di Fara Misuraca Dopo la conquista Carlo, anche se comunemente viene inteso come sovrano di Napol i con annessa provincia siciliana, diviene in realtà sovrano di due stati indipe ndenti ed “il suo titolo dinastico era quello di re delle due Sicilie, o meglio come si legge nei decreti legislativi, re dell’una e dell’altra Sicilia, della “ Sicilia al di qua e della Sicilia al di la del Faro” [1] in virtù della cessione fattagli dei diritti della casa di Spagna sui regni di Napoli e di Sicilia. I due regni erano separati fin dal 1282, ben distinti tra loro anche se spesso a ssociati nella persona di un unico re. Ma un unico re o vicerè non significa un unico regno. Ciascuno dei due regni, infatti possedeva proprie leggi ed istituzi oni: in Sicilia, ad esempio, viene mantenuto il Parlamento, mentre a Napoli cont inuano ad esistere i Sedili, istituzioni meramente consultive alla stregua degli Stati Generali di Francia. Tuttavia il regno di Carlo, pur essendo ancora feuda le è uno stato “moderno” ben diverso dagli antichi stati italiani e più vicino a gli stati a dispotismo illuminato, anch’essi governati, in realtà, da re feudali (siamo ancora nel ‘700, non dimentichiamolo!). A Napoli Carlo regnerà da despota illuminato con sovranità personale, in Sicilia invece regnerà in regime parlamentare feudale. E’ un regno non facile da gestire proprio per la diversità delle sue due compone nti. Le diversità erano tante ma ci limiteremo a descrivere quelle, a nostro par ere, più importanti. Una prima diversità risiede nello “status” della feudalità: l’aristocrazia fondi aria in termini quantitativi è meno forte in Sicilia ed i due quinti del territo rio e della popolazione sono regio demanio. A Napoli invece, nonostante ci sia u na popolazione doppia di quella dell’isola, la parte demaniale è meno della metà che in Sicilia. Inoltre, nella parte continentale, non esistano città degne di questo nome oltre Napoli; in Sicilia invece, accanto a Palermo troviamo Messina, Catania, Agrigento, Siracusa, Marsala, Trapani ed altre ancora. In Sicilia, anche se numericamente inferiore, il baronaggio, grazie al Parlament o, è politicamente più potente e impedisce la formazione di una società civile ( quella degli intellettuali illuministi prima e delle pagliette poi) che invece t rova maggior spazio a Napoli. Una seconda, e non meno importante, diversità la riscontriamo a livello cultural e: Napoli vanta una delle più antiche e valide università europee, fondata da Fe derico II, in Sicilia invece le Università di Messina e Catania, fondate da Alfo nso il Magnanimo, non avevano avuto un grande sviluppo e solo nella seconda metà del XVII secolo Messina diventa un centro prestigioso, rimasto poi a lungo chiu so, per rappresaglia, in seguito alla rivolta di Messina del 1674. Catania, rima sta unica, si era limitata a conferire titoli senza produrre cultura. Gli studiosi Siciliani più importanti furono costretti ad operare al di fuori de l regno mentre l’istruzione della gioventù isolana era totalmente affidata ai ge suiti e “la provincia gesuitica - come dirà Scinà - se certamente è santa, non è parimente dotta”[2]. Insomma per farla breve mentre Napoli può fregiarsi di studiosi come Vico e Geno vese ed è conosciuta nel resto d’Europa per personaggi come Pietro Giannone e Al fonso de Liguori, la Sicilia è conosciuta per personaggi come Giuseppe Balsamo, alias Conte di Cagliostro o Giuseppe Vella, falso arabista e autore dell’”arabic a impostura”! [cfr. l istruzione nelle Due Sicilie] Mancarono però in entrambi i regni i grandi statisti in grado di gettare solide fondamenta per uno sviluppo omogeneo del neonato regno e per la sua futura sopra vvivenza. Dal 1734 al 1776 fu ministro Bernardo Tanucci [3], toscano, dal ’76 all’86, Gius eppe Beccatelli Bologna, marchese della Sambuca, siciliano ed infine dall’86 all ’89, Domenico Caracciolo, napoletano che fu anche vicerè di Sicilia. Nessuno dei tre, pur avendo effettuato delle importanti riforme si rese conto della necessi tà di rendere stabile e forte il rapporto tra Napoli e Sicilia, neanche Tanucci, sicuramente il migliore dei tre, che operava per conto di re Carlos, ormai re d i Spagna. Nemmeno Gaetano Filangieri, illustre giurista e filosofo, si pose seri amente il problema di risolvere i rapporti reciproci tra i due regni. Dal 1789 in poi, nonostante gli eventi della