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Dona (a cura di) - ETICA DELLE IMPRESE E DEI CONSUMATORI


L’etica è un concetto antico che da sempre accompagna l’esistenza
dell’uomo. Oggi l’osservazione di certi fenomeni nella realtà circostan-
Massimiliano Dona
te suggerisce un ripensamento di questo concetto come nuovo prota- (a cura di)
gonista della vita sociale ed economica. Ma cos’è l’etica dal punto di
osservazione dei consumatori? E quanto sa essere etico il consumatore
stesso quando perdona la scorrettezza, tollera l’abuso e viene meno al
dovere di fare scelte consapevoli? In tutte queste occasioni si comporta ETICA DELLE IMPRESE
da “gigante nano” ed è cattivo sovrano di se stesso.
La giornata di convegno in occasione della cerimonia di consegna del E DEI CONSUMATORI
Premio “Vincenzo Dona, voce dei consumatori” per il 2010 è dedicata
proprio al tema “etica delle imprese e dei consumatori”.
Questo libro raccoglie, insieme alla tesi di laurea vincitrice del Concorso Atti del Premio Vincenzo Dona,
bandito tra le università italiane, gli interventi di Massimiliano Dona, voce dei consumatori
Segretario generale dell’Unione Nazionale Consumatori, di Mario Mon-
ti, Presidente dell’Università Bocconi (già Commissario europeo per la 2010
concorrenza), di Stefano Zamagni, professore di Economia politica pres-
so l’Alma Mater Studiorum di Bologna ed anche di Antonio Catricalà,
di Giuseppe Di Taranto, Piero Gnudi, Raffaele Guariniello, Sebastiano
Maffettone e Corrado Passera.
chi è senza peccato?

Massimiliano Dona è il Segretario generale dell’Unione Nazionale Con-


sumatori (www.consumatori.it) e rappresenta i consumatori italiani nel Con interventi di
Gruppo Consultivo Europeo per i consumatori (ECCG) presso la Com- Antonio Catricalà, Giuseppe Di Taranto, Piero Gnudi,
missione Europea. È docente di diritto dei consumi presso la Facoltà di Raffaele Guariniello, Sebastiano Maffettone,
Economia dell’Università degli Studi di RomaTre e presso la Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università Europea di Roma. È autore di numerose Mario Monti, Corrado Passera, Stefano Zamagni
pubblicazioni sui temi del consumo.

FrancoAngeli
Massimiliano Dona
(a cura di)

ETICA DELLE IMPRESE


E DEI CONSUMATORI
Atti del Premio Vincenzo Dona,
voce dei consumatori
2010

Con interventi di
Antonio Catricalà, Giuseppe Di Taranto, Piero Gnudi,
Raffaele Guariniello, Sebastiano Maffettone,
Mario Monti, Corrado Passera, Stefano Zamagni

FrancoAngeli
Copyright © 2011 by FrancoAngeli s.r.l., Milano, Italy

L’opera, comprese tutte le sue parti, è tutelata dalla legge sul diritto d’autore. L’Utente nel momento in
cui effettua il download dell’opera accetta tutte le condizioni della licenza d’uso dell’opera previste e
comunicate sul sito www.francoangeli.it.
INDICE

PRESENTAZIONE
Amelia Buratti Simonetti
Presidente dell’Unione Nazionale Consumatori pag. 9

RELAZIONI
Chi è senza peccato?
Massimiliano Dona
Segretario generale dell’Unione Nazionale Consumatori » 11
Verso un consumatore socialmente responsabile
Stefano Zamagni,
Professore Ordinario di Economia Politica all’Alma Mater
Studiorum di Bologna » 23
Verso un mercato alleato dei consumatori
Mario Monti,
Presidente dell’Università Bocconi di Milano » 29

TAVOLA ROTONDA
Etica delle imprese e dei consumatori
Antonio Catricalà
Presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del
Mercato » 35
Giuseppe Di Taranto
Professore Ordinario di Storia economica alla LUISS Guido
Carli » 38
Piero Gnudi
Presidente di Enel Spa » 40

5
Raffaele Guariniello
Magistrato presso la Procura della Repubblica Tribunale di
Torino pag. 42
Sebastiano Maffettone
Professore Ordinario di Filosofia politica alla LUISS Guido
Carli » 45
Corrado Passera
Consigliere delegato di Intesa Sanpaolo » 47
Stefano Saglia
Sottosegretario Ministero dello Sviluppo Economico, Presi-
dente del Consiglio Nazionale Consumatori Utenti » 52

PREMIO VINCENZO DONA, TESI DI LAUREA


1° classificato Jessica Facen
La CSR come fattore di successo nelle imprese? Il caso emblematico
delle bad companies
Introduzione » 57
1. La Responsabilità Sociale d’Impresa » 61
1.1. Una nozione di CSR » 61
1.2. Gli obiettivi e i benefici della CSR » 69
1.3. I destinatari della CSR » 76
1.4. Gli strumenti della CSR » 80
2. Obiettivo economico ed obiettivo sociale: antinomia o conver-
genza? » 86
3. Lo sviluppo della CSR nelle imprese: fasi, percorsi e modelli » 102
4. Perché alcune imprese non perseguono la Responsabilità So-
ciale: le bad companies » 115
4.1. L’ascesa dell’impresa irresponsabile » 115
4.2. Dalla creazione alla distruzione di valore » 118
4.3. Il grado di responsabilità » 119
4.4. Le multinazionali » 124
5. Un caso di bad company: la Nestlé » 127
5.1. Chi è Nestlé » 127
5.2. Critiche alla politica commerciale di Nestlé: le azioni an-
ti-sociali dell’azienda e il comitato internazionale di boi-
cottaggio » 130
5.3. Il Codice Internazionale e le istituzioni » 138
5.4. Come si difende Nestlé » 142

6
5.5. Guida all’impegno della Nestlé: certificazioni di qualità,
impegno sociale ed ambientale pag. 146
Conclusioni » 15
Bibliografia » 167

7
PRESENTAZIONE

Signore, Signori, Autorità tutte, quale Presidente dell’Unione Nazionale


Consumatori, è mio gradito compito darvi il benvenuto alla quarta edizione
del Premio “Vincenzo Dona, voce dei consumatori”.
Come saprete, il Premio intende ricordare il fondatore della nostra orga-
nizzazione e niziatore del movimento dei consumatori in Italia. Quest’anno,
per curiosa coincidenza, ricorre il 55° compleanno dell’Unione Nazionale
Consumatori ed è una cifra tonda che riproduce l’anno della nostra fonda-
zione, alla quale, peraltro, io stessa ebbi il piacere di prendere parte.
Il Premio si articola in quattro sezioni, una per le personalità, una per la
comunicazione giornalistica, una è rivolta ai giovani con un riconoscimento
per le migliori tesi di laurea in materia di consumo (sotto il patrocinio della
CRUI, Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) e l’ultima va ad ap-
prezzare gli sforzi realizzati dalla nostra organizzazione sul territorio asse-
gnando un riconoscimento alle realtà più attive tra i comitati locali
dell’Unione Nazionale Consumatori.
Mi fa particolarmente piacere comunicarvi che, ancora una volta, il Pre-
sidente della Repubblica ha voluto destinare una medaglia quale suo pre-
mio di rappresentanza alla nostra giornata di convegno, augurandoci il pie-
no successo dell’iniziativa. Altrettanto gratificante per noi è aver ricevuto il
messaggio del Presidente del Senato, Renato Schifani, e del Presidente del-
la Camera, Gianfranco Fini, che ci manifestano la loro ideale adesione a
questa iniziativa.
Nuovamente il nostro Premio ha ricevuto numerosi, autorevoli patroci-
ni: oltre a quello della Presidenza del Consiglio dei Ministri, quello del Mi-
nistero dello Sviluppo Economico, del Ministero delle Politiche Agricole e

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del Ministero dell’Istruzione, nonché il patrocinio della Regione Lazio e del
Comune di Roma.
Ringrazio sentitamente tutte le Istituzioni che hanno voluto in questo
modo stringersi alla nostra Unione per ricordare la figura del fondatore del
consumerismo italiano.
Grazie ancora per essere qui, diamo inizio ai lavori dedicati quest’oggi
al tema dell’etica del mercato e dei consumatori. Lascio la parola al Segre-
tario generale Massimiliano Dona che voi tutti conoscete.

Amelia Buratti Simonetti


Presidente dell’Unione Nazionale Consumatori

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CHI È SENZA PECCATO?

di Massimiliano Dona

È sempre emozionante ritrovarci in questa occasione, un appuntamento


che la nostra organizzazione vive come un “caloroso abbraccio” nel ricordo
di Vincenzo Dona, una guida (e una persona) per noi così importante.
“Etica delle imprese e dei consumatori”: è questo il tema al quale ab-
biamo deciso di dedicare l’odierna riflessione.
L’etica è argomento ampiamente dibattuto e non da ieri. Direi anzi che è
concetto antico che ha da sempre accompagnato l’esistenza dell’uomo: an-
che se ho la sensazione che, nel corso dei secoli, la società e la politica ab-
biano provato a permeare l’etica più di quanto non abbiano accettato di far-
si permeare dall’etica.
Nel corso di questo cammino l’etica ha avuto dei compagni di viaggio:
penso alla morale, alla filosofia, alla religione, alla stessa scienza economi-
ca. Poi per lunghi tratti è stata costretta a procedere da sola, tenuta forzata-
mente separata dalle altre discipline.
Oggi l’osservazione di certi fenomeni nella realtà circostante suggerisce
un ripensamento dell’etica come nuova protagonista della vita sociale ed
economica. In questo senso, uno spunto decisivo ci viene dalla Caritas in
veritate, la Lettera Enciclica di Benedetto XVI, resa pubblica nel mese di
luglio dello scorso anno.
Nel paragrafo 45 leggiamo che «l’economia ha bisogno dell’etica per il
suo corretto funzionamento e non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica
amica della persona».


Segretario generale dell’Unione Nazionale Consumatori.

11
Evidentemente non potevamo trascurare di cogliere la rilevanza di que-
ste parole nel rapporto impresa-consumatore.
Il Pontefice è un attento osservatore. Cito testualmente: «Oggi si parla
molto di etica in campo economico, finanziario, aziendale. Nascono centri
di studio, percorsi formativi di business ethics, […], si sviluppa una finanza
etica e questi processi suscitano apprezzamento, meritano un ampio soste-
gno». Ma aggiunge: «Si nota un certo abuso dell’aggettivo etico che, ado-
perato in modo generico, si presta a designare contenuti anche molto diver-
si, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie
alla giustizia e al vero bene dell’uomo».
E ancor più a fondo va il Pontefice ricordando che: «Occorre adoperarsi –
l’osservazione qui essenziale! – non solamente perché nascano settori o seg-
menti “etici” dell’economia e della finanza, ma perché l’intera economia e
l’intera finanza siano etiche e lo siano non per un’etichettatura dall’esterno,
ma per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura».
L’etica dunque cos’è dal punto di osservazione dei consumatori?
Per prima cosa ci siamo interrogati su come raffigurarla. Sapete che è no-
stra abitudine sollecitare la partecipazione a questa giornata di convegno con
l’aiuto di una simbologia che caratterizzi il tema: ricorderete gli “occhiali a
raggi X” che ci aiutarono ad introdurre la riflessione sulla pubblicità ingan-
nevole; poi l’anno scorso discutemmo di alimentazione e fu facile interpreta-
re l’argomento con una “busta della spesa” sulla quale campeggiava un punto
interrogativo a simboleggiare le incertezze dei consumatori.
Quest’anno la sfida per i nostri creativi era decisamente più impegnati-
va: come raffigurare l’etica del mercato? Non vi nascondo che la tentazione
è stata, lungamente, quella di invitarvi a convegno con l’immagine provo-
catoria della facciata di una impresa, pronta a rivelarsi priva di sostanza, un
po’ come certe scenografie teatrali, sorrette da precarie impalcature e utili
al solo scopo di dare al pubblico una “idea” della realtà, inevitabilmente ar-
tefatta e fittizia.
Dobbiamo essere onesti: è proprio questa, talvolta, la sensazione che
conservano i cittadini di fronte alle belle dichiarazioni di alcuni imprendito-
ri quando poi si trovano costretti a toccare con mano la vacuità di certi pro-
clami, clamorosamente smentiti nei fatti dai comportamenti di certi vendi-
tori, degli addetti al call center, dei responsabili di una customer care trop-
po spesso buona solo per imbellettare un’apparenza vuota di contenuti.

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Ma se avessimo ceduto a questa tentazione avremmo probabilmente raf-
figurato solo una minima parte del fenomeno trascurando una visione più
complessiva delle cose, una visione “più onesta” dell’etica delle imprese.
In altre parole saremmo venuti meno all’insegnamento di Vincenzo Do-
na che ancora ci ricorda, con le sue parole, di guardare al mondo intorno a
noi con atteggiamento critico, ma dialettico; fermo, ma costruttivo.
Avremmo tradito quella sua idea del mercato e dei consumatori, quell’idea
di società che non può essere fondata ottusamente sulla pretesa di diritti da
rivendicare senza la consapevolezza dei doveri da osservare.
Proprio Vincenzo Dona fu colpito, nei primissimi giorni della fondazio-
ne dell’Unione (era il 30 novembre del 1955), dalla proposta di ispirare la
nuova associazione al motto «lega di consumatori e produttori onesti con-
tro i produttori e commercianti disonesti, ma anche contro i consumatori
stupidi e passivi» (come si legge nel volume Cinquant’anni di storia e sto-
rie del consumerismo italiano, Novara 2005).
Ecco perché, quindi, abbiamo raffigurato il tema al centro dell’odierna
riflessione con questi sassi che accompagnano una domanda antica, leg-
gendaria, densa di significati evocativi, eppure pronta a riemergere nel no-
stro linguaggio quotidiano: chi è senza peccato?
Non c’è pessimismo in questa domanda. Al contrario è un interrogativo
che deve liberare una carica positiva e così lo abbiamo inteso: noi che tante
volte parliamo in nome del consumatore, che ne rappresentiamo i desideri,
le istanze, la pretesa ad essere maggiormente rispettato nel mercato, abbia-
mo noi per primi il dovere di chiederci: chi è senza peccato?
Ciò equivale (voglio svelare subito la nostra visione e il nostro intento) a
distribuire la responsabilità dell’etica tra tutti i soggetti del mercato. A cia-
scuno in funzione del proprio ruolo. È la sfida etica della globalizzazione:
se è vero che con questo termine intendiamo dire che tutti dipendiamo gli
uni dagli altri, ecco che i doveri degli uni e degli altri si confondono ed in-
teragiscono.
Insomma oggi più che mai gli attori del mercato sono parte di un tutto;
al punto che avremmo potuto utilizzare (anche nel nostro biglietto di invito)
una domanda ugualmente suggestiva: «per chi suona la campana?» ricor-
dando le celebri parole di John Donne.
Insomma, ci sembra coerente con l’insegnamento di Vincenzo Dona di
accompagnare la pretesa che rivendichiamo ogni giorno (l’aspirazione di
vedere finalmente il consumatore al centro della società) con la consapevo-

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lezza delle responsabilità che gravano sul singolo, chiamato ad essere a sua
volta etico nei quotidiani comportamenti, ma anche su noi stessi, organiz-
zazioni dei consumatori che operano nel mare magnum del non profit.
Peraltro, il ruolo del consumatore (e delle associazioni che se ne occu-
pano) è esaltato anche nella Caritas in veritate. In particolare nel paragrafo
66: «La interconnessione mondiale ha fatto emergere un nuovo potere poli-
tico, quello dei consumatori e delle loro associazioni. Si tratta di un feno-
meno da approfondire, che contiene elementi positivi da incentivare e an-
che eccessi da evitare. È bene che le persone si rendano conto che acquista-
re è sempre un atto morale, oltre che economico. C’è dunque una responsa-
bilità sociale del consumatore che si accompagna alla responsabilità sociale
dell’impresa».
Ed ancora: «Un più incisivo ruolo dei consumatori, quando non vengano
manipolati essi stessi da associazioni non veramente rappresentative, è au-
spicabile come fattore di democrazia economica».
Muoverei allora proprio dal ruolo del consumatore, lasciando poi per la
conclusione alcune considerazioni in ordine al grado di onestà fatto proprio
dalle imprese operanti nel nostro sistema.
Quanto sa essere etico il consumatore? Non mi riferisco, è bene chiarirlo
subito, alle scelte verso il consumo equo e solidale (rappresentando questo
un ambito che meriterebbe specifici approfondimenti), ma a tutte quelle si-
tuazioni quotidiane nelle quali il consumatore non è in grado (o non ha
semplicemente la voglia, il tempo, l’iniziativa) di valutare la sua contropar-
te professionale e di adattare conseguentemente i suoi comportamenti.
Quante volte osserviamo la tendenza del consumatore ad abdicare spon-
taneamente (spesso per futili motivi di pigrizia) al suo diritto-dovere di es-
sere cittadino? E così supinamente accetta le direttive della pubblicità, della
moda, del costume. Troppo spesso perdona la scorrettezza, tollera l’abuso,
viene meno al dovere di fare scelte consapevoli, talvolta indugia in quella
acquiescenza che è sinonimo, badate bene, non di saggezza e maturità, ma
al contrario indizio di superficialità.
In tutte queste occasioni egli si comporta da gigante nano, è cattivo so-
vrano di sé, perché invece di indirizzare il mercato, rimette ad altri scelte
che invece spetterebbero a lui stesso. Vorrei dire che forse, anche da un
punto di vista più strettamente giuridico, quasi cessa di essere un “consu-
matore”, nel senso che rischia di mettersi al di fuori degli scenari di prote-

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zione che – come saprete – guardano ormai ad un “consumatore medio”
(cioè mediamente critico, informato, consapevole).
Per usare le parole di Zygmunt Bauman, uno dei più severi critici del
nostro tempo, «quante ne incontriamo di persone che partecipano pigra-
mente alla massa dei consumatori non come parte attiva di un gruppo, bensì
come inutile molecola di uno sciame che compie percorsi per lo più irra-
zionali. Consumatori tutti uguali a se stessi, copiati all’infinito, come le
immagini replicate di Andy Warhol».
È bene, però, chiarire che questa responsabilità del consumatore è (il più
delle volte) una responsabilità incolpevole, stante la difficoltà di compren-
dere a fondo l’impresa e i suoi comportamenti. Non è per la verità facile, al
giorno d’oggi, valutare le condotte commerciali, il rispetto messo in atto
dall’azienda nel rapporto con il consumatore.
Tale difficoltà è data da alcuni fattori, a cominciare da quella scarsa cul-
tura di base dei nostri cittadini che ho più volte denunciato. Su questo ver-
sante, tornano utili ancora una volta le parole del Pontefice: «i consumatori
vanno continuamente educati al ruolo che quotidianamente esercitano».
Non c’è dubbio che una più accurata informazione ed educazione della
cittadinanza potrebbe contribuire a riequilibrare il quadro del rapporto tra
diritti e doveri. Ma va anche detto che è assordante, talvolta, la potenza dei
mezzi utilizzati dall’industria: essa può ricorrere a pervasive campagne di
marketing per costruire un’immagine patinata, asseverare un non meglio
identificato rispetto della collettività, convincere della sicurezza e della
qualità dei prodotti e finanche della indispensabilità degli stessi.
E mi riferisco, su questo ultimo punto, alla capacità di motivare
l’acquirente oltre ogni etica spingendo a ritenere necessario di dotarsi
dell’ultimo ritrovato, di rottamare il vecchio per passare al nuovo in attesa
che si compia anche per questo il breve percorso della sua esistenza per
come è stata pianificata dagli strateghi del marketing. «È etico ridicolizzare
i bisogni di ieri?» (se lo chiede ancora Zygmunt Bauman). Ma il consuma-
tore è disorientato anche a causa di altri fenomeni indotti dalla globalizza-
zione: mi riferisco al fatto che la moderna impresa va sempre più caratte-
rizzandosi per quella che potremmo definire una “immanenza immateriale”,
quasi a descriverne quello strano ossimoro per cui ad una sua crescente pre-
senza nel nostro quotidiano fa da contraltare la sua smaterializzazione, con
delocalizzazioni che fanno sparire la fisicità dell’impresa, il suo nesso con
un territorio, con una determinata collettività.

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Insomma, se da un lato osserviamo la crescente presenza del brand nelle
nostre esistenze (nelle cose che indossiamo, negli strumenti della tecnolo-
gia, nella nostra casa, in ufficio ecc.), dall’altro quella stessa impresa riesce
a sottrarsi al nostro giudizio, alla valutazione della collettività proprio per la
sua crescente immaterialità. Un tempo il negoziante scorretto era inesora-
bilmente colpito dalla valutazione del suo ambiente di riferimento: non po-
teva gettare rifiuti sul retro della sua bottega sperando di lasciare immacola-
ta la sua immagine di facciata, perché quella collettività ristretta avrebbe, in
breve tempo, colto il disvalore dei suoi comportamenti.
Nel moderno mercato, invece, le Aziende non mettono radici, ma getta-
no ancore. E si vedono richiedere le credenziali ad ogni scalo, ma ci sono
porti nient’affatto pignoli nel verificare le credenziali, a cui poco importa
delle destinazioni passate (così, ancora, Bauman).
Oggi, nonostante la potenza di Internet, che certamente aiuta nella circo-
lazione delle informazioni, è più agevole per l’impresa smaterializzata dis-
simulare alcuni tradimenti del mercato. Spesso si tratta (nel vero senso del-
la parola) di scaricare rifiuti nel retrobottega del mondo, ma talvolta basta
molto meno, come il diffondere pratiche commerciali scorrette, marketing
aggressivo, pubblicità ingannevoli, comportamenti irresponsabili.
Ritengo che nessuno creda più alla favola raccontata da Adam Smith
sulla mano invisibile che guiderebbe il mercato ad incontrare l’interesse del
consumatore. Né tanto meno alla teoria di un mercato eticamente neutrale.
Lo sarebbe in assenza di inganni, ma tale carattere non appartiene al merca-
to attuale.
D’altro canto, però, il catalogo delle offese quotidianamente inferte ai
diritti del consumatore consentirebbe una lunga serie di esempi tratti dalla
quotidiana esperienza.
Potrei citare ancora le parole di Benedetto XVI: «la sollecitudine non
può mai essere un atteggiamento astratto».
Beh, in verità, ci sono cittadini che si ritrovano con un nuovo fornitore
di energia elettrica senza aver mai sottoscritto un contratto; utenti che pa-
gano servizi di connessione Internet mediamente del 50% più lente rispetto
alla velocità reclamizzata; acquirenti che aspirano inutilmente al rispetto
delle norme sulla garanzia post-vendita; siamo testimoni delle immancabili
vendite sottocosto che scatenano la corsa verso un centro commerciale do-
ve si scoprirà che i prodotti in offerta a prezzi stracciati sono solo pochi
esemplari; di spot che ci tramortiscono con il ritornello di offerte stratosfe-

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riche destituite di alcun fondamento di verità (e mi riferisco in particolar
modo ai servizi della telefonia, ma le big companies dell’energia e le ban-
che sono competitors all’altezza anche sul versante delle pratiche sleali).
Molti dei comportamenti attuati dalle imprese scorrette, ancor prima di
non essere etici, sono illegali. Ci sarebbe da discutere a lungo sul rapporto
tra etica e diritto, ma per quel che qui interessa, intendo sottolineare che
con la casistica che ho descritto, mi sono limitato a denunciare violazioni
della legge vigente.
Tornando quindi all’etica, vorrei ricordare al mondo dell’impresa che i
consumatori si aspettano qualcosa di più, qualcosa che potremmo chiamare
attenzione, rispetto, educazione.
Vi prego, non chiamiamola “la soddisfazione del cliente”! Ho sempre
sorriso rispetto a questo archetipo. Ma come, la soddisfazione del cliente
come obiettivo dell’impresa? Raggiunta la “soddisfazione”, nient’altro da
desiderare? Una catastrofe! Vuoi davvero rimanere come sei? Ma guardati!
Che noia! E non a caso, esplode la mania del gioco, delle lotterie.
Non so come spiegarvelo: è proprio questione di educazione…
Ma temo che il disagio sofferto dai consumatori non sia compreso dai
più. Qualche impresa, sollecitata su simili questioni è incline a sottovalutar-
le. Qualcuno comincia a manifestare segni di insofferenza.
Così, il rischio è quello di ridurre l’etica nel rapporto tra imprese e con-
sumatori all’antico confronto tra egoismo ed altruismo, all’alternativa tra il
primordiale precetto “ama il prossimo tuo” e l’altrettanto noto “homo
hominis lupus”. Sembra a volte che l’interesse dell’impresa e quello dei
consumatori non possano essere coniugati.
Qualcuno già comincia ad affermare che “responsabilità” in definitiva
significa “responsabilità verso se stessi” (è qualcosa che devi a te stesso,
ripetono candidamente i venditori di sollevamento dalle responsabilità) nel-
la speranza di provocare effetti adiaforizzanti, cioè quegli effetti che rendo-
no le azioni eticamente neutre, esentando dalla valutazione, dalla censura
morale. È quello stratagemma che consiste nella sostituzione della respon-
sabilità verso (la legge, un’autorità, una collettività) con la responsabilità
per (la libertà, il benessere, il mercato).
Insomma (ma lascio che la riflessione sia approfondita con strumenti più
efficaci dei miei da chi mi seguirà), la sensazione è che molti interpreti del
mercato siano quasi stufi della responsabilità sociale d’impresa e, anche
approfittando della situazione di crisi economica, siano in procinto di chie-

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dersi “ma insomma, perché dovrei essere morale”, “che cosa fa il consuma-
tore per giustificare le mie cure”, “perché dovrei preoccuparmene io se
tantissimi altri non lo fanno?”.
Ma questo non è il punto di partenza di un più consapevole comporta-
mento morale, bensì un segnale della sua imminente scomparsa. Proprio
come tutta la immoralità iniziò con la domanda di Caino: «sono forse il
guardiano di mio fratello?». Allo stesso modo oggi l’impresa si chiede per-
ché debba prendersi cura del consumatore, tanto più che questi, spesso, di-
mostra di non saper badare a se stesso.
Ma siamo fuori strada; la moralità dovrebbe essere nient’altro che una
manifestazione di umanità proveniente da stimoli innati. La moralità non
dovrebbe servire ad alcuno scopo; non essere guidata da alcune aspettative
di profitto, comfort, gloria o autoaccrescimento. Insomma negli atti morali
il secondo fine andrebbe escluso...
Mi rendo conto che fin quando sarà la finanza a dirigere l’orchestra (con
le implacabili pagelle trimestrali, con il soverchiante interesse degli stockhol-
ders ecc.) è difficile immaginare un bisogno di moralità che provenga dalle
coscienze. Ed anzi forse già l’espressione “bisogno di moralità” è già di per
sé un nuovo ossimoro perché qualunque cosa risponda un bisogno è qualcosa
di diverso dalla moralità.
L’esigenza etica, insomma, dovrebbe essere una espressione spontanea
che emana in capo alle imprese dal fatto stesso di essere sul mercato (vorrei
dire di essere vivi e condividere il pianeta con altre persone). Insomma l’etica
o c’è o non c’è: forse è il caso di rispolverare don Abbondio: «il coraggio
uno non se lo può dare…». Per l’etica vale lo stesso…
Dovrebbe rimanere sottintesa anche per un altro motivo: poiché ubbidire
all’esigenza etica può facilmente trasformarsi (ed essere deformato) in moti-
vo di comportamento! L’esigenza etica dà il meglio di sé quando è dimenti-
cata e non pensata… il suo radicalismo consiste nel suo essere superflua.
Il mondo di oggi sembra cospirare contro la fiducia: non è mia intenzione
aggravare questa tendenza. Ma per accrescere la fiducia si rende necessario
iniettare nel mercato massicce dosi di verità.
Non vorrei dire di “amore”, anche se poi, il confine tra amore e verità è la-
bile o forse non esiste. Non è un caso se l’Enciclica dalla quale abbiamo preso
le mosse sia proprio focalizzata su questi due elementi (Caritas in veritate).
La verità, vedete, ecco forse questo può essere l’approdo. La moderna
società manca soprattutto di verità: realtà e finzione sono troppo spesso pe-

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ricolosamente fungibili, il binomio giunge a fondersi nell’espressione reali-
ty-show che si adatta al quotidiano del quale siamo testimoni (delitti che
sembrano fiction, finzione scenica che sembra realtà, in un delirio crescen-
te). E quando qualcuno prova a schivare il paradosso, cerca giustificazioni
nel definire l’attuale come una società “mediatica”, giunge ad una nuova
contraddizione in termini. A molti sfugge evidentemente l’inconciliabilità
tra realtà e finzione.
Come qualcuno di voi ricorderà mi sono ritrovato nel bel mezzo di uno
show televisivo, chiamato per certificare che tutto fosse vero… Quando ho
scoperto che così non era ed ho svelato la verità all’azienda televisiva, co-
storo sembravano non capire: mi ripetevano ossessivamente “è spettacolo”,
“è intrattenimento”. Di fronte alla mia obiezione che uno spettacolo non
aveva bisogno di mettere in palio soldi veri, di far certificare il tutto da un
notaio in carne ed ossa, di trovare partecipanti nella vita reale, mi sono vi-
sto rivolgere uno sguardo compassionevole. “Suvvia, avvocato: tutti sanno
che il mago non sega la donna a metà”.
È questo il punto. Prendo a prestito nuovamente le parole del Pontefice
pronunciate poco più di un mese fa a conclusione del convegno per i gior-
nalisti cattolici: «Oggi nella comunicazione ha un peso sempre maggiore il
mondo dell’immagine con lo sviluppo di sempre nuove tecnologie, ma se
da una parte tutto ciò comporta indubbi aspetti positivi, dall’altra
l’immagine può anche diventare indipendente dal reale, può dare vita ad un
mondo virtuale con varie conseguenze la prima delle quali è il rischio
dell’indifferenza nei confronti del vero. Infatti le nuove tecnologie possono
rendere interscambiabili il vero e il falso, possono indurre a confondere il
reale con il virtuale. Questi aspetti suonano come campanello d’allarme,
invitano a considerare il pericolo che il virtuale allontani dalla realtà e non
stimoli alla ricerca del vero, della verità».
Ecco, sembra proprio non esistere un’area nella quale non siamo costret-
ti a sorbirci dosi industriali di insincerità. Certo, non voglio paragonare la
disinvoltura con la quale fingono i protagonisti delle cronache giudiziarie a
certa comunicazione di impresa che simula efficienza fino al giorno prima
di dichiarare fallimento… Ma insomma si avverte una sorta di globalizza-
zione della finzione nella quale dobbiamo tutti sottometterci alla logica del
grande set.

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Sarebbe un grande show se non fosse che ci priva di un diritto fonda-
mentale: il diritto alla libertà di coscienza che può esistere solo in presenza
della verità.
Ma come dicevo voglio scacciare lo spettro del pessimismo. Del resto è
la stessa Enciclica ad offrirci una lettura fiduciosa dell’attuale crisi econo-
mica considerata come una occasione.
Il protagonista dello show è stato per lungo tempo l’avidità, si è parlato
di greed market (fa rima con free market, ma ne è la caricatura…). Ricorda-
te il film Wall street (1987): greed is good, greed is right! e la concezione
dell’impresa come merce (che appartiene agli azionisti piuttosto che servire
gli stakeholders). In un mercato in funzione delle persone, invece,
l’impresa è strumento e non fine ultimo, altrimenti il profitto si trasforma in
bottino con buona pace dell’etica.
Se il cittadino è materia prima di ogni democrazia, il consumatore deve
essere materia prima del mercato. Il primo deve interpretare con rigore il
suo ruolo quando vota, l’altro quando acquista. Questi sono i momenti in
cui non solo si giudica o si condanna, ma anche quelli in cui si assolve, anzi
si promuove la giusta politica e il giusto mercato. Sono gli unici momenti
in cui l’individuo può davvero incidere sulla collettività.
Sentiamo spesso ripetere che in questi frangenti ciascuno di noi è chia-
mato a votare con il portafoglio, anche se non amo questa espressione. Pre-
ferirei dire che il consumatore è chiamato a votare con la testa, con co-
scienza. Ma per assolvere a questo ruolo è necessario avere fiducia. E per
aver fiducia è necessaria la verità!
A proposito: qualche giorno fa cominciano a cercarmi alcuni giornalisti;
erano tutti interessati a raccogliere la mia opinione sulla notizia Istat ri-
guardante la crescita della fiducia dei cittadini. A differenza di qualche mio
collega che su quegli stessi temi ha voluto sostituire la propria visione delle
cose al punto di vista del consumatore, io ho preferito prenderne atto: certo
quei dati avevano sorpreso anche me e sarebbe stato facile giudicarli alla
luce di un fraintendimento (o più maliziosamente). Forse però meritano una
lettura più profonda: una certa assuefazione alle difficoltà può senz’altro
spiegare la minor sofferenza, o quanto meno un minor indice di sofferenza
percepita, ma forse è il caso di andare un po’ più a fondo.
Questa tendenza alla superficialità è stata definita in vario modo: secon-
do alcuni un atteggiamento blasé che consiste nell’attutimento della sensi-
bilità rispetto alla differenza fra le cose. Il significato del valore delle cose

20
sono avvertiti come irrilevanti: al blasé tutto pare di un colore uniforme,
grigio, opaco, incapace di suscitare preferenze; le cose galleggiano con lo
stesso peso specifico dell’inarrestabile corrente del denaro (George Sim-
mel, Le metropoli e la vita dello spirito).
Altri preferiscono parlare di un atteggiamento malinconico, inteso non
tanto come uno stato di indecisione, quanto un vero proprio sciogliersi dal
legame con tutto ciò che è specifico; essere malinconici vuol dire avvertire
l’infinita esistenza dei legami, ma non essere collegato a nulla. Insomma la
malinconia si riferisce ad una forma senza contenuto, al rifiuto di scegliere
solo questo o quello. E non è poco, anzi è la definitiva afflizione del con-
sumatore, lui, homo eligens, cioè l’uomo che sceglie, muore in questa tran-
sitorietà innata, irrilevanza forzata delle cose che cavalcano, con la stessa
gravità specifica, l’onda delle stimolazioni; irrilevanza che si ripercuote sul
comportamento dei consumatori sotto forma di una indiscriminata, onnivo-
ra ghiottoneria.
Ma noto segnali di risveglio che desumo dai dati di una recente indagine
che abbiamo richiesto come Consumers’ Forum ad IPSOS: alla domanda:
“secondo lei cosa deve garantire un’impresa per essere considerata etica?”:
“rispetto dei lavoratori” e “rispetto dell’ambiente” sono valori in calo ri-
spetto a: “trasparenza verso il consumatore”, “qualità dei prodotti”, “rispet-
to delle leggi” e “prezzo equo”.
Questa posso indicare come ricetta per un mercato più etico: un consu-
matore che sappia aggregarsi e fare gruppo per dire la sua, con iniziative di
protesta e di proposta.
Penso all’uso che si può fare della rete Internet, ma anche all’azionariato
responsabile che consente a gruppi di cittadini di partecipare alle assemblee
delle imprese. Certo si tratta di impegni di una certa portata e di sfide che,
nel contesto italiano, richiedono una buona dose di coraggio.
Ho sempre pensato che fosse difficile immaginare l’uno accanto
all’altro questi concetti: il coraggio dell’etica … ma le asperità nelle quali è
costretto chi lavora ogni giorno a metà strada tra volontariato e non profit
spingono la riflessione, scusate non riesco a trattenerlo, ai tagli delle risorse
imposti al mondo del non profit: un anno fa hanno cominciato dalle provvi-
denze per l’editoria, poi è stata la volta delle agevolazioni postali, in questi
giorni si discute dell’abbattimento dei fondi del 5 per mille!
Ma torniamo all’etica. La vera sfida dell’etica consiste in ultima analisi
in questo: nell’essere veri, nell’essere sinceri (e vale, voglio ricordarlo an-

21
cora una volta, per il mondo professionale, per chi acquista beni e servizi,
ma anche per noi che rappresentiamo i consumatori).
Chi è in grado di resistere nell’attuale contesto? Pure intuendo ciascuno
che la cosa si debba fare… Ma qui è dove ci troviamo e al momento non ab-
biamo nessun altro posto disponibile (hic Rhodus, hic salta). Dunque è nostro
compito rimboccarci le maniche, pur consapevoli di quanto sia difficile.
Forse le sfide con cui si trovano alle prese gli attori della moderna socie-
tà possono essere riassunte con le parole che Italo Calvino fa pronunciare a
Marco Polo nelle Città invisibili: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che
sarà; se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i gior-
ni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il
primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al
punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e ap-
prendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa in mezzo
all’inferno non è inferno e farlo durare e dargli spazio».
Mi rivolgo alle persone che producono, vendono beni o servizi, alle per-
sone che acquistano o consumano. A chi ha la responsabilità politica, a chi,
come la nostra organizzazione, parla ai consumatori: essere migliori è pos-
sibile, ma dobbiamo esserlo.
E fin da subito!

22
VERSO UN CONSUMATORE
SOCIALMENTE RESPONSABILE

di Stefano Zamagni

Ho accolto con grande piacere e riconoscenza l’invito che mi è stato ri-


volto di partecipare a questo seminario nel ricordo di Vincenzo Dona, un
personaggio che certamente non merita l’oblio dunque bene fa l’Unione
Nazionale Consumatori a ravvivarne la memoria anno dopo anno.
Entro nel merito dell’argomento che intendo svolgere focalizzando
l’attenzione su una delle res novae che caratterizzano questa fase di transi-
zione e cioè il passaggio dalla società dei produttori (ovvero la società dei
consumi) alla società dei consumatori. Non si tratta di un gioco di parole: la
società dei consumi è una società nella quale il consumo è mezzo mentre il
fine è un altro (può essere l’accumulazione, il profitto, la potenza o altro);
la società dei consumatori è invece una società nella quale il consumo di-
venta il fine e quindi è la produzione ad essere mezzo.
La società industriale che abbiamo lasciato alle spalle da non molto tempo
è sostanzialmente una società dei produttori, una società cioè nella quale il
consumo è visto come mezzo per un fine che è dato dall’accumulazione del
capitale. La produzione guida la danza del mercato. Ricordo la celebre legge
dell’economista francese Giambattista Say secondo il quale è l’offerta a crea-
re la domanda; dunque secondo Say tutto ciò che occorre dire sia sotto il pro-
filo della disciplina economica sia sotto il profilo dell’etica va riferito alla
produzione. È anche per questa ragione se è solo in questi ultimi tempi che si
è cominciato a parlare di responsabilità sociale del consumatore. Il consuma-
tore è sempre stato visto, fino a tempi recenti, come un soggetto passivo per-
ché il gioco economico era guidato dalla produzione.
Ricordiamo tutti la celebre battuta di Henry Ford agli inizi del Novecen-


Professore Ordinario di Economia Politica all’Alma Mater Studiorum di Bologna.
23
to: «I miei clienti possono domandare la macchina del colore che desidera-
no, purché sia nero». È una battuta celebre che ci aiuta a capire perché la
società dei produttori non ammette la varietà: infatti la varietà è nemica del-
la produzione di massa, delle economie di scala perché comporta che la
produzione debba essere differenziata. Ne consegue che il consumatore de-
ve accettare l’assenza di varietà – e quindi la standardizzazione del prodotto
– per beneficiare di più bassi prezzi dovuti a più bassi costi.
Ovviamente si sono udite voci dissonanti; una delle prime fu quella del
celebre economista inglese Robert Malthus dell’inizio dell’Ottocento il quale
aveva avvertito della pericolosità di questa concezione. Ma i tempi non erano
maturi perché le orecchie potessero ascoltare ammonimenti del genere.
Un passo avanti lo compie alcuni decenni dopo il grande economista e filo-
sofo inglese John Stuart Mill il quale dà un vero contributo di svolta sul tema
che stiamo trattando: è infatti a lui che si deve l’invenzione dell’espressione
“sovranità del consumatore” con la quale intendeva significare che sarebbe
giunto il giorno – non molto lontano (e in questo si era sbagliato perché abbia-
mo dovuto aspettare oltre un secolo) – in cui sarebbero stati i consumatori a
guidare la danza sul mercato. Sarebbero state cioè le scelte libere e informate
dei consumatori a indicare ai produttori non solo i modi di produzione ma an-
che la varietà del paniere di beni che vengono sottoposti alla loro attenzione.
Anche allora, tuttavia, i tempi non erano maturi: egli scrive queste cose nel suo
Principies of political economy del 1848, e poi nel saggio On liberty del 1859.
Un ulteriore passo avanti sarà fatto nel 1933, anno per questo aspetto
magico in quanto contemporaneamente vengono pubblicati due libri, uno in
Inghilterra e l’altro negli Stati Uniti, a firma il primo di Joan Robinson,
economista di Cambridge, il secondo di Edwin Chamberlin, economista
statunitense, i quali per la prima volta introducono l’idea della differenzia-
zione del prodotto e del servizio, ossia l’idea della varietà. Idea centrale di
tali Autori è che se si vuole che le economie di mercato possano evolvere
occorre convincere i produttori (siano essi produttori di beni o di servizi) a
differenziare perché i consumatori amano la differenziazione, odiano cioè
la omogeneizzazione o standardizzazione.
Si arriva così al mese di agosto del 1962, anno nel quale il Presidente
americano John Fitzgerald Kennedy di fronte al Congresso americano pro-
nuncia un discorso che lancia ufficialmente il movimento consumerista –
ma è bene ricordare che Vincenzo Dona l’aveva anticipato ben sei anni
prima. L’idea di base di questo discorso che dà origine al movimento con-

24
sumerista è che è necessario pensare al consumatore non più come un clien-
te ma come un cittadino; è così che si realizza il passaggio (che in Italia ar-
riverà alcuni decenni dopo a livello di diffusione popolare) dal concetto di
consumatore/cliente (un soggetto che usa il proprio potere di acquisto per
comprare) a quello di consumatore/cittadino (un soggetto che usa la sua li-
bertà di scelta e il suo potere di acquisto per mandare messaggi sia alla pro-
duzione sia alla politica, in pratica a chi governa la decisione politica).
Questa idea all’inizio fu sottovalutata, anche se il discorso del Presidente
Kennedy era stato preceduto dagli interventi dell’altro Vincenzo Dona ame-
ricano, l’avvocato Ralph Nader, che agli inizi degli anni Cinquanta aveva
già intrapreso quell’azione che poi lo rese celebre.
Arrivando ai nostri tempi, ci troviamo di fronte all’alternativa di sceglie-
re (e questa non può che essere una scelta in primo luogo etica) tra due ver-
sioni del nuovo modello della società dei consumatori in sostituzione della
società dei consumi.
La prima versione della società dei consumatori si può rendere con
l’espressione “consumare di più, pagare di meno”: è lo slogan che è stato re-
so popolare dalla società low cost. Il filosofo francese Gilles Lipovetsky ha
pubblicato un libro nel quale ha coniato il termine di “turbo consumatore”.
Secondo Lipovetsky quella low cost è una società nella quale l’obiettivo è
abbassare i costi di produzione per abbassare i prezzi e quindi aumentare a
dismisura i livelli e i volumi di consumo.
Il limite fondamentale di questa prima versione della società dei consu-
matori è che essa tende a creare alcune contraddizioni di tipo pragmatico in
ognuno di noi: infatti, tende a creare soggetti schizofrenici nel senso lettera-
le del termine. La società low cost è possibile soltanto se, per abbassare i
costi di produzione dei beni o servizi si abbassano altri elementi di costo
come, ad esempio, le remunerazioni salariali o le protezioni in ambito civi-
le, in ambito di welfare ecc. Questo andamento sta producendo (e per for-
tuna in questi ultimi tempi il processo si è arrestato) una sorta di conflitto
intrapersonale perché ciascuno di noi è, al tempo stesso, lavoratore e con-
sumatore: in quanto lavoratore ho interesse a ottenere una remunerazione
adeguata e coperture nei vari servizi di welfare, ma in quanto consumatore
ho interesse di pagare sempre meno i beni e servizi di cui faccio domanda.
È una sorta di conflitto che può essere ben spiegato con un esempio. Alcuni
anni fa fu intentata una causa davanti all’Antitrust americana nei confronti del-
la Walmart, una multinazionale americana che può vantare più di due milioni

