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Pensare la crisi con Jacques Derrida: unintervista a Marc Crpon

Il valore politico del pensiero di Derrida come decostruzione della sovranit; il problema della
pratica di una giustizia incondizionale; la responsabilit come antidoto alla violenza; letica
cosmopolitica come rifiuto del compromesso.

Tra il 24 e il 26 gennaio scorso si svolto allUniversit di Atene, in collaborazione con lInstitut
Franais de Grce, un convegno internazionale dal tema Il pensiero politico ed etico di Jacques
Derrida. Al centro della tre giorni di lavori, la riflessione sulla condizione critica che caratterizza il
presente dellEuropa; allinsegna dellesperienza della crisi. In questo contesto, il pensiero di
Derrida si rivela particolarmente efficace per pensare la congiuntura storica attuale. Ne parliamo
con uno dei relatori del convegno: Marc Crpon, filosofo allievo di Jacques Derrida e attualmente
direttore del dipartimento di filosofia dellcole Normale Suprieure di Parigi.

Professor Crpon, la prima domanda che vorrei porle, e che, trattandosi di una questione sul
senso, non aliena da una certa btise, riguarda proprio i due aggettivi con cui si voluto
qualificare il pensiero di Derrida durante questo convegno: politico ed etico. Possiamo
tentare di chiarire meglio il nesso esistente tra il pensiero di Derrida e i campi descritti dai due
termini. Pensiero politico e pensiero della politica non sono la stessa cosa, ovviamente.
Eppure, di solito, un pensiero non detto politico se non anche riconosciuto, parallelamente,
come pensiero della politica, o del politico. Cio come pensiero delle condizioni e delle tecniche
proprie allazione politica in un contesto storico determinato. Per cui spesso la filosofia politica
si riduce a una serie di riflessioni su problemi che sono posti dallattualit della pratica di governo
o dellamministrazione della societ. Tuttavia, questo parallelismo non sembra operativo nel
pensiero di Derrida: la sua riflessione, senza essere stata condizionata da temi provenienti dal
dibattito politico, li ha piuttosto rilanciati, riverberati, in un'altra forma; addirittura, in alcuni
casi, li trasformati, passandoli al filtro del suo singolare approccio filosofico. Per esempio, ha
rilanciato il problema della democrazia attraverso il concetto di ospitalit. Insomma, il pensiero di
Derrida si presenta come un caso singolare di pensiero politico che non un pensiero della
politica. La sua battaglia, dunque, si muove piuttosto nellelemento della filosofia politica oppure
della politica della filosofia, che non si interessa delle pratiche concrete di governo?

Marc Crpon vero che nellopera di Derrida non si trova una riflessione sviluppata intorno alle
forme di governo. Eppure, la possibilit di qualificare il suo pensiero come politico innegabile,
a dispetto di tutte le riserve che impone lidea stessa di qualificazione in generale. Ed innegabile
almeno per due ragioni. La prima che, se vero che, a partire dai tre grandi libri del 1967 (1), uno
dei fili conduttori del suo pensiero stata la decostruzione del soggetto sovrano, era allora
inevitabile che Derrida incrociasse la questione della sovranit in s, nella sua accezione politica. Il
pensiero politico di Derrida, se ce n uno, si d dunque prima di tutto come decostruzione della
sovranit. Per questo esso impostato su un confronto capitale con colui che ha pensato la
sovranit come eccezione: Carl Schmitt. Ma questo orientamento anche la ragione per cui il
pensiero di Derrida incontra, come problema fondamentale, la questione del perdono, del diritto alla
grazia e quindi della pena di morte.
La seconda ragione lopposizione tra diritto e giustizia, analizzata in Forza di legge (2) e, nello
stesso ordine di idee, la messa in luce della messianicit senza messianismo di una giustizia a
venire avanzata da Spettri di Marx (3). Creando, sul filo di una lettura serrata del saggio di
Benjamin Per la critica della violenza, lopposizione fra diritto e giustizia, Derrida apre le porte a
qualcosa che gli permetter di interrogare nuovamente, e in maniera inedita, larticolazione
delletica e della politica, cio la tensione aporetica, irriconciliabile, tra un diritto sempre
condizionale [conditionnel] e unesigenza e un principio di giustizia incondizionali
[inconditionnels] disegnando cos lorizzonte di una democrazia a venire (4). Ne deriva una
responsabilit che insieme etica e politica, dove la copula designa precisamente il luogo
dellaporia. La responsabilit rendere possibile limpossibile: per esempio, piegare gli imperativi
di unospitalit condizionale allesigenza di unospitalit incondizionale. Si tratta, in altri termini, di
evitare che il diritto si spacci per giustizia; denunciare, in particolare, lescalation vertiginosa delle
condizioni poste allospitalit, in Europa e altrove, con la quale si pretende di far valere un principio
di giustizia quando, invece, si produce lesatto contrario.