Rivoluzione francese che avrebbero dovuto far comprendere la necessità di una politica di rafforzamento costituzion ale, per desiderio della regina, l’austriaca Maria Carolina [4] fu infine chiama to John Francis Acton [5], la cui unica preoccupazione, in accordo con i desider ata della regina, fu quella di avversare la Francia sia in politica estera che i nterna. Ma torniamo al 1734 e a Don Carlos. Dopo la conquista sul campo dei due regni e nonostante il rifiuto del papa di ri conoscergli l’investitura del regno di Napoli [6], Carlo - forte del sostegno de l popolo napoletano e del giuramento di fedeltà ed ubbidienza del parlamento sic iliano a cui ricambiò giurando a sua volta l’osservanza fedele delle istituzioni - compì l’atto fondante della monarchia meridionale. Approfittando poi del priv ilegio dell’ “Apostolica legatia” di cui godeva la Sicilia aggirò l’opposizione papale e il 3 luglio del 1735 si fece incoronare, nella cattedrale di Palermo re di entrambe (utriusque) le Sicilie, prima ancora che l’intera isola fosse milit armente conquistata. La nascita del regno meridionale fu il fatto nuovo del settecento italiano, l’in izio di un periodo storico nuovo, di un processo di trasformazione. Carlo assunse il titolo di III [7], mostrando così di considerarsi un sovrano er editario. L incoronazione di Palermo segnò un successo della diplomazia borbonic a sulla politica papalina ma contemporaneamente rafforzò il baronaggio siciliano con le conseguenze destabilizzanti sul nuovo regno che tutti conosciamo. Per pa rafrasare D’Azeglio: le Sicilie erano fatte ma bisognava fare i siciliani! [8] I ministri di Carlo, Santostefano, Montealegre (spagnoli) e Tanucci (toscano) ce rcarono di organizzare la monarchia meridionale nel rispetto delle autonomie dei due regni. Fu costituita una “Giunta suprema” su modello del “Consiglio d’Itali a” (un’istituzione peculiare del governo spagnolo che comprendeva, al tempo dei vicereami anche i rappresentanti, in minoranza, di Sicilia, Napoli e Milano), ne lla Giunta suprema però non c’era preminenza napoletana o siciliana e poiché Car lo scelse come residenza Napoli, si introdusse l’usanza di chiamare come Vicerè in Sicilia un non siciliano (né di terra né di isola) proprio per evitare qualsi asi sospetto di ingerenza. Se il dualismo statuale siculo-partenopeo conservava l’autonomia dei due regni n on impediva tuttavia un’azione politica unitaria. Venne così elaborato nel 1736, da un apposito gruppo di giuristi, un programma politico da applicare ai due re gni. Tale programma prevedeva la moderazione del lusso (lo “spagnolismo”), il di vieto di ostentare vessilli stranieri, l’introduzione di vantaggi e privilegi do ganali e fiscali atti a promuovere i commerci sia terrestri che marittimi, il ri entro degli ebrei, che sicuramente avrebbero dato una notevole spinta all’impren ditoria, la proibizione al potentissimo clero di acquistare nuovi beni immobili, un censimento della popolazione per meglio ripartire gli oneri fiscali ed infin e togliere, o quantomeno ridimensionare, ai baroni siciliani la giurisdizione su lle terre feudali. Altro provvedimento adottato congiuntamente nei due regni fu l’introduzione dell a lingua italiana in luogo del latino e dello spagnolo. Questo atto, apparenteme nte insignificante doveva servire a fornire un carattere “nazionale” al nuovo re gno. Il progetto era valido e si ispirava ai rimedi suggeriti dal Montesquieu ma come potete ben immaginare fu osteggiato in molte sue parti dai baroni siciliani [9] così come dagli ecclesiastici che rifiutarono anche la proposta di richiamare g li ebrei [10]. In sostituzione furono adottate singole riforme, come l’istituzio ne di un Supremo Magistrato di Commercio che aveva il compito di sottrarre alla magistratura dominante il controllo totale su ogni affare economico (agricolo, c ommerciale, artigiano e marinaro) ma le reazioni furono tali sia a Napoli che a Palermo che il provvedimento dovette essere subito revocato. Il Parlamento siciliano consentì solamente la riduzione del numero degli ecclesi astici, l’annullamento delle finte traslazioni di beni laici alla chiesa allo sc opo di evadere il fisco e il divieto di costruire nuovi conventi, monasteri ed a ltri pii edifici. Il tentativo di limitare il potere baronale fu infine bloccato e rimandato in se guito alla vertenza giudiziaria