25
di dipendenti. Alla Commissione che lo aveva convocato, l’amministratore de-
legato della Walmart rispose più o meno in questi termini: «È vero che pa-
ghiamo i nostri dipendenti circa il 40% in meno rispetto alla media e non ga-
rantiamo alcune tutele ai nostri lavoratori, però così facendo riusciamo a ven-
dere i prodotti (soprattutto quelli alimentari) a un prezzo che è del 35% inferio-
re a quello della concorrenza, quindi sacrifichiamo il benessere dei nostri due
milioni di dipendenti per portare beneficio a qualcosa come duecento milioni
di clienti che, appartenendo alle fasce economiche basse della popolazione, pa-
gando il 35% in meno riescono a mantenere un certo standard di vita».
Dunque, il modello low cost della società dei consumatori porta a quelli
che i filosofi chiamano “dilemmi etici”: per raggiungere un elemento di posi-
tività su un fronte si distruggono diritti acquisiti o conquiste di civiltà su un
altro fronte.
Ritengo pertanto che la versione low cost della società dei consumatori sia
o da avversare o comunque da contenere in quanto tende a creare conflitti in-
trapersonali assai pericolosi. Il giovane che acquista le scarpe da ginnastica a
un prezzo bassissimo perché vengono prodotte violando le leggi sul lavoro
minorile è la stessa persona che poi, attraverso i network delle organizzazioni
internazionali dei consumatori, protesta contro lo sfruttamento dello stesso
lavoro minorile. Questo crea, appunto, quell’elemento di pericolosità estrema
dato dall’esistenza di società di persone schizofreniche.
L’economista americana Juliet Schor in un suo recente libro intitolato
Born to buy mette in evidenza il fenomeno del “guilty money” (il denaro
della colpa). A suo avviso la società low cost sta creando una nuova tipolo-
gia di soggetti che comprano regali in quantità crescenti per farsi perdonare
la colpa di non dedicare quelle attenzioni che soprattutto i familiari (ma non
solo) si attendono da loro.
Ecco perché non mi sembra che il passaggio dalla società dei consumi
alla società dei consumatori, se interpretata secondo la versione della socie-
tà low cost, costituisca un grande passo in avanti.
La mia preferenza va verso l’altra versione della società dei consumatori,
il cui slogan potrebbe essere il seguente: «consumare meglio per essere più
felici».
L’attività di consumo possiede due dimensioni: la dimensione acquisiti-
va e la dimensione espressiva. La prima corrisponde alle tendenze naturali
– e per ciò stesso animalesche – che ci portano a comprare per soddisfare
quelli che una volta si chiamavano i bisogni fondamentali. La dimensione

26
acquisitiva non è tipica dell’umano: l’animale va alla ricerca di cibo per
soddisfare la sua sensazione di fame.
Con la dimensione espressiva, invece, ognuno di noi tende ad esprimere
la propria identità. Le identità sono multiple: a titolo esemplificativo po-
tremmo citare l’identità culturale, l’identità di genere (maschile, femminile),
le identità religiose. L’esperienza storica ci insegna che, una volta arrivati al-
lo stadio in cui i bisogni fondamentali sono soddisfatti, ognuno di noi ha bi-
sogno di esprimere la propria identità, perché solo attraverso essa possiamo
essere riconosciuti. Il grande filosofo Hegel ha scritto pagine notevoli sul bi-
sogno di riconoscimento, arrivando addirittura a ritenere che, in certe situa-
zioni, il bisogno di riconoscimento è persino più importante del bisogno natu-
rale volto a soddisfare esigenze fondamentali. Anche Primo Levi nel suo ce-
lebre libro Se questo è un uomo scrive pagine molto pertinenti a questo ri-
guardo: in quelle condizioni di prigionia, la naturalità dei bisogni scompare,
ma rimane il bisogno di essere riconosciuti. E noi sappiamo che coloro i quali
riuscirono a sopravvivere ai campi di sterminio furono coloro che puntarono
tutto sulla dimensione espressiva della loro attività di consumo.
Ebbene, la società dei consumatori nella versione che privilegio è quella
che tende a tenere in mutuo bilanciamento le due dimensioni, sia quella ac-
quisitiva (che sarà sempre essenziale), sia quella espressiva.
Perché, allora, nelle società di oggi, soprattutto nei Paesi dell’occidente
avanzato, il marketing strategico punta tutto sulla dimensione acquisitiva e non
anche sulla dimensione espressiva? Perché così poca attenzione viene dedicata
alla dimensione espressiva, che è la dimensione più profonda in quanto per es-
sere felici abbiamo bisogno di essere riconosciuti? Secondo Aristotele per esse-
re felici bisogna essere almeno in due, mentre si può essere dei massimizzatori
di utilità alla maniera di Robinson Crusoe in perfetto isolamento. C’è in ciò
una precisa colpa della disciplina che professo, cioè dell’economia, che è quel-
la di far credere che utilità e felicità siano la stessa cosa: niente di più errato
perché l’utilità serve alla dimensione acquisitiva mentre la felicità è legata alla
dimensione espressiva e, dunque, per essere felici abbiamo bisogno di consu-
mare quella particolare categoria di beni che sono i beni relazionali.
Perché così poca attenzione viene riservata alla dimensione espressiva?
È una domanda che meriterebbe una grande riflessione. Probabilmente per
apprezzare la dimensione espressiva bisogna essere “educati” nel senso la-
tino del termine (educere) di saper tirar fuori dalla testa quello che è pro-
prio della propria identità. Ciò che oggi abbiamo è forse un eccesso di for-

27
mazione e una scarsità di educazione intesa nel senso appena descritto. Il
risultato è che le persone (e soprattutto i giovani) se non vengono educate
alla dimensione espressiva mai potranno chiedere che il lato della produ-
zione segua un impulso di questo tipo.
Questa è forse la ragione per cui, quando domando ai direttori di marke-
ting il motivo per cui nelle loro pubblicità si usano sempre certi messaggi,
mi rispondono: «Se usassimo i messaggi legati alla dimensione espressiva
nessuno li capirebbe e quindi sprecheremmo denaro». C’è del vero in que-
sto perché per trarre vantaggio dal consumo dei beni relazionali bisogna af-
finare la nostra sensibilità nel senso inteso da Adam Smith nella sua celebre
Theory of Moral Sentiments).
Diventa allora necessario affrontare il nodo educativo. A poco varrà attri-
buire la responsabilità agli uni o agli altri; il problema è che se non c’è uno
sforzo di civilizzazione del mercato e dell’attività economica che passa
all’interno del mercato, non ci sarà molto da aspettarsi: aumenteranno i volumi,
potranno aumentare il PIL, i dati dell’occupazione, ma sicuramente il bisogno
di felicità che ognuno di noi si porta dentro non potrà essere soddisfatto.
Vado alla conclusione ricordando un pensiero di Platone: «Il solco sarà
diritto se i due cavalli che trainano l’aratro marciano alla stessa velocità».
Se un cavallo corre più veloce dell’altro il solco piega a destra o a sinistra e
l’agricoltore ci informa che il raccolto non sarà buono. Questa è una meta-
fora che, applicata al nostro discorso, può essere interpretata nel modo se-
guente. I due cavalli sono la dimensione acquisitiva e la dimensione espres-
siva. Dobbiamo pertanto trovare il modo – che certamente esiste, e in que-
sto l’Unione Nazionale Consumatori sta giocando un ruolo veramente im-
portante – di farle avanzare alla stessa velocità. L’alternativa è cadere in
quella versione di società dei consumatori che ho brevemente criticato.
Tutto questo sarà possibile solo se si tornerà a porre in equilibrio le due
forme di pensiero: il pensiero calcolante che è certamente necessario perché
ci aiuta a risolvere i problemi e il pensiero pensante che ci indica il senso,
la direzione di marcia. Per vari motivi negli ultimi decenni abbiamo enfa-
tizzato troppo il pensiero calcolante sguarnendo così il pensiero pensante, e
ora ne paghiamo le conseguenze. Per affermare la nuova società di consu-
matori e quindi soddisfare quel bisogno di felicità che alberga in ciascuno
di noi dovremo imparare ad equilibrare domanda di significato e domanda
di senso, vale a dire, rispettivamente, nomen sei e nomen intentionis come
la chiamavano i nostri saggi progenitori.

28
VERSO UN MERCATO
ALLEATO DEI CONSUMATORI

di Mario Monti

Sono onorato e lieto di trovarmi con voi in questa occasione. Ringrazio


molto l’Unione Nazionale Consumatori che ha organizzato e promosso
questa iniziativa importante in generale e in questo momento.
Cercherò di portare un contributo integrativo che muove soprattutto da
alcune fasi della mia attività durante le quali mi sono trovato ad affrontare
tematiche inerenti ai consumatori, sia nell’azione sia nel consiglio a quanti
devono agire.
Una prima occasione è stata quella dell’appartenenza alla Commissione
Romani che, alla fine degli anni Ottanta, scrisse il disegno di legge sulla
concorrenza e per l’istituzione dell’Autorità Garante della Concorrenza e
del Mercato. L’Italia si presentava in ritardo nella famiglia degli Stati
membri dell’Unione Europea con una legge antitrust e con un’Autorità an-
titrust ancora da realizzare. Il primo paese europeo a fare questo fu la Ger-
mania con il Bundescartel Amt che entrò in vigore il 1° gennaio 1958, stes-
sa data di entrata in opera della Commissione Europea.
Peraltro l’Italia non fu l’ultima tra gli Stati membri dell’Unione Europea
a darsi una legge antitrust e un’Autorità sulla concorrenza; ha recuperato
inoltre il tempo perduto perché l’Autorità della concorrenza, nelle successi-
ve presidenze e composizioni, ha presto acquistato e mantenuto nel tempo
(e spero possa ulteriormente crescere perché non esistono limiti in questa
materia) una credibilità e un prestigio internazionali, anche grazie a una di-
sposizione presente nella legge istitutiva dell’Autorità che prevede la possi-
bilità di fare segnalazioni anche pubbliche a Governo e Parlamento relati-


Presidente dell’Università Bocconi di Milano (testo non rivisto dal relatore).

29
vamente ad atti amministrativi o legislativi considerati lesivi della concor-
renza.
Il punto che vorrei sviluppare è soprattutto quello del rapporto tra inte-
resse del consumatore e architettura dell’economia; di questo la concorren-
za e la politica per la concorrenza costituiscono elemento centrale. Mi sono
occupato di tale rapporto prima come Commissario al mercato unico e poi
alla concorrenza in sede europea.
Sono convinto che la principale politica per il consumatore sia il mercato e
la concorrenza. Se si tratta di un mercato e di una concorrenza degni di questo
nome (non cioè fenomenologia della giungla, ma mercato e concorrenza in
un’economia di mercato con forti poteri pubblici e con un esercizio forte e in-
dipendente dell’enforcement), in questo sistema sono i principali strumenti di
tutela del consumatore anche se, paradossalmente, non sono pensati in modo
specifico per lui. Questa è la forza del consumatore, essendo il consumatore
stesso a determinare lo standard di funzionamento dell’economia.
Se esistono cartelli, accordi restrittivi della concorrenza, il consumatore
ha un danno immediato di cui non è consapevole finché il cartello non ven-
ga scoperto, fatto cessare, sanzionato: questa è un’attività tipica delle Auto-
rità nazionali di concorrenza e dell’Autorità europea della concorrenza
presso la Commissione Europea. Altrettanto avviene nel caso di abusi di
posizione dominante: ci sono danni per i consumatori e spesso l’abuso di
posizione dominante può prendere la forma insidiosa di un apparente bene-
ficio immediato per i consumatori, ma poi di penalizzazione per l’interesse
dei consumatori stessi nel più lungo periodo attraverso lo scoraggiamento
dell’innovazione. Questo fu uno degli argomenti che utilizzammo nella
Commissione Europea e che venne riconosciuto dalla Corte di giustizia eu-
ropea nel caso Microsoft di abuso di posizione dominante.
Così non c’è motivo di scoraggiare a priori le fusioni, anche se oggi c’è
una riconsiderazione critica della bontà della dimensione in quanto tale e i
discorsi sul “too big to fail” tornano con qualche amarezza retrospettiva ad
una stagione nella quale le Autorità di concorrenza a volte si trovavano a
disagio culturale – e in senso lato politico – perché frenavano talune gigan-
tesche fusioni. Non per prevenire il rischio di “too big to fail” bensì nella
convinzione che quelle particolari fusioni potessero recare pregiudizio al
consumatore.
Chi agisce per creare un mercato nazionale, europeo, un mercato inte-
grato e per creare e mantenere in esso un regime di concorrenza, tende a

30
seguire un criterio di “consumer welfare”, guardando essenzialmente
all’interesse dei consumatori. Negli ultimi tempi, a seguito della crisi finan-
ziaria ed economica, si è invece manifestata una sorta di soprassalto di un
criterio che in passato non era mai stato formulato e teorizzato e che po-
tremmo chiamare “producer welfare”, indicando con tale espressione che è
più importante mantenere in vita ciò che esiste che lavorare per il futuro
dell’economia e per la tutela di consumatori, lasciando “schumpeterania-
mente” che giochi la distruzione creatrice e che certe attività vengano di-
smesse a vantaggio di attività più innovative.
Per fortuna questa teorizzazione di una concorrenza a marcia indietro ha
avuto vita breve anche per merito delle nuove leadership delle Autorità anti-
trust statunitensi nominate dal Presidente Obama che sono tornate a un atteg-
giamento più vigoroso in materia, dopo anni in cui la regulatory capture si
era estesa anche alla politica antitrust (durante gli anni della presidenza Bush)
e non solo: per esempio, alla politica della Securities and Exchange Commis-
sion. Invece le nuove Autorità statunitensi hanno mostrato tra l’altro, dando
rilievo ad analisi storiche, come durante i primi anni della grande depressione
degli anni Trenta l’avere sospeso il funzionamento delle leggi antitrust – e
anzi l’avere promosso accordi tra imprese e cartelli per tentare di aiutarle –
contribuì molto a rendere la depressione più grave e perdurante. Qualche an-
no dopo l’Antitrust cambiò orientamento e gli storici dell’economia dicono
che questo contribuì all’uscita dalla grande depressione.
Penso pertanto che anche in periodo di crisi – che non siamo sicuri sva-
nirà presto – la tutela dei consumatori, soprattutto attraverso il grande stru-
mento del mercato e della politica per la concorrenza, non debba avere
complessi di inferiorità, non debba sentirsi fuori passo e debba anzi sentirsi
protagonista di una politica per l’unica, vera via di uscita dalla crisi che è
quella della crescita economica e dello sviluppo. Non è dunque il momento
per farsi prendere da tentazioni di arcaica conservazione di tutto ciò che
esiste; è invece il momento di ravvivare le tutele sociali della transizione,
ma la transizione tra attività decadenti e nuove attività va promossa più che
mai. In questo senso credo che la tutela del consumatore rispetto ai danni
subiti da chi viola le norme sulla concorrenza debba essere non solo mante-
nuta ma, anzi, accresciuta. Mi sono espresso diverse volte nel dibattito ita-
liano, in quello europeo, in quello di singoli Stati europei e soprattutto in
Francia, facendo parte della “Commissione Attali”, a favore dell’azione di
gruppo, della class action. Siamo condizionati giustamente da esempi

31
estremi e distorcenti, anche trasmessi da suggestive produzioni cinemato-
grafiche, della azione di classe esistente negli Stati Uniti, ma credo che
l’assunzione delle esperienze altrui non debba necessariamente essere acri-
tica. È perfettamente possibile avere un sistema di class action senza il ri-
sarcimento triplo rispetto al danno subìto e attento alle condizioni di am-
missibilità all’azione purché non diventi così restrittivo da consentire solo
teoricamente l’esercizio dell’iniziativa. In ogni contesto è molto difficile
introdurre questo nuovo strumento e la stessa Commissione Europea al suo
interno è presa da anime contrastanti.
Nel mio rapporto al Presidente Barroso ho introdotto questa proposta
perché la ritengo una componente importante per ottenere maggiore rispetto
del mercato anche perché, a differenza degli Stati Uniti, in Europa abbiamo
un sistema di tutela della concorrenza (e quindi dei consumatori, suo trami-
te) basato quasi esclusivamente sull’azione pubblica di enforcement da par-
te della Commissione Europea e delle Autorità nazionali antitrust. Questo
percorso è bene che continui con vigore e senza timidezze, ma è chiaro che
l’efficacia dello strumento sarebbe molto maggiore se anche l’azione priva-
ta di risarcimento danni da violazione della concorrenza potesse prendere
corso. Negli Stati Uniti si stima che circa il 90% delle azioni di tutela anti-
trust siano di questo tipo e solo il 10% in capo alle due Autorità federali
Ministero della giustizia e Federal Trade Commission.
Spero che l’Italia sappia con equilibrio procedere su questa strada e veda
sempre più i consumatori non come una categoria alla quale occorre prestare
attenzione e riguardo solo perché può essere – anche grazie al vigore di alcu-
ne loro associazioni benemerite – una categoria rumorosa e che può destare
disturbo nella vita del dibattito pubblico. Una tutela del consumatore bene
intesa è strumento fondamentale per quella apertura dell’economia italiana ad
un ragionevole vento di mercato e di concorrenza, vento che spira ancora
troppo poco e senza il quale sarà difficile che le vele dell’economia italiana si
gonfino abbastanza da generare quello sviluppo economico che è sempre più
indispensabile.

32
TAVOLA ROTONDA
ETICA DELLE IMPRESE E DEI CONSUMATORI


La tavola rotonda è stata moderata da Bruno Vespa.
Antonio Catricalà
Presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato

Il prof. Monti ha dato un quadro molto netto di come la concorrenza di


per sé tuteli i consumatori. In realtà questo concetto non è entrato ancora
nella cultura delle nostre famiglie e quindi i nostri cittadini sono più sensi-
bili a una tutela diretta dei loro diritti. In sostanza i cittadini esigono bollet-
te facilmente leggibili, esigono che la bolletta idrica corrisponda a quanto
hanno effettivamente consumato nell’ultimo trimestre, esigono che quando
riscontrano un difetto in un elettrodomestico o in altra apparecchiatura
nuovi li possano riportare al negoziante per averne la sostituzione. Non che
le imprese non si sforzino di essere il più competitive possibile in questo
senso, ma in loro non è ancora presente questa cultura: infatti il nodo è
quello dell’etica, non dell’obbligo giuridico.
Ho provato a fare entrare in alcune pronunce dell’Autorità il concetto di
etica come “obbligo giuridico” per le imprese: in altri termini, attraverso la
clausola generale della diligenza (per cui un’impresa deve improntare la
propria attività al massimo della correttezza nei confronti dei consumatori),
ho cercato di introdurre anche un profilo etico. Per il momento non ci sono
riuscito e questo è un limite alla mia azione. Ad esempio, avevamo avviato
una procedura particolarmente complessa nei confronti del settore bancario
sull’applicazione che esso dava alla legge sulla trasportabilità gratuita dei
mutui: nel dettaglio, l’Autorità aveva assunto come principio ispiratore
dell’istruttoria (e poi della condanna di ventitré istituti bancari) il fatto che
questi non si fossero ispirati al miglior principio etico nei confronti dei con-
sumatori. Tra più soluzioni possibili non avevano infatti consigliato e indi-
rizzato il consumatore verso la scelta che gli avrebbe fatto spendere di me-
no, ossia quella della sola surroga anziché l’estinzione del precedente mu-
tuo, la cancellazione del mutuo esistente, l’iscrizione di una nuova ipoteca e
l’accensione di un altro mutuo; dunque, quattro operazioni costose contro
una sola operazione gratuita.
Questa tesi purtroppo non è passata perché il TAR e il Consiglio di Sta-
to hanno considerato che quando uscì la legge Bersani (che imponeva per la
prima volta il principio di gratuità del passaggio) non era chiaro quello che
dovessero fare le banche. Noi replicammo che, ad ogni modo, lo avrebbero
dovuto fare non in virtù di una legge ma in virtù di un principio generale di
correttezza.

35
Viceversa, abbiamo avuto una bella vittoria con riferimento alle garanzie
che devono offrire le grandi catene di distribuzione dell’elettronica: da queste
abbiamo ottenuto impegni a cambiare immediatamente il prodotto difettoso o
a ripararlo dando tempi certi. Non tutti i gruppi hanno aderito, ma nei con-
fronti di coloro che non lo hanno fatto, forti della precedente vittoria sul pia-
no consensuale, stiamo adesso agendo con procedure sanzionatorie.
Quindi penso che effettivamente la tutela del consumatore in Italia sia
ancora legata non a convinzioni giuridiche, ma a principi culturali ed etici
che devono entrare nelle famiglie, nelle scuole, nelle università e nelle stes-
se imprese. È compito dell’Antitrust divulgare questa nuova cultura anche a
costo di perdere qualche battaglia.
Bisogna poi analizzare quelli che sono gli aspetti strettamente penalistici
dell’attività imprenditoriale dei quali ci dirà forse Raffaele Guariniello. Il
semplice illecito antitrust è ritenuto un reato gravissimo negli Stati Uniti
d’America e molto meno grave in Italia in quanto è considerato illecito
amministrativo.
Pertanto, penso che sia corretto mantenere la separatezza degli interventi
nel sistema italiano ed europeo anche se, per esempio, l’Inghilterra segue il
sistema statunitense.
In Italia è importante che le Autorità rinforzino la loro condizione di
neutralità rispetto ai regolati e al Governo; è dunque essenziale che prenda-
no coscienza di avere un ruolo proprio tipico e diverso da quello degli altri
poteri, compreso quello giudiziario. Non è cosa semplice perché in Italia le
leggi sono nate quasi tutte a favore della parte forte del mercato, a iniziare
dal Codice civile del 1942 che è frutto della fusione del Codice civile del
1865 e del Codice di commercio del 1882 (cosiddetta lex mercatoria); con
il Codice del 1942 si volle dare certezza agli imprenditori che i traffici era-
no certi e che i loro crediti sarebbero stati soddisfatti. Questo poteva anche
essere giusto, però non fu fatta una differenza tra il consumatore e il profes-
sionista, differenza che invece il Codice civile tedesco (BGB) fa propria nel
I Libro per dimostrare la presenza di un contraente forte e di uno debole.
Per questo da noi hanno avuto grande successo e grande merito le associa-
zioni dei consumatori: esse infatti hanno portato avanti la tutela delle parti
deboli in un clima ostile non solo culturalmente ma anche dal punto di vista
legislativo.

36
Il nostro Codice del consumo è del 2005 e non è composto da norme
endogene bensì da norme che abbiamo mutuato dalle direttive comunitarie,
quindi in qualche modo imposte.
Compito delle Autorità è far sì che queste norme che vengono dall’estero
entrino a far parte della nostra cultura: della cultura dei giudici, della cultura
delle imprese, della cultura delle famiglie. Perché solo quando avremo assi-
milato l’idea che il consumatore deve avere più diritti in quanto parte debole,
che deve essere maggiormente informato perché meno preparato, avremo
realizzato quella parità sancita nell’art. 3 della nostra Costituzione.

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Giuseppe Di Taranto
Professore Ordinario di Storia economica alla LUISS Guido Carli

Il rapporto tra crisi economica e crisi dei valori è certamente molto stret-
to. Ritengo però che avremmo dovuto aggiungere nel titolo di questo inte-
ressante incontro anche “etica delle istituzioni”.
Quando siamo consumatori siamo anche percettori di reddito, e se il no-
stro reddito disponibile, a causa della crisi e, voglio sottolinearlo, soprattut-
to a partire dall’introduzione della moneta unica, è fortemente diminuito in
termini di potere di acquisto è perché molte imprese hanno considerato
l’etica come una nuova forma di marketing. Se esaminiamo alcuni dati rela-
tivi all’economia reale, constatiamo che le prime 100 multinazionali hanno
un fatturato maggiore della somma del PIL di tutti i paesi del mondo, tran-
ne dei primi nove.
Perché parlo di etica delle istituzioni? Perché la crisi che oggi sta attra-
versando l’Unione monetaria europea è anche la risultante dell’assenza di
valori. Basti pensare che all’atto della convergenza del 1997, fondamentale
per la creazione dell’euro, i dati sui singoli deficit forniti dai diversi paesi –
secondo un importante studio dell’OCSE – erano verosimili ma non veri,
perché fondati su paradigmi di finanza creativa. Proprio gli anni Novanta
del Novecento, inoltre, dopo la caduta del Muro di Berlino e l’affermazione
del Washington Consensus, hanno permesso la creazione di un mercato nel
quale l’unica regola è non avere regole e dove la sovranità nazionale è stata
sostituita dalla sovranazionalità del potere economico. Ciò ha comportato
che dal 2002 al 2007 le prime 50 imprese quotate in borsa hanno aumentato
di oltre sei volte i loro profitti; di contro, il potere di acquisto dei consuma-
tori a reddito fisso (perché l’etica implica che ci sia anche un potere di ac-
quisto minimo a tutela della dignità umana e della relativa inclusione socia-
le) è diminuito di 2.000 euro.
Prima Massimiliano Dona citava, molto opportunamente, l’enciclica Ca-
ritas in veritate; oggi i processi di delocalizzazione hanno fatto sì che le im-
prese utilizzino la manodopera in aree dove i costi del lavoro sono 30 volte
più bassi, ma i profitti che ricavano quando vendono nei paesi occidentali
non sono mai stati così elevati. Il Papa ci ha ricordato che le politiche di ou-
tsourcing devono portare vantaggi anche agli Stati dove si delocalizza, for-
mando capitale umano finalizzato allo sviluppo locale. C’è un dato, a mio
avviso, molto interessante: nel 2006 le prime 50 imprese quotate in borsa che

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hanno esternalizzato fuori dal nostro paese alcuni processi produttivi hanno
registrato 150 addetti all’estero contro 100 in Italia. Forse questa è, a monte,
l’etica dei consumatori, sempre di meno e sempre più poveri.
Il problema non è il profitto in sé, essendo esso utilissimo per tutti; il pro-
blema semmai è come fare profitto. Ad esempio, con riferimento ai derivati
bancari, spesso si faceva sottoscrivere a chi doveva scommettere in derivati
una dichiarazione di essere esperto di finanza strutturata. Oggi questa pratica
è stata abolita, come ben sa il dott. Catricalà, ma pendono tuttora centinaia di
cause civili sui derivati stessi. Dunque, il problema non è il profitto, necessa-
rio anche agli investimenti per mantenere adeguati livelli di competitività, né
i processi di delocalizzazione, senza i quali si esce dal mercato, ma non si
deve confondere l’etica dei valori con l’economia del profitto.
Da economista poi vorrei fare due osservazioni. Per quanto riguarda il
consumatore-lavoratore è stato calcolato che dall’inizio della globalizza-
zione la manodopera è aumentata nel mondo di quasi 800 milioni di unità,
ma la partecipazione dei salari al reddito è diminuita di circa dieci punti.
Parlando di etica delle istituzioni notiamo poi che ultimamente in Italia so-
no stati emanati molti importanti provvedimenti che hanno aumentato il ri-
spetto nei confronti del nostro paese, uno di questi è l’essere riusciti a cam-
biare una regola europea che mancava di etica.
Con il nuovo patto di stabilità, infatti, si dovrà considerare anche la ric-
chezza privata delle famiglie, ma allora perché a tutt’oggi si è sempre di-
scusso solo del debito pubblico? Abbiamo sbagliato. L’Unione Europea ha
modificato il patto di stabilità per la terza volta: se questa regola fosse stata
inserita dal primo momento, forse non saremmo considerati tra i “pigs”,
termine assai offensivo per le tradizioni culturali del nostro come degli altri
paesi, ma che soprattutto offende l’area più ricca della UE per averlo conia-
to. Sono convinto che l’Unione Europea debba cambiare in materia di etica
delle leggi e dei regolamenti; l’Italia è sulla buona strada, perché ormai fa
parte dei partner che contano. Non c’è contraddittorio con le banche: il si-
stema italiano degli intermediari finanziari ha sempre funzionato bene e tut-
tavia non possiamo non tenere in considerazione che il suo comportamento
debba valutare il consumatore non come immagine retorica dell’etica ma
come valore imprescindibile dell’economia.

39
Piero Gnudi
Presidente di Enel Spa

Il processo di globalizzazione tanto criticato finora ha portato anche


all’uscita di milioni di persone dalla soglia della miseria. Certamente per
noi ha comportato qualche sacrificio, ma se fermiamo questo cammino mi-
lioni di persone ricadranno nella povertà. Mi domando allora se questo sa-
rebbe etico.
Credo che il vero problema dei prossimi anni sarà l’avere di fronte due
obiettivi da centrare: far sì che i nostri paesi non impoveriscano (ma pur-
troppo impoveriranno) e allo stesso tempo consentire che altri paesi escano
dalla soglia della povertà.
È un problema che attraversa tutte le aziende, noi compresi, perché an-
che le aziende energetiche hanno il problema di produrre energia elettrica
con modalità e a costi sostenibili affinché il progresso dei popoli dove pro-
duciamo energia elettrica sia ancora sostenibile. A questo problema stiamo
cercando di ovviare innanzi tutto con gli sviluppi tecnici e cercando di pro-
durre energia in modo diverso.
Bisogna dunque stare attenti quando si affrontano certi argomenti; la cri-
tica alla globalizzazione è una critica facile perché comunicare alla gente
che diventerà più povera, che dovrà fare maggiori sacrifici per il beneficio
di altri paesi, politicamente è difficile da spiegare. Ma eticamente no.
Nel campo energetico in Italia l’anno scorso abbiamo purtroppo avuto
circa il 7% di riduzione dei consumi di energia elettrica; quest’anno regi-
striamo una ripresa, sia pur lenta, e calcoliamo che per tornare ai livelli del
2008 dovremo aspettare il 2014 o il 2015. Questa forte riduzione del con-
sumo di energia elettrica è significativa soprattutto per l’Italia che si carat-
terizza per una forte presenza industriale.
Le aziende che esportano stanno reagendo molto bene, soprattutto quelle
che esportano in America e nel Sud-est asiatico. Va dato atto alla bravura
dei nostri piccoli e medi imprenditori che stanno inventandosi nuovi me-
stieri, stanno innovando, stanno entrando in nuovi mercati. Purtroppo, in-
vece, le aziende che lavorano solamente in Italia stanno vivendo appieno la
crisi e occorrerà tanto tempo per superarla.
Il vero problema in questi anni è stato il fatto che la globalizzazione ha fat-
to aumentare enormemente la quantità di produttori senza che, nel contempo,

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la piramide sociale si allargasse. Per tornare a una situazione di normalità bi-
sognerà allargare la platea di consumatori, ma sarà un processo lungo.
Ritengo che in Italia siamo comunque stati fortunati perché le famiglie ita-
liane sono storicamente propense al risparmio e dunque sono riuscite a regge-
re la crisi meglio delle famiglie di altri paesi. Quindi, tutto sommato, anche
dal punto di vista sociale l’Italia non ha sofferto tanto quanto gli altri paesi.
Inoltre, va dato atto al Governo e alle parti sociali di essere stati partico-
larmente responsabili, agli imprenditori di aver saputo fare bene il loro me-
stiere, alle banche di essere state vicine ai consumatori dimostrando una
grande disponibilità a trattare e a discutere con il cliente.
Bisogna però avere anche il coraggio di ammettere che purtroppo molte
aziende sono destinate a fallire perché da questa crisi usciremo con
un’Italia in cui alcuni settori spariranno. Ma questo è successo anche con le
crisi che il nostro paese ha avuto negli ultimi vent’anni, ed è stato giusto
così perché si trattava di settori a poco valore aggiunto.

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Raffaele Guariniello
Magistrato presso la Procura della Repubblica Tribunale di Torino

Spesso viene detto che bisogna contare sull’etica delle imprese. L’etica
delle imprese è indubbiamente importante. Ma – forse per mia deformazio-
ne professionale – ritengo altrettanto importante far osservare le leggi allo
scopo di far sviluppare l’etica delle imprese.
Le norme a tutela dei consumatori possono sicuramente essere migliora-
te, ma la maggior parte di esse possono già darci strumenti potenzialmente
efficaci. Tuttavia ciò che caratterizza il nostro paese è la difficoltà di appli-
care e far osservare queste leggi.
Le cause sono molte. Dal mio punto di vista una causa determinante è la
carenza dei controlli, soprattutto dei controlli affidati agli organi di vigilanza
e alla magistratura. Purtroppo i controlli degli organi di vigilanza sono insuf-
ficienti. Avremmo bisogno di una pubblica amministrazione rigenerata, che
sappia svolgere i propri compiti senza lasciarsi condizionare dagli interessi,
che renda inutile questo continuo ricorso alla magistratura (che in tal modo
viene a svolgere una funzione di supplenza), che sappia utilizzare le risorse di
cui dispone, risorse che purtroppo spesso non sono utilizzate e, anzi, addirit-
tura mortificate. A questo proposito basti pensare a quando affrontiamo i
processi in materia di tutela dei consumatori. Ebbene, scopriamo che spesso
gli ispettori svolgono attività di vigilanza e insieme di consulenza per le
aziende o che preannunciano le ispezioni eliminando l’effetto sorpresa.
Anche in magistratura, però, è necessario fare un esame di coscienza
perché anche nella sua azione vi sono gravi carenze.
Temo che tutte queste lacune, vuoi della pubblica amministrazione, vuoi
della magistratura, facciano comodo alle imprese non serie.
A proposito della magistratura, debbo dire che vi sono zone del nostro
paese in cui i processi a tutela dei consumatori non si svolgono affatto.
Le Procure della Repubblica in Italia sono tante, fra le quali alcune sono
grandi, ma altre sono così piccole da non riuscire a espletare in modo ade-
guato i propri compiti. Le Procure specializzate, poi, sono poche, e la tutela
del consumatore è una materia disciplinata da leggi anche molto complesse.
Vi sono inoltre zone in cui i processi si svolgono con una tale lentezza che
si arriva alla prescrizione del reato. Per ovviare a questo sarebbe necessario
incrementare le risorse economiche, ad esempio svolgendo sistematicamen-
te le udienze anche al pomeriggio.

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Conseguenza di tutto ciò è un devastante senso di impunità: tra le im-
prese si sviluppa l’idea deleteria che si possano violare le regole senza in-
correre in una effettiva responsabilità. Questo dobbiamo assolutamente cer-
care di evitarlo. Ma come? Inventando nuovi strumenti.
Troppe Procure si occupano in maniera dispersiva di questi temi e io
penso da tempo a una Procura nazionale a tutela della salute e dei consuma-
tori. In particolare, penso a un’organizzazione che non sia condizionata da-
gli interessi locali, un’organizzazione che abbia specializzazione, che sap-
pia affrontare i problemi in una visione globale; un’organizzazione che
sappia dare addirittura un respiro internazionale all’azione giudiziaria per-
ché spesso dobbiamo occuparci di prodotti che provengono dall’estero (e
quindi dobbiamo svolgere le indagini fuori dall’Italia).
A proposito di indagini internazionali, per poter acquisire prove all’estero,
è necessario agire con lo strumento della rogatoria. Nella realtà la rogatoria
comporta che la risposta arrivi dopo mesi, se non dopo anni. In alcuni casi,
poi, la risposta non arriva affatto. Ricordo che una volta ci occupammo di
prodotti provenienti dalla Cina, fabbricati in uno stabilimento condotto da un
uomo di etnia cinese ma creato da una multinazionale americana. Dovendo
noi procedere nei confronti di questo orientale, ci siamo permessi di chiedere
all’Autorità giudiziaria cinese di fare una cosa molto semplice, cioè notificare
all’interessato l’invito a dichiarare domicilio in Italia. Questo signore era nato
a Taiwan e in prima battuta ci fu risposto che Taiwan non esiste. Pertanto
nella nostra seconda richiesta all’Autorità abbiamo scritto che era nato in Ci-
na. La risposta è stata che non avrebbero notificato questo invito.
Mi sembra, insomma, che il crimine viaggi alla velocità della luce, la
giustizia con la diligenza.
Vi è sempre poi il rischio che il magistrato voglia risolvere i problemi
della società e, per cercare di risolverli, arrivi a forzare la realtà. Dobbiamo
invece renderci conto che il magistrato non potrà mai risolvere questi pro-
blemi. Però può dare una mano.
Le norme possono essere migliorate ma, non piacendomi il ruolo di ri-
formatore, mi sono abituato a lavorare con quelle esistenti. Quando si dice
che ci vogliono nuove norme intuisco che non si vogliono adottare quelle
esistenti: no, le norme ci sono, così come le sanzioni. Cominciamo a usare
queste e chiediamoci perché non sono adeguatamente utilizzate.
Il magistrato poi non può essere il difensore dell’etica. Il magistrato è
colui che deve applicare le norme approvate dal Parlamento. Bisogna che le

43
applichi e bisogna anche che sia messo in condizione di applicarle, ed è lì
che bisogna fare una seria riflessione.
Quando ho esposto la proposta di una Procura nazionale a tutela della
salute e dei consumatori, il segretario di una corrente della magistratura ha
detto che queste metodologie di indagini avrebbero dovuto essere condivise
da tutte le Procure, comprese quelle piccole; la mia replica è stata la se-
guente: questo certamente è auspicabile, ma in concreto non è fattibile.
Vogliamo realisticamente affrontare questo problema? Se non vogliamo
una Procura nazionale, inventiamoci altri strumenti, ma così come siamo
oggi non si può più andare avanti.

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Sebastiano Maffettone*
Professore Ordinario di Filosofia politica alla LUISS Guido Carli

Circa 35 anni fa a Napoli ebbi la fortuna di conoscere abbastanza bene


Andy Warhol. Egli diceva spesso che amava molto la mia città, cosa che non
poteva che lusingarmi ma della quale non riuscivo a capire il perché. Gli do-
mandai pertanto il motivo per cui un newyorkese come lui trovava Napoli
tanto agreeable; rispose con una parola: «Trash». Bene, in questi giorni ab-
biamo il trionfo della visione di Andy Warhol. Come spesso capita, i grandi
artisti paiono misteriosi e arcani ma capiscono prima degli altri!
L’interpretazione di Wahrol dell’etica oggi, dunque, è facile: l’immondizia,
il trash, è la rappresentazione visuale della mancanza di etica, mancanza di eti-
ca di una classe dirigente che, francamente, nella maggioranza dei casi ha mol-
te cose da farsi rimproverare; ma anche di un popolo che non reagisce, non si
organizza, non cerca di mandarla al diavolo. È dunque la congiunzione “top
down, bottom up” che rende il processo operativo.
Questo capita anche nelle cose di cui stiamo discutendo. L’impresa ha in-
teresse a tenere un comportamento etico altrimenti non durerebbe nel tempo.
Se la gente si accorgesse della mancanza di tale comportamento, avverrebbe
quello che io chiamo – sempre con un termine poco professorale – effetto di
“sputtanamento” che, nel lungo periodo, non giova prima al marketing e poi
all’impresa.
Anche il consumatore ha interesse ad agire eticamente perché altrimenti
non riuscirebbe a muovere il meccanismo economico con il suo potere di
acquistare sul mercato. Ora, c’è chi parla in proposito recentemente di voto
con il portafoglio e di “consumattori”: votare con il portafoglio significa
contribuire a decidere spostando i consumi. Si tratta di un’espressione che
non amo molto per una ragione precisa: in Italia la persona che ha il porta-
foglio più grande ha anche più voti. Ciononostante, quello che fa l’Unione
Nazionale Consumatori, cioè premere affinché i consumatori vadano in una
direzione che sia etica, è sostanzialmente giusto. E se lo avessero fatto i
miei concittadini a tempo debito, non ci sarebbe tutto quel trash.
Il punto è che in Italia c’è paura, sospetto, timore nei confronti dell’etica.
Dalla mia esperienza professionale trentennale ho imparato che la parola eti-

*
Registrazione di un intervento orale.

45
ca in Italia viene accuratamente evitata dalla maggior parte delle persone.
Credo che questo dipenda molto dal mistero che vi aleggia intorno.
Eppure, si tratta di qualcosa di assai semplice. La funzione essenziale
dell’etica nel mondo delle imprese e dei consumatori è far uscire
l’informazione. Le imprese devono chiarire eticamente qual è la loro missione,
cosa vogliono, quali sono i mezzi che impiegheranno e perché: solo così le si
potrà valutare nei loro comportamenti concreti rispetto a quello che avevano
dichiarato. Dal canto loro, i consumatori devono chiedere la fattura, devono
ritirare lo scontrino, devono protestare quando sono trattati male: tutto questo
non serve solo al singolo consumatore ma alla società tutta.
Le informazioni, quindi, devono a mio avviso uscire dal sistema delle
imprese e da quello dei consumatori per poterle valutare successivamente a
vantaggio di tutti.
L’etica ha pertanto un ruolo molto preciso e molto banale che non può
far paura a nessuno: trasmettere significati e valori dal mondo delle imprese
e dal mondo dei consumatori alla società civile.

46
Corrado Passera
Consigliere delegato di Intesa Sanpaolo

Intesa Sanpaolo cerca di impegnarsi al massimo per garantire la tutela


dei consumatori e, con nostra soddisfazione, anche l’Autorità antitrust ce lo
ha più volte riconosciuto. In tante occasioni siamo andati ben oltre quanto
previsto dalle norme pur di fare cose utili all’economia e alla società: se
pensiamo a come abbiamo affrontato la crisi insieme alle imprese e alle
famiglie (vedi le moratorie o altre operazioni che certamente andavano ben
oltre ciò che le regole prevedevano), sicuramente abbiamo fatto un grande
sforzo. Così, tutti insieme, dal punto di vista del credito siamo passati attra-
verso la crisi meglio di quanto accaduto in altri paesi.
Con riferimento al caso appena menzionato dal Presidente Catricalà, non
c’è dubbio che dobbiamo rispettare assolutamente al meglio la lettera e lo
spirito della legge. Consentitemi però di dire una cosa politically incorrect.
Nella legge sulla portabilità dei mutui esiste un meccanismo a mio parere
non etico che può rendere quasi impossibile concedere i mutui stessi. Questi
sono necessari perché costituiscono il meccanismo attraverso il quale molte
persone sono messe in condizione di acquistare la propria abitazione; eppure,
con una norma del tutto demagogica, si rischia di renderli praticamente im-
possibili. Se una banca è ben gestita, quando eroga un mutuo a tasso fisso, si
finanzia a sua volta per la durata del mutuo a tasso fisso. La nuova norma
sulla portabilità permette al cliente di rompere il contratto e di restituire il
mutuo senza penale. Ciò succede evidentemente nel caso in cui i tassi di
mercato sono calati: il cliente si libera dell’impegno mentre alla banca rimane
il finanziamento che a sua volta aveva sottoscritto per erogare il mutuo a tassi
che non possono più essere coperti da nuovi impieghi. In buona sostanza,
certe volte regole e norme che appaiono legittime possono essere in realtà
gravemente lesive dell’interesse che si propongono di tutelare. Pertanto, ri-
badito che la legge esiste e va rispettata in tutti i modi credo che occorra co-
munque prestare attenzione al fatto che alcune norme apparentemente giuste
possono andare contro l’obiettivo che si propongono.
Dal punto di vista del “fare banca” in questi anni abbiamo cercato di
dimostrare uno sforzo notevole a realizzare attività che vanno al di là del
puro rispetto delle regole; malgrado sia un momento molto complesso per
far quadrare i conti, anche quelli delle banche.

