-
Lettera di Michelangelo a Benedetto Varchi » lVl more . . . . . . . . » n14
- Quistione nona. Se si può amare più d'uno
-
in un " medesimo - s a 15

LEZIONE UNA
Quistione decima.
altrui, che Se alcuno
sè stesso . può
puo º ri - -
21"

Quistione undecima. Se alcuno si può inna- a

Della Natura . . . . . . . . . 135 morare di sè medesimo . - - - - » 219


Quistione duodecima. Se alcuno amante può
solo che voglia, non amare . . . » 22o
Quistione decimaterza. Se l'amore può sa
LEZIONE UNA narsi in alcun modo . » ivi
Lezione settima. Sopra altre quistione d'a-
Della Generazione de'Mostri . . . . x
146 more “, “. . . . . » nºi
Capo primo. Che siano, dove si trovino, di Quistione decimaquarta. Sc l'amore può es
quante maniere si facciano e per quanti sere regolato dalla ragione . . . . » 222
modi avvengano i Mostri . . . . » 148 Quistione decimaquinta. Se l'amore viene
Capo secondo. Quali siano i Mostri ed onde da destino o da elezione . . . . . » 225
nascano . . . - - - - - - - º 151 Quistione decimasesta. Se i morti possono
Capo terzo. Perchè siano Mostri, cioè se amare o essere amati . . . . . . » 224
hanno cagione finale . . . . . . » 156 Quistione decimasettima. Se l'amore può star
Se i Giganti si trovarono mai, o si trovano ſermo in un medesimo stato senza cre
oggi in luogo alcuno . . . . . . - 22
159 scere o scemare . . . . . . . » 225
Se e che siano i Satiri . . . . . . » i 61 Quistione decimottava. Qual sia miglior cosa
Se e quello che sieno i Tritoni e le Nereidi » 162 e più degna o l'amicizia, o l'amore » ivi
Se i Centauri sono . . . . . . . » 164 Quistione decimanona. Chi ama più o i gio
De Pigmei . . . . . . . . . . 165 vani, o gli attempati . . . . . . » ivi
Della Fenice . . . . . . . . . ivi Quistione ventesima. Se l'amore si può si
Se di femmina si può diventar maschio 166 mulare o dissimulare, e quale è più age
vole di queste due cose . . . . . » 2
Lezione ottava. Di alcune quistioni d'amore
e di un passo del Purgatorio di Dante » 228
LEZIONI OTTO PARTE PRIMA
suLL'AMonr
Proemio . . . . . . . . . . . » 228
zione prima. Sur un sonetto del Bembo » 167 Grado primo. Materia prima . . . . » 231
Il soggetto . . . - - - - - - - - º Grado secondo. I quattro elementi . . » ivi
Lezione seconda. Sur un sonetto del Casa e Grado terzo. I misti imperfetti . . . » 232
sulla gelosia . . . . . . . . » 174 Grado quarto. I misti perfetti . . . » 234
Il soggetto - - - -- - - - - - - º 176 Grado quinto. Le piante . . . . . » ivi
Altri dubbi intorno alla gelosia e risposta PARTE SECONDA
del Varchi ad alcuni suoi censori . » 184
Lezione terza. Sur un sonetto del Petrarca » 188 Grado sesto. Gli animali bruti . . . » 235
Sonetto di messer Francesco Petrarca . 19o 2»
Grado settimo. Gli animali razionali . » 236
Il soggetto . . . . . . . . ivi -
Grado ottavo. I corpi celesti . . . . » 237
INDICE 637
oº- ,
Grado nono. L' anime de' cieli . . pag. 2,7 L' E R C O L A N O
Grado decimo. L'Ente degli enti . . x
239
Capo primo. Quello che Dio sia . . »- ivi
Capo secondo. Quello che Dio intenda 24o -

Capo terzo. Come Dio muova e perchè . » 241 Lettera dedicatoria dell'edizione di Monsi
Capo quarto. Se Dio provveda e in che gnor Bottari. . . . . . . . pag. 297
modo . . . . . . . . « - ivi Lettera dedicatoria de Giunti . . . . » 298
Capo quinto. Se e qual amore è in Dio » 242 Lettera dedicatoria del Varchi . . . » ivi
Dialogo di messer Benedetto l'archi, intito
lato L'Ercolano, ovvero Agli Alberi. » 3o i
LEZIONE UNA
QUESITO PRIMO
Della Poetica in generale . . . . . » 242
Parte prima . . . . . . . . . » 244 Che cosa sia lingua . . . . . . . » 345
Particella Prima . . . . . . . . » ivi
Particella seconda . . . . . . by
r
245 QUESITO SECONDO
Particella terza . . . . . . . . » 246
Parte seconda . . . . . . . . . » 248 A che si eonoscono le lingue . . . . » 347

QUESITO TERZo
LEZIONI CINQUE Divisione e dichiarazione delle lingue . » 348
DELLA POESIA
QUESITO QUARTO
Lezione prima. Delle parti della poesia , 254
Lezione seconda. Dei poeti eroici . . » 261 Se le lingue fanno gli scrittori o gli scrit
Lezione terza. Del verso croico toscano , 27o tori le lingue . . . . . . . . » 352
Quistione prima. Se i Toscani hanno il
verso esametro . . . . . . . . , 273 QUESITO QUINTO
Quistione seconda. Qual sia nella lingua to
scana il verso eroico . . . . . . »
a77 Quando, dove, come, da chi, e perchè ebbe
De terzetti . . . . . . . . . . » IV l origine la lingua volgare . . . . » 353
Delle stanze . . . . . . . . . » 278
De' versi sciolti . . . . . . . . » 279
QUESITO SESTO
Lezione quarta. Della tragedia . . . » 28o
Che cosa tragedia sia . . . . . . » 283 Se la lingua volgare è una nuova lingua
Della divisione della tragedia . . . » 284 da sè, o pure l'antica lingua guasta e
Della favola . . . . . . . . . » 285 corrotta . . . . . . . . . . » 355
Dei costumi . . . . . . . . . ivi
Della sentenza . . . . . . . . 286 QUESITO SETTIMO
Della dizione . . - - - - - - - ivi
Della musica e dell'apparato . - -
ivi Di quanti linguaggi e di quali sia com
Delle parti delle tragedie quantitative . » ivi posta la lingua volgare . . . . . » 362
Del prologo . . . . . . . . . » ivi
Dell'episodio . . . . . . . . . » ivi QUESITO OTTAVO
Dell'esodo . . . . . . . . . . » 287
Del corico - . . . . . . . . - - l Da chi si debbano imparare a favellare le
Del crommo . . . . . . . . . ivi lingue, o dal volgo, o da maestri, o da
De' tragici greci . . . . . . . . » ivi gli scrittori . . . . . . . . . ”
Dei tragici latini . . . . . . . ivi
Lezione quinta. Del giudizio e de' Poeti QUESITO NONO
stcº - - - - - - - - - - - ivi
Che cosa giudizio sia . . . . -
289 - -
A che si possa conoscere, e debbasi giudi
Di quante maniere giudizi si trovino . » 29o care una lingua essere o migliore, cioè
Quante parti e quali sieno quelle che giu più ricca, o più bella o più dolce d'un'al
dicano . . . . . . . . . . » ivi tra ; e quale sia più di queste tre cose,
Dei poeti tragici greci . . . . . . » 292 o la greca, o la latina, o la volgare » 399
Dei tragici latini . . . . . . . . » ivi
Dei tragici toscani . . . . . . . » ivi
QUESITO DECIMO
Se la lingua volgare, cioè quella, colla quale
DISCORSO favellarono, e nella quale scrissero Dan
te, il Petrarca e il Boccaccio, si debba
Della bellezza e della grazia . . . . » chiamare italiana, o toscana, o fiorentina» 428
- -----
INDICE

Ben puoi tu, alto e superbo Asinaro, pag. 48o


L A S U O C E R A Ben sete voi d'alta bontate e senno . » 516
Ben si volgea per me felice stella, . . » 479
C O M M E D I A Ben veggio omai, che il giorno ultimo mio» 498
Ben vi devea bastar, chiaro Scultore . » 5oo
Benedetto quel dl, che intento e fiso . » 483
Benigno Re dell'universo, s'io . . . » 49
All' illustrissimo ed eccellentissimo signore Benzon, se vero qui la fama narra, . 93
498
il signor Cosimo de' Medici . . pag. 443 Bernardo, giusto è ben, che quella dea,
Bonsi, in ameno e verde colle, caro . »
Bonsi, quel verde e vago e casto Alloro, º
Cara pianta gentil, nelle cui fronde . » bº r

S O N E T T I Caro Alessandro mio, ch'al primo fiore


Caro Annibale mio, poi che me parte . » !
Caro, cui già molti anni e saggio e 'ntero » 499
Caro, dolce, cortese e gentile Ambra, . » 514
Caro, io non so ben dir qual maggior sia, º 518
All' illustrissimo ed eccellentissimo signore Caro Lorenzo mio, ch'avete a schivo . . » 492
e padron suo osservandissimo il signor Caro, mentre ch'a voi lungo il bel Tebro » 5oo
Don Francesco Medici . . . . . »
Caro messer Filippo, che tra noi . . » 5on
Cecero, mio ben puoi tu dire omai . . » 482
PARTE PRIMA Cervin, ch' alle più alte e ricche mete » º 506
Cesare, se la vostra onesta e bella . . » 5oi