tra il comune di Sortino ed il principe del Cass ero, clamorosamente vinta da quest’ultimo [11]. Purtroppo Carlo III, nel 1759, assunse la corona di Spagna [12] lasciando come s uccessore il figlioletto terzogenito Ferdinando, di soli 8 anni. Per non lasciar e campo libero al papa, che si era offerto come reggente, fu istituito un Consig lio di Stato il cui compito era di reggere la Cosa Pubblica e di educare il giov anissimo re. Reggenti furono scelti il principe di Sannicandro e Domenico Di San gro per il regno partenopeo, il principe di Camporeale e Michele Reggio, dei pri ncipi di Aci per la parte siciliana. Al marchese Tanucci toccò invece il delicat o compito di mantenere i rapporti con Carlo III che si era riservato la suprema potestà di dettare le direttive politiche durante la reggenza. Carlo III mostrò un grande interesse nel rafforzare e consolidare il nuovo stato e lo fece cercando di corresponsabilizzare la Sicilia e impedendo eventuali pre ferenze per questa o quell’altra “nazione” ed in ciò fu egregiamente coadiuvato dal fedele Tanucci. A riprova del forte impegno di Carlo e del Tanucci è possibi le consultare la fitta corrispondenza tra i due, durata ben quindici anni. La di plomazia e l’esercito spagnolo erano a difesa dell’indipendenza delle Sicilie e non solo, anche la politica matrimoniale fu volta a bilanciare le “irrequietezze diplomatiche” e le aspirazioni del re di Sardegna. Carlo pensò pertanto di coin volgere in questo l’Austria dando in sposa a Ferdinando, Maria Carolina. Non pot eva prevedere l’evolversi della situazione! Il disegno istituzionale di Carlo III non venne però compreso dai popoli interes sati e ben presto si formarono due “partiti”, il napoletano ed il siciliano riva li tra loro. Non riuscivano i due stati a comprendere il significato di “federaz ione” tra pari, ma si ostinavano ad inseguire il sogno del Regno normanno! (Da q uesto punto di vista non credo sia cambiata qualcosa al sud come al nord). Purtroppo Carlo lasciò istruzioni particolareggiate per la successione (la Pragm atica Sanzione) e per la reggenza ma nulla sull’educazione del figlio, che affid ò al Sannicandro. Questi lo fece crescere sano e robusto, ma diciamoci la verità , assolutamente ignorante riguardo la politica e la specialissima situazione int erna del regno che avrebbe dovuto governare [13]. Fu durante la reggenza che in ambito europeo si verificò uno degli eventi più im portanti che consentì una spinta al riformismo giurisdizionalista e illuminista del giovane regno: l’espulsione dei Gesuiti [14] . I vuoti lasciati dai gesuiti, in tutta Europa, furono prontamente occupati da uo mini di cultura sia laici che religiosi che si ispiravano, anche se in maniera m oderata a Voltaire, Diderot e D’Alembert. Uno di questi uomini fu certamente Bernardo Tanucci che, nel regno delle due Sic ilie e per conto del re Don Carlos, eseguì prontamente, nel 1767, l’espulsione d ei gesuiti e la confisca del loro patrimonio (nella sola Sicilia si trattava di 40.000 ettari di terreni coltivati in vario modo, la totalità delle scuole e dei collegi, chiese, biblioteche, ecc). Il problema che si pose subito fu: che fare di tutto questo ben di Dio? Carlos ed il suo ministro, su consiglio di Antonio Genovesi (economista di grand e prestigio dell’università napoletana) scelsero, riguardo i beni immobili agric oli, di non acquisirli al regio demanio ma di parcellizzarli e concederli in uso ai contadini. Questa fu una grande riforma e vista l’enormità dei beni gesuitic i in Sicilia ebbe nell’isola un peso notevolissimo, molto più che nella parte co ntinentale del regno. Un’altra importante riforma tanucciana sempre determinata dall’espulsione dei ge suiti fu l’istituzione della scuola pubblica di Stato. Fino ad allora l’istruzio ne era stata una peculiarità dei gesuiti. La chiusura delle case e collegi gesui tici implicò che decine di migliaia di studenti si trovassero di colpo senza scu ole e senza professori. Lo Stato si appropriò delle strutture ma, con grande sco rno della chiesa, non delegò l’insegnamento ad altri ordini religiosi bensì creò un corpo docente costituito da laici che potevano accedere all’insegnamento sol o per concorso e senza conflitto d’interesse. Spiego meglio, un canonico ad esem pio, anche se preparato non poteva contemporaneamente ricoprire l’incarico di in segnante e