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Taluni intendono la società come contrapposizione di interessi indivi-
duali (una contrapposizione che si ritiene dogmaticamente in grado di crea-
re “automaticamente” il bene comune): tale presupposto sul quale erano ba-
sati ideologie, regole e controlli ha mostrato tutti i suoi limiti.
Ciò non toglie, naturalmente, che il mercato sia uno strumento formida-
bile da utilizzare in molti comparti dell’economia (anche se, appunto, non
in tutti, perché non tutto è mercato e non tutto è regolabile attraverso la di-
namica di domanda e offerta). Non intendo cioè dire che il mercato vada
messo da parte perché il mercato serve e, anzi, serve sempre di più perché,
come diceva il prof. Monti, la miglior tutela del cittadino-consumatore è la
concorrenza regolata nei settori dove la concorrenza è necessaria; ma dob-
biamo renderci conto che anche l’ultima crisi ha dimostrato i limiti di taluni
assunti che il prof. Monti giustamente criticava.
Bene comune, etica: tutte cose molto concrete che alcune banche – quelle
che io chiamo “dell’economia reale” –, cercano di perseguire insieme ai con-
sumatori nell’affrontare problemi anche difficilissimi. Faccio un esempio.
Quando arrivai in banca avevamo il problema dei corporate bonds: i cit-
tadini si erano trovati in mano titoli che avevano perso gran parte del loro
valore e che erano stati venduti secondo regole magari formalmente rispet-
tate, ma in taluni casi certamente non etiche. Insieme alle associazioni dei
consumatori abbiamo allora deciso di chiedere a tutti i nostri clienti che
avevano comprato quei titoli se avessero qualcosa da imputare al compor-
tamento della banca. Abbiamo istituito con le Associazioni una serie di
commissioni paritetiche consumatori-banca per coprire l’intera Italia e ab-
biamo affrontato circa 37.000 casi. Nel 99,9% di essi, abbiamo deciso
all’unanimità come risolverli. Dico questo per dimostrare come l’etica in
banca possa realizzarsi in taluni casi molto concretamente.
Cosa vuol dire per una grande banca come la nostra, che compete con
tante altre banche molto meno orientate all’economia reale e molto più alla
finanza, sentirsi impegnata nel bene comune?
Il rispetto delle regole, della legge è il punto iniziale: se non c’è questo,
è inutile parlare di etica. Ma oltre il rispetto delle regole c’è un’altra dimen-
sione? E per una banca quale può essere?
Ci siamo detti: se contribuire al bene comune vuol dire applicare bene il
proprio mestiere a qualcosa che ha una utilità che va oltre l’interesse
dell’azienda, noi come banca possiamo fare tanto. Poiché oggi in Italia e in
Europa la cosa più importante è creare lavoro attraverso la crescita (e giu-

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stamente il prof. Monti diceva che l’unica maniera per uscire dalla crisi è
rimettere in moto crescita sostenuta e sostenibile), abbiamo cercato di indi-
viduare tutte quelle azioni grazie alle quali – andando un po’ oltre ciò che
la banca farebbe per dovere e interesse – si possono creare crescita e occu-
pazione.
Per far crescere economia e occupazione bisogna agire almeno su quattro
leve: la competitività delle imprese, l’efficienza del Sistema paese, la coesione
sociale e il dinamismo complessivo. Le banche possono svolgere un ruolo im-
portante. Favorire la competitività delle imprese, ad esempio nel finanziamento
dell’innovazione puntando sulle idee; sostegno all’internazionalizzazione e alla
crescita dimensionale; incentivazione delle infrastrutture. Perché la sola com-
petitività delle imprese non basta a fare crescita: occorre anche la competitività
di sistema. Proprio per questo abbiamo creato una banca specializzata nel fi-
nanziamento delle infrastrutture e dei partneriati pubblico-privato. Ma neanche
la competitività di sistema è sufficiente da sola per fare crescita sostenuta e so-
stenibile: occorrono anche coesione sociale e tutte quelle attività per le quali il
terzo settore può svolgere un ruolo molto importante. Quest’ultimo rischia in
molti casi di avere un ruolo molto più limitato di quanto potrebbe, anche per la
difficoltà di accesso al credito: per rafforzare ulteriormente la nostra capacità di
servire il mondo del terzo settore – lavoriamo già con quasi 50.000 entità – ab-
biamo creato una banca dedicata, Banca Prossima, che al momento non fa an-
cora utili ma che, quando dovesse farne in futuro, li reinvestirebbe a vantaggio
del mondo dell’impresa sociale e del terzo settore.
Operare per il bene comune ha anche significato affrontare la crisi insie-
me ai nostri clienti (oltre 11 milioni in Italia e oltre 18 milioni nel mondo): ci
siamo inventati la moratoria – che poi è diventata una iniziativa adottata
dall’intero sistema – ci siamo inventati il finanziamento degli insoluti; tutte
cose quasi “blasfeme” per una banca tradizionale, ma che, in quel momento,
servivano per affrontare insieme una situazione estremamente difficile.
Sempre con lo spirito del contribuire al bene comune, abbiamo anche
partecipato a progetti imprenditoriali che richiedevano un coraggio e uno
spirito imprenditoriale non tipico delle banche più tradizionali: ad esempio
fondare nuove aziende o lavorare su grandi operazioni anche di ristruttura-
zione difficile.
“Bene comune”, quindi, è un obiettivo non generico ma molto concreto,
che ogni azienda nel suo settore può, se ha questo spirito, perseguire: sem-
pre facendo bene il proprio mestiere e non mancando alla missione di crea-

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re valore per i propri azionisti, si può aggiungere molto concretamente va-
lore anche alla società intorno a sé.
Diviene tuttavia fondamentale distinguere anche i vari livelli di respon-
sabilità delle diverse banche nei loro comportamenti. In altri termini,
nell’ambito di quel grandissimo e articolato sistema bancario che ha contri-
buito – insieme a cattive regole e a cattivi controlli – a creare la recente cri-
si economica, le responsabilità e i comportamenti delle diverse tipologie di
banche nei diversi paesi sono state diversissime. Il livello di indebitamento
creato dalle banche anglosassoni, l’uso incredibile dei derivati in taluni
paesi, la speculazione sulle scadenze, la creazione di rischio all’interno del-
le banche, sono stati fenomeni macroscopici in alcuni paesi, in altri sono
stati praticamente nulli.
Anche in Italia alcuni derivati sono stati venduti non correttamente, ma
questo rientra nella statistica, in un paese come il nostro che conta 50 mi-
lioni di clienti per un totale di miliardi di transazioni. Ci sono paesi che ri-
schiano il crollo finanziario per coprire i buchi creatisi in seguito a questi
comportamenti, mentre in altri (come il nostro) non c’è stato bisogno di co-
prire alcunché; in alcuni Stati il credito si è fermato a causa di quei compor-
tamenti, mentre da noi non si è fermato neanche per un minuto.
Questo non vuol dire – e i consumatori lo sanno bene perché ci confron-
tiamo continuamente con loro – che non ci siano moltissime cose da mi-
gliorare anche da noi, però diciamoci chiaramente che ci sono stati compor-
tamenti diversi nei diversi sistemi bancari. Se tutti avessero avuto le regole,
i controlli e i comportamenti bancari che hanno avuto gli attori del sistema
Italia, non ci sarebbe stata la crisi del mondo.
Molti analisti e osservatori che hanno aspettative negative sul futuro
dell’Italia imputano a Intesa Sanpaolo di credere troppo in questo paese: la
nostra banca, infatti, fa affidamenti al sistema Italia per quasi 500 miliardi,
cifra che è pari quasi a un terzo del PIL.
Sono convinto che in Italia vi sia un grandissimo spazio su cui agire per
una banca come la nostra, ferma restando la nostra presenza all’estero dove
già lavorano 30.000 persone. Dobbiamo tutti fare di più per rimettere in
moto la crescita del nostro paese, anche se gli oltre tre miliardi di euro di
perdite su crediti subìte lo scorso anno dalla nostra banca sono la dimostra-
zione non solo che ci mettiamo in gioco anche quando vi è un certo livello
di rischio, ma anche che ci prendiamo un’alta percentuale di carico per la
ristrutturazione del nostro sistema economico.

50
L’Italia è fra i paesi che ha perso meno quote nell’ambito del mercato inter-
nazionale. Grazie anche alla globalizzazione; dal nostro punto di osservazione
come banca, molti dei settori che vanno meglio sono quelli che traggono gua-
dagno dalla crescita di nuove classi agiate nei paesi emergenti. La crescita della
Cina, ad esempio, è un grande booster per il settore dell’automazione industria-
le, settore in cui siamo secondi soltanto alla Germania; il sistema moda, il si-
stema casa o il turismo italiani sono i primi beneficiari della crescita dei paesi
che si avviano verso lo sviluppo.
Ci sono poi situazioni molto difficili da valutare ma che hanno dentro di
sé i semi del successo, e lì ci deve essere il coraggio di finanziare anche se
non sono presenti tutti gli elementi normalmente richiesti dalla valutazione di
credito tradizionale. Ad esempio, negli ultimissimi anni abbiamo investito
più di un miliardo in progetti di innovazione che non potevano offrire garan-
zie reali, trattandosi di finanziamenti a lungo termine garantiti solo sulla base
di una valutazione tecnico-scientifica dei progetti stessi. Ma se si dovesse fa-
re credito solo quando vi è certezza, nessuno lo farebbe!
Ci sono infine situazioni dove bisogna avere il coraggio di dire “no”,
perché il credito non può essere meccanismo automatico e la grande crisi
degli ultimi anni deriva proprio dall’aver fatto credito anche a chi credito
non doveva ricevere.

51
Stefano Saglia
Sottosegretario Ministero dello Sviluppo Economico
Presidente del Consiglio Nazionale Consumatori Utenti

Non so se la soluzione più adatta per tutelare maggiormente i consuma-


tori sia quella di istituire la Procura nazionale di cui ha parlato Raffaele
Guariniello; peraltro anche durante gli scandali finanziari che hanno coin-
volto le nostre aziende si era discusso di un’eventuale Alta Procura sui reati
finanziari.
La posizione del dott. Guariniello è assolutamente legittima, essendo lui
esponente della magistratura; da un punto di vista politico, temo che si vo-
gliano risolvere i problemi istituendo un giudicante in qualche misura più
potente. Le norme per perseguire determinati reati esistono, tuttavia man-
cano gli strumenti e le strutture che consentono di poterli perseguire. Per-
tanto non so se una “super procura” possa essere utile; sicuramente occorre
una consapevolezza diffusa, da parte della politica e di tutti coloro che han-
no un compito di regolazione, che le sanzioni nei confronti dei comporta-
menti scorretti nell’economia debbano essere molto rigorose.
Il prof. Monti ci ha insegnato che la regolazione dei mercati da parte di
Autorità indipendenti è fondamentale: abbiamo bisogno di creare una libe-
ralizzazione regolata in vari settori nei quali l’operatore dominante non in-
fluenza il mercato, le regole sono chiare e trasparenti, il regolatore (non
l’autorità politica bensì l’autorità indipendente) sanziona i comportamenti
scorretti.
Non abbiamo costruito un tale sistema in quanto non siamo riusciti a
creare, nel sistema del mercato europeo, un’armonia fra le legislazioni sta-
tali per cui spesso noi legislatori ci ritroviamo nella contraddizione tra la
scelta di essere virtuosi noi o di essere virtuosi quel tanto che basta per ri-
spettare la Direttiva europea. Su questo forse si è persa una scommessa che
andrebbe ripresa.
Essendo un cattolico impegnato in politica, mi chiedo pertanto se le re-
gole cosiddette etiche che abbiamo messo in campo siano sufficienti o sia-
no a volte una foglia di fico. Molte società coinvolte in scandali finanziari
redigevano il bilancio sociale o avevano il codice etico, strumenti che ab-


Testo non rivisto dal relatore.

52
biamo inventato ma che non hanno prodotto l’effetto di essere realmente
praticati nell’attività economica e finanziaria.
Insomma, in questa crisi sociale che stiamo vivendo oggi etica è innanzi
tutto un’etica nei confronti dello sviluppo e del lavoro che sono divenute le
nuove priorità; oggi abbiamo bisogno di lavoro e di sviluppo e dunque etica
è, prima di ogni cosa, comportarsi in maniera adeguata nei confronti delle
regole del lavoro e delle necessità di crescita.
Attualmente in Italia non abbiamo istituzioni finanziarie che scommet-
tono sulla crescita del paese.
Le banche per esempio vogliono fare investimenti che siano assolutamen-
te certi e garantiti, il che è una legittima aspirazione, ma in qualsiasi attività
imprenditoriale esiste sempre una differenza fra certezza dell’investimento e
soglia di rischio.
Come ci ha illustrato il dott. Passera, Intesa Sanpaolo non ha difficoltà,
in caso di crisi aziendale, a trasformare i suoi crediti in azioni e a scommet-
tere sul rilancio dell’impresa. Questo è l’atteggiamento – a mio avviso –
attento al territorio. Questo è anche nello spirito della recente iniziativa che
ha voluto fortemente il Ministro Tremonti con la creazione del Fondo Ita-
liano di Investimento che ha visto coinvolte, fra gli altri, la Cassa Depositi
e Prestiti e alcune banche italiane, iniziativa che rientra nella scommessa
del rilancio delle imprese. Gli imprenditori italiani non hanno più soldi e la
prima reazione, non solo delle nostre imprese ma soprattutto delle multina-
zionali, è quella di abbandonare il Sistema Italia: questo è un problema che
dobbiamo affrontare con strumenti di sostegno finanziario adeguati.
Nel nostro tempo sono cambiati i paradigmi e siamo giunti a una svolta
storica: oggi etico è centralità del lavoro, crescita e sviluppo.
Permane, purtroppo (e lo dico da Presidente del Consiglio dei consuma-
tori in accordo con le associazioni dei consumatori), il tema della selettività
dei consumi: siamo disposti a comprare un prodotto pagandolo di più per-
ché è “etico”? Il consumatore può fare questa selezione in tutti settori così
come già sta facendo, ad esempio, nel mondo agroalimentare.
Come ha affermato poi il Presidente Gnudi, per tornare ai livelli di pro-
duttività del 2008 dovremo attendere altri 7-8 anni. L’indicatore energetico
è fondamentale per fare questo tipo di analisi. Il nostro sistema manifattu-
riero non solo è entrato in una crisi finanziaria globale ma ha scontato alcu-
ni deficit strutturali esistenti a prescindere dalla crisi e che quest’ultima ha
acuito. In molti settori industriali abbiamo una capacità produttiva superio-

53
re alla domanda per cui saranno necessarie importanti ristrutturazioni che
peseranno sulla bilancia commerciale del paese. In sostanza, sicuramente ci
vorranno anni per riavere i livelli produttivi del passato e in taluni casi non
si riavranno affatto.
Questo fenomeno non è un dramma in sé, lo diventa se non lo si accom-
pagna con politiche “industriali” non di “ancien régime” perché non è più
né il tempo delle partecipazioni statali né il tempo di iniezioni di fondi pub-
blici nell’economia. È il tempo, invece, di alcune grandi linee di indirizzo,
prima di tutte certamente l’internazionalizzazione: il mercato domestico
non dà più la soddisfazione che poteva dare precedentemente alle imprese,
il sistema manifatturiero ha bisogno di innovazione e di ricerca, il lavoro
deve essere meno appesantito di tanti orpelli legislativi accumulatisi negli
anni e al tempo stesso deve essere uno strumento di garanzia affinché la
famiglia, il lavoratore, il consumatore investano, acquistino e dunque fac-
ciano girare l’economia.
Come Governo abbiamo affrontato questi nodi strutturali; l’orizzonte che
abbiamo di fronte non è a breve termine e le grandi riconversioni industriali
si fanno con un po’ di dirigismo ma soprattutto con la consapevolezza di es-
sere in un mercato globalizzato. In questo contesto il tema delle liberalizza-
zioni è purtroppo andato in secondo piano: perché è vero che non si arriverà
mai al mercato perfetto, ma è altrettanto vero che il mercato italiano deve es-
sere spesso corretto con iniezioni e aperture basandosi su un’economia non
solo dei servizi ma anche della manifattura, terreni sui quali deve comportarsi
in maniera conseguente sia in Europa sia a livello internazionale.
Sul tema dell’energia che sta particolarmente a cuore a noi politici e ai
consumatori, dobbiamo affrontare una grande trasformazione cambiando il
mix energetico del paese per non dipendere più, in maniera esclusiva, dagli
idrocarburi. Anche in tempi di crisi non ci possiamo permettere di rallentare
gli investimenti, fondamentali per cambiare la struttura del paese. Ma per que-
sto è necessaria una grande presa di coscienza collettiva – o coscienza comu-
nitaria – a seconda di come la si voglia declinare. Questa presa di coscienza
nel 2008 c’era perché all’indomani delle elezioni si viveva la spinta emotiva
di un Governo forte, solido, che poteva proseguire nel tempo; oggi lo è molto
meno e quindi la politica si fa carico del suo pezzo di responsabilità.

54
PREMIO VINCENZO DONA
TESI DI LAUREA

1° CLASSIFICATO
Jessica Facen
IULM – Libera Università di lingue e comunicazione

2° CLASSIFICATO
Luigi Miranda
Università degli Studi di Napoli “Federico II”

3° CLASSIFICATO
Valentina Angelini
Università degli Studi “Roma Tre”
Jessica Facen

LA CSR COME FATTORE DI SUCCESSO


NELLE IMPRESE? IL CASO EMBLEMATICO
DELLE BAD COMPANIES

Introduzione

Al giorno d’oggi la sigla CSR, Corporate Social Responsibility o re-


sponsabilità sociale d’impresa, compare all’interno di molti report aziendali
come testimonianza dell’importanza data alla sfera della società da parte
del mercato. Questo è accaduto a seguito della troppa attenzione data agli
shareholder nel corso degli anni Novanta, che ha portato le aziende a tra-
scurare gli altri pubblici di interesse per portare avanti la massimizzazione
dell’obiettivo economico nel breve periodo e a tutti i costi.
L’apertura dei mercati alla globalizzazione, insieme al rinnovato inte-
resse per i temi ambientali e sociali e agli scandali aziendali che si sono
susseguiti negli ultimi anni, ha fatto crescere la domanda di assunzione di
responsabilità sociale nei confronti delle imprese. Molte organizzazioni
hanno interpretato la CSR in modo scettico e negativo, ritenendola inutile e
inconciliabile con gli affari aziendali, altre hanno cercato di aprirsi verso
questo nuovo orizzonte, cercando di interpretarlo e adattarlo al loro busi-
ness, fino ad arrivare ad integrarlo nel modo migliore per ottenerne risultati
soddisfacenti in termini sia economici che di reputazione.
Arricchire il business aziendale con la responsabilità sociale non è una
perdita di tempo e di risorse, bensì una leva strategica nelle mani dei mana-
ger più “illuminati” che può far crescere l’azienda sotto vari fronti: innanzi-
tutto permette alle imprese di instaurare un rapporto particolare con ogni
singolo stakeholder, andando incontro ai suoi bisogni e ascoltando le sue
necessità; consente poi di agire sui profitti organizzativi, nel momento in
cui, con il tempo, le iniziative sociali vengono riconosciute dal pubblico in
modo da creare un impatto positivo che si traduce in ritorno economico. In-
57
fine, la CSR agisce sulla sfera della reputazione, creando un clima di favore
e di condivisione intorno ai principi e ai comportamenti aziendali.
Se portata avanti con coerenza e progettualità, la responsabilità sociale
d’impresa può rivelarsi veramente come un asso nella manica per raggiun-
gere il successo, accompagnando l’impresa verso dei risultati soddisfacenti
e duraturi non solo agli occhi di manager e azionisti, ma anche a quelli dei
dipendenti, della comunità e, in generale, di tutta l’opinione pubblica.
Questa svolta degli anni Novanta ha avuto risultati non soltanto positivi:
molte imprese, infatti, hanno preferito continuare a seguire il fine della me-
ra crescita economica, ignorando così la richiesta, da parte della società, di
un cambiamento di priorità e di valori nello svolgimento del proprio busi-
ness. Tuttavia, non potendo sottovalutare la nuova richiesta di attenzione
alle dimensioni sociali, queste aziende hanno iniziato ad utilizzare le prati-
che della CSR a semplici fini di immagine, per dimostrare ai pubblici
d’interesse che la loro attività è basata sui principi della responsabilità nei
confronti della società e dell’ambiente. In realtà, esse continuano a condur-
re i loro affari ricorrendo ad azioni scorrette e pericolose, che recano danno
alle comunità in cui operano e cercando di prestare attenzione soltanto ai
minimi obblighi che la legge impone loro. Il tipo di impresa che corrispon-
de a questa descrizione viene chiamata bad company, è diffusa in tutto il
mondo e può avere qualsiasi dimensione e fatturato.
Le domande che mi sono posta allora sono state: se la responsabilità so-
ciale d’impresa rappresenta oggigiorno un fattore così rilevante per la so-
pravvivenza e il successo dell’impresa moderna, perché le bad companies
continuano ad operare indisturbate nel mercato, ottenendo dei risultati im-
portanti che le rendono, nella gran parte dei casi, leader indiscusse nei loro
settori di competenza? Quali sono le cause che permettono loro di essere
quasi immuni dalle pressioni degli stakeholder, dei governi e delle Orga-
nizzazioni internazionali? E la CSR, rivendicata al loro interno, è solo pura
forma, o è sostanza?
Per aiutarmi a rispondere a questa serie di interrogativi, sono ricorsa
all’analisi di un caso eclatante come quello della Nestlé: ho ritenuto, infatti,
che sarebbe stato più facile trarre delle considerazioni valide in generale
partendo dall’esempio già conosciuto e discusso di una multinazionale, in
modo da avere a disposizione più versioni dei fatti e punti di vista, nonché
delle basi normative a cui fare riferimento. Tra gli scandali che hanno inte-
ressato l’azienda svizzera, ho scelto la vicenda che riguarda la commercia-

58
lizzazione e la promozione selvaggia dei prodotti conosciuti come “infant
formula”, ossia i sostituti del latte materno, che comprendono numerose va-
rianti di latte in polvere e di alimenti per neonati. Questo episodio è stato
quello che meglio ha rappresentato la situazione di irresponsabilità azienda-
le che volevo mettere sotto osservazione. Guardare con la lente di ingran-
dimento i comportamenti contestati alla Nestlé, esaminare i documenti in
difesa o di accusa degli stessi, gettare un occhio sulle norme e i regolamenti
e analizzare le azioni in favore della responsabilità sociale della multina-
zionale svizzera, mi ha permesso di dare una risposta alle mie perplessità
iniziali, attraverso una serie di valutazioni personali che, insieme, hanno
creato una sorta di profilo dei fattori che rendono una bad company di suc-
cesso, permettendole di portare avanti i propri affari e di affermarsi nel
mercato, ottenendo così il consenso di gran parte della società, grazie anche
all’utilizzo improprio delle leve della corporate social responsibility che, al
contrario, avrebbero dovuto rallentarne la corsa e l’ascesa.
Per strutturare con chiarezza quanto detto fin qui, ho diviso l’elaborato
in due parti. La prima parte tratta in generale della responsabilità sociale
d’impresa, di come si è diffusa, sviluppata e diversificata nelle diverse for-
me organizzative nel corso del tempo. In particolare, nel primo capitolo ho
voluto fornire una descrizione chiara della CSR, spiegandone il significato,
attraverso il ricorso a più interpretazioni, gli obiettivi e i benefici, presen-
tando i più importanti stakeholder dell’impresa ed esponendo i principali
strumenti per certificare l’impegno sociale, economico e ambientale di
un’organizzazione.
Nel secondo capitolo ho cercato di sciogliere un nodo cruciale per poter
proseguire con la trattazione del tema della responsabilità sociale, rispon-
dendo alla seguente domanda: all’interno delle aziende, tra obiettivo eco-
nomico ed obiettivo sociale, c’è conflitto o corrispondenza? Dopo aver ri-
portato le differenze e le coincidenze tra i due tipi di fini organizzativi e
aver spiegato il bisogno di creare un equilibrio stabile e duraturo tra gli
stessi, ho spostato la mia attenzione sull’importanza del ruolo dei manager
in questo processo.
Il terzo capitolo, che conclude la prima parte della tesi, inizia conside-
rando gli atteggiamenti che le diverse imprese manifestano nei confronti
del tema della CSR, in modo da poter identificare altrettanti comportamenti
verso la stessa ed individuare dei percorsi di sviluppo in grado di arricchire
la responsabilità sociale d’impresa.

59
La seconda parte della tesi affronta, invece, l’altro tema di fondo di cui
ho parlato all’inizio, cioè quello delle bad companies. Questa sezione si ca-
la di più sull’argomento da un punto di vista pratico, grazie all’analisi del
caso aziendale dei sostituti del latte materno della Nestlé.
Il quarto capitolo si occupa di chiarire il concetto di bad company, spie-
gando le cause e le modalità di comportamento di questo tipo di imprese,
nonché le conseguenze che la loro azione irresponsabile comporta. Il capi-
tolo fornisce anche una breve descrizione di che cos’è una multinazionale,
nozione utile per comprendere al meglio il caso aziendale e le considera-
zioni finali che seguono.
Nel quinto capitolo si passa ai fatti, attraverso la presentazione di una
bad company: Nestlé. Questo capitolo sotto certi aspetti è il più delicato, in
quanto si è cercato di trovare riscontro a quanto detto nei capitoli preceden-
ti attraverso l’analisi di un caso complesso, controverso e molto discusso
sia nell’ambito aziendale che in quello pubblico e giuridico. Il mio sforzo
costante è stato quello di essere il più obiettiva e completa possibile nel ri-
portare i fatti e gli eventi. Ho così presentato il profilo dell’azienda e di chi
la contesta, ho riportato le principali basi normative di riferimento e, infine,
ho messo a confronto i punti di vista delle rispettive parti.
Il risultato delle analisi è sintetizzato nelle conclusioni. In quest’ultima
parte ho tentato di dare una risposta definitiva alla domanda iniziale che mi
ero posta, individuando i principali fattori che rendono una bad company di
successo nonostante l’assenza, o la presenza minima, di responsabilità so-
ciale al suo interno. Ho inoltre spiegato il perché, a parer mio, l’impiego
della CSR in queste aziende rappresenti un fatto formale e di immagine,
usato per non scalfire la reputazione e, quindi, per continuare ad assicurare
un ritorno economico all’organizzazione, e come i codici e i regolamenti
internazionali che supervisionano l’operato delle imprese, dovrebbero esse-
re applicati con maggiore decisione e rigore, per poter essere completamen-
te riconosciuti e, quindi, risultare efficaci.

60
1. LA RESPONSABILITÀ SOCIALE D’IMPRESA

1.1. Una nozione di CSR

Il tema della Responsabilità Sociale d’Impresa (Corporate Social Re-


sponsibility o CSR in breve) ha dato vita negli ultimi anni a numerose ini-
ziative promosse da imprese o associazioni di imprese, ONG e Università,
governi nazionali e amministrazioni locali, imponendosi all’attenzione del
mondo economico e politico internazionale. L’iniziale rischio che la CSR
potesse apparire un argomento riservato e auto-referenziale del mondo delle
imprese è stato evitato con la partecipazione attiva nelle occasioni di di-
scussione pubblica delle organizzazioni sindacali, delle associazioni dei
consumatori e delle associazioni di rappresentanza del terzo settore, oltre
che dalle Università che hanno dato vita ad insegnamenti in cui la CSR è
l’argomento caratterizzante.
Più in generale, un ruolo importante nello sviluppo delle pratiche della re-
sponsabilità sociale è stato svolto da altre organizzazioni internazionali come
l’ONU, con l’iniziativa del Global Compact, che coinvolge molte grandi im-
prese che si impegnano a rispettare i principi dello sviluppo sostenibile e del
rispetto dei diritti umani, e le agenzie internazionali come ILO, le cui linee
guida e produzione normativa stanno alla base dello sviluppo e della diffu-
sione di modelli e strumenti di autodisciplina e certificazione volontaria
nell’ambito della CSR (un esempio può riferirsi alla certificazione SA8000,
nota come “certificazione etica”). Questa tendenza collettiva nella direzione
della responsabilità sociale d’impresa ha influenzato moltissime imprese se
non nei comportamenti, sicuramente negli atteggiamenti, creando in esse una

61
predisposizione nel comunicare l’impegno reale nei confronti della società,
accompagnata spesso anche da un’azione concreta.
A questo punto, prima di esaminare le cause di natura storica e contestua-
le da cui prende piede la CSR, è necessario dare una definizione di responsa-
bilità sociale d’impresa. Il concetto di CSR non trova una spiegazione univo-
ca in letteratura, per questo verranno proposte tre possibili interpretazioni,
che, insieme, cercano di fornire una descrizione esaustiva del fenomeno.
Iniziamo con il riportare la definizione data dalla Commissione Europea
nel Libro Verde (2001), secondo il quale la CSR consiste nella «integrazio-
ne volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle
loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate. Es-
sere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli
obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là investendo “di più”
nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessa-
te». Secondo il Libro Verde, quindi, non si tratterebbe semplicemente di
disporre una quota delle risorse dell’azienda in favore di cause di rilevanza
sociale, cioè di matrice puramente filantropica, bensì di farsi carico delle
attese degli stakeholder, anche oltre gli obblighi di legge, inserendo tale
comportamento nella strategia d’impresa, in modo da renderlo una fonte del
vantaggio competitivo e creando una situazione di equilibrio in cui si av-
vantaggiano tutte le parti coinvolte. Responsabile è quindi quell’impresa
che si dimostra vitale, attraverso una buona performance reddituale che si
protrae nel lungo periodo, ma anche socialmente orientata nel perseguire e
soddisfare le attese, economiche e non, di tutti i pubblici interessati, dai col-
laboratori agli azionisti.
Un’altra definizione di CSR viene proposta da Lorenzo Sacconi (1997),
secondo cui «con CSR si intende un modello di governance allargata
dell’impresa, in base al quale chi governa l’impresa ha responsabilità che si
estendono dall’osservanza dei doveri fiduciari nei riguardi della proprietà
ad analoghi doveri fiduciari nei riguardi in generale di tutti gli stakehol-
der». Seguendo l’ottica di Sacconi, la CSR come modello di corporate go-
vernance allargato, dovrebbe riconoscere i diritti di tutti gli stakeholder, in-
coraggiare la cooperazione tra l’impresa e i diversi pubblici e coinvolgerli
nei processi decisionali. Questo modello allargato valorizza gli interessi di
tutti i pubblici influenti e l’insieme di responsabilità economiche, legali,
etiche e socio-ambientali che l’impresa ha nei loro confronti. Questa idea di
CSR presentata da Sacconi viene effettivamente affermata anche dal Libro

62
Verde della Commissione Europea: «Affermando la loro responsabilità so-
ciale e assumendo di propria iniziativa impegni che vanno al di là delle esi-
genze regolamentari e convenzionali cui devono comunque conformarsi, le
imprese si sforzano di elevare le norme collegate allo sviluppo sociale, alla
tutela dell’ambiente e al rispetto dei diritti fondamentali, adottando un si-
stema di governo aperto, in grado di conciliare gli interessi delle varie parti
interessate nell’ambito di un approccio globale della qualità e dello svilup-
po sostenibile».
Anche secondo Carroll (2003), «the social responsibility of business en-
compasses the economic, legal, ethical and discretionary expectations that so-
ciety has of organizations at a given point in time»1. L’idea che l’orga-
nizzazione debba soddisfare le attese di diversi pubblici, è ripresa anche da
Carroll, che nel 1979 ha elaborato una piramide che identifica i diversi livelli di
responsabilità che un’impresa può assumere.

Fig. 1 – La piramide di Carroll (1979)

La società DESIDERA questi


PHILANTROPIC RESPONSIBILITIES comportamenti dalle imprese
Be e good corporate citizen

ETHICAL RESPONSIBILITIES La società ASPETTA questi


comportamenti dalle imprese
Be ethical

LEGAL RESPONSIBILITIES La società RICHIEDE questi


Obey the law comportamenti alle imprese

ECONOMIC RESPONSIBILITIES
Be profitable La società PRETENDE questi
comportamenti dalle imprese

La società considera quindi le responsabilità economiche e legali dei do-


veri di base che l’impresa deve rispettare; si aspetta in seguito che l’impresa
persegua delle responsabilità etiche che la portino ad agire secondo i valori

1
Traduzione personale: «La responsabilità sociale nel mondo degli affari comprende le
aspettative economiche, legali, etiche e discrezionali che la società ha delle organizzazioni
in un determinato momento nel tempo».

63
riconosciuti nella stessa società in cui è inserita. Infine la società si aspetta,
più come un desiderio, che l’organizzazione si comporti da buon cittadino
portando avanti anche un impegno filantropico. Carroll dispone questi quat-
tro livelli di responsabilità su una scala gerarchica di crescente importanza,
per cui il raggiungimento dei livelli superiori è possibile soltanto nel momen-
to in cui le responsabilità alla base sono state soddisfatte. In caso contrario,
per esempio il perseguire responsabilità filantropiche senza aver portato a
termine quelle precedenti sulla piramide, l’impresa può anche essere valutata
negativamente, in quanto manipolatrice nei confronti degli stakeholder.
La CSR non è certo un argomento nuovo, piuttosto un tema rispolverato
in seguito ad un cambiamento temporale e spaziale della concezione di im-
presa. Nell’attuale contesto occidentale il tema della responsabilità d’impresa
è riemerso con vigore in seguito ad un decennio, che ha inizio sul finire degli
anni Ottanta, in cui la teoria della creazione di valore per gli azionisti ha
esercitato un potere profondo e a volte molto negativo sulle logiche decisio-
nali e sulle performance delle imprese. La riscoperta della CSR è avvenuta
sul finire del secolo scorso e nei primi anni del nuovo, dopo altri periodi di
grande interesse e successo del tema (tra gli anni Sessanta e Settanta, epoca
del capitalismo manageriale).
La finanziarizzazione dell’economia negli anni Novanta ha infatti portato
alla fine del decennio a spingersi verso una politica volta alla CSR. Per “fi-
nanziarizzazione dell’economia” si intende il dedicare interesse e volgere la
politica organizzativa in favore degli azionisti e degli obiettivi di breve ter-
mine dell’impresa, il tutto finalizzato alla soddisfazione dello shareholder a
discapito di tutti gli altri pubblici influenti dell’impresa.
Per capire tale fenomeno consideriamo innanzitutto l’agire nel mercato
di due forze che si muovono in direzioni opposte (Sacconi, 2005):
1. tendenza alla privatizzazione delle decisioni economiche rilevanti;
2. tendenza alla responsabilizzazione dei decisori economici di fronte ai
differenti interessi sociali coinvolti.
Negli anni Ottanta gli Stati Uniti e la Gran Bretagna mettono sotto accusa
il sistema di decisione pubblica di politici e burocrati che sono incolpati di
manovrare la spesa pubblica in modo non meno egoista, ma meno controlla-
bile, di quanto siano in grado di fare i decisori in un’impresa privata.
Negli anni Novanta avviene di conseguenza uno spostamento delle deci-
sioni economicamente rilevanti nelle mani dei soggetti privati che operano
nei mercati, cioè le imprese. La finanziarizzazione dell’economia viene vi-

64
sta come la manifestazione del successo del sistema capitalista sul mercato.
L’impresa deve produrre valori e guadagni per gli azionisti pur mantenendo
la sua staticità economica. La crescita dei titoli in borsa viene fortemente
sfruttata come solida fonte di guadagno per i manager, attraverso la pro-
messa di una percentuale dei titoli azionari in base semestrale o annuale
(stock options). Questo fa sì che finanziatori e grandi azionisti riescano ad
arricchirsi in modo veloce e sostanziale, a discapito di dipendenti, piccoli
azionisti e comunità locale. Per grandi azionisti si intendono sempre meno
le famiglie, ma soggetti neutrali, gruppi di speculazione, fondi di investi-
mento, cioè soggetti “immateriali” del tutto privi di responsabilità. Ecco
che l’impresa viene vista come “irresponsabile”, perché pone esclusiva at-
tenzione alla massimizzazione dei profitti di breve periodo e all’imperativo
della creazione di valore per l’azionista (Sacconi, 2005).
Mentre questa è stata la tendenza prevalente, nello stesso tempo, come
forza continuamente all’opera, anche se spesso di minore forza, si è manife-
stata la domanda di responsabilità sociale delle imprese. In un certo senso,
nel dinamismo che caratterizza le teorie manageriali, l’attenzione alla CSR si
pone come capo opposto alla visione della finanziarizzazione degli anni No-
vanta. La domanda di efficienza, associata alla spinta verso la privatizzazione
delle decisioni economiche e al loro controllo da parte di soggetti economici
operanti sul mercato finanziario, non può essere dissociata da una domanda
integrativa di equità, che spinge verso la responsabilità sociale, senza la quale
il processo verso un equilibrio delle decisioni risulterebbe deludente. Questo
dimostra che nel mercato si scontrano-incontrano la legittimazione a prende-
re decisioni economiche rilevanti e questioni di giustizia e di benessere socia-
le che interessano gli stessi attori economici privati, superando così la visione
tradizionale di separazione tra problemi di efficienza (che, secondo tale vi-
sione, dovrebbero esser lasciati unicamente al mercato attraverso le decisioni
di allocazione delle risorse nella produzione e nello scambio di beni privati,
senza chiedere alle imprese altro se non la massimizzazione del profitto nel
rispetto della legge) e problemi di equità, che non vengono regolati unica-
mente in via formale dallo Stato, ma devono essere considerati anche dalle
singole imprese nel momento in cui sono in contatto con il mercato e con i
loro pubblici di riferimento (Sacconi, 2005).
Oltre che dalla necessità di bilanciare gli eccessi provocati dalla finan-
ziarizzazione del mercato economico, l’attenzione alla CSR è alimentata da
alcuni grandi fenomeni in continua evoluzione nel più generale contesto

65
economico e sociale. Si parla di forze che spingono l’impresa a farsi carico
di problemi e attese che prima erano di esclusiva competenza dello Stato o
della società più in generale. L’assunzione di responsabilità, che vanno ol-
tre l’adempimento degli obblighi di legge e che rispondono alle richieste
delle forze sociali, risulta infatti fondamentale per la sopravvivenza e lo
sviluppo delle imprese nell’epoca che stiamo vivendo. I fenomeni più rile-
vanti sono i seguenti (Molteni, Lucchini, 2004):
x la globalizzazione risulta essere il fattore più rilevante di trasformazione
dell’economia mondiale. Questo processo, in continua crescita, sta
aprendo grandi opportunità per la creazione di ricchezza, ma nello stes-
so tempo genera timori a causa di un visibile ampliamento del divario
tra le aree ricche e quelle povere del mondo: la condizione dei settori
più poveri della popolazione nei paesi in via di sviluppo toccati dalla
globalizzazione sarebbe peggiorata in termini assoluti a causa della
mancanza di meccanismi di re-distribuzione del reddito e di protezione
sociale che compensino i cambiamenti di organizzazione sociale del la-
voro provocati dall’inserimento di queste economie in un sistema di
scambio globale. Risulta quindi fondamentale come questo processo di
crescita viene gestito, soprattutto da parte delle grandi imprese, che per
assicurare una crescita armonica devono farsi carico sempre di più
dell’impatto che le proprie attività esercitano sul contesto generale. Per
esempio attraverso lo sviluppo di sistemi di welfare, di protezione am-
bientale e dei diritti dei lavoratori, le grandi imprese internazionali an-
drebbero a creare condizioni di maggiore equità anziché di sfruttamento
delle debolezze delle legislazioni sociali;
x l’attenzione al problema ecologico è un argomento a cui negli ultimi de-
cenni viene data grande importanza a causa di fenomeni come l’effetto
serra, disastri connessi all’inquinamento petrolifero e all’energia nuclea-
re e grandi cambiamenti climatici dovuti all’agire dell’uomo. Questa si-
tuazione ha portato a riunire i più importanti paesi in summit internazio-
nali sull’ambiente per discutere riguardo al tema e agli interventi da
mettere in atto per ridurre le conseguenze dell’azione umana sul pianeta
e ha contribuito alla diffusione della cultura ecologica tra i cittadini-
consumatori, che è alimentata dai movimenti ambientalisti e induce le
imprese a nuovi comportamenti e a nuove politiche di comunicazione;
x l’importanza attribuita ai diritti delle persone e, in particolare, dei lavo-
ratori dalle dichiarazioni sui diritti umani e dalle dichiarazioni dell’ILO,

66
diventa sempre di più un punto di riferimento per le imprese nel mettere
in pratica le azioni di CSR. Temi come la salute e la sicurezza sul lavo-
ro, le pari opportunità, la valorizzazione dei soggetti svantaggiati, il di-
vieto di sfruttamento del lavoro minorile, sono aree di grande impegno
per le imprese;
x l’evoluzione nei valori, negli atteggiamenti e nei comportamenti dei
consumatori, che sono diventati molto più critici e consapevoli rispetto
ai prodotti e al loro acquisto, mostrando una maggiore preferenza per
quelle marche che fanno attenzione ai temi sociali. Questa partecipazio-
ne attiva del consumatore viene confermata dall’aumento continuo delle
associazioni di consumatori, dalla nascita di azioni di boicottaggio nei
confronti di imprese che si comportano scorrettamente nei confronti di
temi sociali o ecologici, dalla diffusione del commercio equo e solidale
e dalla preferenza nei confronti delle imprese che realizzano campagne
di cause related marketing;
x lo sviluppo dei mercati finanziari in seguito alla globalizzazione ha por-
tato alla diffusione a livello internazionale dei modelli di governance e
delle politiche di investor relations, proprie delle imprese che operano
in contesti molto influenti. Inoltre gli scandali finanziari degli anni No-
vanta, in cui attraverso incentivi i manager e gli amministratori delegati
sostenevano lo shareholder value, non hanno risparmiato danni econo-
mici a nessuno, se non a chi deteneva le informazioni e il potere deci-
sionale, e questo ha portato ad un crollo della fiducia verso gli operatori
del settore, nonché a una richiesta di maggiore trasparenza e professio-
nalità lavorativa;
x l’esigenza di correttezza e trasparenza è aumentata in seguito ad eventi
che hanno caratterizzato l’economia mondiale, come scandali e fallimenti
aziendali (Enron, Parmalat), che hanno riacceso il dibattito riguardo ai
modelli di corporate governance e agli impegni, sia normativi che volon-
tari, che un’impresa dovrebbe assumere nel campo della CSR;
x i conflitti d’interesse nell’esercizio delle cariche pubbliche, dove i grup-
pi più forti economicamente non hanno più bisogno di compiere scambi
illeciti per indurre qualche funzionario pubblico ad agire in conflitto
d’interessi, perché i loro interessi sono fatti valere attraverso il diretto
esercizio del potere politico. La CSR in questo caso è direttamente col-
legata con il concetto di corporate good citizienship (buona cittadinanza
d’impresa) che costruisce l’inclinazione dell’impresa sul versante dei

67
rapporti con la comunità e con le istituzioni che la rappresentano, dove
l’impresa agisce senza approfittare della sua forza economica e della sua
influenza per ottenere trattamenti di favore o posizioni pubbliche di re-
sponsabilità.
Quindi, in sintesi, questo è quello che accade parallelamente alla fine
del capitalismo finanziario degli anni Novanta:

Fig. 2 – L’avvento della CSR negli anni Novanta

CAMBIAMENTI DI CONTESTO METTONO


IN DISCUSSIONE LE LOGICHE IN ATTO
CRESCENTI ASPETTATIVE PRESA DI COSCIENZA
DEI CONSUMATORI DELLE IMPRESE

CRITICA ALLE IMPRESE

MONDO DELLE IMPRESE


MAGGIORE INTERESSE PER NECESSITÀ DI UN NUOVO
GLI ATTORI SOCIALI CONTRATTO SOCIALE
(STAKEHOLDERS) PER CREARE VALORE
NELL’AMBIENTE DI
RIFERIMENTO

ASSUNZIONE DI RESPONSABILITÀ SOCIALE

In conclusione, possiamo notare come dalle tre definizioni proposte


emerge un’idea compatta di quello che la CSR rappresenta per le imprese: è
un’opportunità in più per dimostrare che l’impegno dell’azienda va oltre i
profitti e l’adempimento degli obblighi legali, andando ad abbracciare delle
responsabilità etiche, sociali, ambientali che evincono da quelli che sono i
compiti tradizionali dell’impresa, ma che nel contesto odierno sono fonda-
mentali perché mettono in contatto l’organizzazione con tutti i suoi pubblici
di riferimento, creando un vantaggio competitivo notevole per l’azienda e

68
nello stesso tempo un miglioramento del contesto socio-ambientale in cui
l’impresa stessa vive e agisce.