A i fieri colpi di fortuna, a i crudi . » 486 Chi ſia che ne guidi ora e ne consoli. » 5o3
A te, che tanto i Toschi lidi onori, . » 521 Chiaro guerrier, s'una medesma ed empia» 495
A te, dalla cui bocca argento ed oro . 5o7 Chiaro ruscel che per ombrose valli . . » 483
A piè dell'Alpi, in su la destra riva . l Claudio, cui sol di tanti e si pregiati . » 5o4
Ad una ad una annoverar le stelle, . 5o5 Com' esser deve, o può, ch' io rida, ec. » 493
Adige e Po, che 'l fral di me portate . Come aere non può, se raggio il fede . » 502
Allegretto, io men vo lieto e pensoso . Come dall'ocean tutti escon fuore, . . » 488
Alme celesti fronde, ch'io son fermo . Come nè più bel mai, nè più gentile, . » 478
Almo spirto divin sì dolce, ch' io . . Come per venti e pioggie a poco a poco » 487
Alsi ed arsi gran tempo, e fu l'algore Come posso io non arder sempre, e tutto » 516
Alta Colonna, che gl' antichi vanti . Come potea non piangere anzi, e poi . » 518
Altero Venda e Ruvolon, ch'al paro . Come potrò da me, se tu non presti . » 497
Alto signor, che 'l gregge umano e 'l gregge Come quando da noi la sera parte, . » 518
Altra ghirlanda assai più cara e bella, Come, quando talor nel più sereno, . m 511
Ancor che forse, o per mio duro fato, Come talor chi follemente i rai . . . » 487
Ancor mi mena antica usanza, e tira . » Come volete voi, Guglielmo, ch'io . . » 497
Angel, sceso tra noi di paradiso . . . Comincia, almo fanciul, comincia omai » 511
Angelio, che con largo e puro fiume . Con questa a te del gran Mendozza dono, » 519
Anima cara a Dio, ch'altro Parnaso . 519 Con voi ringrazio il ciel, meco m'allegro, º 517
Annibale gentil, che del più chiaro . » Cosimo, che del vostro altero e chiaro . » 5oi
Antonio, i tanti, e così bei lavori, . . » 5o8 Credete voi, che solitario orrore . . . » 495
Arbor sacro del Sol, ch' io amai tanto 9a 479 Crescete, signor mio, crescete ai vostri » 521
Avrò tanto Simon le Parche amiche, . so 492 Da sì felice o si misero stato . . . » 51o
Baccio, che sazio omai d'anni e d'onore, ºa 495 Dal dì, che prima in te, superbo e altero » 485
Bembo, a cui par fra le memorie prime xx 5o4 Deh ! come volontier vosco e col mio . » 5o9
Bembo, che del gradito e amato vostro . po ivi Deh ! nasci, occhio del ciel notturno, nasci, º 483
Bembo, che raro, anzi pur solo in questo so ivi Deh! non turbate più Luca col vostro » 493
Bembo, chi porria mai pur col pensiero 25 ivi Diletto almo terren, che da bel rio . » 515
Bembo, del cui valor, ch'ogn'altro eccede, - ivi Di quel ch' esser dovea quasi indovino » 513
Bembo toscano, a cui la Grecia e Roma ºa 5o5 Di tre vivi e lucenti un sole ha spento » 496
Ben avete ragion di viver solo . . . 3 5o6 Di vaghe ninfe un leggiadretto coro, . » 482
Ben conosco io, signor, che più gradita 499 Donna bella, e crudel, nè so già quale » 488
Ben credeva io, del ciel Motor sovrano, 5. I Donna bella e gentil, già oscura e mesta, ss 519
Ben dissi io 'l ver, ch'alla colomba ec. 498 Donna, ch'or di sudor piena e di polve, º 488
Ben mi crede a poter gran tempo armato » 487 Donna, che dianzi a tutta Etruria sola » 521
Ben potea già, signor, vostro alto ingegno - 5o3 Donna, che 'n questa etate e di valore » 5o2
Ben potete, Bronzin, col vago, altero . 35 5 o8 Donna, che infin dall'alto e ricco Ibero, » 5mi
Ben potete veder, che nulla vale . . »,
Donna, che quanto avea d'alto valore . » ivi
Ben potete, signor, l'aurata testa . . 2 5 16 Donna, che veramente unica il mondo, o 498
Ben può dirsi or, che la bilancia e quella -- 5I 1 Donna leggiadra, al cui valor divino, . » 5oi
Ben può, signor, sovra tutte altre altera - 5i2 Donna, se tanto la mia penna ardisce » 488
Ben può lodarsi in voi l'alto dislo, . mo 5o6 E' del tutto però così sbandita . . . . 49
Ben puoi, Tebro plorar, poi che 'l cc. 23
496 Ecco, che dolor nuovo agl'occhi e al core e 493
INDICE

Ecco, che dopo il terzo lustro riede pag. 49o Lucio, che'n questa ria fallace piaggia pag.
Ecco, che pur dopo sì lunghi affanni º 483 Lucio, quel verde tronco in cui s'annida »
Ecco, che quella verde e dotta chioma, º 489 Lungo le rive del chiaro Arno, poi . . »
52 i Mario, che non men buon, nè manco ec. »
Ernando, mio signor, nè sdegno prenda, º
Etrusco Olimpo, che quasi novello . . ” 482 Me voler mio con quel drappel congiunge, »
Fabrizio, che tanti anni e tanti avete º 5o7 Melchiorre gentil, contra gl' artigli . »
Famose frondi, de cui santi onori . . º 478 Mensola, che di Ninfa, mentre il bello »
Febo, s'io son pur quel che tanto onoro. » 491 Mentre, Bardo gentil, ch'io spargo al vento»
Febo, se mai ti fu dolce nè caro . . » 493 Mentre ch'io conto ad una ad una l'ore »
Ferrino, a cui non pur la lira e 'l canto º 5i5 Mentre, ch'io piango il buon Bertin, ec. »
Fiero ed acerbo Veglio, orrido in vista, º 496 Mentre, ch'io verso al ciel divoto e umile »
Fiesole antica, che dal vecchio Atlante º 5 18 Mentre, che di mia vita orfido, ec. . »
Fiesole mio, se nella tua spelonca, . . ” 481 Mentre con petto disdegnoso e turba . »
52o Mentre il santo arboscel, che 'l cielo onora, º
Forte, saggio, clemente, alto signore, - º
Fra questi vaghi fior, sovra este molli, º48 i Mentre io pur coll'usato, aspro tormento »
Francesco, a i duri colpi d'empio e fero º 496 Mentre lungo il Mugnon d'un verde ec. »
Francesco, chi non sa quanto e qual sete, º 5 . I Mentre per l'onde tue le luci giro . . »
Francesco, non che voi, ma qual più fosse » 497 Mentre voi, quando in onde e quando ec. »
Fu sl lieve e sì dolce e caro il giogo, º 5o9 Mino, io già vedo intorno al capo, e sento »
Ghino, che di salubri erbe e di fiori . » Mira da questi colli il dolce piano, . »
Già del mio corso uman trapassa il mezzo, º Mirate, Lelio, ove quei verdi ed alti . »
Gia'l quarto lustro e'l terzo anno rimena » Mirate, Lucio, ove quell'alta e verde . »
Già nove volte ha 'l ciel girato intorno » Molza, che pien di quelle usanze antiche »
Gia quattro volte le dorate corna . . » Muzio, che nell'età più dotta e grave, o
Già sette volte e diciasette il cielo . . » Nè grande speme aver nè gran timore: »
Già son varcati cinque lustri interi, . » Nè loco alcun fia mai, nè verrà tempo, º 5 16
Giorgio, che colle pure vostre e ornate » Nè tante volte altero e sacro monte, .
» 481
Giovanni, che dal mondo e dagl'errori » el mio freddo avvampar, nel caldo ec. » 492
Giovanni mio quella bontà, che forse - º Nel puro e grave stil, ch'al gran vicino » 5o5
Gl'antichi pregi e quei sovrani onori, º Ninfe, che questi ameni, aprici colli . » 483
Gondi, ch'avendo il viver nostro a vile, º Non a chi regge impero, o splende in ostro » 5o8
Guido, ch'al sommo di quell'arte guidi » Non hanno il Bembo le tue rive, 'l Bembo » 5o5
Il nome, signor mio, cui trema ed ama » Non pensate, Bronzin, che duol m'apporte» 493
In luogo alcun non ha fiume, o torrente » Non pur mesta la vaga e bella Flora. » 52 I
In qual selva posso io, sopra qual monte, º Non pur vosco il bell'Arno, ma turbato » 498
Inuittissimo duce, il cui valore . . . » Non sa, Lelio, la gente oscura e bassa, º 5o9
Io, che da grave e 'ndegno giogo avea » Nuovo non già, caro signor, ma bene . » 51 I
Io ebbi ed aggio e sempre avrò per fermo » 499 O cielo, o terra, o fati acerbi e rei . » 491
Io non miro giammai cosa nessuna . » O d'ermo poggio sacre, verdi, eccelse . » 5 i 2
Iova, il Serchio può ben lieto ed altero » 5o3 O di candido argento e terso, o pure . » 489
La più verde, più sacra e felice ombra, º O sacra, o santa, o gloriosa fronde . » 478
La 've pur largamente empie ogni seno, º 49o O se del viver mio l'ultima parte . . » 519
La verde e nobil pianta ch' amò il sole, º 48o O sovra ogni altra al ciel gradita fronde, º
Lasso ! ch'io pensai ben d'altra corona » 499 Odi, nobile pianta, altero e raro . . » 5 12
Lasso! chi mi darà le rime e i versi . » 496 Oggi è quel tristo ed onorato giorno, º 494
L'aer non è per questi colli chiaro, . » 484 Oggi, Signor, che dal mondo empio, ec. » 49.
L'albero, che da lungo e pigro sonno, º ivi Oggi, Signor, che sopra il santo legno » l Vi

