Sei sulla pagina 1di 2

Moltitudine/classe operaia

Mise en ligne mai 2002


par Paolo Virno
Version originale italienne de Multitudes et classe ouvrière,Multitudes 9, mai-juin
2002,Majeure : Philosophie politique des multitudes
Vi sono alcune analogie e molte differenze tra la moltitudine contemporanea e la
moltitudine studiata dai filosofi della politica seicentesca. Agli albori della modernità, i
"molti" coincidono con i cittadini delle repubbliche comunali anteriori alla nascita dei
grandi Stati nazionali. Quei "molti" si avvalsero del "diritto di resistenza", dello ius
resistentiae. Tale diritto non significa, banalmente, legittima difesa : è qualcosa di più
fine e complicato. Il "diritto di resistenza" consiste nel far valere contro il potere
centrale le prerogative di un singolo, di una comunità locale, di una associazione di
mestiere, salvaguardando forme di vita già affermatesi a tutto tondo, proteggendo
consuetudini già radicate. Si tratta dunque di difendere un che di positivo : è una
violenza conservatrice (nel senso buono, nobile del termine). Forse lo ius resistentiae,
ossia il diritto di proteggere qualcosa che già esiste e sembra degno di durare, è ciò che
più accomuna la multitudo seicentesca alla moltitudine postfordista. Anche per
quest’ultima, non si tratta certo di "prendere il potere", di costruire un nuovo Stato, un
nuovo monopolio della decisione politica, ma di difendere esperienze plurali, embrioni
di sfera pubblica non statale, forme di vita innovative. Non guerra civile, ma jus
resistentiae. Altro esempio. Tipico della moltitudine postfordista è di provocare il
collasso della rappresentanza politica : non come gesto anarchico, ma come ricerca
pacata e realistica di istituzioni politiche che eludano miti e riti della sovranità. Già
Hobbes metteva in guardia contro la tendenza della moltitudine a dotarsi di organismi
politici irregolari : "nient’altro che leghe o talvolta mere adunanze di gente prive di
un’unione finalizzata a qualche disegno particolare o determinata da obbligazione degli
uni verso gli altri" (Leviatano, cap. XXII). Ma è ovvio che la democrazia non
rappresentativa basata sul general intellect ha tutt’altra portata : niente di interstiziale,
marginale, residuale ; piuttosto, la concreta appropriazione e riarticolazione del
sapere/potere oggi congelato negli apparati amministrativi degli Stati. E veniamo alla
differenza capitale. La moltitudine contemporanea porta in sé la storia del capitalismo.
Di più : essa fa tutt’uno con una classe operaia la cui materia prima è costituita dal
sapere, dal linguaggio, dagli affetti. Vorrei dissipare, per quanto posso, una illusione
ottica. Si dice : la moltitudine segna la fine della classe operaia. Si dice : nell’universo
dei "molti", non c’è più posto per le tute blu, tutte uguali, che fanno corpo tra loro, poco
sensibili al caleidoscopio delle "differenze". Chi dice questo, sbaglia. Ed è un errore
privo di fantasia : ogni vent’anni c’è chi annuncia la fine della classe operaia. Eppure
quest’ultima non si identifica, né in Marx né nell’opinione di qualsiasi persona seria,
con una specifica organizzazione del lavoro, uno specifico complesso di abitudini, una
specifica mentalità. Classe operaia è un concetto teorico, non una foto-ricordo : indica il
soggetto che produce plusvalore assoluto e relativo. La nozione di ’moltitudine’ si
contrappone a quella di ’popolo’, non a quella di ’classe operaia’. Essere moltitudine
non impedisce affatto di produrre plusvalore. E, d’altra parte, produrre plusvalore non
implica affatto la necessità di essere politicamente "popolo". Certo, allorché la classe
operaia non è più popolo, ma moltitudine, cambiano moltissime cose : a cominciare
dalle forme dell’organizzazione e del conflitto. Tutto si complica e diventa paradossale.
Quanto sarebbe più semplice raccontarci che ora c’è la moltitudine, non più la classe
operaia… Ma se si vuole semplicità a tutti i costi, basta scolarsi una bottiglia di vino
rosso. E poi, sia detto per inciso, vi sono brani dello stesso Marx in cui la classe operaia
perde i tratti fisiognomici del "popolo" e acquista quelli della "moltitudine". Un esempio
solo : si pensi all’ultimo capitolo del primo libro de Il Capitale, dove Marx analizza la
condizione della classe operaia negli Stati Uniti (cap. XXV, "La moderna teoria della
colonizzazione"). Ci sono, lì, grandi pagine sul West americano, sull’esodo,
sull’iniziativa individuale dei "molti". Gli operai europei, scacciati dai loro paesi da
epidemie, carestie, crisi economiche, vanno a lavorare nei grandi centri industriali della
costa Est degli Usa. Ma attenzione : ci restano alcuni anni, soltanto alcuni anni. Poi
disertano la fabbrica, inoltrandosi a Ovest, verso le terre libere. Il lavoro salariato,
anziché ergastolo, si presenta come un episodio transitorio. Sia pure per un solo
ventennio, i salariati ebbero la possibilità di seminare il disordine nelle ferree leggi del
mercato del lavoro : abbandonando la propria condizione di partenza, determinarono la
relativa scarsità di manodopera e, quindi, la lievitazione delle paghe. Marx, descrivendo
questa situazione, offre un ritratto assai vivido di una classe operaia che è anche
moltitudine.

Potrebbero piacerti anche