1.2. Gli obiettivi e i benefici della CSR

La CSR è una scelta, non un dovere: l’impresa si rende responsabile vo-


lontariamente nei confronti dei suoi pubblici di riferimento, integrando il suo
impegno ai vincoli normativi che regolano il suo operato. Ma perché lo fa?
Quali sono le motivazioni che spingono un’organizzazione a fare di più ri-
spetto a quanto è richiesto dalla legge o dalle normali pratiche organizzative?
Uno degli obiettivi che spinge l’impresa verso la responsabilità sociale, è
il miglioramento dei risultati organizzativi nel lungo periodo. I valori
dell’impresa hanno infatti un ruolo fondamentale per costruire, sviluppare e
potenziare l’organizzazione, e la comunicazione di questi valori è altrettanto
importante per renderli noti e condivisi all’interno, tra i dipendenti, come
fonte di identificazione, e all’esterno, tra i clienti e l’opinione pubblica, come
fonte di legittimazione. È ovvio che anche i tratti specifici della personalità
dell’impresa e i suoi valori etici distintivi contribuiscono fortemente nella co-
struzione di un’immagine e di una reputazione forti per l’impresa. Tutto que-
sto ha ripercussioni anche sul versante economico dell’organizzazione: quan-
do personalità e valori traspaiono nelle relazioni che l’impresa stabilisce con i
suoi pubblici esterni, viene massimizzato il valore e l’efficacia delle sue atti-
vità e iniziative; nello stesso tempo, quando dal punto di vista organizzativo
gli stessi valori consentono di realizzare un forte coinvolgimento delle perso-
ne e un elevato grado di coordinamento, senza dover ricorrere alle tradiziona-
li forme di controllo, tutti i dipendenti vengono maggiormente responsabiliz-
zati e sono resi più attivi e partecipi alla vita organizzativa. Questo comporta,
a lungo termine, uno sviluppo dell’impresa sotto il profilo gestionale, in
quanto gode di solide relazioni di fiducia con i suoi pubblici di riferimento,
che si trasformano prima in un miglioramento dell’immagine e della reputa-
zione, poi in vantaggio economico, nel momento in cui tali immagine e repu-
tazione hanno un impatto positivo sul bilancio dell’organizzazione e sui suoi
profitti (Invernizzi, Bazzardi, 2006).
Per un’impresa, adottare comportamenti etici può avere quindi anche il
fine di gestire in modo più efficace le relazioni con i suoi stakeholder inter-
ni ed esterni, «abbandonando così il modello dominante di tipo contrattua-

69
listico nelle relazioni esterne e di tipo conflittualistico in quelle interne»
(Invernizzi, Bazzardi, 2006). L’azienda deve perciò creare rapporti di fidu-
cia con i suoi interlocutori di riferimento per esaltare l’aspetto cooperativo,
attraverso valori morali come l’equità, la giustizia, la trasparenza, la lealtà e
la correttezza. Questo mira a creare alleanze durevoli, ad aumentare la par-
tecipazione ed il coinvolgimento alla vita organizzativa e a migliorare
l’immagine con cui l’impresa si presenta agli altri. Oggi, accanto ai bisogni
e ai desideri di tipo economico da soddisfare, è sempre più forte la doman-
da di senso e significato per quanto riguarda il lavoro, la produzione e il
consumo di beni e servizi, questo, connesso al bisogno di etica nelle rela-
zioni economiche, accresce la pratica di assunzione di responsabilità socia-
le delle imprese, che sono spinte a portare avanti comportamenti corretti
soprattutto per rispondere alle richieste dei propri stakeholder. Le imprese
oggi sono considerate delle istituzioni sociali importantissime per il benes-
sere del contesto nel quale sono inserite, è per questo che le richieste in
termini di performance sono sempre più elevate e vanno oltre il risultato
economico e la massimizzazione dei profitti, attribuendo valore anche a
come i risultati vengono ottenuti e alle responsabilità etica, sociale e am-
bientale (Caselli, 1992; Invernizzi, Bazzardi, 2006).
Un ultimo obiettivo che può giustificare l’impegno sociale dell’impresa è
quello dell’incremento dell’efficacia della leadership nelle organizzazioni, in
risposta al bisogno sempre più pressante di capitale umano, inteso come in-
sieme di intelligenza, conoscenza e idee. Oggi infatti lo sviluppo del poten-
ziale umano è diventato un imperativo economico che crea vantaggio per
l’impresa, per questo l’etica ha assunto una nuova rilevanza per i manager: il
loro comportamento è importante perché dal leader dipende la scelta dei va-
lori etici, la loro attualizzazione nell’impresa e il loro sostegno nello sviluppo
della cultura dell’organizzazione; inoltre una leadership etica nel lungo pe-
riodo permette all’impresa di avere migliori performance, di evitare problemi
legali e di anticipare eventuali crisi. Anche secondo Carroll e Buchholltz
(2003) «the moral tone of an organization is set by the top management»2:
infatti il top management, grazie alla sua visibilità, è un valido modello di
comportamento etico, che dà l’esempio al resto del personale attraverso
l’agire effettivo e fissando politiche comportamentali da seguire.
2
Traduzione personale: «Il tono morale di un’organizzazione è fissato dal top manage-
ment».

70
Per quanto riguarda i benefici, possono essere divisi in tre categorie, be-
nefici per l’azienda, per la comunità e per l’ambiente:

Tab. 1 – I benefici della CSR (Angelo Failla, 2007)

PER L’AZIENDA PER LA COMUNITÀ PER L’AMBIENTE


 Migliora la performance  Aumento di filantropia e  Aumento del riciclo dei
finanziaria finanziamento di materiali
 Diminuiscono i costi iniziative di utilità  Maggiore durata e
operativi sociale migliore utilizzo dei
 Reputazione e  Programmi di prodotti
immagine volontariato degli  Aumento dell’uso di
impiegati risorse rinnovabili
 Aumentano vendite e
fedeltà della clientela  Coinvolgimento delle  Integrazioni di
aziende in progetti tematiche ambientali
 Maggiore attrazione e
didattici, sociali ecc. nei piani di business
fedeltà dei dipendenti
 Maggiore sicurezza dei delle aziende
 Diversità della forza
beni e servizi
lavoro
 Maggiore produttività e
qualità
 Maggiore accesso ai
capitali
 Maggiore sicurezza dei
beni e servizi prodotti
 Possibilità di usufruire di
credito d’imposta per
iniziative

Uno dei benefici su cui mi vorrei soffermare, perché di fondamentale im-


portanza nella trattazione del tema delle bad companies, sono la reputazione
e l’immagine. Innanzitutto va detto che i due termini non sono sinonimi ma
hanno significati ben distinti: l’immagine fa riferimento alla «figura esteriore
degli oggetti percepita mediante la vista» (Garzanti), alla «percezione visiva
che un’organizzazione, un prodotto o una persona dà al pubblico» (Oxford
Dictionary); la reputazione, invece, è «la stima, considerazione in cui si è te-
nuti dagli altri» (Garzanti), «l’opinione che le persone hanno sul come siano
qualcosa o qualcuno, basata sugli avvenimenti passati» (Oxford Dictionary).
La differenza nelle definizioni mostra come l’immagine sia fondata su aspetti
esteriori e di superficie, sulla quale si può agire ed influire rapidamente con
azioni di propaganda e manipolazione, mentre la reputazione si fonda su
aspetti più consistenti e profondi, che trovano un riscontro concreto nei com-

71
portamenti agiti dall’impresa. Bennet e Kottasz (2000) definiscono la corpo-
rate reputation come un insieme di tutte le aspettative, percezioni e opinioni
di un’organizzazione sviluppate nel tempo da consumatori, dipendenti, forni-
tori, investitori e dal pubblico in generale, in relazione alle qualità, alle carat-
teristiche e al comportamento dell’azienda, basato sulle esperienze personali,
sul sentito dire, o sull’osservazione delle azioni passate dell’organizzazione.
A proposito di reputazione, è importante tenere a mente due punti fon-
damentali (Schwartz, Gibb, 1999):
a. la buona reputazione è un vantaggio per l’impresa;
b. la buona reputazione impiega anni per essere costruita, consolidata,
ma anche riparata, e può essere distrutta “nel tempo di una notte”.
La corporate reputation è un vantaggio, un patrimonio per
l’organizzazione perché è collegata alla brand equity, al valore di marca,
che contribuisce al valore dell’impresa in una misura che non è sempre
quantificabile ma è tuttavia reale.
Raimondo Boggia (1998) ha descritto tre modi in cui reputazione e va-
lore possono interagire:
1. la strategia Mitsubishi, dove il nome dell’impresa e il suo marchio
corrispondono;
2. la strategia Procter and Gamble, dove non esiste un collegamento
immediato tra il nome dell’impresa e le sue varie marche;
3. la strategia Nestlé-style endorsement, dove un marchio come Nesca-
fé è venduto con l’appoggio esplicito o implicito del nome d’impresa
Nestlé alle sue spalle.
Boggia spiega come in passato, il nome dell’impresa (connesso diretta-
mente alla reputazione dell’organizzazione) e il valore di marca (connesso
al valore che un particolare prodotto ha per il consumatore) potevano essere
tenuti separati, mentre oggi si è assistito ad una fusione tra i due elementi.
La tesi che l’autore propone per spiegare tale fenomeno è che i tradizionali
agenti di socializzazione, come la chiesa, la famiglia, la scuola, hanno subi-
to un drammatico cambiamento e hanno perso autorità come “educatori”
per le nuove generazioni, potere che invece hanno acquisito in modo solido
i media, che sono diventati i nuovi arbitri dei valori. I consumatori hanno
iniziato così a guardare al brand come più che un indicatore della qualità
del prodotto: oggi il marchio serve loro per trovare delle rassicurazioni, per
ottenere ed esprimere dei valori, per giudicare ed esprimere la loro persona-
le visione di ciò che è giusto e ciò che non lo è. L’implicazione che questo

72
sviluppo ha avuto per le imprese si può spiegare citando direttamente Bog-
gia: «La costruzione dei valori della marca non è molto diversa rispetto agli
anni ’50 e ’60, una questione di “make-up”. Il ruolo della pubblicità è fini-
to. Oggi si tratta di comunicare quello che sei veramente in modo intelli-
gente». Le imprese sono quindi punite sia per essere ipocrite, comportando-
si in modo incoerente con le richieste dei loro consumatori, sia per il loro
comportamento più in generale.
È importante ricordare inoltre che un danno alla reputazione dell’impresa
può comportare impatti a breve termine o a lungo termine, sia all’interno che
all’esterno dell’organizzazione e che oggi i moderni mezzi di comunicazione
hanno un ruolo sempre più centrale quando si tratta di informare a proposito
di situazioni di instabilità all’interno delle realtà organizzative.
Per concludere, si può dire che dietro ogni impresa di successo esiste
un’idea di business, cioè il concetto di sé di un’organizzazione, le sue compe-
tenze distintive; all’interno di questa idea di business la reputazione e
l’immagine diventano una parte importante della strategia commerciale di
successo di un’impresa. Questo spiega il perché ogni strategia commerciale
deve tenere in considerazione la responsabilità sociale: molte idee di business
hanno profonde implicazioni non solo su quello che l’azienda produce ma
anche sul modo in cui l’impresa si organizza per fare business, cioè la sua
identità, che la caratterizza rispetto alle aziende concorrenti. Un’impresa che
perde congruenza tra la sua idea di business, la sua strategia e il suo ruolo so-
ciale (la sua integrità, cioè la capacità di essere onesta, etica ed integrata) è
più propensa a commettere errori e a dover rispondere di essi di fronte ai
propri stakeholder, rispetto ad un’azienda che tiene questi concetti allineati
(Schwartz, Gibb, 1999).

Fig. 3 – Elementi di un’impresa di successo (elaborazione da Schwartz e Gibb, 1999)

Business idea

Integrità Ruolo
Strategia sociale

73
I tre obiettivi proposti, di miglioramento dei risultati, delle relazioni e della
leadership, insieme ai benefici che ne conseguono, si applicano in quelle
aziende che guardano alla CSR come ad uno strumento necessario, strategi-
co e funzionale al loro business, che dà maggiore valore all’impresa non
solo sul piano economico, ma anche sociale e morale. La diversa percezio-
ne del ruolo e dell’ambito di applicazione della CSR nelle imprese, porta ad
identificare quattro approcci dissimili alla CSR (Pini, 2006):
1. l’approccio passivo-adattivo vede la CSR come una necessaria rispo-
sta al mutato contesto esterno, per cui la CSR serve a “sanare ciò che
si fa” rendendolo meno gravoso per la società e per l’ambiente, ma
non serve a fare diversamente, né in termini di output, né in termini
di processi. In quest’ottica, le istanze sociali vengono viste come dei
vincoli esterni che limitano la libertà del management nel definire le
strategie;
2. l’approccio della responsabilità di facciata è simile al precedente: in
questo caso il management usa in modo improprio la CSR per mi-
gliorare la propria posizione all’interno dell’arena competitiva e della
filiera di produzione. L’impresa comunica il suo impegno sociale,
ma non lo mette in atto, in quanto il suo obiettivo è quello di avere
un ritorno economico di breve termine, anche se mettendo in pratica
questo comportamento, attira verso di sé molti rischi;
3. l’approccio di adozione entusiastica della CSR concepisce la respon-
sabilità sociale come uno strumento utile per risolvere i conflitti in-
terni ed esterni all’impresa. È «una sorta di acceleratore di reputazio-
ne che permette al management di ridurre gli attriti con gli stakehol-
der grazie alla migliore immagine di cui l’impresa gode». Questo
approccio è il meno forte sia sul piano della motivazione, sia su quel-
lo degli strumenti di gestione e di controllo del fenomeno;
4. l’ultimo approccio è quello dell’integrazione strategica della CSR nel-
le politiche e nelle strategie aziendali. La responsabilità sociale è un
asset strategico delle aziende che adottano questo modello, che ha ridi-
segnato le loro strategie di base e, talvolta, la stessa mission
dell’impresa. Queste organizzazioni hanno ormai metabolizzato i pro-
cessi di CSR, attorno ai quali ruotano tutte le dinamiche aziendali, le
scelte manageriali e la condotta dell’impresa. Questi cambiamenti
hanno creato un impatto positivo nella relazione con il mercato e con
la rete di partner che garantiscono la creazione di valore per i clienti

74
finali. L’impresa migliora così la sua capacità di competere e differen-
ziarsi, e di creare una cultura e dei valori incentrati sull’integrazione
tra valore sociale e valore di mercato.
Per concludere, è importante definire anche il concetto di social respon-
siveness, che viene utilizzato per indicare più precisamente il modo con cui
le imprese rispondono in modo attivo e concreto alle sollecitazioni, pres-
sioni, attese del loro contesto sociale. Si tratta di un orientamento di fondo
dell’impresa che si realizza nella capacità di tenere in considerazione, nelle
proprie azioni e strategie, le implicazioni e i vincoli sociali connessi
all’attività organizzativa. I tratti caratterizzanti di questa prospettiva sono
due (Monaci, 2006):
a. il passaggio dalla CSR alla corporate social responsiveness ha porta-
to a concentrarsi sulle pratiche strategiche e manageriali più concre-
te, che possono essere completate introducendo nella struttura orga-
nizzativa strumenti di risposta sociale alle pressioni ambientali;
b. la CSR viene vista come costantemente integrata nel processo di pia-
nificazione e gestione strategiche, per rendere le dinamiche sociali
interne all’azienda congruenti con le varie norme sociali.
A proposito di social responsiveness, Carroll (1979) individua quattro
tipi di orientamento aziendale:
x reattivo, attraverso cui l’impresa nega o rifiuta qualsiasi responsabili-
tà di carattere sociale;
x difensivo, con cui l’impresa ammette certe responsabilità di tipo so-
ciale ma nello stesso tempo cerca di ridimensionarle o contrastarle,
limitandosi al minimo impegno nel farlo;
x adattivo, dove l’azienda non solo riconosce ma accetta la responsabi-
lità, impegnandosi a soddisfare le richieste provenienti dai suoi pub-
blici di riferimento;
x proattivo, tramite il quale l’impresa va oltre a quanto richiesto dalle
regole o dalle aspettative sociali, per prevedere e anticipare bisogni e
attese futuri.
Come si può notare, i quattro orientamenti di Carroll sono simmetrici ri-
spetto ai quattro approcci proposti da Pini, questa affinità dimostra il lega-
me evolutivo tra la CSR e la social responsiveness, che non rappresenta al-
tro che una specificazione della prima in termini di soluzione concreta alla
richiesta di maggiore impegno sociale da parte di tutti i pubblici di riferi-
mento dell’impresa.

75
1.3. I destinatari della CSR

Oggi qualsiasi impresa deve tenere conto di una molteplicità di interessi


rivendicati legittimamente da attori di varia natura, in grado di influenzarne o
addirittura determinarne i risultati. Se è vero che i rapporti con diversi stake-
holder sono mediati dal mercato e quindi inducono a strategie che non neces-
sitano di dialogo, è anche vero che le strategie di fidelizzazione del consuma-
tore o del lavoratore, di segmentazione del mercato e l’importanza di rapporti
basati sulla lealtà e la continuità con i fornitori e i clienti danno
all’organizzazione l’opportunità di gestire relazioni stabili e durature con tutti
i suoi pubblici di riferimento. L’impresa si trova quindi al centro di un siste-
ma di stakeholder interni ed esterni che porta al bisogno di informazione re-
ciproca, completa e trasparente, al confronto tra le posizioni e i reciproci inte-
ressi e alla gestione dei rapporti strategici che ne derivano.
Prima di procedere con il ragionamento, è doveroso spiegare chi sono gli
stakeholder e per farlo è indicativo iniziare con la definizione classica data da
Freeman (1984), secondo cui «stakeholder di un’organizzazione è qualsiasi
gruppo o individuo che può influenzare, o essere influenzato da, la realizza-
zione delle attività organizzative». Il termine stakeholder si riferisce quindi a
tutti coloro che hanno un interesse (non solo titoli di proprietà e diritti legali,
come gli shareholder, ma anche interessi e legittime attese o pretese) nelle de-
cisioni e nelle attività aziendali in termini di prodotti/servizi, politiche e pro-
cessi (lavorativi, produttivi, di vendita), e che nello stesso tempo sono in grado
di influenzarne il funzionamento. Il ventaglio degli interlocutori sociali si al-
larga sensibilmente includendo anche soggetti a cui l’impresa non è necessa-
riamente legata da rapporti giuridici o di scambio economico: per esempio, in
caso di chiusura di un impianto industriale, le parti coinvolte direttamente dal-
la decisione organizzativa, e quindi motivate a “farsi sentire”, non sono sol-
tanto quelle con cui l’azienda ha stretto rapporti contrattuali, come i dipenden-
ti, ma includono anche parti come i cittadini della comunità locale che vengo-
no danneggiati dal minore afflusso di entrate fiscali utili per il finanziamento
di servizi pubblici. Quest’ultimo è un vincolo che per il modello classico di
capitalismo del mercato, sostenuto da Friedman, non esiste, in quanto viene
riconosciuta come unica responsabilità da parte dell’impresa, quella di avere
riguardo e obblighi nei confronti di un unico interlocutore, gli azionisti, e al
massimo di quei soggetti o portatori di diritti sanciti legalmente, nella misura
in cui questi siano violati da particolari condotte aziendali. Friedman sostiene

76
che la responsabilità sociale di un’impresa consista nel creare profitti e ritiene
le considerazioni morali all’interno dell’organizzazione una scelta inefficiente
che porterebbe a travisare le priorità aziendali. Secondo l’economista, infatti,
il vero dovere sociale di un’impresa è quello di ottenere, in un mercato aperto,
corretto e competitivo, i più elevati profitti al fine di creare ricchezza e di ge-
nerare lavoro per tutti nel modo più efficiente possibile.
Successivamente, Freeman identifica gli stakeholder in senso più stretto,
distinguendo tra le relazioni che derivano dall’attività abituale dell’azienda
e dal coinvolgimento di gruppi senza la cui partecipazione essa non può
esistere come sistema operante (stakeholder primari), e le relazioni con par-
ti che, pur coinvolte dagli effetti dell’azione organizzativa e in grado di in-
fluenzare a loro volta il suo funzionamento, non sono normalmente impe-
gnate in rapporti diretti con l’organizzazione e non sono strettamente ne-
cessarie alla sua sopravvivenza (stakeholder secondari).

Fig. 4 – L’impresa e le relazioni con i suoi stakeholder (elaborazione da Carroll, Buchholtz,


2003)

Media Minoranze Donne


Amministrazioni
locali-regionali

Gruppi politici Governo Dipendenti Dipendenti


più anziani

Stato Azienda Sindacati

Pubblico in Attivisti
generale Comunità Proprietari

Gruppi Privati
ambientalisti Clienti Fornitori cittadini
Stakeholder primari
Gruppi civili Gruppo
istituzionali

Membri del
consiglio

Clienti effettivi Attivisti Concorrenti Fornitori Comunità


e potenziali primari e finanziaria
secondari
Stakeholder secondari

77
Mitroff (1983) propone invece la classificazione degli stakeholder in in-
terni ed esterni, dove per i primi intende gruppi quali gli azionisti e le di-
verse categorie di dipendenti, mentre i secondi sono interlocutori quali i
clienti, i fornitori, le comunità locali, le istituzioni. Infine Rowley (1997)
suggerisce il passaggio ad un network stakeholder model che rende più
esteso e complesso il sistema di interdipendenze dell’azienda, facendovi
rientrare anche le relazioni reciproche tra gli stakeholder di un’impresa, e
tra questi ultimi e i loro rispettivi stakeholder.

Le principali relazioni che l’impresa instaura con i soggetti interni ed


esterni sono riassunti nella figura sottostante:

Fig. 5 – I principali pubblici di riferimento dell’impresa

Le maggiori azioni che l’impresa intraprende verso i dipendenti consi-


stono in programmi di formazione, di partecipazione nella condivisione dei
codici e delle carte dei valori, di valorizzazione delle caratteristiche di ogni
dipendente, incontri per spiegare obiettivi e risultati, pratiche di comunica-
zione attraverso più mezzi (intranet, newsletter ecc.), attività dopo-lavoro,
programmi di salute e sicurezza. Per quanto riguarda i clienti, l’impresa si
impegna a garantire un buon grado di qualità, sicurezza e innovazione nei
prodotti, oltre ad un’informazione trasparente nei confronti dei consumatori
e delle relative associazioni e ad un servizio di assistenza post-vendita co-
stante per facilitare il cliente nell’uso del prodotto. Nei confronti dei forni-
tori, invece, l’organizzazione costruisce delle relazioni di partnership attra-
verso cui si controlla la qualità dei processi e dei prodotti (controllo delle
filiere) e si offre assistenza nei processi di certificazione e di formazione.

78
Le azioni verso la collettività prevedono delle iniziative di integrazione im-
presa-territorio, attività di cooperazione con le istituzioni locali e scolasti-
che, sostegno alle associazioni non profit e artistico-culturali e donazioni e
azioni filantropiche. La crescita di importanza verso l’ambiente porta
l’impresa ad intraprendere azioni come la riduzione delle immissioni, lo
sviluppo di prodotti a basso impatto ambientale, il riciclo e lo smaltimento
dei rifiuti aziendali, l’adesione a protocolli e iniziative internazionali. Infi-
ne, l’organizzazione pone alla base della relazione con i suoi azionisti un
codice di comportamento etico e un sistema di controlli di corporate go-
vernance utili per allineare le motivazioni del management a quelle degli
azionisti, con l’obiettivo di limitare gli obiettivi personali dei manager che
possono nuocere al benessere generale dell’azienda nel suo complesso.
La prospettiva degli stakeholder è fortemente collegata alla concezione
strategica dell’impresa e delle sue funzioni manageriali, per questo, nel
lungo periodo, le aziende tendono ad utilizzare strategie variabili (proattive,
adattive o reattive) di interazione con il proprio set di stakeholder a seconda
dell’importanza relativa assunta da ciascuno di questi rispetto al soddisfa-
cimento dei bisogni organizzativi critici che emergono lungo il ciclo di evo-
luzione dell’impresa. Per questo, l’analisi degli stakeholder rilevanti per
l’impresa ha importanti risvolti operativi, che si traducono in una serie di
step indirizzati all’azione concreta (Frederick, 1988):
a. delineare una mappa degli stakeholder effettivi dell’impresa;
b. definire le interazioni che mettono in rapporto tra di loro gli stake-
holder;
c. individuare gli specifici interessi, espliciti potenziali, di cui gli stake-
holder sono portatori;
d. definire il grado di potere e le risorse che ogni stakeholder può far
valere nell’interazione con l’impresa o con le controparti.
Per diventare del tutto completo l’approccio degli stakeholder comporta
anche una fase successiva, delicata e rilevante, che consiste nella ricerca di
un giusto bilanciamento tra i legittimi interessi in gioco, con l’obiettivo di ri-
solvere i dilemmi decisionali generati dalla natura conflittuale degli interessi
provenienti dai diversi pubblici di riferimento. Per incentivare questa pratica
oggi nelle organizzazioni si parla sempre più di stakeholder dialogue, rife-
rendosi al confronto tra l’azienda e i portatori di interesse, su basi tenden-
zialmente paritarie, allo scopo di assumere decisioni condivise. Questo stru-
mento sta acquistando sempre più valenza non solo come modalità di risposta

79
alle sfide interne ed esterne, ma anche come mezzo strategico di stakeholder
management, attraverso cui l’impresa concorda flussi di informazione traspa-
rente, reciproca e leale, persegue meglio i propri scopi economici e pattuisce
principi e obiettivi sociali e ambientali con chi è più interessato alla sua so-
pravvivenza e al suo sviluppo. Le condizioni di validità ed esistenza dello
stakeholder dialogue e, successivamente, dello stakeholder management so-
no sia di tipo interno che esterno: al suo interno l’azienda deve adottare e
credere nella CSR, attuare prassi trasparenti e applicare codici di comporta-
mento eticamente orientati; all’esterno è importante che gli stakeholder cre-
dano nella buona fede dell’impresa e siano convinti che non si tratta di una
politica di immagine e di comunicazione volta a manipolare il pubblico nel
breve periodo. È fondamentale quindi un buon livello di fiducia preliminare
tra le parti che potrà essere incrementato successivamente con il dialogo, che
permette di ottenere una più equilibrata ripartizione dei costi e dei benefici
generati dall’attività economica (Chiesi, 2005).

1.4. Gli strumenti della CSR

Gli strumenti della CSR sono un insieme integrato di elementi che con-
corrono a formare un sistema di gestione organizzativo con cui l’impresa
mostra la sua visione e, attraverso il contratto implicito con tutti i suoi sta-
keholder, realizza la sua missione sotto l’obbligo fiduciario di conseguirla
con efficacia, efficienza ed equità, completando così la rendicontazione tra-
dizionale sulla situazione economico finanziaria che teneva in considera-
zione soltanto il valore generato per l’azionista.
Secondo Emma Baldin (2005), è possibile concepire un modello di ge-
stione strategica che possa consentire alle organizzazioni un miglioramento
delle loro performance etico-sociali, attraverso l’utilizzo di sei strumenti della
CSR che trovano una loro concretizzazione all’interno del meccanismo della
reputazione e sono finalizzati ad accrescere la fiducia degli stakeholder verso
l’organizzazione. Gli strumenti, che permettono l’attuazione del modello, so-
no interdipendenti tra di loro e anche con le altre attività che contribuiscono
alla gestione strategica aziendale ai fini della CSR:
x la visione etica identifica un criterio “etico” di bilanciamento tra i di-
versi diritti e le diverse aspettative dei vari stakeholder, formando in

80
un quadro unitario di tipo strategico la missione e i valori
dell’organizzazione;
x il codice etico enuncia l’insieme dei diritti, dei doveri e delle respon-
sabilità dell’organizzazione nei confronti di tutti i suoi pubblici di ri-
ferimento e contiene i principi e le norme di comportamento che ar-
ricchiscono i processi decisionali aziendali e orientano i comporta-
menti. Il codice etico, insieme alla visione etica, sono due delle com-
petenze tra le responsabilità della Direzione;
x la formazione etica è formata dall’insieme delle attività che svilup-
pano e adeguano nel tempo la capacità di riconoscere, analizzare e ri-
solvere i dilemmi etici a livello organizzativo e attraverso la quale è
possibile comunicare e creare condivisione attorno ai principi del co-
dice etico, oltre che favorire l’introduzione dei diversi strumenti di
responsabilità etico-sociale. La formazione etica è una delle compe-
tenze della Gestione Risorse;
x i sistemi organizzativi di attuazione e controllo rappresentano invece
l’infrastruttura dell’organizzazione per il sostegno, il miglioramento
e il controllo della performance etica, attraverso l’allineamento delle
strategie, delle politiche e degli obiettivi aziendali con i valori e i
principi etici condivisi. Questi Sistemi, a livello organizzativo, sono
gestiti dalla divisione Realizzazione Prodotto;
x la rendicontazione etico-sociale prevede la predisposizione di un si-
stema di misurazione e di raccolta sistematica, di organizzazione e di
comunicazione dei dati relativi all’impatto delle attività organizzati-
ve sul benessere dei vari stakeholder, che comporta la valutazione
della coerenza tra i risultati conseguiti e gli obiettivi derivanti dalla
missione, dai valori e dal codice etico. La rendicontazione etico - so-
ciale prevede anche la rilevazione del grado di soddisfazione o in-
soddisfazione attraverso il dialogo con gli stakeholder in merito alla
corrispondenza tra le loro aspettative, gli obiettivi e i risultati
dell’attività aziendale, per questo è una prerogativa di chi gestisce la
comunicazione e la misurazione;
x la verifica esterna, svolta da un organismo terzo indipendente, serve
per accertare la conformità degli strumenti di CSR adottati e attuati
dall’organizzazione.
Tra questi sei strumenti, vorrei approfondirne due in particolare, il codi-
ce etico e la rendicontazione sociale, in quanto sono gli strumenti più diffu-

81
si ed utilizzati nelle imprese e rappresentano un punto di contatto fonda-
mentale tra azienda e pubblici di riferimento, attraverso il quale si realizza
la comunicazione dell’impegno etico-sociale dell’impresa e gli stakeholder
possono fornire importanti feedback per il miglioramento della performan-
ce organizzativa.
Il codice etico può essere considerato lo strumento principale per
l’istituzionalizzazione dell’etica all’interno dell’impresa. Una delle sue fun-
zioni è quella di creare all’interno dell’impresa una “licenza ad operare” con-
divisa, stabilendo delle norme comportamentali che regolino sia i comporta-
menti dei dipendenti fra di loro e verso l’impresa, sia le relazioni tra i membri
dell’organizzazione e gli stakeholder esterni. In questo senso è una specie di
“carta costituzionale dei diritti e dei doveri morali dell’impresa” che defini-
sce le responsabilità di ogni partecipante dell’organizzazione. Un’altra fun-
zione è quella di legittimazione morale dell’impresa, cioè il sostegno della
sua reputazione agli occhi degli stakeholder. Infine il codice etico ha impor-
tanti risvolti anche sulla formulazione delle strategie dell’impresa, fornendo
una dimensione deontologica nelle missioni aziendali che chiarisca quali so-
no le modalità con le quali si intendono perseguire gli obiettivi aziendali e
gestire la complessa rete di relazioni con tutti gli stakeholder. Alla luce di
queste funzioni, il contenuto del codice etico spazierà dai principi etici gene-
rali che definiscono i valori fondanti dell’impresa in base alla sua visione eti-
ca, ad una serie di specifiche norme di comportamento che chiariscono i
comportamenti ammessi e quelli vietati. Queste due dimensioni di contenuti
sono legate indissolubilmente una all’altra: da un lato le regole di condotta
hanno bisogno di principi etici generali che ne chiariscano il significato e i
fini ultimi, dall’altro le dichiarazioni sui valori perdono efficacia e credibilità
se non viene esplicitato il contenuto specifico in comportamenti concreti ed
osservabili.
La rendicontazione etico-sociale ha lo scopo di comunicare l’impegno
profuso dall’impresa e permette agli stakeholder di formarsi un giudizio
sulla stessa, costituendo la base per attivare relazioni di fiducia e per gene-
rare reputazione. Questo strumento è composto da tre parti fondamentali: il
bilancio sociale, il bilancio ambientale e il triple bottom line. Il bilancio so-
ciale è un documento che le aziende redigono volontariamente per rendere
conto del loro comportamento agli stakeholder, ai quali riferiscono sui ri-
sultati e sugli effetti delle relazioni che con loro intrattengono, migliorando
i rapporti esistenti e facendo crescere il senso di responsabilità all’interno

82
dell’azienda. Il bilancio sociale non è un documento contabile ma è stret-
tamente collegato al bilancio d’esercizio dal quale attinge dati e notizie e
rispetto al quale svolge una funzione integrativa: come quest’ultimo fa par-
te del sistema informativo aziendale e viene redatto con cadenza annuale.
Anche questo strumento ha due finalità complementari: informare sulle per-
formance aziendali i terzi e orientare, insieme ad altri strumenti di quantifi-
cazione, le decisioni future dell’impresa dopo aver provveduto a controllar-
ne i risultati. Per le aziende erigere e comunicare il bilancio sociale ha
quindi anche come obiettivo quello di gestire il consenso sociale e di creare
opportunità di partecipazione e di negoziazione, con il fine ultimo di mi-
gliorare la coerenza del sistema-impresa come organizzazione dinamica. Il
bilancio sociale quindi dovrebbe presentarsi come un documento di sintesi
chiamato ad esaltare i risultati contabili del bilancio tradizionale, calandone
l’analisi nella più ampia realtà e complessità del sistema di interrelazioni
che l’azienda attiva e gestisce. I bilanci sociale e tradizionale dovrebbero
diventare, congiuntamente presentati ed interpretati, la «sintesi di un siste-
ma d’informazioni creato per favorire il cambiamento possibile delle forme
e dei rapporti che costituiscono il tessuto socio-economico e delle relazioni
impresa-ambiente» (Matacena, 1984).

Tab. 2 – Tipologie, ambiti e utilizzazioni del bilancio sociale (rielaborazione da Keller Re-
bellon, Rodes Biosca, 1982)

AMBITI SOCIALI IN CUI


TIPOLOGIA SI CREA/UTILIZZA UTILIZZAZIONI
L’INFORMAZIONE
Management Relazioni pubbliche a
Bilancio sociale in senso tutela dell’immagine
Quadri tecnici
stretto (lavoratori dipendenti)
Operai Negoziazione, consul-
Azionisti tazione, partecipazione
Bilancio sociale in senso
ampio (ambiti sociali presenti Clienti/fornitori Rispondenza ai vincoli
nel sistema impresa) Finanziatori socio-economici imposti
Stato
Programmazione e
Collettività locali
Bilancio societale controllo della gestione
Gruppi informali di economico-sociale
pressione

Il bilancio ambientale designa uno strumento informativo che riguarda


esclusivamente il profilo ecologico della gestione, considerando un solo

83
aspetto dell’attività aziendale, il rapporto con l’ambiente fisico naturale e
gli effetti che ne scaturiscono, e una sola categoria di interessi, quelli am-
bientali, che per loro natura riguardano la collettività. Il bilancio ambientale
è lo strumento che raccoglie i dati quantitativi e il valore monetario relativi
al consumo dì materie prime e di energia, alla produzione di inquinanti
provocati dall’attività produttiva e alle spese ambientali. Esso trova appli-
cazione nelle aziende che non fanno uso del bilancio sociale, altrimenti
rappresenterebbe un capitolo o una parte di quest’ultimo. La scelta di ricor-
rere al bilancio ambientale è di solito basata sulla volontà
dell’organizzazione di portare avanti un processo di riorientamento strate-
gico verso modelli di gestione eco-compatibile, basati sull’adozione di si-
stemi di gestione e di audit ambientale (EMAS) e/o di standard di qualità
ambientale (ISO 14000). Il triple bottom line è uno strumento di rendicon-
tazione che prevede la rilevazione sui tre piani economico, sociale, ambien-
tale, dell’impegno assunto e dei risultati raggiunti dall’impresa. Il termine
fa riferimento all’ultima riga del bilancio finanziario che espone il guada-
gno o la perdita, che nel nostro caso sarà tripla, riportando i guadagni e le
perdite non solo in ambito economico ma anche sociale ed ambientale.
Questo modello di rendicontazione è particolarmente recente e prevede la
redazione di un unico ed esaustivo documento di bilancio, in grado di in-
corporare i risultati complessivi raggiunti nei tre ambiti in cui l’impresa
opera, nel corso dell’esercizio. Le ragioni che hanno spinto verso questo
modello derivano soprattutto dal fatto che l’impresa oggi non è considerata
soltanto un attore economico ma anche un’istituzione sociale che in quanto
tale deve rispondere in modo trasparente dei suoi comportamenti e comuni-
care i risultati che persegue in tutti gli ambiti di riferimento ai suoi stake-
holder, offrendo una risposta all’esigenza di chiarezza e trasparenza che
proviene dall’esterno e dall’interno dell’organizzazione.
Per concludere è necessario sottolineare l’importanza delle certificazioni
come strumento utile non solo ai fini della CSR ma più in generale alla ge-
stione dell’impresa nel suo complesso. Questi sistemi di gestione sono nati
nella seconda metà del Novecento e inizialmente si ponevano come obiettivo
la conformità del prodotto attraverso modelli organizzativi rispondenti a par-
ticolari requisiti, successivamente cambiarono il proprio obiettivo preoccu-
pandosi della soddisfazione del cliente. Le certificazioni che rispondono a
queste qualità sono la famiglia delle ISO 9000, un corpo di norme finalizzate
ad aiutare qualsiasi tipo di organizzazione a progettare, realizzare e mantene-

84
re sistemi di gestione per la qualità. Nel corso del tempo, l’evoluzione dei si-
stemi gestionali ha portato a considerare norme non solo orientate alla qualità
del prodotto/servizio e alla soddisfazione del cliente, ma anche alla soddisfa-
zione di altre categorie di soggetti: per esempio, le norme ISO 14000 chiedo-
no alle imprese di definire la propria politica ambientale, impegnandosi nella
tutela dell’ambiente per la vita delle generazioni presenti e future; ISO 17779
introduce il concetto di sistema di gestione nell’ambito del trattamento delle
informazioni e della tutela dei dati personali; la norma OHSAS 18000 invece
si preoccupa di gestire in un’ottica di prevenzione e di miglioramento le pro-
blematiche relative alla salute e alla sicurezza dei lavoratori e degli impianti
dell’azienda, con modalità che garantiscono l’osservanza delle leggi e la cor-
retta gestione dei rischi. Infine, nel 1997, è stato pubblicato lo standard SA
8000 indirizzato ad aiutare le organizzazioni a realizzare e mantenere i siste-
mi di gestione per la CSR verso un particolare stakeholder: il lavoratore.
L’impresa deve infatti dimostrare che sono state messe in atto politiche e
procedure per gestire le attività relative ai rapporti e alle condizioni di lavoro
che siano in grado di migliorare il governo delle proprie risorse umane.

85
2. OBIETTIVO ECONOMICO ED OBIETTIVO
SOCIALE: ANTINOMIA O CONVERGENZA?