L'alto arboscel, che dentro il mio cor sacro » ivi Or che 'n sì dure e sì contrarie tempre, º 5i5
L'antiche glorie e quel chiaro immortale » 5 13 Or che l'alto valor, che da' vostri avi » 5 13
L'arbor che già il quarto anno o vada, cc. » 484 Or che l'iniquo ed orgoglioso, ed empio » ivi
L'arbor gentil, di cui sempre ragiona . » 488 Or dura pioggia a mezzo aprile, orfolta » 498
ALelio, alto core e peregrino ingegno, . » 51o Or vorrei io con voi nel vostro caro . » 5 I2
Lelio e Lucio, che d'anni e d'ardor pari º 5 18 Orsuccio mio, che sì cortesemente . . » 5o2
Lelio, io non so veder perchè, nè come . a 5o9 Padre del ciel, se pentita alma umile . » 49o
Lelio, quella dolce aura, beatrice . . » 5 1 o Pais, che di più bello e di più vero, . » 519
Lelio, quell'alme frondi, che mi stanno » ivi Per fede era io di te tanto più degno, º 483
Lelio, qualunque Fato o Parca innaspe » 5o9 Perchè dalle sirene e dagli scogli . . » 5o 1
Lenzi, perch'io in loco alpestro ed ermo, e 5 i 5 Pianga Amor, pianga Apollo e pianga ec. ” 495
Lenzi, voi dite il ver, se tali e tante . » 5oo Piangete Anton, che ben più d'altri avete » 494
Lieti, fioriti, ombrosi colli, dove . . » 494 Placidissimo Dio, ch' alle diurne . . » 488
Liquide perle in sì nuova maniera . . » 486 Presso il tuo fonte a piè d'un lauro adorno º 48 i
ALodovico, io non credo, e credo il vero » 5 16 Qual del mio foco o più santo, ec. . . » 486
Lollio, ch'al re de fiumi, ove Fetonte . » 5o3 Qual empio cor? qual dispietata mano » 484
Lottino, or ch'io per erte vie sassose - :: 5o6 Qual fresco e lieto giglio, che da fera º 496
Luca, nel cui sincero petto luce . . » 5oo Qual fu cor tanto mai debile e 'nfermo? » 5; 8
ALuca, quando talor fortuna rea, . . » iv Qual già verde e robusto, or vecchio ec. » 495
64o INDICE

Qual tempestoso mar di notte il verno, pag. 486 Signor s'all'alta nobiltate e 'ngegno pag. 5o 1
Qualora io penso, e sempre il penso, Cola, o 5o6 Signore, a cui come in lor propria ec. » 5o5
Quando all'usato mio dolce soggiorno . » 49o Simon, se quella graziosa Petra, . . » 5o8
Quando doveva, oimè l l'arco, e la face » 488 Sopra altissimo giogo, in cima un erto » 5 18
Quando menerà il Sol quel lieto giorno, º 5 16 Sopra alto monte in mezzo a verde cima , 486
Quando meco e col ver talor consiglio » 5o7 Sopra erto poggio, fra monti aspri, ec. » 5 18
Quanto al partir di voi, saggio Clemente, o 5o2 Sotto 'l più verde e più fiorito alloro, . » 48o
Quanto ha di grave il viver nostro amaro » 48o Speme ed onor del secol nostro afflitto, » 5 13
Quanto 'l pastor di Troia nel colle Ideo » 5o2 Speron, che tra i più chiari e più pregiati » 5o3
Quanto meco talor m' induro e inaspro, » 479 Spirti beati, che più cari molto, . ---

Quantunque bagnan l'onde e scalda il sole, º 48o Spirto cortese a null'altro secondo, . »
Quel ben, che dentro informa e fuor ec. » 5oo Strozzo, dunque credete voi, che quello »
Quel ch'Amor mi dettò casto e sincero . » 478 Stufa, a voi solo e non ad altri ancora se
Quel saggio e santo, che l'antica legge » 491 Superbo monte, ove a tanta bellezza, . »
Quel verde e casto e sacro arbusto, dove » 479 Tal dentro il petto mio virtù rimase . »
Quella casta, onorata e sacra pianta, . » 48o Tasso, ben so che 'l Tribol vostro e mio »
Quella pianta, che già diece anni ed otto » 485 Tolga il ciel, signor mio, che si bel fiore, e
Quella pianta gentil, ch'alla dolce ombra » 49o Tosto che giunse al ciel l'alma gentile, ,
Questo è ben di Madonna il crine auratos, 487 Tosto che sovra i molli omeri suoi. . »
Qui fu 'l principio de'miei dolci pianti, º 48 i Trissino altero, che con chiari inchiostri, m 5o5
Qui vidi io pur quell'almefrondi, ch'ora » ivi Tu, ch'altero e gentil qual rege siedi . »
Quinta del mio signor prole novella, . » 522 Tu, che d'ogni erba a verde fronda nude, so
Rettor del ciel, s'al tuo sublime scanno » 493 Tutto quel che nel cor mi spiace e pesa e
Ride or lieta la terra, e i fiori a pruova » 489 Un anno men di quattro lustri il cielo »
Rosso, qual uom, cui sia precisa e mozza» 519 Vattene in pace, anima bella, e poi . »
Ruscello, onde sì largo e cupo fiume . » 5o3 Ventiquattro anni avea rivolto a pena. »
Sacro monte superbo, onde discese .. .
» 517 Vergezio, a cui non pur la greca vostra »
Sacro Mugnon, che giù per queste valli » 482 Vergilio, ancor mi sta nel cor l'imago »
Sacro santo signor, chi ben pon mente » 5 o8 Verin, che quell'eterno e sommo Vero, . »
Sacro, superbo, altissimo Asinaro, . . » 481 Vessalio mio, che così conto e chiaro . »
Sacro, superbo, erto, ermo, ombroso monte, º ivi Vezzoso fonte, che tra mille onori . . »
Sacri, superbi, avventurosi e cari . . » 49o Vincenzio, ch'io col vostro alto e felice » 5 15
Saggio signor, come cervetta imbelle, . » 52o Vincenzio, io fui sì folle, ch'io pensai º
Santa, saggia, cortese, onesta e bella . » 5o2 Vincenzio, io sto tutto romito e solo, . » 5o6
Sante, beate, altere frondi, u' tese . . » 47 Vincenzio mio gentil, mentre che voi, . » 392
Santissimo Trifon, ch' ad inudita, . . » 5o4 Voi, ch'al bel nome e doti vostre eguale » 5, 4
Sarò sì ingrato mai, Terzolla, ch'io . » 482 Voi ch' all'antica Populonia, donde . »
Scalo, che potrà più fortuna in voi? . » 497 Voi, che del maggior duce e più migliore » 5 1 1
Schiatta, e non furon mai giorni più scuri » 492 Voi, che lontan dal volgo avaro, e fuori » 5o i
Scipio, la rara bontà vostra e 'l vostro » 5o7 Voi, che per darne giovamento e guida º 499
S” alcuno ebbe giammai sotto le stelle . » 478 Voi, che picciola terra, anzi il vil fango» 5 16

S alla vostra bontate, e a quel natio . » 52o Voi, che quanto ebber mai l'Idaspecc. » 512
S'io vissi, gran tempo ha, d'affanni pieno, º 49o Volta, ch'al ciel così per tempo volto . » 498
Se ben, Anton, l'iniqua vostra e mia » 5o7 Volta, se l'alta impresa, onde ora volto . » 5o8
Se di buon seme Amor, frutto si rio . » 489
Se di così selvaggio e così duro . . . » 487
Se 'l mio caduco e mal purgato inchiostro, e 5o8
Se 'l mio cor, che fin qui libero e sciolto » 487 SONETTI PASTORALI
Se l'aer tuo, se le tue aure mai . . » 493
A MEssen ANNIBAL CARO
Se l'antica virtù degli avi nostri, . . » 489
Se mai, signor, tempo verrà, che forse se 517
Sempre ch' io membro il dolce loco ec. » 486 Appena poteva io, bella Licori, . . . e
Sì casto Lauro il cor mi punse e molse » 51o Ben fu per me quel di più d'altro assai, º
Sieve, Era, Elsa, Mugnon, Bisanzio ed Arno» 483 Ben mi parea veder certa, ch'al mio . »
Signor, ch'al padre ed avo e a tanti ec. » 5i3 Breve stilla, signor, d'assenzio o file, . »
Signor, che dietro il vostro e mio ec. . » 5o3 Caro, che con illustri e alteri danni . ”
Signor, che 'l secol nostro, come suole » 5Ir Cessate il pianto omai, cari pastori, . ”
Signor, che 'l secol nostro afflitto e privo » 52o Cinto d'edra le tempie intorno intorno . »
Signor, che per saldargli antichi affanni e 519 Come in cantar di voi dal vero manco º
Signor, che quanto il Tebro ebbe ec. . » 5o5 Così cangiaste voi pensiero e voglia, . ” º
Signor che sparse le virtuti e spente . » 5o6 Così sempre fossi io legato e stretto . . ”
Signor, cui gran fortuna e gran virtute » 517 Credete voi, signor mio caro, ch'io . ”
Signor, d' Italia tutta ampio restauro, e 52 o Deh non vogliate, signor mio, che tante º
Signor mio, terza al miglior duce speme, » 52 i Deh ! se la dolce tua cara Licori, . . ”
Signor, quando la dea falsa e proterva, » 51 o Dolce signor, se voler vostro o inganno -
Signor, quel chiaro, antico, alto valore, , 5I3 E non è loco alcun sì caldo, e mai . ”
INDICE '
E non è sasso, o sterpo in poggio, ec. pag. 524 Ed io vicino a lui sempre vorr i . pag.
Filli, deh! non fuggir, deh! Filli aspetta » 5 a 2 Fuggiam, saggio Damon, che tra cc. . »
Filli, io non son però tanto deforme, . -- ivi Io ho, caro Damon, tutto oggi corso . »
Filli, più vaga assai che i fioralisi, . -- 523 La da Faltucchia, Carin mio, se l'occhio » 53
Ghezio, a piedi quell'alto e verde poggio, - 53o Mentre al suo bel Carin le chiome ec. »