Durante il convegno si tenuta una tavola rotonda sul tema specifico Pensare la crisi con
Jacques Derrida. Con la nozione di crisi si faceva evidentemente riferimento alla crisi
economica e sociale che affligge attualmente lEuropa. In questo contesto, quali concetti offre il
pensiero di Derrida alla riflessione politica?

M. C. Nel pensiero di Derrida c un altro filo conduttore, che bisogna concepire come una quasi-
resistenza a tutti i tipi di invocazione di appartenenza a unidentit collettiva, qualunque essa sia. In
maniera quasi idiosincratica, Derrida non si fida dei concetti di comunit, identit (singolare o
collettiva) e di appartenenza. La crisi, oggi, minaccia di riattivare, non senza violenza estrema, tutti
i fantasmi identitari e, con loro, tutte le tentazioni di ripiegamento comunitario su identit
fantomatiche [fantasmes]. Una delle traduzioni pi immediate di questo tipo di movimenti di
ripiegamento il ritorno delle mono-genealogie culturali, come se una qualunque restaurazione di
presunte identit in pericolo potesse costituire un rimedio alla crisi. Da Oggi lEuropa. Laltro capo
(5) a Il monolinguismo dellaltro (6), la questione dellidentit centrale nella riflessione di Derrida.
dunque a questo titolo che il pensiero di Derrida pu orientare una riflessione intorno al tema
della crisi, e non a titolo di un pensiero delleconomia e della societ, temi che non sono stati
direttamente al centro delle sue preoccupazioni. In fondo, di fronte alla crisi potremmo fare nostra
questa frase di Oggi lEuropa, che cito spesso ai miei studenti europei e americani: Ci che
proprio di una cultura il non essere identica a se stessa. Non di non avere identit, ma di non
potersi identificare, dire io o noi, di non poter assumere la forma di un soggetto che nella non-
identit a s, o, se preferite, nella differenza da s. Tutto questo sembra apparentemente lontano
dalla crisi e dai suoi effetti distruttivi, e invece riguarda proprio il cuore della crisi, ovvero la
minaccia portata, in modo assolutamente regressivo, a quel legame che, a mio giudizio (ed uno dei
punti che mi lega alla lettura di Derrida) unisce lEuropa allavvenire di un certo cosmopolitismo.

Questi temi sono anche al centro del suo lavoro, almeno a partire dai due volumi de La culture
de la peur (Galile, Paris 2008 vol. I Dmocratie, identit, scurit e 2010 vol. II La guerre des
civilisations). Il suo ultimo libro, invece, Le consentement meurtrier (ditions du Cerf, Paris
2012), prosegue lanalisi interrogando le ragioni del ripiegamento identitario che interessa
attualmente i popoli dellEuropa (e non solo). In questo libro lei mostra che la violenza una
conseguenza necessaria della sovranit, e suggerisce di contrastare la logica sovrana dello stesso
con la logica non identitaria della comunit degli esseri viventi. Ma ci si potrebbe chiedere se
una politica senza violenza davvero possibile come tale. Oppure questa prospettiva, come anche
nel caso della comunit che viene di Giorgio Agamben, finisce per abolire la politica?