Quale tipo di relazione esiste tra economia ed etica? Entrambe le discipli-


ne si occupano di studiare il comportamento umano, ma con finalità diverse:
l’economia è alla ricerca di quei principi che spiegano le interazioni tra sog-
getti che vivono in una società e che riguardano la produzione, lo scambio, il
consumo di beni e servizi, con tutto ciò che questo implica; l’etica si occupa
dei principi capaci di giustificare perché certi modi di interazione, piuttosto
che altri, sono giusti, benefici o desiderabili. Ne deriva che se è vero che le
spiegazioni dell’economia non ci dicono se il comportamento umano di cui si
occupa è eticamente giustificabile, è anche vero che le giustificazioni
dell’etica non ci dicono se il comportamento che essa studia è economica-
mente esplicabile. Si deve quindi concludere che tra economia ed etica non ci
sia alcun collegamento? Alcuni studiosi, come Morri (2004) e Orsini (2006),
ritengono che questo non sia vero, in quanto entrambe le discipline fanno ap-
pello alle capacità logiche dell’individuo: l’economia spiega le interazioni
sociali sostenendo l’esistenza di individui razionali che massimizzano un
qualche obiettivo sotto certi vincoli; l’etica giustifica le interazioni sociali a
partire dal fatto che la razionalità degli individui li spinge a conformare il
proprio comportamento a standard di condotta universalmente accettabili. Da
notare, tuttavia, la diversità: le spiegazioni dell’economista servono a mostra-
re che certi tipi di interazione, piuttosto che altri, sono razionalmente giustifi-
cati; le giustificazioni dell’eticista, invece, servono a mostrare che certi mo-
delli di interazione sono razionalmente comprensibili o esplicabili.
Da sempre gli aspetti più concreti, come per esempio il capitale della
conoscenza e il capitale economico per scambiare, produrre, acquistare, so-
no stati assegnati dall’economia a persone con competenze tecniche, men-

86
tre all’etica è stata riconosciuta e affidata la definizione dei vincoli morali,
ponendo in questo modo tale materia al di fuori del discorso economico ve-
ro e proprio, dato che ad essa viene delegato il ruolo di “porre paletti” al
campo di indagine. L’economista in questo modo è sempre riuscito a lavo-
rare indisturbato da preoccupazioni etiche pur riconoscendone la rilevanza,
è sempre riuscito cioè ad evitare i pericoli dell’intromissione dei valori e
dei giudizi di valore nella scienza economica Ci si può domandare quindi
da dove derivi questa paura dell’economista causata dalla possibile infiltra-
zione dei valori nel suo mestiere (Zamagni, 2006).
Secondo Zamagni (2006), scaturisce dalla preoccupazione, da parte del-
la scienza economica, di non aver le carte in regola con le richieste di ga-
rantire l’oggettività della ricerca scientifica, vale a dire la capacità di forni-
re una “verità oggettiva” e non dei valori soggettivi. Tuttavia l’autore af-
ferma che tale “divisione dei compiti” tra economia ed etica ha fatto como-
do, sotto certi punti di vista, anche all’etica, che, una volta indicati i vincoli
di natura morale sotto i quali doveva svolgersi l’attività economica, non ha
mai avvertito il bisogno di occuparsi anche di questioni economiche, nem-
meno per quanto riguardava il controllo del rispetto dei valori nel corso
dell’azione economica.
Questa distinzione tra economia ed etica si ripresenta poi a livello azien-
dale, dove è abbastanza diffusa l’opinione che nelle società di capitali in cui è
presente una separazione tra assetto proprietario e controllo dell’impresa si
possa creare un’antinomia tra interessi correlati alla responsabilità sociale
delle imprese, perseguiti dai manager, e interessi degli azionisti, ritenendo
questi ultimi in contrapposizione con i primi. Questo avviene perché si tende
a considerare la responsabilità sociale qualcosa di profondamente dicotomico
rispetto all’interesse, primario per gli azionisti, di massimizzare i propri pro-
fitti. Bisogna quindi capire l’importanza che la CSR riveste dal punto di vista
economico per poter sgomberare il campo da una visione utilitaristico-
reputazionale della stessa e poterla legittimare a tutti gli effetti come attività
utile all’impresa per la sua crescita e il suo sviluppo a lungo termine. Per
chiarire questo punto è necessario analizzare il rapporto che esiste tra impresa
e profitto: il profitto costituisce infatti il fondamento indispensabile
dell’attività aziendale, senza profitto non ci sarebbe impresa e di conseguenza
non ci sarebbe nemmeno responsabilità sociale; quest’ultima infatti, se viene
intesa come «un processo interno e partecipato che permette il bilanciamento
tra poteri e istanze a volte contrapposte», diventa il fine dell’impresa, che è

87
cosa ben diversa dal fondamento della stessa. La prima responsabilità sociale
di un’impresa, se così la si vuole chiamare, è la produzione di ricchezza.
Un’impresa sensibile al sociale, ma incapace di perseguire un progetto di svi-
luppo in grado di generare ricchezza, è destinata a vedere abbattuta anche la
propria valenza sociale. Infatti la principale responsabilità ai vertici aziendali
nei confronti di tutti i propri interlocutori è quella di assicurare il duraturo
perseguimento della missione propria dell’impresa, la realizzazione di beni
utili al vivere dell’uomo, perseguendo così livelli crescenti di qualità ed effi-
cienza. A tale missione, e solo a essa, si collegano poi gli altri benefici pro-
dotti a favore della società: la generazione di opportunità occupazionali diret-
te o attraverso l’indotto (componenti e servizi per l’impresa, servizi per i la-
voratori e le loro famiglie), lo sviluppo e la diffusione delle conoscenze
(scientifiche, tecnologiche, commerciali, manageriali, organizzative), il con-
tributo all’equilibrio commerciale nazionale, la generazione di tributi per lo
Stato e gli enti locali, e cosi via. Invece gli azionisti, che vogliono veder cre-
scere il profitto, tendono verso una coincidenza tra il fine da perseguire (mas-
simizzazione del profitto) e il fondamento dell’impresa, cioè il profitto. Ma
questa tendenza tipica degli azionisti oggi trova un limite nel fatto che
l’impresa moderna è un microcosmo intorno al quale ruotano attori diversi,
con fini diversi. Perché l’impresa moderna possa crescere in un’ottica di so-
stenibilità di medio-lungo periodo e non si diriga verso il declino è importan-
te che avvenga un bilanciamento tra queste tensioni contrapposte. In questo
senso, non esiste una reale opposizione tra il fine degli azionisti e gli altri fini
a cui tende l’impresa, perché è come se tutti gli attori che partecipano al pro-
cesso aziendale perseguissero una sorta di “meta-fine” che coincide con il
raggiungimento di un equilibrio sostenibile di medio-lungo periodo che indu-
ce tutti gli attori a scambiarsi reciproche concessioni rispetto ai propri fini in-
dividuali per rendere possibile il bilanciamento di domande contrapposte.
Comunque, la possibilità che si verifichino comportamenti opportunistici, in
un sistema di libero mercato retto da un forte sistema valoriale, viene oggi-
giorno disincentivata dagli stessi shareholder, consci del rischio di subire,
prolungando nel tempo condotte spregiudicate, la sanzione morale del merca-
to, con la conseguenza di non riuscire più nemmeno a ottimizzare i propri
profitti (Nobili, 2005).
Sono quindi gli stessi meccanismi che appartengono ad un mercato sano
ad impedire il verificarsi dell’antinomia e ad indurre gli azionisti a diventa-
re attori proattivi nel processo della responsabilità sociale. I risultati che si

88
perseguiranno, secondo quest’ottica, saranno risultati ottimizzati, non più
massimizzati. Ecco quindi come il gap tra massimizzazione ed ottimizza-
zione rappresenta il prezzo che gli azionisti pagano nell’ambito del proces-
so partecipativo di ridefinizione della gestione dell’impresa che adatta, bi-
lanciandole, richieste spesso contrapposte, con il fine di rispettare una cor-
retta politica di CSR (Nobili, 2005).
Si può dunque dire che l’impresa (Matacena, 1984):
a. ha una responsabilità micro-economica (o aziendale) che consiste nel
conseguimento di obiettivi reddituali, di sopravvivenza e di ottimiz-
zazione a lungo termine dei profitti azionari;
b. dal punto di vista macro-economico si considera vitale, a prescindere
dai profitti espressi nei confronti dei proprietari, quando produce più
ricchezza rispetto a quanta ne consuma, in questo caso la responsabi-
lità consiste nel creare valore aggiunto contribuendo così alla forma-
zione del prodotto interno lordo nazionale.
Profitto, prodotto interno lordo e valore aggiunto rappresentano, in ter-
mini economico-finanziari, solo una parte dell’attività dell’impresa che, se
analizzata soltanto sotto questi aspetti, risulterebbe isolata dal contesto in
cui vive; inoltre il considerare unicamente gli aspetti economici potrebbe
portare a far prevalere un comportamento che rifiuta la responsabilità e la
costosità delle scelte sociali, comportamento che se nel breve periodo porta
a perseguire più velocemente e facilmente la massimizzazione del profitto,
a lungo può esasperare la tensione dei gruppi sociali esponendo l’impresa a
crescenti difficoltà nell’operare e a maggiori costi aziendali rispetto a quelli
che una politica improntata sulla CSR comporterebbe (Matacena, 1984,
Robbinson, 1970).
Quindi, laddove il sistema delle imprese non si assumesse responsabilità
sociali coerenti con l’intensità e la numerosità dei rapporti di interscambio
esistenti con l’ambiente, le imprese stesse, nelle loro dimensioni attuali, po-
trebbero essere circoscritte in spazi così limitati da non farle risultare vitali.
Questo aspetto è negativo soprattutto considerando il fatto che lo sviluppo
della dimensione dell’impresa e del sistema di imprese è il propulsore che
garantisce alle stesse la sopravvivenza in un’economia di mercato.
Di conseguenza sia il rifiuto, che come visto comporta necessariamente
una successiva assunzione, sia l’assunzione immediata di responsabilità so-
ciale, inducono l’impresa al perseguimento di un doppio equilibrio economi-
co-finanziario e sociale che esprime tutti gli ambiti in cui opera l’impresa.

89
Questi equilibri mirano al raggiungimento di un unico sistema di obiettivi
economico-sociali che l’azienda deve realizzare nel tempo, tenendo conto
anche della dinamicità e mutevolezza degli equilibri stessi: quello economico
cambia in relazione ai continui mutamenti dei rapporti impresa-mercato,
quello sociale evolve per la modifica dei rapporti impresa-ambiente, dovuta
all’emergere di una diversa e maggiore nozione di coscienza sociale e fun-
zione sociale che la collettività attribuisce all’impresa (Matacena, 1984).

Fig. 6 – Il sistema di equilibri a cui dovrebbe tendere l’impresa (www.enel.it)

«L’economico ed il sociale sono dunque legati, non fosse altro perché


una certa ricchezza è una condizione necessaria (anche se non sufficiente)
del progresso sociale. Infatti la nozione del “sociale” è soprattutto legata
alla nozione di distribuzione: distribuzione delle ricchezza creata coincide
con equità delle ripartizione materiale, distribuzione del potere coincide
con equità della ripartizione dei ruoli» (Marquès, 1978). In definitiva, al
crescere del potere economico dell’impresa deve crescere anche il livello
degli obiettivi sociali da perseguire, in questo modo il potere di scelta si
coniuga con l’assunzione di responsabilità socio-economiche.

90
Fig. 7 – Obiettivi economici e obiettivi sociali da perseguire nel lungo periodo (Matacena,
1984)

Provvisoriamente accettabile, fino ad +


una certa soglia di negatività economica
ACCETTABILE

sociale
economico +
-
Provvisoriamente accettabile, fino ad una
INACCETTABILE certa soglia di negatività sociale

Lo sviluppo dell’impresa, come si vede nella figura 7, può essere perse-


guito soltanto evitando che le condizioni di crescita di indole economica
(produttività, competitività, redditività, accumulazione di risorse) siano rea-
lizzate a scapito delle istanze sociali e che queste ultime prevalgano sulle
prime; in questo modo le due prospettive, economica e sociale, sono perce-
pite come reciprocamente funzionali in una visione ampia per il futuro
dell’impresa e della società, finendo per unirsi sinergicamente fino a diven-
tare un tutt’uno (Coda, 1991). Questo non esclude però che di fronte a par-
ticolari situazioni, in certi periodi, possano venir prese decisioni che diffi-
cilmente si conciliano con la simultanea soddisfazione dei molteplici inte-
ressi che la gestione d’impresa implica. Infatti non di rado si assiste allo
svolgersi di accadimenti che portano all’attuazione di programmi aziendali
che graduano nel tempo gli obiettivi di diverso tipo, prediligendo in alcuni
momenti quelli di natura economica mentre in altri quelli di natura sociale.
Questo accade sia nella contrapposizione degli obiettivi di economicità con
quelli di socialità, sia nell’ambito delle attese economiche e sociali tra loro
in conflitto. È compito del management perseguire l’obiettivo della soprav-
vivenza e dello sviluppo dell’impresa stabilendo un orientamento strategico
in grado di soddisfare, unitamente alle proprie motivazioni, l’insieme inte-
grato delle attese delle forze interne ed esterne all’impresa. La Direzione
deve quindi agire come mediatore e per farlo deve migliorare la quantità e
la qualità delle conoscenze che riguardano le conseguenze dei diversi pro-

91
blemi sociali i quali, tra l’altro, intersecano per più di un aspetto gli obietti-
vi strettamente economici (Manni, 1998).
Davide Dal Maso (2009), segretario generale del Forum per la finanza
sostenibile, in occasione della decima edizione dell’IT Forum Investment &
Trading, ha ribadito che lo scopo principale dell’approccio responsabile
adottato dai manager aziendali, consiste nel realizzare strategie di portafo-
glio capaci di integrare elementi ambientali, sociali ed etici nei processi di
investimento, ottenendo così una coerenza tra le convinzioni di ordine mo-
rale del risparmiatore e, più in generale, dei pubblici influenti, e i risultati
prodotti dall’attività degli emittenti in cui si investe. A livello internaziona-
le questo approccio è riassunto dall’acronimo ESG che sintetizza, appunto,
i criteri ambientali (enviroment), sociali (social) e di trasparenza e corret-
tezza nella gestione dell’impresa (governance) che confluiscono
nell’investimento responsabile. Secondo Dal Maso bisogna dunque sfatare
l’idea secondo cui l’investimento sostenibile ha un rendimento inferiore,
perché il riconoscimento e la diffusione negli ultimi anni dei valori riassunti
dall’ESG ha portato, dal punto di vista economico, a forme di gestione più
stabili e meno soggette al coinvolgimento in situazioni incerte e pericolose
per l’attività dell’organizzazione.
Da quanto detto si può capire perché l’impresa oltre ad informare i terzi
del raggiungimento dell’obiettivo economico, tutelando la propria immagi-
ne di efficace attore economico, abbia la necessità di informarli anche per
quanto riguarda il perseguimento dell’obiettivo sociale, così da utilizzare
queste informazioni come strumento di difesa e mantenimento di buon cli-
ma sociale e quindi di controllo della conflittualità, che vada a confermare
la legittimazione e la sopravvivenza dell’azienda stessa.
Uno strumento utile per analizzare la convergenza tra obiettivo econo-
mico e obiettivo sociale è la matrice «rilevanza sociale/convenienza azien-
dale» (Molteni 2007), che può essere utilizzata per valutare le varie inizia-
tive realizzate alla luce di due criteri: i benefici generati per i vari gruppi di
stakeholder e la convenienza per l’azienda stessa. La rilevanza sociale
dell’azione è il risultato di una valutazione di sintesi che ha tre determinan-
ti: i. la rilevanza segnata dal management; ii. la rilevanza attribuita dagli
stakeholder; iii. la rilevanza derivante dal grado di diffusione di una certa
pratica nel contesto di riferimento. La convenienza aziendale, a sua volta, è
la risultante tra la contrapposizione tra i benefici e i costi di una determinata
azione di CSR.

92
Per ciascuna delle due dimensioni, rilevanza sociale e convenienza
aziendale, è proposta una scala che prevede tre punteggi: per la rilevanza si
prevedono i tre gradi scarsa, media, alta, mentre per la convenienza le tre
valutazioni sono no, incerta, sì.
La possibilità di incertezza dipende soprattutto dal fatto che i benefici
delle azioni di CSR spesso sono di natura intangibile e differiti nel tempo,
dunque difficilmente misurabili. Incrociando le valutazioni relative a rile-
vanza e convenienza si arriva ad una matrice a nove quadranti. Le linee
curve che delimitano gli spazi di tali quadranti consentono di identificare
cinque aree rilevanti per la formulazione di una politica unitaria di CSR.

Fig. 8 – La matrice rilevanza sociale - convenienza aziendale (Molteni, 2007)

D. trade-off A. sinergie
ALTA B.
orientamento
sociale
RILEVANZA SOCIALE

MEDIA C. spesa
sostenibile

BASSA E. rinvio

NO INCERTA SÌ

CONVENIENZA AZIENDALE

93
Le azioni di CSR che ricadono nell’area A delle sinergie meritano di es-
sere approvate e realizzate in quanto presentano benefici maggiori rispetto
ai costi connessi. In questo caso orientamento socio-ambientale e tensione
alla competitività e alla redditività si coniugano perfettamente.
L’area B, o dell’orientamento sociale, identifica azioni dall’esito incerto
(e in qualche caso negativo), ma di grande rilevanza. Il management
dell’impresa, che decide di intraprendere le azioni posizionate in quest’area,
manifesta in questo modo la sua ferma volontà di incorporare nella strategia
la CSR; quest’ultima diventa così un tratto caratteristico della cultura azien-
dale.
L’area C della spesa sostenibile identifica azioni rilevanti ma in cui la
relazione costi-benefici è sfavorevole o incerta. Si tratta di iniziative che è
ragionevole intraprendere solo se i risultati economici dell’impresa sono
così soddisfacenti da consentire il finanziamento dell’orientamento socio-
ambientale deciso nella strategia aziendale.
L’area D, detta triangolo del trade-off, identifica azioni di grande rile-
vanza ma di altissimo costo per l’impresa. In questa situazione l’alternativa
è drastica: o si procede sacrificando, almeno temporaneamente, le attese
sociali per attuare la strategia competitiva; o si mette in discussione la stra-
tegia competitiva nel caso in cui i danni che potrebbero ricadere su alcune
categorie di stakeholder fossero inaccettabili sotto il profilo morale.
L’area E, infine, è detta del rinvio in quanto comprende azioni che, per
la loro scarsa rilevanza e lo svantaggioso rapporto costi-benefici, in un cer-
to momento non meritano di essere intraprese. Esse potranno però essere
riconsiderate in seguito nel caso in cui il cambiamento del contesto ne ab-
bia accresciuto la rilevanza o modificato il profilo di convenienza.
Per quanto riguarda il tema del bilanciamento degli interessi, in partico-
lare degli interessi economici rispetto agli altri interessi presenti
nell’organizzazione, è necessario riprendere ed approfondire la questione di
cui si è discusso inizialmente del rapporto che intercorre tra gli azionisti e i
manager (Denozza, 2005). Gli azionisti sono il gruppo che all’interno
dell’organizzazione ha il più intenso interesse verso il buon funzionamento
dell’impresa, il gruppo il cui interesse sintetizza in sé quello di tutti gli altri,
in quanto solo soddisfacendo gli altri può soddisfare se stesso. Questo non
esclude che tra gli azionisti e altri soggetti interessanti dal punto di vista pa-
trimoniale vi siano dei conflitti di interesse che derivano da fenomeni di

94
opportunismo e di disallineamento delle aspettative, conflitti che possono
essere governati con strumenti come la legge o le varie forme di contratto.
La gestione del rapporto tra gli azionisti e i manager è invece più com-
plicato, perché non è possibile stilare un contratto che elenchi in modo
completo tutte le eventualità che un’impresa sociale può trovarsi a fronteg-
giare. I manager infatti, come è stato detto prima, sono il fulcro di una
complicata attività di coordinazione tra una variegata schiera di soggetti
con diversi interessi e capacità, e il rischio, a questo proposito, è quello che
essi, sfruttando questo concentrato di costi di transazione, riescano a con-
vogliare a loro favore la situazione, garantendosi alti stipendi e la soddisfa-
zione dei propri interessi, soprattutto a scapito di quelli degli azionisti. Ecco
perché per governare i rapporti tra i manager e gli azionisti sono stati inven-
tati degli appositi strumenti di corporate governance.
Alla luce di tutto ciò si può quindi constatare come gli amministratori
tendano ad avere nei confronti degli azionisti una particolare responsabilità
generale che non hanno nei confronti di nessun altro. In questo caso non ci
sarebbe spazio per il bilanciamento degli interessi perché, sebbene i mana-
ger debbano assolvere gli obblighi di legge e di contratto nei confronti di
terzi, il tutto dovrebbe sempre avvenire nell’ottica del perseguimento pri-
mario dell’interesse dei soci, verso i quali gli amministratori hanno un “do-
vere di fedeltà” peculiare. In questo modello la possibilità che i valori della
CSR si affermino tra i criteri guida dei comportamenti dei manager è quasi
nulla, poiché tutto ciò che rimanda alla sfera della responsabilità sociale
viene limitato e affidato in via esclusiva alle norme di legge, che impongo-
no comportamenti sociali e stabiliscono le relative sanzioni in caso di vio-
lazione degli stessi (Denozza, 2005).
D’altra parte però l’estensione dei doveri fiduciari dei manager, in rife-
rimento alla soddisfazione di ogni singolo interesse oltre a quello degli
azionisti, ha comportato l’iniziale avversione di molti, poiché questo avreb-
be provocato un ampio allargamento del potere discrezionale dei manager,
visti i molteplici bilanciamenti di interessi di cui avrebbero dovuto tener
conto. Questa visione è in netto contrasto con il concetto di responsabilità
sociale, che si fonda, appunto, sull’armonizzazione e l’equilibrio delle
aspettative di tutti gli stakeholder dell’azienda.
Denozza (2005) sostiene a tale proposito che le leggi e i contratti non
sono in grado di fornire tutte le garanzie e i vincoli per evitare comporta-
menti opportunistici da parte dei soggetti di una relazione, per questo il

95
mettere in atto le pratiche della CSR e del bilanciamento degli interessi
rappresenta la via più efficace, da un lato, per superare gli ostacoli che na-
scono dalle relazioni tra l’impresa e i suoi stakeholder e che non sono con-
templati in documenti formali e, dall’altro, per procurare all’organizzazione
le risorse di cui ha bisogno nel modo più economico possibile.
Nel complesso si può quindi vedere che la pretesa di trovare
nell’interesse alla massimizzazione del profitto l’unico parametro in grado
di vincolare le scelte dei manager e, dunque, l’unico interesse da persegui-
re, fallisce di fronte alla constatazione dell’esistenza di conflitti d’interesse
e di opinioni divergenti sul perseguimento dei profitti e degli obiettivi
aziendali che non riguardano solo i rapporti tra i soci e gli altri stakeholder,
ma anche i rapporti tra gli stessi soci e tra gli stessi investitori, che sono
portatori di interessi non omogenei e hanno caratteristiche diverse che li
contraddistingue rendendoli dissimili gli uni dagli altri.
Alla fine, uscendo da una contrapposizione dualistica tra interessi dei
soci e interessi del resto del mondo, potrebbe essere sperimentata una pro-
tezione di qualche specifico interesse generale che, in base ai propri obiet-
tivi, un’organizzazione moderna dovrebbe perseguire, in questo modo ver-
rebbero soddisfatti sia gli interessi dei soci, a cui importa che l’impresa go-
da di un buono stato di salute soprattutto dal punto di vista economico, sia
gli interessi degli altri stakeholder che, in quanto tali, hanno differenti atte-
se nei confronti dell’azienda. Mettere l’impresa e la sua sopravvivenza al
centro come interesse predominante potrebbe dunque essere la soluzione
che mette d’accordo le molteplici parti in gioco e che permette ai manager
di operare in modo più deciso e concreto per il bene dell’organizzazione
(Denozza, 2005).
Nel corso della trattazione, è stata richiamata più volte la figura del mana-
ger che, come spiegato, ha una responsabilità cruciale all’interno
dell’azienda: egli infatti non favorisce soltanto la convergenza degli obiettivi
economici e sociali per aumentare i risultati positivi e il successo
dell’impresa, ma opera anche al fine di creare un equilibrio stabile tra gli in-
teressi che la popolano per mantenere i rapporti con tutti gli stakeholder, evi-
tare i conflitti di interesse e ottenere sempre in maniera efficiente tutte le ri-
sorse di cui l’azienda ha bisogno. Le scelte portate avanti dai manager deter-
minano quindi la vita dell’impresa, la sua sopravvivenza economica, i suoi
successi ed insuccessi e i suoi rapporti con gli stakeholder. Queste scelte non
sono soltanto il frutto di calcoli di convenienza o di strategie all’interno

96
dell’arena competitiva, ma dipendono molto anche dalla cultura e dalle cono-
scenze dei manager stessi, che nelle imprese agiscono non solo come profes-
sionisti ma anche come uomini che portano con sé una coscienza e una mora-
lità che condividono con molte altre persone in quanto membri della società.
«Despite globalization, business people are prisoners of their culture
and don’t realize it»1.
Peter Melchett, Greenpeace.
Vorrei quindi partire dalla frase sopra citata per presentare un punto di
vista che ho subito ritenuto degno di attenzione. Schwartz e Gibb (1999)
infatti arricchiscono il tema della scelta e della responsabilità da parte del
manager con un’argomentazione innovativa di cui, a mio parere, è impor-
tante tenere conto durante i processi decisionali all’interno delle organizza-
zioni.
I due autori considerano gli amministratori non solo per il ruolo che ri-
vestono all’interno dell’impresa ma anche per la loro natura umana: è ne-
cessario infatti non dimenticare che i manager sono prima di tutto individui
e in quanto tali devono fare i conti con le loro credenze e idee e devono agi-
re tenendo conto del proprio senso di responsabilità, non solo del loro inca-
rico come membri di un’organizzazione. Come agirebbero dunque questi
semplici “uomini” di fronte a situazioni di crisi, ad attività o a decisioni cri-
tiche? Quale sarebbe la loro posizione una volta spogliati del loro potere e
della loro carica? Schwartz e Gibb hanno individuato a tal proposito sei
step che hanno definito “personal, not corporate, ones” ma che sono in
grado di influire positivamente nel governo dell’organizzazione.
1. Stop and think: prima di prendere qualsiasi decisione e metterla in at-
to il manager deve dare uno sguardo alle proprie convinzioni morali,
ai propri valori, ai propri esempi con cui si immedesima. È vero che
in ogni persona è insita la dicotomia lavoro (dove si pensa a ciò che è
meglio per l’azienda) – morale personale (ciò che penso ed è meglio
per me come individuo inserito in una comunità) ma è stato provato
da diversi casi aziendali che utilizzare le faccende morali e le energie
emotive dei dipendenti e dei soggetti aziendali aiuta a prevenire le

1
Traduzione personale: «Nonostante la globalizzazione, gli uomini d’affari sono prigionieri
della loro cultura, e non ne sono consapevoli».

97
crisi, ed è un modo migliore rispetto al riparare a posteriori i danni
che esse comportano.
2. Identify your opportunities: il manager deve condurre delle ricerche
per identificare delle opportunità entro il quale agire perseguendo
nello stesso tempo le sue convinzioni, creando un equo bilanciamen-
to tra lavoro e morale. Un manager è maggiormente in grado di aiu-
tare la propria impresa nel risolvere i suoi problemi di responsabilità
se è coinvolto anche personalmente in tali questioni.
3. Join your colleagues: il manager deve provare ad identificare i colle-
ghi che potrebbero condividere gli stessi interessi e quindi con cui
potrebbe unire le forze. Uno dei più grandi motivi di preoccupazione
che riguardano la CSR nelle aziende è la cattiva pubblicità, che
aziende come Shell, Nike, Nestlé, e molte altre si sono trovate ad af-
frontare. Anche altre persone in azienda potrebbero condividere gli
stessi valori e lo stesso stato d’ansia e vorrebbe trovare soluzioni per
portare l’azienda in linea con quei valori, come misura preventiva
prima, non dopo, che i problemi accadano. È fondamentale che
nell’impresa esista questo tipo di cultura partecipativa che incoraggia
a risolvere i problemi e a supportare l’azienda in modo tale da garan-
tirne la sopravvivenza.
4. Seek out epiphanies: l’insegnamento più efficace di tutti è quello che
deriva dall’esperienza, per questo è importante tenerne conto di fronte
a delle decisioni critiche che possono determinare la reputazione
dell’impresa. Anche le esperienze individuali hanno questo ruolo, per-
ché hanno comunque esercitato il potere di influenzare il manager-
individuo nella sua vita, per cui quest’ultimo sarebbe difficilmente ca-
pace di agire in contrasto con un insegnamento dato da un’esperienza
passata.
5. Use your learnings: la conoscenza che proviene dai dipendenti può
essere raccolta e utilizzata nelle strategie aziendali in quanto costitui-
sce un’importante fonte di know-how fondamentale per delineare il
vantaggio competitivo dell’organizzazione. Per questo il soggetto
aziendale non deve mai mettere da parte quel sapere che non è a pri-
ma vista pertinente con ciò di cui l’azienda si occupa, anzi lo deve
sfruttare per potenziare e arricchire l’azienda dal punto di vista cultu-
rale e delle conoscenze.

98
6. Continue the process: creare una cultura dove tutti i dipendenti
dell’impresa si sentono incoraggiati ad identificare opportunità per
migliorare i requisiti dell’organizzazione, e comunicare gli obiettivi e
i risultati in modo chiaro e trasparente agli stessi dipendenti, crea a
sua volta una reputazione aziendale che attira a lavorare in azienda le
migliori persone. Una volta in azienda queste persone lavorano anche
per mantenere il rispetto per se stessi, l’immagine aziendale e la sua
reputazione, portando avanti il miglioramento e l’innovazione
all’interno dell’azienda e formando così un circolo virtuoso, in quan-
to il richiamo di altri professionisti brillanti sarebbe continuo e così
si innescherebbe un processo che porta l’organizzazione a svilupparsi
sempre di più sia da un punto di vista produttivo che da un punto di
vista reputazionale.
Oltre all’equilibrio che riguarda gli obiettivi e gli interessi, nell’azienda
deve esistere un terzo equilibrio che bilancia la coscienza lavorativa e quel-
la personale, permettendo al manager di utilizzare anche le sue conoscenze
personali e le proprie regole morali per contribuire al successo organizzati-
vo, senza creare conflitti interiori che costituirebbero soltanto un danno dal
punto di vista aziendale, in quanto non ci sarebbe il coinvolgimento neces-
sario a motivare il manager a lavorare per il bene dell’impresa.

Fig. 9 – Che cosa determina l’equilibrio decisionale in azienda

INDIVIDUI
NELL’ORGANIZZAZIONE

AZIENDA OBIETTIVI
NORME ECONOMICI

OBIETTIVI
SOCIALI

99
La figura 9 riassume quanto detto nel corso del capitolo: l’impresa è
formata da una moltitudine di soggetti diversi tra di loro che pertanto hanno
aspettative diverse da parte dell’organizzazione; per questo durante il pro-
cesso decisionale i manager devono tener conto di più elementi, che insie-
me, creano equilibrio all’interno dell’impresa, permettendole di avere suc-
cesso sia dal punto di vista della performance economica sia sul versante
della responsabilità sociale d’impresa.
Prima di tutto l’azienda deve sottostare alla normativa che ne limita le
libertà in funzione della sicurezza sociale e del rispetto della concorrenza.
In secondo luogo l’impresa persegue, come di sua natura, degli obiettivi
economici che soddisfano, prima di tutti, le attese degli azionisti. Ovvia-
mente la performance economica è fondamentale in quanto è il fondamento
su cui si basa l’azione aziendale e su cui prende vita ogni progetto anche di
stampo non economico.
Come è stato spiegato, però, quanto fino a qui detto non è sufficiente:
l’impresa che opera in ambito globale, o che comunque è esposta all’interno
del mercato, è sottoposta al giudizio e all’osservazione da parte di innumere-
voli pubblici influenti che attraverso la loro azione ne possono cambiare le
sorti. Ecco perché l’azienda deve mettersi in ascolto delle attese di tutti questi
soggetti e renderli partecipi alla vita e alle decisioni organizzative attraverso
la cooperazione; è nel loro rispetto e in quello dell’ambiente che le imprese
decidono di andare al di là degli obblighi di legge dotandosi volontariamente
di sistemi che certifichino il oro impegno socio-ambientale nel tempo.
Non per ultimo si deve tener conto anche degli aspetti individuali che ca-
ratterizzano i manager come soggetti non organizzativi: essi possiedono una
morale, delle esperienze e delle conoscenze che non possono essere trascura-
te e che influenzano il processo decisionale. La dimensione umana nel mo-
mento in cui entra in azienda, se accuratamente gestita, diventa una risorsa
per l’azienda perché può aiutare a prevenire episodi negativi, può arricchire
l’impresa dal punto di vista morale e conoscitivo, creando una migliore repu-
tazione aziendale che attira continuamente professionisti brillanti che, a loro
volta, possono contribuire al successo dell’azienda sia come esperti che come
uomini.
Per concludere ritengo interessante riproporre il punto di vista di Sen
(1983), secondo cui «l’armonia degli interessi non è un output del mercato
ma un input; non sono il mercato e la mano invisibile ad assicurare l’armonia
degli interessi ma è l’armonia degli interessi che descrive l’ambito d’azione

100
all’interno del quale il mercato può operare per il bene collettivo, attraverso
la mano invisibile». Sen sostiene altresì che la natura dell’economia moderna
abbia subito un impoverimento a causa dell’allontanamento che si è verifica-
to tra economia ed etica dopo i contributi forniti dalla teoria economica degli
economisti classici, e afferma che «un mondo d’affari privo di codici morali
sarebbe non solo povero a livello normativo, ma anche molto debole in ter-
mini di prestazioni, pertanto il capitalismo come sistema non si potrebbe svi-
luppare esclusivamente sulla base della ricerca del profitto. Lo sviluppo di
valori capitalistici è un elemento centrale per il successo del sistema».

101
3. LO SVILUPPO DELLA CSR NELLE IMPRESE:
FASI, PERCORSI E MODELLI

«I’ve always believed that the greatest contribution a business could


make to society was its own success, which is a fountainhead of jobs, taxes,
and spending in the community. I still believe that, but I don’t think that is
enough anymore. And I don’t believe that even generous financial philan-
thropy on top of that prosperity is enough. In these times, companies can-
not remain aloof and prosperous while surrounding communities decline
and decay»1.
J. Welch, Chairman e CEO (1981-2001), General Electric.
Dopo aver spiegato quale rapporto intercorre tra la CSR e l’economia
all’interno delle imprese e aver chiarito come queste ultime riescono a man-
tenere un equilibrio tra i due obiettivi, economico e sociale, è necessario
spostare l’attenzione sull’atteggiamento che le imprese hanno nei confronti
della responsabilità d’impresa, riprendendo anche in parte quanto è già sta-
to detto nel primo capitolo.
Lo studio degli atteggiamenti verso la CSR serve per identificare alcuni
archetipi di comportamento, che possono caratterizzare i vertici aziendali,
che vengono riportati in forma gerarchica nella figura 10. I due orientamen-
ti che si trovano al di sotto della linea tratteggiata, se perseguiti dall’alta di-
rezione, non sono in grado di assicurare la durabilità dell’impresa. Il primo

1
Traduzione personale: «Ho sempre creduto che il più grande contributo che un’attività po-
tesse dare alla società fosse il proprio successo, che è una fonte di posti di lavoro, tasse e
spesa nella comunità. Credo ancora a questo, ma penso non sia più abbastanza. E credo che
nemmeno la generosa filantropia finanziaria all’apice di questa prosperità sia più abbastan-
za. In questi tempi, le imprese non possono rimanere in disparte e fiorenti mentre intorno la
società si declina e decade».

102
orientamento infatti disattende le aspettative degli interlocutori sociali sfo-
ciando nell’illegalità, mentre il secondo, dell’utopia imprenditoriale, si con-
centra su quella socialità che dimentica o sottovaluta l’impegno e la deter-
minazione nel perseguire gli obiettivi di crescita, di produttività e di svilup-
po. Per quanto riguarda l’approccio legalistico, quest’ultimo intende la re-
sponsabilità sociale come un vincolo ed un ostacolo al perseguimento
dell’obiettivo economico, per questo le imprese che sono orientate in que-
sto senso tendono ad adempire solamente agli obblighi di legge in tema so-
cio-ambientale, senza nessun altro sforzo.

Fig. 10 – La piramide degli atteggiamenti verso la CSR (Molteni, 2004)

IMPRENDITORIALITÀ
SOCIALMENTE
ORIENTATA

CALCOLO SOCIALE

Linea della durabilità


APPROCCIO LEGALISTICO aziendale

ILLEGALITÀ UTOPIA
IMPRENDITORIALE

L’archetipo del calcolo sociale vede le imprese, seppur ancora fortemen-


te indirizzate al fine economico, più aperte rispetto alle attese dei pubblici
di riferimento diversi dagli azionisti, ma nella misura in cui sia abbastanza
evidente la convenienza dell’investimento nella CSR; lo sforzo di andare
oltre gli obblighi di legge deve, in questo caso, ripagare l’impresa in termi-
ni di ritorno economico e di immagine e reputazione. Infine, al vertice della
piramide, si colloca l’imprenditorialità socialmente orientata che segue una
duplice funzione: da una parte favorisce la crescita e lo sviluppo produttivo
(sia la crescita dimensionale sia quella in termini di risorse e competenze),
dall’altra riesce a soddisfare le attese di diverse classi di stakeholder.
È attraverso questo orientamento che i manager si impegnano a superare
la contrapposizione tra sociale e performance.

103
Fig. 11 – La tensione al superamento della contrapposizione tra sociale ed economico (Co-
da, Mollona, 2002)

PERFORMANCE
ECONOMICHE

CSR

Superata la dicotomia sociale/economico, la volontà di assunzione della


responsabilità sociale d’impresa porta l’azienda ad attrezzarsi di una pro-
pria strategia politico-sociale, che sarà supportata da un’analisi rigorosa
(Matacena, 1984):
x dei possibili punti di tensione sociale e della previsione del loro an-
damento nel tempo;
x della valutazione degli effetti di tali tensioni sul tessuto economico-
aziendale;
x delle potenziali occasioni di vantaggio che l’impresa può ottenere an-
ticipando l’esplosione di tensioni accumulate nel tempo;
x delle fasi delle risposte sociali e dei costi di tali soluzioni.
Il nuovo comportamento aziendale deve essere quindi orientato verso la
ricerca di un equilibrio complessivo che affianchi, come sostiene Ansoff
(1968), alla gestione competitiva ed amministrativa quella sociale. La messa
in atto di strategie sociali, al pari di altre, richiede quindi un articolato studio
degli effetti sociali dell’impresa, l’elaborazione di un piano/programma so-
ciale ed il suo perseguimento coordinato all’insieme delle azioni di tipo eco-
nomico.
Passiamo ora a considerare gli stadi di sviluppo della CSR di un’impresa:
attraverso varie fasi si passa da una CSR reattiva, volta a mitigare i danni che
derivano dalle attività che rientrano nella catena del valore di un’impresa, a
una CSR strategica, ovvero profondamente integrata nel business e in grado
di trasformare un bisogno sociale manifesto o latente in un vantaggio compe-
titivo per l’organizzazione (Molteni, Todisco, 2008).

104
Stadio 1: CSR informale. Tradizionalmente nella storia delle imprese il
problema della CSR non si è posto in modo formalizzato, ma a seconda
delle aree geografiche in cui operano, dei settori di appartenenza, delle stra-
tegie attuate, dei valori del management esso si presenta in modo più o me-
no intenso. Molte volte si tratta di manifestazioni di orientamento socio-
ambientale alle quali spesso il management non attribuisce neppure il ter-
mine di CSR (misure a favore dei dipendenti, interventi di tutela ambienta-
le, iniziative verso la comunità e cosi via).

Fig. 12 – Lo sviluppo della CSR nella corporate strategy (Molteni, 2007)

TIPICHE MANIFESTAZIONI
DI CSR
Grado di integrazione nella strategia

Dominante

TENSIONE IDEALE
Innovativa

RICERCA DEL VANTAGGIO


Sistematica COMPETITIVO

VOLONTÀ DI CONCRETEZZA
Corrente

PRESA DI COSCIENZA
Informale DELL’INELUTTABILITÀ
SPINTA DEL VERTICE
AZIENDALE PER PASSARE
ALLO STADIO SUCCESSIVO

tempo

Stadio 2: CSR corrente. In questa fase le imprese iniziano a cimentarsi


con le azioni considerate “base” della CSR: per esempio, lo sviluppo del
codice etico, l’elaborazione del bilancio ambientale e sociale, le certifica-
zioni, la realizzazione di campagne di marketing che fanno leva sulle cause
sociali. Questo stadio presenta però anche un pericolo tipico, che consiste
nel fatto che l’impegno socio-ambientale possa essere confinato alla pura
forma.
Stadio 3: CSR sistematica. L’attuazione di un approccio sistematico alla
CSR deve, da un lato, far fronte ad una molteplicità di aspetti, come i pro-
blemi e le opportunità di matrice socio-ambientale relative al contesto di
appartenenza dell’impresa, dall’altro lato, trovare un filo conduttore in gra-
do di assicurare un’identità unitaria all’impresa. Questo implica che la CSR

105
sia richiamata nella visione dell’impresa e che da essa ne derivino traguardi
ed obiettivi. Ecco perché è importante che la CSR sia perfettamente inte-
grata nella catena del valore dell’impresa.
Stadio 4: CSR innovativa. Nelle azioni di CSR che sono state considera-
te fino ad ora, è evidente la volontà del management di garantire ai veri
soggetti coinvolti con la vita aziendale un livello di tutela dei diritti più ele-
vato di quello imposto dalle norme vigenti. La CSR, però, può spingersi al
di là non solo degli obblighi di legge, ma anche del livello di tutela dei di-
ritti degli stakeholder indicato dagli standard di autoregolamentazione e
dalle forme di certificazione volontaria.
Si può parlare quindi di “creatività socio-competitiva” in quanto la CSR
si caratterizza per la ricerca di soluzioni innovative atte a soddisfare in mi-
sura sempre maggiore le attese di uno o più gruppi di portatori di interessi,
tendendo a fare di tali soluzioni un fattore di sviluppo del vantaggio azien-
dale. L’innovazione può riguardare il livello centrale, un business, una spe-
cifica funzione o un singolo processo e consente di rispondere alle attese di
una o più classi di interlocutori, contribuendo nello stesso tempo a sostene-
re le performance aziendali.
Stadio 5: CSR dominante. Con il raggiungimento dello stadio della CSR
innovativa si può dire che, in un certo senso, il percorso di integrazione della
CSR nella corporate strategy sia ultimato. La quinta fase della CSR domi-
nante indica un ulteriore livello di impegno: è il caso dell’impresa che fa del-
la CSR il cuore stesso della propria identità, e , quindi, della strategia
d’impresa, rendendola il criterio informatore di tutte le decisioni aziendali.
Questo stadio è il portato di una leadership dotata di una profonda sensibilità
socio-ambientale e anche del carisma necessario per fare di essa il perno del-
la cultura aziendale. Quest’ultimo caso riguarda soprattutto le imprese di me-
die e grandi dimensioni che molto spesso assumono la funzione di traino
dell’intero contesto imprenditoriale, proprio per questa loro caratteristica.
Chiariti quali siano gli stadi di sviluppo della CSR, è doveroso riportare
anche quelli che possono costituire dei percorsi di sviluppo della responsa-
bilità sociale all’interno di un’organizzazione, grande o piccola che sia nel-
le sue dimensioni. La figura 13 suggerisce alcuni possibili sentieri di evolu-
zione dell’orientamento alla CSR.
Da uno scarso orientamento alla CSR (quadrante 1), le imprese possono
spostarsi al quadrante “compliance”: si tratta di aziende che, originariamen-
te poco impegnate sul fronte della responsabilità sociale perché cultural-
mente poco inclini alla stessa, adottano delle iniziative volte ad ottenere la
condiscendenza del settore.

106
Il percorso “b” invece porta dalla “compliance” alla “cultura
d’impresa”: questo spostamento riguarda le imprese che, avvicinatesi alla
CSR per ottenere l’approvazione del settore e/o della filiera, hanno matura-
to una consapevolezza circa l’importanza della dimensione socio-
ambientale fino al punto di farne la base ispiratrice della propria cultura.

Fig. 13 – I percorsi di sviluppo della CSR (Molteni, Todisco, 2008)

3 c 4
alto

CULTURA VANTAGGIO DI
D’IMPRESA DIFFERENZIAZIONE
ORIENTAMENTO ALLA CSR

d e
b
basso

CSR ASSENTE O COMPLIANCE


OCCASIONALE

1 2
bassa alta
VALORIZZAZIONE DELLA CSR IN CHIAVE COMPETITIVA

Percorsi probabili Percorsi possibili

Il percorso “c”, invece, conduce dalla “cultura d’impresa” al “vantaggio


di differenziazione”: questa traiettoria valorizza le imprese che decidono di
valorizzare il forte orientamento alla CSR che già le caratterizzava in chia-
ve competitiva
I percorsi a, b e c possono anche essere combinati, cioè possono susse-
guirsi uno all’altro, partendo dal primo, a, fino ad arrivare a c.

107
La riflessione su diversi casi pratici ha condotto infine
all’identificazione di altri due possibili percorsi: il primo, da “CSR assente
o occasionale” a “cultura d’impresa”, è adottato in quelle imprese che, ini-
zialmente poco impegnate sul fronte della CSR, ne fanno ad un certo punto
la propria cultura. Questo caso non è molto probabile e si realizza soprattut-
to sotto la spinta del mondo valoriale dell’imprenditore come individuo. Il
secondo percorso, da “compliance” a “vantaggio di differenziazione”, è se-
guito da quelle imprese che, avvicinatesi alla CSR per soddisfare le inizia-
tive di alcune classi di stakeholder o per poter fare ingresso in un settore,
decidono di fare della CSR una fonte di vantaggio di differenziazione.
A proposito di CSR come leva di differenziazione, essa può agire in tal
senso sotto diversi profili e le alternative strategiche a disposizione delle
imprese sono varie: esse possono arricchire i propri prodotti di connotati
socio-ambientali, possono orientare il processo produttivo al rispetto di de-
terminati requisiti ambientali, possono impegnarsi in progetti con alte rica-
dute reputazionali come iniziative a favore della comunità, pubblicità a va-
lenza sociale o campagne di cause-related marketing.
Il successo in campo sociale della differenziazione può derivare da più
situazioni, anche legate tra loro se presenti in una stessa organizzazione.
Queste situazioni possono essere, per esempio:
x l’orientamento socio-ambientale dei processi produttivi e la valenza
ecologica e/o sociale intrinseca al bene offerto;
x la gestione responsabile della catena di fornitura;
x l’efficacia della politica di comunicazione in tema di CSR (comuni-
cazione sia nei confronti del business, che promuove un prodotto in
uno specifico segmento di mercato, sia nei confronti delle istituzio-
ni);
x la connotazione socio-ambientale delle altre attività aziendali, come
per esempio iniziative di cause-related marketing che vanno al di là
delle politiche di prodotto;
x la qualità sistemica della politica CSR , che deve essere in grado di
coinvolgere tutti gli ambiti aziendali e nello stesso tempo portare
avanti una continuità d’azione nel tempo;
x l’identificazione di un segmento di mercato ricettivo dei contenuti
socio-ambientale.
Alla luce di quanto detto, la strategia che l’impresa potrà assumere verso i
propri partner e l’ambiente potrà essere di più tipi, identificando diversi mo-
delli di imprese in base al disegno che esse adottano per la loro gestione.
Secondo Ansoff (1968) la strategia può essere passiva, pianificatrice o
imprenditrice. Con l’adozione di una strategia passiva, l’impresa accetta di
108
subire le conseguenze dei comportamenti dei diversi ambiti che la costitui-
scono in quanto molto forte o molto debole verso gli stessi. L’impresa,
cioè, articola risposte determinate da un disinteresse nei confronti della
problematica sociale, per effetto di una sovra/sottostima della forza dei vari
interlocutori e per l’assenza di informazioni su tali ambiti.
L’alternativa di comportamento “pianificatrice” presenta l’impresa co-
me capace di selezionare gli ambiti sociali da cui dipende, valutarli nella
loro attitudine al cambiamento e potere d’incidenza, offrire le risposte da
essi attese. Questa alternativa richiede un lungo studio dei sistemi di obiet-
tivi dei diversi ambiti, delle logiche del loro agire e delle loro interrelazioni
più significative. La selezione degli ambiti dovrebbe poi essere compiuta
individuando le omogeneità ed i contrasti tra gli stessi e il grado di accetta-
zione che essi hanno dell’impresa.
L’alternativa “imprenditrice”, infine, parte dall’accettazione di un mo-
dello di azienda come sistema socio-economico e da una posizione di ricer-
ca di legittimità/consenso, ed è caratterizzata da una visione policentrica del
potere che si articola nelle imprese e dal tentativo di partecipare, non im-
porre o subire, nel regolare il sistema generale.
L’importanza dell’azione strategica è quindi di tipo non solo anticipati-
vo ma addirittura innovativo: l’azienda infatti concorre a costruire il futuro,
per cui necessariamente dovrà prevederlo, analizzandolo in modo abduttivo
prima e sistemico poi, e adattandolo al suo stato attuale e prospettico.
L’organizzazione attraverso la nuova visione coordinata economico-sociale
sarà influenzata da molti input, dinamici nel tempo, per questo nel suo cor-
so dovrà cambiare obiettivi, ideologia, trasformando il proprio sistema di
valori e mettendo in moto una serie di cambiamenti necessari riguardanti la
propria gestione e la propria organizzazione.
Anche Molteni e Lucchini (2004) hanno individuato cinque modelli di
orientamento sociale delle imprese, nati dall’osservazione della strategia di
CSR che le imprese adottano al loro interno. I cinque modelli fanno riferi-
mento a cinque categorie di imprese: imprese coesive, imprese multi-
certificate, imprese consapevoli, imprese mobilitabili e imprese scettiche.
Facendo riferimento alla figura 14, delle imprese coesive fanno parte
quelle aziende che fanno della CSR un tratto caratteristico della propria cul-
tura, dove la sensibilità per le attese degli stakeholder non è occasionale e si
manifesta in una varietà di azioni (coinvolgimento e valorizzazione del per-
sonale, realizzazione di prodotti ad alta valenza sociale, interventi nei con-
fronti della comunità e a favore del commercio equo e solidale, elaborazione
di bilanci a sfondo sociale e adozione di certificazioni sociali). I comporta-
menti agiti dalle imprese coesive aumentano il patrimonio di risorse intangi-
109
bili a loro disposizione (motivazione all’interno e reputazione all’esterno), a
beneficio dello sviluppo futuro, sia qualitativo che quantitativo, dell’impresa.

