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L’anno scorso un vasto movimento di forze (Consiglieri comunali di entrambi Angelo Barbato psichiatra
gli schieramenti, rappresentanze degli utenti, associazioni, tra cui il Forum
Aldo Brandirali consigliere Comune Milano
per la Salute Mentale) riuscirono a disinnescare il Tavolo: riproponiamo lo
stesso obiettivo, a partire da questo Convegno, rilanciando invece su Luigi Colajanni sociologo
maggiori investimenti e maggiori risorse a tutela dei servizi per la salute
mentale. Don V. Colmegna Casa della carità
La situazione a Milano
• Di quasi 1 milione e 300 mila soggetti iscritti al
SSR a Milano, oltre 300000 soffrono di disturbi
d’ansia: di questi il 65% sono donne
• 0scillano tra 22000 e 55000 le persone che
soffrono di crisi di panico, e il 70% sono donne
• I disturbi d’ansia si presentano insieme ad
abuso di farmaci (27%), a dipendenza
alcoolica (38%), ad altri disturbi psichici (62%
depressione)
E ancora
Inoltre
• Direttamente o indirettamente l’obiettivo sembra
quello di rimettere in discussione la legge
Basaglia, sia per quanto riguarda le misure di
sorveglianza, sia per quanto riguarda
l’interpretazione dei TSO (trattamenti sanitari
obbligatori)
• Il rischio vero è quello di tornare a una visione
pre-riforma, nonostante l’esperienza di questi
trenta anni abbia testimoniato la bontà
sostanziale di quell’impianto
I limiti nella applicazione
della riforma
• Se problemi si sono manifestati è perché
perché alla salute
mentale non sono state garantite le risorse giudicate
necessarie dalla stessa legge di riforma sanitaria (il 5%
dei bilanci regionali) e non sono state predisposte tutte
le misure alternative al ricovero (comunità
(comunità residenziali o
semiresidenziali) e di prevenzione.
• In particolare poi, nella nostra Regione, è prevalsa una
visione ospedale-
ospedale-centrica dei servizi territoriali (oggi in
carico alle aziende ospedaliere, e non alle ASL, come
sarebbe stato più
più logico e conseguente), e questo ha
provocato ricadute negative sugli organici dei CPS oggi,
soprattutto a Milano, carenti rispetto all’
all’utenza in carico
o potenziale.
MacArthur Study
• Accedere al concetto della “pericolosità
pericolosità sociale”
sociale” dei
malati psichici vuol dire arretrare rispetto a studi
accreditati, come il MacArthur Study, che ha confermato
che i soggetti con questi problemi non delinquono in
maniera superiore rispetto ai soggetti “normali”
normali” (con
esclusione degli alcolisti e dei tossicodipendenti), e sono
anzi più
più spesso oggetto di violenze che attori di violenze.
• Le cronache di questi giorni sono ricche di episodi
criminali, spesso efferati, compiuti da persone in
apparenza “normali”
normali”, per ragioni per lo più
più passionali o
patrimoniali. Concentrare l’l’attenzione solo sulla salute
mentale non può che essere fuorviante e richiamare lo
stigma.
Il ruolo delle forze dell’ordine
Le nostre iniziative
• Abbiamo cercato di depotenziare il ruolo del
tavolo in sede di discussione di bilancio
• Abbiamo ottenuto solo un rimando a quanto
contenuto nel Piano di Zona, precisando
l’impegno verso il recupero dei “persi di vista” e
nella definizione di protocolli per l’emergenza
• Abbiamo infine ottenuto risorse aggiuntive per la
salute mentale per 100000 + 100000 euro
Conclusioni
• Vogliamo continuare un cammino già avviato in
due convegni “Così uguali così diversi” e nel
convegno “Milano città sana” dello scorso anno
• Interrogarci sul ruolo del Comune di Milano
rispetto sia ai servizi, che devono essere
implementati, sia al Tavolo, così concepito, che
non condividiamo
• Battere infine un colpo in difesa della 180: una
buona legge, non abbastanza applicata, anche in
Regione Lombardia
U.N.A.SA.M onlus
Unione Nazionale delle Associazioni
per la Salute Mentale
Sede Legale c/o Istituzione G.F.Minguzzi
Via Sant’Isaia, 90 – 40123 Bologna
tel. 051/5288526/11 – fax 051/521268
C.F. : 96256330588
ERNESTO MUGGIA
Vorrei iniziare questo intervento con un invito, che spero non venga male interpretato: è un
invito a rivolgere un pensiero alla memoria di persone che non sono più in vita.
Sono i morti bruciati di San Gregorio Magno, quelli dilaniati dai cani randagi di Guidonia, quelli
scomparsi di Serra d’Aiello: tutti loro, e chissà quanti altri ancora, colpevoli soltanto di essere matti,
e quindi segregati e dimenticati da una società che non vuol sapere, non vuol vedere e... paga, paga
anche molto. Ma poi non controlla. Sono tanti quelli che sono al corrente, operatori, amministratori,
familiari, sindacalisti e semplici cittadini: tutti stanno zitti, a tutti va bene così perché potrebbe
andare peggio. Gli interessati, i sofferenti, non hanno la parola, non hanno diritti, non possono
difendersi: in altre parole sono invisibili all’opinione pubblica, come se non esistessero.