M. C. La questione della comunit dei viventi introdotta verso la fine nel libro, e pi che altro
rimanda ai prolungamenti a venire di Le consentement meurtrirer, e al confronto che voglio
intavolare, gi da molto tempo, con le tesi di Giorgio Agamben. La questione al centro di Le
consentement meurtrier pi che altro questa: come non rimanere vittima della stessa morale che si
invoca ogni volta che si fa appello anche sulla scena internazionale allarticolazione della
politica su dei principi etici. Si parte dal principio che, se vero che le relazioni intersoggettive
sono fondate sulla responsabilit della cura, del soccorso e dellattenzione che, dovunque e per
chiunque, la vulnerabilit dellaltro esige, la politica continua tuttavia a imporci dei compromessi
che eclissano questa responsabilit. Ci tappiamo le orecchie, chiudiamo gli occhi, preferiamo non
vedere e non sapere, quando proprio non partecipassimo attivamente alluna o laltra forma di
violenza, di insicurezza e di fragilizzazione delle condizioni dellesistenza che chiamano alla
responsabilit. quello che chiamo il consenso mortale (consentement meurtrier), che una
dimensione della nostra appartenenza al mondo. Non sicuro che riusciamo a uscirne; che si possa,
in altri termini, sfuggire alla violenza, ma conviene almeno provare a immaginare le forme etiche e
politiche che permettono di risponderne; forme che chiamo eticosmopolitiche. La rivolta, la bont,
la critica, la vergogna sono alcune delle forme che pu assumere questa risposta. Come si vede,
sono molto lontano dallidea di unabolizione della politica. La politica, la definisco come
lorganizzazione istituzionale e conflittuale di un [tipo di] essere-controla-morte che si rivela
sempre selettivo, parziale, calcolato a reversibile. in questa parzialit, in questo calcolo e in
questa reversibilit che si annida la possibilit della violenza e di tutte le forme di consenso mortale
che laccompagnano. Letica, allora, la contestazione di tutto ci, perch [il tipo di] essere-contro-
la-morte che al suo fondamento non pu accontentarsi delle mappe della vulnerabilit e della
mortalit che produce la politica. Per il momento, sono ancora fermo al punto di pensare le
condizioni di questa contestazione. Rimane da pensare come essa possa, e debba, tradursi nelle
istituzioni.

Nel 1983, a proposito della nozione di crisi, Derrida diceva che, se la krisis rinvia al giudizio,
alla scelta, alla decisione, [la] crisi un momento in cui la krisis sembra impossibile. La crisi non
un incalcolabile qualunque, lincalcolabile come momento del calcolo(7). Qui la nozione di
crisi sembra assimilata a quella di indecidibile, che una delle nozioni essenziali del pensiero di
Derrida. Se cosi, si pu allora definire a tutti gli effetti Derrida un pensatore della crisi? La
decostruzione, in fondo, non sarebbe nientaltro che una crisi permanente, una messa in crisi
permanente? Una filosofia della crisi contro una filosofia dellaffermazione?

M. C. Non sono sicuro che sia esattamente questo che dica e faccia Derrida. perch quella che lei
chiama crisi permanente non d diritto a una cosa che, mi sembra, invece essenziale nel lavoro
di Derrida a partire dalla met degli anni 80, e che riguarda ci che lui stesso ha definito le
questioni di responsabilit. Il calcolo rimanda alla figura del programma, e lincalcolabile come
momento del calcolo allesaurimento del programma. La crisi sorge quando i programmi non
funzionano pi, quando non possono neanche pi dare lillusione di proporre, se non una
soluzione, almeno un esito, una via duscita. La crisi la moltiplicazione dei calcoli che
girano a vuoto perch riempiono dei programmi che non implicano alcuna decisione: nel senso in
cui, per Derrida, non c decisione responsabile se non sulla base di un indecidibile che
unesperienza dellaporia. Si ricordi la definizione che d Derrida della responsabilit, sempre in
Oggi lEuropa: Oserei suggerire che la morale, la politica, la responsabilit, se ce n', non
sarebbero mai cominciate senza l'esperienza dell'aporia. Quando la via aperta, quando un sapere
apre anticipatamente il cammino, la decisione gi presa, e tanto varrebbe dire che non c'
decisione da prendere: irresponsabilit, buona coscienza, si applica un programma. Forse, e questa
sarebbe l'obiezione, non si sfugge mai al programma. Allora per bisognerebbe riconoscerlo e
smetterla di parlare con autorevolezza di responsabilit morale e politica. La condizione di
possibilit di qualcosa come la responsabilit una certa esperienza della possibilit
dell'impossibile: la prova dell'aporia a partire da cui inventare la sola invenzione possibile,
l'invenzione impossibile" (8). Come si vede, tuttaltra cosa di quellindecisione che invece
leffetto di programmi che non hanno pi niente da promettere. Indecisione e indecidibile non sono
la stessa cosa. Ci che in questione la possibilit di ridare senso a una promessa che
lincalcolabile annidato nel cuore del calcolo ( lessenza della crisi) sembra condannare.
Unultima domanda che ci allontana un po da questo insieme di questioni. Lanno prossimo
sar il decimo anniversario della morte di Jacques Derrida, e il trentesimo di quella di Michel
Foucault. Il rapporto, per cos dire, non lineare tra i due stato molto studiato. Eppure, guardando
allattualit francese, limpressione che anche la sorte delle due opere sia stata divergente. Che,
diversamente da quella di Foucault, lopera di Derrida non sia stata, in altri termini, inserita in un
processo di integrazione, o appropriazione, allinterno della ricerca delle scienze umane. Si
potrebbe quasi dire che lopera Derrida non abbia fatto scuola o, meglio, che non abbia lasciato
quel tipo di lascito metodologico per cui sarebbe possibile, in tutti i campi del sapere, dirsi
derridiani. Almeno non nel senso in cui molti si definiscono foucaultiani o deleuziani.
Forse il pensiero di Derrida per essenza estraneo a questo tipo di tradizione. Che tipo di eredit
ha lasciato ai suoi lettori? possibile oggi definirsi derridiani, e in che senso?

