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(segherie), tagliaboschi, piccoli impresari edili (Baumeister), agricoltori, muratori, scalpellini,
tagliapietre e minatori.
Il caso degli italiani in Romania, per quanto di rilevanza contenuta nel quadro complessivo
dei 28 milioni di emigrati italiani partiti dal 1861 in poi, è tuttavia esemplare: il coraggio di quei
pionieri, il superamento delle difficoltà da loro incontrate e i molteplici segni che hanno lasciato con
i lavori svolti costituiscono quasi una sorta di anticipazione dell’inclusione della Romania nel
processo di unificazione europea e fanno pensare ai ricorsi della storia, che stanno vedendo i romeni
grandi protagonisti dei flussi di immigrazione in Italia, come gli italiani lo furono un secolo fa in
quell’area..
Nel Settecento, quando anche nell’Europa centro-orientale si diffuse l’arte barocca, si
determinarono flussi di architetti e maestri italiani nei cantieri romeni, specialmente in Transilvania,
formando, con le proprie famiglie, vere e proprie colonie itineranti e di ciò ancora oggi si
rinvengono tracce, come nella cattedrale di Alba Iulia. Ben più consistenti furono i flussi a partire
dalla fine dell’Ottocento, quando dalle aree italiane dell’impero asburgico o dalle regioni adriatiche
si determinarono flussi diretti in Romania, fortemente bisognosa di manodopera specializzata. Era
lo stesso impero austro-ungarico a favorire le migrazioni interne tra le regioni più povere o di
confine, che continuarono anche quando parte di questi territori entrarono a far parte del Regno
d’Italia (il Veneto nel 1866 e il Friuli Venezia Giulia e il Trentino Alto Adige nel 1918).
La Romania appariva allora quasi come una nuova America, un paese di recente formazione
con tante ricchezze da sfruttare e terre vergini da bonificare, e gli italiani non suscitavano sentimenti
ostili, anche per effetto di una sorta di ideologia panlatinista che veniva contrapposta al minaccioso
montare del panslavismo dei paesi vicini. I flussi determinatisi furono non imponenti ma,
comunque, consistenti: è stato stimato che alla fine dell’Ottocento circa il 10-15% degli emigranti
partiti dal Veneto si fosse diretto in Romania.
Questi flussi ebbero un carattere prevalentemente stagionale e pendolare, e perciò per questi
emigranti si ricorse all’appellativo di “rondini”, in friulano “las golandrinas”; essi, infatti,
nell’avvicendarsi delle stagioni facevano la spola tra la Romania e i loro villaggi per evitare le
pause morte e curare anche le proprie terre, mantenendo i legami familiari e comunitari. È anche
vero, però, che col tempo la permanenza tese a prolungarsi e ad allontanare la prospettiva di ritorno,
facendo venir meno questo carattere di circolarità (che invece in parte si ritrova nei flussi attuali dei
romeni).
Secondo i dati censuari italiani, i connazionali in Romania da 830 nel 1871 arrivarono a
5.300 nel 1881 e a 8.841 nel 1901 e, dopo una diminuzione nell’approssimarsi della guerra
mondiale (6.000 nel 1911), a 12.246 nel 1927. Un quinto circa, a fine secolo, doveva risiedere in
Dobrugia, dove le maestranze e i manovali potevano trovare lavoro nelle cave di pietra o nelle
mezzadrie, nel commercio o nell’edilizia. Gli sbocchi prevalenti si trovavano nell’edilizia e nella
costruzione delle ferrovie, settori che necessitavano di grandi quantità di legname per la cui
lavorazione erano provvidenziali i friulani, boscaioli esperti, ai quali si unirono muratori,
scalpellini, tagliapietre e minatori. Gli italiani erano così apprezzati da ottenere salari più
vantaggiosi e riuscire a mettere da parte risparmi consistenti.
Vi furono anche i “Baumeister”, piccoli e medi impresari edili, attivi in tutta l’Europa
Centro Orientale e capaci sul finire dell’Ottocento di aggiudicarsi diversi appalti, nella costruzione
della Transiberiana e in altri settori, dando lavoro ai propri connazionali. Si stima che all’epoca il
numero complessivo delle ditte friulane in Europa dovesse raggiungere le 2.000-3.000 unità, in
parte operanti in Romania.
Con lo scoppio della Grande Guerra quasi tutti i lavoratori stagionali che avevano
conservato la cittadinanza dovettero rientrare in patria perché richiamati alle armi, mentre i
naturalizzati romeni dovettero prestare servizio per l’esercito romeno.
Concluso il conflitto, i flussi ricominciarono, anche per le sopravvenute difficoltà di
emigrare negli Stati Uniti, con il coinvolgimento complessivo di 60.000 italiani, una presenza
stabile di 8-10.000 unità e flussi annuali di 2.000-2.500 persone. Gli italiani, ben integrati, con
storie di successo e contrassegnati da numerosi matrimoni misti, diedero il loro contributo alla
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prima industrializzazione della “grande Romania”. Prima del secondo conflitto mondiale la
situazione divenne precaria per la svalutazione della moneta romena (leu), e alla fine della guerra
rimasero nel paese soltanto 8.000 italiani, mentre gli altri preferirono rientrare, purtroppo senza la
possibilità di riportare in patria i frutti del loro lavoro di una vita.