Giulio, che 'n quella età, che gli ec. . m 525 Mentre l'armonto mio la sera cingo, . --

Giulio, chi cerca fama e restar vuole . -- ivi Nape e sol la cagion, ch'esangue e scarno ,
Giulio, chi vivo al ciel volare ed oltra ivi Nape, non mio voler, nè mio consiglio s»

Giulio, onde avvien che quella dolce ec. 526 Mape, questa vezzosa, ornata gabbia . 3

Giulio, quel monte che più alto assai . ivi Non lungi alla scoscesa, antica roccia, s
Il medesimo amor, credo io, che sia . 523 Oh ' se per mia ventura alto destino, . -
Il mio bel Giulio primo e 'l mio secondo » 526 Ond'è, dicea Carin, che 'n tua presenza so
Il più bel pastorello e 'l più gentile, . » 525 Or conosco io, caro Damon, per pruova, s

Lelio non dubitate, ch'ab eterno . . » 53o Perchè, quando in Carin tutta t' affigi, x: .

L'arbor de'miei pensier termine è scopo, ivi Quando il mio bel Carino, allor che ec. x

Mai più bel giorno non aperse il sole: . » 524 Quando il Sol vien dal mare Indico fuori
Mentre 'l mio buon Carin, quasi novello 527 Questa, che 'l mio Damon fido e cortese »
Mentre seco il mio core appende e libra 53o Questo can pescator, ch'appena il suono, o
Nasci, e venendo innanzi, un giorno mena » 523 Questo candido fior di verde arancio, . »
Ninfe, che nude il petto e sparse i biondi» 525 Sì m'è l'attender più noioso e lungo . »
Non caggia mai nel pensier vostro, ch'io » 520 Solo il vedere ancor di lontano Ema, .
Non pensate, signor, poter già mai . . » 528 I cdi, Carin, che fior di quella siepe . 532
O dolce, e sempre a me cara fenestra, º 527
O Sol della mia vita e donno e duce, . » 53o
Or ch'al più lungo e più cocente giorno » 525
Or che tornato al bello stil di prima, . » 529 ALTRI SONETTI VARJ
Pastor, che leggi in questa scorza ec. 523 --

Pastor, se per rea sorte, o nulla sonti » 524 AL VESCOVO DI FERMO,

Pria che la fronte, signor mio, ec. . » 526


Qual forza, quale inganno o qual destino» 529 Alto signor, che quegli antichi pregi . » 536
Qual meraviglia, signor mio, se voi . » 526 Alto, verde, fiorito, ombroso monte . . » 539
Quand'io miro, Oralin, quel dolce sguardo» 53o Anton, ben puote il vostro ingegno altero » 534
Quando Filli, potrà senza Damone. . -- 523 Anton, che come i buoni e i saggi fanno» 538
Quando io miro il bel viso, e ascolto ec. » 526 Anzi, quanto il seguia leggiero e pronto » 54 i
Quando il bel Giulio mio con dolce riso pº 528 Aquila non volò tanto alto mai, 2
535

Queste, ch'io colsi dianzi da pungenti 2 524 Ben avete, cortese Vendramino . . . -- 543
Questo è, Tirsi, quel fonte in cui solea -- 522 Ben denno a voi, signor, non pur gl'Insubri» 545
Santa madre d'Amor, che inerbi e 'nfiori x 523 Ben è folta, Vivaldo, e d'error piena. » 539
Se da queste onde, ch'a solcare avete . 528 x
Ben ebbi al nascer mio contraria quella º ivi
Se 'l cielo al nascer vostro amico e largo 527 -
Ben potete veder, cortese e caro . . . » 542
Se non facea (voler fosse o destino) . » 528 Ben saria folle, se con rozzo e secco . » ivi
Se non pur l'aria di quel dolce viso, . » 526 Ben sete e poco e male accorto, poi . » ivi
Se voi sapete, signor mio, che 'l volto . » ivi Bernardo, or che'l buon frate vostro e mio so 537
Sì dolce canta e si soave suona . . . » 527 Bosso gentil, che con roman sermone . » 543
Signor mio caro, un gentil cor sincero, o 528 Caro, leggiadro, amorosetto fiore . . . . 537
Signor, nè più da lungi acuta lince . » 529 Ch'altro bramo, o cheggio io con tali e tanti » 538
Sotto questa edra, a piè d'esta alta vite, o 523 Chi è, Damon, quel sì leggiadro e altero » 543
Taglia, nuovo marito, omai le faci: . » 525 Chiaro signor, che già non pur vicino. » ivi
Te sopra tutte l'altre, anzi te sola . » 524 Cintio, ch'a Febo egual l'aurata cetra » 544
Tenete, signor mio per certa e vera . » 528 Come dentro chiuso orto, ove pastore . » 537
Titiro mio, che sotto l'alma fronde, . » 524 Come l'alta Aragona, che se parte . . » 544
Cn guardo vostro solo ha tal virtute, » 527 Come talor nobile verga suole . . . » ivi
Uopo non era a me d'accesa face . . » 527 Come tutti i più vaghi e bei colori . . » 54o
Pienne, santo Imeneo, vienne, e la face » 525 Con qual forte liquor, con quai nefande » ivi
Cortese Oradin mio, ben è ragione, . » 535
Da voi felice e senza alcun affanno . » 545
Deh ! se la greggia tua, fedele e caro » 535
SONETTI PASTORALI Di quell'alta colonna, cui non torse . » 54 i
Dinnmi: arestà, Damon cortese, visto . » 537
A MESSER GIOVANVettorio sodenuni. Dolce amaranto mio, la lunga pompa . » 536
Donna, che, come chiaro a ciascun mostra » 541
A voi, che l'alto nome e gran valore . » 53 I Dove, saggio Damon, dove la strada . » 542
Anzi, non punto più fora io beato . . - 534 Donna, che sete veramente donna . . » 54o
Deh, perchè non sei tu, Carin mio bello? xx 533 Donna, cui mai nè forza, nè consiglio » 536
E forse un di venire ancor potrebbe, . -
534 Dopo le basse, oscure e mortali acque, º ivi
E non è poggio alcun monte, nè colle, x: 532 Dunque è, Giannotto, sì per tempo spento» 539
VAi Cti i V. 1, SI
642 INDICE