Questo che vi ho detto è il risultato di tante cause, ma certo una delle più importanti è la pesante
cappa di pregiudizio che grava sulla malattia mentale, su chi ne soffre e sulla sua famiglia. Si tratta
dello stigma che colpisce pazienti e familiari, reinnestando un circolo vizioso che si aggrava sempre
più, confermando a posteriori ciò che lo stigma stesso ha causato, producendo solitudine e
abbandono, alimentando paure ed inquietudini, inducendo segregazione.
Nel recente rapporto dell’OMS sulla salute mentale nel mondo, Gro Harlem Bruntland, ex Direttore
Generale, sostiene che “vi è una sola strada: assicurare che la nostra sia l’ultima generazione a
permettere che la vergogna e lo stigma regnino al di sopra della scienza e della ragione”.
Qualche numero per chiarire l’entità del problema: i sofferenti di disturbi psichici gravi sono
almeno l’1% della popolazione, in Italia come in tutto il mondo; l’incidenza è di circa l’1 per anno
per 10.000, cioè 6.000 nuovi malati/anno in Italia, 1.000 in Lombardia, 150 a Milano.
Come accennavo sopra, l’ostacolo principale che ci troviamo davanti in questo settore è il
pregiudizio e la conseguente discriminazione delle persone con disturbi mentali e dei loro familiari.
Il pregiudizio estremizza, generalizza, rifiuta l’analisi; dà un senso immediato di sicurezza perché
rende più semplici realtà complesse e poco conosciute. La sofferenza mentale è un campo scomodo,
su cui si cerca di tacere sia con gli altri sia con noi stessi, anche per la paura che in genere si ha nel
riconoscere le zone oscure che tutti portiamo dentro di noi.
Fra i tanti pregiudizi che gravano sulla sofferenza psichica, spesso appesantiti dal silenzio generale,
i più pericolosi per le conseguenze devastanti che ne derivano sono due: l’incurabilità e la
pericolosità. Tralasciamo in questa sede gli altri come la vergogna, la colpa, l’incomprensibilità, la
necessità di interventi magici o di esorcismi, ecc…
E’ veramente difficile dipanare il groviglio di paure genuine e di timore, che alimenta il pregiudizio
della pericolosità nei confronti di chi è affetto da disturbi mentali. Non c’è dubbio che sussistano
casi di alterazione mentale che portano ad atteggiamenti aggressivi e alla violenza. Non va
dimenticato però quante volte coloro che sono soggetti a stati di alterazione psichica, sono stati
sottoposti all’inganno e alla violenza. L’aggressività, in tutti questi casi, è la reazione a stati di
paura, di sofferenza, di tensioni insopportabili: proprio per questo può essere opportunamente
prevenuta e gestita quando il soggetto è seguito con continuità e competenza dall’équipe curante. I
dati statistici smentiscono e ribaltano il luogo comune del “matto violento”: aggressioni, lesioni,
omicidi, sono presenti in egual misura nella cosiddetta popolazione normale e in quella dei pazienti
psichiatrici.
Nessuno può pensare di affrontare o peggio risolvere questi problemi col ricorso alla pratica del
TSO, sia pure prolungato come da più parti si sta chiedendo: lo testimoniano gli oltre 800
TSO/anno di Milano, contro i circa 2.000 di tutta la Lombardia o i meno di 10 di una città come
Trieste. Questi dati, confermati dall’assenza di prevenzione e dalla bassa spesa per interventi
domiciliari, stanno a dimostrare che il numero dei TSO è un ottimo indice della qualità dei servizi di
salute mentale e del loro radicamento nel territorio.
Quello dell’incurabilità è certamente il pregiudizio più dannoso. “C’è poco da fare, non possono
guarire” è una forma di inutile commiserazione e disimpegno, che si trova perfino in alcuni
operatori. Così si toglie a chi lo manifesta, come a chi lo subisce, la speranza, e con essa l’iniziativa
e la tenacia necessarie ad ogni cammino di ripresa. Rafforza questo pregiudizio il fatto che chi,
parente o conoscente, si trova a contatto con “colui che sta male con la mente”, avverte un senso di
impotenza: non trova il modo di aiutarlo concretamente, non vede miglioramenti, assiste a
periodiche ricadute. Inoltre, il senso comune e la memoria collettiva mantengono ancora
l’immagine tradizionale del sofferente internato nel manicomio: un’istituzione che non solo non era
curativa, ma - dietro l’apparenza di assistenza globale e protettiva – reprimeva e occultava i
disturbi, distruggeva la vita psichica e faceva regredire il ricoverato. Il manicomio rendeva cronica
la sofferenza temporanea, vero luogo di non ritorno, rendeva chi vi entrava segnato per la vita e
sanciva, agli occhi propri e a quelli altrui, l’attributo di incurabile. Viceversa nessuna base
scientifica giustifica l’idea che gli stati di alterazione mentale siano in quanto tali irreversibili.
