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Che faccio, resto nella mia terra o vado via?

Un Manifesto Senza Voce

Prima che cittadini, noi siamo uomini: e di ci spesso dimentichi; guidati dall'irrazionalit
della nostra stessa natura, mutabile ed erronea, in cui la ragione si maschera molto meno
raramente di quanto si voglia far credere; uomini tanto frazionati in infinite correnti, le quali
spingono, contro di noi, coloro i quali pensano e si comportano a noi similarmente, in cui
poniamo tanta parte di noi stessi, che sembriamo riconoscerci pi di quanto faremmo
davanti ad un nostro ritratto.
Ma nella similarit che presuppone e che costringe la societ umana ad Essere, nel profondo
cio dell'ancestrale socialit del nostro Io, non dimentichiamo mai chi siamo veramente:
esseri umani assolti da ogni ideale, e perci, viventi.
Non esiste alcuna vox clamantis in deserto, alcuna opinione o idea da s generata, nel nostro
sconfinato e pur tanto delimitato mondo, infinita caldera di identit, di volti e di luci
nascoste, adombrati dallo spettro diafano del pensiero plurale; maschere degli idoli che
trasciniamo a fatica, di faziosit tanto meno incrollabili di quanto esse stesse vogliano far
credere.
Con quest'ampia, e forse troppo eloquente, apologia, voglio introdurre non il mio pensiero,
n la mia idea, ma quella ermeticamente implicita della nostra generazione: idea che non
nasce artificiale da fantasie o partitismi, ma dal nostro insieme vitale e palpitante di radici,
voci, speranze ed ambizioni; nient'altro che il prodotto del nostro tempo, riflessione nuova
su quella base ideale che prefigura l'ufficio fondamentale di cittadini: rendere la vita sciolta
da ogni male, nell'interesse della nostra libert.

L'opportunit di abbandonare per sempre la nostra terra natale un invito al quale non
saremmo con poca certezza convinti, nelle nostre motivazioni, ad accettare
immancabilmente.
Ma la mia opinione non si macchia di noncuranza verso una terra i cui dolori sarebbe inutile
annoverare; tanto meno quella della mia generazione, con cui condivido et, cultura e
pensiero; ma una spinta pi grande, che viene prevalentemente dall'esterno, che da dentro
di noi.
Una spinta che ha la voce dei genitori e di tutti i familiari; ha la voce della cronaca e della
statistica, dell'indice in ascesa; ha la voce dei ministri che verbalmente ci carezzano,
istrionici, dietro cattedre troppo distanti; ha la voce dei professori che mai, come quando
parlano del nostro avvenire, ascoltiamo con tanto trasporto; ha la voce onnipresente del
silenzio delle nostre strade abbandonate, dei profughi pensieri e delle preoccupazioni, figlie
di una labirintica societ che impone, nostro malgrado, di essere utili o di emigrare
provandoci.
Il nostro uno stato di angoscia che trascende ogni esasperato esistenzialismo: un grido
parimenti silenzioso quanto acuto che si legge in ogni vago lineamento che il nostro confuso
pensiero assume, l'ideale di cui prima, e che si proietta immancabilmente in un atroce,
malcelato, ansioso pessimismo.
E chi, pi di noi, giovani delle regioni pi arretrate d'Italia, soggetto al terrore di venire
divorato dallo spettro dell'inutilit, dallo spirito del presente che richiede, ed esige, il valore
potenziale di lavoratori?
Noi, considerati alla stregua di macchine del PIL e poco diversi dalla forza lavoro, siamo
pronti ad abbracciare il mondo, a conoscerlo, a lasciare una realt che pare tanto isolata
dall'universalit, che assume connotazioni soffocanti, avvinte come radici d'ulivo alla
feconda terra del Meridione; tuttavia un atto di coraggio, non di vigliaccheria,
abbandonare la propria casa: il culmine di una lotta di idee, di un confronto necessario tra
generazioni.

Vero che una ventata infinita di quel vento d'umanit, che soffia nelle metropoli d'Europa
e nelle storiche citt italiane, pu lasciarci senza fiato, se abituati a pilastri tanto saldi ed
incrollabili quanto quelli che si ergono nella verace, schietta cultura meridionale.
Tuttavia, questa cultura, che pu differentemente e liberamente essere considerata arretrata
e dispensabile oppure fondamentale e necessaria, non che un minimo comune
denominatore che ci d un'identit, una caratteristica forma sulla quale la variet indefinibile
delle opinioni pu sorgere ed aspirare ad astra.