Dunque mi dite, oimè, dunque è pur certo pag. 535 Alberto, la mia fiale e debil barca. pag.
E pure è ver, caro Batista, e pure . » 536 Alessandro, qual mai lingua nè 'nchiostro »
Ernando, il chiaro vostro e gran valore » 544
Francesco a quel sì vago e sì gentile . » 538
Alessandro, s'a primi, e veri onori
Alessandro, se mai tanto da terra .
. »
.
º
» 55,6
Già non mi spiace, onor dell'Arno e mio » 534 All'alta fama che di voi ragiona . . » 55
Guarda, saggio Damon, ch'io temo forte» 54o Alle lagrime triste, almo pastore. . . » º
Il mio sempre cantare or rime, or carmi» 542 Alma cortese, in cui si rinnovella . . »
Il parto verginale e quell' altera . . » 536
Il sacro monte, cui sì poco oggi ama, » 534
In questa, ch'al suo mal si corre, calca, º 535
Angenio mio, che queste basse e frali . » 5:
Anima bella e di bontate piena . . . » 5
Anton, che come il vostro altero nome.
;º;
» 563
L'arbor, le cui radici entro al cor celo » 538 Anton, quella virtù che sempre piove . » 6oo
Lattanzio, se 'l mondo ha nuovo Filippo » 543 Arsi con dura e 'nsopportabil sorte. . » 571
Leggiadro Gosellin, sì dolce suona . . » 544 Assai dolor, ma poca maraviglia . . » 593
Leon, s' al vostro ispano, anglico rege. » 543 Avvampo ed ardo, ed altri non mel crede, º 597
Mentre io con penna oscura e basso inchiostro» 539 Avventurosa e ben gradita tomba . • 23
Ned io più caro e più gradito dono . » 54o Barbato, io sperai ben, ma dal mattino » 591
Non sempre il regno avran Saturno e Marte» 541 Barbaro mio, che intento ad alte imprese» 559
Aon son vani il sospetto e la mia doglia » 538 Beatian, chi pensa all'alte mete . . . » 587
Oh Dio! quegli occhi del bel Jola, oh Dio » 54o Bembo, il ciel non potea tutto e le stelle » VI
Ond'è, signor, ch'io tanto ardisca e tema » 545 Ben conosco e dritto è che spesso niega » 55o
Or si rivolge l'anno intero a punto. . » 537 Ben conosco il mio folle e vano errore » 574
Pirro, amor delle Muse, a cui preclaro , 544 Ben contender mi può l'empia mia sorte » 57
Poscia che lunga e non dubbiosa pruova , ivi Ben dite il ver, che l' amorosa pena . » 56o
Potea ciascuno il mio felice stato .
» 539. Ben è cortese amor quel che vi spinse, º 59)
Puccio, non fate al pregar mio disdetto » 54 I Ben porrian forse invidia, ira e disdegno » 567
Quanto mi duol, che 'l tuo secondo lume » 542 Ben potete, Oradin, se gl'altri ed io . » 55o
Quanto stato per me fora il migliore . » 536 Ben può eostro alto e ricco e dolce metro » 598
Quel vecchio stanco, che con tardi vanni» 54 i Ben può il dir vostro Grazioso, a paro » 593
Quella che 'l secol nostro altero e bello , 543 Ben riconosco in voi quel saggio e forte e 571
Quelle, che tante in voi doti e sì care . » 536 Ben sete degna già dell'alma fronde . » 566
S” alcun mai dagli scogli e dalle sirti . » 537 Ben so per pruova anch'io, cortese e caro º 598
S'io avessi creduto che i più tardi . . » 535 Ben so, Varchi gentil, che 'l destro e altero» 5 19
Se dir vero altrui lice, io non invidio. » 539 Benso, Varchi gentil, che muove e ascende º 997
Se, quando a dir di voi celeste pegno. » 545 Benchè di mille glorie ornato e chiaro º 592
Se voi, signor, senza ch'alcun v'instigi » 537 Benchè di fila d'or le reti tese . . . » 559
Signor, mentre che vei del toscan Giove » 544 Bene avria desto il pigro stil che dorme » 564
Signor mio caro, ogni pensier mi tira . » 533 Benedette le frondi, i fiori e l'erba . ” 562
Signor nuovo, per voi dolore, e nuova. » 538 Benedetto, io son là, dove 'l troiano - º 587
Stoldo, che per natura e per costume . ss 54 I Benedetto gentil, che con l'ornate . . ” 547
Stufa gentil, le rose e l' alabastro . . » 537 Bernardo, amor che i più gentili spesso º 585
Tal son pur del pregar debile e fiacco. » 539 Bernardo, il piano, il colle, il fiume, ec º 563
553
Troppo ha gran forza ilcielo, e troppo puonno, 538 Bernardo mio, che del bel nome vostro º
Un anno men di cinque lustri intorno. » 542 Bernardo, non pur io doglioso nembo - º 564
Un cenno solo, un atto, un guardo scuopre» 538 Bonsi, ben può quel duro, aspro sentiero”
Palerio mio, il tempo è sì veloce . . », 541 Bonsi, che per fuggir l' obblio di Lete º
Vidrosco, io soglio ben, quando talora » 535 Bonsi, qual chi talor dura prigione . ”
Voi, che quanto esser dee presso e lontano » 542 Bronzin, passai omai l'aprile e 'l maggio º
Poi, che seguendo del mio gran Cellino » 543 Bronzino, io cercai sol dietro i migliori º
Voi, che solo dei duo primi e maggiori » 54o Carlo, che con gran passi a fuggir l'onte º
Zefiro dolce in questi verdi monti . . » ivi Carlo, come è, che quel leggiadro, altero º
Carlo, non pianger, no, ma ben dovete º
Caro Annibal, nè cervi mai, nè damma ”
Caro, che nella dolce vostra e acerba . ”
DE' SONETTI Caro Damon, la mia leggiadra Dori . ”
Caro e cortese Oradin mio, se dato . . ”
C01. LE RtSIPesTE e PRoPosTE DI DIversi Caro nipote e figlio, ogni tesoro . . . ”
Carobello gentil, chi spiega il seno . . ”
Casa gentile, ove altamente alberga - . ”
Chi degnamente mai la Tana onori . ”
PARTE SECONDA Chi è, Vivaldo mio, che tanto stime - ”
-
-

chi fa sì folle mai che non sº avveggia ”