M. C. La domanda mi sorprende, perch penso che, al contrario, il pensiero di Derrida ha proprio
fatto scuola nel senso che dice lei, e che la sua diffusione notevole, anche nelle scienze umane.
Ci sono delle discipline che devono in parte la loro stessa esistenza al lavoro di Derrida, come i
gender studies negli Stati Uniti o gli studi postcoloniali. I suoi testi sono studiati, specialmente
nelle universit americane, nei dipartimenti di scienze politiche, di studi cinematografici, di studi
africani, di letteratura comparata, di analisi dei media, di storia dellarte ecc. Il lascito, consiste
prima di tutto in unopera dalla mole considerevole, che resta una fonte di ispirazione per molti.
Unopera che resta in gran parte ancora da pubblicare: fatta di quarantanni di corsi e seminari, di
cui solo una minuscola parte stata finora pubblicata. Il corpus dunque immenso e aperto. Esso fa
di Derrida, come degli altri pensatori della sua generazione (Deleuza, Foucault), un classico della
filosofia, alla pari dei pensatori della generazione precedente (Sartre, Merleau-Ponty, Simone
Weil). Le opere di Derrida sono studiate ma anche discusse, criticate, al di l di ogni forma di
mimetismo e ripetizione; iscritte, in altri termini, in un loro specifico momento. Il lascito anche
un cantiere: quello di questetica iperbolica le questioni di responsabilit di cui parlavo senza la
quale lidea stessa di una democrazia a venire non ha senso. Questultima idea apre numerose
piste di lavoro che molti giovani ricercatori riprendono per conto loro. Voglio dire che lopera di
Derrida costituisce oggi per molti un punto di partenza, anche se in seguito si producono delle
rotture. unopera, infine, con la quale molti filosofi della mia generazione si sono confrontati nel
loro percorso personale: Catherine Malabou, Serge Margel, Peter Szendy, Frdric Worms, per
citarne solo qualcuno, sanno quanto devono alla lettura dei testi di Derrida.

NOTE
(1) Jacques Derrida, De la grammatologie, Minuit, Paris 1967; tr. it. Della grammatologia, Jaca
Book, Milano 1968, 1998; L'criture et la diffrence, Seuil, Paris 1967, 1979; tr. it. La
scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, 1990
3
; La voix et le phnomne. Introduction
au problme du signe dans la phnomnologie de Husserl, P.U.F., Paris 1967, 1993; tr. it.
La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl,
Jaca Book, Milano 1968, 1997.
(2) Id., Force de loi. Le fondement mystique de lautorit, ditions Galile, Paris 1994 ; tr. it.
Forza di legge. Il fondamento mistico dellautorit, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
(3) Id. Spectres de Marx, Galile, Paris 1993 ; tr. it. Spettri di Marx, Raffaello Cortina, Milano
1994.
(4) Il riferimento al lessico dellincondizionalit derrridiano, per cui cfr. anche Id., Voyous,
ditions Galile, Paris 2003; tr. it. Stati canaglia, Raffaello Cortina, Milano 2003.
(5) Id., L'autre cap, Minuit, Paris 1991; tr. it. di M. Ferraris, Oggi l'Europa. L'altro capo.
Memorie, risposte e responsabilit, Garzanti, Milano 1994.
(6) Id., Le monolinguisme de l'autre, Galile, Paris 1996; tr. it. Il monolinguismo dellaltro,
Raffaello Cortina, Milano 2004.
(7) Id., conomies de la crise. Entretien avec Jacques Derrida, in La Quinzaine littrarire, n
399, agosto 1983.
(8) Traduzione di Maurizio Ferraris: Oggi lEuropa, cit.

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