Ci contro il quale noi giovani ci schieriamo, in quella lotta di idee sopracitata connaturata
alla nostra et e alla nostra terra e che nasce sulle basi delle nostre affermazioni ideali, non
la cultura: ci sarebbe uno sforzo nichilista ed autodistruttivo, il sintomo d'un movimento
iconoclasta che invece di elevarci a cittadini del mondo, ci degraderebbe ad esuli ed orfani.
Ma lottiamo, in modo eterogeneo e vitalmente titanico, contro i bisogni stessi della
spersonalizzante Societ del presente, contro le idee che plasmano e considerano noi
giovani, tanto ipocritamente chiamati futuro, come una merce di scambio, vittima di forze
d'irrefrenabile entropia, incapace di governarsi, incapace di riflettere, come una massa
incosciente di particelle omogenee, sezionabili e tanto meno uniche quanto prevedibili; non,
cio, singoli che condividono per se stessi individualit e sentimento di appartenenza
comunitaria, ma fiumi irrefrenabili arginati verso condizioni artificiali; profili, questi,
amplificati e distorti dalle istituzioni partitiche ed ideologiche nelle loro infinite
rappresentazioni, origini e scopi, autrici di una verit edulcorata che non rappresenta la
realt, ma un'abietta deformazione della stessa.
Tali manifestazioni ideologiche sono tanto forti qui al sud e si fanno, erroneamente,
propugnatrici delle tradizioni in quanto vessillo dell'immobilit sociale, inteso come
sinonimo di sicurezza sociale. Come potrebbero mai, le nuove generazioni, elevarsi in una
realt che obbliga le stesse a rimanere ancorate nello sfoggio fiero di economie, sia proprie
che culturali ed artistiche, ristrette, locali, chiuse?

Il bisogno di mantenersi in contatto con realt molteplici fondamentale, oltre che per
l'apparato economico (sempre inteso come scambievole dialettica), soprattutto per quello
interpersonale.
La formazione non esclusivamente ci che le istituzioni favoriscono a plasmare attraverso
mezzi che, per quella connaturata negligenza che spesso distende ogni speranza di
progresso, qui da noi, latitano, ma anche l'esperienza diretta con il diverso, che in un'epoca
di frammentari populismi, facenti leva sulle incomprensioni, come quella presente, la
panacea pi grande che si possa offrire ad un animo comunitario, tormentato dal timore di
ingigantiti spettri espiatori.
Spettri che, se nell'ideale comune gravano sull'insicurezza socio-economica del nostro
Paese, su le giovani generazioni gravano come ansiolitici, ovvero come inarrivabili standard
di efficienza lavorativa che si traducono in un desolante senso di inferiorit e di incapacit,
di sconfortante pessimismo che la nostra comunit non pu che incubare, a meno che essa
stessa desista da limitare i propri confini con immaginarie barricate doganali, derivanti dalle
sopracitate posizioni ideologiche.
In breve, non costringendo noi stessi che la nostra Piana pu sollevare il capo
dall'immobilismo: ma la necessaria e debita fiducia nelle capacit di quanto le passate
chiamano le presenti generazioni: del futuro.

Perch il futuro non si basa sul lavoro, ma sulla vita.

Tuttavia, se non un valente materiale umano (per quanto spersonalizzante possa essere un
termine simile) a rendere grande la patria di innumerevoli eccellenze, il Mezzogiorno dovr,
nella sua incapacit di valorizzare i talenti e le forze produttive dei suoi abitanti,
riconoscersi come l'ente parassitario di un Paese la cui unit , apparentemente, ancora in
fieri.

L'organismo che ostacola il nostro essere liberi, e di conseguenza la nostra crescita, la


paura.
Ho avuto paura fin dal primo momento in cui ho conosciuto la parola.
Ma qui, le parole sono come echi che non si dimenticano facilmente, quando un nome
diventa sinonimo di infamia.
Nella mia terra, verit e lealt, onore, rispetto, famiglia, obbligo, sono parole, ma sono
molto pi pericolose delle idee: perch le idee, se si hanno, si possono tacere.
Nella mia terra non si pu fingere di non ascoltare ed avere la coscienza pulita.
Nella mia terra ogni cosa ha un peso diverso, ma le cose che tanto sembrano di non averne
alcuno, ne hanno incontestabilmente tanto.
Nella mia terra la libert farsi i fatti propri, libert di far morire le parole che pesano e di
liberare quelle leggere ed inani.
Nella mia terra si leggono ad alta voce i nomi dei nuovi martiri e si annuisce e si piega la
testa davanti a questi, ma il nepotismo dilaga latente in ogni plaga visibile e non.
Nella mia terra si ha paura e si muore ogni giorno.

Forse sono solamente giovane, pessimista, o forse troppo convinto che l'uomo non potr
mai, davvero, essere in pace con se stesso; ma affermo che non tornerei mai nella mia terra
sapendo che la mia vita, quella della mia famiglia e delle mie idee, possa essere messa in
pericolo a causa della verit, a cui forse relego gran parte dei miei sogni; tanto scusabili e
risibili, nell'aridit del pragmatismo di oggi.
Non voglio classificarmi come un uomo onesto, incrollabile, stoicamente attaccato al valore
dell'onest, se questo valore ancora vigente: ma so che non sono un eroe, e n tragico n
leggero a scrivere ci che sto scrivendo: tra il vivere cristallizzato e stretto nel timore, e il
poter servire una causa che so necessitare di volont e devozione, senza temere la sofferenza
di chi mi sta pi caro, preferisco aver paura e fuggire dove il mio valore umano davvero
apprezzato, o anche solo sognare di poter essere, davvero, libero.

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