A qne bei rami soldi gloria avari. . » 586 Chi ne dipartirà, s'Amor ci unio . . ”
A saziar tutto a pieno il mio disio. , º 546 Chi non sa quanto Amor cortesemente º
A voi, Parchi gentil, saggio pastore, . » 595 Chiaro l'archi gentil, che i più migliori
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ºd altri, e non a me, Bonsi mio, deve a 579 Chiaro l'archi gentile, onde s'elice.
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Al dolce stil dal più saggio e migliore » 5 o 5 Cintio, le dolci rime vostre altere - . ”
l N l) ICE 643
Come destriers'ha spento il vigorfranco pag. Io avrò sempre Varchi, nella mente pag. 572
Come è, Varchi, di nuovo in voi risorto » ºº Io di dover dal sommo ben primiero . . 569
Come fiamma d'amor casta e sincera . » Io non cerco di questo, e non desio . » 559
» "
Come gelida petra in fresca parte . .
Come 'l Sole, u' che volge i raggi suoi »
Come in l'Indico mar l'ardita pietra . »
º
5 ()
Io per me ne vo innanzi, e lascio indietro »
Io pure ascolto e non odo novella . . »
L'altera e bella donna, cui tanto ama . »
573
575
574
Come l'aer notturno e fosco e greve . » La bella donna, che tra Bice e Laura. » 556
Come la gloria delle nobili opre . .
Come nebbia dal vento si dilegua . .
. »
» º
Go
La bella che mi fu porto, aura e luce.
La bella e casta e pia donna, possente.
» 55 a
» 57a
Come or sovra ciascun mi stimo e tegno » La fiamma, ch'io portai nel core e porto » 568
Come polve talor cui l'aura, tolto . . » 88 La molta tema e 'l non picciolo affanno, º 593
Come potrò, caro Bronzino, o quando. » La ricca gemma, ond'ognor più s'accende » 57o
Con questi ornarò io l'altero crine. . » 5 La vostra bella e casta Dori sola . . » 58 i
Cortese Marcellin, che quelle ornate
Cortese Pellegrin, ben chiaro appare . »
. » ;; Landi, del vostro ingegno e del valore. » 563
Lasso! io ben veggio quanto tosto vola » 575
Così da queste cose basse a volo . . » Laura novella, in cui chiude ed asconde : 588
Cosi 'l tempo giammai non tolga o sceme » L'alte lodi, che voi del dritto fuori . » 567
Così vosco a volar dietro i migliori . » L'alte vigilie e gl' onesti sudori . . . » ivi
Così vosco il mio nome altero monte . » L' alte virtù che'n voi, signor mio caro, « 593
Da che è 'l mondo, da che s'ode e mira » L'ombrose valli e 'l dilettoso monte. . » 563
Dal vostro chiaro stil tanto traluce . Le sacre man del puro ingegno vostro. » 555
Damon, ben conosco io come bastante . Lelio, che lungi dal volgar costume . » 57.
Damon, che sete tra gl'altri pastori . Lelio, chi d altro il Re celeste prega . • 55o
Deh, non mettete, prego, in abbandono
Della nemica mia, che sì m'accora. .
D'edera sacra il sacro e dotto crine
Di corona di lauro cinte intorno
Di sì bel volto mai si caldi insieme
.
.
.
.
;
»
»
Lelio, la strada di virtù, che 'n cima .
Lelio, poi che dal forte e fero artiglio
Lelio, quell'arbor santo, che dal cielo.
Lelio, sì dolce e sì cortese forza. . .
Lelio, troppo v'inganna Amor, ch'io tale
»
»
»
»
»
549
ivi
ivi
55o
579
Diego, ben conosco io che mal convengo » Lippo, non lippo già, ch' occhio cerviero » 555
Ditemi, ora in qual parte oggi n'appare » L' alto e si giusto duol, caro Vecchietto » 576
Dolce Amaranto mio, la bella Dori . » L'arbor, che dentro sì buon frutti e fuori o 582
Dolce Battista mio, ch'all'alto e chiaro » L'erto sentiero, onde si poggia al monte » 575
Dolce e cortese Trifon mio, chi piglia. » Lori, a cui l'oro e l'ambra, e lunarmo e l'ostro 554
Dolce, le prose mie, nè i versi tali . . » Lucio, che solo al ghiaccio ed all'ardore » 581
Dolce Mantegna, gl' amorosi affetti. . » Lucio, chi vuol fra le pregiate, illustri » 582
Dolce, se gl amorosi ardenti vampi. . » Lucio, come talor lucida face . . . » 551
Domenichi, al gran Bembo ch'io cotanto» Lucio, da che cortese, onesto e degno . » ivi
Dori, la bella ninfa mia, che sola . . » Lucio, in cui tanto di natura e d'arte » 583
Dritto è che chi la via ch'erta a montarla » Lucio, la donna ch'era scorta e duce . » 551
E volar cervi e abbandonati e nudi . » Lucio, quel che la turba o pensa o parla» ivi
Ecco che già, signor mio, nuovo riede. » 62 Luigi, e non fu mai negl'anni addietro » 573
Filippo, e non e fronde o foglie d'erba » ivi Mai non potranno bene alte parole . . » 596
Fortunio, a cui dal quarto cielo spira. » 557 Mentre ch'or fuoco, orghiaccio in varie, ec.» 561
Fortunio, a cui non pur l'Arno e 'l Peneo e 556 Mentre che in altrui lode inchiostri e carte » 559
Francesco, io temo no 'l mio spirto tome » 577 Mentre che lieto vi godete all'ombra . » 583
Francesco, in cui quanto è fra noi rimasa » 565 Mentre che voi, dolce Bernardo mio . » 559
Francesco, se così pregiate e chiari . . » 578 Mentre che voi tra l'una e l'altra fionda » 566
Fu sì cieca la notte in che lasciaro . » 598 Mentre lunge dal ricco e nobil piano . » 588
Gentil Varchi onorato, io che pur l'ombra » 55S Mentre col bel di quelle luci sole, . » 557
Già m'ha di neve questa algente bruma » 552 Michelagnolo, io ben cerco e m'ingegno » 57o
Già non è maraviglia, anzi dovete . . » 558 Mille fiate e più sovviemmi ognora. . » 563
Giovanni, io chiamo e chiamarò felici » 577 Moles, al cui valor gemino rende . . » 557
Giovio secondo, che si presso al x
597 Moles, che com'uom forte e saggio suole » ivi
Girolamo, se 'l vostro ornato e chiaro. » 592 Moles, ee come a voi così secondo . . » 599
Gl'antichi scorni e le novelle offese . » 565 Nè all'Arabia i suoi più cari odori . » 566
Grazzin, giusta pietà, ma troppo amore » 567 Nè marmi, nè metalli, nè colori, . . » 599
Grimaldi, io vorrei ben fuor degl'inganni » 585 Nè per me sol, ma per colei ch'è degna º 572
Il cor mi trema e mi s'infiamma il volto » 588 Nel mar che varchia più gran rischio vanno º 593
Il grido che di voi si altamente . . . » 59o Nel vostro ornato stil leggiadro e raro. » 56o
Il grido signor mio, che di voi nacque » 56o Ninfa, di cui per boschi o fonti o prati, o 594
Il nome vostro è tanto illustre e chiaro » 591 Non a me, Lelio mio, ma solo a quella º 58o
Il quinto lustro omai trapassa, ed io . » 565 Non a me, no, se dir volete il vero . » 569
Il vostro grande Amor, fuor di ragione 586 Non ha l'Arabia tanti grati odori, . » 6oo
In quai dogliose, lasso! e crude tempre s» 56 i Non però tanto di nver m'arrogo . . » 552
In quelle sante luci, ov'io mi specchio 553 Non preme ancora voi doglia e disdegno » 569
In voi, Varchi mio luon, con Febo alloggia º Non pria quasi entro i cor dal cicl discese » 588
644 INDICE
Non solo al languir vostro oggi perdono, pag. 5 Se bene io cangio d'ora in ora il pelo pag. 568
Non torse mai così velocemente . . . » Se da bassi pensier talor m'involo, . . » 594
O delle sacre Muse alto sostegno, . . » Se del bel Giulio, onde voi dolci pene. » 57o
Or amore, or pietà, Luca, sì forte . . » Se d'ogni ingegno abbandonati e nudi. » 585
Or, che pietosa oltra l'usato il ciglio . » Se di quell'arbor santo, alla cui ombra » 558
Or che sì fredda e si fera stagione . » Se disio sempre di fama e d'onore. . » 567
Or perchè non posso io del valor vostro » 5 Se gemino d'amor venenoso oppio . . s» 553
Oradin mio gentil, che fa? che dice . » Se 'l ciel sempre sereno e verdi i prati, º 594
Padre e signor, cui tanto amo ed onoro , Se 'l vostro alto gentil franco coraggio » 574
Pellegrin, quello ardor, per cui non lento , 5 Se 'n me la possa egual forse al dislo. » 556
Per me non hanno i prati erbe, nè fiori , Se l'onorata pianta, onde superba . . » 545
Per valli e monti, tra riposte e fide - -
Se lui, che fu de per:sier vostri eletti . » 587
Perch'io mentre la fiamma ultima spegno » Se molti, che han d'invidia il rio corpregno» 574
Perchè li numerosi atti concenti . . . » Se morte o tempo omai non scemi o scure » 584
Perchè non erge a voi Toscana altari . » : Se quel cammin, che per vie chiuse e torte» 569
Più che le perle possedere e l'ostro. . » Se quel Sol, la cui chiara ed alma luce » 57a
Pien di casto desir, di santo ardore . » Se quella virtuosa, altera fronde . . » 565
Più dolce mai, nè più cortese foco . . » Seguite, prego, e non con passo lento . » 546
Poi ch'Alessandro la famosa tomba . » Sempre da voi lontan, Varchi divino . » 558
Poi che securi dall'oltraggio ed onte . » Sforza, in cui pose ogni suo studio e sforzo » 552
Poi che tante da voi sovrane rime . . » Sì chiara stampa il nome vostro segna. » 57
Porzio, in me son tutte faville spente . » Sì come di leggier non si dilegua . . » 553
Quai larve o dove mai si falsamente . » : Sì dolce e casto e sì grave idioma . - 2
577
Qual madre che perduto abbia il figliuolo x
Sì dolce intorno al cor sempre mi suona » 596
Qual mai più fide e più sicure scorte . » Sì forte ognora in me si rinnovella . » 575
Qual ricco eterno fonte, che con piena » Sì Pale al buon Elpin sempre in migliore» 568
Qual sacro arborgentil, ch'all'ombra e al sole» Signor, che per le tante e così chiare . » 558
Quali mie rime mai tanto illustrato . » Signor, cui tutto die natura quanto . » 561
Quando fa mai ch'al disiato obbietto . » ! Signor mio caro, il cui cortese e santo » 576
Quando io odo sonar tanto altamente . » Signor mio caro, il Molza vostro e mio » 555
Quando io talora il vostro animo altero » Signor mio caro, il vostro e di voi degno» 56o
Quando lo Dio, che 'l terzo cielo alluma » Simon, nè maraviglia mai, nè sdegno . » 574
Quanto a voi, Varchi, eternamente deggia » Simone, il vostro buon giudizio intero. » lvi
Quanto Amor possa in voi, chiaro si vede, e Soffrite, alto Martel, sì ingiuste offese. » 565
Quanto i più vaghi e i più saggi pastori» Sol potevate voi, Francesco mio . . . » 556
Quanto il contento vostro alto e soprano » Sommergi pure il meno umido legno . » 567
Quanto m'aggrada, Santin mio, che 'l vero» Sopra quel che mirate altero giogo . . » 552
Quanto m'incresca, Amor, permev'espliche » Sovra l'altero monte, ove Quirino . . » 558

Quegl'occhi ch'ad ognor sì largamente , Spenda pur tutta in me la sua faretra » 591
Quei che cantò molti anni e pianse Laura » Sperai ben già sotto la sua dolce ombra » 583
Quei tre spirti del ciel pregiati e chiari » Spesso ad Amor, onde tu tanto vali. . » 554
Quei rami, che cantando al ciel spandete » Spoglian le piaggie l'erbe, e l'erbe i fiori» 568
Quel ch'io sapeva in voi regnare a pieno » Strozzi gentile, ch'agl'Euganei monti . » 547
Quel che'l mondo d'invidia empie e di duolo, » Strozzo, le stelle fur tanto seconde . . » 578
Quel cortese che già gran tempo scorsi , Stufa, già parmi a queste genti e a quelle » 561
Quel dolce, che da prima al cor mandaro. » Stufa, or che'l ciel con disusata foggia » 562
Quel foco, che sì dolce arse il cor mio » Tai fiuron l' opre sue, tante è la fama » 575
Quel mio sacro, leggiadro, altero lauro » Tansillo, che quel dolce e lieto piano. » 588