Fig. 14 – Mappa degli orientamenti sociali (Unioncamere-ISVI)


aspetti qualitativi delle pratiche/comportamenti aziendali

IMPRESE IMPRESE
MOBILITABILI COESIVE

IMPRESE
SCETTICHE
IMPRESE
CONSAPEVOLI

IMPRESE
MULTICERTIFICATE

intensità nell’assunzione di comportamenti


socialmente responsabili

L’area delle imprese multi-certificate è popolata da un alto numero di


aziende che richiedono attestati/certificazioni ai propri fornitori e, allo stes-
so tempo, ricevono richieste di certificazione da parte dei propri clienti.
L’assunzione di responsabilità sociale da parte di questo tipo di aziende si
sostanzia nell’adozione di procedure e nel rispetto di standard di gestione,
nonché nell’attribuzione di attenzione allo sviluppo volontario di program-
mi di tutela ambientale.
Le imprese consapevoli, che ricoprono l’area contigua a quella delle
imprese coesive, vede la presenza di aziende che, a una conoscenza piutto-
sto completa degli strumenti e delle prassi tipiche della CSR, non fanno se-
guire un’azione altrettanto intensa. Tali imprese attivano uno spettro meno
ampio di interventi rivolti agli stakeholder e ricorrono in misura ridotta alle
certificazioni. Da un lato si tratta di imprese meno sensibili alla cultura del
dono rispetto all’area coesiva e meno orientate ad incorporare esplicitamen-
te la CSR nel loro disegno di sviluppo. Dall’altro la natura stessa del settore
110
può non rendere necessario il ricorso a molteplici interventi di CSR, sia per
la limitata esposizione diretta nei confronti del pubblico, sia per la ridotta
rilevanza dei problemi ecologici connessi ai processi produttivi.
Le imprese mobilitabili sono quelle aziende accomunate da una posizione
passiva nei confronti dei temi in esame. Si tratta per lo più di piccole e picco-
lissime imprese alle quali non sono generalmente noti i temi e gli strumenti
propri della CSR. Non è detto però che esse non si facciano carico delle atte-
se dei collaboratori e del territorio: lo fanno attraverso l’attuazione di pro-
grammi non sistematici e informali, anche per le risorse limitate che esse
possono dedicare allo sviluppo di specifici strumenti o di progetti ad alto im-
patto. Queste aziende, definite “a bassa intensità di CSR” riconoscono che
certe motivazioni di carattere economico e relazionale possono indurre
all’attivazione di programmi di tutela ambientale. Le imprese in esame non
sono diffidenti nei confronti di eventuali forme di incentivazione alla CSR,
anzi, una spinta proveniente dal contesto esterno potrebbe favorire
un’evoluzione in chiave sociale dei loro comportamenti.
Infine, le imprese scettiche sono realtà di piccole o piccolissime dimen-
sioni che conoscono molto poco i temi della CSR, attuano in misura limita-
ta interventi volontari volti a soddisfare le attese degli stakeholder e si di-
mostrano diffidenti nei confronti di qualsiasi azione che miri a diffondere i
tratti della cultura della CSR.
Le imprese si approcciano in modo diverso nei confronti della CSR in ba-
se agli obiettivi e alle aspettative che le caratterizzano. Molte aziende che ini-
zialmente non consideravano le pratiche di responsabilità sociale nelle loro
strategie, hanno intrapreso percorsi di sviluppo passando attraverso stadi più
o meno lunghi e complessi, creando così dapprima un avvicinamento alle
tematiche sociali, poi una cultura radicata e condivisa, che a lungo andare si è
trasformata in vantaggio competitivo. La CSR come attività integrata nella
strategia aziendale è utile all’organizzazione non solo dal punto di vista con-
correnziale e dell’ambiente di mercato, ma anche dal punto di vista di appro-
vazione e partecipazione da parte degli stakeholder interni ed esterni alla
stessa, che guardano allo sviluppo di pratiche socialmente orientate come ad
un punto di forza aggiuntivo che rafforza la reputazione dell’impresa, reputa-
zione data prima di tutto dai risultati positivi ottenuti dall’azienda attraverso
il suo operato nel settore di riferimento. Il mercato è popolato da imprese or-
mai sempre più omogenee e chi nel mercato opera come attore attivo ha bi-
sogno di trovare delle peculiarità che permettano di distinguere le imprese e
di preferirle le une alle altre. Spesso è questa la motivazione che inizialmente
spinge le aziende ad avvicinarsi alla CSR, motivazione che si può poi evolve-
re se all’interno dell’organizzazione si diffonde una cultura orientata al socia-
111
le che identifica la responsabilità sociale non più come un dovere volto alla
sopravvivenza, ma come un incentivo in più che viene consapevolmente scel-
to e messo in atto per migliorare le sorti dell’impresa sotto molteplici aspetti
che ne delineano il successo e la fama.
Fin qui si sono analizzate le fasi della responsabilità sociale d’impresa, i
possibili percorsi che un’azienda può intraprendere per metterla in atto e
alcuni modelli organizzativi basati sul rapporto con la CSR. L’ultimo tratto
interessante da presentare prende in considerazione il concetto di “business
idea”, esposto da Schwartz e Gibb nel loro lavoro del 1999.
L’idea di business rende possibile per un’organizzazione la combinazio-
ne delle proprie competenze distintive con il bisogno sociale, formando
un’unione unica e difficile da imitare e generando un feedback continuo e
positivo che incoraggia il profitto e la crescita delle risorse.
L’idea più generica di business comprende al suo interno sei passaggi
legati reciprocamente tra loro, che possono esistere soltanto se ognuno di
essi viene portato a termine dall’impresa. Di seguito è illustrato il modello
“base” di business idea.

Fig. 15 – L’idea di business generica (Kees van der Heijden, in Schwartz e Gibb, 1999)

Comprensione dell’evoluzione dei


bisogni nella società

Invenzione imprenditoriale

Risorse

Competenze distintive

Risultati

Vantaggio competitivo

L’ascolto e lo studio dell’ambiente esterno e dei suoi bisogni permette


all’impresa di trovare il mezzo attraverso cui entrare in contatto con la so-
cietà; questa “invenzione” si fonda sulle competenze che contraddistinguo-
no l’azienda nel proprio settore di riferimento, e crea per la stessa un van-
taggio competitivo che la porta al successo e ad avere risultati soddisfacen-
ti, oltre che a sfruttare e creare nuove risorse utili ad implementare e svi-
luppare le proprie competenze.
112
Se si include il tema della CSR al grafico dell’idea di business, si può
notare come la responsabilità sociale vada a creare delle aggiunte dovute
alle relazioni con il pubblico, che spesso sono considerate dei costi aggiun-
tivi che vanno ad opprimere i risultati economici. Nel momento in cui la
CSR viene percepita come proveniente dall’esterno (figura 16), infatti, la
reazione dell’impresa potrebbe essere sulla difensiva e potrebbe portare al
danneggiamento dell’idea di business di base, sulla quale si erge lo svilup-
po organizzativo.

Fig. 16 – La CSR e l’idea di business (Schwartz e Gibb, 1999)

PRESSIONE SOCIALE
Comprensione dell’evoluzione dei
bisogni nella società

Invenzione imprenditoriale

Risorse

Competenze distintive

Risultati

Vantaggio competitivo

QUESTIONI POLITICHE PRESSIONE SOCIALE

Invece, come è stata intesa finora, la responsabilità sociale è percepita


come “stakeholder responsibility”, dove i consumatori, i dipendenti, le isti-
tuzioni, gli azionisti e la comunità locale hanno il potere di guidare le di-
namiche dell’idea di business verso un circolo vizioso o virtuoso. Il model-
lo della figura 17 vuole orientare le imprese ad allargare la propria visione
dei bisogni sociali, identificando nuove potenziali opportunità che potreb-
bero scaturire dai bisogni stessi, e iniziando a costruire nuove competenze
distintive necessarie per la sopravvivenza dell’azienda nel futuro. Quindi,
se la responsabilità sociale viene percepita come proveniente dalla stessa
idea di business (dunque, in un certo senso, dall’interno
dell’organizzazione, intendendo per “interno” il meccanismo di relazioni
che di fatto permette all’azienda di esistere e di funzionare), un’impresa
può riuscire ad incrementare i propri risultati positivi, perché questo miglio-
113
ramento sarebbe fortemente voluto e cercato da chi opera in prima persona
al suo interno.

Fig. 17 – CSR e idea di business percepite dall’“interno”(Schwartz e Gibb, 1999)

Comprensione dell’evoluzione dei


bisogni nella società

Invenzione imprenditoriale
Risorse

Reputazione

Competenze distintive Società Consumatori Dipendenti Azionisti

Impatto Prodotti e Condizioni


sociale servizi di lavoro Finanza

Risultati

Vantaggio competitivo

Come si è potuto notare nel corso dei capitoli, qualsiasi sia il modello di
impresa adottato, il percorso seguito e le fasi messe in atto, sia nella gestio-
ne dell’attività che nell’implementazione delle pratiche sociali, la volontà
dell’impresa sta alla base di tutto: obbligare un’azienda ad assumersi delle
responsabilità che da sola non considererebbe minimamente potrebbe risul-
tare non solo una perdita di tempo, ma addirittura un danno per il risultato
economico stesso. È importante perciò che si diffonda la cultura della CSR
e che questa venga appresa in modo spontaneo dalle imprese, e che siano le
aziende stesse ad avvicinarsi al mondo sociale scegliendo il modello e le
azioni che più sono consone alla sua gestione.
Sarà questa volontà dell’impresa responsabile ad influire positivamente
sull’intero business e a migliorarne i risultati, portando al miglioramento
dei risultati e allo sviluppo di nuove risorse da investire in futuro.

114
4. PERCHÉ ALCUNE IMPRESE NON PERSEGUONO
LA RESPONSABILITÀ SOCIALE:
LE BAD COMPANIES

«The business chameleon may change its colours but at the end of the
day its fundamental form and instincts remain the same»1.

4.1. L’ascesa dell’impresa irresponsabile

«Si definisce “irresponsabile” un’impresa che al di là degli elementari


obblighi di legge suppone di non dover rispondere ad alcuna autorità pub-
blica e privata, né all’opinione pubblica, in merito alle conseguenze in
campo economico, sociale e ambientale delle sue attività» (Gallino, 2005).
L’impresa irresponsabile ha dimostrato di essere largamente presente
nell’economia dei paesi sviluppati, come attestano sia gli scandali societari
che si sono susseguiti dopo il 2000, dalla statunitense Enron, alla francese
Vivendi, all’italiana Parmalat, sia le enormi perdite di capitale causate da
strategie legalmente corrette ma avventate sotto il profilo economico e in-
dustriale. La diffusione di questa “irresponsabilità”, che è avvenuta princi-
palmente negli anni Novanta in seguito ai cambiamenti del modello
d’impresa che hanno coinvolto soprattutto gli Stati Uniti e l’Unione Euro-
pea, ha incluso due tappe principali (Gallino, 2005):
x lo sviluppo di una nuova concezione di impresa fondata sulla massi-
mizzazione ad ogni costo e a breve termine del suo valore di mercato
in borsa, indipendentemente dal suo fatturato o dalle sue dimensioni
produttive. Questa pratica, come si è visto nel capitolo 1.1, ha agito a

1
Traduzione personale: «Il camaleonte degli affari può cambiare i suoi colori ma alla fine
del giorno la sua forma fondamentale e i suoi istinti rimangono gli stessi».

115
favore dei grandi azionisti e dei manager che ne mettevano in opera
le direttive, e a scapito dei piccoli azionisti che hanno visto evaporare
velocemente il proprio denaro, se non addirittura perdere completa-
mente i loro risparmi;
x la modifica della struttura e del funzionamento degli organi di gover-
no dell’impresa al fine di concretizzare la concezione della creazione
di valore per gli azionisti.
Tramite questi nuovi manager i corporate scandals esplosi negli USA
tra gli anni Novanta e Duemila con centinaia di fallimenti oggetto di inda-
gine giudiziaria, poi diffusisi anche in Europa, sono stati un prodotto diretto
dell’impresa irresponsabile.
Oltre agli scandali a base finanziaria, che sono i più citati perché sono an-
che i più chiacchierati, sono stati agiti comportamenti irresponsabili anche in
relazione ad altri ambiti, come per esempio i salari e le condizioni di lavoro di
degrado per i dipendenti (Wal-Mart, USA); la costruzione di impianti chimici
malsicuri in paesi in via di sviluppo che danneggiandosi hanno provocato mi-
gliaia di vittime (Union Carbide, Bhopal, India 1984); la distribuzione consa-
pevole da parte dei produttori, di prodotti difettosi che guastandosi hanno cau-
sato la morte di molte persone; la mancata manutenzione degli impianti di
produzione che logorandosi hanno prodotto altra morte (ThyssenKrupp, Tori-
no); il licenziamento dei dipendenti “via sms” (Accident Group, Manchester);
la chiusura parziale o totale, oppure la delocalizzazione effettiva da parte delle
multinazionali, per ottenere maggiore flessibilità, di unità produttive già effi-
cienti sotto il profilo tecnologico, con il bilancio attivo e con buone prospetti-
ve di mercato; l’inquinamento delle acque, dell’aria e dell’ambiente in genera-
le causato dalla grande industria chimica (Gallino, 2005).
Il modello di capitalismo manageriale azionario degli anni Novanta si è
sviluppato soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, diffondendosi poi
in molti altri paesi dell’Unione Europea, tra cui la Francia, la Germania e
l’Italia, perché giudicato positivamente da parte degli osservatori del settore.
Tuttavia questo giudizio contrasta con il fatto che una conseguenza diretta del
capitalismo manageriale azionario è l’impresa che per ragioni intrinseche
tende ad operare in modo irresponsabile: infatti, adottando questo modello
gestionale, gli interessi materiali ed ideali dei dipendenti, delle comunità lo-
cali, dei fornitori e lo stato dell’ambiente, escono dall’orizzonte decisionale.
Secondo L. Mitchell in Corporate irresponsibility (2001), la radice del
problema è la struttura stessa della società per azioni. La sua struttura legale

116
incoraggia i manager a massimizzare il prezzo delle azioni a breve termine,
e lo fa limitando la loro libertà di agire responsabilmente e moralmente,
dando come risultato un comportamento immorale. Tale comportamento
non serve al miglior interesse di nessuno e reca gravi danni ai gruppi estra-
nei alla struttura societaria tradizionalmente intesa, il che vuol dire tutti
quelli che non fanno parte degli azionisti o dei manager.
Una contraddizione dell’impresa irresponsabile così definita sta nel fatto
che oltre ad imporre alla collettività elevati costi umani ed ambientali, essa
in realtà finisce per non massimizzare nemmeno il valore per gli azionisti a
lungo termine. Inoltre rischia di compromettere anche il proprio futuro e
quello dell’economia mondiale a causa della competizione aggressiva che
ha posto in essere, dell’eccesso di finanziarizzazione delle attività produtti-
ve, e della sua scarsa capacità innovativa (Gallino, 2005).
Le origini e le caratteristiche dell’impresa irresponsabile fanno si che
appaiano abbastanza ardui il concepimento e l’introduzione di misure capa-
ci di ottenere una conversione che porti le aziende a sottoporre a regola-
mentazione le loro attività, non solo nel senso “debole” di rendicontarle,
che è quanto viene proposto da tutti i codici di CSR, redatti principalmente
per una questione di immagine e quindi difficilmente messi in atto, bensì in
quello “forte” di rispondere con i fatti sul piano economico, sociale, am-
bientale e, in caso, penale delle loro conseguenze (Gallino, 2005).
Le esortazioni di natura etico-sociale e l’imposizione di leggi e regola-
menti, sia nazionali che internazionali, non bastano a sollecitare le imprese
ad osservare comportamenti in linea con la CSR, perché una politica fonda-
ta sulla responsabilità sociale, come è già stato detto più volte, deve coin-
volgere la strategia aziendale a livello pratico-operativo e, in questo senso,
l’organizzazione è la sola a poter agire al proprio interno, tutto il resto co-
stituisce soltanto una “voce” che proviene dall’esterno ma che non ha le
“mani in pasta” per poter correggere ciò che non funziona.
La volontà sta quindi alla base di tutto, ed è un fattore troppo intrinseco
e troppo profondo all’interno dell’azienda, per questo difficilmente sogget-
to a cambiamento per opera di agenti esterni, che possono semmai sperare
di influenzare in qualche forma il modo organizzativo di vedere le cose, ma
non di trasformarlo.

117
4.2. Dalla creazione alla distruzione di valore

Il paradigma della creazione di valore per l’azionista è risultato realmen-


te efficace nel corso degli anni Novanta per far aumentare sia i profitti sia il
valore di mercato di moltissime società per azioni, sia pubbliche che fami-
liari, risollevando in molti casi le imprese da situazioni di grande crisi.
Se è vero quanto detto sopra, è altrettanto vero che, a partire dagli anni
Duemila, lo stesso paradigma ha portato invece a distruggere in grande
quantità il valore creato precedentemente. La rapida caduta del corso di un
titolo azionario, il contrarre debiti senza poi ripagarli, la disonestà dei ma-
nager, le fusioni ed acquisizioni azzardate, la diversificazione delle attività
produttive in settori estranei alla missione originaria dell’impresa, sono al-
cuni esempi di come può essere distrutto il valore. In questo caso si parla di
valore per l’azionista, ma gli effetti dell’azione irresponsabile vanno a tra-
volgere tutti i pubblici influenti per l’impresa (Gallino, 2005).
Oggi l’impresa irresponsabile, che così comportandosi si veste del nome
“bad company”, viene riconosciuta come tale soprattutto per le azioni sconsi-
derate che compie nei confronti dei dipendenti, dell’ambiente e della società
più in generale. Questo perché dopo la fase della “finanziarizzazione
dell’economia” la domanda degli stakeholder nei confronti delle aziende si è
indirizzata verso una maggiore sensibilità per i temi più vicini alle persone: in
altre parole è stato chiesto alle imprese di avvicinarsi di più al lato “umano”
degli affari, senza trascurare naturalmente quello economico. Ecco quindi che
la maggiore attenzione ai temi della responsabilità sociale da parte delle impre-
se ha portato queste ultime ad essere molto più esposte al giudizio della società
sotto più profili, non più soltanto quello strettamente economico. Molti scanda-
li degli ultimi anni, infatti, riguardano fatti legati alla sfera dell’infanzia, della
salute, della sicurezza ambientale e lavorativa, dell’inquinamento, dei disastri
aerei e ferroviari, della qualità dei prodotti ecc.
Sono molte le modalità di agire in modo irresponsabile da parte delle
imprese ed è per questo difficile stabilire dove e come si è violato il rispetto
dei diritti umani.
Nel caso del collasso di interi gruppi economici per motivi finanziari,
accertare responsabilità risulta quasi impossibile, a causa della complessità
dei processi di governo delle imprese e dei loro intrecci con la politica.
L’impresa irresponsabile non nasce semplicemente a causa di singoli diri-
genti più o meno inclini a commettere crimini, che comunque esistono. Piut-

118
tosto essa è il risultato di un modello strutturale di governo dell’impresa scien-
tificamente costruito, dove lo scopo dominante è far salire il prezzo delle
azioni, ossia il valore di mercato dell’impresa. Alla luce di ciò, come al solito,
i proprietari incentivano i manager ad aumentare i guadagni e i profitti a sca-
pito di tutte le altre attività a cui un’azienda dovrebbe prestare attenzione.
Livello delle retribuzioni e orari di lavoro; costo dell’energia e qualità dei
prodotti; libertà di informazione ed efficienza dei sistemi di trasporto; struttura
e funzione delle tecnologie del lavoro e della casa; modelli di consumo; qualità
dell’aria e dell’acqua; stato delle infrastrutture: sono innumerevoli gli aspetti
della vita di milioni di persone che dipendono più dalle decisioni prese durante
i consigli di amministrazione delle imprese, che da quelle prese dai governi.
Ma l’impresa irresponsabile si presenta troppo spesso come fondamento del
capitalismo contemporaneo, capitalismo orientato a cercare forme di rendita a
breve termine, privilegiando operazioni e architetture finanziarie, piuttosto che
realizzare utili con attività che generano valore aggiunto a lungo termine, con
la produzione di beni e servizi reali, utili per la collettività (Gallino, 2005).
Nel fare tutto questo, è risultato stretto il legame stabilitosi tra le attività
delle imprese e il mondo della politica: le grandi imprese, infatti, si sono spes-
so impegnate nei processi elettorali, nel finanziamento dei candidati e dei par-
titi politici, e in imponenti attività di pressione personale e di gruppo sui par-
lamentari, con il fine di ottenere in cambio favori circa il loro operato non
sempre in linea con la legge o non accettabile sotto un punto di vista etico- so-
ciale. Lo dimostra il fatto, per esempio, che allo scopo di influenzare le deci-
sioni a livello europeo, a Bruxelles opera un gruppo di 15.000 lobbisti formato
da rappresentanti di oltre 3.000 gruppi di interessi, tra cui le grandi imprese.

4.3. Il grado di responsabilità

«… Dalla nascita alla morte le grandi imprese influiscono su moltissimi


aspetti della nostra vita. I nostri ruoli civici come elettori, contribuenti, la-
voratori, consumatori e risparmiatori sono tutti condizionati da grandi im-
prese. Esse producono e vendono il cibo che mangiamo, gli abiti che indos-
siamo, le case in cui viviamo, i veicoli in cui viaggiamo e i divertimenti di
cui godiamo. Le grandi imprese pesano sulla qualità dell’ambiente e con-
formano i valori della nostra società, influenzando il diritto, l’imposizione
fiscale, l’istruzione, le comunicazioni, lo sport, la famiglia, le organizza-

119
zioni religiose, impiegando allo scopo varie forme di lobby, pratiche ecolo-
giche più o meno corrette, la pubblicità e il sostegno finanziario di associa-
zioni e partiti politici» (Democracy Watch).
Il grado di irresponsabilità presente nelle organizzazioni non è in fun-
zione delle dimensioni di un’impresa: esistono piccole e medie imprese che
agiscono in diversi campi altrettanto, se non più, irresponsabili delle grandi.
Tuttavia nel caso di una grande impresa con migliaia di dipendenti gli effet-
ti delle azioni che essa compie in modo irresponsabile ricadono su un nu-
mero più elevato di persone, e con effetti ovviamente più gravi.
Tali imprese, in campo finanziario, si limitano ad abbellire i rapporti tri-
mestrali o semestrali, gonfiando le previsioni di fatturato o di profitti, mentre
sperano che i dati reali non si rivelino troppo inferiori. Altre invece arrivano a
falsificare i bilanci, al fine di mascherare al pubblico, agli operatori economi-
ci e alle autorità di controllo i debiti accumulati e il rischio incombente di fal-
limento. In campo ambientale, rovesciano regolarmente grandi quantità di
rifiuti tossici in discariche abusive o nei corsi d’acqua o sostanze nocive
nell’aria. Nel campo delle condizioni di lavoro, applicano bassi salari, orari
disumani, violazioni dei diritti sindacali e ambienti lavorativi pericolosi.
Un’impresa governata in modo poco responsabile è atta infatti a produr-
re disastri economici, in cui decine di migliaia di famiglie vedono scompa-
rire i risparmi investiti in azioni, obbligazioni, o fondi pensione, oppure ge-
nera debiti immani che mettono a rischio le banche creditrici, quando non
vengono accollati allo Stato, cioè al contribuente. Così come comportamen-
ti poco responsabili possono addurre a perdite massicce di posti di lavoro
che impoveriscono intere regioni, o creano condizioni di lavoro miserevoli.
In seguito a disastri economici, si verificano poi erosioni di diritti dei lavo-
ratori, la proliferazione delle occupazioni precarie e dei lavori informali, la
moltiplicazione dei lavoratori poveri, sia nei paesi sviluppati che nei paesi
in via di sviluppo (Gallino, 2005).
Questo per dimostrare come da una crisi di tipo economico-finanziario
si possono generare altri tipi di complicazioni legate a più tipologie di sta-
keholder, non solo agli azionisti che sono coinvolti in prima persona.
Dalla A di Adidas alla Z di Zara oggi quasi tutte le grosse aziende profes-
sano la responsabilità sociale d’impresa, investendo milioni in campagne
pubblicitarie per dimostrare che l’azienda si fa carico dei propri obblighi so-
ciali ed ambientali, occupandosi di questioni legate ai diritti umani e
all’ambiente, sostenendo bambini di strada o costruendo scuole e ospedali nei

120
paesi più poveri. Le grandi imprese mettono volutamente in risalto il fatto di
essere consapevoli delle proprie responsabilità, molte di loro dispongono an-
che di un codice di condotta in cui si parla del rispetto dei diritti umani, del
diritto al lavoro, della protezione ambientale e della lotta al lavoro minorile.
Un motivo che spinge le aziende ad agire come è stato detto sopra è che
attraverso la CSR volontariamente autoimposta esse vogliono evitare di es-
sere costrette, con leggi globali, a rispettare i vincoli per la protezione dei
diritti umani. Un altro motivo, di enorme importanza, sono i consumatori:
tutti infatti vogliono acquistare i prodotti con la coscienza pulita, e anche le
persone che investono i loro risparmi in azioni non vogliono finanziare il
lavoro minorile o il traffico di armi. Quindi preferiscono investire in fondi
etici che affermano di tenere conto di criteri morali nella scelta dei loro
pacchetti di azioni. Con le campagne di CSR infatti, l’opinione pubblica ha
l’impressione che nelle multinazionali sia in atto un cambiamento di menta-
lità e che sia quindi possibile tornare a comprare i loro prodotti con la co-
scienza a posto (Werner-Lobo, 2009).
Jeff Ballinger (2009) è stato uno dei primi studiosi, alla fine del XX seco-
lo, a svelare e a portare alla luce i crimini dei grandi gruppi industriali. Se-
condo l’americano, è sempre più difficile fermare la situazione in cui costose
campagne di CSR sostituiscono i doveri primari dell’impresa, come pagare
salari equi o garantire condizioni di lavoro adeguate e un’informazione tra-
sparente al pubblico. Questa difficoltà nasce dal fatto che molti consumatori
e una buona parte dei media credono alle bugie della CSR raccontate nei rap-
porti che le grandi imprese si preoccupano di stilare minuziosamente. Non è
che le persone non capiscano l’intento che sta alla base di queste rendiconta-
zioni, il fatto è piuttosto che le relazioni commerciali delle singole aziende
sono diventate sempre meno controllabili a causa della globalizzazione, che
ha reso possibile che ormai quasi nessuna azienda dei grandi marchi produca
la merce nelle proprie fabbriche e nel proprio paese d’origine.
Si può dire quindi che il “bombardamento” pubblicitario che ha come
sfondo la CSR ha un effetto immediato esattamente come lo ha una normale
pubblicità: in un certo senso “stordisce” il consumatore con un sovraccarico
di notizie e informazioni fino ad arrivare a mascherare gli episodi negativi
che l’impresa compie contro la società e, paradossalmente, ad aumentare
l’immagine positiva di azienda impegnata nel sociale e con l’ambiente.
Tim Wright (2003) ha parlato della CSR come di una “grande illusio-
ne”. La sua visione cinica corrisponde al fatto che, a suo avviso, esistano

121
poche possibilità che il modo di fare business possa cambiare, in quanto
non ci sono basi per credere che le imprese stiano realmente cercando un
equilibrio tra tutte le loro responsabilità. Secondo Wright «there is no light
at the end of the tunnel», cioè non ci sarebbe nessuna possibilità di cam-
biamento per le aziende neanche nel lungo periodo. Inoltre, dopo i recenti
scandali aziendali, la fiducia nelle organizzazioni e nelle istituzioni diffuse
su larga scala è collassata ed utilizzare la CSR come salvagente non è più
sufficiente. Senza un cambiamento del modo di guardare al ruolo delle
grandi imprese nella società e finché non si capirà che una visione più tra-
sparente e “salutare” degli affari rende le aziende più competitive, la situa-
zione rimarrà immutata. Falsificare o creare bilanci di sostenibilità fittizi
non serve alle imprese a migliorare la loro posizione agli occhi dei relativi
stakeholder, in quanto può essere una copertura temporanea, non certo una
soluzione definitiva alle cattive azioni che l’azienda svolge. L’aumento
continuo, da parte del pubblico, della consapevolezza che esistono pratiche
alquanto dubbiose nel modo di condurre gli affari, ha incrementato il nume-
ro dei codici di condotta e di autoregolamentazione, dando come risultato il
fatto che ogni cosa viene gestita da iniziative promosse direttamente dalle
aziende e quindi difficilmente controllabili dall’esterno. Wright propone
come unica soluzione a tutto ciò lo svolgere l’attività organizzativa come
un obiettivo fine a se stesso, da cui poi deriveranno i profitti, senza lasciare
che l’azienda venga coinvolta in situazioni poco chiare che la portino poi
ad assumere soluzioni non conformi alle aspettative sociali.
Porter (2003) sostiene invece che il mercato e la società più in generale
stiano giustificando le imprese, sorvolando sulle tattiche che le aziende utiliz-
zano ricorrendo alla responsabilità sociale come linea difensiva per evitare
scandali e piacere al proprio pubblico. Fare del bene buttando i soldi in inizia-
tive sociali è uno spreco delle risorse degli azionisti, perché utilizzare il denaro
in questo modo non è sostenibile nel lungo periodo: nei momenti di crisi, infat-
ti, molte organizzazioni taglieranno per prima cosa questi costi in attività socia-
li, usati come mera copertura, quindi ritenuti un inutile investimento.
Di conseguenza, secondo Porter, anche questa eccessiva accondiscen-
denza e superficialità degli stakeholder è una delle cause che incoraggiano
le imprese nel loro comportamento irresponsabile, in quanto non solo non
sono esaminate in maniera approfondita da organi esterni di controllo che
ne verificano la correttezza oltre gli obblighi di legge, ma in certi casi non
sono nemmeno riprese dagli stessi stakeholder, che tendono a sorvolare cer-

122
ti avvenimenti per evitare l’insorgere di episodi spiacevoli.
Nello stesso tempo, prescrivere un comportamento etico attraverso dei
mezzi legali è molto difficile, in quanto non si può imporre l’intenzione o la
motivazione ad agire e le leggi sono definitive, non possono essere facil-
mente adattate o modificate in base alle necessità delle singole imprese;
inoltre nemmeno un approccio basato sul mercato (per esempio, specifi-
cando la massima tossicità consentita o creando dei limiti all’inquinamento)
sarebbe facile da applicare, perché le aziende avrebbero come unico incen-
tivo quello di rispettare gli standard richiesti e niente di più.
In conclusione, non esiste un modo per imporre la CSR alle imprese in
modo da cambiarne il comportamento irresponsabile, perché ogni codice di
condotta interno o regolamento imposto dalla legge è efficace soltanto se
l’azienda lo mette in pratica volontariamente, agendo in maniera motivata
nei confronti dei temi sociali.
La figura 18 riassume brevemente quanto detto finora a proposito dell’uso
che le imprese fanno della CSR al loro interno e delle conseguenze che com-
porta il comportamento adottato dalle aziende in ambito sociale a livello di
immagine, reputazione e risultati economici, sia nel breve che nel lungo pe-
riodo.

Fig. 18 – L’impiego della CSR in azienda


BUSINESS

AGIRE AGIRE
SOCIALMENTE CORRETTO IRRESPONSABILE

CSR COME LEVA CSR COME


STRATEGICA ”MASCHERA”

IMMAGINE POSITIVA IMMAGINE POSITIVA


BREVE PERIODO BREVE PERIODO

RISULTATI ECONOMICI RISULTATI ECONOMICI


POSITIVI POSITIVI
LUNGO BREVE PERIODO BREVE PERIODO LUNGO
PERIODO PERIODO

OPINIONE REPUTAZIONE REPUTAZIONE OPINIONE


PUBBLICA POSITIVA DANNEGGIATA PUBBLICA

LEGGI LEGGI
SUCCESSO INSUCCCESSO
FALLIMENTO

123
4.4. Le multinazionali
La multinazionale è definita come la fusione di più imprese in un’unità
economica. La globalizzazione ha promosso la costituzione di multinazio-
nali attraverso la facilitazione dello scambio internazionale di merci, capita-
le e servizi, rendendo possibile che quasi tutte queste aziende traggano pro-
fitto dalla produzione nei paesi a basso costo, per poi vendere la merce in
tutto il mondo con ampi margini di guadagno (Werner-Lobo, 2009).
La nostra quotidianità assomiglia ad un “supermercato globale”: i nostri
pomodori vengono raccolti in Olanda e lavati in Marocco, i nostri jeans vengo-
no cuciti in Cina con cotone indiano e commercializzati da un’azienda ameri-
cana, i nostri cellulari vengono disegnati in Finlandia, assemblati a Taiwan a
partire da singoli componenti le cui materie prime provengono dal Congo e so-
no state processate in Germania. Questo è il risultato della globalizzazione che,
come il capitalismo, rappresenta un vantaggio soprattutto per coloro che sono
già relativamente ricchi, cioè le grandi imprese e le multinazionali.
Per un gruppo internazionale il mondo intero è un unico mercato: le materie
prime possono essere acquistate dove sono attualmente meno costose, succes-
sivamente vengono processate a basso costo e infine vendute ovunque. Le spe-
se di trasporto non hanno grande rilevanza, poiché le multinazionali hanno
messo i governi sotto pressione e ottenuto il loro sostegno sotto forma di im-
portanti sovvenzioni, preoccupandosi anche di non pagare troppe tasse e di non
essere ostacolate da leggi eccessivamente severe (Werner-Lobo, 2009).
Tra il 1980 e il 2004 il numero totale delle imprese multinazionali è au-
mentato da 17.000 a 70.000. Le 500 maggiori imprese del mondo control-
lano oggi circa il 70% del mercato globale, il loro fatturato nel 1994 equi-
valeva al 25% del PIL del mondo, nel 2005 ammontava già a più del 33%.
Accostando il PIL dei paesi più ricchi al fatturato delle principali multina-
zionali, si può notare che tra le cento maggiori potenze economiche si tro-
vano tanti Stati quante aziende: la catena americana di supermercati Wal-
Mart e il gruppo petrolifero Exxon-Mobil hanno già superato Austria e Po-
lonia (Fortune Global 500, Banca Mondiale per il 2006).
La maggior parte delle imprese multinazionali ha sede nei paesi indu-
strializzati, primi fra tutti gli Stati Uniti, i paesi dell’Unione Europea e il
Giappone. Anche in Europa, dove il sistema economico è caratterizzato
dall’economia di mercato e da una serie di regolamentazioni statali che ga-
rantiscono una certa giustizia sociale, le multinazionali sono riuscite ad ar-
ricchirsi grazie alla crescita economica che ha interessato soprattutto i paesi

124
dell’UE, riuscendo anche a pagare molte meno tasse e contributi e creando
molti meno posti di lavoro rispetto alle piccole e medie imprese.
Le multinazionali sono di solito imprese quotate in borsa, delle quali
privati e istituzioni possiedono partecipazioni sotto forma di azioni. Grazie
alle loro dimensioni queste imprese hanno il potere di mettere sotto pres-
sione i governi di singoli paesi, minacciandoli, per esempio, di trasferire la
loro produzione in paesi con tasse, stipendi e standard ecologici più bassi.
Per paura di questo scenario, molti governi riducono talmente tanto gli
standard sociali ed ecologici e le tasse su patrimonio e utili, che proprio co-
loro che guadagnano molto e i potenti dell’economia non contribuiscono
quasi più al finanziamento dello Stato e del sistema sociale. Sempre a causa
delle loro dimensioni e del loro potere, le multinazionali e i loro proprietari
hanno organi di rappresentanza che cercano di influenzare il governo diret-
tamente o di esercitare un’azione sull’opinione pubblica tramite i media,
attraverso l’attività di lobbying (Werner-Lobo, 2009).
Questa libertà che viene data alle grandi imprese dai governi ha portato a
conseguenze spesso negative per molte persone, eppure, nonostante ciò, le
multinazionali e le loro lobby sollecitano ulteriori liberalizzazioni del merca-
to, sostenute da potenti alleati come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario
Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Queste tre or-
ganizzazioni globali furono fondate per migliorare la situazione economica
dei loro membri e in generale del mondo intero: la Banca Mondiale si prefig-
ge di aiutare i paesi in via di sviluppo a lottare contro la povertà, il Fondo
Monetario mira a dare loro una mano se si trovano in difficoltà economiche e
l’Organizzazione Mondiale del Commercio si propone di migliorare le rela-
zioni commerciali internazionali. I fatti hanno dimostrato però che i veri sco-
pi di queste tre istituzioni sono stati la liberalizzazione e la privatizzazione,
soprattutto nei paesi in via di sviluppo, a vantaggio delle multinazionali.
Questo succede perché le nazioni industrializzate hanno molta più voce in
capitolo rispetto agli altri paesi, nessuna delle tre istituzioni è sottoposta a un
controllo democratico (visto che chi prende le decisioni è designato da ogni
singolo governo), le trattative avvengono a porte chiuse e i documenti non
sono accessibili. L’influenza delle lobby è quindi molto presente, e grazie al
loro operato hanno reso possibile l’incremento dei profitti delle grosse azien-
de. Anche l’ONU, che è la più grande e importante organizzazione interna-
zionale, ha perso influenza politica a causa della globalizzazione neoliberista
promossa dalle multinazionali. Inoltre, le tre organizzazioni sopra citate han-
no a disposizione strumenti di potere economico che l’ONU non possiede,

125
rendendola quindi ancora più impotente, e le decisioni del Consiglio di Sicu-
rezza dell’ONU devono sempre avere il nulla osta dei membri permanenti
(Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna e USA), che pongono regolarmente il
proprio veto se vedono minacciati i propri interessi economici o quelli delle
multinazionali che proteggono (Werner-Lobo, 2009).
L’irresponsabilità delle multinazionali è quindi evidente da quanto detto
fino a qui: il loro potere permette loro di nascondere dietro all’autorità dei go-
verni e delle più importanti organizzazioni le attività poco legali e ad alto im-
patto sociale che esse compiono al fine di massimizzare i loro profitti e di
estendere la loro grandezza ai danni delle popolazioni di tutto il mondo,
dell’ambiente e anche dell’economia dei singoli paesi, ricchi e poveri, in cui
operano.
Per concludere, è necessario dire che l’irresponsabilità è un fatto grave,
se non altro perché ha dure conseguenze che si riversano sugli stakeholder.
Tuttavia in molti casi questi avvenimenti non bastano per segnare la vita di
queste aziende perché evidentemente c’è qualcosa (e probabilmente anche
qualcuno) che sovrasta la portata di questi fatti, riuscendo a metterli a tace-
re a breve agli occhi del pubblico. Accade soprattutto con le multinazionali
e con le grandi imprese, la cui reputazione è talmente radicata che non vie-
ne scalfita, se non in minima parte e per un periodo di tempo limitato, no-
nostante gli scandali generati dall’impresa. Perché le persone continuano ad
acquistare le scarpe Nike, i cereali Kellogg’s, i prodotti Nestlé o gli ham-
burger di Mc Donald’s se sanno che tutte queste aziende hanno violato in
diversi modi gli standard di comportamento minimi richiesti dalla società?
Perché queste aziende continuano ad operare indisturbate come se gli scan-
dali da loro commessi non fossero mai accaduti? Eppure di critiche nei loro
confronti da parte delle istituzioni, delle associazioni dei consumatori, delle
autorità legislative sono pieni i libri, i dibattiti e la Rete.
Attraverso l’analisi del caso che sarà presentato nel prossimo capitolo, si
cercherà di rispondere alle domande poste sopra. Esaminare una storia azien-
dale concreta permetterà infatti di capire in modo più immediato quelle che
sono le conseguenze del comportamento irresponsabile di un’azienda, i modi
in cui l’impresa ha cercato di riparare alle sue azioni, come è stata impiegata
la CSR, quali sono state le critiche mosse dall’opinione pubblica e dalle or-
ganizzazioni preposte al controllo dell’operato delle aziende e perché, nono-
stante tutto, una bad company può continuare ad essere un’azienda di succes-
so che gode di una buona immagine agli occhi del pubblico.

