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La moglie delle sette

Uscì dall’edificio alto di vetro scuro senza neanche gettare un’occhiata indie-
tro. Camminava con passo pesante e lento guardandosi la punta delle Timberland,
perfettamente lucidate. Non era riuscito nemmeno a rispondere al portiere, che pro-
babilmente gli aveva augurato qualcosa di buono, sorridendo come in una pubblicità
del filo interdentale. Ne aveva fin sopra la testa di sorridere e di parlare gentilmente.
Di essere cortese. Di non potersi innervosire. Lo faceva tutto il giorno.
“Mi son rotto le palle”, sussurrò tra i denti, involontariamente. Si cacciò in mac-
china e si tolse giacca e cravatta. Ciò voleva dire che era venerdì. Gli altri giorni si
allentava soltanto il nodo della cravatta.
Si buttò nel traffico istintivamente, con la mente svuotata da qualsiasi iniziativa.
Andava dove lo portava il flusso.
Perché era venerdì.
Le immagini circostanti gli entravano nel cervello come bolle di sapone in un
ventilatore.
Arrivò ai margini della città, dove si fermò. Non voleva andare in un altro posto.
O forse voleva, ma non troppo. Un’altra volta.
Uscì dalla macchina e guardò le colline.
Tutto era molto bello. Niente era bello.
E alle sette mancavano ancora due ore.
Quanto mancava alle sette? Guardò di nuovo l’orologio. Due ore.
A volte gli capitava di chiedersi qualcosa e di dimenticare quello che si era chiesto.
Altre volte gli succedeva di rispondere a ciò che si era chiesto e di dimenticare
quello che si era risposto.
“Mi son rotto le palle”, gli risuonava in testa.
La sua voce. O il ricordo della sua voce.
Gli dolevano le tempie. Il dolore della fine settimana. Niente di anormale, tutto
è sotto controllo. Le vendite vanno bene. Quali vendite? Trasalì. Il ricordo della
voce del capo.
Entrò in un bar e ordinò un cognac doppio. Nel primo bar vicino alla macchina.
Tendeva l’orecchio verso quello che diceva la gente, ma le parole gli entravano
nel cervello come bolle di sapone in un ventilatore. Gli piaceva il fumo denso. Gli
piaceva la miseria di quel posto. Gli piaceva quella gente brutta, senza denti e non
sbarbata. In fondo, meno male che le vendite andavano bene. Quali vendite? A rate,
come quali?
“Mi son rotto le palle”, la sua voce contrastava il ricordo della voce del capo.
Una cavalcata con Carolina, una cavalcata con Carolina, gli suonava in testa.
Mancava ancora un’ora alle sette.
Sarebbe stato bello che dal fumo denso cominciasse a piovere. Che scorresse bir-
ra a fiumi nei boccali degli sdentati. Che fossero contenti anche gli sfortunati. Che
ballassero sotto la pioggia.

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Carolina lo salverà. Gli succhierà via dalla testa tutto il mal di testa.
Perché era venerdì.
Quanto mancava alle sette?
Buttò giù il cognac e la chiamò, anche se sapeva che ci sarebbe andato. Non gli
rispose nessuno. Non lasciò nessun messaggio. Forse era con un altro cliente.
“Mi son rotto le palle!”
Le sette erano la sua ora, non gliela poteva portar via nessuno. Pagava per quel-
l’ora. Era un cliente fedele. Non aveva debiti.
Una cavalcata con Carolina, una cavalcata con Carolina.
Era un buon venditore, no? L’ora non gliela poteva togliere nessuno.

Pigiando con disperazione i tasti del telefono terminò anche il secondo cognac.
Carolina non rispondeva. Si allarmò. Era la prima volta che succedeva. Di solito,
Carolina lo aspettava. Là, nel suo appartamento in affitto.
Si sentiva vittima di un’ingiustizia.
Alla fine della settimana si affidava sempre alle mani di Carolina. Lo aspettava
con la lingerie che le aveva comprato lui. Color sabbia. Le sette erano la sua ora. Il
resto non gli importava.
Si sentiva tradito. Non era giusto. Non aveva mai fatto incursioni ad altre ore.
Non gli interessava chi si facesse in altri momenti. Ma alle sette doveva essere a casa
per lui. Alle sette era come se fosse sua moglie.
Carolina lo conosceva. Conosceva tutti i suoi capricci.
Dopo una cavalcata con Carolina era come nuovo.
Gli dolevano le tempie.
Tutto è sotto controllo. Niente è sotto controllo.
Carolina l’aveva tradito.
Come la peggiore delle baldracche.
Carolina si faceva qualcun altro durante la sua ora. Non gliene fregava un corno
del suo mal di testa. Della sua stanchezza. Del fatto che lunedì doveva essere di
nuovo al lavoro. A parlare gentilmente e a sorridere. A non farsi venire in nervi. Ad
aumentare le vendite.
“Mi son rotto le palle!”
Carolina, cagna in calore – scrisse con il gesso su un muretto immaginario.

Decise di chiamare Renata. Era una specie di amica di lei. Quanto possono essere
amiche due donne di quel mestiere. Gli parlava abbastanza spesso di Renata, che
aveva adottato. Le aveva insegnato il lavoro. Gli aveva dato il suo numero all’inizio
della loro relazione. Se non mi dovessi trovare, ti raccomando Renata, gli aveva detto
lei allora. Ma non ce n’era mai stato bisogno.
Renata rispose.
Non le aveva ancora detto molto di sé, che lei disse: aaah, il cliente delle sette!
Non sapeva niente di Carolina. Assolutamente nien-te. Da qualche giorno non l’a-
veva più vista. Lei era disponibile. Sì, anche in quel momento.
Si buttò in macchina e si avviò verso la città.
Una cavalcata con Renata, una cavalcata con Renata, gli suonava in testa.