Infatti i dati dell’OMS ci dicono che una presa in carico precoce e una terapia corretta e tempestiva
sui diversi fronti, psicologico, farmacologico e sociale, garantisce oggi ai sofferenti di disturbi
psichici un terzo di guarigioni complete, un terzo di cosiddette guarigioni sociali ( quindi persone
consapevoli di una loro “ fragilità “ ma in grado di vivere a pieno nella società), evidenziando solo
un terzo di non guarigioni, di persone cioè che hanno bisogno di supporto per tutta la vita. Sono
numeri confortanti che si commentano da soli.
L’anno mondiale del malato di mente era sotto l’insegna del motto “ Stop exclusion, dare to care”,
“Serve la cura e prendersene cura” era stata la nostra versione italiana.
Il Progetto Obiettivo per la tutela della salute mentale, tuttora valido in regime di prorogatio, fra gli
interventi prioritari per i servizi di salute mentale pone: “L’effettuazione di iniziative di
informazione, rivolte alla popolazione generale, sui disturbi mentali gravi, con lo scopo di
diminuire i pregiudizi e diffondere atteggiamenti di maggiore solidarietà; ciò aumenterebbe, fra
l’altro la possibilità di indirizzare i malati gravi ai servizi di salute mentale”.
Le forze della conservazione anche in questo settore oppongono notevoli resistenze, la
politicizzazione dei problemi produce solo danni, strumentalizzando un’opinione pubblica ignorante
e pregiudizialmente ostile, le Università continuano a sfornare giovani psichiatri secondo modelli
ormai desueti e le nuove figure professionali esperte di tecniche riabilitative scarseggiano; i politici
e gli amministratori locali, messi di fronte a questi difficili problemi, tendono a temporeggiare e a
non assumersi responsabilità.... Allora forse è necessario muoversi alla rovescia, partire con azioni
di prevenzione e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, perché faccia pressione sui politici e
gli amministratori e questi a loro volta smuovano le resistenze dei potentati universitari ed
ospedalieri.
Ci troviamo ora di fronte nel nostro Paese ad una rinnovata offensiva contro una riforma che,
lungi dal necessitare revisioni o modifiche, deve soltanto essere applicata fino in fondo per mostrare
la sua validità: la diffusione dei servizi di salute mentale in tutto il Paese è quasi completa, anche se
restano ombre sulla loro effettiva efficacia. Non mancano d’altra parte esempi di buone, e anche
ottime pratiche in molte regioni.
Oggi noi sappiamo che esiste un grave pericolo, sono stati depositati tre progetti di legge - un altro
mi risulta che sia in arrivo - i cui presentatori non sanno nulla di malattia mentale, ma vanno in
un’altra direzione, una direzione che non è quella della cura, della riabilitazione, della ripresa,: no,
l’occhio del proponente, l’occhio di alcune forze politiche (che non sto lì ad indicarvi perché le
conoscete) è volto alla protezione della città, del Paese, dell’ambiente dal pericolo sociale
rappresentato dai portatori di disturbi psichici. Quindi torniamo a un discorso che è stato quello
all’origine dei manicomi: non si guarda alla persona che sta male, non si cerca di aiutare quella
persona, ma si pretende di proteggere la cittadinanza. Proteggere da cosa? Da una paura? Ma questa
paura è vera o piuttosto è coltivata, ingigantita, fecondata da iniezioni di malcostume mediatico,
come vorrei chiamarlo, cioè da giornalisti indecenti, non rispettosi di nessun discorso di etica
professionale, che spargono a piene mani il letame della paura? Ora, quando si è diffusa e venduta
paura a piene mani, è molto facile proporre il rimedio sicurezza, è un’operazione di marketing.
Quindi, se la paura non è vera ma è inventata, anche il discorso sicurezza è inventato: basta
guardare l’ultima campagna elettorale. Ma io voglio aggiungere una cosa: oltre ad autorevolmente
reclamizzare questi progetti di legge, una persona civilissima, Senatore della Repubblica eccetera,
che ha una cultura che spazia fino alle indagini sulla Commissione Mitrokin, - il senatore Guzzanti,
tanto per essere chiari - si permette anche di scrivere che c’è un grande giro d’affari mosso dalla
legge 180, che impedisce l’onesto lavoro di revisione della stessa, che la legge 180 ha dei martiri,
che ogni giorno muoiono persone, che ci sono stati in questi vent’anni (sono sue parole testuali)
“3.500 persone assassinate in nome dell’utopia basagliana”. Ora, come definire una persona che
scrive – scusate – queste “ boiate “? Io non ho parole: come si permette a uno così di parlare, senza
sapere nulla, semplicemente perché è pagato per scrivere cose di questo genere?