di canonico! Di questa legge ne fece le spese un esimio pedagogo come De Cosmi! Il progetto era ottimo ma purtroppo ebbe un limite: il costo finanziario dell’is truzione non fu messo a carico del bilancio dello stato ma si calcolò di finanzi are esattamente quelle che sarebbero state finanziate dai gesuiti! Si riaprirono solo e soltanto quelle che avevano operato con i gesuiti e l’onere della gestio ne di eventuali nuove scuole fu delegato ai comuni che non sempre furono in grad o di mantenerle! [cfr. l istruzione nelle Due Sicilie] Le scuole furono divise in tre livelli: le scuole minori (18 nella parte continentale e 22 nell’isola) le scuole maggiori dotate di convitti (9 nel napoletano e 5 in Sicilia) le scuole superiori, organizzate come vere e proprie università (una a Napoli e una a Palermo). La riforma pur con un carattere limitato fu egualmente di grande importanza anch e se non mancarono i “trombati” eccellenti come Giovanni De Cosmi ed il principe di Torremuzza che sicuramente l’avrebbero resa di migliore qualità, l’uno per l a sua grande esperienza pedagogica l’altro per le sue capacità creative e organi zzative. Collegata all’espulsione dei gesuiti e alla laicizzazione della cultura fu pure la nascita di varie istituzioni culturali pubbliche d’ispirazione laica, come le biblioteche e la stessa università di Palermo. Purtroppo nel 1776 Tanucci fu destituito dal potere e, caduto lui, cadde anche i l suo riformismo. A causare questo capovolgimento concorsero essenzialmente due cose: re Ferdinand o, una volta raggiunta la maggiore età cominciò a sentire sempre più impellente il desiderio di emanciparsi da Tanucci e soprattutto dalla tutela paterna. Volev a essere lui il re e non solo l’esecutore degli ordini di suo padre! Non diverso nei confronti dell’ingerenza di Carlo, anche se con diversa finalità, era l’att eggiamento di Maria Carolina, figlia di Maria Teresa d’Austria che per contratto matrimoniale aveva diritto di regnare partecipando al Consiglio di stato; inolt re parte dell’elite napoletana, filo-francese, desiderava uscire dall’orbita spa gnola, così come parte del baronaggio siciliano, che non aveva in simpatia le ri forme tanucciane tendenti a limitarne il potere, capeggiato da Giuseppe Beccadel li, marchese della Sambuca e ambasciatore borbonico a Vienna. Non è facilmente comprensibile oggi l’atteggiamento di costoro. Tanucci era rius cito a gestire in maniera più che equilibrata il rapporto tra Napoli e Sicilia e il dualismo costituzionale aveva funzionato, anche se con un certo lassismo nei confronti dei siciliani.[15] Il baronaggio siciliano non aveva dunque motivo di lagnarsi ma il Sambuca, pur di prendere il posto di Tanucci, finse di non compr endere le conseguenze per la Sicilia dell’abbandono della prassi costituzionale spagnola e dell’alleanza con Carlo III e si alleò con la corrente di Maria Carol ina che complottava contro Tanucci. Ma tant’è, o meglio tanto è stato! Nell’ottobre del 1776, con una sorta di colpo di stato Bernardo Tanucci fu depos to e Giuseppe Beccatelli Bologna marchese della Sambuca assunse la carica di Pri mo segretario di Stato e Maria Carolina si adoprò a più non posso, facendo anche controllare la corrispondenza del Tanucci, per strappare le due Sicilie all’orb ita di influenza della Spagna di Carlo III, il creatore del regno, per riconsegn arla alla tutela austriaca. Fara Misuraca Bibliografia Montesquieu, Viaggio in Italia, cit. da Giarrizzo in La Sicilia Leonardo Sciascia Il consiglio d’Egitto, Sellerio, Palermo AAVV, Storia di Sicilia , Edizioni, Storia di Napoli e della Sicilia, 1978 Renda Francesco, Bernardo Tanucci, Sellerio Palermo P. Calà Ulloa, Considerazioni sullo stato economico e politico della Sicilia, (3 .8.1838), citate in E. Pontieri, Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e dell Ottocento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1961, p. 240. [Calà Ul loa era procuratore generale del Re a Trapani]. F. Renda, Storia della Sicilia dalle origini ai nostri giorni, Sellerio AAVV Contributi per un bilancio del Regno Borbonico, edito dalla Fondazione Laur o Chiazzese, 1990. Gleijeses Vittorio, La Storia di Napoli, Società Editrice Napoletana, 1977 Gleijeses Vittorio, La guida storica, artistica, monumentale, turistica della ci ttà di Napoli e dei suoi dintorni, Società Editrice Napoletana, 1979.