Quell'alma fronde, che chi regge Delo » Tanti mi stanno al cor dentro e d'intorno » 585
Quella, che di desio m'empie e di speme » Tasso, nè caro più, nè più pregiato . » 555
Quella natìa bontade e quello altero . » Tempo è omai, poi che cangiate il pelo » 568
Quella onorata pianta, a cui seconde . » 565 Tirsi, ch'alchiaro suono e al bel sembiante» 548
Ragione è ben ch'a voi si mostri, quale » 566 Tommaso, quel valor che 'n voi natio. » 576
Rota gentil, che co' bei raggi tuoi . . » 589 Tra speranza e timor mia mente pende » 37o
Sacre Muse toscane, o voi mi date . . » 554 Trifon, s'è vero, oimè! che 'l vostro e mio» 555
Saggio e cortese signor mio, coloro . . » : Tullia, se come 'l bel, così 'l perfetto . » 594
Saggio signor, dalla cui alta mente . » 584 Un nome stesso, un stesso albergo in vita » 577
Salvi, che si pietoso e sì cortese . . » 594 Varchi, a Fiorenza ceda e Smirna e Manto» 56 i
Schiatta, amor mi legò con tanti nodi. » 547 Parchi, al cui grave stil non pur rinforzo » 552
Sciolgasi in tutto da terreni affetti. . » 587 Varchi, al vostro destrier ben puote opporsi » 574
S a legittimo, eguale, e dolce foco . . , 5 Varchi, alle rime vostre chiare e pure. » 584
S a voi, caro Busin, e queste e quelle. : 57 Varchi, ch'a par de' più saggi e migliori » 575
S'amor che sempre più velocemente. . ss 567 Marchi, ch'acceso il cor da fiamme antiche » 596
S'Amor, quanto mai più mi mostra doppio » 5,3 Varchi, ch'al mondo le faville spente. » 583
S'io fossi come voi leggiero e scarco . , 583 Varchi, ch'orcolla voce, or coll'inchiostro » 576
Se ben le crespe della fronte e 'l bianco » 559 Varchi che dagl' Esperii a liti Eoi . ” 589
INDICE 645
383
Varchi, che delle Muse al sacro varco pag. Varchi quanto ilPeneo più chiaro il nomepag. 563
Varchi, che fuor del volgare uso e tetro » Varchi, quanto più lode voi mi date . ss 554
Parchi, che i bei leggiadri e degni effetti » Varchi, quel che mi trasse ad amar prima» 549
Varchi, che i lieti e bei vicini campi . » Varchi, scolpito del gran spirto avete . » 587
Varchi, che le sorelle alme lattaro . . Varchi, s'ad alcun mai pianto e dolore » 575
--
Varchi, che lieto al glorioso monte. . Varchi, s'al vostro nome eterno e chiaro, , 597
Varchi, che nulla degl' umani onori . x» Varchi, s'un tal vivace e bello ardore. » 563
Varchi, che per drittissimo cammino . - Varchi, se casto amor doppio vi sforza » 55o
Varchi, che per questo ampio, umido seno » Varchi, se forza mai d'amor s' intese. » 588
Varchi, che quanto da benigna stella . - Varchi, se 'l bel disio ratto vi guide . » 592
Varchi, chi sa quanto ognor v'amo e quanto” Varchi, se'l ciel vi preste ali al gran nome » 577
Varchi, chi tiene il tuo pensiero oppresso » Varchi, se 'l tuo fra noi gradito lauro » 571
I archi, col chiaro ed alto e dolce suono » Varchi, se l'amor mio puro e sincero . » 555
l’archi, cui troppo amor fa dritto e vero» 5. Varchi, se mai ove uom per sè non sale » 579
l’archi, dalla cui bocca e chiaro ingegno » Varchi, se pareggiasse il gran disio . , 576
Varchi, del cui valor, ch'al mondo parte » Varchi, se solea far chiaro il suo fondo » 599
Varchi, d' oneste brame anima piena . Varchi, sì come col pensier v onoro » 591
-
Varchi, di cui la saggia ed alta mente Varchi, sì come fu quel vecchio santo , 59o
Varchi, di lauro a cui tesson corona . - Varchi, voi dite il ver, che più fugace » 551
Varchi, e non è chi con voi certo a paro » Varchi, voi dite ognor, che più felici . » 577
Varchi, fra quanti Amor punge ed infiamma» 54 Varchi, voi mi chiamate a quello onore » 574
Varchi gentil, che con purgato inchiostro» 554 Vecchietto, bene in voi chiaro s'è mostro » 576
Varchi gentil, che così chiaro lume . » 579 Vibra pur la tua sferza, e mordi il freno » 582
Varchi gentil, che lontan dalla gente . » 572 Viva Petra, ove ognor più largo infonde » 578
l'archi gentil, che non di questi monti » 547 Vivaldo, a cui di morte ira, nè sdegno » 569
l'archi gentil, che tra i più chiari lustri» 682 Vivaldo, io non saprei così nel chiaro. » 552
l’archi gentil, cui scuopre ogni cagione » 586 Vivaldo, tutto quel ch'io schietto e vero » 569
Varchi gentil, delle cui lodi al segno . » 57o Voi ch'alla prima e più gradita etate. » 548
Varchi gentil, la folta nebbia e nera, . » 599 Voi, che da fragil vetro il nome e l'opre» 557
Varchi gentil, lo cui chiaro idioma . » 577 Poi che 'l gran Tosco piano avete e chiaro » 561
Varchi gentil, per cui lieto e contento. » 546 Voi, che l'alte vestigia dentro l'orme . » 564
Varchi gentil, quando lo mio pensiero. » 554 Poi, che per onde sì tranquille e liete. » 546
Varchi gentil, quel vostro alto valore . » 58 Voi, che tanto alto sopra gli altri andate» 548
Varchi gentil, se 'l dolce vostro e ornato » ivi Voi con sì fermo piede e per sì corte . » 569
Varchi gentil, se le spietate offese . . » 594 Voi, cui dal ciel sì largamente è dato. » 555
Varchi gentil, se non del tutto indegno » 58o Voi ve n'andate senza me per l'onde. » 566
Varchi gentil, se voi sapeste quale . . » 566 Zoppio, dal buono e si cortese vostro . » 564
Varchi gentile, in cui tutto oggi riede. » 562
Parchi, gran tempo e ch'innalzar convengo » 598
Varchi, il cui bel pensier sovrano e saggio » 573
Varchi, il cui chiaro nome altero varca » 578 SONETTI SPIRITUALI
Varchi, il cui saldo e buon giudizio intero» 547
Varchi, il famoso giovinetto Ebreo . . » 556 Dedica dei Giunti . . . . . . . » 6oo
Varchi, il nostro Martin, non me devete » 548
Varchi, in cui dalle sacre amate fronde » 588 A voi, ch'al mal di ghiaccio, al ben di foco, » 6o4
Varchi, io so ben che ne più stretti nodi » A voi che sete buon non pure amico, . » 616
Varchi, io son qui, dove con rapida onda » 566 A te, solo di Dio Figliuol verace, . . » 619
Varchi, Ippocrene il nobil cigno alberga » 564 Abate, mio signor, che 'nnanzi al fiore » 617
Varchi, la virtù vostra in chiara basa » 565 Al vostro alto valore, in cui si specchia » Go7
Varchi, le lodi che di ben felice . . » 558 Alberto mio, ch'a questi uman piaceri » 61 o
Varchi, le vostre pure carte e belle. . » 587 Amore e propria carità m'assenna, . . » 6o3
Varchi, mentre che voi spiegando l'ali » 59o Anima cara a Dio, ch' altro Parnaso, . » 6o6
Varchi mentre io contemplo il bel lavoro » 595 Antonio, io parto, e sa Dio se m'incresce » 616
Parchi, mentre te ad alte cure intento » 592 Ben mi credea dopo mie tali e tante . » 612
Varchi mio, ch'a gran volo alto da terra » 556 Benigno re dell'universo, s'io, . . . » 619
Varchi mio, che dal cielo e dalle stelle » 571 Benvenuto, il tempo è che queste cose . » 61 1
Varchi mio, 'l grave mal, da cui non sono s 599 Bernardo mio, questi terreni fasci . . » Go7
Varchi, mostravi Amore ogni mio affetto » 574 Carlo, se dietro le vistigia impresse so 6 i 5
Varchi, non già per cosa dotta o bella , 595 Caro Andrea mio, questo terrestre limo, o ivi
Varchi, non Tempe, non Parnaso o dove » 6oo Caro e cortese Aldobrandin, se queste . ss 6o3
Varchi, nuovo Mirone e nuovo Apelle. » 561 Che fa, caro e cortese Minerbetto, », 615
Varchi onorato, egl' e ver, che dal mio » 55o Che fate voi, Tanin, quando gli amori » 614
Varchi onorato, in cui ch aro s'è mostro » 562 Chi sa di noi qual sia di Dio la mente? » 6,9
Parchi, per cui da lunga alta quiete . » 579 Chi vuol vedere ed ascoltare in terra . » Go5
Varchi, prima vedrò senza acqua il mare» 592 Cigno toscano, i dolci vostri canti, . . » 618
Varchi, quando il buon Cola al sacro Bembon 554 ! Ciò ch' è nascoso a noi, ciò ch'è palese, o 6o7
646 INDICE

Cino gentil, nel bel vostro alle Rose pag. 618 Or conosco, or sent'io, caro Silvano, pag. 6o5
Come potea non piangere anzi, e poi - º Goa Padre, ch'ardendo di celeste zelo . . n 606
Come quel chiaro e pellegrino ingegno, º 61 i Padre del ciel, se pentita alma umile . » 619
Coppia, ohe l'orfanelle abbandonate . . » Go9 Padre mio buon, quel buon gran padre vostro, º 618
Cortese e reverendo Corbinello, . . . » 6o3 Padre, roi pur sapete che dal bene . . » 6o6
Da voi, chiaro signor, prendere esempio » Go2 Paoli mio, ciò ch' è sotto la luna, . . » 61
Deh perchè tarda l'anno e'l mese e l giorno n 62o Passano i nostri dl, ch'altro non sono, n 6o4
Deti, io ho dato e darò sempre a Dio . » 618 Poi ch'algran redel ciel, poich'al buon Duca,» 6on
D'Apollo onore, di Minerva pregio. . » 6o8 Qual chi cosa talor per la via scontra » 6o3
D'ogni cosa rendiam grazie al Signore » 612 Qual fu cor tanto mai debile, e 'nfermo ? » 605
Di Dio solo è la gloria: a Dio l'onore » 617 Qual meraviglia s' alto e santo e solo . » 6ot
Di tre casti amor'arsi un tempo, ed ora º 6o5 Quando dalla grande opra mi diparte, » 616
Donna, che come chiaro a ciascun mostra º 6o9 Quando dall' un de' lati ognor mi sfida » 6o,
I)onna real, che non pur di beltate, . » ivi Quanti cieco desir, quanti ne mena, . 617 b-