Concludo, dicendo che è un problema di cultura, che l’opinione pubblica è immersa in un secolare,
millenario pregiudizio nei confronti di chi soffre di disturbi mentali, pregiudizio che contiene ogni
genere di disastri come la segregazione, l’impossibilità di trovare lavoro. Si può benissimo lavorare
avendo disturbi psichici, noi lo sappiamo bene, sono infiniti i casi: Clara Sereni ha scritto un libro
che diceva “si può”, io personalmente ho intitolato la prima, e purtroppo unica, conferenza
nazionale sulla salute mentale “se si può, si deve”. Invece, niente da fare: se voi andate a chiedere a
un datore di lavoro qualunque di prendere una persona, giustamente accompagnata come la sua
diagnosi può richiedere, ma che è bravissima nel lavorare al computer pur soffrendo di disturbi
mentali, costui se ne guarda bene dal prenderla. Quindi, questo pregiudizio nei confronti del diverso
– perché, diciamo pure, che chi soffre di disturbi psichici è diverso dalla media degli altri uomini e
donne - quindi il pregiudizio del diverso c’è sempre.
“ Non esiste un contesto neutro, indifferente. Il contesto agisce un ruolo sia nei processi di
esclusione che in quelli di inclusione: per questa ragione anche verso il contesto sono necessari
interventi che ne favoriscano la terapeuticità “ ( G.Rossi )
Sulla questione della cultura, con cui vorrei concludere, ritorno ad un documento orribile che è
quello del recentissimo accordo relativo all’istituzione di un “Tavolo per la prevenzione della
pericolosità sociale del Comune di Milano” con aziende ospedaliere, Regione, Comandante della
Polizia, Comandante dei Carabinieri, Comandante dei Vigili della città di Milano, tutti insieme per
assicurare la tranquillità dei cittadini: preparano un Tavolo che si propone schedature e quindi
violazione di ogni privacy, di ogni diritto di persone sofferenti di disturbi psichici. Questo Tavolo
istituisce la figura dello” psichiatra poliziotto”, fa venire i brividi: a questo Tavolo noi ci
opponiamo. Abbiamo fatto un’interrogazione nei Consigli comunale e regionale, adesso lo
manderemo in giro tra gli operatori, perché non possono più stare zitti, si deve pur dire che così non
va bene.
Però, siccome Milano docet, io ho paura che questo modello al primo evento tragico di sangue,
suicidio o qualcosa che capita, arrivi in altre regioni e in altre città: diceva giustamente Carlo
Rosselli “oggi in Spagna domani in Italia”. Era il 1936, ci risiamo.
Grazie.
Questions gênantes
• Risque relatif
• Risque absolu
• Risque attribuable
Trouble affectif
4% 1,44
bipolaire
Maltraitance dans
10,9% 4,31
l’enfance
Chômage 9% 4,03
Corrigan et Watson,
USA 1990-1992 2%
2005
Conclusions - 1
• Les troubles mentaux élèvent légèrement la probabilité des conduites violentes
• La probabilité est plus élevée pour certains groupes diagnostiques
• La probabilité est plus élevée en association avec l’abus de drogues
• La probabilité plus élevée associée aux troubles mentaux dépend de facteurs de risque
sociaux
Conclusions - 2
• La grande majorité des personnes avec troubles mentaux n’ont jamais des conduites
violentes
• Le diagnostic psychiatrique en soi n’est pas un facteur de risque pour les conduites
violentes
• L’apport des personnes avec troubles mentaux au taux de violence dans la societé est
négligeable
• Le possibilité de prévoir sur la base des indicateurs psychiatriques les graves conduites
violentes est limitée à cause du taux élevé des faux positifs
Conclusions - 3
• Les personnes avec troubles mentaux présentent un risque élevé de subir la violence en
général et même dans les services psychiatriques
• En Italie le niveau du taux de violence dans les services psychiatriques est bas par rapport
aux autres pays européens
• Le travail dans les services psychiatriques est associé à un risque égal ou inférieur à celui
d’autres services sanitaires
• Le risque associé à l’aggressivité est néanmoins un risque spécifique du travail en
psychiatrie qu’on doit considérer dans la formation des professionnels
CURA, NON CUSTODIA 7 maggio 2010, Palazzo Marino. (G.Pittini)
Mi sono domandato che cosa sta chiedendo in questi anni la società alla psichiatria.
Ma quale società? La politica ufficiale va chiedendo sicuramente degli interventi in linea con una
logica securitaria: eliminare tutti i rischi, eliminare le grane, rendere “invisibili” le persone che
creano problemi e le situazioni disturbanti , fonte di possibili imprevisti, movimenti aggressivi,
comportamenti imprevedibili. La parola d’ordine nel nostro Paese, da 15 anni, è: niente problemi e
niente grane, o anche: “alle grane ci pensi qualcun altro”. Cioè il qualunquismo.