126
5. UN CASO DI BAD COMPANY: LA NESTLÉ

5.1. Chi è Nestlé

Intorno al 1860 a Vevey, in Svizzera, il farmacista Henri Nestlé svilup-


pa un alimento per i neonati che non potevano essere nutriti al seno a causa
di particolari intolleranze. Il prodotto salva la vita di un bambino, e la Fari-
ne Lactée Henri Nestlé è presto venduta in tutta Europa. Nel 1866 viene
formalmente fondata la Nestlé. Nel 1867 il tasso di mortalità infantile risul-
ta molto alto in Europa e Nestlé capisce subito di poter aiutare molte madri
e i loro bambini esportando l’innovativo prodotto all’estero.
Nel 1938 Nestlé inventa anche Nescafé, il primo caffè solubile istantaneo,
come risposta alla domanda dei produttori di caffè brasiliano, preoccupati per
la sovrapproduzione e le difficoltà tecniche di conservazione del prodotto.
Nel 1947 Nestlé acquista Maggi, storica azienda che produce alimenti. Og-
gi Maggi è un brand molto forte, capace di sviluppare alimenti arricchiti di nu-
trienti necessari a soddisfare le esigenze alimentari di specifiche aree geografi-
che, pur restando economicamente accessibile ad un esteso numero di persone.
Numerosi sono anche i prodotti pensati per paesi in cui la popolazione patisce
deficit nutrizionali e difficoltà di reddito. Tra gli altri si può citare Milo, la be-
vanda energetica con vitamine diffusa in molti paesi dell’Africa.
Nel 1974 Nestlé amplia le sue attività oltre i confini del mercato alimen-
tare, in settori in cui la ricerca e lo sviluppo rappresentano fattori chiave di
crescita, con l’acquisizione di quote di L’Oréal e, successivamente, con Al-
con Laboratories Inc.
Nella prima metà degli anni Novanta, la caduta delle barriere commer-
ciali e la nascita del mercato globale forniscono alla Nestlé nuovi importan-

127
ti mercati nei quali espandersi: gli anni Novanta e i primi anni Duemila
hanno rappresentato infatti un periodo di forte crescita che si è tradotto in
nuove acquisizioni, tra le quali: Sanpellegrino (1997), Spillers Petfoods
(1998) e Ralston Purina (2002). Nel 2003 Nestlé porta a termine altre tre
importanti acquisizioni: i gelati Mövenpick, l’acqua Pow-wow e il gruppo
di gelati americani Dreyer.
A conferma del continuo impegno per la nutrizione, la salute e il benessere,
nel 2006 Nestlé acquista il gruppo americano Jenny Craig che gestisce centri
per la perdita di peso e opera nel settore degli alimenti dietetici. Nel 2007 si è
inoltre conclusa l’acquisizione della Gerber Baby Food Company, marchio
simbolo degli alimenti per l’infanzia degli Stati Uniti, a seguito della quale Ne-
stlé è diventata leader del settore a livello mondiale e numero uno nel mercato
statunitense. Infine, sempre nel 2007 a seguito dell’acquisizione di Novartis
Medical Nutrition e della sua fusione con Nestlé Clinical Nutrition, è nata Ne-
stlé Healthcare Nutrition, specialista nella nutrizione clinica (www.nestle.it).
Ad oggi Nestlé controlla un vastissimo portfolio marchi diversificato in
ogni paese in base alla cultura e alle specifiche necessità del luogo, e arric-
chito nel tempo, fin dalla creazione del marchio, in seguito alla scoperta e
alla nascita di nuovi prodotti, grazie alla capacità innovativa dell’azienda e
alla fusione o acquisizione di piccole e medie imprese operanti nel settore
dell’alimentazione, della salute e del benessere.
Nestlé Italiana, con un volume d’affari che nel 2007 ha raggiunto un fat-
turato di oltre 1.500 milioni di euro, è oggi una delle più importanti aziende
presenti nel settore alimentare del paese. Opera con un portfolio di circa 70
marchi e di 3.900 referenze.
L’azienda vanta un organico di circa 3.700 dipendenti, occupati nella
sede centrale di Milano e nei sette stabilimenti distribuiti su tutto il territo-
rio nazionale. Di seguito vengono riportati alcuni tra i principali marchi che
sono commercializzati in Italia (www.nestle.it):
x prodotti culinari: Buitoni, Maggi;
x prodotti dolciari: Perugina, Baci, Motta, Tartufone, Alemagna, Ore
Liete, KitKat, Galak, Smarties, Fruit Joy, Nero Perugina;
x gelati: Motta, Antica Gelateria del Corso, Maxibon, La Cremeria;
x prodotti a base di latte: Fruttolo, MIO, LC1 Protection, Sveltesse, Ne-
squik, Galak;
x prodotti per l’infanzia: Nidina, Mio;
x prodotti per la nutrizione clinica: Meritene, Resource, Nova Source;

128
x preparati per bevande: Nescafé, Nescafé Dolce Gusto, Nesquik, Orzoro;
x cereali per la prima colazione: Fitness, Nesquik, Cheerios, Chocapic;
x cosmetici: L’Oréal;
x Nestlé Professional: prodotti per gli operatori professionali della risto-
razione;
x Nestlé Italiana, parte del Gruppo Nestlé, è presente nel nostro paese con
altre realtà operative: Sanpellegrino-Nestlé Waters, Nestlé Purina Pet-
care, Nespresso e Alcon.
L’ascesa della Nestlé è da inquadrare in un processo da tempo in corso
in molti paesi: il passaggio da un’industria alimentare locale e regionale ad
una sovranazionale. Diversificazione geografica, forti disponibilità finan-
ziarie, promozioni aggressive dei propri marchi consentono alle multina-
zionali di colonizzare una fetta sempre più vasta del mercato a scapito delle
piccole e medie imprese che si muovono in un’ottica nazionale.

Tab. 3 – I numeri di Nestlé (Nestlé, 2008)

Fatturato totale in CHF 109,9 miliardi


Fatturato Nestlé Nutrition in CHF 10,4 miliardi
Utilie netto in CHF 18 miliardi
Spesa totale per la ricerca in CHF 1,98 miliardi
Persone occupate 283.000
Paesi in cui il gruppo opera 84
Numero stabilimenti 456

Tab. 4 – Fatturato e crescita organica per categoria di prodotto (Nestlé, 2008)

Categorie di prodotto Fatturato (miliardi di CHF) Crescita organica


Bevande
(incluse le bevande solubili) 18,885 12,8%
Nestlé Waters 9,589 -1,6%
Prodotti a base di latte e gelati 20,561 9,2%
Nestlé Nutrition 10,375 7,7%
Piatti pronti e prodotti culinari 18,117 6,1%
Prodotti dolciari 12,370 8%
Alimenti e accessori per
animali 12,467 12,1%
Prodotti farmaceutici 7,544 8,8%

129
La classifica Fortune Global 500, una lista dei primi 500 gruppi econo-
mici mondiali stilata in base al fatturato dalla rivista statunitense Fortune,
nel 2007 ha individuato la Nestlé al 57° posto tra le imprese più grandi al
mondo, con un fatturato di 66 miliardi di euro (+ 12,2% dal 2006), e
276.000 dipendenti in tutto il mondo (www.money.cnn.com, Fortune Glo-
bal 500, Werner-Lobo, 2009). Con questi dati Nestlé si conferma leader
mondiale nell’industria alimentare dei prodotti a consumo, davanti a Unile-
ver, al 122° posto, e PepsiCo, al 184° posto della classifica Fortune.
La lista stilata dalla rivista Forbes, Forbes Global 2000, invece, è una
classifica annuale delle prime 2.000 società per azioni che individua i prin-
cipali Global High Performers attraverso un incrocio tra quattro variabili:
vendite, profitti, patrimonio e valore di mercato. Nestlé si classifica al 32°
posto, rientrando quindi tra le prime 130 imprese, e più nello specifico ot-
tiene un 45° posto nella sezione “vendite” e un 10° posto nella sezione
“profitti” (www.forbes.com).

5.2. Critiche alla politica commerciale di Nestlé: le azioni anti-


sociali dell’azienda e il comitato internazionale di boicottaggio

Nestlé è un’impresa che opera su scala mondiale, ha a che fare con mi-
gliaia di dipendenti e consumatori, collabora con governi e istituzioni e
ogni anno genera ingenti profitti che alimentano l’economia mondiale in
modo non indifferente.
Nestlé ha tutte le caratteristiche di una multinazionale e, come tale, non
è immune alle critiche che giungono dall’opinione pubblica, dalle moltepli-
ci associazioni e organizzazioni governative e non, nonché da istituzioni e
figure di alto rilievo.
Fin dai tardi anni Settanta, la Nestlé si è trovata ad essere oggetto di
numerose critiche rispetto ad una serie di aspetti della propria politica
commerciale. Movimenti di opposizione a questa azienda, iniziati su vari
fronti, sono approdati fino alla nascita di un International Nestlé Boycott
Committee (Comitato Internazionale per il Boicottaggio della Nestlé) a cui
fanno capo, formalmente o informalmente, numerose associazioni analoghe
in diversi paesi del mondo.

130
Le principali critiche che vengono mosse all’Impresa riguardano prati-
che scorrette che Nestlé svolge all’interno dei diversi ambiti in cui opera
(www.girodivite.it, www.wikipedia.it):
x attività di pressione sul potere politico, messe in pratica esercitando
pressioni e influenze sui maggiori partiti politici statunitensi attraver-
so ingenti finanziamenti;
x scarsi controlli di qualità sul cibo per animali, che hanno portato nel
2005 ad una morte di massa di animali in Venezuela;
x azioni legali contro governi in condizioni di povertà e oppressione,
come accadde in Etiopia nel 2002;
x collaborazione con i regimi oppressivi e sfruttamento di questa con-
dizione di disagio all’interno degli stabilimenti, che ha portato al ge-
nerarsi di pressioni con le parti sindacali;
x test su animali, questo per quanto riguarda il marchio L’Oréal, anch’esso
oggetto di boicottaggio;
x produzione, commercializzazione e vendita irresponsabile di latte per
neonati, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, e conseguente viola-
zione dei codici internazionali sulla vendita dei surrogati del latte
materno.
Sono state riportate soltanto alcune delle azioni anti-sociali praticate da
Nestlé in tutto il mondo e realizzate attraverso l’uso dei diversi marchi che
contraddistinguono l’azienda. Un caso che dimostra l’irresponsabilità so-
ciale di Nestlé riguarda la commercializzazione del latte in polvere per
neonati e la violazione dei relativi codici internazionali, la cui difesa ha
portato alla nascita di comitati di monitoraggio per il rispetto del codice,
nonché di comitati di boicottaggio contro chi viola i codici nuocendo alla
salute dei piccoli consumatori e aumentando il tasso di mortalità infantile
nei paesi meno sviluppati.
Secondo le accuse, infatti, il preparato per latte venduto in molti paesi
sottosviluppati, avrebbe portato alla morte di circa un milione e mezzo di
bambini ogni anno, essendo spesso mischiato con acqua contaminata.
La Nestlé violerebbe anche spesso l’International Code of Marketing of
Breast-milk Substitutes, il regolamento internazionale sulla vendita di surro-
gati del latte materno. I controlli eseguiti dalla International Baby Food Ac-
tion Network (IBFAN) in questo senso sono stati la causa prima della nascita
del comitato internazionale di boicottaggio dell’azienda. Tuttavia, le accuse
sono state oggetto di indagini, e nei casi in cui si sono mostrate fondate, han-

131
no portato ad azioni correttive. Nel 1982, la Nestlé ha ufficialmente aderito al
regolamento sulla vendita di surrogati del latte materno definito dalla World
Health Organization (WHO), collaborando con WHO, Unicef e con lo stesso
comitato di boicottaggio alla revisione e al raffinamento di tale regolamento
(1984) (www.citinv.it, Rete Italiana Boicottaggio Nestlé).
Dietro pressione del comitato di monitoraggio IBFAN, la Nestlé ha an-
che cessato di pubblicizzare surrogati del latte materno, e non utilizza più
immagini di neonati sulle confezioni. Secondo diverse fonti, come IBFAN
e il Comitato Internazionale di Boicottaggio, tuttavia, il mutamento di rotta
della politica commerciale della Nestlé nel Terzo Mondo è stato soltanto o
soprattutto formale, e l’azienda continuerebbe a macchiarsi di infrazioni
anche molto gravi dei regolamenti internazionali in merito.
Nestlé, la multinazionale più potente del mondo nel campo agroalimen-
tare, vende il 25% dei suoi prodotti nel Sud del Mondo e controlla circa il
35-50 % del mercato globale del cibo per bambini, indirizzando tendenze di
marketing che influenzano le altre compagnie.
In questo secolo è dilagato l’uso di alimenti per neonati, per esempio in
Cile, nel 1950 il 95% dei neonati venivano allattati al seno, vent’anni dopo
solo il 20%. In Cile, così come nel resto del mondo, le donne credevano
fermamente ai vantaggi del latte in polvere e dicevano di essere state consi-
gliate dal personale medico. Questo cambiamento di costumi è dovuto
all’influsso dei paesi industrializzati. Il biberon ha ottenuto successo grazie
alle campagne pubblicitarie simbolo di progresso e di salute a priori. Oltre a
distribuire cartelloni pubblicitari recanti immagini di bambini sani e paffuti
negli ospedali, le ditte produttrici si mettono in contatto con i medici locali
e, organizzando corsi e seminari per il personale sanitario, fanno entrare in
uso i loro prodotti negli ospedali. I rappresentanti delle ditte arrivano a fin-
gersi infermieri per convincere le donne incinte a comprare il prodotto
commercializzato e in questo sono molto facilitati dalla carenza di informa-
zioni mediche (spesso le uniche disponibili sono proprio quelle fornite dalle
ditte produttrici) (Mike Brady, 2009).
La Nestlé ricorre inoltre a irresponsabili tecniche di marketing, violando
più spesso di ogni suo concorrente il Codice Internazionale redatto da Uni-
cef e OMS.
Una delle più redditizie tattiche di marketing è di dare gratis il latte per
bambini o i sostituti agli ospedali e ai reparti maternità. In molti casi, viene
dato abbastanza latte perché tutti i bambini nati all’ospedale siano allattati

132
con il biberon. Alle madri viene spesso dato anche un barattolo campione
da portare a casa. Dare il latte con il biberon ai neonati fa sì che il latte ma-
terno venga progressivamente a mancare e l’allattamento al seno diventi
impraticabile. Di conseguenza il bambino diventa dipendente dal latte arti-
ficiale. Una volta a casa, le madri non ricevono più il latte gratis, ma se lo
devono comprare. Da questo nascono da una parte i profitti della multina-
zionale e dall’altra le spaventose conseguenze di malattie e denutrizione,
soprattutto nei luoghi in cui le condizioni igieniche non aiutano la sana cre-
scita di un bambino.
I campioni gratuiti agli ospedali sono solo una strada per dare ai bambi-
ni il latte artificiale. Nestlé adopera molte altre tattiche per persuadere le
madri ed il personale medico a preferire l’allattamento artificiale. Queste
includono (www.citinv.it):
x promozione del latte per bambini al personale medico: Nestlé sa che,
persuadendo il personale medico a raccomandare il suo latte, ottiene
un appoggio determinante. Ciò è molto più efficace che convincere
le madri singolarmente. E il prezioso tempo dei medici viene spreca-
to in visite di rappresentanti di vendita. La Nestlé inoltre distribuisce
informazioni tendenziose ai medici: queste sono le uniche che molti
riescono a ricevere;
x pubblicità negli ospedali: praticamente tutte le madri possono allatta-
re al petto se vengono loro forniti i giusti avvertimenti ed aiuti. Ma la
loro fiducia verso l’allattamento naturale è minata dalla pubblicità
del latte in polvere. La pubblicità del latte per bambini nelle corsie o
attraverso la distribuzione di volantini negli ospedali implica anche
la complicità del personale sanitario;
x pubblicità “Follow-on Milks” (latti per lo svezzamento): i Follow-on
Milks sono giudicati dall’Assemblea Mondiale per la Sanità come
«non necessari» e non salutari per i bambini sotto i sei mesi. In molti
paesi la Nestlé mette la sua etichetta e pubblicizza il suo «latte per lo
svezzamento» per i bambini a partire dai quattro mesi di vita;
x disorientamento delle madri e del personale medico, denominando e
confezionando il latte per lo svezzamento nella stessa maniera in cui
chiama e confeziona il latte in polvere. In Pakistan, ad esempio, il
latte per lo svezzamento viene spesso prescritto per i neonati;
x influenze sui governi che vogliono proteggere l’allattamento al seno
per legge: la Nestlé è una multinazionale molto potente e riesce ad

133
esercitare un’influenza considerevole sui governi. La pressione eser-
citata dalle società per il latte in polvere ha ritardato e indebolito la
legislazione da parte di molti governi e ha convinto le altre compa-
gnie che l’industria può regolarsi indipendentemente dalla legisla-
zione presente all’interno degli Stati.
«Il numero di vittime causate dall’uso improprio del latte in polvere
ogni mese è equivalente a quello che causò l’esplosione della bomba di Hi-
roshima nel 1945».
James Grant, Direttore Esecutivo Unicef (1980-1995).
Molti pensano che il latte in polvere sia migliore di quello materno, ar-
ricchito com’è di sali minerali e vitamine. Studi approfonditi pubblicati dal-
la rivista medica Lancet (2003) hanno però confermato l’intuito del buon
senso millenario: l’allattamento al seno è il miglior modo per iniziare la vi-
ta e l’intervento più efficace per prevenire le morti sotto i cinque anni d’età,
più efficace dell’uso di acqua potabile, delle misure igieniche e dei vaccini:
il latte materno, infatti, è gratuito, salutare e protegge dalle più comuni in-
fezioni, inclusa polmonite, infezioni alle orecchie, infezioni respiratorie,
diabete, obesità, malattie cardiocircolatorie e poliomielite, e ha un impor-
tante effetto immunitario. Persino in Inghilterra, un bambino allattato con il
latte artificiale è esposto dieci volte in più a malattie di tipo gastrointestinali
rispetto ad un bambino allattato naturalmente. L’allattamento al seno è vita-
le non solo per l’apporto nutrizionale, ma soprattutto per la sua funzione di
trasmissione di anticorpi e quindi protezione contro le malattie, e nelle real-
tà in cui è inaccessibile l’acqua potabile o dove è assente un’adeguata assi-
stenza sanitaria, il latte materno può salvare la vita dei neonati: la gente po-
vera solitamente diluisce troppo il latte in polvere, spesso con acqua malsa-
na, causando così malnutrizione e malattie che di frequente portano ad una
morte prematura dei lattanti. Senza contare che, nei paesi sviluppati, il cibo
in più che deve assumere la madre per allattare, viene a costare meno di un
decimo del cibo artificiale per il bambino (Mike Brady, 2009).
Qui si sta parlando di rischi, non di bontà o meno dei prodotti: un bam-
bino allattato al seno può ammalarsi mentre un altro bambino nutrito con
latte in polvere no. Nessuno dice che il latte in polvere non sia un prodotto
valido, grazie a questo sostituto del latte materno, infatti, molti neonati pos-
sono continuare a vivere nonostante le loro madri non possano nutrirli natu-
ralmente al seno, e non subiscono alcuna alterazione del loro stato di salute.
L’Assemblea Mondiale della Sanità, attraverso il suo Codice sui sostituti

134
del latte materno, mira a proteggere l’allattamento in generale, che sia natu-
rale o artificiale, ad assicurare che i sostituti siano utilizzati in modo sicuro
e se necessario, e a tutelare un’informazione accurata ed indipendente (Mi-
ke Brady, 2009). Come dice il Codice: «In view of the vulnerability of in-
fants in the early months of life and the risks involved in inappropriate
feeding practices, including the unnecessary and improper use of breast-
milk substitutes, the marketing of breastmilk substitutes requires special
treatment, which makes usual marketing practices unsuitable for these
products»1.
Ignorando i consigli della Organizzazione Mondiale della Sanità che rac-
comanda che i cibi complementari debbono essere utilizzati dopo i sei mesi
di vita, i prodotti Nestlé sono etichettati, nei migliori dei casi, come utilizza-
bili dopo la seconda settimana di vita. Le etichette non forniscono informa-
zioni chiare, in alcuni casi, in lingue che le madri non possono capire, e ripor-
tano frasi che enfatizzano i benefici del latte in polvere fin dalle prime setti-
mane di vita, suggerendo che i prodotti sono «ispirati all’allattamento al se-
no» o «simili all’allattamento naturale». Gli slogan recitano che i prodotti
aiutano «lo sviluppo degli occhi e del cervello» o «la costruzione del sistema
immunitario», ma quando sono stati analizzati dagli studi, si è scoperto che le
affermazioni sostenute negli slogan non sono sempre e del tutto fondate. Per
ordine di molti Governi, inoltre, i barattoli di latte in polvere devono riportare
l’informazione che l’allattamento al seno è migliore per i bambini, ma in di-
versi paesi Nestlé ha rifiutato di attenersi al regolamento a causa di “restri-
zioni di costo”. Oltre a ciò, in alcuni paesi come in Malawi, Nestlé sta pro-
muovendo il latte in polvere con un logo che sostiene che quel prodotto “pro-
tegge”. Questo tipo di latte è molto costoso e coloro che credono allo slogan
del prodotto che “protegge” probabilmente lo usano insieme all’allattamento
naturale: questo mix rappresenta uno degli scenari peggiori per la trasmissio-
ne dei virus. (www.babymilkaction.org).

1
Traduzione personale: «In considerazione della vulnerabilità dei bambini durante i primi
mesi di vita e dei rischi associati alle inappropriate pratiche alimentari, incluso l’uso impro-
prio e non necessario di sostituti del latte materno, la commercializzazione dei surrogati del
latte materno richiede un trattamento speciale, che renda le abituali pratiche di marketing
inadatte per questi prodotti».

135
Fig. 19 – Confezioni di latte in polvere Nestlé

Infine, per completezza, è necessario dare una breve descrizione


dell’attività di boicottaggio portata avanti nei confronti di Nestlé. In generale, il
boicottaggio consiste nell’interruzione, organizzata e temporanea, dell’acquisto
di uno o più prodotti, per indurre le società produttrici a comportamenti diversi.
Congiuntamente ad una capillare informazione e sensibilizzazione sul proble-
ma, il boicottaggio raggiunge in forma democratica ed efficace l’obiettivo at-
traverso tre meccanismi:
x determina un calo delle vendite: bisogna ricordare che può bastare
una riduzione di solo il 3-5% per provocare un grave danno alle im-
prese costrette a incrementare le spese per la pubblicità e a cedere
fette di mercato alla concorrenza;
x danneggia l’immagine dell’impresa e questo, in una società che vive
di sola immagine, rappresenta un danno ancor più grave del semplice
calo delle vendite: alcune compagnie, denunciate in passato, hanno
ceduto davanti alla sola minaccia di boicottaggio per non vedere il
loro nome associato nella mente dei consumatori a comportamenti
moralmente condannabili (è il caso, per esempio, della Del Monte);

136
x costringe l’impresa a reimpostare le pubbliche relazioni, a vigilare in
maniera molto accurata sulle iniziative dei boicottatori e a nasconde-
re le pratiche scorrette di cui è accusata. Le ditte infatti fanno un con-
to di queste perdite (subite a causa del boicottaggio) e delle perdite
che subirebbero accettando le richieste dei boicottatori. La ditta boi-
cottata cesserà le pratiche incriminate solo quando le converrà sul
piano economico, l’unico a cui è sensibile (www.citinv.it).
Per entrare più nello specifico del caso, ho contattato direttamente via
posta elettronica Mike Brady, responsabile dell’associazione britannica
dell’IBFAN, Baby Milk Action, un’organizzazione non a fini di lucro che si
batte per proteggere madri e bambini dalla promozione commerciale
dell’allattamento artificiale e per tutelare i diritti della donna ad una scelta
consapevole.
Il boicottaggio alla Nestlé è stato lanciato nel 1977 dall’International
Nestlé Boycott Committee con lo scopo di fermare la pubblicizzazione del
latte in polvere e quindi la diffusione di notizie tendenziose riguardanti i
benefici dei sostituti del latte materno. Nel 1979 nasce l’IBFAN che riuni-
sce numerose organizzazioni non governative al fine dì esercitare pressione
sulle industrie produttrici di cibo per bambini. Mike Brady spiega così gli
intenti dell’IBFAN e, quindi, di Baby Milk Action: «Our aim is to protect
breastfeeding and babies fed on formula from practices that put profits be-
fore health. We monitor the baby food industry around the world with part-
ners in the International Baby Food Action Network (IBFAN) and find the
information companies provide is idealising and misleading. It undermines
breastfeeding and does not provide those who use formula with the infor-
mation they need to understand the differences between the different types
of formula on the market and how to reduce the risks associated with for-
mula feeding»2.

2
Traduzione personale: «Il nostro scopo è quello di proteggere l’allattamento al seno e i
bambini nutriti con gli alimenti per neonati da quelle pratiche che mettono i profitti prima
della salute. Monitoriamo l’industria degli alimenti per bambini in tutto il mondo con part-
ner nell’International Baby Food Action Network (IBFAN) e troviamo le informazioni idea-
lizzate e fuorvianti che forniscono le imprese. Queste notizie minacciano l’allattamento al
seno e non forniscono a chi usa i sostituti le giuste informazioni per capire le differenze tra i
diversi tipi di surrogati presenti sul mercato e su come ridurre i rischi associati
all’allattamento artificiale».

137
5.3. Il Codice Internazionale e le istituzioni

Il Codice Internazionale sulla Commercializzazione dei Sostituti del


Latte Materno è il risultato della consultazione tra l’Organizzazione Mon-
diale della Sanità (OMS) e i suoi paesi membri, l’Unicef, le compagnie
produttrici di alimenti per l’infanzia, l’IBFAN (International Baby Food
Action Network) ed un gruppo di esperti in nutrizione umana. Il Codice fu
adottato dall’Assemblea Mondiale della Sanità (AMS) il 21 Maggio 1981,
con lo scopo di proteggere la salute dell’infanzia, sanzionando la scorretta
commercializzazione e ogni forma di promozione dei sostituti del latte ma-
terno. In particolare, si voleva tutelare l’allattamento al seno mediante:
x l’impegno da parte dei Governi di provvedere alla diffusione di in-
formazioni corrette circa l’allattamento;
x l’adozione da parte di produttori e distributori di appropriate tecniche
di marketing per i sostituti del latte materno e altri alimenti infantili, i
biberon e le tettarelle (www.ibfanitalia.org).
Come e perché è nato il Codice?
Negli anni Sessanta e Settanta, l’attenzione pubblica fu richiamata
dall’allarmante declino dell’allattamento al seno diffuso un po’ in tutti i paesi
del mondo: numerosi professionisti sanitari iniziarono a pubblicare le loro
esperienze sull’impatto che la pubblicità di prodotti industriali per
l’alimentazione infantile, la distribuzione di campioni gratuiti e altre tecniche
di promozione esercitavano sulla durata e la frequenza dell’allattamento al
seno. A metà degli anni Settanta OMS e Unicef promossero la realizzazione
di un incontro internazionale sull’alimentazione infantile, che fu realizzato
nell’ottobre 1979 e fu il primo di un lungo processo di consultazioni in cui
esperti delle due organizzazioni si confrontarono con i governi, le industrie
produttrici di cibi per l’infanzia, le associazioni professionali ed organizza-
zioni non governative (fra cui quella che sarebbe poi diventata l’IBFAN). Ta-
le processo portò nel 1981 all’elaborazione del Codice e alla sua ratifica da
parte dell’ AMS nel maggio dello stesso anno. Esso è stato adottato
dall’AMS come requisito minimo per proteggere la salute infantile e quindi
con l’auspicio che venga messo in pratica al 100% (www.ibfanitalia.org).
Quanto è vincolante il Codice?
Dal punto di vista giuridico, si tratta di un codice di comportamento, e
pertanto è meno vincolante di un trattato o di una convenzione, ma dal
momento che l’Assemblea Mondiale della Sanità esprime il giudizio dei

138
Ministri della Sanità dei Governi mondiali e dei loro collaboratori, eminenti
esperti scientifici in campi specifici di salute pubblica, il suo peso politico è
dunque notevole. Gli Stati membri della AMS devono concretizzare il Co-
dice in provvedimenti legislativi nazionali, nella sua interezza e come re-
quisito minimo. Similmente dovrebbero essere recepite le Risoluzioni. I
fabbricanti e distributori, invece, devono comunque aderire ai principi del
Codice, indipendentemente da altre misure prese nei vari Stati: «Produttori
e distributori di prodotti a cui si applica il Codice devono considerarsi re-
sponsabili per la sorveglianza delle loro pratiche di marketing, secondo i
principi e gli scopi del Codice, e prendere provvedimenti per assicurare che
la loro condotta ad ogni livello sia conforme ad esso» (articolo 11.3).
Quali prodotti sono coperti dal Codice?
x I latti artificiali sia in polvere che liquidi, sia le formule speciali che i
cosiddetti “latti di proseguimento”;
x altri prodotti che possano in tutto o in parte sostituirsi al latte materno,
(tisane, the, preparati liofilizzati, omogeneizzati, biscotti...) quando
presentati come adatti a bambini di età inferiore a sei mesi;
x biberon e tettarelle (www.ibfanitalia.org).
Per questi prodotti il Codice richiede (Codice Internazionale sulla Com-
mercializzazione dei Sostituti del Latte Materno, Organizzazione Mondiale
della Sanità, 1981):
Etichette adeguate
x Le etichette devono portare le informazioni necessarie sull’uso ap-
propriato del prodotto, e non devono dissuadere dalla pratica dello
allattamento al seno. I produttori della “infant formula” devono far sì
che ogni confezione abbia un messaggio ben evidente in un linguag-
gio chiaro e appropriato, che includa i seguenti punti:
a. le parole “Notizia Importante” o le loro equivalenti;
b. una dichiarazione sulla superiorità dell’allattamento al seno;
c. una dichiarazione che il prodotto debba essere usato soltanto con il
consenso di un medico;
d. istruzioni per la preparazione adeguata, e un avvertimento sui ri-
schi per la salute in caso di preparazione inadeguata.
x Né la confezione né l’etichetta devono avere disegni di neonati o altri
disegni o testi che possano idealizzare l’uso della “infant formula”.
x Non devono essere usati i termini “umanizzato”, “maternizzato” o
simili.

139
x Cibi pubblicizzati per l’alimentazione dei neonati, che non risponda-
no ai requisiti di una “infant formula”, ma che possono essere modi-
ficati in tal senso, devono portare un avvertimento sull’etichetta (ar-
ticolo 9.1, 9.2, 9.3).
Nessuna promozione al pubblico
Non ci deve essere pubblicità o altra forma di promozione al pubblico di
prodotti a cui si applica il Codice. Non ci deve essere nessuna pubblicità
nel punto di vendita, distribuzione di campioni o ogni altro mezzo promo-
zionale per attirare direttamente il consumatore, come speciali mostre, ta-
gliandi di sconto, premi, vendite speciali.
Il personale addetto al marketing non deve cercare nessun contatto diret-
to o indiretto con le madri di neonati e bambini piccoli (articolo 5).
Nessun dono alle madri o al personale medico
Produttori e distributori non devono elargire alle madri nessun dono di
articoli o utensili che possa promuovere l’uso di sostituti del latte materno o
di allattamento tramite biberon.
Nessun incentivo finanziario o materiale, per promuovere prodotti che
rientrano negli scopi del Codice, deve essere offerto al personale medico o
a membri delle famiglie (articoli 5.4, 7.3).
Una chiara informazione
x Materiali informativi e istruttivi riguardanti la nutrizione di neonati,
rivolti a personale medico professionale, donne incinte o madri, de-
vono includere chiara informazione sui seguenti punti:
a. i benefici e la superiorità dell’allattamento al seno;
b. la nutrizione materna e la preparazione e il mantenimento
dell’allattamento al seno;
c. l’effetto negativo sull’allattamento al seno di introdurre un parzia-
le allattamento al biberon;
d. la difficoltà di cambiare la decisione di non allattare al seno;
e. qualora necessario, il corretto uso della “infant formula”.
x Quando questi materiali contengono informazioni sull’uso della
“formula infantile”, essi devono includere:
a. le implicazioni sociali e finanziarie del suo uso;
b. i rischi per la salute per via di un uso inutile o improprio della “in-
fant formula” e altri sostituti del latte materno.
x Questi materiali non devono usare figure o testi che possano idealiz-
zare l’uso di sostituti del latte materno (articoli 4.2, 7.2).

140
Nessuna promozione nelle strutture sanitarie
Le strutture sanitarie non devono essere usate per promuovere l’“infant
formula” o altri sostituti del latte materno. Esse inoltre non devono essere
usate per mostrare prodotti o manifesti pubblicitari e poster su questi ultimi,
o per la distribuzione di materiale che porta il marchio di prodotti trattati
dal Codice (articoli 6.2, 6.3, 4.3).
Nessuna promozione al personale medico
L’informazione fornita al personale medico da produttori e distributori,
riguardante prodotti trattati dal Codice, deve essere limitata a fatti scientifi-
ci ed effettivi, e non deve implicare o creare l’opinione che l’allattamento
mediante biberon sia equivalente o superiore all’allattamento al seno.
Campioni di tali prodotti, l’equipaggiamento e gli utensili per la loro
preparazione o uso, non devono essere forniti al personale medico eccetto
quando necessario per valutazione o ricerca professionale a livello istitu-
zionale (articoli 7.2, 7.4).
Nessun campione o rifornimento gratis
Campioni di prodotti a cui si applica il Codice non devono essere dati a
donne incinte, madri di neonati e bambini piccoli, o membri delle loro fa-
miglie.
Non devono essere dati rifornimenti gratis o sottocosto di sostituti del
latte materno a reparti maternità o ospedali. Rifornimenti gratis o sottocosto
possono essere dati ad altre istituzioni sociali solo per il benessere di neo-
nati che devono essere nutriti con sostituti del latte materno, e devono con-
tinuare per tutto il tempo in cui i suddetti neonati ne hanno bisogno. Essi
non devono essere usati come incentivo alle vendite (articoli 5.2, 7.4, 6.6,
6.7, Risoluzione OMS 39.28).
Nessuna promozione di cibi complementari prima che ce ne sia il bi-
sogno
È importante per i neonati ricevere cibi complementari adeguati, di soli-
to quando raggiungono l’età da 4 a 6 mesi di vita. Ogni cibo o bevanda dato
prima che i cibi complementari siano nutrizionalmente necessari, può inter-
ferire con l’inizio o il proseguimento dell’allattamento al seno e quindi non
ne deve essere promosso l’uso durante questo periodo. Bisogna inoltre fare
ogni sforzo perché vengano usati i cibi disponibili localmente (Preambolo
del Codice; Risoluzione WHA 39.28).

141
Il monitoraggio
L’attività di monitoraggio consiste nel raccogliere testimonianze ed
esempi di violazioni del Codice e riportarne documentazione su moduli ap-
positi. Questi rapporti vengono presentati all’Assemblea Mondiale della
Sanità, che li utilizza come base per valutare l’efficacia delle norme esi-
stenti e per proporre eventuali Risoluzioni che completino il Codice o ne
chiariscano il significato (www.ibfanitalia.org).
In Italia
Anche l’Italia ha sottoscritto il Codice, così come tutti i paesi
dell’Unione Europea. Quest’ultima ha impartito nel 1991 una direttiva che
chiedeva a tutti i paesi membri di approvare una legge entro il 1994.
L’Italia lo ha fatto con il D.M. del 6 aprile 1994, n. 500. La direttiva euro-
pea e le conseguenti leggi nazionali – il D.M. 16 gennaio 2002 ed il recente
D.M. 22 febbraio 2005, n. 46 – sono più deboli del Codice Internazionale e
delle successive risoluzioni: infatti limitano le restrizioni commerciali alle
sole formule lattee iniziali per neonati (latti 1), lasciando le compagnie libe-
re di violare il Codice per tutti gli altri prodotti (latti 2, latti 3, tisane, omo-
geneizzati, biberon e tettarelle). Inoltre, a differenza del Codice, la legge
italiana consente le forniture gratuite ai reparti maternità nel caso che vi sia
una richiesta scritta e si assicura che eventuali appoggi finanziari da parte
delle compagnie agli operatori sanitari non creino conflitti di interesse per
la promozione dell’allattamento (www.ibfanitalia.org).

5.4. Come si difende Nestlé

Nestlé, all’interno del documento che riporta i Principi Aziendali, a cui


l’impresa ispira il suo business, e del report sulla Creazione di Valore Con-
diviso, dichiara che il suo modello di comportamento riguardo la commer-
cializzazione del latte per bambini è lo stesso contenuto nel Codice
dell’OMS e dell’Unicef. Secondo Baby Milk Action, invece, si riscontrano
importanti differenze. Di seguito sono riportate entrambe le versioni, a con-
fronto.

142
Tab. 5 – Differenze tra le dichiarazioni di Nestlé e le critiche di Baby Milk Action (IBFAN
Italia e Nestlé)

Punti del documento Nestlé Critica di Baby Milk Action


Riferimenti: Principi Aziendali Nestlé, ispirati Riferimenti: il Codice Internazionale, che
al Codice Internazionale per quanto riguarda tratta tutti i sostituti del latte materno in tutti i
i prodotti “infant formula” paesi. L’articolo 11.3 chiede ai produttori di
attenersi al Codice indipendentemente dai
governi.
CIÒ CHE NESTLÉ FA
Mettere in guardia le madri sulle conseguen- In molti paesi le etichette Nestlé non sono
ze dell’uso scorretto o inappropriato del latte nella lingua locale.
in polvere.
Attenersi, sia alla lettera sia nello spirito, al Monitoraggi indipendenti mostrano che la Ne-
Codice Internazionale OMS stlé viola il Codice e le successive Risoluzioni.
Sostenere sforzi effettuati da governi di rece- La Nestlé ha provato a screditare tentativi di
pire il Codice attraverso la legislazione, rego- costruire una forte legislazione in molti paesi,
lamenti e altre misure appropriate. anche in Europa.
CIÒ CHE NESTLÉ NON FA
Diffondere annunci pubblicitari del latte per Il Codice proibisce le promozioni, non solo
bambini al pubblico. gli annunci pubblicitari, e tratta tutti i sostituti
del latte materno, non solo il latte per bam-
bini.
Usare figure di bambini sulle confezioni di Vero, a causa di pressioni esercitate dall’IBFAN,
latte in polvere. la Nestlé ha smesso di usare figure di bambini
sulle confezioni di latte in polvere nel 1984.
Fornire incentivi materiali o finanziari a ope- Perché la Nestlé dà doni agli operatori sanitari,
ratori sanitari allo scopo di promuovere il latte se non per promuovere i suoi prodotti?
per bambini.
Permettere che del materiale educativo cor- Sono stati segnalati molti casi di pubblicità
relato all’uso del latte in polvere sia esposto Nestlé alle madri nelle strutture ospedaliere.
pubblicamente in ospedali e cliniche.
Donare latte per bambini gratis per l’uso da Questa è una chiara ammissione. Le Risoluzio-
parte neonati sani, eccetto in casi sociali ec- ni dell’Assemblea Mondiale della Sanità proibi-
cezionali (per esempio dove le politiche del scono tutte le donazioni commerciali di sostituti
governo permettono ai produttori di risponde- del latte materno a tutte le parti del sistema sa-
re ad una specifica richiesta medica, ad nitario. Molti governi stanno lavorando per chiu-
esempio se la madre muore alla nascita del dere queste scappatoie, consapevoli che orfani
figlio). e bambini socialmente bisognosi necessitano di
un sostegno regolare e consistente, non di do-
nazioni commerciali irregolari.
CIÒ CHE NESTLÉ FARÀ
Prendere misure disciplinari contro qualsiasi La Nestlé dice che nessun membro del per-
membro del personale Nestlé che viola volon- sonale è mai stato punito sulla questione.
tariamente questo modello di comportamento.
La Nestlé invita gli ufficiali governativi, gli In più, le compagnie hanno la responsabilità
operatori sanitari, e i consumatori, a portare di monitorare i loro comportamenti, secondo
alla sua attenzione ogni pratica di commer- il Codice Internazionale.
cializzazione del latte in polvere Nestlé nei
paesi in via di sviluppo che essi considerano
non in conformità con il suddetto impegno.

143
Nei primi mesi del 2009 Nestlé ha pubblicato un report, Nestlé Investi-
gation of Reported Non-Compliance with the International Code of Marke-
ting of Breast-milk Substitutes, in risposta al documento diffuso nel 2007 da
IBFAN dal titolo Breaking The Rules- Stretching The Rules. Gli allegati ri-
portati da quest’ultimo documento, 169 nel 2007, riguardano casi avvenuti
in tutto il mondo, raccolti nell’arco di tre anni. Nel 2004 il Breaking The
Rules contava 200 casi, dei quali 24 sono stati corretti in seguito alle con-
troprove presentate da Nestlé, mentre nel 2007 sono stati 9 i casi da verifi-
care. Meno della metà dei casi (84) riportati nell’ultimo report IBFAN sono
relativi ai paesi in via di sviluppo, molti di questi allegati riguardano i ce-
reali e i cibi per bambini che vengono commercializzati per l’uso dai sei
mesi di vita in poi, prodotti che non sono formulati e commercializzati co-
me sostituti del latte materno e, quindi, non rientrano sotto la protezione del
Codice Internazionale dei Sostituti. I rimanenti 85 allegati riguardano casi
avvenuti nei paesi industrializzati, Europa, Stati Uniti, Canada e Australia.
Ognuno di questi paesi ha deciso se e come implementare le misure sugge-
rite dal Codice dell’OMS all’interno dei propri Stati, per questo in alcuni
casi non si può dire che Nestlé o i singoli Governi abbiano commesso vio-
lazioni: dipende dall’applicazione del Codice e delle leggi nazionali
all’interno di un singolo paese. L’articolo 11.4 del Codice invita le organiz-
zazioni non-governative a riportare le violazioni dello stesso a imprese ed
istituzioni, tuttavia l’interpretazione del Codice di IBFAN differisce dalle
decisioni prese da Europa e USA su come il Codice stesso debba essere
messo in pratica al loro interno. IBFAN applica la propria interpretazione
del Codice anche se questa è in disaccordo con le decisioni prese dai Go-
verni dei paesi industrializzati e questo fa sì che più della metà delle viola-
zioni che IBFAN raccoglie su Nestlé nei paesi sviluppati siano in realtà at-
tività lecite e svolte regolarmente secondo la legge. Oltre a seguire le deci-
sioni nazionali, dove il Codice è stato preso in considerazione o adottato,
Nestlé applica volontariamente il Codice dell’OMS anche nei paesi in via
di sviluppo e collabora con i Governi anche per spingerli a portare avanti
un’attività continua di monitoraggio per il rispetto e la difesa del Codice.
Nestlé nel suo report del 2009 ha riesaminato una per una tutte le 169
contestazioni mosse da IBFAN, dividendole tra paesi industrializzati e in
via di sviluppo, e, apportando le giuste prove e rimandando alle leggi e al
Codice, ha difeso il suo operato dalle accuse ricevute, ammettendo gli sba-
gli e apportando correzioni laddove necessario. La multinazionale ha creato

144
anche una sorta di riassunto di quelle che sono le male interpretazioni del
Codice, che fanno risultare molti allegati delle violazioni quando, in realtà,
non lo sono. Secondo Nestlé, e il Codice, non costituiscono violazione:
x volantini informativi sull’“infant formula” distribuiti al personale
medico e nei reparti di maternità, visto il loro scopo di divulgare la
comprensione delle caratteristiche scientifiche dei prodotti Nestlé per
lattanti;
x pubblicità di prodotti “infant formula” su riviste mediche, per diffon-
dere informazioni su tali prodotti;
x la distribuzione da parte degli ospedali dei prodotti per neonati alle
madri che vengono dimesse, quando sono gli ospedali a comprare i
prodotti dalla Nestlé;
x fornire campioncini omaggio di cereali per bambini sopra i sei mesi,
in quanto i cereali sono cibi complementari, non sostituti del latte
materno, pertanto non sono ottemperati nel Codice;
x applicare il logo dell’orsetto blu, identificativo dei marchi di cereali e
degli altri cibi complementari per bambini, su cui il Codice non vieta
le attività di marketing in quanto non sono prodotti sostitutivi, su
piccoli oggetti utili regalati ai dipendenti sanitari;
x applicare il logo Nestlé che raffigura il nido di uccello sui barattoli
dei prodotti sostitutivi;
x regalare penne, matite, asciugamani con il logo aziendale ai dottori, in
quanto non costituiscono incentivi finanziari e non spingono i dottori a
prescrivere la formula, secondo il Codice. È importante che il logo ri-
portato sia quello aziendale e non il logo dei prodotti sostitutivi;
x vendite promozionali nei supermercati o nelle farmacie, non a cono-
scenza di Nestlé: Nestlé non permette queste pratiche, che vengono
subito fermate se scoperte.
Infine, sempre nel report 2009, Nestlé sottolinea come ogni suo dipenden-
te, a partire dal top management, che ha a che fare con i prodotti per
l’infanzia debba essere a conoscenza del Codice dell’OMS; dal canto suo
l’azienda mette in atto dei corsi di formazione sull’argomento, attua un atten-
to monitoraggio del lavoro svolto e delle importanti misure correttive nel ca-
so di violazioni. Inoltre anche gli importatori, distributori e i dettaglianti sono
tenuti ad osservare le norme del Codice, del cui rispetto, implementazione e
monitoraggio è responsabile in prima persona il CEO Nestlé.