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Cominciò a farsi buio.
Di strada, passò davanti al palazzo di Carolina. Tutte le luci erano spente. Spen-
te del tutto. Brancolò in giro per il quartiere e trovò l’indirizzo.
Renata lo aspettava con una vestaglia di raso. Sotto si intravvedeva il suo corpo
nudo. Era di statura media, rotondetta e con un viso birichino.
“Intanto che ti spogli, vado in bagno”, disse lei.
La sentì urinare a lungo.
L’appartamento era modesto, due stanze semicomunicanti. Probabilmente in af-
fitto. Pochi mobili e scompagnati. Un copriletto rustico sul letto. Si sedette sulla
poltrona sfondata e cominciò a spogliarsi svogliatamente. Quell’aria di misera im-
provvisazione gli dimezzava l’entusiasmo. Neanche un po’ di calore, neanche un po’
di immaginazione. Nemmeno un fiore. Da Carolina era tutto a puntino.
Sentì Renata lavarsi le mani e mettersi lo spray. Ma non la sentì tirare l’acqua.
La vide entrare allegra e grassottella, con il sesso rasato. Aveva lasciato la vesta-
glia in bagno.
“Che c’è? Siamo imbronciati?”
Lui annuì con un cenno del capo. Cominciò a spogliarlo con destrezza.
“Non possiamo essere imbronciati”, farfugliò lei.
Lo mise in piedi come per una visita medica e passò all’azione. Cominciò mor-
dicchiandogli i capezzoli, poi, a poco a poco, scese verso il pube. Emanava un forte
odore di deodorante da pochi soldi. Però doveva ammettere che la lingua la sapeva
adoperare bene, quasi quanto Carolina.
Nella fellatio, se non sai usare la lingua come si deve, hai fallito in partenza, gli
aveva spiegato una volta Carolina. Da quella volta stava sempre attento a questo
dettaglio. Sentì il membro diventargli duro – e sembrava che la stanchezza comin-
ciasse a passargli. Mentre faceva il suo lavoro, Renata lo guardava con i suoi grandi
occhi, azzurri, e cercava di sorridergli, cosa che le regalava un viso abbastanza sini-
stro: di cane che ringhia difendendo caparbiamente l’osso.
“Ecco, così cominciamo a ragionare! Siamo belli da morire! Mettiamo anche un
cappuccetto per non prendere freddo”, parlava con il suo sesso e lo ignorava comple-
tamente.
Aprì un cassettino del comò e tirò fuori un preservativo. Strappò l’involucro con i
denti. Prese l’estremità tra le labbra, si mise in ginocchio e prima di srotolarglielo sul
membro cominciò a biascicarlo, come fanno i bambini piccoli con il ciuccio, imitando
il frignare dei lattanti: oa-aa! oa-aa! oa-aa! Trovò che fosse un giochetto abbastanza
riuscito. Sorrise.
“Ti è piaciuto il mio ciuccio, non è vero?”
Fece segno di sì.
“Diamoci da fare e scacciamo il malumore!” disse lei piena di ottimismo e allegria,
come se non si fosse dedicata a quell’operazione da molto tempo.
Si mise dietro di lei. Una schiena larga, forte.
“Sei transilvana?” le chiese, ansimando leggermente.
“Sì, come fai a saperlo?” gli rispose lei di rimando, con la voce soffocata nel
cuscino.
“Me ne sono reso conto dall’accento” le rispose, con un leggero tremolio nella

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voce.
“Se non ti piace così, possiamo cambiare posizione...”
“No, va benissimo... che così possiamo parlare...”
Il suo sesso rasato non proprio di recente lo pungeva leggermente. Trovò che la
pelle della parte grinzosa fosse come indurita. Calli professionali, gli venne in mente.
“Vieni dalla campagna?” le chiese, senza nessuna sfumatura spregiativa.
“Sì, da un paese vicino a Cluujj... ma come te ne sei reso conto?” gli domandò
curiosa, con un tono di voce che sembrava venire dal fondo di un pozzo.
“Mah, così, mi pareva... dal copriletto...” borbottò lui, con voce fievole.
“Sì, me l’ha dato mia madre. Ci tengo molto. Me lo porto dappertutto dove vado
a lavorare...”
Poi tacquero entrambi, perché le cose precipitarono.
Quando venne, si abbandonò soddisfatto sul letto, con gli occhi chiusi. Il mal di
testa cominciò a passargli. Renata balzò in piedi, per sgranchirsi un po’.
“Cosa facciamo, ci prepariamo per un altro giro?” gli si rivolse allegra.
Lui fece segno di no con il dito.
“Forse il prossimo venerdì”, disse dopo un po’, con la bocca impastata.
“Non ho voluto dirtelo prima, ma lo verrai a sapere lo stesso... Carolina potrebbe
aver trovato qualcuno e ritirarsi dal mestiere... Così almeno si sente dire in giro...”,
disse lei, con un’ombra di imbarazzo.
Lui tacque. Tacque anche lei.
Dopo qualche istante la sentì andare in bagno. Gli giunsero alle orecchie alcuni
rumori indecenti. Questa volta seguiti dal rumore dello sciacquone.
Fece uno sforzo per alzarsi e cominciò a rivestirsi.
Le lasciò i soldi sul tavolo e tagliò la corda mentre la doccia era ancora in fun-
zione.
A casa si buttò vestito sul letto, con un bicchiere di cognac in mano.
Con gli occhi dritti al soffitto.
In testa non gli risuonava altro che un’orinata lunga e dei rumori indecenti.

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