E l’uomo della strada? Ovviamente, fa eco a queste parole d’ordine (diffuse dai politici, dagli
amministratori, dai media). Perché il “senso comune” significa la banalizzazione di tutte le
questioni, la scelta delle risposte più semplici e apparentemente più ovvie, la morale del bar. Il buon
senso è già qualcosa di diverso; ma per il buon senso occorre riflessione, tempo per capire il
problema, impegno a rifletterci almeno un po’. Per questo però ci vuole la società civile, cioè quelle
articolazioni sociali un po’ più complesse, un po’ più disponibili, un po’ più impegnate dell’uomo
della strada; queste articolazioni si sono enormemente ridotte e impoverite, ma esistono ancora, ed è
su di loro che occorre far conto e lavorare.
Ad esempio, si fa oggi un gran parlare di PREVENZIONE, da parte dei pubblici amministratori di
questo Comune. Ma che cosa intendono per prevenzione? Chi di noi se n’è occupato in anni lontani
sa che prevenzione significa anzitutto: lavorare perché le condizioni generali siano più favorevoli, e
non si creino situazioni a rischio o di pre-malattia. Così, in pneumologia prevenzione significa:
migliorare la qualità dell’aria; non fumare; usare la maschera se proprio si devono svolgere attività
a rischio (in miniera, nelle vasche di sedimentazione…)
E in psichiatria? Significa fare in modo che le condizioni di vita della popolazione generale, di una
popolazione specifica o di un individuo abbiano garantiti dei diritti di base (abitazione,
alimentazione, salario, istruzione, espressione delle proprie opinioni, un livello tollerabile di
conflittualità, una competitività non esasperata, ecc.) Quanto poi al singolo, si tratterà di cogliere
segni precoci di disagio, ma di valorizzare soprattutto le risorse, e di cercare risposte agli eventuali
punti di debolezza. Qui invece, per PREVENZIONE si intende sostanzialmente “REPRESSIONE
PREVENTIVA”, interessata solo ad eventuali problemi di ordine pubblico; e non a caso si studia il
modo di rendere più facile o più prolungato il TSO.
Occorre che noi operatori psichiatrici riusciamo a spiegare (almeno a chi ci ascolta, a chi desidera
capire) che non possiamo essere curanti e poliziotti allo stesso tempo; che un atteggiamento
inquisitorio- criminologico non può stare insieme a diagnosi-cura e riabilitazione.
Per ora. La legge non è cambiata. E la sua applicazione? Ci occuperemo diffusamente di questo nel
Seminario che si terrà in data 8.6.2010 alla Bicocca, “La posizione di garanzia degli operatori
psichiatrici”. Ci sono alcune recenti sentenze che sembrano più sensibili alle richieste dei politici,
insomma a richiedere allo psichiatra un’ottica “criminologia”. Fortunatamente, la giurisprudenza
prevalente è di segno opposto.
Un’ultima parola sul clima delle Aziende Ospedaliere. Ultimamente, esse assumono giovani
psichiatri con contratto libero-professionale, anche per svolgere (o soprattutto per svolgere) attività
in Pronto Soccorso, che è la più rischiosa da ogni punto di vista. Queste persone devono auto-
tutelarsi anche sotto il profilo assicurativo; oltre ad essere pagate poco, lavorano in situazione di
precarietà, potendo perdere il posto alla scadenza del contratto, e quindi sono assillate dalla paura di
commettere errori o di subire incidenti di ogni tipo. Come pensate che possano lavorare? Cioè,
come potranno occuparsi serenamente e bene del loro paziente, se devono anzitutto preoccuparsi di
tutelare se stesse?
Il consenso informato
della psichiatria
Luigi Colaianni
1
«Che cosa ne sarebbe della psichiatria se le
2
Psichiatria e informazione
per il consenso
3
Informazione per il
consenso
5
Il “Comma 22” della
psichiatria
14
Una strategia per il
cambiamento
In virtù di quanto esposto, appare ancora piùchiaramente come anche nei contesti di salute
mentale sia oltremodo importante l’informazione
per il consenso, non solo dal punto di vista
deontologico, ma in quanto è uno degli aspetti che
possono generare discorsivamente repertoridell’azione e della risoluzione, dell’azione e
dell’obiettivo, piuttosto che quelli della “malattia”,
collocando il paziente al centro dell’interlocuzionee nel processo di attivazione (recovery) e
ricapacitazione delle proprie competenze
(empowerment).
15
Una modalità conoscitiva
differente
Tuttavia la “psichiatria sociale”, come scrive Larsen(2003), pur distogliendosi dal modello medico,
non harisolto la criticità della definizione di un modo di
conoscere (paradigma) e di un fondamento scientifico-cosa si conosce (teoria e modello) -propri;
come commenta Larsen, la psichiatria sociale «non è
psichiatria», e tuttavia non ha una teoria di base sucui fondare la propria prassi.
16
Le fallacie della psichiatria
La prospettiva offerta dal posizionamento deltema nell’alveo dei paradigmi discorsivi, che
appaiono adeguati alla natura dell’oggetto distudio, permette di focalizzare l’attenzione
alle pratiche discorsive della psichiatria nellaloro natura meramente retorica e quindi apre
alla stipulazione di un differente assetto tratutti gli attori coinvolti (comunità dei parlanti,
Wittgenstein).