Dopo le basse, oscure e mortali acque, º Go8 Quant'avete maggior l'ingegno e l'arte, » 612
Dunque io morrò senza poter ne voi, . » 6o4 Quanto a voi die maggior doti e migliori » 61o
E d'un pensiero ancor, non che dell'opre » Go3 Quanto al vostro apparir, Cortese e saggio r 6ot
Ecco che già, Stufa mio caro, riede - º 617 Quanto bramo, Oradin, come disio . . » 61
Fonte di pietà vera, esempio vivo . . » 6oi Quanto mi duol, Giovanni mio, che morte n. 615
Forse di questo falso mondo i fiori . º 6o7 Quasi nel mezzo di due chiari fiumi, . n 613
Fussi io, Francesco, voi, ch'io sarei pure, º 6o6 Quella che splende innanzi al giorno fiamma, i 609
Già per ornar di verde onor le chiome, ” 6o3 Quella, Carlo, ch'a Dio strada conduce, n 6 o
Già so ben, sacro santo signor mio, . » 6o i Quella, Niccolò mio, che'l Signor nostro » 6o4
Giorgio, il vostro Giorgin che fu sì mio, º 615 Quella pietà, quel senno, quel valore, . » 607
Giulio, la scala onde di grado in grado, º 616 Quell'amor, ch'io da'miei verdi anni e quella» 615
Giulio, non pur l'età mia lunga e grave º 617 Questa degli anni miei nevosa brama . » 612
Giuseppe mio, Nozzolin mio, se mai - º 613 Questa povera mia terrestre gonna, . .» 604
Guglielmo, egli è ben verche polve ed ombra» 612 Reggere altrui, altrui corregger, peso . » ivi
Il parto verginale e quell' altera . . » 61 i Reverendo signor, se vi sovviene . . . » Go3
Immortal donna, anzi mortale dea, . » 6o9 Ridolfo, io vorrei ben, ma questo giorno » 615
In Dio si glorii e non in sè, s'alcuno » 614 Ringraziate Gesù, Ricciardo mio, . . » 614
In dubbio di mio stato or piango, orrido, º 6o2 Sacro signor, di quel puro innocente . » 6oº
Io cerco ardendo il mio Signore, e sempre » 61o Sciogliera'l cappio omai, non romperà'l nodo» 612
Io ebbi ed ho, signor, ferma credenza . » 618 Scipio, cui si di me pietoso veggio, . . » 608
Io me ne vo, signor mio caro, dove . » 6o8 S a voi, Cigno dell'Arno alto e gentile, e 616
Jacopo, se cercate, come io spero . . » 615 AS” in me fosse il poter, quale è la voglia » 618
La vostra tanto adorna e così vaga . n 6o4 S'io avessi non pur la dolce vostra . » ivi
Lasca, altro Febo, altra Minerva omai » 618 Se dietro i sacri vostri alti vestigi . . » 6o2
L'erbe, le piante, i fior tutti e le fronde, º 6o8 Se dir vero altrui lice, io non invidio » 6o5
Lelio, chi d'altro il Re celeste prega, . » 6o7 Se negli Angeli suoi trovò nequizia, . » 6o3
Lelio, io so ben che voi sapete ch'io . » ivi Se quel che l'età mia non pur matura, » 617
Lenzi, perch'io in loco alpestro ed ermo, n 614 Se solo in te tutti questi anni addietro . » 62o
L'alto ch'io tesso ognor grave lavoro, º 6o9 Se tal sono al gennaio, qual fui l'aprile, º 616
Lucio, come talor lucida face, . . . » 61 i Se vi piace e v'aggrada il vero Lete . » 617
Maggio gentil, d'ogni virtù fiorito, . . » 6o8 Serra, s' al piacer mio piacer bramate, m 619
Mai non odo sonar notte o di squilla, , 614 Sia lodato il Signor, lodato sia . . . » 6o5
Mario, nè chiara nobiltà di sangue, . » 6 o Signor, che 'n questa veramente oscura » 6o4
Mentre che di mia vita orfido or dubbio, , 6o8 Signor che sazio de' mondani onori, . » 6oi
Mentre io, che son fra tutti gl'altri sezzo, o 6o i Signor, cui tutto die natura, quanto . » 6oº
Mentre io orfuoco, or neve ardo e languisco, » 613 Signor mio sacro, il meritargl'onori . » 6oi
Mentre languendo già buon tempo ghiaccio, º 6o9 Signor mio, voi che 'n così verde etate. » 6 o
Mille e mille onorate e chiare palme, . » 6oo Signor, quando la dea falsa e proterva, º GoS

Nè l'essere Ammannato or Scopa, or Fidia, ss 61 i Soave è il giogo di Gesù leggiero, . . »
Nè perciò temo, anzi mi pare ognora . » 6o6 Somma eloquenza in voi, somma dottrina º 6o5

Nelle cose di qui che tosto han sera, . ss 612 Son pieni i cieli ed è piena la terra . » 6º
Noi ch'eravam di tenebre figliuoli, . . » 616 Sopra erto poggio, fra monti aspri, alpiede n 6º)
Non piacciamo a noi stessi, chè non piacque», 614 Suora, che 'l sesto e sessantesimo anno » ivi
Non può Vincenzio mio, lunghezza d'anni, , 616 Tempo è ben di pagar, Tommaso mio, º di
Non son le rime mie, nè tir mai degne, º 617 Tempo è, Lucanton mio, ch'al patrio nido º 6 º
Oggi, Signor, che dal mondo empio, errante, , 619 Vivo è 'l sermon del Signor nostro, e molto º 614
Oggi, Signor, che sopra il santo Legno » ivi Poi ben potete, Lapin mio, chiamarvi . ” 613
Ogni cosa è tra noi fallace o vana: . » 614 Poi, ch all'antica Populonia, donde . ” º
Oggi dovem, messer Vincenzio mio, . » 6o Voi, che conforme all'opre il nome avete, º 163
Ogni alto foco, ogni più calda fiamma » Go5 Voi, che ne verdi miei giovenili anni . ” 613
Oh ! come vorrei io, diletto Mini, . . . 613 Voi, che picciola terra, anzi vil fango º ſito
Orch'io son giunto quasi al punto estremo , 6o6 Poi veramente, signor mio, sapete: . . Ӽ"
INDICE 647
| Poi che villa Canonica e 'l Mulino, pag. 625
COMPONIMENTI PASTORALI Poss'io morir, se non m'ancido un giorno » ivi
Quei dolci, alteri lumi, ove gli strali . » 627
Questi non sono, Elpisto mio, quei colli, º 627
Questo baston che già più volte in vano » 625
Dedica dell'Edizione di Bologna . pag. 62o Questo bianco monton che da sè torna » 624
- l Questo fonte gentil non versa stilla . ss 626
A che v'intreccio? a che m'adorno, o fiori, º 624 Questo, Ninfa dicea, ruvido selce, . . » 624
A voi, caro signor, che da primi anni, º 62 i Qui fu Tirinto il bel pastor, seconda . » 628
Altro che tu, dopo 'l gran Dafni mai . » 628 Se dell'antica tua sì cara Filli, . . . . » 625
Appena il buon Damon lassato e vinto » 62 i Tesilla amo, Tesilla onoro, e sola . . » 627
Ben mi pajono omai più di mille anni, º 625 Tirinto, se orsa cruda o leon fero. » 623
Ben sei, Tirinto mio, più che'l Sol bello, e 623 Tirsi, dove si ratto esto mattino, » 622
Calvoli altero, e ſia ch'io 'l creda? e pure » 626 Tra Carelli e Larniano, ove con torto » 626
Chi sa che'l bel Tirinto ora le stelle . » 624 Tu ch'a tutti altri vai tanto sovrano, o 625
Colmo d'ogni beltà, di pietà nudo, . . » 623 Tu sola sempre e null'altra mai piace » 626
Cosa al mondo non è, che più mi piaccia, º 626 Tutto quel che soleva in Aracinto, . . » 622
Dafni mio bel, Dafni mio buon, la cui e 628 Paga ninfa o pastor, che sagli o smonte, o 628
Deh!perchè non, come orsfior, erba e foglia, 624
Deh ! perchè non mi feo natura l'ale, - -
-oster

Deh ! perchè quando umil ti chiamo e pr


D'un antica elce alla negra ombra
Dolce Amaranto mio, quanto più º D UE E GL O G III.
Donde buon Tirsi?- E tu Damon?- -

E pur son questi sassi ermi e G37


Egon, ben è col mio bel Dafni degno
Folto, fresco, ermo, intonso, orrido Panna, 626 A M. PIERO STUFA
Idmo, leggiadro più d'altro pastore,
Il pianto, che per gli occhi si distilla 626
Io mi struggo, io mi sfaccio, io vengo meno,
La 've di mille vari fior distinto
Mentre che 'n questi dolci e cari orrori »
Mentre che quasi nudo e non lontano » 622
Mentre del vago mio, forte Tirinto . . » ivi
Mentre'l buon Tirsi ognor lungi e dappresso» ivi
s
» 6a a
i i, saggio signor, che tanto siete

EGLOGA PRIMA

AMARILLI
» 628

Mentre il fido Damon, con rozzi accenti, o 623 Io vo cantando a trovare Amarilli . . », 628
Mira, mio buon Damon, quanto sfavilla » 626
Nè mai pastor fu di sì cari avvinto. » 622
Non vedi come tutto arde e scintilla », 625 EGLOCA SECONDA
|
O di beltate e d' onestade solo, . . . » 627 |
O io morrò del gran dolore, od io . » 623 DAMoNe
Oh ! se quando colei che tutto sgombua, » 627
Oh ! se quelle che tu, gradito fonte, . -- ivi Deh! famoso Damon, che varchi al paro : 63o
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