145
In tutti i paesi in via di sviluppo Nestlé ha implementato un manuale
“WHO Code Quality Assurance System”, costruito secondo le linee dei si-
stemi di qualità ISO, per far sì che i dipendenti Nestlé che ogni giorno si
occupano del cibo per bambini siano in grado di assicurare la conformità
tra il Codice OMS e le regolamentazioni locali.
Nestlé ha adottato anche altre tecniche per difendersi dalle continue
pressioni delle organizzazioni che monitorano l’operato delle industrie pro-
duttrici di latte in polvere. Per esempio, Nestlé partecipa alle iniziative del
Global Compact, «un’iniziativa strategica per la politica di quelle imprese
che sono volte ad allineare le loro operazioni e strategie con i principi uni-
versalmente accettati nel campo dei diritti umani, del lavoro, dell’ambiente
e della lotta alla corruzione».
Inoltre Nestlé ha istituito un sito web, www.babymilk.nestle.com, dove
l’azienda risponde a tutte le domande relative alla questione dei prodotti so-
stitutivi per neonati, e riporta i documenti e i fatti più importanti sul caso. In-
fine, l’azienda ha redatto diversi documenti che certificano il suo impegno
nel campo sociale ed ambientale, come riportato nel paragrafo che segue.

5.5. Guida all’impegno della Nestlé: certificazioni di qualità, im-


pegno sociale ed ambientale

Dalla sua fondazione in Svizzera più di 140 anni fa, Nestlé ha realizzato
una crescita economica a lungo termine grazie all’offerta di prodotti ad alto
valore nutritivo in grado di proteggere e migliorare la salute dei consumato-
ri. Queste sono le ragioni grazie alle quali Nestlé è oggi un’azienda leader
in tutto il mondo in nutrizione, salute e benessere, più grande dei suoi due
maggiori concorrenti messi insieme.
La creazione di Valore Condiviso è un principio base che guida la stra-
tegia aziendale di Nestlé e una componente fondamentale del successo
dell’impresa. Creare valore condiviso significa assicurare all’azienda un
successo a lungo termine, generando valore non solo per i propri azionisti
ma anche per la società in cui opera. Il principale scopo dell’azienda è la
creazione di valore, e per favorire un successo a lungo termine, Nestlé si è
posta l’obiettivo di andare oltre il rispetto della legge e dei criteri di soste-
nibilità e di creare valore anche per la società. Per Nestlé, la priorità è assi-
curare valore ai propri consumatori, attraverso l’offerta di prodotti di eleva-

146
ta qualità nutrizionale. Accanto all’attenzione riservata ai consumatori, il
valore che crea l’azienda offre vantaggi economici a lungo termine per gli
agricoltori, i dipendenti, i piccoli imprenditori e le comunità in cui la multi-
nazionale opera. È questa prospettiva a lungo termine che distingue Nestlé
dalle altre aziende e rappresenta un chiaro vantaggio competitivo, in parti-
colare nei paesi in via di sviluppo (Nestlé, Creazione di Valore Condiviso,
report 2008).

Fig. 20 – Il report Creazione di Valore Condiviso Nestlé (Nestlé)

Il primo “Creating Shared Value Report” dedicato nello specifico alla


nutrizione, è stato pubblicato nel 2008. Questo report descrive l’impegno e
le iniziative intraprese da Nestlé per rispondere ai fabbisogni nutrizionali di
un’ampia fascia di popolazione, grazie all’offerta di prodotti di qualità. Il
report presenta Nestlé come azienda guidata da corretti principi aziendali e
dalla ricerca scientifica in ambito nutrizionale. La struttura di Ricerca e
Sviluppo di Nestlé infatti è una delle più grandi al mondo e rappresenta uno
dei fattori di successo più importanti per la crescita dell’azienda. Inoltre,
sebbene sia ambizione di Nestlé diffondere presso i consumatori i principi
di un’alimentazione più sana e nutriente e i suoi prodotti vengano consuma-
ti da persone appartenenti a tutte le fasce di reddito, esiste ancora una parte
significativa della popolazione mondiale che vive ai margini dell’economia
e non ha accesso ai prodotti della multinazionale elvetica. È per questo mo-

147
tivo che, da diversi decenni, Nestlé contribuisce allo sviluppo economico
nelle aree rurali, luoghi chiave per il miglioramento dell’alimentazione del-
le fasce di popolazione a basso reddito, attraverso la collaborazione con gli
agricoltori, ma anche grazie ai 456 stabilimenti della compagnia, metà dei
quali dislocati in paesi in via di sviluppo e molti in aree rurali.

Fig. 21 – Quadro di Nestlé per la creazione di Valore Condiviso (www.nestle.it)

Nestlé ha messo in pratica la sua concezione di creazione di valore con-


diviso partendo dai Principi Aziendali: l’applicazione dei Principi è valida
in tutti i paesi, tenendo in considerazione la legislazione locale, nonché i
contesti culturali e religiosi. Di seguito vengono elencati i Principi-pilastro
che guidano l’impresa nel corso del suo business (Nestlé, Principi Azienda-
li, 2006):
x soddisfare i bisogni del consumatori in modo sostenibile e a lungo
termine;
x tutelare la salute e l’alimentazione dell’infanzia;
x sostenere i diritti umani secondo i principi guida del Global Compact
delle Nazioni Unite;
x operare per lo sviluppo e la difesa delle risorse umane e per garantire
delle condizioni ottimali di lavoro;
x agire per l’eliminazione del lavoro minorile;
x sviluppare relazioni trasparenti, all’insegna della professionalità con i
partner commerciali;
148
x proteggere l’ambiente;
x creare una gestione responsabile delle risorse idriche;
x garantire una politica nel rispetto delle materie prime agricole, fon-
damentali per la qualità dei prodotti e, quindi, per la performance
dell’impresa.
Oltre a ciò, all’interno dei Principi Aziendali, Nestlé sottolinea come sia
fondamentale il rispetto degli stessi da parte dei suoi collaboratori, nonché
l’osservanza delle leggi proprie dei paesi in cui la Società svolge la propria
attività. Nestlé sostiene e patrocina pubblicamente anche la Convenzione
Globale delle Nazioni Unite e i suoi nove principi (un’iniziativa del Segreta-
rio Generale delle Nazioni Unite). La Convenzione Globale chiede alle socie-
tà di seguire, sostenere e mettere in atto, nell’ambito delle rispettive sfere
d’influenza, un insieme di valori fondamentali nel campo dei diritti umani,
della normativa del lavoro e dell’ambiente. Inoltre Nestlé ha incorporato nel-
le sue direttive le Convenzioni internazionali per l’organizzazione del lavoro
e il Codice Internazionale di Commercializzazione dei sostituti del latte ma-
terno dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), oltre ad approvare
gli impegni e le raccomandazioni per le attività di autoregolamentazione vo-
lontaria, istituiti da organizzazioni come il Business Charter for Sustainable
Development della Camera di Commercio Internazionale (CCI) e le Guideli-
nes for Multinational Enterprises dell’OCSE (Organizzazione di Coopera-
zione e Sviluppo Economico). Infine, Nestlé partecipa attivamente a numero-
se iniziative internazionali e partnership inter-settoriali che promuovono
prassi agricole sostenibili. Fra le principali troviamo il Codice di Condotta
per le Comunità del Caffè (4C), adottato volontariamente da produttori,
commercianti di caffè e altri stakeholder che formano l’Associazione non
profit 4C, e l’Iniziativa per l’Agricoltura Sostenibile (Sustainable Agriculture
Initiative – SAI) (Nestlé, Principi Aziendali, 2006).
Nestlé garantisce la rigorosa applicazione di principi e politiche median-
te severi standard di controllo: la conformità ai Principi Aziendali nei setto-
ri delle risorse umane, sicurezza, salute e ambiente viene garantita mediante
il programma CARE, che si affida ad una rete di verifiche esterna e indi-
pendente; gli impianti produttivi sono certificati in base a standard quali
ISO 14001, OHSAS 18001 e ISO 22000; le attività di marketing relative
agli alimenti per l’infanzia sono soggette a verifiche interne ed esterne; i
fornitori vengono regolarmente sottoposti a controlli e verifiche.

149
Tra gli organismi ufficiali di controllo, Nestlé annovera il Consiglio sulla
Sostenibilità delle Attività, il Comitato di Controllo, il Comitato per la Ge-
stione del Rischio, il Comitato per la Conformità del Gruppo e, infine, il
Consiglio d’Amministrazione come supervisore del Gruppo (www.nestle.it).
Grazie al suo ruolo di più grande azienda di prodotti nutrizionali al
mondo, e per garantire elevati standard di qualità, sicurezza e innovazione,
Nestlé continua a essere uno dei leader mondiali nel settore R&S, con circa
5.000 persone coinvolte attivamente e con 1,88 miliardi di CHF di investi-
menti nel 2007.
Il Centro di Ricerca Nestlé (NRC), con sede a Losanna, è la più grande
struttura privata del mondo per la ricerca sulla nutrizione, con un personale
permanente composto da 700 persone di 48 nazionalità diverse. Il Centro
stringe ogni anno oltre 200 fra partnership esterne in ambito scientifico e
collaborazioni universitarie, costruendo una base di conoscenze che con-
sente di soddisfare le esigenze in continua evoluzione dei consumatori.
Inoltre, in occasione dell’annuale Simposio internazionale sulla nutrizione
organizzato dal NRC, eminenti esperti discutono di salute e fisiologia uma-
na, individuano i futuri orientamenti della ricerca e pubblicano le loro con-
clusioni in riviste scientifiche.
Consapevole dell’importanza di una comunicazione responsabile verso i
consumatori e i bambini in particolare, le aziende del gruppo, nel rispetto
dei Principi di Comunicazione al Consumatore Nestlé, si impegnano per
raggiungere i seguenti risultati:
x etichettatura e materiali di supporto chiari e facilmente comprensibi-
li, che consentano ai consumatori di scegliere il prodotto migliore per
ciascuno. Nestlé ha introdotto nel 2005 il Nutritional Compass,
un’etichetta informativa presente sulla confezione del prodotto che
fornisce ai consumatori informazioni nutrizionali facilmente com-
prensibili. Il Compass è già presente sul 95% dei prodotti Nestlé
venduti in tutto il mondo e viene continuamente esteso;
x comunicazione responsabile su tutti i prodotti, specialmente su quelli
destinati all’infanzia, conformemente alle leggi e ai nostri Principi
Aziendali;
x partecipazione e supporto a programmi pubblici di educazione ali-
mentare;
x collaborazione con organismi di sanità pubblica per mettere a punto
diete e stili di vita più sani.

150
Fig. 22 – Il Nutritional Compass (www.nestle.it)

Nestlé ha anche sviluppato e finanziato numerosi programmi di istru-


zione in tutto il mondo per migliorare la comprensione dell’importanza
dell’alimentazione e dell’attività fisica per la salute. Le sane abitudini ali-
mentari cominciano già dalla prima infanzia ed è per questo che Nestlé ha
concentrato la sua attenzione sulla scuola, creando attività all’interno degli
istituti di molti paesi in cui opera. Un altro progetto è il Nestlé Nutrition
Duchess Club, un’associazione femminile presente in alcuni paesi in via di
sviluppo impegnata a rafforzare il ruolo delle donne attraverso la trasmis-
sione di conoscenze e capacità in materia di alimentazione, gestione della
casa, imprenditorialità e capacità di comando.
Per quanto riguarda le pratiche pubblicitarie e di marketing, nel 2004 e
nel 2007 sono state ulteriormente consolidate per quanto riguarda la comu-
nicazione rivolta all’infanzia. Tutte le campagne di marketing vengono sot-
toposte ad un sistema di verifica interno a garanzia della conformità ai
Principi, e Nestlé partecipa alle iniziative di settore che promuovono prati-
che pubblicitarie responsabili, come l’iniziativa, nata nel 2005, che si pro-
pone di valutare a livello europeo la conformità delle aziende ai Codici di
condotta per le pubblicità del settore del food & beverage e che si è rivelata
un utile strumento per raccogliere commenti e reazioni e mantenere elevati
standard di conformità.
A proposito di comunicazione con i professionisti della sanità, Nestlé
contribuisce a programmi di educazione nutrizionale in condivisione con

151
professionisti del mondo sanitario, attraverso pubblicazioni scientifiche,
workshop e borse di studio.
Per concludere, in vista del suo impegno in campo sociale e ambientale,
Nestlé ha istituito il premio per la Creazione di Valore Condiviso che verrà
assegnato ogni due anni a un singolo individuo, un’organizzazione non go-
vernativa o un’azienda, per lo sviluppo di una straordinaria innovazione
che, messa in atto in un piccolo contesto, possa essere esportata anche in
altre realtà più ampie per dare prova del suo valore e della sua efficacia,
ovviamente sempre in linea con quelli che sono i Principi Aziendali Nestlé
per lo sviluppo di un’economia e di una cultura sostenibili, in grado di por-
tare vantaggi e benefici a tutti i membri della società, a lungo termine.

152
CONCLUSIONI

Nello scenario odierno sono molte le realtà aziendali che dimostrano


come la responsabilità sociale d’impresa possa rappresentare un fattore di
successo sia dal punto di vista del risultato economico nel lungo periodo,
sia da quello della reputazione e della fedeltà all’azienda da parte del con-
sumatore finale.
Che le leve della CSR siano strategiche e portino dei miglioramenti
all’interno di un business è già stato discusso nei capitoli precedenti, anche
attraverso l’analisi di un caso aziendale importante. Il fatto è che a fronte di
una crescente richiesta di responsabilità da parte della maggioranza degli
stakeholder, sarebbe utile capire anche se queste leve della CSR sono real-
mente messe in pratica in quelle aziende che ne vantano l’adozione o se co-
stituiscono soltanto un mezzo per coprire possibili scandali o azioni poco
responsabili dell’impresa. Molte imprese etichettate dall’opinione pubblica
come bad companies, infatti, godono, nonostante tutto, di una buona repu-
tazione presso i consumatori, che ripongono un’alta fiducia nei marchi di
queste aziende, continuando ad acquistare i loro prodotti fino a renderle le
numero uno nel loro settore.
Ma allora perché queste “cattive imprese” sono chiamate così e perché i
pubblici esterni sembrano non curarsi delle notizie che riguardano queste
organizzazioni, fatti che vanno ad intaccarne il buon nome e le prospettive
di successo? Perché questa cattiva propaganda (giustificata dalle azioni
messe in atto dalle bad companies) non sembra avere effetti né sui consu-
matori né sulle sorti delle protagoniste delle vicende?
Il racconto e l’analisi del caso Nestlé ha consentito di ipotizzare una
possibile risposta a queste domande. Nestlé è una di quelle multinazionali

153
che, insieme a Mc Donald’s, Nike, Adidas, H&M, Shell, per citarne alcune,
vengono più spesso chiamate in causa per la questione della mancanza di
responsabilità in ambito sociale e ambientale: su di loro e sulle loro azioni
anti-sociali esistono libri, siti web, sentenze dei tribunali e moltissime te-
stimonianze che provano la loro colpevolezza. Tuttavia i loro profitti e i lo-
ro utili salgono di anno in anno, il numero dei loro stabilimenti in giro per il
mondo aumenta, così come quello dei dipendenti e dei marchi che gesti-
scono.
La causa di tutto questo non è da ricondurre soltanto all’efficacia nella
gestione del business: sicuramente i risultati positivi sono legati a delle
buone strategie e a delle scelte azzeccate da parte del top management che,
valutando l’andamento del mercato e le potenzialità di ciascun marchio
nell’ambito e nei paesi di riferimento, riesce a creare la giusta situazione
perché i prodotti si possano affermare e quindi si riescano a vendere crean-
do prima consapevolezza e poi fiducia nei confronti dei beni stessi da parte
dell’opinione pubblica e dei consumatori. Ma questo non basta più. Come
visto nel primo capitolo (cfr. capitolo 1.2), oggi il nome e il valore di marca
sono un tutt’uno, per i consumatori il brand è diventato un punto di riferi-
mento dove trovare rassicurazioni e valori, per questo le aziende devono
prestare attenzione anche agli aspetti soft del business, cioè alle persone,
alle relazioni interpersonali, alla cultura organizzativa, nonché
all’immagine che, attraverso il loro agire, trasmettono di loro stesse e del
loro modo di essere. La reputazione è diventata una variabile imprescindi-
bile, che non può essere messa in secondo piano al mero risultato economi-
co, bensì trattata a pari merito. Sono molte le vicende che vedono delle im-
prese affrontare dei costi e delle perdite pur di mantenere intatto il loro no-
me e la loro fama e di non perdere la fedeltà dei clienti, un esempio per tut-
te, il caso del sabotaggio del Tylenol della Johnson&Johnson.
L’importanza acquisita dalla reputazione ha portato anche le più grandi
aziende ad adottare sistemi che permettessero di creare uno scudo difensivo
intorno ad essa in caso di situazioni di crisi, come possono essere gli scan-
dali legati al cattivo agire organizzativo. L’approccio nei confronti delle
pratiche della CSR da parte delle grandi imprese è stato, almeno inizial-
mente, quello di una responsabilità di facciata, adottato per continuare ad
operare all’interno del contesto competitivo, rispondendo così alla domanda
esterna da parte degli stakeholder, ma continuando a portare avanti
l’obiettivo primario della creazione di utili e profitti. Nestlé, ripresa dai

154
comitati di monitoraggio per i continui episodi di commercializzazione e
vendita selvaggia del latte in polvere, sottoscrive formalmente il Codice
WHO soltanto nel 1984, dopo dieci anni dall’inizio delle controversie con i
comitati di boicottaggio di tutto il mondo, assumendo dapprima un approccio
passivo-adattivo alle richieste giunte dai comitati e dall’opinione pubblica, in
quanto il problema del comportamento scorretto da parte delle aziende pro-
duttrici di sostituti del latte materno stava nascendo proprio in quel momento,
per poi giungere ad un approccio di responsabilità di facciata, accettando di
firmare il Codice WHO per dimostrare l’interesse per i temi dell’infanzia e
cercare di sfuggire agli attacchi dei comitati, delle organizzazioni come
l’OMS e l’Unicef e dei Governi. Soltanto nel 1998 Nestlé ha pubblicato vo-
lontariamente per la prima volta il suo codice di comportamento, i Principi
Aziendali Nestlé, e soltanto nel 2008 ha diffuso un report sulla Creazione di
Valore Condiviso e su tutte le pratiche socio-ambientali messe in atto
dall’azienda. Questo a dimostrazione dell’importanza acquisita nel tempo da
tutto ciò che “non è economico” e che contribuisce al successo, questa volta
anche economico, dell’impresa.
Il successo delle bad companies non è dovuto all’ignoranza e alla super-
ficialità del consumatore, che al momento dell’acquisto non capisce che sta
comprando il prodotto di una multinazionale scorretta e opportunista, né
all’astuzia delle imprese stesse, che riescono ad operare indisturbate a mo-
do loro, mascherando le loro azioni con bilanci sociali e report di sostenibi-
lità: i consumatori, infatti, sono sempre più informati e consapevoli, soprat-
tutto grazie ai media, e le imprese sono controllate dalle leggi nazionali, dai
comitati internazionali e dalle organizzazioni a tutela dei consumatori.
Il successo delle “cattive imprese” è dato dalla combinazione di una se-
rie di fattori presenti nella realtà di oggi, in cui la sopravvivenza di
un’organizzazione è regolata dall’equilibrio instabile di molte diverse va-
riabili come l’economico e il sociale, il globale e il locale, il profitto e la
reputazione, l’intraprendenza e il rispetto delle regole.
Dallo studio del caso Nestlé e da quanto detto nei capitoli che lo prece-
dono, ho individuato quelli che, a mio parere, costituiscono i fattori che
rendono vincenti le bad companies, spiegando così il paradosso che vede
delle imprese che spesso assumono dei comportamenti scorretti nello svol-
gimento del loro business, alle vette delle classifiche economiche mondiali
e nelle pagine di trattati che si occupano della salvaguardia dei principi le-
gati ai diritti umani, all’ambiente e al lavoro.

155
Fig. 23 – I fattori di successo delle bad companies

COERENZA AZIENDALE E MISSION

+
CREDIBILITÀ BUONA GESTIONE
DA FONTI COMUNICAZIONE DELLA
ESTERNE REPUTAZIONE

DIMENSIONI LOBBYING

CONSENSO DA PARTE
DEGLI STAKEHOLDER

SUCCESSO DELLA BAD COM-


PANY NEL LUNGO PERIODO

x Il primo fattore da considerare nel successo di un’impresa, a prescin-


dere dal modo di agire della stessa, sono la missione e la coerenza
che l’azienda si impone di portare avanti e di seguire come punto di
riferimento per qualsiasi sua mossa. Queste due variabili esistono in
tutte le aziende, in quanto il prefissarsi una mission è necessario per
avere uno obiettivo da perseguire e un motivo per il quale lavorare ed
utilizzare delle risorse. Per quanto riguarda la coerenza, essa è la ca-
pacità di mantenere allineate l’idea di business, ovvero il concetto
156
che un’impresa ha di sé, la sua identità che la rende unica e la distin-
gue dalle concorrenti, la strategia, che costituisce il “come” raggiun-
gere gli obiettivi, e il ruolo sociale dell’azienda, cioè il modo in cui
l’impresa partecipa e si integra nella società in cui opera. Un esempio
di coerenza applicato direttamente al campo aziendale è possibile ri-
prendendo il caso Nestlé: l’idea di business di Nestlé è quella di svi-
luppare prodotti nel campo della salute, della nutrizione e del benes-
sere che abbiano alti standard qualitativi e possano portare dei mi-
glioramenti nella vita dei consumatori. Seguendo questo credo la Ne-
stlé si è ampliata negli anni creando e acquisendo nuove attività che
la potessero migliorare nei campi di competenza, fino a farla diventa-
re la leader del settore food & beverage. La strategia della multina-
zionale elvetica è basata soprattutto sulla ricerca e sullo sviluppo
continui, per dare un grado di innovazione sempre maggiore ai pro-
dotti, oltre che una maggiore sicurezza e affidabilità, soprattutto per
quanto riguarda il settore dei prodotti per l’infanzia. Infine, il ruolo
sociale di Nestlé consiste nell’impegno che l’azienda sta portando
avanti nei campi della tutela dell’infanzia, della lotta alla denutrizio-
ne, dell’agricoltura sostenibile, dell’istruzione primaria per tutti, del-
la parità dei sessi, e tanti altri ancora.
x Un altro fattore che rende le bad companies aziende di successo è la
credibilità che viene data loro da fonti esterne, come per esempio le
certificazioni di qualità o i diversi codici internazionali che queste
aziende sottoscrivono e si impegnano a seguire. Per quanto riguarda
Nestlé, l’adesione al Codice WHO e all’impegno del Global Com-
pact, per citarne alcune, legittima la multinazionale dal punto di vista
legislativo e dell’impegno sociale, visto anche che la Nestlé stessa
riporta i documenti di cui è firmataria all’interno del report per la
Creazione di Valore Condiviso. Per i consumatori questo fatto che le
aziende siano “protette”, sotto un certo punto di vista, dalla sottoscri-
zione a questi documenti, è importante perché è come se le organiz-
zazioni che promuovono i documenti stessi certificassero l’impegno
e la trasparenza nell’azione di chi vi aderisce: questo fatto dà credibi-
lità a queste imprese e fa sì che, di conseguenza, godano di maggiore
fiducia da parte degli stakeholder.
x Le dimensioni delle bad companies sono un altro fattore che ne deter-
mina il successo: essere una grande azienda ed operare su scala globa-

157
le crea un vantaggio di “dispersione”, ovvero il fatto che a causa della
frammentazione del processo produttivo e distributivo, l’impresa sia
meno controllata nelle diverse fasi del processo, poiché ogni fase viene
appurata nel paese in cui avviene e spesso gli standard di molti Stati,
soprattutto se sono quelli in via di sviluppo, hanno livelli piuttosto bas-
si. Può accadere anche che le grandi imprese sfruttino i momenti di
snodo tra le varie fasi per agire a loro favore, dal momento che questi
passaggi costituiscono una sorta di terra di nessuno. Questo fa si che,
anche attraverso dei semplici stratagemmi burocratici, le multinaziona-
li possano portare avanti indisturbate i loro interessi a scapito di leggi e
regolamenti nazionali o internazionali.
x Anche l’attività di lobbying aiuta le multinazionali a perseguire i loro
obiettivi e a mascherare alcuni fatti opinabili da un punto di vista eti-
co: esercitare pressioni sui Governi è molto facile per queste aziende,
in quanto da loro dipende una buona percentuale del prodotto interno
lordo degli Stati, nonché moltissimi posti di lavoro, per cui è quasi
logico che i Governi si lascino influenzare dalle loro richieste. Leg-
gendo il report di Nestlé o navigandone il sito, vengono alla luce
molte iniziative che l’azienda ha portato avanti con l’appoggio dei
Governi nei paesi in cui opera, iniziative sia a favore dell’impresa,
sia a beneficio del paese e del Governo stesso.
x Infine, l’ultimo fattore, a mio avviso il più importante, che assicura il
successo ad una bad company, è la buona comunicazione. Se
un’azienda comunica significa che è consapevole di se stessa, di ciò
che è e di ciò che fa sia in positivo che in negativo. La comunicazio-
ne serve per promuovere il proprio operato, ma anche per creare con-
sapevolezza e informazione presso il pubblico interno ed esterno,
nonché come mezzo di difesa e di copertura. Sempre facendo riferi-
mento al caso Nestlé, ho notato in prima persona come la sua comu-
nicazione sia completa, utilizzando tutti i mezzi di comunicazione di-
sponibili per tutte le attività svolte dall’impresa, persuasiva e precisa:
Nestlé per quanto concerne la vicenda dei sostituti del latte materno,
ha subito moltissimi attacchi su vari fronti e da parte sia delle istitu-
zioni che delle organizzazioni non governative, ma ha sempre affron-
tato in modo proattivo le accuse che le sono state lanciate, rispon-
dendo direttamente o attraverso documenti che analizzano una per
una le critiche mosse alla multinazionale, ammettendo le colpe, dove

158
commesse, o difendendosi apportando le giuste prove. Nestlé ha an-
che redatto diversi documenti per testimoniare il suo dovere socio-
ambientale e per parlare degli impegni sottoscritti attraverso la firma
di codici o trattati internazionali (cfr. capitolo 5.5), riportandoli an-
che in versione ridotta sul proprio sito internet. Ha anche creato un
sito web per rispondere appositamente alle domande sulla vicenda
del latte in polvere, in modo da poter aggiornare continuamente i
consumatori e replicare in tempo reale agli attacchi.
Tutte queste forme di comunicazione costruiscono insieme una
strategia di comunicazione molto compatta ed efficace, che va ad
“avvolgere” il consumatore fino a formare una sorta di scudo da tutte
quelle che sono le notizie sull’impresa che giungono dall’esterno. È
vero che attraverso le diverse forme pubblicitarie e i diversi strumen-
ti di comunicazione Nestlé vuole creare informazione e consapevo-
lezza nel consumatore, dando una certa immagine di sé e difenden-
dosi dagli attacchi e dalle critiche sul suo conto, ma è anche vero che
il modo in cui fa comunicazione è volto a convincere il pubblico del-
la buona fede e del buon agire della multinazionale, in modo da pro-
teggere il più possibile la propria reputazione dagli attacchi che ri-
vendicano le azioni scorrette che pratica l’impresa in tutto il mondo.
L’immagine che balza alla mente per rappresentare la comunicazione
Nestlé è quella di un air-bag che serve per attutire i colpi provenienti
dall’esterno, per renderli meno dolorosi e gravi di quello che poteva-
no essere, facendo sì che le ferite siano superficiali e aprendo la stra-
da ad una guarigione più veloce.
L’uso che Nestlé fa della comunicazione si può riallacciare anche
all’idea di costruzione sociale della realtà di Berger e Luckmann
(1966): secondo gli autori, le persone si rapportano tra di loro a partire
da un ambito semantico condiviso, che scaturisce dall’attribuzione di
significati intersoggettivamente riconosciuti. Nel nostro caso, quindi, il
messaggio che Nestlé diffonde attraverso tutti i suoi mezzi e le sue
forme di comunicazione andrebbe ad influenzare e a convincere i con-
sumatori al punto da creare una sorta di realtà basata su quello che
l’impresa vuole far percepire e credere di sé e riguardo al suo modo di
agire nei confronti dei temi di responsabilità sociale, offuscando così,
grazie alla forte valenza significativa messa in risalto dalle tattiche del-

159
la comunicazione, un gran numero di notizie e informazioni che altri
soggetti cercano di portare a conoscenza sul suo conto.
Tutte queste variabili servono alla grande impresa per far sì che al con-
sumatore e a tutti i pubblici esterni arrivino determinate informazioni sul
proprio conto, in modo da mantenere il più intatta possibile la reputazione
positiva creata nel tempo. La comunicazione, l’immagine, le certificazioni,
le attività di lobbying, insieme, costituiscono un punto di forza a favore del-
le multinazionali, che servendosi di questi strumenti riescono ad evidenzia-
re soltanto gli aspetti positivi del loro business, oscurando quelli negativi
che erano stati faticosamente portati a conoscenza dell’opinione pubblica.
In questo modo si crea consenso da parte degli stakeholder nei confronti
dell’organizzazione, che viene vista per gli aspetti positivi che costituisco-
no la sua missione e la sua coerenza aziendale e, in maniera minore, per gli
scandali che la vedono protagonista in diverse parti del mondo. Si può dire,
dunque, che tutti questi strumenti che una multinazionale possiede per alle-
viare o nascondere le disonestà e dare un’immagine diversa di sé, provoca-
no una specie di squilibrio tra le forze in campo: i mezzi utilizzati dalle
grandi aziende per tutelare i propri interessi sono più numerosi ma, soprat-
tutto, più efficaci rispetto a quelli di cui un movimento o un’associazione
possono disporre. Inoltre, il fatto di essere imprese molto grandi e cono-
sciute e di avere rapporti con le istituzioni, fa sì che la loro comunicazione
goda di una maggiore attenzione e rispettabilità rispetto a quella di un co-
mitato di boicottaggio, verso il quale, almeno inizialmente, si nutre un po’
di perplessità riguardo alla totale veridicità dei fatti, all’affidabilità delle
fonti e alla professionalità di chi vi lavora all’interno.
Il successo delle bad companies è quindi dato da quanto detto fino a qui.
Non è soltanto una questione di merito, merito legato, se esiste, alla mis-
sione originaria dell’impresa, è piuttosto un successo ottenuto attraverso la
messa in atto di strategie “salvagente” che servono a mantenere quanto più
intatta possibile la reputazione aziendale che serve all’organizzazione per
continuare ad operare sul mercato con il consenso dei suoi stakeholder. Il
valore attribuito alla reputazione è una sorta di fine che giustifica i mezzi,
dei mezzi che molto spesso sembrano convincere in modo totale il pubbli-
co, pubblico che, nonostante l’agire scorretto dell’organizzazione, ne vede
aumentare la popolarità, vittima com’è del bombardamento comunicativo
che oggigiorno rappresenta l’opportunità, ma anche l’arma più pericolosa,
nelle mani delle grandi imprese.

160
Alla luce di tutte queste considerazioni, la questione di fondo rispetto a
cui interrogarsi rimane la seguente: la responsabilità sociale d’impresa, ap-
plicata all’interno di una bad company, è sostanza o immagine?
Parallelamente, è opportuno chiedersi anche se i movimenti d’opinione,
che possono poi sfociare in varie forme di boicottaggio, e i codici e i rego-
lamenti internazionali siano veramente efficaci ed incisivi, vale a dire se
contribuiscono fattivamente a forzare le aziende verso l’adozione sostanzia-
le di comportamenti socialmente responsabili o se invece si limitano a
spingere ad un adeguamento formale e di facciata.
Studiando il caso della Nestlé mi sono trovata davanti ad una situazione
paradossale, che, inizialmente, non mi permetteva di valutare in modo
obiettivo i fatti e di stabilire se le bad company utilizzassero realmente la
CSR come una semplice copertura per i loro affari. Questo è successo per-
ché l’abilità comunicativa posseduta da Nestlé riusciva ogni volta a portar-
mi a giustificare l’operato della multinazionale, facendomi ignorare
l’esistenza di prove, documenti, persone che testimoniavano a loro volta
l’irresponsabilità dell’azienda elvetica, la violazione dei codici e l’utilizzo
dei documenti a sostegno delle pratiche sociali come una copertura per pro-
teggere la reputazione dell’azienda. Ad un certo punto, però, i fatti hanno
parlato chiaro. I libri, le pagine web dei movimenti d’opinione e delle orga-
nizzazioni non governative, le testimonianze di cittadini e consumatori,
nonché i siti internet delle Organizzazioni Internazionali e i relativi Codici,
non possono basarsi su informazioni inventate o di poco conto. Nestlé è
una bad company, altrimenti non sarebbe chiamata così e non sarebbe
nemmeno attaccata su più fronti da soggetti come le istituzioni, i governi e
le persone comuni. Nestlé si è comportata e si sta comportando in modo ir-
responsabile nel portare avanti il suo business e nel perseguire i profitti, uti-
lizzando tattiche di marketing che le permettono di raggiungere i propri
scopi facendo leva sulle strategie della comunicazione per persuadere i
consumatori a comprare i suoi prodotti convincendoli della bontà delle pro-
prie azioni. Ci tengo a sottolineare nuovamente che qui non si sta parlando
di prodotti, ma della loro promozione. L’importanza dell’esistenza del latte
in polvere è indiscussa, ma cercare di imporre in modo aggressivo questo
prodotto a chi non ne ha bisogno, o proporne l’utilizzo a chi non ha tutti gli
strumenti necessari per adottarlo è pericoloso. E chi mette in pericolo la sa-
lute e la vita delle persone, ancora peggio dei bambini, per ricavarne dei
vantaggi e dei guadagni, non è giustificabile in nessun modo.

161
Queste considerazioni mi portano a dire che la responsabilità sociale
all’interno delle imprese definite come delle bad companies è forma e im-
magine, non di certo sostanza. Un’impresa non può comportarsi in modo
scorretto, violando sia regole basate sul buon senso, sia codici formali, e
nello stesso tempo vantarsi dell’adozione di alti principi aziendali in difesa
delle persone, dell’ambiente e dello sviluppo in generale. Nestlé fa della
sua cultura e dei suoi valori aziendali un perno strategico per arrivare al
successo; in realtà tutte le iniziative che ha intrapreso e tutti i codici che ha
sottoscritto sono il risultato di continue pressioni da parte dell’opinione
pubblica e delle istituzioni e di richiami ad un comportamento più corretto
nei confronti della società. La CSR non è nata in modo spontaneo
all’interno dell’azienda e non è tantomeno portata avanti con spirito di ini-
ziativa, di consenso e condivisione. È una risposta agli attacchi esterni che,
all’inizio, serviva a fornire soltanto delle informazioni a difesa dell’operato
aziendale, per poi ampliarsi ad iniziative e documenti molto più vasti ed
impegnativi, ma che di fondo conservano lo stesso intento iniziale.
Questo dimostra come l’importanza data all’immagine sia maggiore ri-
spetto al bisogno di creare una reputazione fondata sui valori condivisi dal-
la società, ma, soprattutto, come sia in grado di sovrastare la missione e la
visione aziendale che hanno dato vita all’impresa stessa e l’hanno avviata ai
primi passi verso il successo.
Lo studio del caso Nestlé mi ha portato a fare anche un’altra considera-
zione: il fatto che le bad companies si adeguino continuamente alle pres-
sioni derivanti dagli attacchi esterni, non è che a lungo andare trasformi la
CSR da strumento che alimenta la forma e l’immagine a strumento che
produce sostanza? Pur mantenendo come costante l’obiettivo di massimiz-
zare le vendite e i profitti e senza apportare grandi cambiamenti alla propria
mentalità aziendale, infatti, un’impresa, nel tempo, può convincersi della
bontà della responsabilità sociale, dal momento che i benefici che essa pro-
duce possono portare al miglioramento della performance d’impresa, sia
sotto il profilo reddituale che sotto quello reputazionale. L’organizzazione
sarebbe perciò gradualmente indotta ad aumentare il proprio impegno so-
ciale, etico ed ambientale fino a giungere al punto in cui è essa stessa a
promuovere delle iniziative responsabili per rispondere attivamente alla
domanda che deriva dall’esterno. Nestlé, a mio avviso, può essere conside-
rata una di queste imprese che, sotto certi aspetti, si sono “convertite”: dopo
anni di pressione da parte di comitati di boicottaggio e di organizzazioni

162
internazionali, l’azienda svizzera ha cominciato a dotarsi di codici e princi-
pi di autoregolamentazione e a rendere conto a tutti i gli stakeholder del
proprio operato.
Questa svolta non esclude che Nestlé possa compiere altre azioni scor-
rette, ma è comunque un passo in avanti importante, perché dimostra come
anche quelle aziende che sono note per la costante infrazione delle leggi
formali e del buon senso etico, stiano acquisendo consapevolezza
dell’importanza che la responsabilità sociale d’impresa sta conquistando sia
come leva strategica per il successo sul mercato, sia come metro di giudizio
con cui tutti gli stakeholder valutano il lavoro che svolge l’impresa.
Le immagini dei barattoli di latte in polvere recanti scritte vietate, i ma-
nifesti e i gadget all’interno degli ospedali, le affissioni lungo le strade che
promuovono l’“infant formula” esistono e sono una testimonianza del cat-
tivo agire della multinazionale svizzera. Allora mi chiedo: il Codice WHO
che Nestlé ha sottoscritto 25 anni fa non vietava tutto questo? E perché dal
momento che associazioni come l’IBFAN hanno denunciato queste situa-
zioni in maniera comprovata, come previsto dal Codice, nessuno ha preso
misure punitive nei confronti dell’organizzazione?
Il Codice Internazionale sulla Commercializzazione dei Sostituti del
Latte Materno è stato riconosciuto pressoché ovunque, e gode per questo di
una certa credibilità, ma viene da chiedersi se questo codice sia valido e
serva a qualcosa, oltre che come base su cui fondare le proteste dei comitati
d’opinione e di monitoraggio. Questi ultimi, da parte loro, svolgono il pro-
prio lavoro con convinzione e continuità, come ho potuto constatare in pri-
ma persona grazie allo scambio diretto di informazioni con il rappresentan-
te di Baby Milk Action, Mike Brady. I comitati di boicottaggio hanno il me-
rito di non avere peli sulla lingua e di portare alla luce fatti ed avvenimenti
che altrimenti, attraverso l’azione dei lobbisti delle multinazionali, rimar-
rebbero nascosti all’opinione pubblica. Alcune informazioni molte volte
sono date in modo esagerato a causa dello spirito che anima l’azione di
questi comitati d’opinione, ma hanno anche un fondo di verità che spesso fa
riferimento a leggi nazionali e internazionali di governi ed associazioni.
Il problema dell’infrazione impunita dei regolamenti e delle leggi che
tutelano, nel nostro caso, l’allattamento dei neonati, è da ricondurre a colo-
ro che creano e diffondono tali documenti senza verificarne l’effettivo ri-
spetto da parte di chi li firma e li introduce nel proprio paese.

163
Molte grandi imprese come Nestlé sono state costrette da varie forme di
pressione a firmare questi regolamenti internazionali, per cui non ci si può
aspettare che ne seguano volontariamente e fin da subito i principi, né si
può pensare che siano i movimenti di boicottaggio a portare avanti da soli
un’attività di monitoraggio, perché comunque non hanno l’obiettività e
l’accesso alle informazioni necessari per valutare l’operato di chi trasgredi-
sce i codici. Dovrebbero essere gli stessi enti promotori dei regolamenti a
condurre con mano ferma un controllo costante delle azioni di chi sotto-
scrive i documenti impegnandosi a rispettarne i punti, infliggendo anche
delle punizioni esemplari ai trasgressori e informando di questo l’opinione
pubblica: soltanto attraverso delle sanzioni comminate e opportunamente
comunicate all’esterno le organizzazioni internazionali e i governi possono
sperare di rallentare l’agire irresponsabile delle bad companies e di creare
una consapevolezza esterna tra i consumatori che possa portarli a pensare di
più prima di acquistare i prodotti delle multinazionali colpevoli di recare
danno, sotto diverse forme, alla società.
Vedendo diminuire le vendite e i profitti le grandi imprese si rendereb-
bero conto delle conseguenze delle loro cattive azioni e del danno alla loro
reputazione, e questo, forse, potrebbe portarle ad avvicinarsi di più, ed in
modo più volontario e consapevole, ai temi della responsabilità sociale, in
quanto capirebbero che il beneficio dato da questa innovativa leva strategi-
ca è tale non solo per la società e l’ambiente, ma anche per la sopravviven-
za e il successo nel lungo periodo dell’impresa stessa. Tuttavia, questo ar-
gomento apre la delicata questione dell’effettiva volontà politica di far ri-
spettare tali regolamenti e codici, a fronte di interessi miliardari a cui i Go-
verni e i loro rappresentanti negli organismi internazionali non possono re-
stare indifferenti.
Le multinazionali contribuiscono grandemente all’economia dei paesi in
cui operano, creando occupazione, ricchezza e collaborando attraverso nu-
merose iniziative a favore della società con i Governi stessi. È ovvio che gli
Stati devono tenere conto di tutto questo dal momento che la presenza di
grandi imprese sul territorio nazionale porta benessere e beneficio sia eco-
nomico che sociale. Quando le organizzazioni internazionali promotrici dei
codici chiedono ad un paese di far rispettare le norme alle multinazionali
che le infrangono, il Governo deve scegliere tra il rischiare di compromet-
tere i rapporti esistenti con le aziende radicate sul territorio, e la messa in
atto di leggi internazionali la cui esecuzione gioverebbe anche ai propri cit-

164
tadini. Spesso, però, sono le multinazionali stesse a risolvere questo di-
lemma facendo pressione sulle istituzioni nazionali affinché siano tutelati i
propri interessi e, quindi indirettamente, anche quelli del paese stesso.
I Governi a loro volta esercitano pressioni sulle organizzazioni interna-
zionali attraverso i rappresentanti nazionali che si trovano al loro interno, i
quali agiscono nell’organizzazione in modo che le infrazioni rimangano
impunite e la situazione resti immutata, incidendo così sull’inapplicabilità e
l’inefficacia dei codici e dei regolamenti.

165
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www.nestle.it

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L’etica è un concetto antico che da sempre accompagna l’esistenza
dell’uomo. Oggi l’osservazione di certi fenomeni nella realtà circostan-
Massimiliano Dona
te suggerisce un ripensamento di questo concetto come nuovo prota- (a cura di)
gonista della vita sociale ed economica. Ma cos’è l’etica dal punto di
osservazione dei consumatori? E quanto sa essere etico il consumatore
stesso quando perdona la scorrettezza, tollera l’abuso e viene meno al
dovere di fare scelte consapevoli? In tutte queste occasioni si comporta ETICA DELLE IMPRESE
da “gigante nano ed è cattivo sovrano di se stesso.
La giornata di convegno in occasione della cerimonia di consegna del E DEI CONSUMATORI
Premio “Vincenzo Dona, voce dei consumatori” per il 2010 è dedicata
proprio al tema “etica delle imprese e dei consumatori”.
Questo libro raccoglie, insieme alla tesi di laurea vincitrice del Concorso Atti del Premio Vincenzo Dona,
bandito tra le università italiane, gli interventi di Massimiliano Dona, voce dei consumatori
Segretario generale dell’Unione Nazionale Consumatori, di Mario Mon-
ti, Presidente dell’Università Bocconi (già Commissario europeo per la 2010
concorrenza), di Stefano Zamagni, professore di Economia politica pres-
so l’Alma Mater Studiorum di Bologna ed anche di Antonio Catricalà,
di Giuseppe Di Taranto, Piero Gnudi, Raffaele Guariniello, Sebastiano
Maffettone e Corrado Passera.
chi è senza peccato?

Massimiliano Dona è il Segretario generale dell’Unione Nazionale Con-


sumatori (www.consumatori.it) e rappresenta i consumatori italiani nel Con interventi di
Gruppo Consultivo Europeo per i consumatori (ECCG) presso la Com- Antonio Catricalà, Giuseppe Di Taranto, Piero Gnudi,
missione Europea. È docente di diritto dei consumi presso la Facoltà di Raffaele Guariniello, Sebastiano Maffettone,
Economia dell’Università degli Studi di RomaTre e presso la Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università Europea di Roma. È autore di numerose Mario Monti, Corrado Passera, Stefano Zamagni
pubblicazioni sui temi del consumo.

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