18
UNA PROPOSTA PER IL
CAMBIAMENTO
Generare un processo partecipativo che miri aridefinire in modo condiviso (quindi descrivibile,
valutabile e tale che implementi processiorganizzativi):
Si è offerta una prospettiva che, rispondendoalle criticità illustrate, può indicare unamodalità
conoscitiva “altra” in cui la praticapsichiatrica possa ridefinire in modo condivisoi propri obiettivi,
le proprie strategie e azionie un sistema di valutazione scientificamente
fondato, e con tali presupposti, possa aprire
spazi di concordance con i suoi utenti basata
sull’informazione e quindi sull’alleanza con ilpaziente.
20
Modificando i presupposti di base (in terminidi riferimenti teorico–epistemologici) è
possibile infatti una ridefinizione non soltantodegli obiettivi e delle strategie, ma anche deiruoli
preposti all’intervento stesso (matrice
organizzativa), così da generare
un’architettura dei servizi diversa rispetto aquella data, che è coerente con l’adozione diriferimenti
conoscitivo–operativi appartenential modello medico e al modello bio–psico–
sociale.
21
Per concludere
Quanto esposto è
trattato e
argomentatoapprofonditamente neltesto:
L. Colaianni 2009,
«Per incapacità di
intendere e
volere». Il
consenso informato
della psichiatria,
Roma: ARACNE.
23
Cura, non custodia
Non c’è salute senza salute mentale
Convegno, venerdì 7 maggio 2010
Come familiari ci saremmo aspettati che il comune di Milano, nel formulare la richiesta di istituire un
“Tavolo prevenzione e sicurezza nell’area della Salute Mentale” in cui ci chiama a collaborare,
arrivasse, finalmente, con una proposta di miglioramento delle attività di cura nei servizi.
Per noi familiari, così sempre speranzosi di prospettive di una migliore presa in carico, questa
chiamata al lavoro da parte del comune con un “tavolo prevenzione e sicurezza” si era subito riempita
di nuove attese. Finalmente, forse è la volta buona, abbiamo pensato. Pur se, con qualche sospetto.
Invece no, ci eravamo illusi ancora una volta. Il Comune prende la questione alla larga evocando le
questioni di pericolosità sociale dei malati psichici, sia pur per dire che non sono pericolosi. Per
questo cita le ricerche di MacArtur Study, Choe e collaboratori che evidenziano come le persone con
una sofferenza psichica più che agire comportamenti aggressivi e violenti sono “più frequentemente
vittime di molestie, aggressioni e violenze, malversazioni, con un rapporto tra essere vittime ed essere
autore di aggressione/violenza di 6 a 1.
Poi si continua con il mettere sulla carta gli obiettivi:
Perché affermare che occorrono “programmi specifici” per prendere in carico le situazioni di
sofferenza grave quando i Dipartimenti di Salute Mentale sono preposti proprio per far fronte alle
situazioni di sofferenza grave ?
Dopo premesse di riconoscimento di non pericolosità dei sofferenti psichici e della necessità di una
migliore presa in carico, il Comune invece di promuovere la soggettività, tanto più necessaria quanto
maggiormente i soggetti sono fragili ed in un periodo storico difficile come quello attuale, con un
salto logico passa all’introduzione di un nuovo soggetto nella cura, proprio le Forze dell’Ordine.
Secondo la vecchia tradizione che vede l’abbraccio mortifero della Psichiatria con la Pubblica
Sicurezza, coalizzate nel sostenere processi di “normalizzazione”.
Viene privilegiata la preoccupazione della pericolosità sociale, invece della cura delle persone, come
se le due cose non fossero legate tra di loro. E’ con migliori cure che si previene il disagio e si
migliora la sicurezza, non con la “chiamata” delle Forze dell’Ordine.
La “chiamata” in causa delle Forze dell’Ordine, cui nessun progetto obiettivo si è mai sognato di fare
appello, è fuori luogo e pericolosa: invece di diluire il conflitto lo va ad alimentare, oltre che
incrementare lo stigma che già grava sui malati, sui familiari e sull’accesso ai servizi.
Non è questo il sogno dei familiari, non è di avere le forze dell’ordine al posto degli psichiatri, ma di
avere migliori servizi, migliori prese in carico, delle cure più umane con meno contenzione, meno
controllo, meno farmaci, più accoglienza, più ascolto, più diritti esigibili: l’abitare, il lavoro, luoghi di
frequentazione attraenti, più integrazione nella città, più cittadinanza. Vogliamo cure per i nostri
congiunti e cure dei luoghi di cura.
Il modello lombardo
Non siamo contenti dei servizi di psichiatria a Milano e nella Lombardia. Il modello lombardo tanto
decantato si presenta poco efficace e poco efficiente. Del resto è la Regione stessa ad affermarlo.