Con l’avvento del comunismo quelli rimasti conobbero una situazione di indigenza, ma
furono tenaci nel ricordo del loro paese di origine (pur essendo stati privati fino al 1967
dell’assistenza religiosa in lingua italiana). Con il ritorno alla vita democratica, la Costituzione
romena del 1991 ha riconosciuto ai nostri immigrati lo status di minoranza e il diritto ad essere
rappresentati nella Camera dei Deputati da un proprio parlamentare. Secondo l’ultimo censimento
gli italiani di Romania sarebbero 3.288, ma secondo gli studiosi dovrebbero essere circa il doppio,
ai quali si aggiungono quelli – più numerosi – legati alla presenza imprenditoriale italiana.
Con circa 200.000 romeni presenti troviamo il Lazio (la provincia di Roma supera da sola le
100.000 presenze), con 160.000 la Lombardia, con 130.000 il Piemonte, con 120.000 il Veneto, con
80.000 l’Emilia Romagna e la Toscana e, nel Meridione, con 20.000 Abruzzo, Campania, Puglia e
Sicilia. Al Sud l’aumento dei romeni è stato in percentuale più consistente rispetto ai contesti del
Centro-Nord, ma i valori assoluti sono comunque più bassi.
Una presenza così numerosa e diffusa, come già avvenne per il Marocco e l’Albania, ha
generato una sorta di “sindrome da invasione”. In realtà, questa ipotesi è del tutto improbabile,
trattandosi di un paese caratterizzato dall’invecchiamento della popolazione, dal buon andamento
economico e dal forte bisogno di trattenere forza lavoro, senza dimenticare che questa forza lavoro
aggiuntiva è quanto mai funzionale alle nostre esigenze.
I romeni venuti in Italia sono in buona parte originari dai villaggi rurali della Moldavia; essi
hanno conosciuto le migrazioni interne prima a causa dell’urbanizzazione di massa e, dopo la crisi
industriale, a seguito del ritorno nelle campagne, dopo di che è seguita l’emigrazione all’estero. Sui
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flussi verso i paesi mediterranei pare abbia anche influito anche il fatto che in Moldavia sia diffusa
la religione cattolica. Invece i romeni presenti in Germania provengono in prevalenza da altre
regioni occidentali del paese (Banato, Transilvania, Crisana-Maramures). Un’altra area di esodo
verso l’Italia, è il distretto di Timisoara, dove hanno massicciamente effettuato le delocalizzazioni
le nostre imprese, assicurando anche lavoro sul posto a centinaia di migliaia di romeni. A loro volta,
i romeni già insediati da noi sono un fattore di attrazione per quelli che devono venire per l’impatto
che esercitano le ben note “catene familiari”. Un riscontro di queste preferenze si ha anche a livello
di indagini sociologiche, dove le mete preferite corrispondono a quelle effettivamente scelte. Per
citarne una tra tante secondo le informazioni raccolte dalla missione IOM di Bucarest nel 2005
l’Italia raccoglieva il 30% delle preferenze di coloro che non hanno alcuna esperienza lavorativa
all’estero, seguita, in Europa dalla Spagna con il 14% e dalla Germania con il 10%.
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Secondo l’indagine “Metro Media Transilvania”, realizzata tra il 2007 e il 2008 su incarico
del Governo romeno, il 9% dei romeni in Italia ha una casa di proprietà e l’8% vive presso il proprio
datore di lavoro. Il 72% ha conseguito un titolo di studio superiore, il 90% ha un reddito medio
mensile di 1.030 euro. Per il 71% la televisione è il principale mezzo di svago. I giornali preferiti
sono quelli gratuiti. In prevalenza (52%) gli intervistati hanno una considerazione positiva degli
italiani, mentre il 65% degli italiani non desidererebbe in famiglia una persona romena.
L’immigrazione romena sta per trasformarsi (non totalmente ma in buona misura) da circolare
e temporanea in stabile, a medio o lungo termine, se non addirittura in una prospettiva definitiva
(basti pensare che a Roma, nel 2007, sono stati 10.000 gli acquisti di immobili da parte di romeni). Il
miraggio di inserimenti più qualificati, che potrebbero dare altri paesi come la Gran Bretagna o la
Germania, viene accarezzato ma non coltivato più di tanto e quella italiana rimane la meta preferita.
La famiglia è il luogo principale della vita quotidiana e dei rapporti sociali, mentre non tutti fanno
parte di associazioni, delle quali però si iniziano a riconoscere i vantaggi.
Essi mostrano grande attaccamento al mondo del lavoro, che ritengono fondamentale per
l’integrazione. Tenuto conto dei settori prevalenti in cui si inseriscono e del mancato riconoscimento
dei loro titoli di studio, raramente riescono a migliorare la propria condizione professionale, e tuttavia
sono abbastanza soddisfatti perché, rispetto a chi è rimasto in patria, riescono a realizzare meglio un
progetto economico di miglioramento e ad aiutare i propri familiari.
A casa alternano l’italiano, che apprendono con facilità, con il romeno e, in caso di una sola
lingua, preferiscono l’italiano che, avendone l’opportunità, perfezionerebbero ulteriormente; questa
facilità linguistica aiuta a capire il buon andamento dei loro figli a scuola.
Qualcosa di simile avviene per i giornali: o si leggono tanto quelli italiani che quelli romeni,
oppure solo quelli italiani, con particolare attenzione all’attualità. Eppure i romeni intervistati hanno
un concetto tutt’altro che basso del loro sistema di istruzione e della loro cultura.
Dell’Italia, più che la cucina o il sistema scolastico, apprezzano il sistema sanitario, perché in
patria non è prevista la copertura universale come da noi.