Nella Monografia “Il Sistema di Salute Mentale di Regione Lombardia” sono evidenziati diversi punti
di criticità:
1
- l’incapacità del sistema di favorire l’accesso ai servizi alle persone giovani ed ai soggetti più fragili
ed emarginati. I CPS, porta d’accesso alle unità operative, “per la caratteristica dell’offerta, orari e
spazi, sono … meno in grado di attrarre le persone giovani”.
E’ evidenziata inoltre la scarsa attività domiciliare (solo 1 decimo delle persone trattate ne
usufruiscono) e di riabilitazione psicosociale nel territorio (solo il 5 per cento delle attività dei CPS ha
carattere riabilitative).
Abbiamo il 56% delle risorse assorbite dalla residenzialità, (aumento del 62% in cinque anni delle
giornate di degenza erogate), dedite prevalentemente a custodia, contenimento, se va bene
intrattenimento.
La critica, evidenziata nella monografia, è postulata nello stesso tempo come sfida da vincere.
Ci interroghiamo circa la coerenza della proposta del Comune di Milano con gli auspici formulati
dalla Regione stessa. Si va in una direzione opposta. Cosa si sta facendo? Si dice che non ci sono
risorse. Nò, non è vero, di risorse ne vengono spese molte, solo che sono malamente indirizzate.
Se facciamo un confronto con i dati nazionali, troviamo che la Lombardia è persino sotto la media
nazionale, che pure non è tanto alta:
Operatori:
Lombardia 17 per 100.000, - 50 rispetto i Progetti Obiettivo Nazionali
FVG 49 per 100.000, - 18 “
Abbiamo riempito le comunità dove spesso, facendo girare i malati da una comunità all’altra, la
permanenza diventa perenne, e dove di riabilitazione non se ne fa. Non abbiamo personale che esce e
che va a trovare le persone nelle proprie case per visite domiciliari, a trovare, appunto, “i persi di
vista”. Non solo c’è poco personale ma c’è personale precario che cambia in continuazione,
sottopagato, che non può garantire una continuità terapeutica. I CPS sottodimensionati rispetto alla
media lombarda non trovano psichiatri perché le A.A.O.O. offrono contratti non strutturati a 19 euro
all’ora che risultano non appetibili per uno psichiatra.
Noi familiari
Come familiari, non possiamo accettare che il destino e il percorso da seguire dei nostri congiunti,
madri, padri, fratelli, sorelle, figli, figlie, nipoti, amici, sia tracciato dalla non competenza clinica delle
Forze dell’Ordine. Non possiamo accettare che i nostri congiunti siano calpestati nei loro diritti,
colpiti nella dignità, ridotti a stigmate della contenzione fisica e farmacologia e talvolta delle percosse.
Si sa dalle statistiche che l’aspettativa di vita per i malati psichici è di circa 20 anni in meno rispetto
alle altre persone.
Si dice nel documento che è, appunto, per i casi gravi, i dispersi, i violenti, per proteggerli dalla loro
auto aggressività e per proteggere i cittadini dalle possibili violenze e passaggi all’atto dei malati
psichici. E’ evocata la presunzione di pericolosità, la stessa su cui si basava la legge manicomiale del
1904. A riunioni istituzionali tra addetti ai lavori succede, infatti, di sentire riferimenti a “quelli che
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proprio hanno la violenza nel loro dna, per loro c’è solo la contenzione, con loro non si può fare
diversamente,”.
Nessuna scienza ha mai dimostrato che esiste la persona violenta per natura, come del resto anche le
neuroscienze prospettano. Tanto meno si possano a priori preventivare gli agiti. Certo in conseguenza
di incurie e vessazioni, è possibile ipotizzare che per reazione vi possano essere agiti. Il destino di
ciascuno, sano o malato, è segnato da ciò che incontra nella propria vita, dall’offerta fatta da parte di
chi se ne prende cura, dalla capacità di accoglienza, di sostegno, di inclusione nel legame.
Certo occorre un Altro che creda nella forza della parola, dell’accoglienza, dell’incontro, della
relazione ed in coerenza a ciò prospetti le proprie strategie di recupero, a partire dalla centralità della
persona che precede la malattia stessa. Pur in una logica di diritti e doveri. Le buone pratiche, anche di
noi familiari, anche di fronte a situazioni di violenza ne sono una testimonianza.
Non è con la restrizione della libertà altrui che difendiano la nostra incolumità, che ci proteggiamo
dalla nostre angosce e paure. La diversità dell’altro, il matto, il diverso, il tossicodipendente, il
“violento” sono cartine di tornasole che rivelano le nostre angosce e paure di fronte all’incertezza, alle
preoccupazioni e alla precarietà del vivere quotidiano. L’antidoto passa dal favorire l’espressione
nostra e altrui, dall’incontro, dalla relazione, dall’arricchimento portato dalle reciproche diversità,
dalla promozione delle singolarità.
Sono questi i compiti etici della psichiatria sanciti dalla Legge 180.
Considerazioni
Noi familiari siamo qui ad affermare il diritto alla cura in difesa della fragilità dei nostri cari, con la
consapevolezza che prima della scienza viene l’essere umano con le sue attese, paure, desideri,
fragilità che non necessariamente vanno rubricate tutte nel registro della “malattia” della quale i
tecnici s’impossessano espropriandoci della nostra umanità.
Basaglia tutto ciò lo aveva capito e per questo aveva postulato di mettere tra parentesi la malattia, non
per negarla, ma per porre come condizione preliminare ad ogni possibile cura, la restituzione della
libertà e della cittadinanza alle persone. Non esiste “la malattia”, non esiste la schizofrenia, ma esiste
il malato, lo schizofrenico, una persona con delle difficoltà che va aiutato.
Non dobbiamo assoggettarci al sapere di quei psichiatri, oggi sempre più sono di ritorno, che pensano
che esista, perché “dimostrato scientificamente” secondo loro, il deficit cognitivo, la malattia cronica
già a vent’anni, con l’unica possibilità della contenzione farmacologia, fisica e dell’elettroshoc e che
esiste il germe della violenza.
I farmaci sono certo necessari, la questione è in quali dosi e cosa d’altro dovrebbe essere proposto
insieme
La scienza deve essere al servizio dell’uomo e non viceversa. Di scientifico sulla malattia mentale non
si sa niente, nemmeno le immagini del cervello aggiungono molto, evidenziano solo degli effetti,
registrano uno stato, dicono poco o nulla sulle prospettive, sulle evoluzioni. Su questo dice molto di
più la relazione, anche sul delirio. Non c’è corrispondenza tra cervello e mente, tra i due c’è un salto
che la scienza non spiega. Il cervello è un organo come altri, la mente riguarda quella dimensione che
chiamiamo psiche, anima, intelligenza, spirito, che potremmo riassumere nella parola relazione:
relazione del soggetto con il proprio corpo, con gli altri, con il mondo, con le istituzioni, quella che
chiamiamo la dimensione simbolica.
Abbiamo come familiari un ruolo fondamentale per i destini dei servizi della salute mentale.
Dobbiamo evitare che tra psichiatria e politica si stabilisca, o ritorni, lo storico rapporto di complicità
perversa e mortifera, che li vede entrambi coalizzati a rispondere di più ai bisogni di sicurezza che ai
bisogni di cura e prevenzione.
Siamo sensibili ai bisogni di sicurezza dei cittadini quanto lo siamo per i bisogni di cura dei nostri
congiunti, ma non siamo disponibili ad attribuire i problemi della sicurezza a categorie particolari
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come quelle della diversità, siano esse gli stranieri, i rom, i tossicodipendenti o i malati mentali i quali,
come ben dimostrano le statistiche, più che commettere violenza la subiscono o la commettono
maggiormente quando sono lasciati in stato di abbandono, quando i servizi li hanno disabbonati o
lasciati disabbonare alle cure. I dispersi vanno cercati con le buone pratiche come da altre parti si fa e
vanno accompagnati ad acconsentire ad un percorso di cura individualizzato.
I risultati di ricercatori americani sugli homeless, i senza fissa dimora, che hanno come modello di
offrire una casa e poi un lavoro con risultati positivi a breve termine, ma negativi dopo a medio e
lungo termine, comparate con le sperimentazioni fatte a Milano, che invece partono dalla costruzione
della relazione come lavoro preliminare prima di offrire la casa e il lavoro, con risultati positivi
duraturi nel tempo, dimostrano quanto sia fondamentale il lavoro sulla relazione.
La violenza si combatte con i servizi e con le buone pratiche e non con lo stato di necessità e le cure
coatte e custodialistiche. Per questo ci preoccupano anche le proposte di modifica della L 180 in
discussione in Parlamento che prospettano, maggiore contenzione, TSO prolungati, reclusione in
comunità o cliniche private. Non siamo disponibili a scorciatoie che non risolvendo i problemi
aggravano lo stigma e la condizione di vita di chi ha bisogno di cure, di essere accolto e aiutato a
inserirsi nel legame sociale.
Siamo talvolta chiamati sia dai politici, sia dalla psichiatria a collaborare, ed è buona cosa e anche
nostro compito dare tutta la nostra collaborazione, a condizione che gli obiettivi su cui siamo
chiamati in causa siano congrui con la nostra missione di promuovere la salute e la dignità delle
persone di cui ci occupiamo. Sì a collaborare, no a lasciarci usare e strumentalizzare per fini che
esulano dalle buone pratiche sanitarie e sociali.
Valerio Canzian
Urasam Lombardia
Tel. 347 7035105
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Convegno
CURA, NON CUSTODIA
non c’è salute senza salute mentale
PERSONALE
+ Attività
riabilitative
- Attività di
risocializzazione
SALUTE MENTALE E REGIONE LOMBARDIA
DATI E PRIME CONSIDERAZIONI
Le attività
terapeutiche
e di cura
sono circa il
10%
DATI E PRIME CONSIDERAZIONI
SERVIZI PSICHIATRICI DI
DIAGNOSI E CURA 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005
CENTRI RESIDENZIALI DI
TERAPIE PSICHIATRICHE 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005